Europeismo ed esperienza Erasmus. Uno studio qualitativo

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Esperienza Erasmus e identità europea.

Uno studio qualitativo

Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione

Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale

Corso di laurea in Comunicazione Pubblica e d’Impresa

Cattedra di Fondamenti di Scienze Sociali

Candidato

Francesco Ripa

nº matricola 1549494

Relatore

Francesco Mattioli

A.A. 2014/2015

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Indice

Introduzione 4

Capitolo I. Il programma Erasmus e l’identità europea 5

1. Breve storia del programma Erasmus 5

1.1 La prima fase: 1987-1995 6

1.2 La seconda fase: il programma Socrates (1995-1999) 7

1.3. La terza fase: Socrates II (2000-2006) 7

1.4 La quarta fase: il Lifelong Learning Programme (2007-2013) 8

1.5 La quinta fase: l’Erasmus+ (2014-2020) 9

2. L’identità europea 10

2.1 Le origini 10

2.2 L’europeismo nel Novecento 11

2.2.1 Anni ’20 – ’30, da ideologia a dottrina politica 11

2.2.2 L’europeismo nel periodo d’oro dei totalitarismi 12

2.2.3 Gli europeisti e la resistenza 13

3. Studi sull’Erasmus e sull’identità europea 13

3.1 Studi ufficiali UE 14

3.1.1 Chi partecipa 14

3.1.2 I “nuovi europei” 15

3.1.3 L’identità europea negli studi ufficiali: la ricerca Euroidentities 15

3.2 Ricerche indipendenti 16

Capitolo II. Il capitale sociale 20

1. I contributi classici: Tocqueville, Bourdieu, Coleman 20

1.1 Capitale sociale e culture civiche: da Almond & Verba a Putnam 21

1.2 La fiducia: Fukuyama 23

2. L’approccio relazionale: Donati 24

2.1. Il capitale sociale generalizzato 25

Capitolo III: Interviste a testimoni privilegiati sull’esperienza Erasmus 26

1. Cenni sul metodo 26

1.1 La scelta dei testimoni 27

2. Le motivazioni per partecipare al programma Erasmus 27

3. Conoscenza pregressa del paese ospitante e della lingua 28

3.1 Altre esperienze pregresse all’estero 29

4. La vita in Erasmus 30

3

4.1 L’alloggio 31

4.2. Le Attività extra-curriculari prevalenti 31

4.3 Fruizione dei media 34

5. Le relazioni interpersonali in Erasmus 34

6. Dopo l’Erasmus 36

6.1 Il rapporto con la lingua 36

6.2 Il rapporto con le persone 37

6.3 Atteggiamento nei confronti di eventuali studi all’estero 39

7. Considerazioni ex-post sull’Erasmus 40

Capitolo IV. Una relazione tra l’esperienza Erasmus e l’identità europea? 42

1. Cos’è davvero l’identità europea 42

2. Conoscere l’Europa attraverso l’Erasmus: l’importanza dei legami 43

3. Diventare (più) europei dopo l’Erasmus? 45

Conclusioni 47

Bibliografia 48

Sitografia 50

4

Introduzione

Questo studio, come suggerisce il titolo, si propone di investigare la relazione tra l’esperienza

del programma Erasmus e il sentimento di identità europea. Sul tema del programma Erasmus

in sé sono stati già effettuati molti studi, la maggior parte dei quali promossi dalla

Commissione Europea, con la finalità di individuare – ad esempio – il partecipante tipo, o gli

effetti che ha la partecipazione al programma sulla facilità di trovare un impiego. Anche per

quanto riguarda la relazione con l’identità europea, ci sono stati – soprattutto negli ultimi anni

– degli importanti studi che hanno animato il dibattito accademico.

Soprattutto in questi tempi difficili in cui l’Unione Europea stessa viene spesso messa in

discussione su più fronti, sembrava doveroso ripartire dalla base, dall’identità, e studiarla in

relazione a un programma di mobilità che – per dirla con Eco – ha creato la “prima vera

generazione di europei”.

Il primo capitolo presenta una panoramica storica del programma Erasmus. In prospettiva

storica è analizzato anche il concetto stesso di identità europea, dall’Illuminismo alla

dichiarazione Schuman. Infine, il capitolo si chiude con una rassegna della letteratura prodotta

sulla relazione tra l’Erasmus e l’identità europea, considerando sia gli studi ufficiali UE e

quelli indipendenti.

Il secondo capitolo tratta invece, a scopo puramente introduttivo, il tema del capitale sociale.

Sono analizzate le diverse prospettive teoriche, dai classici di Coleman e Putnam fino

all’approccio relazionale di Donati. In tal modo si è inteso dare una base teorica forte allo

studio dei legami effettuato in sede di ricerca qualitativa.

Il terzo capitolo è interamente dedicato alle interviste qualitative, che formano il nucleo

centrale di questo elaborato. Dopo una breve parentesi metodologica, i racconti degli

intervistati sono stati divisi per i temi più importanti relativi alla loro esperienza Erasmus: le

motivazioni per partecipare al programma, la conoscenza pregressa del paese ospitante e della

lingua, le altre esperienze pregresse all’estero, le attività extracurriculari svolte, le relazioni

interpersonali, il rapporto con il paese ospitante dopo la fine dell’Erasmus.

Il quarto capitolo, infine, offre un’analisi delle testimonianze e individua – nel flusso del

racconto dei testimoni – delle risposte alla domanda che ha ispirato questo studio: ovvero, se

il programma Erasmus abbia o meno un’influenza sull’identità europea.

5

Capitolo I. Il programma ERASMUS e l’identità Europea

Il programma ERASMUS è il principale programma di istruzione e formazione dell’Unione

Europea nel campo dell’istruzione superiore. Oltre a sostenere la mobilità – tra studenti,

professori e personale non docente nell’ambito dell’università – il programma Erasmus

fornisce co-finanziamenti alle Istituzioni di Istruzione Superiore (Higher Education

Institutions, HEI) che lavorano insieme in progetti di cooperazione transnazionale.

Quest’ultimo aspetto del programma consiste nelle cosiddette Erasmus centralised actions

(azioni centralizzate), e per la sua complessità e il suo impatto sullo sviluppo di progetti di

cooperazione tra università, centri di ricerca e imprese private di diversi paesi meriterebbe

studi più approfonditi. Per le finalità di questo studio, ci si soffermerà sull’aspetto del

programma che concerne la mobilità di studenti universitari.

1. Breve storia del programma Erasmus

Dopo sei anni di studi pilota condotti dalla Commissione Europea, questa propose di istituire

il programma nel 1986 ma le reazioni degli stati membri non furono affatto omogenee. In

particolare, i paesi che disponevano già di programmi di scambio propri erano generalmente

ostili all’istituzione di un programma unico che coinvolgesse tutti gli stati dell’Unione. La

Commissione Europea rispose allo scarso budget offerto da qualche Stato Membro ritirando

la proposta al principio del 1987. In seguito si raggiunse un compromesso e la maggioranza

degli stati membri votarono per istituire ufficialmente il programma nel giugno del 1987.

Alcuni Stati Membri non accettarono il metodo di voto – maggioranza semplice – e

presentarono un ricorso alla Corte Europea di Giustizia per annullare l’adozione del

programma. Nonostante la Corte ammise la presenza di imperfezioni durante il processo di

voto, confermò la decisione presa dalla Commissione Europea e il programma fu rapidamente

adottato dal Consiglio dei Ministri. L’anno accademico 1987-1988 fu il primo in cui degli

studenti universitari Europei usufruirono del programma. Nel solo primo anno parteciparono

3244 studenti provenienti da 11 paesi.

Il programma Erasmus fu prima incorporato nel programma Socrates, quando questo fu

istituito nel 1995. Al programma Socrates sono seguiti il programma Socrates II, entrato in

vigore nel 2000, e il Lifelong Learning Programme (LLP), in vigore dal 2007 al 2013.

L’ultima fase è iniziata nel 2014 e durerà fino al 2020: il programma ha preso il nome della

sua componente più popolare, ovvero lo scambio tra studenti universitari, ed è stato nominato

ERASMUS+.

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1.1 La prima fase: 1987-1995

La prima fase dell’Erasmus corrisponde al periodo tra il 1987 e il 1995. Furono gli anni in

cui, dopo il difficile avvio descritto sopra, i primi studenti usufruirono del programma. I

vertici dell’Unione Europea non tardarono a capire che si trattava di un grande successo. Pur

non negando i limiti che presentava un programma tanto innovativo quanto acerbo, nel

Rapporto sull’Esperienza Acquisita nell’Applicazione del programma Erasmus 1987-1989,

datato 1989, la Commissione Europea esprime tutto il suo entusiasmo per il neonato o

programma: “L’ERASMUS ha ricevuto un benvenuto eccezionalmente caloroso

nell’ambiente universitario. Quest’entusiasmo si è espresso in un’imponente richiesta di

partecipare al programma, una risposta ben aldilà delle risorse del programma. C’è stata una

sostanziale crescita della mobilità studentesca (4000 studenti il primo anno, 28000 nel terzo

anno). La maggior parte degli studenti considera che la permanenza all’estero ha aperto più

ampie possibilità professionali, particolarmente con riguardo al loro Stato Membro ospitante.

La cooperazione inter-universitaria è stata rafforzata” (CE, 1989). È stato inoltre osservato

come il successo dell’Erasmus “si basi principalmente sulla dedizione dei suoi sostenitori”, e

questo testimonia ancora una volta l’entusiasmo con cui fu accolto al principio (ivi).

I problemi riscontrati sono relativi alle coperture finanziarie: è stato chiaro fin da subito che il

programma avesse bisogno di continuità nel suo sostegno economico. Il budget inizialmente

destinato al programma s’è rivelato insufficiente proprio a causa dell’eccessiva domanda da

parte delle istituzioni universitarie e degli studenti. Si pensi che nel 1987-88, l’anno

accademico in cui il programma fu inaugurato, a fronte dei 34 milioni richiesti il budget

originale ne prevedeva solo 11,2 . Nell’anno accademico successivo, il budget di 30 milioni

copriva soltanto il 25% dei 103 milioni richiesti. Soltanto nel 1989-1990 un aumento

considerevole del budget (52,5 milioni) riuscì a coprire il 37% dei 129 milioni richiesti. La

richiesta di partecipare al programma aumentava e non era facile soddisfare l’inaspettata

domanda che aveva creato.

La mobilità degli studenti e dei professori fu però anche un modo per evidenziare alcune

disfunzioni a livello nazionale e universitario. Il processo di contatto e confronto che

l’ERASMUS ha incoraggiato tra sistemi diversi di istruzione superiore ha condotto ad

imponenti misure adottate dagli Stati Membri. La mobilità accademica è servita anche come

mezzo per rendere ancor più evidenti alcuni dei limiti delle università Europee; si può dire che

gli studenti coinvolti nel programma Erasmus nei suoi primissimi anni abbiano fatto da

esploratori e, nello stesso tempo, messaggeri di nuovi modi di intendere l’istruzione

universitaria.

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1.2 La seconda fase: il programma SOCRATES (1995-1999)

Nel periodo tra il 1º Gennaio 1995 e il 31 Dicembre 1999 l’Erasmus fu incorporato nel più

ampio programma Socrates. Tra il 1995 e il 1997 Socrates fu applicato nei 15 Stati Membri

dell’Unione, e in quelli firmatari dell’accordo sull’Area Economica Europea (Islanda,

Lichtenstein e Norvegia).

Dal 1997 e 1998 è stato anche applicabile ai cittadini e alle istituzioni del Cipro e di alcuni

paesi del Centro ed Est Europa (Romania, Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia)

con speciali condizioni stabilite grazie all’accordo di associazione firmato da questi paesi.

La Commissione Europea si è espressa favorevolmente sugli esiti del programma Socrates,

riconoscendo i sostanziali progressi nell’incremento di istruzione e stage di qualità da un lato

e, dall’altro, l’istituzione di un’area Europea aperta per la collaborazione nel campo

dell’istruzione.

Il budget iniziale (850 milioni ECU) si è dimostrato rapidamente insufficiente per conseguire

gli obiettivi a breve e medio termine del programma nonostante un’allocazione addizionale di

70 milioni ECU. Questa situazione portò a una riduzione progressive delle borse destinate

agli studenti, il ché favorì particolarmente gli studenti con i mezzi necessari per affrontare i

costi del soggiorno in un altro paese.

Sono queste le criticità del programma SOCRATES che la Commissione prese in

considerazione per determinare, negli anni successivi, il budget della seconda fase del

programma (SOCRATES II, vedi paragrafo successivo).

I primi due anni del programma Socrates sono stati analizzati e riassunti nel rapporto ufficiale

della Commissione Europea dal titolo Rapporto della Commissione sulla fase iniziale di

implementazione del programma Socrates (1995-1997), pubblicato nel 1999.

Ancora riguardo all’implementazione del programma, il rapporto criticò la farraginosità e la

mancanza di trasparenza delle procedure per la candidatura alle diverse actions del

programma, indicando che nella seconda fase del programma sarebbe stato di vitale

importanza rendere il SOCRATES più accessibile al pubblico e più vicino ai bisogni di

quest’ultimo (Commissione Europea, 1999).

1.3 Terza fase: SOCRATES II (2000 – 2006)

Con il provvedimento n. 253/2000/EC del 24 gennaio 2000 il Parlamento Europeo e il

Consiglio istituirono la seconda fase del programma SOCRATES. Nell’articolo 2 del

provvedimento si dichiarano gli obiettivi del programma:

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(a) rafforzare la dimensione Europea nell’istruzione a tutti i livelli e facilitare un ampio

accesso transnazionale alle risorse educative in Europa promuovendo pari opportunità in tutti

i campi dell’istruzione;

(b) promuovere un miglioramento quantitativo e qualitativo nella conoscenza delle lingue

dell’Unione Europea, in particolare quelle lingue che sono meno diffuse e insegnate più

raramente, per giungere a una maggiore comprensione e solidarietà tra i popoli dell’Unione

Europea e promuovere la dimensione interculturale dell’istruzione;

(c) promuovere la cooperazione e la mobilità nel campo dell’istruzione;

(d) incoraggiare l’innovazione nello sviluppo delle pratiche e dei materiali educativi

includendo, dove più appropriato, l’uso delle nuove tecnologie, ed esplorare materie di

interesse comune nel campo delle politiche per l’istruzione.

Nell’ultimo punto il riferimento alle politiche è importante: la realizzazione di questi obiettivi

dipendeva anche in larga parte dalle politiche adottate dai singoli Stati Membri. La

Commissione, da parte sua, si assumeva il compito di garantire che le misure del programma

fossero coerenti con le altre misure e politiche della Comunità (Parlamento Europeo, 2000).

Il SOCRATES II prevedeva cinque misure mirate: Comenius, dedicato all’istruzione

scolastica in ogni suo livello (scuola materna, scuola primaria e secondaria); Erasmus,

dedicato all’istruzione universitaria e post-universitaria; Grundtvig, indirizzato all’istruzione

per adulti e a percorsi educativi alternativi; Lingua, interamente dedicato all’apprendimento

delle lingue; Minerva, dedicato all’utilizzo delle ICT nelle scuole e nelle università. Altre

misure più trasversali furono previste per meglio coordinare le singole parti del programma e

allo stesso tempo renderlo più flessibile ed efficiente.

Il programma, amministrato dalle singole Agenzie Nazionali sotto la supervisione della

Commissione Europea. Quest’ultima, per assicurarsi la regolare realizzazione del programma,

si fornì di un comitato composto da rappresentanti dei singoli stati e presieduto da un membro

della Commissione.

