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Giuseppe Falcone “Obligatio est iuris vinculum” G.Giappichelli Editore – Torino 1
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Giuseppe Falcone

“Obligatio est

iuris vinculum”

G.Giappichelli Editore – Torino

2003

1

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1. Le ragioni di una nuova ricerca sulla definizione di obligatio.

La definizione di obligatio conservata nelle Istituzioni di Giustiniano (J.3.13pr.), ‘Obligatio est iuris vinculum, quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei secundum nostrae civitatis iura’, è forse «il testo giuridico latino più universalmente conosciuto».1 Consegnato con reverentia da una ininterrotta tradizione di studi, che ne ha assicurato in ogni epoca e ambiente la funzione di modello e archetipo per la fissazione del concetto di obbligazione; sottoposto, nel secolo appena trascorso, a severe (e talvolta aspre) verifiche dai romanisti;2

autorevolmente considerato, al di là delle riserve sollevate, come il miglior enunciato generale sul concetto di obbligazione a tutt’oggi escogitato;3 il dettato della definizione è assai familiare alla cultura giuridica tout-court e, forte di una costante considerazione anche presso

1 Così B.ALBANESE, Papiniano e la definizione di ‘obligatio’ in J.3,13pr., in SDHI, 50, 1984, 168 = Scritti giuridici II, 1991, 1658 (d’ora in poi citeremo da SDHI).

2 Tra gli studi appositamente dedicati alla definizione occorre ricordare, oltre alla citata indagine dell’Albanese, A.MARCHI, Le definizioni romane dell’obbligazione, in BIDR 29, 1916, 5ss.; E.ALBERTARIO, Le definizioni dell’obbligazione romana, in Scritti giuridici, III, 1936, 1ss. (già in Scritti in onore di F.Ramorino, 1927, 391ss.); G.SCHERILLO, Corso di diritto romano. Le obbligazioni (Diritti reali e obbligazioni. Storia e concetto dell’obbligazione), 1937, 149ss.; ID., Le definizioni romane dell’obbligazione, in St. Grosso, IV, 1971, 97ss.; A.BISCARDI, «Secundum nostrae civitatis iura», in Studi Senesi, LXIII.1, 1951, 40ss.; L.LANTELLA, Note semantiche sulle definizioni di «obligatio», in St. Grosso IV, 1971, 165ss.; C.A.CANNATA, Le definizioni romane dell’«obligatio». Premesse per uno studio della nozione di obbligazione, in Studi in memoria di G.D’Amelio, I, 1978, 132ss.; G.MANCUSO, A proposito della definizione di «obligatio» (I.3.13pr.), in Panorami 2, 1990, 166ss.; A.GUARINO, ‘Obligatio est iuris vinculum’, in SDHI 66, 2000, 263ss. (= Iuris vincula. Studi in onore di M. Talamanca, IV, 2001, 343ss.; in seguito citeremo da SDHI). Anche in lavori non specificamente incentrati sulla definizione di obligatio si trovano riferimenti importanti ad essa; per questi rinviamo alle citazioni che di volta in volta compiremo.

3 Così, ad es., G.SEGRÉ, Obligatio, obligare, obligari nei testi della giurisprudenza classica e del tempo di Diocleziano, in St. Bonfante, III, 1929, 545; M.LAURIA, Contractus, delictum, obligatio, in SDHI 4, 1938, 189; C.CANNATA, ‘Obbligazioni nel diritto romano, medievale e moderno’, in Digesto IV, Discipline Privatistiche, XII, 1995, 412.

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la civilistica,4 sembra avere buone possibilità di sopravvivenza pure in tempi, come quelli che si preparano, di non facile indulgenza verso il materiale giusromanistico. Tuttavia, proprio il predetto radicamento, con la viscosità che esso comporta, ha segnato il destino storiografico della definizione, la quale, anche nel quadro delle ricerche specialistiche, è stata pressocché unanimemente e tralatiziamente intesa come una d e s c r i z i o n e del definiendum. La ricerca che qui presentiamo è, per l’appunto, sollecitata in parte dai dubbi che ci provengono sia da questa generale rappresentazione nel suo complesso sia da singoli, e però determinanti, aspetti di tale modello interpretativo; ma ancor prima, dal fatto che, già in sé considerato, il dettato della definizione solleva interrogativi di notevole peso, che a tutt’oggi non ci sembrano adeguatamente o affatto risolti. Ne segnaliamo di seguito alcuni. Così, ad esempio, l’autore della definizione insiste particolarmente sul profilo della coercizione e della necessità – espresso, oltre che dall’impiego del termine ‘vinculum’, dalla compresenza di ‘necessitate’ e ‘adstringimur’ –, mentre passa rapidamente sui contenuti del dovere, limitandosi ad accennare ad un ‘solvere aliquam rem’. Cosa ha determinato questo macroscopico squilibrio tra le due informazioni?

Ancora, soltanto la definizione di obligatio, tra gli enunciati giuridici a noi pervenuti, si conclude con un riferimento alla conformità ai iura della civitas (‘secundum nostrae civitatis iura’). La circostanza – che ha suscitato presso autorevoli studiosi perplessità e stupore (e addirittura,

4 Limitandoci alla dottrina italiana più recente, la presenza della definizione è saldamente testimoniata, ad es., dai seguenti luoghi: R.DI MAJO, Delle obbligazioni in generale (art. 1173-1176), in Scialoja-Branca (a cura di), Comm. del codice civile, lib. IV, 1988, 1s.; L.BIGLIAZZI GERI-U.BRECCIA-F.BUSNELLI-U.NATOLI, Diritto civile. 3. Obbligazioni e contratti, 1989, 2s.; M.CANTILLO, Le obbligazioni, in Giur. sist. dir. civ. e comm. (fondata da W.Bigiavi), I, 1991, 5 («insuperata formula giustinianea»); U.BRECCIA, Le obbligazioni, in G.Iudica-P.Zatti (a cura di), Trattato di diritto privato, 1991, 22 (“definizione sommaria”, sulla scia delle valutazioni del Cannata, su cui infra, n. 3); M.BIANCA, Diritto civile. 4. L’obbligazione, 1995, 3s. («particolarmente incisiva»); A.TORRENTE-P.SCHLESINGER, Manuale di diritto privato,16 1999, 381. Ma v. anche, risalendo di qualche decennio, M.GIORGIANNI, L’obbligazione. La parte generale delle obbligazioni, I, rist. 1968, 144; ID., v. ‘Obbligazione (dir. privato)’, in NNDI XI, 1957, 592 (con qualche critica); L.BARASSI, La teoria generale delle obbligazioni. I. La struttura, rist. 1963, 9 («ancora oggi possiamo parafrasare l’antica e sempre vera definizione romanistica»); TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile,17 1970, 510s.; P.RESCIGNO, v. ‘Obbligazioni (dir. privato - Nozioni)’, in ED XXIX, 1979, 137.

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in alcuni casi, scandalo e conseguente inclinazione verso la non classicità del testo) – costituisce un dato irrilevante nell’ambito del complessivo dettato oppure siffatta chiusura della definizione ha una puntuale ragion d’essere, che può contribuire a restituire al testo sia l’originaria provenienza sia la portata ed il valore?

E ulteriormente, non si è finora dato il giusto rilievo al fatto che l’intero enunciato si trova ricompreso tra due espliciti riferimenti al ius: la definizione, infatti, oltre a concludersi, come si è appena ricordato, con il termine ‘iura’, si apre con il sintagma ‘i u r i s vinculum’. Ebbene, l’enfatizzazione del ‘giuridico’, che risulta da questi due margini del testo, è un semplice caso, ovvero costituisce una consapevole scelta dell’autore, avente una precisa funzione strategica nella complessiva operazione definitoria?

A questi interrogativi direttamente promananti dal testo (ed altri si mostreranno nel dipanarsi dell’indagine) e alla constatazione sulla tralatizia lettura del testo segnalata in apertura di discorso si aggiungono, poi, come stimoli per una nuova ricerca specifica, due vicende storiografiche della definizione, entrambe di particolare forza attrattiva.

La prima. In ragione della sua trasmissione tramite le Institutiones giustinianee, il nostro testo è adespota. Ora, se un’assunzione metastorica dello stesso aveva determinato, per secoli (eccezion fatta per un isolato spunto di Cujacio), un costante disinteresse per la questione della sua paternità, a partire, invece, dalla palingenesi ferriniana delle fonti del manuale imperiale5 l’individuazione dell’autore del testo ha costituito – complice anche una mutata considerazione della definizione come prodotto storico – oggetto di numerose pronunzie (semplici cenni o meditate prese di posizione), fino a recenti indagini dedicate ex professo al problema.6 Ne deriva una variegata collocazione del testo, che è ritenuto ora appartenente, in generale, all’età classica, ora forgiato da un particolare giurista classico, ora di origine postclassica, ora proveniente dalla mano dei compilatori giustinianei.

La seconda. Nella stagione novecentesca di forte vaglio critico sulla definizione si è diffusa, ed è presente tutt’ora in letteratura, una valutazione negativa nei confronti della concludenza dell’enunciato. A

5 C.FERRINI, Sulle fonti delle Istituzioni di Giustiniano, in BIDR 13, 1901, 172 = Opere , II, 1929, 385 (d’ora in poi, citeremo da codesta riedizione).

6 Ci riferiamo, in particolare, agli studi di Cannata, Albanese, Mancuso e Guarino citati supra, nt. 2.

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prescindere da altri appunti, il rimprovero più severo riguarda l’indicazione dei contenuti dell’‘adstringi’. Invero, la genericità del riferimento al solvere aliquam rem, cui abbiamo poc’anzi accennato, è stata ed è non di rado intesa come una carenza e un segno di scarso valore scientifico della definizione; al punto che, talvolta, questo presunto difetto rappresenta una base da cui muove la convinzione della non classicità del testo. In proposito, peraltro, il dettato di J.3.13pr. è stato, per dir così, penalizzato dalla notazione con cui Paolo in D.44.7.3 scolpisce la substantia obligationum,7 giacché il rigore con cui il giurista severiano precisa che i contenuti dell’ ‘obstringi’ possono consistere in un ‘dare’, ‘facere’ o ‘praestare’ fa risaltare con maggior forza la genericità del ‘solvere aliquam rem’.8

Ebbene, i dati (testuali e storiografici) che abbiamo così rapidamente richiamato stimolano il compimento di un’apposita nuova indagine sulla definizione, nella quale evidentemente i due problemi, quello della cronologia e della paternità del testo e quello del suo significato e del suo valore, si intrecciano in modo indissolubile. Accenniamo assai brevemente e per grandissime linee ai risultati che ci sembra di poter proporre.

Per quel che riguarda l’attribuzione della definizione, riteniamo che essa sia apparsa per la prima volta nelle Res cottidianae, opera che – con la dottrina ormai maggioritaria – ascriviamo direttamente alla mano di Gaio.

Quanto alla valutazione dei contenuti del testo, l’ipotesi che avanziamo è che Gaio non abbia voluto d e s c r i v e r e compiutamente e distesamente la nozione di obligatio, bensì abbia costruito l’enunciato con la finalità esclusiva di fissare un aspetto significativo che potesse d i s t i n g u e r e l’obligatio da altre rappresentazioni concettuali. Tale intendimento specifico dovette suggerire al giurista l’impiego di quei

7 D.44.7.3 (Paul. 2 inst.) ‘Obligationum substantia non in eo consistit, ut aliquod corpus nostrum aut servitutem nostram faciat, sed ut alium nobis obstringat ad dandum aliquid vel faciendum vel praestandum’: esattamente all’opposto di come ha operato l’autore della definizione, il giurista severiano ritiene sufficiente l’impiego del verbo ‘obstringere’ e insiste, invece, sulla compiuta determinazione dei contenuti della prestazione. Il confronto tra i due testi sarà riproposto, da altro punto di vista, infra n. 6.

8 E invero, per secolare tradizione, anche chi si mostra disponibile verso la concludenza e la bontà della definizione di J.3.13pr. avverte il bisogno di intergrarne e chiarirne il dettato ricorrendo alle parole di Paolo. Per un esempio recente cfr. M.TALAMANCA, v. ‘Obligatio’ cit., 19 e nt. 130.

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particolari termini, e non di altri, e il peculiare dosaggio delle diverse indicazioni: contenuti ed assetto interno che, in quest’ottica, anziché risultare insoddisfacenti, appaiono senz’altro adeguati e pregnanti. Soprattutto, secondo il modello interpretativo che proponiamo, a rivelarsi assolutamente centrale e di notevole incisività è la caratterizzazione d’apertura dell’obligatio come ‘iuris vinculum’, la quale, invece, al di là di qualche osservazione generica sull’immagine e sulla terminologia del vincolo, con richiamo più o meno accentuato ai rapporti con l’originario atteggiarsi del fenomeno obbligatorio,9 è per lo più rimasta sullo sfondo del dibattito storiografico: richiamandola nella stessa intitolazione di queste pagine ci è sembrato di restituirle, per dir così, la dignità di fulcro e ragion d’essere dell’intero intervento definitorio. Prima di intraprendere il percorso sommariamente preannunciato, è doveroso avvertire che per motivi di natura redazionale, legati all’estensione del testo, questa ricerca non compare nella sede che avevamo originariamente prevista, e cioè nel secondo dei due volumi degli Annali del Dipartimento di Storia del diritto dedicati a Bernardo Albanese.10 Rimane viva, però, naturalmente, anche al di fuori di quel contesto, la ragione per la quale la pubblicazione di questa ricerca è per noi particolarmente sentita. Si è, infatti, che anche il Maestro ha compiuto, un ventennio addietro, un’apposita indagine sulla definizione di obligatio ed è pervenuto ad un’ipotesi diversa da quella che qui presentiamo. Ebbene, l’inconfondibile confluire, che anima quello come tutti gli scritti del Maestro, dello sforzo argomentativo nella coscienza della relatività dei risultati proposti è per noi modello, stimolo e conforto nel prender parte, con una posizione difforme, ad un dibattitto che proprio quello studio ha inteso rilanciare; e nel suggerire una complessiva lettura che prospettiamo come semplice termine di confronto con altre possibili chiavi interpretative.

2. La definizione non è di origine giustinianea.

9 Cfr. i contributi citati infra, in nt......10 Detto volume, attualmente in corso di pubblicazione, costituisce il seguito

di Annali del Dipartimento di Storia del diritto dell’Università di Palermo, 47.1, 2002 (Studi con Bernardo Albanese, I).

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E’ opportuno avere immediatamente sott’occhio il contesto nel quale si trova inserita la definizione e, cioè, il breve titolo 3.13 ‘De obligationibus’ delle Institutiones giustinianee:

J.3.13pr. Nunc transeamus ad obligationes. Obligatio est iuris vinculum, quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei secundum nostrae civitatis iura. [1] Omnium autem obligationum summa divisio in duo genera diducitur: namque aut civiles sunt aut praetoriae. civiles sunt, quae aut legibus constitutae aut certe iure civili comprobatae sunt. praetoriae sunt, quas praetor ex sua iurisdictione constituit, quae etiam honorariae vocantur. [2] Sequens divisio in quattuor species diducitur: aut enim ex contractu sunt aut quasi ex contractu aut ex maleficio aut quasi ex maleficio. Prius est, ut de his quae ex contractu sunt dispiciamus. Harum aeque quattuor species sunt: aut enim re contrahuntur aut verbis aut litteris aut consensu. De quibus singulis dispiciamus.

Il contenuto, l’articolazione e la posizione stessa di questo titolo rendono manifesto che la prima sollecitazione e il punto di partenza per la ricerca non può che essere l’alternativa fondamentale fra un’attribuzione della definizione all’ambiente della Compilazione giustinianea (e, più specificamente, al compilatore che ha curato il tema delle obligationes) e un accoglimento, nel manuale imperiale, di una definizione preesistente.

In effetti, questa alternativa si impone subito all’interprete già in ragione di una circostanza esterna al tenore della definizione, che induce senz’altro a tener in conto l’eventualità di un più o meno radicale intervento compilatorio. Alludiamo all’interesse, per dir così, strategico che è facile immaginare avvertissero i redattori del manuale imperiale nei confronti di una formulazione generale che fungeva da elemento portante del titolo J.3.13: un titolo che, a sua volta, doveva costituire nel suo complesso la cornice di una trattazione di grande significato per i giustinianei come quella delle obbligazioni11 (e nel quale, infatti, non

11 Basti pensare all’avvicinamento - compiuto, appunto, dai giustinianei - tra il settore delle obbligazioni e l’ambito delle azioni quale si realizza attraverso le stesse rubriche ‘De obligationibus et actionibus’ di D.44.7 e C.4.10 (cfr. infra, n. 6) e attraverso la riunione, nello stesso libro IV delle Institutiones, dei titoli concernenti le obbligazioni da atti illeciti e le actiones.

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manca un significativo intervento compilatorio riguardo alla partizione delle causae obligationum).12

Ebbene, a nostro avviso, quel che anzitutto occorre senz’altro escludere è la possibilità che la definizione sia stata coniata dal compilatore delle Institutiones.13

Questo assunto è, oggi, largamente maggioritario in dottrina, ma assai di rado è stato adeguatamente o, addirittura, specificamente motivato.

Non basta, infatti, mostrare l’inconsistenza degli argomenti che avevano, in passato, indotto qualcuno verso l’attribuzione ai giustinianei; 14 e nemmeno è sufficiente parlare, in modo ellittico, di

12 Il riferimento è, ovviamente, alla quadripartizione ‘ex contractu - quasi ex contractu - ex delicto - quasi ex delicto’ del § 2. Non può considerarsi compilatoria, invece, la summa divisio tra obbligazioni civili e onorarie presente nel § 1 del titolo (cfr. infra, n. 14).