La seconda fase del programma SOCRATES coincideva con l’entrata in vigore della moneta

unica Europea, l’EURO. La Commissione rispose alla grande richiesta di partecipazione al

programma da parte delle istituzioni educative stabilendo un budget di 1.850 milioni di Euro,

di cui 950 milioni destinati all’ERASMUS.

1.4 Il Lifelong Learning Programme (2007 – 2013)

Il Lifelong Learning Programme (LLP) è il successore del programma SOCRATES, che si

propone di sostenere le opportunità di apprendimento dall’infanzia fino a all’età adulta,

passando per l’istruzione universitaria e in ogni situazione della vita quotidiana. Il LLP si

9

articolava in quattro sub-programmi: Comenius, per le scuole; Erasmus per l’università;

Leonardo da Vinci per la formazione professionale e l’apprendistato; Grundtvig per

l’istruzione in età adulta. Una novità del programma sono le azioni “Jean Monnet”, istituite

per stimolare l’insegnamento, la riflessione e il dibattito sull’integrazione Europea (da tradursi

in conferenze, eventi o corsi specifici).

In particolare, il programma Erasmus è entrato in questi anni nella sua fase più matura. Il

budget destinato al programma nel periodo corrispondente al Lifelong Learning Programme

(2007-2013) è stato di 3.1 miliardi di euro. Nell’anno accademico 2012-2013, a venticinque

anni dalla nascita dell’ERASMUS, gli studenti che hanno usufruito del programma per

studiare o svolgere un tirocinio all’estero (placement) sono stati 268.143, il 6% in più

dell’anno accademico precedente. Soltanto il 2,5% del totale degli studenti non ha ricevuto

nessun tipo di aiuto economico.

Tra gli studenti che hanno studiato o lavorato all’estero nell’anno accademico 2012-13,

25.805 studenti erano italiani . Nello specifico, le mete preferite dagli studenti italiani sono

state la Spagna (8.040), la Francia (3.649), la Germania (2.715), il Regno Unito (2.296), il

Belgio (1.187) e il Portogallo (1.277) .

1.5 Quinta fase: l’ERASMUS+ (2014 – 2020)

L’ERASMUS Plus è l’ultima tappa del processo di evoluzione di tutti i programmi Europei

relativi all’istruzione e alla cooperazione nel campo della ricerca. È indicativo il fatto che si

sia scelto il nome del programma Erasmus, quello che durante gli anni godeva di maggiore

popolarità e visibilità, per rappresentare l’intero cluster di azioni che, sia chiaro, vanno ben

aldilà della mobilità degli studenti universitari. Il programma è strutturato in tre sezioni,

definite “Azioni Chiave” (Action Keys). La prima riguarda la mobilità individuale ai fini

dell’apprendimento e comprende la mobilità degli studenti, dello staff scolastico e

universitario, master congiunti, scambi di giovani e servizio volontario Europeo (SVE). La

seconda Azione Chiave riguarda la cooperazione per l’innovazione e le buone pratiche, ed è

orientata a favorire partenariati su larga scala tra istituti di istruzione e formazione e il mondo

del lavoro, e tra gli stessi organismi del settore dell’istruzione o della ricerca. Nella terza

Azione Chiave l’ERASMUS Plus si propone di svolgere un compito di sostegno all’agenda

UE in temi di istruzione, formazione e gioventù.

Il budget destinato all’intero programma ERASMUS+ presenta un incremento del 40%

rispetto ai suoi predecessori: sono 14.7 i miliardi di euro che sosterranno la mobilità degli

individui della scuola e dell’università e gli organismi e le istituzioni nel loro lavoro di inter-

cooperazione.

10

2. L’identità Europea

Oggi conosciamo l’Unione Europea come un organismo sovra-nazionale formato da

ventisette Stati del continente europeo accomunati da un mercato unico, dalla stessa moneta

(per la maggior parte di essi) e dalla cooperazione per lo sviluppo e la crescita economica.

Grazie allo sviluppo dei mezzi di comunicazione e la crescente facilità con cui si può

viaggiare a prezzi sempre minori l’Europa è diventata alla portata di tutti. Ma fino a meno di

un secolo fa, lo scenario era ben diverso. La competizione tra le principali forze nazionali ha

spesso causato aspri conflitti armati, dalla nascita degli Stati fino alla prima metà del

Novecento segnata dalle due guerre mondiali. Per questa ragione, l’Unione Europea – la cui

forma primordiale, la Comunità Europea del Carbone e l’Acciaio, fu istituita nel 1951 con il

Trattato di Parigi – è stata insignita nel 2012 del Premio Nobel per la pace, “per aver

contribuito all'avanzamento della pace e della riconciliazione della democrazia e dei diritti

umani in Europa”. Nei paragrafi successivi sarà brevemente analizzata l’idea di Europa,

dall’Illuminismo fino al secondo dopoguerra.

2.1 Le origini

L’idea di Europa come un’entità sovranazionale, seppur in forma embrionale, era evocata da

Erasmo da Rotterdam in alcuni dei suoi scritti. De Rougemont, nel suo testo Vingt-huit siècles

d’Europe, ricorda in particolare il passaggio della Querela Pacis di Erasmo, in cui

quest’ultimo afferma: “Così l’inglese odia il Francese unicamente perché è Francese. Il

Bretone odia lo Scozzese semplicemente perché è Scozzese. Il Tedesco non s’intende con il

Francese. O crudele perversità umana! … Perché una cosa così scarsamente importante opera

con maggiore forza su di essi che i vincoli naturali e quelli instaurati da Cristo? La distanza di

un paese rispetto all’altro separa i corpi e non le anime. Un tempo il Reno separava il

Francese dal Tedesco, ma il Reno non può separare il Cristiano dal Cristiano...”. Così, Erasmo

vedeva nella religione un modo per unificare i popoli d’Europa. Non era il solo: molti

avevano consideravano la christianitas come una delle principali radici dell’internazionalismo

(come ha sottolineato T. Ruyssen, 1950).

Si può facilmente intuire come i sostenitori dell’Europa erano anche i sostenitori della pace

tra gli Stati, e che quindi si può dire che l’Europeismo sia nato dalle proposte e dai sogni

pacifisti e internazionalisti. Uno che coniugò l’uso della ragione con quello della fantasia,

ricorda ancora De Rougemont, fu l’abate Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre, che

proponeva di “stabilire un arbitrato permanente fra i sovrani per risolvere senza guerra le loro

future contese e per sviluppare così uno scambio ininterrotto fra tutte le nazioni.”

11

Anche Voltaire, nel suo Essai sur le moeurs et l’esprit des nations, scrisse: “Oggi non ci sono

più francesi, tedeschi, persino inglesi: qualsiasi cosa si dica, ci sono solo europei” (Voltaire,

1756). Questa è una prova del fatto che l’idea di Europa fosse molto popolare durante

l’Illuminismo.

2.2 L’Europeismo nel Novecento

Nonostante le sue origini siano da cercare nei testi di Erasmo e nelle intuizioni di alcuni

pensatori illuministi, è solo nel Novecento che l’Europeismo si affermò come ideologia prima

e come dottrina politica vera e propria poi. Il primo di questi due passaggi è databile negli

anni direttamente successivi la fine della prima guerra mondiale. Nel contesto del declino

dell’Europa già decantato da Baudelaire e Nietzsche e dal Trattato di Versailles, che sanciva

sì la pace, ma non assicurava certo una stabilità a lungo termine, molti intellettuali non

smisero di auspicarsi la creazione di un’Europa unita.

2.2.1 Anni 20-30, da ideologia a dottrina politica

Uno di questi fu il diplomatico austriaco Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi. Molto attivo

già sulla stampa Austriaca e Tedesca, pubblicò nel 1923 un manifesto intitolato Paneuropa,

dove difendeva l’idea che i paesi Europei – dovendo affrontare gli Stati Uniti da un lato e la

Russia bolscevica dall’altro – non avevano altra alternativa che unirsi diplomaticamente,

economicamente e politicamente (Coudenhove-Kalergi, 1923). Il suo progetto escludeva la

Gran Bretagna, forte già per il suo impero coloniale. Sul piano delle istituzioni, Coudenhove-

Kalergi auspicò la creazione di una Corte che si occupasse di risolvere conflitti, un esercito

Europeo e una moneta unica. Animato da queste idee, Coudenhove-Kalergi fondò il

Movimento Paneuropeo. Il suo primo congresso si tenne a Vienna nel 1926 e registrò la

presenza di duemila delegati da ventiquattro paesi diversi.

Negli anni seguenti, corrispondenti al terzo decennio del secolo, si confrontarono diverse

concezioni di Europa: Wilhelm Heile contrappose alle proposte di Coudenhove-Kalergi la

proposta di un’Europa unita ma guidata dalla potenza economica e politica di una Grande

Germania, che avrebbe incluso anche l’Austria (Heile, 1929). Infatti, secondo Heile, il

processo di unificazione dell’Europa centrale era il passaggio preliminare per poi proseguire

con la creazione di un’Europa unita.

Christian Heerfordt propose nel suo libro A new Europe (1924) la realizzazione di un’Unione

Europea basata su una politica estera, difesa e moneta comune. Il legame che avrebbe tenuto

insieme l’Europa, però, non sarebbe stato soltanto geografico, ma culturale: erano incluse nel

progetto anche tutte le colonie e i paesi che erano stati colonie europee (gli Stati Uniti

12

d’America, ad esempio, ne avrebbero fatto parte). Per la sua esagerata pretenziosità, la

proposta non ricevette i consensi sperati.

I diversi contributi appena riportati dimostrano come il dibattito su un’Europa unita fosse

acceso negli anni ’20-’30. Il culmine dell’entusiasmo europeista si raggiunse il 9 settembre

del 1929, quando Aristide Briand tenne un discorso sull’unità dell’Europa all’Assemblea

Generale della Società delle Nazioni: “Io credo che tra i popoli che costituiscono gruppi

geografici, come i popoli d’Europa, dovrebbe esserci qualche tipo di legame federale;

dovrebbe essere possibile per loro mettersi in contatto in ogni momento, per comunicarsi i

loro interessi, per trovare accordi su soluzioni congiunte e per stabilire un legame di

solidarietà che permetterà loro, in caso di necessità, di affrontare ogni crisi che potrebbe

insorgere. Questo è il legame che mi piacerebbe forgiare.”

In prima persona, quindi, a favore dell’unità dell’Europa e della pace tra gli Stati europei.

L’impegno politico di Aristide Briand lo consacrò come uno dei più popolari sostenitori del

progetto europeista. Nel 1926, anche per essere uno dei firmatari del Patto di Locarno,

ricevette il Premio Nobel per la pace. L’entusiasmo che riuscì a creare attorno al progetto

europeo si affievolì però con l’avvento della grande crisi economica, che quasi spazzò via il

tema europeista dal dibattito politico: tornò in auge una tendenza protezionistica, e crebbe il

consenso delle forze politiche nazionaliste.

2.2.2 L’Europeismo nel periodo d’oro dei totalitarismi

Mentre nell’Europa continentale i nazionalismi e i fascismi non sembravano arrestarsi, le voci

europeiste – inaspettatamente – si fecero sentire dalla Gran Bretagna, un paese

tradizionalmente anti-europeo. A partire dal 1938, varie ragioni causarono un crescente

impegno sul fronte europeista. Tra queste, il fallimento della Società delle Nazioni - in cui la

Gran Bretagna aveva un ruolo primario - dopo l’annessione dell’Austria messa in atto dalla

Germania e la volontà di fare fronte comune con la Francia per contrastare la Germania. Per

promuovere la pace furono centrali la New Commonwealth Society e la Federal Union. La

prima fu fondata da Lord David Davies, il quale difendeva l’ipotesi di un’Europa fondata

sull’alleanza franco-britannica.

Nella Germania nazista, non stupisce che il progetto europeo proposto da Hitler prevedesse

una serie di Stati annessi al Reich (come l’Austria e il Lussemburgo), altri posti sotto il

controllo amministrativo in forma di protettorati (Boemia-Moravia, Polonia, Olanda,

Norvegia, Belgio) e infine altri “stati satelliti”, tra cui figurava anche l’Italia. Inutile dire che

il ruolo di guida spettava alla Germania.

13

2.2.3 Gli europeisti e la Resistenza

Senza dubbio, coloro che più influenzarono il dibattito sulla costituzione di ciò che oggi

conosciamo come Unione Europea furono gli intellettuali che durante gli anni ’40 si

ribellarono strenuamente ai totalitarismi e per questo furono esiliati o confinati. In tutti i paesi,

tutti gli europeisti durante la Resistenza sostenevano l’assoluta necessità di superare una volta

per tutte le sovranità nazionali in nome della pace e della cooperazione tra gli Stati d’Europa.

È questo infatti l’assunto principale del famosissimo testo intitolato “Manifesto di

Ventotene”, scritto dagli anti-fascisti italiani Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi e curato da

Eugenio Colorni (Spinelli, Rossi; 1944). Sia Spinelli che Rossi che Colorni avevano

sviluppato l’idea di un manifesto nell’isola di Ventotene, dove erano stati confinati. Subito

dopo la caduta del fascismo, Altiero Spinelli fondò il Movimento Federalista Europeo, che

raccolse i consensi di molti altri intellettuali europei.

Tuttavia, soltanto dopo la fine del secondo conflitto mondiale si giunse alla decisione di

fondere la produzione di carbone e acciaio in tutti gli Stati europei, principalmente per rendere

materialmente impossibile – per citare Schuman – qualsiasi altra guerra tra Francia e

Germania. Proprio Robert Schuman, ministro degli Esteri francese, è ricordato per la sua

Dichiarazione (datata 9 maggio 1950) in cui si proponeva l’istituzione della Comunità

Europea del Carbone e dell’Acciaio, che sarebbe diventata realtà l’anno successivo e che

avrebbe coordinato la produzione e il commercio di Italia, Francia, Germania Occidentale,

Lussemburgo, Belgio e Paesi Bassi. Nella sua dichiarazione, comunque, Schuman già intuì

l’enorme difficoltà del processo che si stava appena iniziando: “L'Europa non potrà farsi in

una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che

creino anzitutto una solidarietà di fatto."

Fu l’inizio di un processo molto lungo e complesso, che sarebbe culminato quarant’anni più

tardi con l’istituzione dell’Unione Europea, sancita nel 1992 dal Trattato di Maastricht.

3. Studi sull’Erasmus e sull’identità Europea

Dopo la breve parentesi storica sull’idea di Europa e di Europeismo, torniamo al tema

principale che ha aperto il capitolo: il programma Erasmus, il più importante programma della

Commissione Europea per la mobilità degli studenti e del personale universitario e la

cooperazione tra università e istituti di ricerca. Sul piano strettamente operativo, il programma

Erasmus – inteso come policy – ha svolto e continua a svolgere un lavoro di attuazione dello

Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore, obiettivo principale del Processo di Bologna. La

mobilità degli studenti e del personale universitario è un continuo laboratorio di comparazione

tra metodi d’insegnamento ed esperienze didattiche, di vitale importanza per gli studenti e gli

14

addetti ai lavori che operano in un quadro istituzionale sempre più omogeneo e interconnesso.

Ciò che è ancora oggetto di dibattito, però, è se il programma Erasmus influisca in qualche

modo a formare o rafforzare l’identità Europea, intesa come la consapevolezza di condividere

con gli altri cittadini gli stessi valori e le stesse radici, o sentirsi comunque legati agli altri

cittadini Europei così come due Italiani, due Danesi o due Portoghesi si riconoscono come

connazionali.

I contributi teorici finora prodotti, pur non essendo tantissimi, sono abbastanza da fornire uno

spunto per una riflessione sul tema. Le ricerche saranno divise in ufficiali, ovvero quelle

promosse direttamente dalla Commissione Europea, e indipendenti.