13 Come, invece, è stato sostenuto, in passato, da E.CUQ, Institutions juridiques des Romains, II, 1902, 319 nt. 2 ( il quale ha ritenuto la definizione di origine giustinianea, ma con elementi “empruntés aux classiques”); CUGIA, «Acceptilatio solutioni comparatur», 1924, 26s.; A.HÄGERSTRÖM, Der römische Obligationsbegriff im Lichte der römischen Rechtsanschaung, I, 1927, 29 nt. 1 (con l’avvertenza, però, che «die Ausdrücke vinculum und adstringere sind hier klassischen Juristen entnommen»); e, soprattutto, da E.ALBERTARIO, Le definizioni dell’obbligazione romana cit., 16s.; ID., Corso di diritto romano. Le obbligazioni. Parte generale, I, 1936, 168ss. (seguito da F.SCHULZ, Prinzipien des römischen Rechts, 1934, 32 nt. 35), secondo il quale i classici non avrebbero avuto presente un concetto generale di obbligazione e la definizione di J.3.13pr. sarebbe frutto di una generalizzazione giustinianea di una definizione classica relativa alla sola sponsio (cfr. la nt. seg., nonché n. 9, nt. 197). In tempi recenti cfr., ad es., P.DE FRANCISCI, Sintesi storica del diritto romano,4 1968, 627s. (nell’ordine di idee dell’Albertario); R.VILLERS, Rome et le droit privé, 1977, 312; P.FUENTESECA, Vision procesal de la historia del contrato en derecho romano clasico, in St. D’Ors, I, 1987, 477; DE LOS MOZOS, La clasificacion de las fuentes de las obligaciones en las Instituciones de Gayo y de Justiniano y su valor sistematico en el moderno derecho civil, in Seminarios Complutenses de Derecho romano VI, 1994 (pubbl. 1995), 117s.; A.DELL’ORO, Partizione gaiana del diritto e sua validità odierna, in St. Gallo III, 1997, 410. Da ultimo, U.VINCENTI, in A.Schiavone (a cura di), Diritto privato romano. Un profilo storico, 2003, 354 scrive che Giustiniano «rielaborava verosimilmente uno spunto già presente nella giurisprudenza dell’età del principato». Segnaliamo che il Guarino, che ancora in Diritto privato romano11 , 1997, 803 e nt. ivi, parlava di ‘definizione postclassico-giustinianea’ (seppur ricalcante dettati classici), si è espresso, ora, per la classicità del testo in ‘Obligatio est iuris vinculum’ cit., 263ss.

14 Cfr., ad es., avverso la posizione dell’Albertario (supra, nt. 5), G.SEGRÉ, Obligatio, obligare, obligari cit., 501ss. e spec. 542 nt. 127; G.SCHERILLO, Corso di diritto romano cit., 149ss.; ID., Le definizioni romane dell’obbligazione cit., 98ss.; B.BIONDI, Concetto e definizione di obligatio, in Scritti di diritto romano,

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rispondenza della definizione alle vedute classiche15 o allo stile di un giurista classico.16

D’altra parte, non riteniamo fondato l’argomento che si è voluto trarre, in tempi recenti, dall’interpretazione della parte finale della definizione che compare nel corrispondente luogo della Parafrasi di Teofilo. In particolare, si è osservato17 che l’antecessore, anziché leggere le parole ‘secundum nostrae civitatis iura’ come una precisazione riguardante l’intera nozione di obligatio, come sarebbe stato corretto, vi riconosce un esclusivo riferimento all’elemento del solvere aliquam rem:18 Teofilo spiega che non ogni solutio è efficace e liberatoria, ma

III, 1965, 245s. In particolare, contro l’idea di Albertario, secondo cui il testo di J.3.13pr. consisterebbe in una generalizzazione compilatoria di una definizione classica riguardante la sponsio, è prezioso il rilievo che la definizione del manuale imperiale riguarda il rapporto obbligatorio e non la fonte del rapporto: G.SEGRÉ, Obligatio, obligare, obligari cit., 544 nt. 127; C.A.CANNATA, Le definizioni romane dell’«obligatio» cit., 147 (peraltro, la conclusione che la definizione concerne l’obligatio come rapporto è stata assunta dai due predetti studiosi senza adeguate basi argomentative; sul punto cfr., appositamente, infra, n. 17).

15 Cfr., ad es., P.BONFANTE, Corso di diritto romano. Le obbligazioni, 1918-19, 29 (rist. a cura di G.Bonfante e G.Crifò, 1974, 17); B.BIONDI, Istituzioni di diritto romano3, 1956, 334s.; E.VOLTERRA, Istituzioni di diritto privato romano, 1960, 442s. D’altra parte, lo stesso Bonfante (loc. cit.) nonché PACCHIONI, Concetto e origini dell’obbligazione romana. Appendice I a SAVIGNY, Le obbligazioni, I, tr. it. Torino 1912, 660 e DE RUGGIERO, Le obbligazioni (Parte generale). Corso di diritto romano, 1920-21, 31, non hanno esplicitato in che senso le parole ‘secundum nostrae civitatis iura’ deporrebbero in favore di un’origine classica della definizione.

16 Così, ad es., A.MARCHI, Le definizioni romane dell’obbligazione cit., 32 e DE RUGGIERO, loc. cit.; B.BIONDI, Istituzioni di diritto romano cit., 334 nt. 22 (la definizione «presenta forma e andamento classico»).

17 C.A.CANNATA, Le definizioni romane dell’«obligatio» cit., 155ss. Sulla posizione di questo studioso con riguardo alla cronologia della definizione cfr. infra, n. 3.

18 L’interpretazione di Teofilo era già stata criticata, in passato, ad es. da DONELLUS, Commentariorum de iure civili liber XII, cap. I, in Opera omnia, ed. Lucae 1763, t. III, c. 420ss. e da VINNIUS, In quatuor Institutionum imperialium commentarius, ed. Venetiis 1783, II, 82; ID., Partitionum juris civilis libri quatuor, ed. Venetiis 1736, 123 nt. g. Cfr. anche O.SCHRADER, Imperatori Iustiniani Institutionum libri IV, 1832, nt. ad h.l. In tempi recenti, cfr. A.MARCHI, Le definizioni romane dell’obbligazione cit., 34 e nt. 3; L.LANTELLA, Note semantiche sulle definizioni di «obligatio» cit., 172 nt. 9; C.A.CANNATA, Le definizioni romane cit., 155ss.; B.ALBANESE, Papiniano e la definizione di ‘obligatio’ cit., 170; e, per un cenno, P.VOCI, Istituzioni di diritto romano,4 1994, 353 nt. 1 (diversamente, hanno riferito la chiusura della definizione al ‘solvere rem’, ad es., HOTOMANUS, In IV libros Iustiniani iuris civilis commentaria, ed.

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solo quella che avviene in conformità ai nÒmoi, e ricorda di aver precedentemente mostrato (commentando il titolo J.2.8 ‘Quibus alienare licet vel non’) l’incidenza di questo principio in relazione al caso della solutio compiuta dal o al pupillo senza l’auctoritas del tutore.19 Ebbene, si è affermato che il Parafraste non sarebbe incorso in questo errore se la definizione fosse stata escogitata proprio in quel tempo e proprio nell’ambiente della Compilazione: la definizione, pertanto, dese intendersi come una formulazione più antica, di cui, ormai, si poteva

Venetiis 1569, 228; BORCHOLTEN, In IV libros Institutionum civilium D.Iustiniani Commentaria cit., 364s.; di recente, l’interpretazione di Teofilo è stata difesa da A.BISCARDI, «Secundum nostrae civitatis iura» cit., 47ss., ma nel quadro di una inaccettabile attribuzione delle parole finali ai compilatori giustinianei [infra, n. 16]).

Per parte nostra, riteniamo che la critica alla riconduzione delle parole finali della definizione al solo segmento ‘alicuius solvendae rei’ non sia imposta da ragioni intrinseche al tratto conclusivo in sé preso, come, invece, hanno sostenuto il Cannata e l’Albanese, i due soli studiosi che hanno appositamente giustificato il rifiuto dell’interpretazione teofilina. In particolare, C.CANNATA, Le definizioni cit., 156, ha affermato che il riferimento delle parole in esame al solo elemento della solutio sarebbe insostenibile in quanto «l’adempimento viene spesso giudicato non secondo principi del diritto oggettivo, ma secondo le concrete previsioni delle parti, secondo principi tecnici, etc.»; tuttavia, lo stesso Cannata traduce le parole finali con l’espressione “regole del nostro diritto positivo” (op. cit., 148) e nulla impedisce di immaginare che il giurista classico ricomprendesse tra le ‘regole della civitas’ anche lo stesso il ricorso a principi tecnici, la stessa libertà per i contraenti di stabilire le modalità della solutio, e via dicendo. Dal canto suo, B.ALBANESE, Papiniano e la definizione di obligatio cit., 170 ha osservato che «né il ius civile, né il ius honorarium, né altri ordinamenti stabilirono mai in età classica regole sul modo d’operare la solutio in generale». Il rilievo, naturalmente, è in sé esatto; e però il nostro giurista avrebbe, comunque, potuto avere in mente il coordinamento tra ius civile e ius honorarium in relazione al concreto operare della solutio: si tenga presente, ad es., che la breve trattazione sulla solutio in Gai 3.168 è incentrata sul dualismo tra ‘ipso iure liberari’ e ricorso all’exceptio doli, e che in una costituzione del 213 (in cui è questione di un pactum de non petendo, con conseguente exceptio, relativo ad una parte soltanto del debito) si afferma ‘obligatione partim civili iure, partim honorario liberatus es’ (C.2.3.5). Detto ciò, la nostra critica all’interpretazione di Teofilo deriva, piuttosto, dal fatto che il ‘solvere aliquam rem’, come vedremo appositamente più avanti (n. 13), non può essere concettualmente isolato dal richiamo alla necessitas, onde le parole ‘secundum – iura’ coinvolgono non già il solvere in sé (e cioè, le semplici modalità dell’adempimento), sibbene la configurazione della cogenza del solvere (non a caso la particolare lettura compiuta da Teofilo si accompagna alla circostanza che l’antecessore non apprezza l’autonomia dell’ablativo ‘necessitate’ rispetto al verbo ‘adstringimur’, unificando i due termini nel verbo ‘¢nagk£zein’, e, quindi, non valorizza l’inscindibile unitarietà della

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perdere il significato autentico.20 Sennonché – anche a voler considerare la posizione di Teofilo realmente come frutto di un inconsapevole svisamento e non di un’interpretazione appositamente mirata 21 – occorre tener in conto il fatto che il titolo J.3.13, unitamente all’intera trattazione delle Institutiones imperiali sulle obbligazioni, è da attribuire, come ci è sembrato di poter sostenere in altra sede,22 a Doroteo; e, ulteriormente, il fatto che non mancano esempi di fraintendimenti da parte di Teofilo, anche gravi e grossolani, di brani

concettualizzazione ‘necessitas solvendae rei’: cfr. infra, n. 9 nt. 195): il che, a sua volta, significa – anche questo osserveremo nel prosieguo della ricerca (n. 17) – che il raggio d’azione, per dir così, delle parole ‘secundum – iura’ finisce per estendersi anche alla frase iniziale ‘obligatio est iuris vinculum’. Si aggiunga che, oltretutto, sarebbe espressione di uno zelo fuori luogo aggiungere in sede di definizione che l’adempimento va compiuto conformemente ai iura della civitas, come notava incisivamente DONELLUS, Commentariorum de iure civili liber XII, cap. I, cit., c. 420: «Adiectio fit supervacua, quia qui dixit alicuius rei solvendae, satis dixit quo intelligatur, rei recte et secundum ius solvendae, ut non necesse sit haec eadem quasi prius non expressa adiicere. Id enim solum dicitur solutum, quod recte et iure solutum est».

19 PT.3.13pr. ‘... ™noc» ™sti dšsmoj dika…ou, di’oá tij ¢nagk£zetai katabale‹n tÕ ™pofeilÒmenon kat¦ toÝj tÁj ¹metšraj polite…aj nÒmouj. odaj g¦r Óti oÙ p©sa� katabol¾ cršouj œcei tÕ bšbaion ™n ˜autÍ, e„ m¾ gšnhtai kat¦ nÒmouj. Toàto d � epon a„nittÒmenoj t¾n e„j tÕn poÚpillon katabol¾n À t¾n ¢pÕ poup…llou, Óti� de‹ tÕn ™p…tropon sunaine‹n. ™sq’Óte d kaˆ t»rhsin ˜tšrou g…nesqa… tinoj..� ’ (Trad. Reitz: Obligatio est iuris vinculum , quo quis debitum solvere cogitur, secundum civitatis nostrae leges. Nosti enim non omnem debiti solutionem per se esse validam, nisi fiat secundum leges. Hoc autem dixi, in animo fingens solutionem pupillo vel a pupillo factam: quia et tutorem consentire, et alterius aliquando rei observationem accedere oportet). Più particolarmente, il brano coinvolto da questo rinvio è il § 2 di PT.2.8, in cui l’antecessore richiama una costituzione di Giustiniano in tema di solutio fatta al pupillo senza l’auctoritas tutoris.

Con l’occasione, segnaliamo che una definizione di ™noc» perfettamente identica a quella presente in PT.3.13.pr. compare in sch. 2 ad Bas. 11.1.40 (Hb. I, 624 = Scheltema B.I, 286), un testo che potrebbe provenire o dall’Index al Digesto dello stesso Teofilo o dal commento di un altro antecessore che ha attinto alla Parafrasi teofilina, immediatamente impostasi, com’è noto, nella cultura giuridica bizantina ad integrazione o, addirittura, al posto del manuale imperiale.

20 Così C.A.CANNATA, loc. ult. cit. 21 Segnatamente, Teofilo, anziché affrontare l’articolata questione della

formazione (e della nozione) dell’istituto-obligatio complessivamente considerato, che lo avrebbe portato ad incrociare anche fenomeni giuridici non più attuali (segnatamente, la polarità tra il complesso giuridico della civitas romana e le realtà giuridiche di civitates peregrinae; e la pluralità dei ‘iura

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sicuramente coniati da Doroteo.23 Di conseguenza, potrebbe anche immaginarsi che Teofilo abbia male interpretato una definizione di obligatio autonomamente escogitata, con diverso significato, dall’altro antecessore-commissario delle Institutiones.

E ancora, non ci sembra risolutiva l’osservazione secondo cui, se fossero stati i commissari giustinianei a formulare la definizione di propria mano, costoro non avrebbero parlato, al singolare, di ‘obligatio’, giacché «avrebbero sfuggito lo scompenso tra la nostra definizione e ciò che si legge sia prima (‘nunc transeamus ad obligationes’) sia dopo (‘omnium autem obligationum summa divisio rell.’), ove essi parlano di obligationes al plurale».24 Invero – a prescindere dal fatto che, in generale, anziché esser valutato negativamente in termini di ‘scompenso’, lo scarto tra singolare e plurale potrebbe rispondere ad una consapevole scelta didattica, volta a fissare con maggiore incisività, quasi costringendo ad una pausa, una determinata nozione –,25 segnaliamo che nella Parafrasi di Teofilo (per

nostrae civitatis’, confluente nel dualismo tra obbligazioni civili e obbligazioni onorarie: cfr. infra, nn. 8.2-8.4), potrebbe aver preferito richiamare una problematica, peraltro già nota ai suoi studenti, che, se per un verso riguardava una fattispecie di notevole rilievo pratico in età giustinianea (basti tener conto, da un lato, dell’apposito intervento normativo dello stesso Giustiniano [C.5.37.25; J.2.8.2], dall’altro lato, dei significativi riferimenti sparsi nel titolo ‘De solutionibus et liberationibus’ del Digesto: D.46.3.11; 14.8; 15; 44; 47; 66; 95.2), per altro verso, soprattutto, gli consentiva immediatamente - già in apertura di trattazione e a proposito della stessa definizione - di collegare l’istituto dell’obligatio al profilo dell’actio, in conformità ad una particolare rappresentazione complessiva in tema di rapporti fra l’obbligazione e l’azione: invero, il richiamo all’ipotesi dell’adempimento in favore o da parte del pupillo senza l’auctoritas tutoris, cui consegue la perdurante esposizione del solvens all’azione, ben si inquadra nel fenomeno, che altrove abbiamo riconosciuto come tipico della Parafrasi teofilina (cfr. G.FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, in AUPA 45.1, 1998, 359ss.) di immediata proiezione dell’ ™noc» nella prospettiva dell’ ¢gwg». A quest’ultimo proposito, non si trascuri che Teofilo formula la particolare interpretazione delle parole ‘secundum nostrae civitatis iura’ subito dopo aver affermato che l’obligatio è ‘madre dell’azione’ (sul punto, dobbiamo nuovamente rinviare alle nostre pagine poc’anzi citate).

22 G.FALCONE, Il metodo di compilazione cit., spec. 328ss.; 355ss.; 359ss. In particolare, a Doroteo si devono i titoli J.2.1-9; 2.25; 3.13-29; tutto il libro IV.

23 Cfr. G.FALCONE, Il metodo di compilazione cit., spec. pp. 272ss. e 323-390.24 A.GUARINO, ‘Obligatio est iuris vinculum’ cit., 264s.25 «Passiamo adesso alle obbligazioni. Un’obbligazione è un vinculum iuris, in

forza del quale etc. La principale distinzione delle obbligazioni si articola in due classi etc.».

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rimanere in un ambito vicino) non mancano casi in cui l’antecessore ha elaborato da sé la definizione di un istituto formulandola al singolare pur in occasione di riferimenti all’istituto de quo congegnati, sia nel testo latino sia, soprattutto, nella stessa versione greca, al plurale.26 Non potrebbe, di conseguenza, escludersi un comportamento analogo da parte del compilatore del titolo J.3.13.

Di fatto, contro l’attribuzione ai compilatori giustinianei esiste, se ben vediamo, un solo argomento specifico che può ritenersi determinante, ed è quello che è stato indicato dall’Albanese:27 l’impiego del plurale ‘adstringimur’.

Com’è risaputo, infatti, l’intero manuale istituzionale era presentato come un discorso rivolto agli studenti direttamente dall’imperatore; e per questa ragione i compilatori si sono costantemente adoperati per trasformare, quando lo richiedeva il particolare contenuto dei testi classici escerpiti, la prima persona plurale dei verbi in forme impersonali o in altri moduli verbali, per evitare che venissero intese come riferite all’imperatore-loquente situazioni che per qualche ragione non si addicevano alla sua maiestas. Ebbene, è impensabile che, ove fosse stato il commissario delle Institutiones ad inventare la definizione, costui avrebbe utilizzato la prima persona plurale, finendo, assai poco rispettosamente, per rappresentare Giustiniano stesso nelle vesti di un debitore costretto all’adempimento;28 e per di più – aggiungiamo –, con una terminologia che, addirittura, presentava l’imperatore, in base ad un vinculum, ‘adstrictus’ dalla necessitas di compiere una prestazione: lui, legibus solutus! Il compilatore giustinianeo, dunque, dovette trovarsi di fronte ad una definizione già esistente; e l’inopportuno mantenimento del plurale si spiega, a parer nostro, come uno degli esempi di quella distrazione compilatoria che è dato riconoscere qua e là nell’intera opera istituzionale. 29

26 Così PT.2.2.1, pur parlando di obligationes, fornisce una definizione, al singolare, di ‘œnoc»’; PT.2.2.3 e 2.3pr., pur riferendosi alle servitù prediali (doule‹ai) al plurale, definisce la doule‹a; PT.4.6.13, parla di actiones praediudiciales, ma ciò di cui offre una definizione è, al singolare, il praeidicion; PT.4.13pr. si occupa di exceptiones, ma definisce la paragraf».

27 B.ALBANESE, Papiniano e la definizione di obligatio cit., 172s. Nello stesso senso, adesso, A.GUARINO, ‘Obligatio est iuris vinculum’ cit., 264.

28 Incisivamente, ma ad altro proposito, L.LANTELLA, Note semantiche cit., 180 scrive che il dettato di J.3.13pr. appare come «una definizione autobiografica formulata dai debitori».

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Una volta rintracciato questo specifico argomento tratto dal tenore formale della definizione, è lecito osservare, a rincalzo, che l’assegnazione della definizione ai giustinianei comporterebbe una singolarità rispetto all’intero manuale imperiale: si tratterebbe, infatti, dell’unica definizione, tra quelle presenti nelle Institutiones, ad esser coniata dagli stessi compilatori, i quali, per il resto, non inopportunamente si sono limitati a riportare definizioni presenti nelle fonti classiche escerpite.30

3. L’asserita origine postclassica della definizione.

Scartata la provenienza giustinianea della definizione, l’interrogativo sull’origine del testo, evidentemente, si trasforma – risalendo indietro nel tempo – nell’alternativa tra un’escogitazione in età postclassica e la derivazione da un giurista classico.

29 In generale, su questi casi di distrazione compilatoria cfr. per tutti, R.AMBROSINO, Il metodo di compilazione delle Istituzioni giustinianee, in Atti del Congresso Internazionale di Diritto romano e di Storia del diritto (Verona, 1948), I, 1951, 176s. e ntt. 159-161. Lo stesso Ambrosino, tuttavia, ha ritenuto che il mantenimeno della prima persona plurale nel dettato di J.3.13pr. si spieghi con la circostanza che si trattava di una «definizione corrente» (p. 177 nt. 160); analogamente, B.ALBANESE, Papiniano e la definizione di obligatio cit., 173.

30 La scelta dei commissari di non inserire nel manuale istituzionale definizioni da loro stessi congegnate appare ragionevole. Gli studenti, infatti, non avevano confidenza con la lingua latina e, conseguentemente, com’è noto, un momento fondamentale della lezione era la traduzione in greco, da parte del mestro, del ‘libro di testo’ (sul punto cfr., ultimamente, G.FALCONE, La formazione del testo della Parafrasi di Teofilo, in TR 68, 2000, 417s. e bibl. citata ivi in ntt. 1-3): è comprensibile, pertanto, che i due antecessores-compilatori preferissero, piuttosto che appesantire il dettato latino, riservarsi, semmai, per la lezione l’eventuale formulazione, in lingua greca, di definizioni per proprio conto congegnate.

Non può considerarsi un’eccezione la definizione di ‘interdictum’ in J.4.15.4 (‘Erant autem interdicta formae atque conceptiones verborum, quibus praetor aut iubebat aliquid fieri aut fieri prohibebat. quod tum maxime faciebat, cum de possessione aut quasi possessione inter aliquos contendebatur’): di fatto, si tratta non di una personale escogitazione del compilatore giustinianeo, bensì della riproduzione, in sequenza inversa, delle parole presenti già in Gai 4.139 (cfr. R.MARTINI, Le definizioni dei giuristi romani, 1966, 231ss.).

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L’attribuzione della definizione ad epoca postclassica, frequentemente sostenuta anche nella dottrina più recente,31 non appare sorretta da elementi di rilievo.

Invero, essa viene assunta talvolta in modo sostanzialmente apodittico,32 talvolta come semplice conseguenza della riconduzione della definizione alle Res cottidianae, ritenute opera postclassica;33 ovvero ancora, in nome del preconcetto secondo cui «la tendenza a definire è molto più conforme alle tendenze scientifiche dei postclassici che a quelle dei classici».34 Ché se, invece, la ragione più o meno velata dell’attribuzione all’età postclassica consiste nell’ insoddisfazione di fronte all’approssimazione ed indeterminatezza di alcuni elementi della definizione (soprattutto, la locuzione ‘alicuius solvendae rei’), che creano qualche imbarazzo anche a quanti preferiscono non sbilanciarsi sulla questione della genuinità,35 osserviamo che proprio questo

31 Ad es., P.CIAPESSONI, Corso di diritto romano. Le obbligazioni (parte generale), 1934-35, 12s. (generalizzazione di una definizione classica riguardante la sola stipulatio di un certum); F.SCHULZ, Classical Roman Law, 1951, 455 (modificando l’opinione espressa nei ‘Prinzipien’: supra, nt. 3); M.KASER, Das römische Privatrecht, I2, 1971, 479; T.MAYER-MALY, Obligamur necessitate, in ZSS 83, 1966, 50ss.; G.SCHERILLO, Le definizioni romane delle obbligazioni cit., 114ss. (la definizione sarebbe stata congegnata tra la seconda metà del V secolo e Giustiniano, in sede di rielaborazione delle postclassiche Res cottidianae; diversamente, in Lezioni sulle obbligazioni. Corso di diritto romano, 1961, 26s., l’Autore accoglieva l’attribuzione a Fiorentino: cfr. infra, nt. 57); C.A.CANNATA, Le definizioni cit., 157; ID., v. ‘Obbligazioni nel diritto romano, medievale e moderno’ cit., 413 nt. 43; V.GIUFFRÈ, Il diritto dei privati nell’esperienza romana. I principali gangli, 1993, 376s.; ID., La traccia di Quinto Mucio. Saggio su «ius civile»/«ius honorarium», 1993, 82s.; Z.VÉGH, Ex pacto ius, in ZSS 110, 1993, 255 e nt. 223. Da ultimo, J.GAUDEMET, Naissance de la notion d’obligation dans le droit de la Rome antique, in Iuris vincula cit., IV, 154, asserisce, ma senza fornire argomentazioni, che la definizione rappresenta «une création doctrinale, peut-etre critiquable, et en tous cas d’époque tardive (IIIe ou IVe siècle)». Come accennato, il Guarino ha ultimamente rinunciato alla considerazione del nostro testo quale ‘definizione postclassico-giustinianea’: supra, nt. 13.

32 E’ il caso delle posizioni di Schulz , Kaser (seguito da Mayer-Maly e Végh), Giuffrè, Gaudemet.

33 Come accade per lo Scherillo (infra, nt. 37).34 Così V.ARANGIO-RUIZ, Noterelle gaiane, in Fest. Wenger 2, 1945, 60 nt. 3 (in

fine), richiamandosi ai canoni fissati da F.SCHULZ, Prinzipien cit., 30ss.35 Il riferimento è alle pagine che L.Vacca ha dedicato al tema in G.PUGLIESE-

L.VACCA-F.SITZIA, Istituzioni di diritto romano,3 199., 509 («L’unica accusa che si può muovere ad un enucniato di questo tipo è quella di una certa genericità ed indeterminatezza»).

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carattere della definizione, e segnatamente la presenza del sintagma ‘solvere aliquam rem’, ottimamente si inquadra, al contrario, in un’attribuzione del testo ad un autore classico, come vedremo appositamente più avanti (n. 15).

Né paiono affidanti i due soli argomenti concreti che, a nostra conoscenza, sono stati addotti in dottrina.

In particolare, lo Scherillo36 ha collocato la definizione in epoca postclassica – ma facendola, addirittura, scivolare fino all’epoca degli antecessores chiamati da Giustiniano alla Compilazione del Corpus iuris 37 – per la seguente ragione. La chiusura ‘secundum nostrae civitatis iura’ alluderebbe al dualismo fra ius civile e ius honorarium, in quanto essa si salda con la divisio tra obbligazioni civili e obbligazioni onorarie, che compare nell’immediato seguito del titolo J.3.13: ebbene, «il rilievo dato al diritto onorario come sistema giuridico autonomo e a sé stante appare caratteristico più dell’età postclassica (quando in effetti diritto onorario non se ne produceva più), che non dell’età classica». Sennonché, a prescindere dalla questione del significato da attribuire alle parole ‘secundum nostrae civitatis iura’,38 lo svolgimento storico della rappresentazione del ius honorarium indicato da Scherillo appare smentito dalla documentazione pervenutaci;39 come pure, più particolarmente, è inverosimile una escogitazione così tarda, e sostanzialmente giustinianea, della contrapposizione tra obbligazioni civili e obbligazioni onorarie.40

36 G.SCHERILLO, Le definizioni romane cit., 116 nt. 50.37 In particolare, Scherillo pensa (sulle orme di Arangio-Ruiz) che siano

esistite due distinte versioni delle Res cottidianae: la più antica, compiuta in epoca postclassica sulla falsariga delle Istituzioni di Gaio, e la successiva rielaborazione di quella, che avrebbe contenuto la definizione di obligatio (sul punto cfr. infra, n. 6, nt. 105). Ebbene, Scherillo non esclude che questa redazione più recente dell’opera possa esser stata compiuta da Teofilo.

38 Cfr. infra, n. 16.39 Invero, utilizzando come banco di prova la legislazione imperiale, è dato

constatare che, fino a Costantino, compare 5 volte un riferimento al singolo ius honorarium o praetorium (C.6.54.3: Alessandro Severo e Antonino Caracalla; C.6.58.3.1: Decio; C.4.5.5 e C.6.15.3: Diocleziano; C.6.9.7.1: Costanzo e Massimiano) e 9 volte una esplicita contrapposizione fra e ius honorarium o praetorium e ius civile o lex XII tabularum (C.2.3.5: Caracalla; C.2.3.26; 3.31.9; 3.42.8.1; 6.30.14; 6.55.3; 6.59.3 e 6.59.10: Diocleziano; C.2.52.5.3: Costantino); successivamente a Costantino, un riferimento al solo ius honorarium non è mai attestato, mentre solo 2 volte compare un dualismo ius civile - ius praetorium (CTh.9.42.2: Costanzo; CTh.4.4.7: Teodosio II).

40 Sul punto cfr. infra, n. 14.

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Dal canto suo, il Cannata 41 ha ritenuto la definizione una sorta di «luogo comune» formatosi in ambiente scolastico orientale (IV-VI secolo), in ragione del fatto che essa non compare in apertura del titolo D.44.7 ‘De obligationibus et actionibus’ (che, invece, inizia direttamente con la divisio obligationum tratta dalle Res cottidianae). Se i compilatori del Digesto – osserva questo studioso – avessero avuto a disposizione, all’interno del materiale escerpito, una definizione o, almeno, gli elementi testuali su cui poterla elaborare, non avrebbero mancato di inserirla sotto un’inscriptio riferita ad un giurista classico.42 Tuttavia, come diremo appositamente più avanti (n. 6), la mancanza della definizione dal titolo D.44.7 può ben dipendere da contingenti scelte compilatorie, che non coinvolgono assolutamente la questione della classicità o meno del testo.

Piuttosto, l’ipotesi di un’origine postclassica sembrerebbe, al contrario, trovare un ostacolo nel testo della seguente costituzione di Diocleziano (di data incerta):

C.4.38.13 In vendentis vel ementis voluntatem collata condicione comparandi, quia non adstringit necessitate contrahentes, obligatio nulla est. idcirco dominus invitus ex huiusmodi conventione rem propriam vel quilibet alius distrahere non compellitur.

A noi pare che il tratto ‘quia - est’, che fino a prova contraria occorre ritenere integralmente genuino, presenti una relazione con il contenuto della definizione di obligatio difficilmente negabile.43 Ora, piuttosto che

41 Le definizioni cit., 149ss. Cfr. anche ID., Le obbligazioni in generale, in P.Rescigno (direz.), Trattato di diritto privato. IX. Obbligazioni e contratti, 1999,2 6 (il contributo del Cannata è del 1984): v. infra, nt......; ID., v. ‘Obbligazioni nel diritto romano, medievale e moderno’ cit., 413 nt. 43, in cui l’autore, più precisamente, ha considerato la definizione come un «adagio delle scuole orientali dei secoli IV-VI, costruito in qualche modo su di una scialba interpretazione del testo di Paolo» conservato in D.44.7.3pr.

42 In particolare, per Cannata questa circostanza dimostrerebbe senz’altro (p. 153) che la definizione non era presente nelle Res cottidianae, dalle quali, invece, ha attinto il compilatore della parte iniziale del titolo D.44.7: ma v. infra, n. 6.

43 Diversamente, B.ALBANESE, Papiniano e la definizione di obligatio cit., 177 nt. 31 ritiene che in queste parole «non v’è alcun riferimento alla natura dell’obligatio». Un collegamento tra la definizione e il dettato dioclezianeo compie anche G.SCHERILLO, Corso di diritto romano cit., 149, ma solo per trarne la conclusione, indefinita, che «non è punto strano che un giurista [...] abbia constatato esservi in tutti i casi di obligatio questo necessitate adstringi».

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immaginare, con il Mayer-Maly,44 che queste parole della costituzione rappresentino parte del materiale su cui, in epoca postclassica, sarebbe stata costruita la nostra definizione, riterremmo più verosimile la vicenda opposta: che, cioé, la costituzione dioclezianea costituisca un’eco legislativa della definizione. In particolare, ci sembra che un suggerimento in questa direzione possa provenire dalla circostanza che il non-‘adstringere necessitate’ è con decisione addotto quale precisa ratio dell’ impossibilità di ravvisare una obligatio, cosa che farebbe pensare che, al tempo in cui fu emanata la costituzione, la definizione di obligatio era già stata coniata e si era imposta e diffusa nella cultura giuridica.45

E tuttavia, è evidente che questo spunto testuale non può, di per sé, ritenersi indicativo. Il fatto è che l’origine postclassica della definizione può essere scartata in modo deciso solo ove si rinvengano indizi stringenti che portino, in positivo, alla concreta individuazione di un giurista classico quale autore del testo.

4. Le diverse proposte di attribuzione ad un giurista classico (Fiorentino, Modestino, Papiniano).

Ebbene, con riguardo alla riferibilità della definizione ad un giurista classico, in dottrina – quando non si è parlato di classicità del dettato senza l’esplicita indicazione di un giurista in particolare 46 – è stata

44 T.MAYER-MALY, Obligamur necessitate cit., 51. Come si ricorderà, il Mayer-Maly accetta tralatiziamente l’attribuzione della definizione ad una mano postclassica, asserita, a sua volta in modo apodittico, dal Kaser (supra, nt. 32).

45 Cfr. anche infra, n. 17.46 Così, ad es., S.PEROZZI, Le obbligazioni romane cit., 15 e nt. 3; G.SEGRÉ,

Obligatio, obligare, obligari cit., 54ss.; ID., Distinzione ed antitesi tra diritti reali ed obbligazioni. Corso di dir. rom. 1919-20, 3; E.BETTI, La struttura dell’obbligazione romana e il problema della sua genesi,2 1955, 127 (che ipotizza un intervento giustinianeo con esclusivo riguardo alle parole ‘alicuius solvendae rei’: infra, n....., nt....); M.LAURIA, Contractus, delictum, obligatio, in SDHI 4, 1938, 188s.; B.BIONDI, Istituzioni di diritto romano cit., 334s.; E.VOLTERRA, Istituzioni di diritto privato romano cit., 442s.; P.VOCI, Le obbligazioni romane. (Corso di Pandette). Il contenuto dell’obligatio, I,1, 1969, I.1, 1969, 19 nt. 49; M.TALAMANCA, v. ‘Obbligazioni (dir. rom.)’, in ED 29, 1979, 18 nt. 125 in fine (il quale, peraltro, si sbilancia ‘in negativo’, ritenendo «difficile qualsiasi interpretazione nel senso di riallacciare tale definizione a Gaio»: v. infra, n. 6); ID., Istituzioni di diritto romano, 1990, 502; A.BURDESE, Manuale di diritto privato romano, 4 1993, 408; D.DALLA-R.LAMBERTINI,

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proposta l’attribuzione ora a Fiorentino, ora a Modestino, ora a Papiniano.47

L’assegnazione a F i o r e n t i n o , che è stata avanzata dal Ferrini48 e che ha goduto di una certa diffusione,49 poggia sull’esistenza di alcune definizioni formulate da questo giurista, che sarebbero «sul tipo» di quella dell’obligatio, nonché sulla circostanza che la relazione ‘obligatio-vinculum-adstringere’ ben si coordinerebbe con il caratteristico uso di Fiorentino di «adombrare, nel definire, l’etimologia di un termine».

Istituzioni di diritto romano, 1996, 315 (per i quali il testo «ha quasi certamente una radice classica, ancorché oggi non identificabile»); M.BRETONE, I fondamenti del diritto romano. La natura e le cose, 1998, 190 e nt. 1 (scettico verso l’attribuzione a Gaio: «sembra proprio da escludere»); M.MARRONE, Osservazioni su D.50.16, in AUPA 4.2, 1998 (pubbl. 1999), 53 nt. 27; A.GUARINO, ‘Obligatio est iuris vinculum’ cit., 265; da ultimo, R.MARTINI, Appunti di diritto romano privato, 2000, 106. Altra bibl. in L.LANTELLA, Note semantiche sulle definizioni di «obligatio» cit., 173 nt. 9 in fine.

47 Segnaliamo che FADDA, Teoria generale delle obbligazioni. Lezioni di diritto romano, 1902, 21s., nel dar conto dell’ipotesi di Ferrini circa la provenienza della definizione da Fiorentino (cfr. immediatamente di seguito, nel testo), vi contrappone «con molte riserve» la congettura secondo cui la definizione deriverebbe da Gaio (dalle Res cottidianae?), ma solo in ragione dell’affinità tra l’espressione ‘secundum nostrae civitatis iura’ e le parole ‘iure proprio nostrae civitatis’ di D.41.1.1.