3.1 Studi ufficiali UE

Le ricerche commissionate dagli organi dell’Unione Europea si sono concentrate

maggiormente sullo studio del fenomeno in termini generali: quali sono le condizione socio-

economiche di base degli studenti che partecipano al programma, quali sono i numeri di

questa partecipazione, che effetto ha l’Erasmus sulle possibilità degli studenti di ottenere un

lavoro una volta terminati gli studi, eccetera.

I principali riscontri di queste ricerche, pur non essendo strettamente relazionate al tema che

questo studio si propone di affrontare, potranno essere in seguito utili per affrontarne meglio

gli aspetti più dibattuti.

3.1.1 Chi partecipa

Per quanto riguarda le condizioni socio-economiche di partenza, nella maggior parte dei paesi

risulta che gli studenti che provengono da ambienti familiari più istruiti (highly educated

family backgrounds) è molto più probabile che partecipino al programma in confronto a

coloro provenienti da ambienti familiari meno istruiti (la probabilità di partecipare al

programma è tre volte maggiore). Un’altra condizione necessaria per partecipazione è la

conoscenza di una o più lingue straniere. Dal momento che il programma non prevede

l’apprendimento della lingua in loco, coloro che intendono partecipare devono già dimostrare

di padroneggiare la lingua prima della partenza. È una condizione necessaria che, se osservata

dal punto di vista specularmente opposto, è una delle principali barriere alla partecipazione al

programma. Ma ancor più importante della lingua, secondo uno studio della Commissione, è

il tema economico: le ristrettezze finanziarie presentano l’ostacolo più importante per la

pianificazione di un periodo di studi all’estero, nonostante il contributo offerto dalla

Commissione e dalle singole istituzioni universitarie. (Commissione Europea, 2009).

15

Un altro dato che emerge dagli studi della Commissione è quello numerico: per quanto si

possa discutere del cosiddetto Erasmus effect, quanti sono effettivamente gli studenti che

partecipano al programma? Nel luglio del 2013 la Commissione ha rilasciato un comunicato

stampa in cui si sottolinea il traguardo dei tre milioni di studenti (Commissione Europea,

2013). Il dato però si riferisce al numero complessivo di studenti che hanno preso parte al

programma dalla sua istituzione alla data di pubblicazione. Se si compara il numero di

partecipanti con il numero di studenti iscritti in un ciclo di studi universitari in Europa, si

scopre che la percentuale degli studenti Erasmus non supera l’1.5% del totale.

3.1.2 I “nuovi Europei”

Nel report pubblicato dal Direttorato Generale per l’Impiego, gli Affari Sociali e le Pari

Opportunità, intitolato New Europeans (2011), si tracciano tre profili di “nuovi europei”, che

possono essere utili per inquadrare i partecipanti del progetto Erasmus come appartenenti a

una categoria specifica di cittadini europei. I tre profili sono:

- Nuovi europei per ascendenza (new Europeans by ancestry): sono ad esempio i figli di

migranti;

- Nuovi europei per apertura (new Europeans by openness): sono gli individui che sviluppano

forti legami con un paese diverso da quello di residenza. Questo può accadere per diverse

ragioni: hanno studiato o lavorato in un altro paese, hanno il partner in un altro paese o

possiedono delle proprietà all’estero;

- Vecchi europei (old europeans): sono gli individui le cui radici sono soltanto nel paese di

residenza. Sia i genitori che i nonni sono nati nello stesso paese. Sono cittadini senza nessun

tipo di relazione con gli altri paesi, nel senso che non hanno mai studiato o lavorato all’estero,

non hanno avuto un partner di un altro paese e non posseggono proprietà all’estero. I vecchi

europei corrispondono al 64% degli intervistati.

3.1.3 L’identità Europea negli studi ufficiali: la ricerca “Euroidentities”

La ricerca si propone di indagare se esista uno spazio mentale Europeo, ovvero se e in che

misura gli Europei si riconoscono come tali in opposizione a un’identità locale, nazionale o

globale. Il progetto si è servito del metodo dell’intervista qualitativa per avere una prospettiva

dell’evoluzione e i significati dell’identità Europea (o delle identità Europee) da una

prospettiva bottom up. Dalla ricerca è emerso che avere relazioni primarie con persone da altri

parti d’Europa è d’importanza fondamentale perché una persona possa pensare a se stessa

come Europea, o perlomeno “multi-nazionale” (CE, 2012). Quindi la ricerca sottolinea che

più delle ragioni in sé per le quali una persona possa muoversi – scambio universitario per il

16

programma Erasmus, lavoro, eccetera – per sentirsi Europei contano più le relazioni che si

stabiliscono con persone di altri paesi. Questa dimensione relazionale indica che la mobilità

non deve per forza essere esclusivamente fisica per avere effetti sulla percezione della propria

identità, ma anche virtuale. Un esempio limite potrebbe essere l’avere genitori provenienti da

paesi europei diversi: nonostante l’individuo intrattenga relazioni primarie con altre persone

all’interno del paese dov’è nato, tenderebbe comunque a sentirsi più Europeo di coloro che

non hanno relazioni con altri Europei. (ibidem).

3.2 Ricerche indipendenti

Negli ultimi anni, data la centralità che ha assunto il tema dell’integrazione Europea non solo

in termini economici ma anche culturali, non sono mancati i contributi dei ricercatori sul tema

dell’identità europea in relazione al programma Erasmus. La varietà dei risultati a cui sono

giunti i diversi contributi che saranno brevemente esposti in seguito dimostra quanto sia

difficile definire operativamente un concetto come l’identità Europea ed effettuare ricerche

sul tema.

Ancor prima che il programma Erasmus prendesse forma, già c’era chi sosteneva che la

mobilità studentesca potesse giocare un ruolo importante nella formazione di un’identità

Europea (Lijphart, 1964). Queste proposte si basavano sull’assunto che solo il contatto

personale con persone di altre nazionalità potesse facilitare, nel lungo termine, l’integrazione

politica. Anche Deutsch (1968) era dello stesso parere, ma comunque mancavano delle solide

basi di ricerca scientifica per giustificare una tale posizione. Dopo l’istituzione del programma

Erasmus, anche grazie al lavoro di Eurostat e dell’Eurobarometro, la quantità di dati secondari

per conoscere meglio il fenomeno sono aumentati progressivamente, e di conseguenza anche

gli studi scientifici sul tema dell’identità Europea.

Già nel 1988 Stroebe, Lenkert e Jonas studiarono l’impatto degli scambi universitari sugli

stereotipi circa le diverse nazionalità europee. La tesi principale era che gli scambi, dando la

possibilità di studiare in un paese diverso, potessero influire positivamente sulla conoscenza

di altri popoli e quindi ridurre gli stereotipi e sviluppare atteggiamenti positivi nei loro

confronti (Stroebe et.al, 1988). La questione che posero gli studiosi che osservarono in

seguito il fenomeno fu la scelta del campione da studiare. Il dibattito, come vedremo, non

abbandonerà mai la scena accademica e perdura tutt’oggi.

Emanuel Sigalas, dell’Institute for European Integration Research di Vienna, è l’autore di uno

dei testi più influenti sul tema, intitolato “Does ERASMUS student mobility promote a

European identity?” (2009). Il punto da cui parte Sigalas è proprio la metodologia utilizzata

nei lavori precedenti: secondo lui il campione delle ricerche di Stroebe et.al, ad esempio, non

17

era rappresentativo, e sottolineava la necessità di effettuare studi longitudinali anziché solo

retrospettivi. Inoltre, Sigalas ha evidenziato come per studiare gli effetti del programma

Erasmus sia di vitale importanza servirsi di un campione di controllo formato da studenti non-

mobili: dopo aver somministrato un questionario a due gruppi di studenti erasmus (uno in

entrata, quindi provenienti da altri paesi per un soggiorno nel Regno Unito, e uno in uscita,

studenti britannici in partenza per altri paesi d’Europa) prima e dopo l’Erasmus, ha comparato

i risultati con quelli di un gruppo di studenti sedentari britannici. I risultati della sua ricerca

contraddicono l’idea genericamente condivisa che l’esperienza Erasmus in sé sia utile per

rafforzare l’identità Europea. “Al contrario, ciò che è chiaro è che è molto più probabile che

gli studenti ERASMUS si riconoscano come europei rispetto agli studenti sedentari, ma non a

causa dell’esperienza di studio all’estero” (Sigalas, 2009). Un aspetto interessante della

ricerca di Sigalas proviene dal fatto che questa si sia svolta in uno dei paesi più

tradizionalmente euro-scettici. Risulta infatti che gli studenti di altri paesi europei che hanno

scelto la Gran Bretagna come meta di studi per il programma Erasmus abbiano addirittura

cambiato negativamente la loro attitudine verso l’identità Europea, ovvero che al termine

della loro esperienza si sentissero meno Europei – seppure le variazioni in tal senso siano

state minime. Questo, secondo l’autore, potrebbe essere dovuto al fatto che gli studenti che

soggiornano in un paese straniero siano coinvolti nei temi più dibattuti grazie anche alla forza

pervasiva dei mass media. Ne deriva la raccomandazione alla Commissione Europea di

scoraggiare gli scambi verso la Gran Bretagna e incoraggiare quelli dalla Gran Bretagna: gli

studenti outgoing, infatti, registravano un legame più forte verso l’Europa in termini di

percezione di comunità con gli altri cittadini europei al termine del loro soggiorno. Il trend,

per ora, indica che ci sono molti più studenti che scelgono la Gran Bretagna come meta

rispetto agli studenti britannici che partecipano al programma Erasmus.

Un’altra autrice che si è concentrata sul tema è Teresa Kuhn, dell’Università di Oxford, nel

suo paper intitolato “Why educational Exchange programmes missed their mark”. Secondo la

ricerca effettuata da Kuhn, il programma Erasmus non rafforza l’identità Europea, ma ciò non

implica che le interazioni transnazionali siano totalmente inefficaci. Il problema è che i

partecipanti al programma Erasmus tendano ad essere coloro che già tendono a sentirsi

Europei. Questi non potrebbero sentirsi più europei al termine della loro esperienza per il

cosiddetto ceiling effect: avendo già raggiunto la loro soglia massima di auto-identificazione

con l’Europa prima di partecipare, il programma in sé non produce effetti significativi in tal

senso. L’autrice si auspica quindi che, per poter registrare un miglioramento in termini di

incremento dell’identità Europea si indirizzi il programma agli individui che tendono a non

partecipare a causa di scarse possibilità economiche o per l’abbandono studi (Kuhn, 2012).

18

Su una posizione analoga si posiziona Van Mol, il quale sottolinea come il sentimento di

identità europea sia già presente prima della partecipazione al programma. Nonostante ciò,

l’autore sottolinea l’importanza del programma come catalizzatore degli atteggiamenti

positivi nei confronti dell’Europa e, soprattutto, per una conoscenza più approfondita

dell’Europa in quanto entità non solo politica, ma anche e soprattutto culturale. Questo è un

punto importante: riprendendo i contributi di Bruter sull’identità politica e l’identità culturale

(2005), l’autore sottolinea come al termine dell’Erasmus gli studenti passino da una “EU-

identity” (identità union-europea) a una più ampia identità Europea. Ciò significa che in

genere l’Europa sia troppo spesso concepita solo come enorme apparato politico e burocratico

e non come insieme di culture tra di loro affini. L’Erasmus sarebbe quindi utile a riscoprire

l’aspetto culturale dell’Europa, componente importante della versione istituzionale chiamata

U.E. (Van Mol, 2011).

Similarmente a quanto effettuato da Sigalas, Oborune studia nella sua ricerca non solo gli

studenti che hanno partecipato al programma, ma anche quelli potrebbero potenzialmente

farlo e quelli che non l’hanno fatto e non hanno intenzione di farlo. Studiando quindi gli

studenti Erasmus sia in relazione con quelli che non hanno ancora partecipato al programma

avendo l’intenzione di farlo, sia con quelli che non hanno l’intenzione di partecipare, Oborune

dimostra che il programma in sé gioca comunque un ruolo nel rafforzare l’identità Europea

degli studenti che ne prendono parte, smentendo così le posizioni di Sigalas. Anche Oborune

rileva una differenza di partenza tra gli studenti sedentari e quelli mobili (o potenzialmente

mobili): quelli che hanno partecipato al programma o potrebbero farlo hanno già avuto

esperienze all’estero e già conoscono una o più lingue straniere, il ché si presenta come una

barriera per quelli che non partecipano. Infine, Oborune, chiedendo agli intervistati se questi

fossero d’accordo o meno con posizioni come “Essere membri dell’UE è una cosa positiva”,

oppure “L’unificazione europea è una cosa positiva”, ha smentito l’ipotesi di Sigalas, secondo

il quale il programma Erasmus abbia effetti trascurabili sugli atteggiamenti nei confronti

dell’integrazione europea. (Oborune, 2013)

Kristine Mitchell affronta il tema considerando l’Erasmus come un’esperienza civica, prima

ancora che accademica. La forza della ricerca di Mitchell sta nel campione studiato: duemila

studenti provenienti da venticinque paesi dell’UE. Lo studio si presenta quindi più esteso e

più eterogeneo sul piano della composizione del campione studiato. L’autrice parte

dall’assunto di Easton (1965) che un sistema politico, per funzionare, deve fondarsi su un

“supporto diffuso” da parte della popolazione, inteso come senso di lealtà, attaccamento,

“senso del noi” (we-feeling) e fiducia nella comunità politica. Se questo supporto diffuso era

forte negli anni ’70, come sottolineato da Lindberg e Scheingold (1970), negli anni successivi

19

alla crisi economica si è disgregato fino a diventare dissenso e avversione alle politiche

dell’UE, come hanno fatto notare diversi studiosi (Down e Wilson, 2008; Hooghe e Marks,

2009). È quanto mai vitale, quindi, recuperare i sentimenti di fiducia e solidarietà per

affrontare la crisi economica e superarla. Per tornare alla ricerca di Mitchell, l’analisi dei dati

dimostra che le interazioni transnazionali che esperiscono gli studenti Erasmus contribuiscono

a un cambiamento del loro atteggiamento – in termini positivi – nei confronti dell’Europa

come istituzione e quindi incrementerebbe il loro livello di supporto verso l’Unione Europea

e, inoltre, il grado in cui i partecipanti si percepiscono come Europei (Mitchell, 2012).

Per concludere, si riporta il contributo di Fred Dervin, che ha definito l’esperienza Erasmus

come un vero e proprio “laboratorio per l’iper-modernità”. Nel suo articolo intitolato “The

Erasmus experience: Halcyon days of hypermodernity?”, riprendendo le definizioni di

Bauman (società liquida, amore liquido), definisce gli studenti Erasmus come gli archetipi

degli individui iper-moderni. Secondo l’autore, l’esperienza Erasmus può essere utile agli

studenti per prepararsi ad affrontare la società in cui vivono, nei suoi aspetti sia positivi che

negativi, in un ambiente sicuro e piacevole. Si serve inoltre della classificazione di “stranieri

liquidi” per definire gli studenti: questi non sono né turisti né migranti, la loro presenza nel

territorio straniero è solo temporanea ma le relazioni che intrattengono possono superare il

limite di tempo del loro soggiorno, e renderli più globali come cittadini prima ancora che

come studenti (Dervin, 2007).