48 C.FERRINI, Sulle fonti delle Istituzioni di Giustiniano cit., 385.49 Cfr., ad es., in passato, PACCHIONI, Concetto e origine dell’obbligazione

romana cit., 655; DE RUGGIERO, Le obbligazioni cit., 31; P.BONFANTE, Le obbligazioni cit., 29; V.ARANGIO-RUIZ, Corso di Istituzioni di diritto romano (diritti reali e di obbligazione), 1921, 161; S.RICCOBONO, Stipulatio ed ‘instrumentum’ nel diritto giustinianeo, in ZSS 43, 1922, 292. In tempi più recenti cfr., ad es., C.A.MASCHI, Caratteri e tendenze evolutive delle Istituzioni di Gaio cit., 33s. (attribuzione «non inverosimile»); G.SCHERILLO, Lezioni sulle obbligazioni cit., 26ss. (ma sulla base di un paio di indizi assolutamente inadeguati e cioè: la circostanza che sovente i compilatori delle Institutiones hanno utilizzato, in tema di obbligazioni, passi di Fiorentino; il preteso carattere pleonastico [?] della chiusura ‘secundum nostrae civitatis iura’, che si coordinerebbe con lo stile di Fiorentino [?]); U.BRASIELLO, v. ‘Obbligazione (dir. rom.)’, in NNDI XI, 1965, 555s.; J.A.C.THOMAS, Textbook of Roman Law, 1976, 214 nt. 6; F.PASTORI, Elementi di diritto romano. Le obbligazioni, 1991, 19s.; ID., Gli istituti romanistici come storia e vita del diritto3, 1992, 812, secondo il quale Fiorentino avrebbe adattato un più antico testo che, verosimilmente, trattava «della prestazione di dare rem, con riguardo al mutuo e alla stipulatio», aggiungendovi, fra l’altro, con la chiusura ‘secundum nostrae civitatis iura’, un richiamo al ius civile: tuttavia, come appare ingiustificata l’idea di una pretesa rielaborazione di una precedente, più circoscritta notazione, così non persuade l’interpretazione dei termini ‘iura civitatis’ (sul punto cfr., in particolare, infra, n.16). In passato, B.KÜBLER, ZSS 23, 1902,

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Ora, il Ferrini non ha esplicitato in che senso considerasse la definizione di obligatio «sul tipo» di quelle congegnate da Fiorentino. Secondo il Martini, l’illustre studioso avrebbe inteso rilevare che le definizioni di Fiorentino «appaiono, da un punto di vista formale, tecnicamente perfette come quella appunto di obligatio».50 Ma è agevole constatare – e lo stesso Martini non manca di farlo51 – che il rilievo non consente, da solo, di affermare con certezza la paternità di Fiorentino. Se, invece, l’asserita analogia relativo al «tipo» di formulazione dovesse risiedere, più particolarmente, nel fatto che, come nella definizione di obligatio (‘obligatio est ...vinculum, q u o ...’), anche nelle definizioni di servitus (D.1.5.4.1 ‘Servitus est constitutio iuris gentium, q u a quis dominio alieno contra naturam subicitur’) e di legatum (D.30.116pr. ‘legatum est delibatio hereditatis, q u a testator ex eo, quod universum heredis foret, alicui quid collatum velit’), appartenenti a Fiorentino, compare la struttura ‘aliquid est + pronome relativo (all’ablativo)’, si dovrebbe riconoscere che le due definizioni or ora riferite costituiscono riscontro troppo esiguo e che, d’altra parte, non mancano esempi di una siffatta costruzione di una definizione anche presso altri giuristi, primo fra tutti Gaio (cfr., ad es., Gai 3.193; 4.2; 41; 42; 43).

D’altra parte, non può ritenersi consistente nemmeno il preteso argomento che dovrebbe derivare dal procedere etimologizzante. Anzitutto, anche in questo caso il materiale di raffronto è quantitativamente troppo scarso per poter consentire conclusioni affidabili: infatti – escludendo, com’è naturale, i casi in cui l’intento apposito, ed esplicitato, è quello di fornire la spiegazione etimologica di un termine52 – disponiamo di una sola definizione di Fiorentino nella quale il giurista, di fatto (senza, cioè, un richiamo dichiarato all’origine della denominazione), ricorre all’etimologia (D.1.5.4pr.: definizione di libertas). Non solo; ma in questo caso il giurista utilizza un termine che

519, ha ipotizzato che la definizione sia stata formulata da Papiniano (infra, nt. 58) e che Fiorentino l’abbia riportata nelle proprie Institutiones, da cui l’avrebbero, poi, copiata i compilatori giustinianei.

50 Le definizioni dei giuristi romani cit., 254.51 Op. cit., 256.52 Cfr. D.1.5.2 (‘Servi ex eo appellati sunt, quod imperatores captivos vendere

ac per hoc servare nec occidere solent’. Tale spiegazione etimologica, peraltro, incide anche sulla definizione di ‘servitus’ del § 1); 1.5.3: ‘Mancipia vero dicta, quod ab hostibus manu capiantur’; 23.1.1 e 3: ‘Sponsalia sunt mentio et repromissio nuptiarum futurarum. unde et sponsi sponsaeque appellatio nata est’.

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presenta un’analogia lessicale (non importa se illusoria) con il definiendum: ‘Libertas est naturalis facultas eius quod cuique facere l i b e t , ...’. Ciò non si verifica, invece, nella definizione di obligatio, dove, pure, non sarebbe stato difficile richiamare, in qualche modo, il lessema ‘ligare’53 (anziché, semplicemente, ‘vinculum’ e ‘adstringere’). Rinunciando a considerare quest’ultima circostanza, addirittura, come ostacolo contro l’attribuzione della definizione di obligatio a Fiorentino, quel che, comunque, deve senz’altro ammettersi è che questa attribuzione risulta sprovvista di adeguate basi.54

Ancor meno fondata è, poi, l’idea, assolutamente minoritaria, secondo cui autore della definizione sarebbe M o d e s t i n o .55 Alla base vi è, infatti, esclusivamente, l’impiego dell’espressione ‘iuris vinculum’ nel seguente testo:56

53 Cfr., ad es., con riguardo all’età repubblicana, Cato, Orig. 125 J. ‘uno illo negotio sese alligabunt’; Ter., Eun. 809 ‘furti se adligat’ (con egual valore della locuzione muciana ‘furti se obligare’ citata in Gell., N.A., 6.15.2); Varr., De l. l. 6,71 ‘sponsu alligatus’ (su un piano diverso, v. pure 5.102 ‘qui pecuniam alligat, eum stipulari et restipulari dicunt’); Cic., Rosc. com. 12 ‘alligare aliquem stipulatione’; Cic., Cluent. 64 ‘alligatus nuptiis’; altre fonti in B.ALBANESE, Brevi studi di diritto romano (VIII. Verbis obligatio e sponsalia), in AUPA 42, 1992, 160s. e ntt. 75-81. In ambito giurisprudenziale cfr. D.28.5.45 (Alfen. 5 dig.) ‘hereditati alligari’; 29.2.78 (Pomp. 35 ad Q.Muc.) ‘hereditati se alligare’; 50.16.123 (Pomp. 26 ad Q.Muc.) ‘Lucius Titius alligatus est’ (arg. ex: ‘Lucius Titius solutus est ab obligatione’).

54 Come era già stato notato, del resto, ma in termini generici, da ZOCCO-ROSA, Imperatoris Iustiniani Institutionum Palingenesia, II, 1911, 107s.; E.ALBERTARIO, Le definizioni dell’obbligazione romana cit., 13; e recentemente, con maggiore ponderatezza, da R.MARTINI, Le definizioni dei giuristi romani cit., 253ss.; P. P.ZANNINI, Rappresentazione dinamica del fenomeno giuridico nelle Istituzioni di Gaio, in Il modello di Gaio nella formazione del giurista (Atti Convegno - Torino 1978), 1981, 383 nt. 25.

55 Così, in passato, PACCHIONI, Corso di diritto romano, III, 1922, 6 (mutando la precedente opinione: supra, nt. 53) e, più di recente, DIAZ BIALET, Obligatio. Interpretatión par los conceptos, in Rivista de la Sociedad Argentina de derecho romano, 6-7, 1959-60, 18 (non direttamente consultato). Contra, R.MARTINI, Le definizioni dei giuristi romani cit., 256 nt. 318; B.ALBANESE, Papiniano e la definizione di obligatio cit., 177.

56 La genuinità delle parole ‘iuris vinculum’ non è stata messa in discussione nemmeno dalla critica testuale più severa: cfr., per tutti, PARTSCH, ZSS 42, 1921, 261; S.RICCOBONO, St. Bonfante, I, 1930, 158; ID., Corso di diritto romano. Contractus, stipulationes, pacta, 1935, 343ss.; LONGO, St. Riccobono, III, 1936, 140s.; PUGLIESE, La simulazione nel negozio giuridico, 1938, 186s.; 209s.

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D.44.7.54 (Mod. 4 regul.) ‘Contractus imaginarii etiam in emptionibus iuris vinculum non optinent, cum fides facti simulatur non intercedente veritate’.

L’inconcludenza di questo riscontro appare evidente sol che si pensi che Modestino ben potrebbe aver desunto le parole ‘iuris vinculum’ da una preesistente definizione di obligatio, formulata da altri. 57

Rimane, tra i giuristi classici segnalati quali possibili autori della definizione, P a p i n i a n o .

L’assegnazione a questo giurista, avanzata a livello di semplice congettura dal Kübler58 e assurta a dignità di ipotesi con il Marchi,59 è stata recentemente riproposta con particolare acribia dall’Albanese,60 il quale alle indicazioni segnalate dai predetti studiosi ha aggiunto un cospiscuo materiale di raffronto. Essa si fonda sui due seguenti indizi di ordine stilistico: è constatabile una certa «predilezione» papinianea per l’immagine del vincolo, anche in relazione allo specifico campo delle obbligazioni;61 l’impiego, congiunto o separato, dei lessemi ‘necessitas’ e

57 In tal senso, già B.ALBANESE, loc.ult.cit.58 B.KÜBLER, Rec. a FERRINI, Sulle fonti cit., in ZSS 23, 1902, 519, il quale si

limitava a richiamare l’uso di ‘necessitate adstrictus’ in D.22.1.3pr. (Pap. 20 quaest.)

59 A.MARCHI, Le definizioni romane dell’obbligazione cit., 33 e nt. 2. In adesione, G.LONGO, Corso di diritto romano. I contratti. I (Nozioni generali - contratti reali), 1936, 4.

60 B.ALBANESE, Papiniano cit., spec. 173ss. La posizione dell’Albanese è stata accolta con un ulteriore spunto argomentativo da G.MANCUSO, A proposito della definizione di «obligatio» cit., 166ss. (su cui, però, v. infra, nel testo); mentre essa è semplicemente recepita da H.ANKUM, Papiniano, ¿un jurista obscuro? cit., 41 nt. 21; ZIMMERMANN, The Law of Obligations. Roman Foundations of the civilian tradition, 19922, 1 nt. 3; M.A.MESSANA, Sui libri definitionum di Emilio Papiniano. Definitio e definire nell’esperienza giuridica romana, in AUPA 48.2, 1999, 254s.

61 Il rilievo risale ad A.MARCHI, Le definizioni romane cit., 32s., il quale aveva addotto in proposito i seguenti testi: D.12.6.59; 26.5.13.1; 26.7.39.5; 28.6.40; 33.10.9.2; 41.2.46; 46.1.52.2; 46.3.95.4. A questi riscontri l’Albanese (Papiniano cit., 174s.) ha aggiunto: D.3.3.67; V.F. 328+332 (in materia di obbligazioni); D.29.2.87pr. (vinculum familiae); 48.5.12.12 (vinculum matrimoniale); non ci sembrano significativi, però, 48.3.2pr.-1 e 48.19.33, in cui si parla di vincula con riguardo all’incarcerazione. Quanto agli altri giuristi, l’Albanese sottolinea che, a fronte dei numerosi luoghi papinianei, sono attestati solo cinque riscontri per Ulpiano, uno per Paolo, uno per Marciano e uno per Modestino.

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‘adstringere’ ricorre, negli scritti di questo giurista, con maggiore frequenza che nelle opere di altri autori. 62

Orbene, non vi è dubbio che i riscontri in proposito addotti destano notevole impressione e rendono assai probabile un collegamento con i termini della definizione. E tuttavia, a noi sembra, sommessamente, che questo collegamento non debba necessariamente tradursi nella proposizione dell’ipotesi che la definizione sia stata coniata da Papiniano.

Invero, partendo dalle suddette corrispondenze linguistiche in sé considerate, sono astrattamente raffigurabili, accanto alla diretta imputazione della definizione a Papiniano, altre due vicende, che si muovono in direzioni tra loro opposte.

Da un lato, potrebbe supporsi che la definizione sia stata elaborata in epoca successiva a Papiniano e proprio prendendo spunto dai suddetti, ricorrenti impieghi linguistici di questo giurista (‘vinculum’, ‘necessitas’, ‘adstringere’). Potrebbe pensarsi, ad esempio – scartando, come si è detto, un intervento del compilatore di J.3.13pr. (supra, n. 2) –, ad una definizione costruita negli ambienti scolastici dell’Oriente pregiustinianeo, i quali, com’è noto, avevano particolare familiarità e consuetudine proprio con i testi di Papiniano:63 viene subito in mente, ad

62 Questa rilevante corrispondenza linguistico-concettuale è stata segnalata da B.ALBANESE, Papiniano cit., 175ss. e ivi ntt. 26-29. In particolare, per ‘necessitas’ cfr. D.2.14.42; 13.5.25.1; 22.1.3pr.; 31.76.5; 33.4.7.4; 34.1.8; 35.1.72.3; 36.1.57.2; 37.12.5 («in relazione ad obblighi o ad obbligazioni»); D.5.1.40pr. e 20.5.2 («in relazione alla forza cogente del diritto»). Per ‘adstringere’ cfr. F.V. 328=D.3.3.67; D.14.3.19.3; 22.1.3pr.; 26.7.40; 31.77.3; 31.77.18; 34.1.8; 36.1.55; 36.1.57.2; 46.1.52.2; 50.1.15.3; 50.1.17.11; 50.1.17.15; nonché C.3.28.35.1 con citazione di Papiniano. Particolarmente rilevanti l’Albanese considera, poi, tra i predetti testi, D.22.1.3pr. e D.34.1.8 in ragione del coingiunto ricorrere dei termini necessitas e adstringere. Il dato quantitativo è completato con la constatazione (p. 175 e nt. 26) che, su un totale di ventisette brani giurisprudenziali in cui compare il verbo ‘adstringere’, quattordici provengono da Papiniano (includendo la citazione in C.3.28.35.1). Che il verbo ‘adstringi’ « sembra preferito da Papiniano » era stato notato da P.VOCI, Le obbligazioni cit., 19 nt. 51.

63 E’ appena il caso di ricordare che oggetto di studio nel terzo anno dei corsi universitari pregiustinianei erano (anche) otto libri di Responsa papinianei; che gli studenti erano detti ‘Papinianistae’ e che un’apposita festa era dedicata all’inizio dello studio dei testi di Papiniano: cfr., ad es., LABORDE, Les écoles de droit dans l’Empire d’orient [Thése Bordeaux], 1912, 65; P.KRÜGER, Geschichte der Quellen und der Litteratur des römischen Rechts2, 1912, 395ss.; B.KÜBLER, Geschichte des römischen Rechts, 1925, 429ss.; P.COLLINET, Histoire de l’école de droit de Beyrouth, 1925, 228; più di recente, V.GIUFFRÉ, Papiniano: fra

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esempio, il famoso ‘ØpÒmnhma tîn defin…twn’ menzionato in sch. Taut»n a B.11.1.67 (BS 314-21= Hb.1, 646),64 del quale, peraltro, è stato suggerito un collegamento proprio con la produzione papinianea.65

Dall’altro lato, però, nulla vieta di ipotizzare che Papiniano abbia letto nell’opera di un altro giurista la definizione e ne abbia acquisito i componenti al proprio bagaglio linguistico-concettuale, finendo, poi, per riversarli frequentemente nei propri scritti o come immediata e istintiva utilizzazione di una terminologia assorbita e divenuta ormai propria o magari, in qualche caso, come intenzionale riproposizione del dettato della definizione.66

tradizione e innovazione, in ANRW II.15, 1976, 636 e H.ANKUM, Papiniano, ¿un jurista obscuro?, in Seminarios complutenses de derecho romano, I, 1990, 43s. E’, certo, nel solco di questa tradizione - alimentata nelle scuole orientali e consacrata, in ambiente giustinianeo, con l’accoglimento nel primo Codex della cd. legge delle citazioni - che si collocano gli altisonanti elogi alla finezza di Papiniano presenti nel Corpus iuris: J.2.23.7 ‘homo excelsi ingenii’; cost. Deo auctore § 6 = C.1.17.1.6 (‘splendidissimus Papinianus’; ‘summum ingenium Papiniani’); C.6.25.7.1 (‘excelsi ingenii Papinianus’); C.6.42.30 (‘acutissimi ingenii vir et merito ante alios excellens Papinianus’); C.7.45.14 (‘summi ingenii vir’).

64 La tradizionale attribuzione di questo scritto a Cyrillus - cfr., per tutti, A.BERGER, v. ‘Kyrillos’, in PWRE Suppl. VII, 1940, 340s.; L.WENGER, Die Quellen des römischen Rechts, 1953, 622 e note ivi - è stata di recente negata da autorevoli studiosi: cfr. SCHELTEMA, L’enseignement de droit des antécesseurs, 1970, 9 nt. 35; D.SIMON, TR 39, 1971, 481; PIELER, Byzantinische Rechtsliteratur, in H. Hunger (hrg.), Die hochsprachliche profane Literatur der Byzantiner, II, 1978, 391.

65 Cfr. spec. A.BERGER, loc. cit., il quale ha pensato ad un commento ai libri definitionum di Papiniano. D’altra parte, è certo che Ciryllus - se realmente costui fu l’autore dell’ ‘ØpÒmnhma tîn defin…twn’ - ha anche commentato i responsa di Papiniano: cfr., per tutti, L.WENGER, op. cit., 622 e nt. 267.

66 Dal momento che, come abbiamo già rivelato, la definizione di obligatio è stata a nostro avviso congegnata dal Gaio delle Res cottidianae, l’idea che i suoi termini siano stati assorbiti da Papiniano nel corso della propria formazione culturale apparirebbe ancora più salda e suggestiva ove potesse ritenersi fondata la tesi di Honoré (Gaius cit., 44s.; ID., The Severan Lawyers: a preliminary survey, in SDHI 28, 1962, 182 e 207), secondo cui Papiniano sarebbe stato, per qualche tempo, allievo di Gaio: ma si tratta, purtroppo, di un assunto che non poggia su basi concrete (si limita a registrare questa ipotesi V.GIUFFRÉ, Papiniano cit., 642 nt. 34 e 643 nt. 38).