20

Capitolo II. Il capitale sociale

Dopo aver trattato il tema del programma Erasmus e dell’identità Europea, e dopo aver

introdotto i principali studi prodotti sulla relazione che intercorre tra l’esperienza Erasmus e il

sentimento di identità europea, questo capitolo si propone di affrontare il tema del capitale

sociale. Il concetto di capitale sociale ha acquisito una crescente popolarità nelle scienze

sociali negli ultimi decenni. Non soltanto nelle ricerche sociologiche, ma anche nel campo

delle scienze politiche e dell’economia, il capitale sociale è stato spesso invocato come la

risposta a un vasto ventaglio di domande. Sin dai primissimi contributi, infatti, è stato

correlato allo sviluppo economico territoriale e al corretto funzionamento delle istituzioni

democratiche e, da un punto di vista più individualista, anche alle maggiori capacità di un

soggetto di riuscire a migliorare la sua posizione all’interno della società elevando il suo

status. Questo capitolo non si propone affatto, comunque, di essere un’esaustiva disamina

delle principali prospettive sul capitale sociale. Il tema è infatti introdotto per sottolineare la

sua relazione – reale e potenziale – con il programma Erasmus, che per sua natura facilita lo

scambio e la convivenza tra gli studenti cittadini dell’Unione Europea.

Il capitolo partirà quindi dall’analisi di Tocqueville – che nel suo La democrazia in America

introdusse il tema in forma embrionale – e si concluderà con i contributi relativi

all’approccio relazionale di Donati, Tronca e Colozzi, passando inevitabilmente per i testi di

Putnam, Bordieu e Coleman, che hanno per primi definito il capitale sociale e l’hanno messo

al centro del dibattito sociologico nella seconda metà del XX secolo.

1. I contributi classici: Tocqueville, Bourdieu, Coleman

In letteratura esistono molteplici definizioni di capitale sociale, spesso contrastanti fra loro.

Tutte, però, condividono il riferimento a una dimensione relazionale. Così come definito da

Cohen e Prusak, il capitale sociale è una risorsa fondata sull’esistenza di un qualche tipo di

relazione. Dalla relazione scaturisce un corpus di interconnessioni attive tra le persone che

cementano i membri di un gruppo o di una comunità: fiducia, confidenza, comprensione

reciproca, condivisione di valori e di atteggiamenti. Di conseguenza, le azioni cooperative

sono tanto più incoraggiate quanto più è rilevante la presenza di capitale sociale. (Cohen e

Prusak, 2001).

Prima di distinguere le principali differenze tra l’approccio individualistico di Coleman e

Bourdieu e quello collettivistico di Putnam, è bene fare riferimento al lavoro di Alexis de

Tocqueville, sociologo francese che nelle sue osservazioni sulla società americana ai principi

del XIX secolo si soffermò sull’importanza delle relazioni sociali informali. Egli osservò la

21

tendenza degli americani a raccogliersi ovunque fosse possibile per discutere di temi relativi

all’economia, alla politica o qualsiasi altro tema che fosse di interesse generale. Queste

occasioni di raccolta favorirono la costruzioni di solidi rapporti fiduciari che, in ultima

istanza, ebbero secondo l’autore degli effetti positivi sul funzionamento del sistema statale

democratico.

Ad ogni modo, soltanto verso la fine degli anni Settanta del XX secolo il concetto di capitale

sociale fu messo in primo piano nel dibattito socio-economico. Glenn Loury (1977) cercò di

spiegare il diverso grado di successo dei giovani nell’accrescimento del proprio capitale

umano, inteso come l’insieme di conoscenze e abilità spendibili sul mercato del lavoro.

L’insieme delle relazioni familiari e sociali capaci di aumentare le dotazioni individuali di

capitale umano rappresentavano il capitale sociale.

Un’ulteriore specificazione del concetto viene proposta da Bourdieu. Il sociologo francese

opera in primo luogo una distinzione tesa a sottolineare le differenze tra capitale sociale,

economico, culturale e simbolico. La definizione di capitale sociale proposta da Bourdieu

coincide con la somma delle risorse attuali e potenziali connesse al possesso di una rete

durevole di relazioni, sia istituzionale che informale. Di conseguenza, il capitale sociale di cui

dispone un individuo è in diretta relazione all’ampiezza del network cui è in grado di

accedere, e al volume di capitale (economico, culturale e simbolico) in possesso di coloro con

i quali entra in relazione. Ciò implica che qualsiasi forma di vantaggio ottenibile attraverso la

rete di relazioni di un individuo, come ad esempio la notorietà, possa connotarsi come capitale

sociale.

Coleman (1990) invece sottolinea che il capitale sociale è una risorsa di tipo relazionale:

questo si può formare esclusivamente nelle reti. Il capitale sociale consiste nel capitale di

relazioni attraverso il quale è possibile trasmettere informazioni e risorse cognitive,

permettendo ai soggetti della rete di ottenere obiettivi in modo più semplice, veloce e meno

costoso. Il capitale sociale produce vantaggi a tutti gli appartenenti alla rete: da ciò deriva la

sua caratteristica dell’indivisibilità. Pizzorno (2001) ha sottolineato che Coleman condivide

con Bourdieu una visione strumentale del capitale sociale, dal momento che entrambi

valutano le relazioni sociali al pari di un bene posseduto da un individuo all’interno di una

rete, e grazie al quale quest’ultimo può perseguire determinati fini.

1.1 Capitale sociale e culture civiche: da Almond e Verba a Putnam

Robert Putnam, con il suo Making Democracy Work, contribuì al dibattito sul capitale sociale,

utilizzando un approccio collettivistico. L’autore rilevò le differenze regionali che

22

intercorrevano in diverse aree dell’Italia in termini di dotazione di capitale sociale e

rendimento delle istituzioni. La tesi sostenuta è che la bassa qualità delle istituzioni regionali

italiane del Mezzogiorno in confronto a quelle del Centro-Nord non è da imputare tanto al

divario di sviluppo economico, quanto alla minore dotazione di capitale sociale (Cartocci

2007). Prima di esporre le variabili prese in considerazione e le conclusioni di Putnam, vale la

pena partire dal lavoro che lo ispirò. Si tratta di un testo di Gabriel Almond e Sydney Verba,

intitolato “Civic Culture” (Almond, Verba 1963). Quest’ultimo rappresentò il primo tentativo

di collezionare e codificare sistematicamente le variabili che misuravano la partecipazione

politica dei cittadini in cinque stati diversi, ovvero Stati Uniti, Messico, Gran Bretagna,

Germania e Italia. Così i due autori intendevano creare una teoria della cultura civica, ovvero

una cultura politica che spiegasse il coinvolgimento dei cittadini – o la sua mancanza – negli

stati democratici. Gli autori discussero le origini storiche della cultura civica e le funzioni di

questa cultura nel processo di cambiamento sociale. Comparando gli schemi di atteggiamenti

politici nei cinque paesi, giunsero alla conclusione che un sistema democratico avesse

bisogno di una cultura politica che incoraggiasse la partecipazione. Ne risultò la distinzione in

due culture politiche distinte: una detta “participant”, più razionale e informata, l’altra invece

detta “subject”, caratterizzata da un’alta fiducia e deferenza nei confronti dell’autorità. Ben

coscienti che non fosse possibile dire che un singolo individuo rispecchiasse completamente

le caratteristiche di una classificazione o dell'altra, gli autori conclusero che la cultura civica

fosse determinata dalla combinazione delle due.

Putnam introduce un concetto che differenzia in modo esplicito il suo lavoro da quello di

Almond e Verba: la civicness, da intendere come il tessuto di valori, norme, istituzioni e

associazioni che consentono e supportano l’impegno civico. L’impegno civico si declina a sua

volta in termini di solidarietà, fiducia reciproca e tolleranza diffusa. Gli indicatori relativi al

livello di partecipazione civica che servono a spiegare l’effetto del capitale sociale sul

rendimento istituzionale sono quattro: il numero delle associazioni volontarie presenti nel

territorio, il numero di lettori di giornali, un indice dell’affluenza alle urne per i referendum e

un indice del voto di preferenza espresso nelle elezioni politiche (Putnam 1993). L’autore

spiega i differenziali di capitale sociale nelle diverse regioni italiane facendo riferimento ad

effetti di lunga durata – circa otto secoli di storia. Egli prende infatti in considerazione i due

regimi politici allora in via di consolidamento sul territorio nazionale: la monarchia normanna

al Sud e i liberi comuni nel Centro-Nord. I due sistemi si sono evoluti diversamente perché il

primo era autocratico e autoritario, mentre il secondo era basato sul principio di uguaglianza.

Da ciò ne derivarono due culture di governo diverse: verticali e autoreferenziali al Sud,

orizzontali aperte e democratiche al Centro-Nord.

23

La teoria di Putnam è stata spesso aspramente criticata. Le critiche si sono concentrate sul

fatto che Putnam non considerasse le condizioni strutturali socio-economiche della società,

come ad esempio il livello di ineguaglianza dei redditi. Un altro aspetto che è stato oggetto di

critica è stato l’eccessivo determinismo dell’analisi storica. A tal proposito anche Bagnasco

(1999) osserva: “Putnam sembra volere spiegare troppo con il concetto di capitale sociale,

ricostruendo la storia a misura di questo”. Ferragina (2010) opera una sintesi delle differenti

critiche mosse a Putnam in un’analisi che coinvolge ben ottantacinque regioni europee che

ridefinisce i determinanti del capitale sociale.

1.2 La fiducia: Fukuyama

In un libro del 1992, The End of History and the Last Man, il politologo americano Francis

Fukuyama affermò che l’avvento delle democrazie liberali occidentali, affermatesi dopo la

fine della Guerra Fredda, rappresentassero lo stadio finale dell’evoluzione socioculturale e

delle forme di governo umane. Fukuyama si ispirò alle posizioni di Kojeve (1969), “the

twentieth century’s preeminent interpreter of Hegel”, che postulò la fine della storia e come

conseguenza la fine della missione dei filosofi. Per un’esposizione esaustiva delle critiche alla

teoria di Fukuyama sulla fine della storia e sui suoi sviluppi, si rimanda a Mattioli (2012). In

questa sede vale la pena riportare, però, in relazione con il tema centrale del capitolo – ovvero

il capitale sociale – un’evoluzione del pensiero di Fukuyama rinvenibile nel suo testo

successivo sulla fiducia (Fukuyama 1995). Proprio come Kojeve, che dopo aver sancito la

fine della missione dei filosofi si era dedicato completamente alla vita burocratica (lavorando

nella Commissione della neonata Comunità Economica Europea), così Fukuyama si

concentrò su temi prettamente economici (ivi, p. xiii). Più precisamente: modificando

parzialmente le sue posizioni iniziali, ammise l’influenza che avessero le relazioni sociali

sulle economie dei paesi più sviluppati. In un ordine mondiale che segue la fine della storia,

secondo Fukuyama, le potenze mondiali devono prestare attenzione ai principi sociali della

vita economica: uno di questi, come suggerisce il titolo del libro, è la fiducia. Il capitale

sociale, secondo Fukuyama, sarebbe strettamente correlato alla presenza di un adeguato

tessuto fiduciario all’interno di un contesto territoriale. Si badi però che la fiducia, come le

reti sociali ben consolidate e la società civile non costituiscono il capitale sociale in sé, ma

sono indicatori della sua presenza. Il capitale sociale è un insieme di valori o norme non

ufficiali, condiviso dai membri di un gruppi, che consente loro di aiutarsi a vicenda. Le regole

che costituiscono il capitale sociale possono variare dalla semplice reciprocità tra due amici,

fino ad arrivare a dottrine complesse ed articolate come il Cristianesimo o il Confucianesimo

(Fukuyama, 1999). La conclusione di Fukuyama è che il capitale sociale, nella società

24

moderna, sia importante esattamente al pari del capitale economico, perché in ultima istanza

si può dire che uno sia determinato – seppur in minima parte – dall’altro. Di conseguenza,

solo le società con alti gradi di fiducia saranno in grado di dar vita a organizzazioni

economiche di larga scala che sono necessarie per competere nella economia globale odierna.

Infine, per quanto riguarda le istituzioni, Fukuyama sottolinea la vitale funzione che può

svolgere la fiducia nell’accrescere l’efficienza delle istituzioni. Per questa ragione,

l’approccio del politologo americano è detto istituzionalista.

Le osservazioni di Fukuyama sulla fiducia nelle organizzazioni vennero poi riprese da Cohen

e Prusak (2001). Secondo gli autori, il trust è la colla che tiene insieme i membri di una

comunità nel condividere conoscenze, pratiche e modo di agire. Questi contributi appaiono

quindi centrali se si considera la premessa che il programma Erasmus giochi un ruolo nel

rafforzare la fiducia tra i gli studenti europei che vi prendono parte. Come si vedrà in seguito,

la particolarità dell’esperienza Erasmus risiede nella sua duplice funzione: da un lato opera

come uno strumento per accrescere la propria preparazione accademica, e quindi il proprio

capitale umano; dall’altro, partecipare a un programma di scambio universitario permette di

entrare a far parte di più reti sociali, che cementerebbero la fiducia tra gli studenti di paesi

diversi dell’Unione Europea. Ciò avrebbe, di conseguenza, degli effetti positivi in termini di

identità europea.

2. L’approccio relazionale: Donati

Principale esponente dell’approccio relazionale al capitale sociale, Pierpaolo Donati afferma

che questo sia un genere specifico di relazioni sociali (Donati, 2007). L’approccio relazionale

non assume solamente che il capitale sociale inerisce alle strutture di relazione fra gli attori,

come affermava invece Coleman (1988). Lo studioso americano, come già ricordato,

concepiva il capitale sociale come un insieme di opportunità e risorse a disposizione

dell’individuo che fa la sua scelta razionale. Secondo l’approccio relazionale, invece, “il

capitale sociale consiste di processi razionali, ossia di una specifica relazionalità emergente.”

Donati parte dal presupposto che gli individui possano associarsi per differenti motivi, tutti

riconducibili a quattro ordini di fattori analitici: fattori di ordine politico, di ordine sociale

(relazionale), di ordine culturale. Rispettivamente, ogni tipo di fattore corrisponde a un

elemento dello schema AGIL introdotto da Parsons (1949). Ogni tipo di ragione che spinge

un individuo ad associarsi si concreta in un esito differente. Chi si associa per motivi

economici (A) mira ad acquisire un beneficio o un guadagno, oppure a produrre un bene o un

servizio utile. Chi si associa per motivi politici (G) mira alla conquista del potere politico e la

25

sua gestione, o comunque la sua gestione su di esso. Chi si associa per motivi di integrazione

sociale (I) mira a produrre solidarietà sociale. In quest’ultimo caso si trovano le associazioni

propriamente sociali (di promozione sociale) e le sfere civili delle associazioni non profit.

L’ultimo tipo di associazioni sono quelle che mirano a generare valori espressivi (L). Un

esempio sono la famiglia e i gruppi amicali (Donati, 2007). La conseguenza di un tale

approccio è che il capitale sociale non sia un sinonimo di associazione, ma di un peculiare

tipo di associazione, ovvero quelle che si configurano come beni relazionali. In quest’assunto

consiste la teoria relazionale del capitale sociale. Il capitale sociale non consiste in una

dotazione o una proprietà individuale delle persone, ma in una certa configurazione della rete

di relazioni a cui le persone partecipano per realizzare un bene che non potrebbe esistere fuori

di quella relazione (ivi). Queste relazioni – o strutture di relazioni – non dipendono né dagli

individui né dai sistemi sociali, bensì dalle relazioni stesse.

2.1 Il capitale sociale generalizzato

Ispirandosi alla teoria relazionale del capitale sociale introdotta da Donati, Colozzi (2007)

parla di capitale sociale generalizzato riferendosi a “quel senso condiviso di appartenenza che

va oltre i legami familiari, etnici o di comunità locale e che si esprime come sentimento di

fiducia verso gli altri in generale” (ivi). Questo concetto rimanda alla “coscienza del noi” di

cui scriveva Habermas (1996 trad. 2002). Il senso di appartenenza che va oltre i legami

comunitari, fa notare Beck, veniva identificato con lo Stato-nazione, mentre oggi, nella dopo-

modernità, quest’appartenenza si riferisce a soggetti trans-nazionali come l’Unione Europea

(se non addirittura al sistema-mondo) (Beck 1998).

L’output specifico di questo tipo di capitale sociale, come osservato in una relazione del

Consiglio d’Europa, è la coesione sociale. Questa rappresenta un bene specifico di tipo

relazionale, seguendo la definizione di Donati, che riduce i rischi di disgregazione della

società e che, reimmesso nel mercato e nello Stato, consente a entrambi i sistemi di migliorare

le loro performance (Colozzi 2007). La coesione sociale si manifesta in due modalità: la

prima è un riconoscimento reciproco alla titolarità di diritti da parte di tutti coloro che sono

compresi entro i confini dello Stato-nazione o dell’istituzione trans-nazionale cui il capitale

sociale viene riferito. Ovvero: ogni individuo appartenente a questa grande rete, sia essa uno

Stato o un organismo sovranazionale quale potrebbe essere l’Unione Europea, riconosce che

tutti gli altri cittadini dello Stato o dell’Unione Europea siano titolari degli stessi diritti.

Un’altra modalità – più vicina alle teorie di Putnam e Fukuyama – vede la coesione sociale

come un sentimento di lealtà/fiducia che consente alle istituzioni di funzionare meglio.

26

Capitolo III. Interviste a testimoni privilegiati sull’esperienza Erasmus

Nel primo capitolo si è introdotto il tema del programma Erasmus in relazione con quello più

ampio dell’identità Europea, presentando i principali studi che sono stati prodotti a riguardo,

mentre nel secondo capitolo sono stati brevemente esposti i più importanti contributi relativi

al capitale sociale. Questo capitolo si propone invece di illustrare i risultati di un’indagine che

ha coinvolto quattro studenti di diverse nazionalità che hanno preso parte al programma negli

scorsi anni. La loro esperienza e le loro considerazioni sono state rilevate attraverso il metodo

dell’intervista semi-strutturata.

1. Cenni sul metodo

Si è scelto di optare per il metodo qualitativo, e in particolare quello delle interviste

biografiche perché gli aspetti quantitativi dell’esperienza Erasmus sono stati già ampiamente

osservati negli studi precedenti, già analizzati nel primo capitolo, come i lavori di Sigalas,

Kuhn, Oborune e Mitchell.

Franco Ferrarotti, nel suo testo Storia e storie di vita, sottolineava l’importanza del metodo

qualitativo. Riguardo i dati raccolti per le ricerche quantitative, osservò che “la datità, di per

sé, intesa come fattualità reificata, o fatto in sé conchiuso, distaccata dal vivente, non è nulla,

non può neppure essere analizzata dalle scienze sociali come loro oggetto proprio, pena lo

scadimento nel feticismo dei dati empirici elementari ritenuti teoricamente autonomi e auto

esplicativi come se veramente i fatti parlassero da soli.” Per ridare dignità al metodo

biografico, secondo Ferrarotti, bisogna invertire la tendenza secondo cui questo viene

considerato come una metodologia marginale nella storia sociale e, soprattutto, non cedere

alla tentazione di utilizzare materiali secondari solo perché in apparenza “più obiettivi”. Con

queste osservazioni, si auspicava di richiamare l’attenzione sulla soggettività esplosiva dei

“materiali primari” (Ferrarotti, 1981).

Inoltre, bisogna ricordare il ruolo che l’intervista in sé svolge in quanto interazione sociale,

come ha sottolineato Frudà (2007). È infatti la relazione che si instaura tra intervistato e

intervistatore che orienta lo svolgimento dell’intervista. L’intervistatore non è neutro, non è

esterno e “trasparente”, ma influisce, semplicemente con il suo “essere persona”,

sull’andamento di un’interazione mai affettivamente neutra. Da tutto ciò discende che ogni

intervista è diversa dalle altre, con un andamento singolare e irripetibile. Dunque la

standardizzazione è minima, sia nel racconto che nella storia di vita. L’unico elemento

standardizzato, in entrambi i casi, rimane la consegna iniziale, che viene proposta a tutti nello

stesso modo e funzionerà come stimolo di partenza per tutti.

27

1.1 La scelta dei testimoni

Per questa ricerca sono stati intervistati quattro studenti che hanno preso parte al programma

Erasmus negli scorsi anni. L’intento era quello di poterli interrogare sull’esperienza Erasmus

in toto: era quindi necessario che l’avessero già terminata. Sono state effettuate delle

interviste focalizzate e in profondità: la grande risorsa a cui attingere, quindi, non risiedeva

nell’estensione, bensì nell’approfondimento. Qualora il numero degli studenti intervistati

appare ristretto, si rimanda alle osservazioni di Ferrarotti su come la soggettività inerente

all’autobiografia possa divenire conoscenza scientifica (Ferrarotti, 1981). Basterà citare che

attraverso la sua prassi sintetica, l’essere umano singolarizza nei suoi atti l’universalità di una

struttura sociale. Attraverso la sua attività detotalizzante/ritotalizzante egli individualizza la

storia sociale collettiva. Quindi “ogni vita umana si rivela fin nei suoi aspetti meno

generalizzabili come sintesi verticale di una storia sociale” (ivi).

Gli studenti che sono stati intervistati sono:

1. Mireia R., studentessa di Architettura all’Università di Girona (Spagna), che ha

trascorso un semestre alla Facoltà di Architettura dell’Università Sapienza di Roma;

2. Paolo T., studente di Medicina e Chirurgia all’Università di Napoli “Federico II”, che

ha trascorso un anno all’Università di Porto;

3. Pietro C., studente di Management all’Università Commerciale “L. Bocconi”, che ha

trascorso tre mesi all’Università di Lancaster;

4. Andrea S., studentessa di Didattica Italiana e Francese all’Università di Graz

(Austria), che ha trascorso un anno all’Università di Tolosa II “Jean Jaurès”.

Come si può notare, si è tentato di garantire un’eterogeneità dei contributi selezionando

soggetti che avessero background accademici, nazionalità e paesi di destinazione diversi; allo

stesso tempo si è rispettata un’equa distribuzione di genere.

2. Le motivazioni per partecipare al programma Erasmus

Circa le motivazioni per andare a studiare in un altro paese europeo grazie al programma

Erasmus, gli intervistati hanno fornito risposte diverse. In tutte, però, è possibile rivenire delle

similitudini. Ad esempio, tutti e quattro gli intervistati hanno indicato il fattore linguistico

come determinante. Due dei quattro intervistati, in particolare la studentessa di architettura e

lo studente di medicina, non possedevano nessuna conoscenza pregressa della lingua.

Entrambi sono partiti – per studiare, rispettivamente, all’Università di Roma “La Sapienza” e

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l’Università di Porto – soltanto dopo aver seguito un corso intensivo di lingua durante l’estate.

Anche quelli che conoscevano già la lingua prima di partire, come gli altri due intervistati,

hanno specificato di partecipare al programma Erasmus per migliorare le proprie capacità

nella lingua in cui avrebbero studiato.

Un’altra motivazione importante è stata la necessità di vivere un’esperienza lontano da casa.

Mireia R., studentessa spagnola di architettura, ha detto: “Andarmene di casa e avere

un’esperienza all’estero era una necessità personale forte, perché tutti i miei studi li avevo

fatti nella stessa città. [...] Conoscere nuove città e nuovi mondi, inoltre, è una cosa molto

importante per uno studente di architettura.”

Allo stesso modo Paolo T., studente di medicina della Federico II di Napoli, ha detto: “Non

avevo mai vissuto da solo, e questo mi portava sia paura sia uno stimolo nel provare qualcosa

di nuovo.”

Il contributo di Pietro C., studente di Management alla Bocconi e stagista presso una

multinazionale di consulenza aziendale, è tra tutti il più interessante perché, come ha

specificato, non è partito per vivere un’esperienza lontano da casa. “Milano è stato il mio

primo Erasmus.” Avendo già a disposizione l’esperienza da fuori-sede a Milano, è stato

spinto da ragioni molto più pratiche: “Sono partito perché l’Erasmus fa curriculum, e ora che

lavoro nel campo delle risorse umane lo posso confermare. È un parametro di cui si tiene

conto durante la valutazione di una persona che ti si presenta a un colloquio.” Inoltre, ha

spiegato che nella sua università “trascorrere un periodo di studio all’estero è considerato un

requirement, un fattore igienico.”

3. Conoscenza pregressa del paese ospitante e della lingua

Sia Mireia R. che Paolo T. non conoscevano la lingua in cui avrebbero studiato in Erasmus. Il

loro primo contatto è stato in un corso intensivo di lingua prima di iniziare le lezioni.

“Non è stato neanche il 10% di quello che realmente mi ha aiutato a imparare la lingua” è

quello che ha commentato Paolo T.. “Il resto l’hanno fatto le conversazioni con gli amici

portoghesi, all’università. All’inizio arrivavo all’università, cercavo di parlare con le persone,

non ci riuscivo ed era terribile. Ma c’erano delle persone più volenterose che mi correggevano

e aspettavano che imparassi, e ora che sono tornato in Portogallo era bello avere una

conversazione alla pari con quelli che un anno fa mi hanno insegnato.”

Secondo Mireia R., non parlare bene l’italiano appena arrivata non era un grande problema:

“Il problema non era farsi capire, ma io parlo di sicurezza, di non sbagliare, di sapere quello

che si dice senza fare errori. Però mi pento [di non averlo studiato di più prima di partire]

29

perché con un livello più alto avrei potuto godermi di più la mia esperienza all’inizio, avendo

più sicurezza quando parlavo.”

Pietro C., come si è già visto, è andato in Erasmus anche per perfezionare l’inglese. Prima di

partire, era già stato in Inghilterra per due volte, per dei corsi estivi di inglese: “L’inglese

l’avevo studiato soltanto a scuola, ma avevo avuto la possibilità di perfezionarlo all’estero in

Inghilterra. Ho partecipato a qualche vacanza-studio in estate quando ero al liceo, dalla durata

di poche settimane per volta. Un anno sono stato a Canterbury, e un altro anno nei pressi di

Ipswich. Quindi sì, avevo già avuto dei contatti in precedenza con l’Inghilterra.”

Queste esperienze, secondo Pietro C., sono state determinanti per poi partire in Erasmus

durante il suo corso di laurea: “Aver fatto quelle esperienze mi spingeva ad andare oltre,

perché è come se avessi già avuto dei contatti con un’esperienza del genere. Anche se erano

molto diverse, le vacanze-studio, perché tu hai dei referenti a cui chiedere per qualsiasi cosa,

hai il tuo gruppo con cui stare. Alla fine è come se fosse una gita scolastica. Invece in

Erasmus sono partito da solo. Quindi alla base c’era la voglia di partire, andare da solo.”

Andrea S., studentessa austriaca dell’Università di Graz, era già stata in Francia all’età di 16

anni. “Prima di andare in Erasmus in Francia, a 16 anni ho vissuto per un anno lì e ho studiato

al liceo lì. Prima di andarci non conoscevo la lingua, ma in quell’occasione l’ho imparato.

Vivevo con una famiglia francese, quindi non avevo molta scelta.” Tutto ciò che specifica sul

modo in cui ha imparato il francese si riferisce quindi all’esperienza che aveva avuto

precedentemente in Francia. Ci è tornata in Erasmus, quindi, per motivi strettamente legati al

suo corso di laurea: “Studiando didattica italiana e francese, ho preferito andare in un paese

dove si parlasse una di queste due lingue. Quando ho saputo che c’erano posti disponibili per

Tolosa, dato che avevo già qualche amico lì, ho pensato che era una grande opportunità per

migliorare ancora il mio francese.”

3.1 Altre esperienze pregresse all’estero

Nella sua ricerca, Oborune nota che gli studenti “mobili” e quelli “potenzialmente mobili”

tendevano a fornire risposte tanto simili da poterli considerare come un’unica categoria

opposta a quella degli studenti “non mobili”. Per questa ragione, nell’intervista si è cercato di

ottenere più informazioni circa le esperienze all’estero (o, come si vedrà, “lontano da casa”)

che gli studenti avevano già avuto prima di prendere parte al programma Erasmus. Tutti gli

intervistati hanno dichiarato di aver viaggiato molto in passato, ma le esperienze che meritano

un’attenzione particolare sono quelle diverse dal turismo, perché potrebbero rappresentare una

sorta di “prova” per l’esperienza della mobilità accademica. Oltre a gli esempi che sono già

stati riportati nel paragrafo precedente, perché rappresentavano esperienze pregresse nel paese

30

di destinazione, ci sono stati altri casi di soggiorni all’estero (principalmente per studio, più

che per lavoro, trattandosi di studenti) che verranno illustrate brevemente in questo paragrafo.

Oltre ai viaggi fatti per turismo, Mireia R., nell’anno precedente la sua partenza ha trascorso

due settimane in Austria per un workshop di architettura. Si trattava di un programma

Erasmus “intensivo”, ovvero un programma breve di studio che intende unire studenti e staff

universitario di paesi diversi attorno a singoli progetti, in cui devono essere rappresentati

almeno tre paesi diversi: “È stata una bella esperienza. Abbiamo lavorato per due settimane

per un progetto sul legno, in un gruppo di sei. Ogni membro del gruppo era di una nazionalità

diversa: Ungheria, Finlandia, Repubblica Ceca, Kosovo e Spagna. È stato interessante vedere

le differenze tra i metodi di studenti che vengono da paesi diversi. Credo che quest’esperienza

mi aiutò a convincermi a partire in Erasmus.”

Prima dell’Erasmus, Paolo T., aveva viaggiato molto con la sua famiglia, ma non aveva avuto

nessuna esperienza di studio o di lavoro. Come ha specificato, “erano viaggi che non mi

davano nemmeno un minimo, non mi lasciavano davvero qualcosa della cultura del posto,

forse qualcosina, ma non le cose più vere, più profonde. [...] Tra le tantissime cose che impari

a fare durante l’Erasmus è che impari a viaggiare in maniera diversa. Io sono diventato più

aperto alle persone, più che ai posti. Cominci a capire che per conoscere qualcosa di un posto

devi capire le persone, devi parlare tanto. Io credevo che viaggiare significasse camminare,

andare a vedere i monumenti e le cose principali di una città. Era una visione molto infantile

del viaggio.”

4. La vita in Erasmus

Per quanto possa essere interessante indagare le ragioni che abbiano spinto gli intervistati a

partecipare al programma Erasmus, ancora di più, indubbiamente, sono le attività che questi

hanno intrapreso durante il loro soggiorno all’estero. Durante l’intervista è stato posto

l’accento sulle attività extra-curriculari, perché si presuppone che siano quelle in cui il singolo

individuo ha più libertà di scegliere cosa fare e con chi farlo. Oltre a quest’aspetto di libertà

intrinseco nell’attività extra-curriculare, si è scelto di accentuare quest’aspetto per sottolineare

l’importanza dell’Erasmus non solo in quanto programma di scambio accademico, ma come

opportunità – colta o meno, come si vedrà, dipende dal singolo individuo – di immergersi

nella vita sociale di un paese distinto, con tradizioni, regole e caratteristiche diverse da quelle

del paese di partenza.

31

4.1 L’alloggio

Oltre alle ore trascorse a lezione, una parte importante dell’esperienza all’estero è composta

dalla vita quotidiana vissuta nell’ambito domestico, ovvero in quella che per un tempo

determinato diventa la casa degli studenti che studiano nel paese ospitante. Molto spesso è

l’occasione per entrare in contatto, in maniera ancora più approfondita, con studenti di altri

paesi. Tutti gli intervistati, infatti, hanno raccontato di aver vissuto con dei coinquilini

stranieri.