Così come, del resto, è priva di fondamento l’individuazione di pretesi collegamenti tra i libri definitionum di Papiniano e la produzione scolastica di Gaio sostenuta da M.MESSANA, Sui libri definitionum cit., 162; 184; 206ss.; 269. Segnatamente, questa autrice, sulla base di alcuni squarci dei libri definitionum in cui sono affrontati temi o istituti descritti nelle Institutiones gaiane, ha voluto trarre la conclusione che l’attività definitoria di Papiniano «si

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Del resto, anche una considerazione, per dir così, comparativa dei riscontri linguistici segnalati dai predetti studiosi lascia aperta la possibilità di approdare ad un risultato palingenetico diverso. Infatti, il raffronto con il corpus papinianeo non è idoneo a coprire né i due sintagmi ‘iuris vinculum’ e ‘necessitas solvendae rei’, entrambi così essenziali alla definizione, né le parole ‘nostra civitas’;67 ed appare, anche nei contenuti, superato dalle corrispondenze che offre il materiale gaiano, di cui diremo nel prosieguo dell’indagine.

inserisce talvolta su un modello di tipo istituzionale, precisamente su elaborazioni tratte dal manuale gaiano, a precisarne quasi alcuni contorni e puntualizzarne particolari modalità applicative» (p. 269). In realtà, i presunti collegamenti, in questi termini, tra i luoghi gaiani e quelli papinianei si rivelano, ad una lettura meno frettolosa, ingiustificati. Ciò può dirsi, anzitutto, per la nozione di ‘persecutio’ (p. 142s.). Dal confronto tra Gai 4.7 (‘Rem tantum persequimur, veluti actionibus quibus ex contractu agimus’) e il papinianeo D.44.7.28 (‘Actio in personam infertur: petitio in rem: persecutio in rem vel in personam rei persequendae gratia’), la Messana conclude che Papiniano avrebbe inteso completare la notazione gaiana, limitata alle sole actiones in personam. Tuttavia, l’oggetto, la prospettiva e le finalità dei discorsi dei due giuristi sono, con ogni evidenza, del tutto diverse. Per Papiniano si trattava di precisare l’accezione tecnica di ‘persecutio’ (: mentre actio e petitio riguardano due ambiti distinti, la persecutio li abbraccia entrambi); Gaio, invece, poneva al centro del discorso non la nozione di ‘persecutio’, bensì lo scopo del rem consequi, del poenam consequi, del ‘rem et poenam consequi’ (Gai 4.6 ‘Agimus autem interdum, ut rem tantum consequamur, interdum ut poenam tantum, alias ut rem et poenam’. 7 ‘Rem tantum persequimur velut rell.’. 8 ‘Poenam tantum persequimur velut rell.’. 9 ‘Rem vero et poenam persequimur velut rell.’) e lo stesso impiego scambievole dei verbi ‘consequi’ e ‘persequi’ è già di per sé significativo in tal senso. Di conseguenza, non è legittimo immaginare che Papiniano, nel formulare la predetta precisazione, avesse sott’occhio o traesse spunto dal testo gaiano (notiamo, peraltro, incidentalmente, che è comprensibile che, nella cennata prospettiva, Gaio circoscrivesse gli esempi di azioni reipersecutorie a quelle in personam, dato che è con esclusivo ricorso ad azioni in personam che si realizza il contrapposto ‘poenam persequi’; oltretutto, non deve trascurarsi il fatto che quella tra azioni penali, reipersecutorie e miste appare come una distinzione generata dal discorso subito prima compiuto nel § 4.4 a proposito del concorso tra due actiones in personam, l’actio furti e la condictio ex causa furtiva: ‘...receptum est, ut extra p o e n a n dupli aut quadrupli r e i r e c i p i e n d a e n o m i n e fures etiam hac actione teneantur’ [a quest’ultimo proposito rinviamo al nostro studio Appunti sul IV commentario delle Istituzioni di Gaio, 2003, 24s.]). Né l’esordio di J.4.6.17 ‘Rei persequendae causa comparatae sunt omnes in rem actiones...’ può indurre a ritenere che «l’interpretazione papinianea è [...] ripresa da Giustiniano» (p.143): il testo imperiale, infatti, deriva dalle Res cott. (cfr. FERRINI, Sulle fonti cit., 407 e, di recente, LIEBS, Gemischte Begriffe im römischen Recht cit., 156 e nt. 102). Con riguardo, poi, all’acquisto del legato (p. 159), una valutazione

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Parimenti, non univoca è l’implicazione che potrebbe, a tutto concedere, desumersi dall’accostamento tra le parole iniziali ‘obligatio est iuris vinculum’ e le espressioni ‘vinculum iuris’ e ‘iuris vincula’ presenti, rispettivamente, nei due seguenti luoghi ciceroniani:

Cic. rep. 3.31.43 ‘Ergo illam rem populi, id est rem publicam, quis

diceret tum cum crudelitate unius oppressi essent universi, neque esset

spassionata porta a concludere che nel testo papinianeo conservato in D.31.80 (‘Legatum ita dominium rei legatarii facit, ut hereditas heredis res singulas. quod eo pertinet, ut, si pure res relicta sit et legatarius non repudiavit defuncti voluntatem, recta via dominium, quod hereditatis fuit, ad legatarium transeat numquam factum heredis’) non vi è nulla di specifico che possa portare a collegarlo al contenuto di Gai 2.194 ‘Ideo autem per vindicationem legatum appellatur, quia post aditam hereditatem statim ex iure Quiritium res legatarii fit rell.’ (e nemmeno a Gai 2.195, a questo strettamente connesso) e a sostenere che «Papiniano sembra riprendere nella sostanza l’affermazione gaiana espressa in Gai 2.194, prospettandone [...] i conseguenti effetti giuridici» (p. 159). Parimenti, il fatto che in tema di traditio clavium (p. 161s.), di rapporto fra testamentum ruptum, irritum e non iure factum (p. 183s.), di acquisto del possesso tramite procurator (p. 210), le affermazioni di Papiniano (rispettivamente, in D.18.1.74, D.28.3.1, D.41.2.49.2) presentino contenuti vicini ai brani delle Institutiones gaiane relativi a codesti argomenti è circostanza ovvia, che, di per sé, non giustifica l’idea che Papiniano abbia calibrato i propri rilievi sulle notazioni di Gaio (per ripeterle, precisarle o modificarle). Infine, con riguardo a D.41.2.49pr. (‘Possessio quoque per servum, cuius usus fructus meus est, ex re mea vel ex operis servi adquiritur mihi rell.’), la Messana ritiene (p. 205ss.) che Papiniano avesse direttamente presente il testo di Gai 2.94: ‘De illo quaeritur: an per eum servum, in quo usumfructum habemus, possidere aliquam rem et usucapere possumus, quia ipum non possidemus? rell.’ Sennonché, il ‘quaeritur’ gaiano mostra che vi era, al tempo di Gaio, una discussione fra i giuristi (cfr., per l’analoga forma verbale in Gai 2.95, ALBANESE, Le situazioni possessorie nel diritto privato romano, 1985, 32): onde nulla impedisce di pensare che Papiniano fosse autonomamente a conoscenza del dibattito e, intervenendo sul punto, si ricollegasse, piuttosto, alle notazioni di uno di quei giuristi. Lo stesso deve dirsi in relazione all’uso papinianeo, nello stesso testo, del dualismo ‘ex re nostra - ex operis servi’, che da Gai 2.91 (‘De his autem servis, in quibus tantum usumfructum habemus, ita p l a c u i t , ut quidquid ex re nostra vel ex operis suis adquirunt, id nobis adquiratur rell.’) apprendiamo esser concettualizzazione consolidata anche presso altri giuristi.

67 Nella documentazione papinianea pervenutaci, la specificità del complessivo assetto giuridico romano non è mai indicata con ‘nostra civitas’ o ‘ius (iura) nostrae civitatis’. Piuttosto, compaiono le espressioni ‘ius nostrum’ e ‘leges nostrae’: cfr. D.1.5.9 (Pap. 31 quaest.) ‘In multis iuris nostri articulis deterior est condicio feminarum quam masculorum’; D.26.2.26pr. (Pap. 4 resp.)

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unum v i n c u l u m i u r i s nec consensus ac societas coetus, quod est populus?’

Cic., fin. 3.21.67 ‘Et quo modo hominum inter homines i u r i s esse v i n c u l a putant, sic homini nihil iuris esse cum bestiis’.

In particolare, sulla base di queste due attestazioni si è proposto di leggere l’esordio della definizione come uno dei numerosi prestiti ciceroniani che si rinvengono negli scritti di Papiniano.68 Ma il collegamento desta perplessità già con riguardo al contenuto dei due luoghi ciceroniani. Invero, i due riscontri in esame non solo non riguardano lo specifico ambito delle obbligazioni,69 ma presentano le espressioni ‘vinculum iuris’ e ‘iuris vincula’ con significati assai distanti da quelli che possono interessare la fenomenologia obbligatoria e, specificamente, il dettato della definizione di obligatio: in rep. 3.31.43, le parole ‘unum vinculum iuris’ alludono al solo vincolo che lega i cives all’interno di una libera res publica e che è costituito dal ius, laddove in

‘Iure nostro tutela communium liberorum matri testamento patris frustra mandatur, nec, si provinciae praeses imperitia lapsus patris voluntatem sequendam decreverit, successor eius sententiam, quam leges nostrae non admittunt, recte sequetur’; D.48.5.39.2 (Pap. 36 quaest.) ‘...mulier tunc demum eam poenam, quam mares, sustinebit, cum incestum iure gentium prohibitum admiserit: nam si sola iuris nostri observatio interveniet, mulier ab incesti crimine erit excusata’. L’espressione ‘nostra civitas’ compare, invece, in D.1.2.2.1; 12 e D.49.15.5.3 (Pomponio); D.41.1.1pr. (Gai. 2 rer. cott.); D.29.2.8pr. (Ulpiano); D.1.1.11 (Paolo); D.50.6.6pr. (Callistrato). A queste attestazioni andrebbe aggiunto il riscontro dell’ignoto testo, presumibilmente un manuale istituzionale della fine del II secolo (cfr. M.FUHRMANN, Das systematische Lehrbuch cit., 187 nt. 1; NELSON, Überlieferung, Aufbau und Stil cit., 368s.), cui ha attinto l’autore del cd. fr. Dositheanum: ‘... Ius civile autem proprium est civium Romanorum, ab eo dictum, quod nostra civitas eo..... utitur. rell’ (si tratta della restituzione compiuta dal Lachmann ed accolta in FIRA II, 619).

68 Cfr. G.MANCUSO, A proposito della definizione di «obligatio» cit., spec. 168 e nt. 7. In generale, sul fenomeno dei collegamenti terminologico-concettuali tra Cicerone e Papiniano cfr. la bibl. citata in G.FALCONE, ‘Iurgium’, ‘lis’, ‘vicinitas’: un’interpretatio ciceroniana tra politica e diritto, in AUPA 43, 1995, 517 nt. 134 e in M.VARVARO, Iuris consensus e societas in Cicerone. Un’analisi di Cic., de rep., I,25,39, in AUPA 45.1, 1998, 462 nt. 43.

69 Con riguardo a fin. 3.20.67 cfr. B.ALBANESE, Papiniano cit., 177 nt. 30; con riferimento a rep. 3.31.43, che il Mancuso (p. 167 e 171) vorrebbe leggere come un richiamo ciceroniano ad una giusprivatistica «obligatio societatis», cfr. le osservazioni di M. VARVARO, Iuris consensus e societas in Cicerone cit., 453ss.

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un regime di tirannia gli abitanti sono ‘crudelitate oppressi’;70 in fin. 3.21.67, come si desume dal più ampio contesto,71 il termine ‘vincula’ allude ad una serie di relazioni intersoggettive che si traducono in l i m i t i che, in ragione di “una sorta di ius civile” che “intercede tra l’uomo e il genere umano”, gli uomini devono rispettare nel comportarsi verso i loro simili, e che, invece, non si configurano nei confronti degli animali (si tratta, in sostanza, del medesimo riferimento ai limiti posti all’agire umano che il segno ‘vinculum’ presenta nell’identica espressione ‘vincula iuris’ di Lucan., Bell. civ. 5.288s. ‘Nec fas nec vincula iuris/hos audere vetant’). Ma, più in generale, osserviamo che, anche a voler ammettere che i due trascritti brani possano avere in qualche modo influenzato il giurista autore della definizione (nel senso di una riemersione, con altro significato, di una metafora assorbita nel corso di precedenti letture), resta il fatto che lettore di Cicerone, prima di Papiniano, è stato già Gaio, nelle cui opere, e segnatamente nelle Institutiones e nelle Res cottidianae, sono stati riconosciuti, in dottrina, non pochi e non marginali punti di contatto con gli scritti dell’Arpinate.72

Di conseguenza, se ci poniamo dal punto di vista del collegamento linguistico-concettuale con Cicerone, la presenza dell’ immagine del vinculum iuris nella nostra definizione, lungi dall’orientare esclusivamente verso Papiniano, lascia aperta, ancora una volta, la possibilità che autore della definizione sia stato Gaio.

Con il che, il discorso sulla provenienza, che caldeggiamo, della definizione dalle Res cottidianae diventa non più rinviabile.

70 Cicerone, efficacemente, contrappone ad un’immagine che raffigura gli abitanti tenuti premuti e schiacciati dall’alto (‘oppressi’), l’immagine dei cives tenuti stretti tra loro dall’esistenza di un ‘vincolo’, costituito dal ius.

71 Cic., fin. 3.20.66 ‘...Minime autem convenit, cum ipsi inter nos viles neglectique simus, postulare ut diis immortalibus cari simus et ab iis diligamur. [...] inter nos natura ad civilem communitatem coniuncti et consociati sumus. Quod ni ita se haberet, nec iustitiae ullus esset nec bonitati locus. [67] Et quo modo hominum inter homines iuris esset vincula putant, sic homini nihil iuris esse cum bestiis. Praeclare enim Chrysippus: cetera nata esse hominum causa et deorum, eos autem communitatis et societatis suae, ut bestiis homines uti ad utilitatem suam possint sine iniuria. Quoniamque ea natura esset hominis ut ei cum genere humano quasi civile ius intercederet, qui id conservaret, eum iustum, qui migraret, iniustum fore’.

72 Cfr., per tutti, G.ANSELMO ARICÒ, Ius publicum-ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in AUPA 37, 1983, 729ss. (con bibl.) e, ultimamente, A.ARNESE, Nancisci in Gaio: la natura e il caso, in SDHI 67, 2001, 62ss. (con ulteriore lett.)

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5. Riflessioni sulla questione della paternità delle Res cottidianae.

E’ fin troppo ovvio, tuttavia, che in limine qualche rilievo debba formularsi a sostegno dell’assegnazione delle Res cottidianae (d’ora in poi: Res cott.) direttamente alla mano di Gaio, che anche noi assumiamo insieme con la dottrina ormai largamente maggioritaria.73

73 Cfr., ad es., F.WIEACKER, Textstufen klassischer Juristen, 1960, 187ss.; ID., ZSS 100, 1983, 636ss.; T.HONORÉ, Gaius. A biography, 1962, 113ss.; G.GROSSO, Il sistema romano dei contratti,3 1963, 13ss.; D.LIEBS, Gaius und Pomponius, in AA.VV., Gaio nel suo tempo (Atti del simposio romanistico.), 1966, 63ss.; ID., Rechtsschulen und Rechtsunterricht im Prinzipat, in ANRW II.15, 1976, 230; ID., Gnomon 55, 1983, 117ss.; F.WUBBE, Gaius et les contrats rèels, in TR 35, 1967, 523ss.; W.WOLODKIEWICZ, «Obligationes ex variis causarum figuris». Ricerche sulla classificazione delle fonti delle obbligazioni nel diritto romano classico, in RISG 97, 1970, 84ss.; A.SCHIAVONE, Studi sulle logiche dei giuristi romani. Nova negotia e transactio da Labeone a Ulpiano, 1971, 122ss.; F.GALLO, Per la ricostruzione e l’utilizzazione della dottrina di Gaio sulle obligationes ex variis causarum figuris, in BIDR 76, 1973, 172ss.; G.DIÓSDI, Gaius, der Rechtsgelehrte, in ANRW 15.2, 1976, 613s.; G.G.ARCHI, «Lex» e «natura» nelle Istituzioni di Gaio, in Fest. W.Flume, I, 1978, 20 (ora in Scritti di diritto romano, I, 1981, 167); NELSON, Überlieferung, Aufbau und Stil von Gai Institutiones, 1981, 308ss.; G.MELILLO, Forme e teorie contrattuali nell’età del Principato, in ANRW II.14, 1982, 490ss.; M.KASER, Divisio obligationum, in Studies on Justinian’s Institutes in memory of J.A.C. Thomas, 1983, 82; ID., Ius gentium, 1993, 94ss.; O.STANOJEVIC, Gaius Noster, 1989, 84ss.; V.GIUFFRÉ, La «mutui datio». Prospettive romane e moderne, 1989, 54ss.; S.TONDO, Classificazioni delle fonti d’obbligazione, in Labeo 41, 1995, 380ss.; J.J.DE LOS MOZOS TOUYA, La clasificacion de las fuentes de las obligaciones en las Instituciones de Gayo y de Justiniano y su valor sistematico en el moderno derecho civil, in SCDR 6, 1995, 115s.; E.STOLFI, Il modello delle scuole in Pomponio e Gaio, in SDHI 63, 1997, 68ss.; M.BRETONE, I fondamenti del diritto romano. La natura e le cose, 1998, 89; NELSON-U.MANTHE, Gai Institutiones III 88-181. Die Kontraktsobligationen. Text und Kommentar, 1999, 63ss.; G.FINAZZI, Ricerche in tema di negotiorum gestio. I. Azione pretoria ed azione civile, 1999, 203s.; M.TALAMANCA, Elementi di diritto privato romano, 2001, 272; A.SACCOCCIO, Si certum petetur. Dalla condeictio dei veteres alle condictiones giustinianee, 2002, 509s.

La letteratura in precedenza orientata verso l’origine postclassica delle Res cott., considerate come rielaborazione delle Institutiones e di altro materiale gaiano, è puntualmente indicata in M.FÜHRMANN, Zur Entstehung des Veroneser Gaius-Textes, in ZSS 73, 1956, 342 nt. 3 e in W.WOLODKIEWICZ, «Obligationes ex variis causarum figuris» cit., 84 nt. 2.