Pietro C. all’Università di Lancaster alloggiava “nel campus universitario, in una stanza

singola, in un piano in cui c’erano le stanze di una porzione di studenti qualsiasi. C’erano sia

inglesi, sia studenti internazionali. Di fronte a me c’era uno studente dell’Azerbaigian. Ma nel

campus c’erano studenti di tutte le nazionalità: indiani, cinesi, tedeschi, francesi, spagnoli,

ciprioti...”.

Mireia R., in Erasmus a Roma, ha invece optato per un appartamento privato, condiviso con

una studentessa tedesca e una brasiliana. Per lei era la prima volta che condivideva

l’appartamento con persone straniere.

Non era la prima volta per Andrea S., studentessa austriaca che, come già notato, prima

dell’Erasmus aveva già vissuto con una famiglia francese per un anno. Durante l’anno che ha

trascorso all’Università di Tolosa, invece, dopo aver abitato per un tempo con un’altra

studentessa austriaca e una del Maghreb, si è trasferita in un appartamento con uno studente

francese.

Paolo T. ha iniziato la sua esperienza a Porto vivendo con altri due studenti italiani, ma poi

“ognuno ha preso la sua strada”. Ha capito che per avere il massimo dall’esperienza di vita

all’estero bisognava vivere con persone straniere. Per un periodo ha quindi vissuto con una

studentessa belga e un’altra studentessa italiana, poi con uno studente olandese. Secondo lui,

vivere con persone provenienti da altri paesi aiuta ad “avere una visione reale sul mondo”:

“Prima hai la visione dei cliché sui vari paesi, hai la visione delle news che ti arrivano, le più

grandi e forse anche le più modificate dai mezzi di comunicazione. Quando parli con le

persone capisci i problemi dei vari paesi, conosci le vere differenze culturali che ci sono e

quindi impari a distinguere i cliché dalla verità, e impari cose che non avresti mai imparato

prima: sul sistema scolastico, sulla giustizia, su come funziona la società all’estero.”

4.2 Le attività extracurriculari prevalenti

Pur non essendo obbligatorie, molte delle attività di cui hanno parlato gli intervistati si

svolgevano nei pressi dell’università o erano organizzate da associazioni di studenti che

operavano all’interno dell’ateneo. Un esempio è dato dalla testimonianza di Andrea S., che ha

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approfittato della politica dell’Università di Tolosa di offrire gratuitamente agli studenti

Erasmus le attività sportive: “Ho fatto principalmente arrampicata, con altri studenti francesi,

e anche yoga”.

Pietro C. ha lamentato l’assenza di grandi possibilità di svago nel “piovoso inverno di

Lancaster.” L’unica attività che riusciva a funzionare anche da ponte per le diverse culture,

che metteva tutti d’accordo, era il biliardo: “Era l’unico strumento ludico utilizzabile, perché

all’aperto non si poteva fare molto. Ho fatto anche sport; ogni tanto siamo stati in città,

oppure fuori, a Liverpool, Manchester. Ma la maggior parte delle attività avvenivano nel

campus, perché stava a venti minuti dal centro.” Nel complesso, però, non ha un buon ricordo

delle attività extra-curriculari organizzate dagli studenti dell’università, perché la maggior

parte di loro era in qualche modo associata al consumo di alcol. Sugli studenti in Erasmus

all’Università di Lancaster ha detto: “Il loro unico obiettivo sembrava essere vivere

esperienze all’estremo, oltre il limite, fare cose di cui dovevano assolutamente ricordarsi. Il

loro scopo era quello di fare cose incredibili. C’è questa forzatura di fare l’esperienza

indimenticabile. Era una forzatura. Forse per questo non mi sono divertito abbastanza. Questa

forzatura mi dava fastidio, perché non era un contesto spontaneo, era distorto. Quelle cose che

hanno fatto potevano farle anche a casa loro e sarebbe stato lo stesso. Non riuscivano a

cogliere quel valore in più che può darti un’esperienza all’estero.”

Molto diversa, invece, è l’esperienza che hanno raccontato gli altri due studenti intervistati.

Quello che tra tutti è sembrato maggiormente integrato con l’ambiente universitario e sociale

circostante è Paolo T., che ha sfruttato al massimo le opportunità offerte dall’Università di

Porto e dalle persone che ha incontrato. Appassionato di breakdance, è entrato in contatto con

dei ragazzi portoghesi con la stessa passione per potersi allenare con loro: “Con altri cinque

ragazzi, una o due volte a settimana ci siamo allenati per partecipare a una competizione a

fine anno. È stato faticoso, ma è stata una grande esperienza. Ho potuto praticare la

breakdance con uno dei più bravi al mondo e con altri compagni portoghesi.” Poi ha scoperto

un’altra disciplina, che si chiama slackline: “Consiste nel camminare in equilibio su una corda

tesa tra due alberi. Sembra una cosa da giocolieri ma non è così. È una cosa che ti mette a

contatto con la natura e con te stesso. Ho conosciuto degli amici, principalmente portoghesi

ma anche altri studenti Erasmus, con cui farlo tutte le settimane. Al ritorno, a Napoli, ho

scoperto che non c’è un gruppo di slackline come nelle maggiori città d’Europa e allora l’ho

fondato io, riunendo i solitari come me che avevano scoperto questa disciplina ma che non

potevano allenarsi con altre persone.” Il suo interesse per conoscere a fondo la cultura

portoghese, unito al suo amore per la musica, l’ha spinto a prendere parte alla Tuna

dell’Università: “Si può dire che è la banda musicale, il coro dell’Università. Ogni università

33

portoghese ne ha una. È rarissimo che un Erasmus vi entri a far parte, ma dato che so suonare

la chitarra e mi piace la musica, ho chiesto di unirmi a loro. Anche quella è stata

un’esperienza bellissima. Ci siamo preparati per un anno intero per poi fare alla fine dell’anno

la grande atuação.” Ma non è finita qui: “Un’altra cosa che ho fatto è stata costituire una

band. Dato che prima di partire suonavo la batteria, lì insieme ad altri amici che suonavano

abbiamo deciso di formare una band. Allora io suonavo la batteria, due ragazzi portoghesi alle

chitarre, uno slovacco al basso e un altro slovacco che cantava. Ci siamo preparati su alcuni

pezzi e poi abbiamo suonato in una Jam Session a fine anno. Per ogni cosa, quindi, avevo

degli obiettivi che m’ero posto per la fine dell’anno. Slackline, breakdance, Tuna e gruppo

musicale. A Maggio-Giugno è stata un po’ dura, perché avevo gli esami all’Università,

dovevo mantenere la preparazione fisica per la competizione di breakdance, imparare tutti i

testi delle canzoni per la atuação con la Tuna, la Jam Session da fare... è stato

psicologicamente e fisicamente pesante. È stato difficile conciliare tutto. A volte bisognava

sacrificare qualcosa, ma è stato veramente bello.”

Mireia R., in Erasmus a Roma, attraverso l’associazione studentesca ESN ha partecipato a

numerose attività, tra cui visite in altre città italiane, tandem linguistici o proiezioni di film.

Essendo un’associazione che si occupa di studenti Erasmus, in queste occasioni era

principalmente a contatto con altri studenti stranieri. Un caso a cavallo tra l’attività extra-

curriculare volontaria e quella prevista dal programma formativo dell’Università è quella che

l’ha vista partecipare alle attività dell’associazione benefica Retake Roma: “Un corso che ho

seguito consisteva nella creazione di un prodotto per un’organizzazione reale che operasse a

Roma. Abbiamo formato un gruppo di tre persone: io, una studentessa cinese e una italiana.

Insieme abbiamo deciso di creare un prodotto per Retake Roma. [...] Però per creare un

prodotto dovevamo conoscere in prima persona l’organizzazione, e quello che facemmo fu di

metterci nei loro panni e immergerci nella quotidianità di questa associazione di volontari. Per

questo abbiamo pulito, ridipinto i lampioni di Piazza Venezia, dipinto le pareti della città per

coprire i graffiti. [...] Era tutto molto ben organizzato; era un processo molto attinente al corso

che ci ha dato l’opportunità di entrare in contatto con questa associazione così ché ci

sentivamo ancora di più a Roma, voglio dire, ci sentivamo di più della città, potendo

partecipare, collaborare con la città in questo modo. [...] Dipingere i lampioni di Piazza

Venezia... è un buon modo di lasciare la propria impronta in una città.”

34

4.3 Fruizione dei media

Il contatto con i mezzi di comunicazione è indiscutibilmente un modo per entrare in contatto

con l’attualità di un paese. Per questo motivo è stato chiesto agli intervistati di descrivere il

loro rapporto con i media durante il loro periodo di permanenza all’estero.

Andrea S., durante il suo anno a Tolosa, si è tenuta informata principalmente attraverso i

notiziari televisivi. Allo stesso modo, Mireia R. ha dichiarato di guardare regolarmente la TV

durante i pasti per essere aggiornata sulle ultime notizie. Però all’inizio, ha dichiarato, il

contatto con i mezzi di comunicazione era pressoché nullo, anche a causa della conoscenza

scarsa della lingua. Poi, per cause definibili “eccezionali”, ha incrementato la fruizione dei

media: “Durante i mesi in cui ero a Roma ci furono degli eventi molto importanti a livello

internazionale, come l’attacco a Charlie Hebdo e l’avanzata dello Stato Islamico. Ci tenevamo

informati per via della minaccia di presunti attacchi a Roma.”

Pietro C., a Lancaster preferiva tenersi aggiornato sullo sport: “L’unico mezzo di

informazione che compravo in Inghilterra erano i giornali sportivi, perché mi interessava la

differenza con quelli italiani. Poi ascoltavo il telegiornale nazionale inglese, che mi

interessava anche per fare un esercizio linguistico. Ma i giornali sportivi locali mi

incuriosivano molto, quindi li compravo con piacere. Mi sembravano più belli, ma forse è

dovuto al fatto che semplicemente erano diversi da quelli a cui siamo abituati noi.”

Paolo T., parlando del suo contatto con i media a Porto, specifica che è stato molto restio ad

approfondire l’attualità portoghese. Nonostante ciò, il suo interesse per la cultura portoghese

l’ha comunque portato a rapportarsi con una grande quantità di contenuti mediali di genere

diverso da quello puramente informativo: “Non mi sono interessato molto alla politica e a

cose così. All’inizio ho comprato dei giornali, ma soprattutto per imparare la lingua. Mentre

ho cercato di avvicinarmi molto alla cultura. Facevamo lezione all’università in una classe da

dieci persone, ed è una cosa che mi è piaciuta molto (nelle lezioni a Napoli siamo

quattrocento). Così è molto meglio studiare medicina, perché puoi fare molta più pratica. Ad

ogni modo, ho sottoposto a ognuno di loro un questionario, in cui ho chiesto loro di scrivermi

i migliori film portoghesi, le migliori band musicali portoghesi, i migliori libri portoghesi, e

incrociando i dati statisticamente ottenuti da dieci persone ho scelto quali film vedere, quali

libri leggere.”

5. Le relazioni interpersonali in Erasmus

Nelle interviste, un particolare focus è stato incentrato sulle relazioni che gli studenti

intrattenevano durante la loro permanenza all’estero. Come si relazionano gli studenti che

studiano in un altro paese? Con chi trascorrono la maggior parte del loro tempo? I legami che

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gli individui instaurano sono l’elemento chiave del capitale sociale di cui si è parlato nel

capitolo precedente. Ma si tratta di legami deboli destinati a dissolversi alla fine dell’Erasmus,

o possono resistere nel tempo, anche dopo il ritorno nel paese d’origine? Questi sono gli

interrogativi che hanno ispirato gran parte di questa ricerca.

Quasi tutti gli studenti intervistati hanno dichiarato di aver trascorso la maggior parte del loro

tempo a contatto con studenti di altre nazionalità. L’unica eccezione è Mireia R., che durante

il suo soggiorno a Roma ha frequentato principalmente catalani: “Il gruppo con il quale

trascorrevo più tempo era un gruppo di studenti Erasmus catalani. C’erano anche italiani.

Eravamo catalani, maiorchini, che vivevano in un appartamento con due italiani, perciò

quando ci riunivamo, eravamo tre italiani e il resto catalani.”

Questo di Mireia R., come vedremo in comparazione con le altre testimonianze, è un caso che

rappresenta una situazione ben precisa: studenti Erasmus che preferiscono frequentare loro

connazionali all’estero. Addirittura, essendo molto forte in Catalogna il sentimento

nazionalista e indipendentista, nei gruppi a cui apparteneva l’intervistata non c’erano studenti

“spagnoli”, ovvero provenienti da altre regioni della Spagna: “Cercavamo di evitare gli

Erasmus spagnoli per evitare questioni con loro.” La ragione di questa chiusura al confronto e

al dialogo è imputabile al fatto che il dibattito sull’indipendenza della Catalogna sia stato

portato allo stremo, discusso in ogni forma e momento per molti anni, e gli studenti che

trascorrono dei mesi all’estero preferiscono evitare l’occasione di discuterne. Da sempre, nella

cultura catalana prima che spagnola, c’è una ritrosia nei confronti degli argomenti

particolarmente controversi, e questo non facilita di certo un sano dibattito pubblico. Basti

pensare alle insegne conservate nei bunker scavati a Barcellona per proteggere i cittadini dalle

bombe della Seconda Guerra Mondiale, che recitavano: “Vietato parlare di politica e di

religione.”

Paolo T. ha vissuto una situazione opposta: “Ho frequentato principalmente portoghesi. Poi

ho fatto amicizia con un ragazzo Polacco, e la Polonia per me è stata una grande scoperta.

Prima dell’Erasmus non sapevo quasi niente della Polonia. E ho scoperto che è un paese

grande, molto molto civile, molto avanzato culturalmente. Un’altra nazionalità che ho

scoperto sono i brasiliani, che ho potuto comparare con gli ‘europei’.” Poi, parlando delle

altre nazionalità con cui è entrato in contatto, dice qualcosa che trova conferma nella

testimonianza di Mireia R. appena riportata sopra: “C’erano molti spagnoli, e una cosa che ho

notato è che tendevano a formare grossi gruppi chiusi, così come i francesi e gli italiani. Un

po’ forse per il fattore linguistico: siamo molto chiusi e restii a parlare inglese. Non succedeva

con i polacchi, i belgi, gli inglesi, olandesi e altri nord-europei, anche i tedeschi erano molto

aperti, tendevano tutti a unirsi più facilmente.”

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Le relazioni che ha intrattenuto Andrea S. durante il suo periodo trascorso all’Università di

Tolosa sono figlie della sua esperienza pregressa in Francia e della sua intenzione di

concentrarsi sull’apprendimento dei dialetti francesi: “Ho frequentato principalmente francesi.

Non conoscevo tutti, ma mi bastava conoscere una persona di un gruppo per arrivare a

conoscerli tutti e stare con loro. Non ho frequentato molto studenti di altre nazionalità, perché

in Francia ci sono andata per lo studio, per il Francese, e mi piace molto studiare i dialetti. Se

stai con gli altri Erasmus non puoi imparare bene i dialetti, perché si tende a parlare inglese.”

Come da lei stesso indicato, avere già delle conoscenze rende molto più agevole l’accesso a

nuove cerchie di persone.

Pietro C., delle relazioni intrattenute all’Università di Lancaster ha raccontato: “Ho

frequentato indistintamente spagnoli, spagnoli, inglesi, francesi, tedeschi, ciprioti, cinesi,

americani, azeri, serbi, croati e poi c’erano sudamericani. Mi ritrovavo più spesso a contatto

con ciprioti e cinesi, che mi apparivano più amichevoli. E un amico della Repubblica Ceca.