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Al riguardo, ci permettiamo di compiere una considerazione elementare e scontata, che però tocca, a nostro avviso, il nocciolo della questione. Occorre partire da due dati positivi: la salda attribuzione delle Res cott. a Gaio nelle inscriptiones del Digesto, nell’Index florentinus e nella costituzione introduttiva delle Institutiones (cost. Imp. § 6); e l’evidente fortissima impronta gaiana dello scritto. Ebbene, di fronte a questi due elementi, l’onere della prova grava su coloro che negano la provenienza da Gaio, non su quanti rispettano la notizia trasmessa dalle fonti, la quale, fino ad avvenuta dimostrazione contraria, deve tenersi ferma.

E tuttavia, a questo proposito non può che registrarsi l’inadeguatezza – oltre che di episodici e non sempre appositamente motivati rilievi svolti in occasione di singole questioni74 – anche dell’apparato argomentativo, più ad ampio raggio, che recentemente è stato compiuto contro la diretta paternità gaiana dell’opera da parte di uno studioso spagnolo, José Maria Coma Fort, 75 il quale, sulla base e di antiche osservazioni e di inediti spunti concernenti il profilo stilistico, dommatico e sistematico, ha riproposto la tradizionale opinione secondo

74 Per una valutazione critica delle varie osservazioni formulate contro la paternità gaiana delle Res cott. nella letteratura meno recente cfr. W.WOLODKIEWICZ, «Obligationes ex variis causarum figuris» cit., 84ss.

Contro la difesa della provenienza gaiana compiuta dallo studioso polacco si è brevemente pronunziato il Cannata (La classificazione delle fonti delle obbligazioni: vicende di un problema dommatico e pratico (I parte), in AA.VV., Materiali per una Storia della Cultura Giuridica, IV, 1974, 66 e nt. 73; Lineamenti di storia della giurisprudenza europea, I, 1976, 87 e nt. 17; Sul problema della responsabilità nel diritto privato romano, in IURA 44, 1993 [pubbl. 1996], 51s.), ma sulla base di una generica osservazione che «la dommatica delle res cottidianae è molto diversa da quella delle Istituzioni». Dal canto suo, H. WAGNER, Studien zur allgemeinen Rechtslehre des Gaius. Ius gentium und ius naturale in ihrem Verhältnis zum ius civile, 1978, 132ss. pensa ad una “frühnachklassiche Bearbeitung der Institutionen” in conseguenza dello scambio delle categorie ‘ius naturale-ius gentium’ (ma v. infra, nt. 80). Più circostanziata la posizione di J. PARICIO, Sull’idea di contratto in Gaio, in Causa e contratto in prospettiva storico-comparatistica (Atti Congresso ARISTEC, Palermo-Trapani 1995), 1997, 156ss. e ivi nt. 17, la quale, tuttavia, si alimenta di indicazioni (la caratterizzazione in chiave convenzionale del contratto; la considerazione delle obbligazioni pretorie; la menzione dell’imprudentia quale criterio d’imputabilità del iudex qui litem suam facit; l’assenza, in D.44.7.1.1, dell’obligatio litteris) che non sono risolutive: cfr. immediatamente infra, nel testo. Da ultimo, considera l’opera un rifacimento postclassico, ma senza addurre ragioni, A.GUARINO, Storia del diritto romano,12 1998,......

75 J.M. COMA FORT, El derecho de obligaciones en las Res cottidianae, 1996, passim e spec. 211ss.

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cui le Res cott. consisterebbero in uno scritto postclassico costruito attraverso la rielaborazione delle Institutiones gaiane.

A determinare l’inaccoglibilità di siffatta diagnosi è, anzitutto, la stessa circostanza che inficia le pronunzie similmente orientate in precedenza, e cioè il non aver tenuto conto di due istanze metodologiche 76 che ci sembrano irrinunciabili in vista di una ricerca sulla paternità dell’opera.

La prima istanza consiste nella necessità di tener separate la questione della genuinità di un singolo passo o di una singola parola e la più ampia questione della classicità dell’intero scritto. L’applicazione di questo criterio d’indagine toglie fondamento agli indizi che contro l’origine gaiana il Coma Fort ha voluto desumere dalla (presunta) non genuinità della citazione della media sententia in materia di specificatio (D.41.1.7), mancante nel corrispondente Gai 2.79, e della menzione dell’imprudentia quale criterio d’imputabilità del giudice ‘qui suam litem facit’ (D.44.7.5.4; D.50.13.6; J.4.5pr.).77-78

76 Peraltro, la stagione critica più antica attribuiva un peso determinante sinanche alle semplici varianti lessicali che si registravano nelle due opere: cfr., ad es., E.ALBERTARIO, Ancora sulle fonti dell’obbligazione romana, in Studi di diritto romano, III, 1936, spec. 111ss. (già in RIL 59, 1926); S.DI MARZO, I «libri rerum cottidianarum sive aureorum», in BIDR 51-52, 1948, 8.

77 J.M. COMA FORT, El derecho de obligaciones cit., 213s. (per la media sententia in materia di specificatio); 175ss. (per l’imprudentia del iudex). D’altra parte, già in sé presa la questione del criterio dell’imprudentia è forse da valutare in modo più articolato: cfr. le osservazioni di A.BURDESE, Sulla responsabilità del «iudex privatus» nel processo formulare, in Diritto e processo nell’esperienza giuridica romana (Atti del Seminario torinese in memoria di G.Provera – 1991), 1994, 168s.; 175s.; 185s., con ampia discussione delle più recenti posizioni dottrinarie (= A.BURDESE, Miscellanea romanistica, 1994, 87; 91s.; 98); ID., SDHI 62, 1996, 601 (si tratta della Recensio allo studio di Coma Fort). Quanto al tema della specificatio, i due problemi (la genuinità del singolo testo e la classicità dell’intera opera) sono opportunamente tenuti distinti, con esemplare equilibrio, nell’attenta analisi di M.SCHERMAIER, Materia. Beiträge zur Frage der Naturphilosophie im klassischen römischen Recht, 1992, 199ss.

78 Lo stesso dicasi, e a maggior ragione, per i due confronti addotti dal Coma Fort (p. 213) sul piano dello stile. In particolare, rispetto all’espressione ‘in balneum vel in theatrum eat’ di Gai 1.20, le parole ‘lavandi aut gestandi aut ludorum gratia prodierit’ di D.40.2.7 potrebbero anche apparire come una costruzione tarda e corrotta; ma non siamo costretti a pensare che essa facesse parte dell’originario dettato delle Res cott. Del pari, la frase ‘a b o l i t a est q u o r u n d a m v e t e r u m sententiam’ di D.41.3.38, che sostituisce in D.41.3.38=J.2.6.7 le parole ‘inprobata est eorum sententia’ di Gai 2.51, non appare di stampo gaiano; ma essa può ben derivare da un successivo intervento dovuto ad un ambiente (postclassico) ormai lontano dalla logica del ius

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La seconda esigenza metodologica consiste nella necessità di accostarsi all’analisi dell’opera senza partire dal rigido postulato secondo cui l’esistenza di differenze nell’impianto e nella latitudine di contenuti tra le Institutiones e le Res cott. implichi senz’altro una provenienza da due autori diversi, anziché una differente scelta nell’impostazione dei due scritti e/o il raggiungimento di una diversa maturazione di pensiero da parte dello stesso giurista.79 Anzi, per quel che riguarda specificamente l’ambito delle obbligazioni 80 è da osservare come tutte le indicazioni di ordine dommatico e sistematico che sono state invocate, e non solo dallo studioso spagnolo, a sostegno di una origine non gaiana dell’opera – e cioè: la più marcata assunzione della categoria del contratto come fondato sull’accordo e l’elaborazione della tripartizione delle fonti delle obligationes;81 la considerazione delle obbligazioni pretorie; 82 il completamento della enumerazione delle obligationes re; 83 l’interesse per il profilo della responsabilità contrattuale e per i relativi criteri84 – si coordinano unitariamente tra loro, rispondendo, a monte, ad una diversità di prospettiva e di portata della trattazione sulle obligationes nelle Res cott. rispetto alla corrispondente trattazione compiuta da Gaio nelle Institutiones, come osserviamo in una apposita ricerca cui stiamo attendendo.85 Il che,

controversum cui si rapportavano le concettualizzazioni ‘inprobatum’ e ‘conprobatum’.

79 Cfr., in particolare, W.WOLODKIEWICZ, «Obligationes ex variis causarum figuris» cit., 118s.; G.G.ARCHI, «Lex» e «natura» nelle Istituzioni di Gaio cit., 20 (= Scritti cit., 167).

80 Al di fuori di quest’ambito, si spiega con una più attenta cura (e, forse, con uno specifico interesse: infra, n. 14) di Gaio a distinguere le varie sfere del ius la circostanza (addotta contro la paternità gaiana da J.M. COMA FORT, El derecho de obligaciones cit., 214 e, prima ancora, da H. WAGNER, Studien zur allgemeinen Rechtslehre des Gaius cit., 132ss.) che in D.41.1.1pr. compare il ius gentium al posto del ius naturale menzionato in Gai 2.65: cfr. M.KASER, Ius gentium cit., 98ss.; G.FALCONE, Il metodo di compilazione cit., 318ss.; da ultimo, un cenno in C.BALDUS, Iure gentium adquirere, in SCDR 9-10, 1997-1998 (pubbl. 1999), 117 e nt. 38 (già ID., Rec. a KASER, Ius gentium cit., in SCDR Supl. 1992-93, 1994, 92s.).

81 J.M.COMA FORT, El derecho de obligaciones cit., 27ss.; 211. 82 J.M.COMA FORT, El derecho de obligaciones cit., 74.83 J.M.COMA FORT, El derecho de obligaciones cit., 74 (ma v. A.BURDESE, SDHI

62 cit., 595). 84 J.M.COMA FORT, El derecho de obligaciones cit., 55s.; 212 (ma v.,

nuovamente, A.BURDESE, SDHI 62 cit., 596).85 Si tratta della prosecuzione di uno studio sull’articolazione interna e sulla

portata delle Institutiones gaiane, di cui è apparsa una prima sezione con

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peraltro, rivela come il confronto tra i due scritti non soltanto non può risolversi nella segnalazione di questa o quella difformità e nella semplicistica equazione ‘difformità di contenuti=diversità di autore’, ma, prima ancora, deve essere proiettato in una più ampia dimensione d’indagine, che assuma le Institutiones non più soltanto come riferimento e misura per valutare la congruità (e la paternità) dei dati presenti nell’altro scritto, bensì, esse stesse, come oggetto di esame con riguardo alla strutturazione interna e alla finalità dell’informazione: un esame dal quale potrebbe venir fuori, magari, una forte peculiarità di punto di vista e di impianto dalla quale, magari, lo stesso giurista avrà ritenuto di scostarsi in una successiva trattazione delle stesse tematiche.

Infine, come non è probante l’assenza delle obligationes litteris dalla partizione delle fonti contrattuali (D.44.7.1.1),86 dal momento che è facilmente ipotizzabile che il testo originario sia stato amputato, consapevolmente o accidentalmente, in epoca postclassica;87 così non è sostenibile che nelle Res cott. manchi qualsiasi riscontro di quel tratto caratteristico della forma mentis gaiana che è il ricorso all’organizzazione divisoria delle materie:88 come vedremo più avanti (n. 14), infatti, tutto porta a ritenere che proprio dalle Res cott. derivi la summa divisio obligationum tra obligationes civiles e honorariae conservata in J.3.13.1.

In definitiva, conformemente alla premessa che ha costituito il punto di partenza di questo rapido vaglio critico, dobbiamo concludere nel senso del rispetto della solida indicazione delle fonti circa la paternità gaiana dello scritto, confortata dalla palese vicinanza di contenuti e di stile e a tutt’oggi non contraddetta da indicazioni univoche e probanti.

6. La provenienza della definizione dalle Res cottidianae secondo la dottrina: A) inadeguatezza degli indizi addotti a sostegno; B) inesistenza di argomenti in contrario.

riguardo alle actiones (G.FALCONE, Appunti sul IV commentario delle Istituzioni di Gaio, 2003).

86 J.M.COMA FORT, El derecho de obligaciones cit., 38ss. 87 Meno probabili ci sembrano le eventualità - alternativamente opposte da

A.BURDESE, SDHI 62, cit., 595 alla soluzione di Coma Fort - di una eliminazione da parte del compilatore di D.44.7.1.1 o da parte dello stesso Gaio nelle Res cott. (in ragione del disuso del nomen transscripticium).

88 J.M.COMA FORT, El derecho de obligaciones cit., 37s.; 211s.

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A. Non si può certo dire che, così come presentata in dottrina, l’attribuzione della definizione alle Res cott. – avente un’antica ed illustre ascendenza in Cujacio 89 – sia sorretta da elementi determinanti.

L’argomento principale in proposito addotto prende le mosse dal confronto fra i termini della definizione ‘iuris vinculum, quo n e c e s s i t a t e a d s t r i n g i m u r ...’ e le parole finali di Gai 3.87 (del brano, cioè, che precede immediatamente la trattazione sulle obbligazioni): ‘...iuris n e c e s s i t a t e hereditati a d s t r i n g a t u r ’. Si legga l’intero squarcio del manuale gaiano:

Gai 3.87 Suus autem et necessarius heres an aliquid agant in iure cedendo, quaeritur. Nostri praeceptores nihil eos agere existimant; diversae scholae auctores idem eos agere putant, quod ceteri post aditam hereditatem; nihil enim interest, utrum aliquis cernendo aut pro herede gerendo heres fiat an iuris n e c e s s i t a t e hereditati a d s t r i n g a t u r . [88] Nunc transeamus ad obligationes, quarum summa divisio rell.

In particolare, si è immaginato 90 che l’artefice della definizione di obligatio, allo scopo di impostare l’avvio della trattazione sulle obbligazioni, avesse consultato il corrispondente luogo delle Institutiones

89 Viene in questione una Recitatio del 1588 (Recitationes sollemnes in Tit. VII De obligationibus et actionibus lib. XLIV Digest., in Opera omnia, ed. Prati 1838, VI, p. 1325), nella quale Cujacio, peraltro senza una specifica argomentazione, attribuisce la definizione alle Res cott.: «...definitio obligationis sumpta ex his, ut opinor, Caji libris rerum quotidianarum sive aureorum, ex quibus est l.1 l.4 et 5 hoc tit. quae declarant quam sint variae origines, varii parentes, atque adeo variae obligationum species. Probabile enim est Cajum (in quo artem fuisse ejus scripta satis produnt) definitionem obligationis, posuisse prius, quam species aut formas».

90 V.ARANGIO-RUIZ, Noterelle gaiane cit., 58s. (un rielaboratore postclassico del manuale gaiano - l’autore delle Res cott., appunto -, volendo inserire una definizione di obligatio, si sarebbe «aggrappato alla tavola di salvezza che gli veniva offerta dal necessitate adstringatur dell’opera originale»); G.SCHERILLO, Le definizioni romane cit., 109 (in termini analoghi); C.A.CANNATA, Le definizioni cit., 154s., il quale, da un lato, ha esteso la corrispondenza lessicale fra i due testi anche al comune impiego del genitivo ‘iuris’, dall’altro lato ha immaginato che l’utilizzazione della chiusura di Gai 3.87 sia avvenuta meno consapevolmente: «l’autore della definizione, quando la elaborava, aveva fissate di fresco nella memoria, ronzanti, per così dire, nell’orecchio» le parole finali di Gai 3.87, «cosicché si trovò, più o meno consciamente, portato ad usarle».

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gaiane (3.88) e, cadutogli sotto gli occhi il tratto finale del paragrafo precedente (3.87), abbia finito per utilizzare più o meno consapevolmente la terminologia in esso contenuta. Se ne è tratta, con ragionevole coerenza, la conclusione che il protagonista di siffatta vicenda sia stato l’autore delle Res cott. 91 (ritenuto, però, un rielaboratore esterno delle Istituzioni di Gaio).

Contro questa ricostruzione, per vero di immediato fascino, 92 non ci sembrano troncanti né l’osservazione che il discorso complessivamente condotto in Gai 3.87 riguardava un ambito diverso dalle obbligazioni (la in iure cessio hereditatis)93 né il rilievo che il segno ‘necessitate’ è utilizzato nei due testi con valore differente: 94 l’una e l’altra circostanza, infatti, sono compatibili con l’eventualità di un influsso, più o meno consciamente subìto, del s e m p l i c e d a t o t e s t u a l e e s t e r i o r e della chiusura di Gai 3.87. Anzi, in linea teorica potrebbe anche addursi a conforto dell’interpretazione in esame il fatto che, pur non riguardando Gai 3.87 il tema delle obbligazioni, proprio nella frase conclusiva e in particolare nelle parole ‘hereditati adstringatur’ un giurista avrebbe potuto facilmente avvertire un riferimento alla sfera dell’ ‘obligare’, venendo, così, sollecitato ad utilizzare quel tratto finale del § nel costruire la definizione: si ricordi, infatti, che in diversi testi della cui genuinità non è lecito dubitare si incontra una specifica nozione di ‘obligare hereditati’95 (non importa qui se rigorosamente tecnica o

91 Diversamente, però, Cannata, il quale esclude la derivazione dalle Res cott. in ragione dell’assenza della definizione dall’esordio del titolo D.44.7: cfr. infra, n. 6.

92 Cfr. A.BISCARDI, “Secundum nostrae civitatis iura” cit., 42; e, sostanzialmente, R.QUADRATO, Le Institutiones nell’insegnamento di Gaio cit., 71 nt. 165.

93 E’ l’obiezione mossa da B.ALBANESE, Papiniano e la definizione di ‘obligatio’ cit., 168 nt. 6.

94 Nella definizione di obligatio il termine ‘necessitas’ allude alla coercibilità del vinculum tramite actio di accertamento (v. infra, n. 13-14), laddove nella chiusura di Gai 3.87 l’espressione ‘iuris necessitate’ si riferisce genericamente alla cogenza dell’ordinamento in contrapposizione alla produzione volontaria di una situazione giuridica (cfr., nello stesso manuale gaiano, il § 2.154, ove si spiega che, qualora un servo sia istituito heres cum libertate, assumendo la qualifica di heres necessarius, da un dominus che non soddisfa i creditori, subirà la bonorum venditio, ma, secondo Sabino, senza subire l’ignominia “quia non suo vitio, sed necessitate iuris bonorum venditionem pateretur”; per altri giuristi cfr. D.5.1.40pr. e D.20.5.2 [Papiniano] e D.12.3.11 [Paolo]: v. T.MAYER-MALY, Obligamur necessitate cit., 55 nt. 33).

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meno)96 e, soprattutto, che questa linea terminologico-concettuale è attestata nelle stesse Institutiones di Gaio. 97

Piuttosto, ciò che è possibile obiettare alla ricostruzione in esame è la grave insoddisfazione derivante dal fatto che l’accostamento con la terminologia di Gai 3.87 lascia assolutamente inspiegati gli altri segmenti della definizione, così caratterizzanti, quali l’incisiva apertura

95 D.3.5.20.1 (Paul. 9 ad ed.) ‘qui negotia hereditaria gerit...sibi hereditatem seque ei obligat’; D.28.1.12 (Iul. 42 dig.) ‘filius eius, qui in hostium potestate decessit, invitus hereditati obligatur’; D.28.5.45 (Alf. 5 dig.) ‘neminem ...hereditati neque alligari neque exheredari posse’; D.29.2.5pr. (Ulp. 6 ad Sab.) ‘mutum nec non surdum...pro herede gerere et obligari hereditati posse constat’; D.29.2.6pr. (Ulp. 6 ad Sab.) ‘qui in aliena est potestate, non potest invitum hereditati obligare eum in cuius est potestate’; D.29.2.6.4 (Ulp. 6 ad Sab.) ‘is, quem pater iussit adire et decessit, si adierit iam mortuo patre, obliget se hereditati, ut Iulianus ...scripsit’; D.29.2.21.1 (Ulp. 7 ad Sab.) ‘interdum autem animus solus eum obstringet hereditati’; D.29.2.22 (Paul. 2 ad Sab.) ‘is, ad quem legitima hereditas pertinet, ... placet non obligari eum hereditati’; D.29.2.50 (Mod. l. sing. de heur.) ‘si...tutor moriatur, antequam ex epistula servus adiret, nemo dicturus est obligari...pupillum hereditati’; D.29.2.78 (Pomp. 35 ad Q.Muc.) ‘consulebat, num...hereditati se alligasset’; D.29.2.93.2 (Paul. 3 sent.) ‘mutus servus iussu domini pro herede gerendo obligat dominum hereditati’; C.2.24.1 (a. 215) ‘...quod paternae hereditati vos obligastis’; C.6.30.1 (a. 214) ‘...vereris, ne hereditati paternae sis obligata’. Per la classicità di queste attestazioni cfr. S.PEROZZI, L e obbligazioni romane cit., 89 nt. 1 in fine; S.SOLAZZI, Glosse a Gaio - II, in Studi per il XIV Centenario della Codificazione giustinianea, 1934, 350 nt. 135 (ma v., successivamente, ID., L’«in iure cessio hereditatis» e la natura dell’antica «hereditas», in IURA 3, 1952, 22ss.); R.AMBROSINO, In iure cessio hereditatis in SDHI 10, 1944, 22s.; ID., Esercitazioni di dommatica moderna sul diritto romano, in SDHI 17, 1951, 210ss.; E.BETTI, ‘In iure cessio hereditatis’, ‘successio in ius’ e titolo di ‘heres’, in St. Solazzi, 1949, 598; M.BRETONE, Servus communis. Contributo alla storia della comproprietà romana in età classica, 1958, 109 nt. 11; G.MELILLO, In solutum dare cit., 58 nt. 47; M.MERLI, “Obligatio hereditati” e “obligatio rei”, in St. Biscardi, VI, 1987, 223ss.; A.BISCARDI, La dottrina romana dell’obligatio rei, 1991, 153ss.; NELSON-U.MANTHE, Gai Institutiones III, 1-87. Text und Kommentar, 1992, 212.

96 La tecnicità di questa locuzione è stata sostenuta, in passato, da R.AMBROSINO, In iure cessio hereditatis cit., 3ss.; ID., Esercitazioni di dommatica moderna cit., 212ss. (con maggior cautela); in tempi recenti, e in diversa prospettiva, da M.MERLI, “Obligatio hereditati” e “obligatio rei” cit., 211ss. e da A.BISCARDI, La dottrina romana dell’obligatio rei cit., 155ss. Diversamente, F.DE MARTINO, Note in tema di in iure cessio hereditatis, in St. Solazzi cit., 570ss.; A.GUARINO, Notazioni romanistiche.III. In iure cessio hereditatis, Ibidem, 40ss.; B.ALBANESE, La successione ereditaria in diritto romano antico,

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‘obligatio est iuris vinculum’, le parole ‘alicuius solvendae rei’ e la singolare chiusura ‘secundum nostrae civitatis iura’.98

Dal canto suo, lo Scherillo – uno degli studiosi che ha aderito al predetto collegamento tra la chiusura di Gai 3.87 e la costruzione della definizione – ha addotto anche altri due spunti argomentativi che dovrebbero orientare verso le Res cott.: da un lato, il confronto tra le parole ‘alicuius solvendae rei’ e il dettato di Gai 3.168 ‘Tollitur autem

in AUPA 20, 1949, 410 nt. 1; G.SCHERILLO, La in iure cessio dell’eredità, in St. Carnelutti, IV, 1950, 255ss. (non consultato direttamente).

97 Gai 2.34 Hereditas quoque in iure cessionem tantum recipit. [35] Nam si is, ad quem ab intestato legitimo iure pertinet hereditas, in iure eam ante aditionem cedat, id est antequam heres extiterit, proinde fit heres is, cui in iure cesserit, ac si ipse per legem ad hereditatem vocatus esset: p o s t o b l i g a t i o n e m vero si cesserit, nihilo minus ipse heres permanet et ob id creditoribus tenebitur, debita vero pereunt eoque modo debitores hereditarii lucrum faciunt; corpora vero eius hereditatis proinde transeunt ad eum, cui cessa est hereditas, ac si ei singula in iure cessa fuissent. [36] Testamento autem scriptus heres ante aditam quidem hereditatem in iure cedendo eam alii nihil agit; postea vero quam adierit si cedat, ea accidunt, quae proxime diximus de eo, ad quem ab intestato legitimo iure pertinet hereditas, si p o s t o b l i g a t i o n e m in iure cedat. [37] Idem et de necessariis heredibus diversae scholae auctores existimant, quod nihil videtur interesse, utrum aliquis adeundo hereditatem fiat heres an invitus existat. quod quale sit, suo loco apparebit: sed nostri praeceptores putant nihil agere necessarium heredem, cum in iure cedat hereditatem.

Anche questa testimonianza gaiana deve ritenersi genuina. Invero, le posizioni critiche del Solazzi – il quale, in un primo tempo (Glosse a Gaio - II cit., 350ss.), ha ritenuto insitici gli interi Gai 2.35-37, ammettendo, però la classicità dell’uso in sé di ‘obligatio’ («Gaio poteva benissimo designare l’adizione con la parola obligatio»: p. 350 nt. 135), e successivamente ha escluso anche la genuinità di questo impiego di ‘obligatio’ (IURA 3 cit., 22ss.; 33ss.) –, pur essendo state riproposte in tempi recenti dal Robbe (Le definizioni delle fonti della hereditas ed i suoi due significati. La in iure cessio hereditatis, in St. Donatuti 3, 1973, 1111 1109 nt. 93), appaiono definitivamente superate dalle argomentazioni di B.ALBANESE, Gai II, 34-37 e l’in iure cessio hereditatis, in AUPA 23, 1953, 224ss. (= Scritti giuridici cit., I, 54ss.), cui aderiscono F.BONA, Il coordinamento delle distinzioni «res corporales-res incorporales» e «res mancipi-res nec mancipi» nella sistematica gaiana, in AA.VV., Prospettive sistematiche nel diritto romano, 1976, 444 nt. 78; e, ultimamente, M.MERLI, “Obligatio hereditati” e “obligatio rei” cit., 213. Cfr. anche A.BISCARDI, La dottrina romana dell’obligatio rei cit., 78 e 153ss. Del resto, l’affidabilità della testimonianza gaiana era stata assunta non solo, ovviamente, dall’Ambrosino (In iure cessio hereditatis cit., spec. 23ss.; Esercitazioni di dommatica moderna cit., 210s.), il quale ne traeva argomento per la tecnicità della terminologia, ma anche da quanti avevano respinto le implicazioni dogmatiche sostenute da

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obligatio praecipue s o l u t i o n e eius quod debetur’;99 dall’altro lato, il coordinamento fra il tratto finale della definizione ‘secundum nostrae civitatis iura’ e la summa divisio tra obbligazioni civili e onorarie conservata in J.3.13.1, assegnata da questo studioso alle Res cott.100

Tuttavia, il primo indizio è senz’altro inconsistente: come è già stato opportunamente da altri obiettato, 101 il richiamo alla solutio è infatti ovvio e scontato, onde l’accostamento fra i due testi non può provare alcunché. Quanto al secondo spunto, si tratta, questa volta, di

questo autore: E.BETTI, ‘In iure cessio hereditatis’ cit., 598; F.DE MARTINO, Note in tema di in iure cessio hereditatis cit., 570ss.; A.GUARINO, Notazioni romanistiche.III, cit., 40ss.; G.SCHERILLO, La in iure cessio dell’eredità cit., 278s. Ne assume la genuinità, da ultimo, R.QUADRATO, Favor rei ed aequitas: la regula di D.50.17.125, in St.Gallo, II, 1997, 228 (pur condierando tale terminologia «alquanto vaga», sulla scia di NELSON-U.MANTHE, Gai Institutiones III, 1-87 cit., 212). Né può esser accolta la critica di VAN OVEN, Le sens des mots «obligatio» et «obligare» chez Gaius cit., 124, il quale, partendo dall’affermazione che i riscontri di Gai 2.35 e 36 costituirebbero i soli casi in cui, nel manuale gaiano, ‘obligatio’ è impiegato nel senso di ‘atto obbligante’, ha sostenuto che nel testo originario doveva comparire ‘aditio’ e che è stato un copista successivo a sostituire questo termine con ‘obligatio’. Da un lato, è infondato il presupposto da cui muove il ragionamento: allo studioso olandese sono sfuggiti, infatti, gli ulteriori brani del manuale gaiano, nei quali ‘obligatio’ indica l’atto costitutivo, anziché il rapporto obbligatorio (cfr. Gai 3.92 ‘Verbis obligatio fit ex interrogatione et responsione, veluti ‘dari spondes? spondeo’, da collegare con Gai 3.93 ‘Sed haec quidem verborum obligatio ‘dari spondes? spondeo propria civium Romanorum est. [...] At illa verborum obligatio ‘dari spondes? spondeo’ adeo propria civium Romanorum est, ut ne quidem in Graecum sermonem per interpretationem proprie transferri possit...’; Gai 3.136 ‘...inter absentes quoque talia negotia contrahuntur, veluti per epistulam aut per internuntium, cum alioquin verborum obligatio inter absentes fieri non possit’. Non può escludersi, peraltro, che il significato di ‘atto obbligante’ sia da riconoscere anche in Gai 3.128, 3.135 e 3.170, indicati da F.DUMONT, Obligatio, in Mél. Meylan, 1963, 10 [lo stesso autore segnala anche Gai 3.88, 3.134: ma infondatamente] e in Gai 3.155, richiamato da R.SANTORO, Il contratto nel pensiero di Labeone, in AUPA 37, 1983, 15 nt. 18 [pur se lo scambio tra il singolare nell’espressione ‘contrahitur mandati obligatio’ e la successiva precisazione ‘et i n v i c e m alter alteri tenebimur rell.’ potrebbe, forse, esser spiegato alla luce di un’accezione di ‘obligatio’ come ‘complessivo rapporto obbligatorio’]; meno probabile ci sembra la presenza di quest’accezione in Gai 3.119, indicato, peraltro dubitativamente, da W.FLUME, Rechtsakt und Rechtsverhältnis. Römische Jurisprudenz und modernrechtliches Denken, 1990, 28). Dall’altro lato, la deduzione concernente l’operato del copista, il quale avrebbe sostituito ‘aditio’ con ‘obligatio’ «soit par malentendu, soit pour éviter la répétition trop fréquente d’aditio, ou bien trompé par la mention suivante des creditores», si presenta già in sé inaccettabile: infatti, come è paleograficamente poco credibile una confusione tra ‘aditio’ e ‘obligatio’, così

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un’intuizione che a èprima vista esercita una facile presa; e però, come vedremo nella sede apposita, 102 il collegamento tra le parole finali della definizione e la summa divisio obligationum di J.3.13.1 non appare soddisfacente e, almeno a nostro modo di vedere, il richiamo alla conformità ai ‘nostrae civitatis iura’ ha una diversa ragion d’essere.

B. D’altra parte, però, se finora non sono stati forniti elementi adeguati in favore di una provenienza della definizione dalle Res cott., nemmeno possono ritenersi decisivi i due soli argomenti specifici che sono stati opposti – con diversa intensità – contro l’attribuzione a quest’opera.

Il primo di essi consiste nella mancanza della definizione nel titolo D.44.7 ‘De obligationibus et actionibus’.

Com’è risaputo, questo titolo del Digesto si apre direttamente con la tripartizione delle fonti delle obbligazioni tratta dal II libro delle Res cott.: ‘Obligationes aut ex contractu nascuntur aut ex maleficio aut proprio quodam iure ex variis causarum figuriis’. Ebbene, questa circostanza è stata senz’altro considerata da alcuni studiosi 103 come ostacolo all’idea che nello stesso scritto fosse contenuta anche la definizione di obligatio: «è chiaro [...] che tale definizione non figurava nelle res cottidianae. [...]: se ci fosse stata, i compilatori non avrebbero mancato di iniziare il loro excerptum qualche rigo prima».104

In realtà, così ragionando, si finisce per considerare in maniera rigida e, per dir così, meccanica il dato esteriore costituito dalla mancanza

non appare conforme al procedere di un amanuense né una volontaria sostituzione di un termine al fine di evitare una presenza ripetuta dello stesso nel testo da copiare né una preventiva consultazione del brano successivo a quello da trascrivere.

98 E peraltro, come vedremo più avanti, anche le stesse parole ‘necessitate adstringi’ (con l’inscindibile seguito ‘alicuius solvendae rei’) sono frutto non dell’istintiva (ri)utilizzazione di una terminologia finita casualmente sotto gli occhi dell’autore della definizione, bensì di una meditata escogitazione, che le mostra pienamente volute e, soprattutto, ricche di significato.

99 G.SCHERILLO, Le definizioni romane cit., 109.100 G.SCHERILLO, Le definizioni romane cit., 111s. (sulla provenienza della

summa divisio obligationum) e 114ss. (sul coordinamento tra la summa divisio stessa e le parole finali della definizione).

101 Da B.ALBANESE, Papiniano e la definizione di ‘obligatio’ cit., 168 nt. 6.102 Infra, n. 16.103 C.A.CANNATA, Le definizioni cit., 149ss.; B.ALBANESE, Papiniano cit., 168 nt.

6.104 C.A.CANNATA, Le definizioni cit., 153.

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della definizione.105 Il dato merita, invece, di essere approfondito, valutando la possibilità che esso, anziché dipendere dalla sede originaria della definizione, abbia a che fare con i contenuti della definizione stessa, in sé presi e/o rispetto alla più ampia trama del titolo D.44.7.

Ebbene, in questa prospettiva, la spiegazione che si affaccia in modo naturale consiste nel fatto che i compilatori di D.44.7, pur disponendo di un testo classico contenente la nostra definizione, hanno deliberatamente omesso di riportarla per qualche ragione, limitandosi a trascrivere, come affermazione generale sulla nozione dell’obligatio, la seguente precisazione di Paolo:

D.44.7.3 (Paul. 2 inst.) ‘Obligationum substantia non in eo consistit, ut aliquod corpus nostrum aut servitutem nostram faciat, sed ut alium nobis obstringat ad dandum aliquid vel faciendum vel praestandum’.106

105 Lo stesso dicasi per la posizione di G.SCHERILLO, Le definizioni cit., 112ss., il quale ha ritenuto talmente imbarazzante l’assenza della definizione dal titolo D.44.7 che, allo scopo di salvare l’attribuzione alle Res cott., si è aggrappato alla nota ipotesi dell’Arangio Ruiz (Ancora sulle res cottidianae. Studi di giurisprudenza postclassica, in St. Bonfante, I, 1930, 493ss.) circa l’esistenza di due distinte redazioni delle Res cott. che sarebbero circolate tra i compilatori del Corpus iuris, per sostenere che solo la redazione utilizzata dai commissari delle Institutiones, non anche quella cui attinsero i compilatori del Digesto, avrebbe contenuto la definizione di obligatio. Sennonché – qualunque cosa si pensi in merito alla ricostruzione dell’Arangio Ruiz (contra, cfr. , ad es., S.DI MARZO, I «libri rerum cottidianarum sive aureorum» cit., 15ss. e NELSON, Überlieferung, Aufbau und Stil cit., 308ss.; in favore, ultimamente, R.KNÜTEL, Rev. de droit franç. et étr., 76, 1998, 197 e nt. 34; si mostra aperto a questa possibilità F.WIEACKER, ZSS 100, 1983, 637) – appare assai difficile credere che, nelle vicende della trasmissione dell’opera, si sia verificata l’eliminazione di un testo quale la definizione di obligatio, di portata e contenuto così ‘universale’, valevoli altrettanto bene per l’epoca classica come per gli ambienti giuridica d’età postclassica e giustinianea.

106 Contro la considerazione, da parte dei giustinianei, del rilievo di Paolo quale notazione generale non potrebbe valere la circostanza che esso viene inserito all’interno della catena di frammenti, anziché in apertura del titolo D.44.7 (prima, cioè, della divisio sulle causae obligationum). Si consideri, infatti, che nello stesso titolo ‘De obligationibus et actionibus’ la nota definizione celsina dell’actio ‘Nihil aliud est actio quam ius quod sibi debeatur, iudicio persequendi’ - certamente avvertita come nozione generale da qualsiasi commissario, non dal solo Teofilo (per il quale è attestata in PT.4.6pr. l’esplicita considerazione quale ‘definitio’: ‘Ð r … s w m e n t… ™stin actiwn’) - , lungi dal trovarsi in testa alla catena di frammenti riguardanti, più direttamente, le actiones, è inserita dai compilatori molto più avanti (fr. 51); e, proprio come

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Il confronto tra la definizione di obligatio e la notazione di Paolo mostra immediatamente una macroscopica differenza esteriore, che, a quanto ci consta, non è stata mai tenuta in conto nell’ambito della questione che qui interessa. Ci riferiamo al fatto che, mentre la definizione di obligatio fissa l’istituto dal punto di vista del debitore (‘obligatio est iuris vinculum quo a d s t r i n g i m u r ’), il discorso di Paolo è impostato sulla contrapposta prospettiva del creditore: ‘obligationum substantia ... in eo consistit, ... ut alium n o b i s obstringat’.107

Ora, questa diversità, che istintivamente potrebbe apparire casuale e irrilevante, assume significato se si pone mente al fatto che la considerazione del rapporto obbligatorio dal lato attivo non riguarda solo l’affermazione paolina, bensì caratterizza l’intero titolo D.44.7 ‘De obligationibus et actionibus’: l’obligatio e l’actio sono in esso assunte dal punto di vista del creditore, che è titolare di un’aspettativa e che dispone di uno strumento per farla valere giudizialmente. E’ questo il senso dell’abbinamento dei due istituti sia nell’intestazione108 che nella accade per la notazione di Paolo sulla obligationum substantia, è preceduta, fra gli altri, da alcuni testi che contengono classificazioni delle azioni (fr. 25: ‘Actionum genera sunt duo, in rem, quae dicitur vindicatio, et in personam, quae condictio appellatur’; ‘Actionum quaedam ex contractu, quaedam ex facto quaedam in factum sunt’; ‘Omnes autem actiones aut civiles dicuntur aut honorariae’), nonché distinzioni e precisazioni sull’estensione della nozione di ‘actio’ (fr. 28: ‘Actio in personam infertur: petitio in rem: persecutio in rem vel in personam rei persequendae gratia’; fr. 37: ‘Actionis verbo continetur in rem, in personam; directa, utilis; praeiudicium, sicut ait Pomponius; stipulationes etiam, quae praetoriae sunt, quia actionum instar obtinent [...] interdicta quoque actionis verbo continentur’; ‘Mixtae sunt actiones, in quibus uterque actor est’).