Un ceco, un azero, un cipriota e una cinese e io: era questo il nostro gruppo.”

Cosa sia rimasto di queste relazioni una volta terminata la permanenza di studio

nell’Università straniera, lo si vedrà nel prossimo paragrafo interamente dedicato al periodo

successivo al ritorno nel paese d’origine.

6. Dopo l’Erasmus

Gli intervistati hanno raccontato esperienze riguardo il loro rapporto con ciò che hanno

vissuto durante il loro Erasmus dopo il ritorno nel paese d’origine. Agli intervistati è stato

chiesto di descrivere i loro rapporti con le persone incontrate e con la lingua praticata durante

la permanenza all’estero, e se il loro atteggiamento verso eventuali soggiorni – per studio o

per lavoro – futuri all’estero fosse stato in qualche modo cambiato dall’esperienza Erasmus.

6.1 Il rapporto con la lingua

Paolo T., che nel suo anno trascorso all’Università di Porto si è impegnato per vivere una vita

quanto più intensa possibile per conoscere a fondo la cultura portoghese, una volta tornato

all’Università di Napoli ha preferito continuare in qualche modo la sua esperienza, in una

sorta di Erasmus prolungato: “Subito dopo il mio ritorno, ho scoperto che due ragazzi della

mia università in Portogallo sarebbero venuti in Erasmus a Napoli. Non ci ho pensato due

volte e mi sono buttato a vivere con loro. E quindi eravamo io, questi due portoghesi e un

austriaco. Così sono riuscito a mantenere l’utilizzo costante della lingua. Poi loro sono andati

via dopo sei mesi e sono arrivate persone di altre nazionalità, ma restando sempre in ambiente

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Erasmus, perché sono rimasto in quest’ambiente anche a Napoli. Parlo sempre in portoghese

con quelli che incontro.”

Mireia R., dopo essere tornata all’Università di Girona cerca di non perdere l’abitudine di

leggere in italiano: “Adesso mi piace molto vedere e leggere cose in italiano, mi emoziona

perché riesco a capirlo. Attraverso internet riesco a restare aggiornata, continuo a seguire la

pagina facebook del Messaggero e perciò spesso leggo notizie in italiano. Ho anche comprato

alcuni libri in italiano che voglio leggere. [...] Poi, per rimanere esercitata anche con l’italiano

parlato, una volta tornata a Girona ho contattato gli studenti Erasmus italiani nella mia

università, perché conoscendo la lingua potevo aiutarli se era necessario.”

Andrea S., dopo il suo primo Erasmus a Tolosa ha deciso di studiare all’estero una seconda

volta grazie all’Erasmus+, che permette di usufruire di borse di studio anche a chi ne ha già

usufruito in passato. Ora studia all’Università di Napoli, e tra i suoi coinquilini c’è una

studentessa francese: “Dopo il primo Erasmus ho meno occasioni di parlare francese, ma

attualmente vivo con una ragazza Francese che casualmente viene da vicino Tolosa. È molto

bello perché posso parlare Francese con lei, perché è più facile per me. Ci capiamo meglio.

Ma quando usciamo di casa parliamo italiano.”

Il caso di Pietro C. può considerarsi un caso a sé stante: l’uso della lingua inglese, soprattutto

in ambienti lavorativi moderni e dinamici come il suo, è molto comune. “Poi siamo

costantemente a contatto con contenuti in lingua inglese. Devo ammettere che non è per

niente difficile rimanere allenato”, ha aggiunto.

6.2 Il rapporto con le persone

Quello che resta delle relazioni è senza dubbio figlio dell’ambiente in cui queste si sono

formate durante il periodo della permanenza all’estero. Gli studenti intervistati hanno avuto

esperienze molto diverse tra di loro, e a conferma di ciò i loro racconti sulle relazioni che

ancora intrattengono con le persone che hanno conosciuto in Erasmus divergono molto uno

dall’altro.

Mireia R. ha raccontato di essere ancora in contatto con le compagne di corso italiane, con cui

parla a volte attraverso Facebook. “Sono in contatto anche con gli altri studenti Erasmus che

sono rimasti tutto l’anno a Roma. È un’amicizia che credo sopravvivrà: ci rivedremo

sicuramente, anche perché vivono tutti vicino la Catalogna.” Essendo il suo gruppo

principalmente formato da catalani, non sarà difficile per lei mantenere dei forti contatti dopo

la fine dell’Erasmus.

Paolo T., invece, ha una relazione affettiva molto forte con l’Università di Porto e con le

persone che ha incontrato lì. Ha raccontato che, quando può, torna a Porto per visitare la città

38

e i suoi amici: “Quando sono tornato in Portogallo in visita alla città ho avuto una

dimostrazione di affetto e di amore da parte dei colleghi all’università inimmaginabile. Sono

stato sommerso da abbracci, saluti, birre offerte da tutte le direzioni. Molti mi hanno detto che

avevano sentito la mia mancanza. Quindi il rapporto che ho stabilito durante l’Erasmus è

ancora forte tutt’oggi. Forse se fossi stato ancora più aperto con quelli che incontravo potevo

raggiungere questi livelli anche con studenti di altri paesi d’Europa, ma dato che ero in

Portogallo avevo deciso di essere [come] uno studente portoghese, quindi questo rapporto

speciale ce l’ho solo con loro.”

Ancora diverso è il caso di Pietro che, come è stato già riportato in precedenza, non ha avuto

una buona sensazione delle relazioni stabilite nel contesto universitario, soprattutto tra gli

studenti in Erasmus. “Dopo l’Erasmus il mio contatto con l’Inghilterra è scarsissimo. Le

persone che ho conosciuto e frequentato in Inghilterra, praticamente, non le sento più.

Ovviamente, se dovessi risentirle domani mi farebbe piacere, perché non ci siamo lasciati in

cattivi rapporti, ma comunque non ci sentiamo regolarmente. Dei legami che ho costruito lì

non è rimasto niente, come se fosse stata un’esperienza a sé stante. È come se l’avessi fatta e

lasciata lì, non mi sono portato niente di duraturo nel tempo. [...] Il motivo l’ho già detto:

forse è perché non l’ho vissuto davvero come avrei voluto, l’ho visto come una situazione in

un contesto molto forzato, [...] senza la spontaneità non ho avuto voglia di voler continuare

quell’esperienza. Con il mio compagno di Salerno, con cui sono stato lì a Lancaster, invece,

mi sento regolarmente e mi fa anche piacere quando parliamo o ci vediamo. Ecco: andando

all’estero ho apprezzato ancora di più la cultura italiana. [...] Mi sono trovato meglio con

questo ragazzo di Salerno che con molti degli stranieri che ho conosciuto. Con lui

condividevo anche la provenienza campana, quindi è come se mi fossi portato un pezzo di

casa lì che a Milano mi mancava.”

Andrea S. ha raccontato di essere rimasta in contatto con almeno venti persone dell’area di

Tolosa. Tra queste persone, soltanto poche le conosceva già prima dell’Erasmus ma, come già

scritto, sono state d’importanza fondamentale per arrivare a conoscere le altre: “Dopo

l’Erasmus ho ancora molti rapporti con le persone che ho conosciuto lì. Sono tornata molte

volte, quando potevo, a Tolosa. Uno o due mesi fa, ad esempio, ho dovuto scrivere un paper

di 30 pagine sull’influenza dell’occitano nella lingua meridionale francese. Allora ho chiesto a

tutti i miei amici di Tolosa di inviarmi una registrazione della loro voce e poi ho fatto la

trascrizione per analizzare il dialetto. Mi hanno aiutato molto, veramente. Attraverso

Facebook e Whatsapp è stato molto facile contattarli e farmi inviare le registrazioni. Mi

servivano alcune parole in particolare da analizzare, allora ho fatto delle domande su alcuni

temi in generale, senza dire perché mi servivano queste registrazioni. Ho contatto con circa

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venti persone, non solo dell’Università. Molti amici che ho incontrato lì grazie ad amici in

comune, che studiavano in altre facoltà o che lavoravano. All’Università preferivo seguire le

lezioni, che mi interessavano molto. Forse è per questo che non ho approfondito molto la

relazione con i miei compagni di corso.”

6.3 Lavorare o studiare all’estero

Molte ricerche hanno dimostrato che partecipare al programma Erasmus incrementa la

tendenza degli studenti a trasferirsi all’estero per studio o per lavoro. Gli intervistati hanno

dato risposte diverse, ma tutti hanno confermato che grazie alla loro esperienza si sentono più

sicuri e “pronti” per affrontare un eventuale trasferimento all’estero.

Paolo T. l’ha spiegato così: “Prima di tutto mi sento pronto a farlo. Ho gli elementi essenziali

per vivere da subito bene in un altro posto, senza problemi.[...] Perciò avevo deciso di fare un

altro Erasmus. Poi ho riconsiderato bene tutte le opzioni e ho deciso di rifare una cosa del

genere ‘in piccolo’, in Brasile e non in Europa, per un tirocinio di un mese.” Nonostante

questo, però, non è molto sicuro sull’eventualità di trasferirsi permanentemente all’estero in

un prossimo futuro: “Ci sto pensando, perché la specializzazione in medicina è strutturata

meglio e offre molte più possibilità all’estero, però mi dispiace tanto, perché sono convinto

che l’Italia sia bella, la lingua italiana è bella. Io se avessi l’opportunità di restare lo farei,

perché non credo che esistano posti più belli. Se devo dire la verità, però, ci sono più

probabilità che vada via che non di rimanere. Ci sono posti bellissimi in Italia, ma forse per

questioni più pratiche, lavorative, probabilmente dovrò andare via. Sono pronto a farlo,

probabilmente lo farò, ma non perché penso che ci sia un posto migliore dell’Italia.”

Mireia R., al ritorno dal suo Erasmus a Roma sostiene che non avrebbe più paura di trasferirsi

all’estero. Però questo non significa che lo farà: “Da un lato sono più cosciente delle difficoltà

che ci sono vivendo all’estero, perché le ho vissute. Mi ha aiutato a conoscere me stessa,

come reagisco in queste situazioni. E questa [...] esperienza fa che io non abbia paura di

andarmene all’estero, se devo andarmene nei prossimi anni, anzi, lo farei. Dall’altro lato,

andarsene all’estero aiuta ad apprezzare molto quello che si ha [nel proprio paese].”

Pietro C., avendo le idee più chiare sul suo futuro, dice di essere quasi sicuro di restare in

Italia. Riguardo a eventuali periodi di studio all’estero ha detto: “Se dovessi stare all’estero

per studio o per lavoro, sicuramente sarei più pronto perché è una base che ti fortifica in tal

senso. Non sarebbe la mia prima volta, quindi sicuramente mi darebbe una certa tranquillità –

avrei meno timore. Fermo restando che non penso di andare all’estero. L’Erasmus non mi ha

spinto a voler andare all’estero, a restare fuori, a esplorare altri paesi in maniera permanente.

Però la pulce nell’orecchio me l’ha messa, e quindi viaggiare all’estero sì. Dopo aver visto

40

Lancaster, mi sono reso conto che potrebbero essere attraenti molte località che non si

considerano mai quando si vuole organizzare un viaggio in un paese straniero. In fin dei conti,

la bellezza delle città straniere si può ritrovare nelle città più piccole, dove si è conservata

meglio la tipicità dei posti. A Lancaster ho proprio vissuto l’Inghilterra della campagna,

rustica, con il fiumiciattolo che attraversa la città e le persone che parlano in un dialetto

incomprensibile. Questo si, mi è rimasto.”

7. Considerazioni ex-post sull’Erasmus

Ogni intervistato era cosciente che le proprie impressioni sul programma Erasmus fossero

inevitabilmente condizionate da quello che essi avevano vissuto personalmente. Eppure in

tutti i casi, anche nel caso di un’esperienza per certi aspetti “deludente”, tutti hanno espresso

un’opinione positiva del programma Erasmus in generale, dimostrando un atteggiamento

molto favorevole verso questo tipo di programma di scambio accademico.

Andrea S. ha affermato che: “L’Erasmus è un programma molto importante. Ti permette di

capire veramente come funziona l’università in un altro paese e per un anno puoi fare la vita

di uno studente francese o italiano, ad esempio. Però dipende da te. Molti studenti Erasmus,

ad esempio, non sono molto interessati e quindi restano tra di loro, in gruppi chiusi e non si

integrano bene con gli studenti locali. Io per questo ho sempre cercato di evitare gli altri

studenti Erasmus. Però sì, è una cosa molto importante. Ci sono anche altri programmi minori

per la mobilità, ma l’Erasmus dà molte più opportunità in termini di numero di borse e di

collaborazioni tra università. È una bellissima esperienza, in generale. Però dovrebbero

esserci più studenti che partecipano. Nella mia università, ad esempio, gli studenti di lingua

fanno più Erasmus di quelli di materie tecniche, come informatica o ingegneria. È vero che

essendo una grande occasione per imparare bene una lingua gli studenti di lingua forse sono

più interessati a partire. Ma un’esperienza del genere sarebbe molto utile per tutti.”

Mireia R. ha affermato che il programma Erasmus sia necessario. Come anche altri

intervistati, ha sottolineato l’importanza che ha in ambito personale: “Credo che il programma

Erasmus sia necessario. Per me è stato molto utile personalmente e accademicamente, però in

primo luogo personalmente. È un’esperienza positiva per capire bene quello che uno vuole

fare nella sua vita.”

Pietro C. ha dichiarato di ritenerlo “veramente utile dal punto di vista accademico.” Ha poi

aggiunto: “Dopo aver fatto l’Erasmus ho seriamente pensato di voler fare la specialistica

fuori. Perché mi sono reso conto della differenza tra il sistema accademico italiano e uno di

un altro paese europeo qualsiasi, in questo caso quello inglese. [...] Quindi dal punto di vista

accademico, la trovo un’esperienza assolutamente positiva. Mi sono trovato benissimo.

41

Avevo 9 ore di lezione a settimana, quelle che qui si fanno in un giorno. E ricordo molto

meglio le cose che ho studiato lì nove ore a settimana che quelle che ho fatto qui per ore e ore

di corsi in più. E questo era l’ammontare medio di uno studente: ho seguito gli stessi corsi di

un qualsiasi studente inglese.” Essendo stato molto aspro in alcuni passaggi dell’intervista, ci

ha tenuto a specificare: “Non vedo grosse criticità nell’Erasmus, che in sé e per sé la vedo

un’ottima opportunità. Il problema non è l’Erasmus, ma la testa di quelli che vanno a fare

l’Erasmus. Tendenzialmente è questo il mio punto di vista.”

Paolo T., dell’Università di Napoli, ha enfatizzato l’importanza di vivere all’estero, a

prescindere dal paese di destinazione: “Scopri quanto davvero ti può lasciare vivere in un

altro posto. Non dipende dal posto in cui vai. Conta di più il semplice fatto di essere in

contatto con una cultura diversa. Questo ti rende più flessibile, più aperto... possono sembrare

dei luoghi comuni, ma è così. Prima di partire avevo paura, ma tutti mi rassicuravano e mi

dicevano: parti, parti, parti. Era un imperativo. Dopo un anno di Erasmus mi sono ritrovato a

fare lo stesso. Ora sono tra quelli che lo dicono agli altri: parti, perché ti cambia tutto, dentro

di te e nella tua vita futura. Io credo davvero che avrei preso strade molto diverse se non

avessi fatto l’Erasmus. Quest’apertura verso il mondo e verso queste esperienze mi abbia fatto

molto bene.”

Sul programma Erasmus in particolare il suo giudizio è entusiasta: “L’Erasmus è un’idea

geniale [...]. È un’esperienza che agisce in due modi diversi: sulla singola persona, aprendola

all’Europa e al mondo, e aprendola anche interiormente verso l’esterno, verso

l’internazionalità; poi lavora sulla comunità, perché in qualche modo ogni anno, in un sacco

di città grazie a questo progetto si incontrano persone di altri paesi che imparano a conoscersi,

a tollerarsi, a conoscere le cose che hanno in comune. E poi l’Erasmus ti fa capire una cosa

importante: c’è scelta. Niente ti costringe a restare dove sei. Per nessun motivo al mondo devi

restare nel posto dove sei nato, puoi fare quello che ti pare. Puoi prendere e andare in

Danimarca, o in Cile, e vivere la vita che vuoi. Questo lo sapevo prima ma sul piano teorico.

Vivevo nella provincia di Napoli e ogni probabilità diceva che mi sarei laureato in medicina a

Napoli e che avrei lavorato come medico a Napoli, o a Torre del Greco, chissà. Dopo ti rendi

conto che questa è una visione molto ristretta di quello che potresti fare. Non è detto che alla

fine tu non lo faccia. Ma se lo fai è per scelta. Hai la scelta. Magari non vuoi vivere la tua vita

a Napoli ma a Madrid, o a Parigi. Se vuoi puoi cambiare qualsiasi cosa. L’Erasmus ti insegna

che una vita differente è possibile.”

42

Capitolo 4. Una relazione tra l’esperienza Erasmus e l’identità Europea?

In questo capitolo si tenterà di tracciare delle conclusioni sul lavoro di ricerca svolto e

illustrato nel capitolo precedente: ovvero, se e in che modo la partecipazione al programma

Erasmus intervenga nella formazione o nel rafforzamento dell’identità Europea, tenendo

conto anche del concetto di capitale sociale.

1. Cos’è davvero l’identità Europea

Negli studi effettuati precedentemente sull’identità Europea, principalmente quantitativi,

l’identità europea veniva ricercata attraverso indicatori, dal grado di attaccamento all’Unione

Europea come istituzione politica sovranazionale e all’affermazione (o negazione) del proprio

grado di “sentimento europeistico”, indagato direttamente attraverso specifiche domande. Nel

caso di questo studio, invece, nella traccia dell’intervista non c’era neanche un accenno al

supporto o meno nei confronti delle istituzioni UE o alla percezione che gli intervistati

avessero di se stessi come Europei. L’attenzione è stata posta piuttosto sulle relazioni che

questi hanno intrattenuto, su come quindi abbiano vissuto la loro esperienza di mobilità

accademica in un altro paese europeo. La ragione alla base di questa scelta è una diversa

concezione di identità Europea, che prescinde la fedeltà e l’attaccamento agli organismi

ufficiali attualmente incaricati di governare l’Unione e che si focalizza invece

sull’immedesimazione con le altre nazionalità che ne formano parte.

Interrogare uno studente sul suo atteggiamento nei confronti dell’Unione Europea – prima,

durante e dopo l’Erasmus – potrebbe non rivelarsi un metodo adatto allo scopo di indagare la

relazione tra mobilità accademica e identità Europea. Potrebbe, ad esempio, accadere un

evento, o potrebbe essere nel frattempo attuata una politica controversa tale da modificare la

percezione dell’intervistato, a prescindere dalla permanenza all’estero per il programma

Erasmus. Questo fa sì che l’intera impostazione usata nelle ricerche di tipo quantitativo possa

esser messa in discussione, dal momento che si fonda su risposte a domande molto dirette,

molto difficili da delineare proprio perché il tema di cui si parla non è tanto facilmente

definibile.

Riprendendo l’affermazione di Umberto Eco, secondo cui l’Erasmus ha creato la prima

generazione di giovani europei, si può dire che per dare una svolta agli studi sull’identità

Europea c’è bisogno dell’intervento attivo di coloro che realmente sanno di cosa stanno

parlando, ovvero di coloro che hanno avuto la fortuna di nascere in una generazione che più di

ogni altra nella storia dei popoli europei ha potuto godere dei benefici offerti dal processo di

integrazione Europea.

43

L’identità europea osservabile in questa ricerca è di natura, quindi, profondamente diversa.

Pur non facendo mai esplicito riferimento alle istituzioni UE, alcuni intervistati hanno

raccontato di aver vissuto un’esperienza che si avvicina molto a quella dei loro colleghi

stranieri: hanno avuto l’occasione di lavorare e collaborare con loro in progetti universitari,

hanno deciso in alcuni casi di vivere con loro, hanno trascorso la maggior parte del loro

tempo extra-curriculare con loro. Per tutta la durata della loro permanenza, quindi, invece che

italiani, austriaci e spagnoli, sono diventati italiani e portoghesi, austriaci e francesi, spagnoli

e italiani. Quest’aspetto di multi-nazionalità è la chiave della cosiddetta identità europea. Non

si tratta neanche di riconoscersi come Europei. Per quella ragione, come suggerito ad esempio

dalla testimonianza di chi è entrato a contatto con studenti internazionali, sarebbe anzi più

utile effettuare uno scambio accademico internazionale, per riscoprire l’appartenenza a uno

schema culturale comune attraverso il confronto con modelli completamente diversi. Si tratta

piuttosto di avere un’esperienza diretta degli ideali alla base del progetto europeo: convivenza

pacifica, solidarietà, cooperazione, conoscenza dell’altro.

2. Conoscere l’Europa attraverso l’Erasmus: l’importanza dei legami

L’Erasmus sarebbe, dunque, un modo conoscere da vicino le diverse nazionalità europee e

imparare a conviverci. L’uso del condizionale è reso necessario da quanto emerge dalle

interviste effettuate: non sempre questo accade, di conseguenza non si può dire che l’Erasmus

in sé sia una soluzione efficace alla questione sulla conoscenza reciproca. La mobilità

accademica promossa dal programma Erasmus deve essere intesa piuttosto come uno

strumento: come accade con qualsiasi altro strumento, la sua efficacia è determinata dall’uso

che se ne fa.

Emergono infatti delle differenze importanti tra le esperienze che hanno vissuto i diversi

intervistati coinvolti in questo studio. Tra di loro, quelli che hanno valutato positivamente la

loro permanenza all’estero sono quelli che hanno stabilito legami forti con gli studenti del

luogo e, di conseguenza, con il luogo stesso. Sono quegli studenti che dopo la fine dello

scambio si sono impegnati a curare la loro relazione con i colleghi e le colleghe

dell’università ospitante e che vi hanno fatto ritorno almeno una volta. Questi studenti hanno

una cosa in comune: hanno preferito trascorrere la maggior parte del loro tempo con gli

studenti locali, non con gli internazionali. Ciò non significa che le relazioni con gli altri

studenti stranieri durante lo scambio siano da evitare, o che siano negative. Anzi, anche nel

caso dello studente italiano che ha studiato a Lancaster per tre mesi – che non ha avuto una

buona impressione del programma Erasmus per il modo in cui gli studenti lo vivono – il

contatto con studenti di diversa nazionalità ha favorito il superamento di certi stereotipi e

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quindi una conoscenza più approfondita di culture diverse. Bisogna però sottolineare i rischi

che corrono gli studenti Erasmus che intrattengono relazioni esclusivamente con altri studenti

internazionali. Molto spesso questi gruppi tendono a distaccarsi dal resto degli studenti locali;

parlano una lingua neutra, principalmente l’inglese, e molto spesso la presenza di studenti

locali all’interno di questi gruppi è assai limitata. Ne consegue che, dopo la fine della

permanenza all’estero, il rapporto con il paese ospitante sia molto debole, se non addirittura

inesistente. Gli studenti che decidono di frequentare esclusivamente studenti internazionali,

inevitabilmente, non potranno approfondire la loro conoscenza della cultura locale, e così

facendo rinunceranno a una delle grandi potenzialità del programma Erasmus.

Un caso a parte, degno di menzione, spetta all’eventualità in cui lo studente Erasmus frequenti

principalmente – se non esclusivamente – studenti della sua stessa nazionalità. In questo

caso, i benefici dell’Erasmus si riducono a quelli relativi alla vita lontano da casa, ma di

“apprendimento culturale” c’è ben poco. Anche l’apprendimento della lingua, di conseguenza,

avrà forti limitazioni. Ciò non toglie che uno studente all’estero, seppur frequenti

principalmente persone della sua stessa nazionalità, sia inevitabilmente calato in una realtà

straniera da cui poter attingere informazioni e subire influenze. Ma l’apprendimento

approfondito, seppur inconsapevole, avviene soltanto nel caso in cui si stabiliscono relazioni

forti con persone del luogo. La studentessa austriaca in Erasmus a Tolosa, ad esempio, ha

deliberatamente evitato di frequentare gruppi di studenti internazionali. Così facendo, ha

investito tutto il suo tempo e le sue energie nelle relazioni con studenti francesi, il che le ha

permesso di vivere un’esperienza altamente formativa dal punto di vista culturale. I legami

che ha stabilito sono molto forti, tanto che perdurano ancora a distanza di tempo dalla fine

della sua permanenza. Questi legami, oltre a rappresentare un buon motivo per fare ritorno nel

paese dove ha trascorso una parte del suo percorso universitario, sono entrati a far parte

dell’insieme delle risorse di cui dispone: ne è un esempio il fatto che abbia approfittato del

suo network di contatti in Francia per effettuare una ricerca sull’influenza dell’occitano nella

lingua meridionale francese. Il grado di conoscenza e di fiducia reciproca instauratosi tra lei e

i suoi amici francesi ha fatto sì che tutti rispondessero positivamente alla sua richiesta e

contribuissero attivamente alla sua ricerca. Sotto quest’aspetto, si potrebbe asserire che

l’esperienza Erasmus abbia permesso la creazione di capitale sociale – secondo la visione

individualistica di Coleman. Ma anche dal punto di vista del capitale sociale come bene

relazionale vale la pena fare qualche osservazione. Gli studenti Erasmus come quelli coinvolti

in questo studio, inevitabilmente formano parte di un network di persone che sta rendendo

l’Europa sempre più interconnessa e in continuo dialogo. Le relazioni stesse che si possono

creare grazie alla mobilità universitaria prevista dal programma Erasmus sono una parte del

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capitale sociale di cui dispone l’Unione Europea. E seguendo il ragionamento di Donati e di

quelli che, come lui, sostengono la prospettiva relazionale del capitale sociale, secondo cui a

maggior capitale sociale corrisponde maggior capitale economico, diventa chiara l’importanza

di incoraggiare ancor di più la mobilità accademica e sensibilizzare gli studenti verso un

Erasmus più consapevole dal punto di vista relazionale.

3. Diventare (più) Europei dopo l’Erasmus

Per concludere: si può sostenere che il programma Erasmus giochi un ruolo importante nella

formazione dell’identità europea tra i suoi partecipanti?

La risposta a questa domanda non può essere completamente affermativa, perché come

dimostrano alcune testimonianze, questo dipende in larga misura dal tipo di esperienza che

uno studente vive durante la sua permanenza nel paese ospitante. L’aspetto più lampante che

differenzia i vari tipi di esperienze che uno studente in uscita può compiere è – come già visto

nel paragrafo precedente – il tipo di relazioni che questo intrattiene durante la sua

permanenza. È però impossibile negare le grandi potenzialità del programma nel suo insieme,

che ogni anno permette a decine di migliaia di studenti europei di studiare in un altro paese

dell’Unione.

L’Erasmus offre una prospettiva di com’è la vita in un paese in cui – spesso – le condizioni

economiche e sociali sono molto diverse dal paese d’origine. Però le società sono fatte di

persone: è quindi indispensabile, per rendere uno scambio universitario realmente effettivo

dal punto di vista culturale, promuovere i contatti e le relazioni tra gli studenti internazionali e

quelli locali. Nei paesi in cui la lingua ufficiale è una “lingua minoritaria” (ad esempio

danese, olandese, catalano), è offerta agli studenti l’opportunità di seguire le lezioni e

sostenere gli esami in inglese (o, nel caso del catalano, in spagnolo). In questo caso, c’è il

rischio che il gap tra gli studenti internazionali e quelli locali si dilati, perché i primi non

ricevono gli stimoli sufficienti per avvicinarsi alla lingua, e quindi alla cultura, dei secondi. In

quest’ottica, delle attività didattiche obbligatorie riguardo la cultura del paese ospitante

potrebbe essere un modo per rendere l’Erasmus più effettivo in tal senso. Per attività

didattiche non si intendono soltanto corsi effettuati in aula, ma anche attività outdoor che

coinvolgano studenti locali perché mostrino agli altri studenti stranieri le tradizioni, le usanze

e le abitudini della cultura locale. Questo avrebbe il duplice vantaggio di favorire i contatti

con gli studenti locali e di aumentare la consapevolezza culturale degli studenti coinvolti nel

programma Erasmus.

In ultima analisi, è possibile affermare che ci sono le basi perché il programma Erasmus

diventi ancor di più uno strumento che promuova e rafforzi l’identità Europea tra i suoi

46

partecipanti. È bene tornare a sottolineare, però, che questo non ha nulla a che fare con

l’attaccamento nei confronti degli organismi ufficiali dell’Unione Europea e delle politiche

che questi attuano. L’identità europea è piuttosto una forma di sentire e di essere, che

dovrebbe idealmente ispirare tali politiche europee in un’ottica di coesione e di solidarietà di

fatto (per questo, come ha auspicato Timothy Garton Ash [2014], le nuove generazioni di

giovani europei sono quelle che meglio sapranno mettere in atto il progetto di integrazione

europea così come fu pensato dai padri fondatori dopo la seconda guerra mondiale). Indagare

l’identità europea attraverso il grado di attaccamento alle istituzioni UE, come è già stato

detto, può comportare distorsioni. Indagando in quest’ottica la funzione che ha il programma

Erasmus nel rafforzamento dell’identità europea, nel caso che l’ipotesi fosse confermata,

risulterebbe che il programma in sé funzioni come una macchina del consenso, mentre ha

invece le potenzialità per diventare propulsore di un’identità europea condivisa.

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Conclusioni

Per concludere, sembra doveroso sottolineare la funzione che potrebbe svolgere – e che in

parte già svolge – il programma Erasmus nella creazione di un’identità europea, intesa come

identità multinazionale. Per molti studenti europei, come quasi la totalità degli intervistati

coinvolti in questo studio, la partecipazione al programma Erasmus rappresenta la prima vera

forma di contatto con l’Europa: approfittano di fondi strutturali – una quota crescente dei

quali è appunto destinata al programma – per diventare studenti di un’altra università europea

per un periodo di tempo limitato. Al loro ritorno, gli esami che hanno completato vengono

riconosciuti dall’università di origine e vengono convalidati, rendendo così esplicito e visibile

il processo di unificazione dello spazio d’istruzione europeo. Si potrebbe anche aggiungere

che, nel momento di cercare un lavoro, la loro esperienza sarà valutata positivamente dagli

employers. Su questo e sugli altri aspetti citati sono già stati svolti studi approfonditi.

Nonostante ciò, non bisogna sottovalutare l’importanza che assumono i legami che

intrattengono gli studenti Erasmus per la formazione della loro identità europea, come questo

studio dimostra. Ad ogni modo, data la scottante attualità del tema, è innegabile che la

formazione dell’identità europea continuerà ad animare il dibattito accademico nei prossimi

tempi. A tal proposito è auspicabile che ulteriori studi, sia qualitativi che quantitativi,

facciano più chiarezza al riguardo, tenendo in dovuto conto anche l’importanza dei legami.

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