107 Su questo aspetto, del resto di immediata evidenza, cfr. le notazioni di L.LANTELLA, Note semantiche cit., 191s. Non va taciuto, comunque, che, allo scopo di rappresentare la prospettiva del creditore, Paolo mette in evidenza l’elemento del debito, anziché il credito: cfr. C.A.CANNATA, Usus hodiernus Pandectarum, common law, diritto romano olandese e diritto comune europeo, in SDHI, LVII, 1991, 393.

108 Identica intestazione ‘De obligationibus et actionibus’ ha il titolo 4.10 del Codex, rispondente anch’essa alla più ampia tendenza giustinianea di avvicinamento e (con)fusione tra le obbligazioni e le azioni. Il dato e la spiegazione dello stesso sono da tempo riconosciuti in dottrina: cfr. la bibl. citata in G.FALCONE, Il metodo di compilazione cit., 361 nt. 345 (tra cui merita un esplicito richiamo almeno SOUBIE, Recherches sur les origines des rubriques du Digeste, 1960, 137ss.) e, da ultimo, L.FASCIONE, Le rubriche delle Pandette di Giustiniano, in Scientia iuris e linguaggio nel sistema giuridico romano (Atti

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tessitura interna del titolo. Alla base vi è la maturata, decisa percezione, da parte dei giustinianei, dell’obbligazione quale ‘madre dell’azione’:109

una raffigurazione che, evidentemente, coglie dal lato attivo il nesso (divenuto, ora, particolarmente stretto)110 dell’obligatio con l’esperimento processuale da parte del creditore-attore. Al riguardo, è sufficiente constatare che tutte le affermazioni di carattere generale inserite in D.44.7 immettono l’obligatio e l’actio in questa direzione: così è, appunto, per il discorso di Paolo; così per l’affermazione di Papiniano ‘obligationes, quae non propriis viribus consistunt, neque officio iudicis neque praetoris imperio neque legis potestate confirmantur’ (fr. 27);111

così, naturalmente, per la definizione celsina dell’actio come ‘ius iudicio persequendi quod sibi debeatur’ (fr. 51); così ancora per la nozione ulpianea di actio in personam, ‘qua cum eo agimus, qui obligatus est nobis ad faciendum aliquid vel dandum’ (fr. 25).112

Convegno - Sassari 1996), 2001, 73. Del resto, anche con riguardo ai contenuti, nel titolo C.4.10 è assolutamente dominante il punto di vista attivo del creditore-attore: fr. 1, 2, 6, 7, 8, 9, 10, 13, 14.

109 Sull’intera questione ci permettiamo di rinviare (anche per i riscontri nella Parafrasi teofilina, in cui tale raffigurazione è particolarmente spiccata, e per i richiami bibliografici) all’indagine che abbiamo condotto in Il metodo di compilazione cit., 359ss.

110 In particolare, la scomparsa, determinata dall’abolizione del processo formulare, del regime della condanna (necessariamente) pecuniaria e dell’effetto cd. novativo della litis contestatio doveva agevolmente portare ad avvertire una sostanziale coincidenza tra l’oggetto del rapporto obbligatorio sì come derivante dalla causa obligationis e quel che il creditore otteneva con l’esperimento processuale: in definitiva, tra il diritto di credito e la pretesa giudiziale. Si apre così la strada per descrivere, addirittura, il ius obligationis negli stessi termini con cui si definisce l’actio: PT.2.2.2 - PT.4.6.1 (su cui G.FALCONE, Il metodo di compilazione cit., 368s.).

In generale, sulla vicenda che, a seguito del venir meno del processo formulare, porta in epoca postclassico-giustinianea a concepire l’azione come «Anspruch des materiellen Rechts» (Kaser) cfr., praecipue, C.LONGO, Criterio giustinianeo della “natura actionis”, in St. Scialoja I, 1905, 639ss.; P.COLLINET, La nature des actions cit., 319ss.; B.BIONDI, Diritto e processo nella legislazione giustinianea, in Conferenze per il XIV Centenario delle Pandette, 1931, 164s.; 171ss.; M.KASER, RPR II2, 1975, 68s.; ID., ZPR2, 1996, 579.

111 Cfr. il commento di CUJACIO, In tit. VII De Obligat. et action. lib. XLIV Digest., in Opera cit., t. VI, c. 1387.

112 L’unica eccezione è costituita dal fr. 52, contenente la famosa classificazione delle fonti dell’obligatio attribuita a Modestino ed interamente costruita dal lato passivo (pr. Obligamur aut re aut verbis aut simul utroque aut consensu aut lege aut iure honorario aut necessitate aut peccato. 1. Re obligamur, cum res ipsa intercedit. 3. Re et verbis pariter obligamur, cum et res interrogationi intercedit, consentientes in aliquam rem. 4. Ex consensu obligari

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Evidentemente, la definizione di obligatio non si pone in linea con questa impostazione. Ciò rende del tutto comprensibile – diremmo: inevitabile – il fatto che il compilatore (o uno dei compilatori) di D.44.7, pur avendola dinanzi agli occhi (leggendo la fonte da cui è stata escerpita la divisio delle causae obligationum), abbia omesso di trascrivere e di presentare come cornice dell’intero mosaico di frammenti un testo interamente congegnato sul lato passivo del rapporto e, dunque, immediatamente fuori asse già rispetto alla stessa rubrica del titolo.

Del resto, la definizione di obligatio, oltre che non congrua rispetto alla complessiva angolazione del titolo D.44.7, poteva ben apparire inadeguata per ulteriori ragioni.

Ad esempio, se anche da parte dei romanisti si sente il bisogno di avvertire che le parole ‘necessitate adstringi’ della definizione alludono a tutt’altro fenomeno rispetto al ‘necessitate obligari’ del discorso di Modestino trascritto in D.44.7.52, 113 non può escludersi che la stessa preoccupazione di fugare possibili equivoci avesse indotto il compilatore ad evitare la compresenza nello stesso titolo dei due testi. Oppure (o al contempo), come i moderni studiosi 114 e diversamente dal compilatore di J.3.13,115 il compilatore del titolo D.44.7 potrebbe esser rimasto

necessario ex voluntate nostra videmur. 5. Lege obligamur, cum obtemperantes legibus aliquid secundum praeceptum legis aut contra facimus. 6. Iure honorario obligamur ex his, quae edicto perpetuo vel magistratu fieri praecipiuntur vel fieri prohibentur. 7. Necessitate obligantur, quibus non licet aliud facere quam quod praeceptum est: quod evenit in necessario herede. 8. Ex peccato obligamur, cum in facto quaestionis summa consistit). Ma occorre notare che i compilatori, se, da un lato, dovettero considerare il brano estremamente utile in ragione della varietà delle causae obligationis indicate, dall’altro lato non avrebbero mai potuto alterarne l’impostazione e riscrivere dal punto di vista del creditore le fattispecie del lege, iure honorario, necessitate obligari.

113 Cfr., ad es., T.MAYER-MALY, ‘Obligamur necessitate’ cit., 50s.; A.GUARINO, ‘Obligatio est iuris vinculum’ cit., 265: «In I.3.13pr. non ci troviamo di fronte ad un ‘obligari necessitate’ [...] Nel passo non si parla delle species del necessitate obligari (differenziata da quella o da quelle del non necessitate obligari), come fa Modestino (o chi per lui) nei paragrafi del libro 2 reg. riportati in D.44.7.52pr. e 7». Nella tradizione d’età moderna cfr., ad es., CUJACIO, In tit. VII De Obligat. et action.cit., in Opera cit., t. VI, c. 1452; WISSENBACH, Exercitationum ad L libros Pandectarum partes duae, ed. Lipsiae, 1673, c. 914; HUBERUS, Praelectionum jurisi civilis cit., 279.

114 Cfr. infra, n. 9 sub c.115 Che il compilatore del titolo D.44.7 (o, almeno, della sua prima parte) non

fosse lo stesso che ha curato il titolo J.3.13 (Doroteo: supra, n. 2 nt. 22), ove

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insoddisfatto dall’indeterminatezza dell’espressione ‘solvere aliquam rem’.116 E quest’ultima, chissà, potrebbe ulteriormente essere apparsa inopportuna a causa della contigua presenza (fr. 1; 2; 3; 5; 6) di ripetuti riferimenti al ‘re obligari’ e al ‘de ipsa re restituenda teneri’ in tema di obligationes re contractae.

L’incompatibilità rispetto ai complessivi contenuti del titolo o ai dati di singoli frammenti e, al contempo, le riserve su alcuni elementi della definizione in sé considerati avranno, dunque, indotto il compilatore (della prima parte) di D.44.7, 117 di fronte all’alternativa costituita da una

compare la definizione, si evince dal fatto che, in materia di divisio obligationum, i due titoli presentano impostazioni e contenuti differenti, il primo conservando dalle Res cott. la tripartizione ‘contratti-delitti-variae causarum figurae’ (D.44.7pr.), il secondo creando la quadripartizione ‘obbligazioni da contratto, da delitto, quasi da contratto, quasi da delitto’ (J.3.13.2).

Con l’occasione, osserviamo che saggiare l’eventualità che, con riguardo a questo o quell’istituto o regime giuridico, esistesse una diversità di vedute tra gli stessi compilatori giustinianei - massime, tra gli antecessores - costituisce, a nostro avviso, un’ imprescindibile istanza metodologica, che occorre tener presente in ogni indagine che ruoti sui testi del Corpus iuris e sulla produzione bizantina agglutinatasi intorno alla Compilazione. Ne abbiamo segnalato l’opportunità in apertura di una ricerca (essa stessa strumentale alla fondazione di alcune basi per l’impiego di codesto approccio metodologico) vòlta a riconoscere i singoli compilatori che hanno curato le varie parti delle Institutiones; e già in quella sede avvertimmo, a titolo di esempio, delle possibili refluenze che l’individuazione del compilatore responsabile del settore delle obbligazioni può avere proprio sullo studio interno del titolo J.3.13 ‘De obligationibus’ (e, dunque, sulla definizione di obligatio in esso contenuta): cfr. G.FALCONE, Il metodo di compilazione cit., 226s.

116 Anche da questo punto di vista, l’affermazione di Paolo, con il puntuale riferimento ad ‘aliquid dare, facere, praestare’, doveva apparire preferibile.

117 L’individuazione del compilatore responsabile del titolo D.44.7 o, almeno, della sua prima parte non sembra, allo stato, prospettabile neanche a livello di congettura. Tutt’al più, può notarsi che le inscriptiones dei frammenti 1-5 mostrano che si tratta di materiale istituzionale, diffuso nelle scuole: se ne potrebbe desumere, chissà, la riconduzione di questo gruppo di frammenti ad uno dei quattro antecessores (Doroteo, Teofilo, Cratino, Anatolio) facenti parte della Commissione giustinianea. Ove si accettasse questa suggestione, occorrerebbe escludere Doroteo, in ragione della diversità di impostazione e contenuti del titolo J.3.13 (supra, nt. 115); con il Teofilo della Parafrasi potrebbe intravedersi qualche parallelismo (ad es., il collegamento tra l’obligatio e l’actio, che è alla base dell’intero titolo D.44.7, costituisce, come abbiamo già ricordato [supra, ntt. 117-118], una caratteristica particolarmente spiccata della Parafrasi; l’ampio spazio dedicato, in D.44.7, alle obbligazioni naturali [fr. 7; 9; 10; 13; 14; 39; 43; 46; 58] trova un pendant nella proqewr…a che si legge in PT.3.20.1, autonomamente aggiunta da Teofilo rispetto al dettato del manuale imperiale); ma è evidente che sia la consistenza in sé di

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(pesante) manipolazione testuale, a risolversi per la scelta – radicale, ma più rispettosa verso un dettato sicuramente celebre nella cultura giuridica118 – di omettere direttamente la definizione stessa.119

La mancanza nel titolo D.44.7, dunque, nulla può provare circa l’inquadramento storico, la paternità e la collocazione originaria della definizione stessa: per quel che qui specificamente interessa, questa assenza non può esser utilizzata per escludere che la definizione derivi dalle Res cott.

Il secondo argomento – proposto, peraltro, in modo meno reciso – che osterebbe all’assegnazione della definizione alle Res cott. consiste nel seguente svolgimento logico compiuto dal Talamanca: 1) la definizione di obligatio si collega alla summa divisio fra obbligazioni civili e obbligazioni onorarie conservata in J.3.13.1: in particolare, il richiamo pluralistico ai ‘nostrae civitatis iura’ appare finalizzato alla contrapposizione fra obligationes riconosciute dal ius civile e obbligazioni riconosciute dal ius honorarium;120 2) la summa divisio tra obbligazioni civili e obbligazioni onorarie non si coordina con la tripartizione ‘contractus-delictum-variae causarum figurae’ presente nelle Res cott. (D.44.7.1pr.), giacché quest’ultima, sviluppando la dicotomia ‘contractus-delictum’ di Gai 3.88, punta sul «fatto che concretamente pone in essere» l’obbligazione, laddove la summa divisio si colloca su un diverso piano, avendo come referente «l’ordinamento che sancisce la giuridicità dell’obbligazione»:121 la summa divisio, dunque, non può risalire alle Res cott.; 122 3) conseguentemente, giusta il predetto collegamento tra la summa divisio e le parole ‘secundum questi riscontri sia, più in generale, il fatto che degli altri due maestri mancano elementi di raffronto impedisce di sbilanciarsi nel senso di un riferimento della prima parte del titolo D.44.7 a Teofilo.

118 In quest’ordine di idee, ma ad altro proposito (l’inalterato mantenimento del plurale ‘adstringimur’) si è posto B.ALBANESE, Papiniano cit., 173.

119 Poco probabile, invece, ci sembra l’eventualità che la mancanza della definizione di obligatio in D.44.7 possa (anche) derivare dal fatto che essa appariva in J.3.13pr., nel senso, cioè, che a questo luogo il compilatore di D.44.7 avrebbe implicitamente rinviato. Cfr., infatti, le interessanti rilevazioni di C.CANNATA, Le definizioni cit., 149ss. sul generale fenomeno della presenza di una stessa definizione sia nelle Institutiones che nel Digesto.

120 M.TALAMANCA, v.‘Obbligazioni’ cit., 19 nt. 130. In questa stessa direzione si era già posto lo Scherillo (supra, n. 6).

121 M.TALAMANCA, v. ‘Obbligazioni’ cit., 39 nt. 256.122 M.TALAMANCA, v.‘Obbligazioni’ cit., 39 e, più decisamente, Istituzioni di

diritto romano cit., 511: la definizione sarà stata fissata in una non precisata opera istituzionale tardo-classica.

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nostrae civitatis iura’, nemmeno la definizione di obligatio sembra potersi attribuire alle Res cott.: «la sistematica in cui si inserisce la nostra definizione è sicuramente diversa da quella delle Institutiones e delle Res cottidianae, e ciò rende difficile qualsiasi interpretazione nel senso di riallacciare tale definizione a Gaio».123

Orbene, anche noi siamo convinti che la fissazione del dualismo ‘obbligazioni civili-obbligazioni pretorie’ derivi dallo stesso autore che, nel congegnare poco più su la definizione di obligatio, ha voluto mettere in risalto, in chiusura, il riferimento ai ‘secundum nostrae civitatis iura’; e però riterremmo che queste parole finali della definizione si armonizzino, sì, con la summa divisio obligationum, ma non siano state concepite con apposito riferimento alla coppia ius civile/ius honorarium e proprio in funzione della summa divisio obligationum (infra, n. 16). Ma non è, tanto, questo il motivo per il quale non ci sentiamo di seguire la conclusione del Talamanca. Quel che non condividiamo è, piuttosto, la deduzione che l’illustre studioso ha tratto dalla seconda premessa, in sé irrefutabile, e cioè dall’osservazione che la prospettiva da cui viene assunta la tripartizione delle fonti delle obbligazioni è differente da quella che regge la fissazione della summa divisio tra obbligazioni civili e obligazioni pretorie. Invero – riservandoci di mostrare appositamente più avanti che la summa divisio risale proprio alle Res cott. (n. 14) – crediamo che codeste due prospettive non soltanto non siano incompatibili, ma appaiano coordinate tra loro e, dunque, ben ascrivibili ad uno stesso autore e ad un’unica, articolata orditura sistematica.

In particolare, la coesistenza delle due prospettive ci sembra che possa ammettersi già in termini astratti: nulla impedisce di pensare che uno stesso giurista abbia voluto sistemare le obbligazioni sia in considerazione dei singoli fatti che concretamente ne determinano il sorgere sia, ordinando questi ultimi, in considerazione delle sfere ‘normative’ 124 della civitas dalle quali quei fatti ricevono riconoscimento

123 M.TALAMANCA, v. ‘Obbligazioni’ cit., 18 nt. 125. La definizione dovette, dunque, esser presente nello stesso imprecisato scritto istituzionale tardo-classico da cui deriva la summa divisio.

124 Precisiamo sin d’ora che, allorché con riguardo al ius civile, al ius honorarium, al ius gentium e ai rispettivi fatti di produzione adottiamo espressioni quali ‘sfere normative’, ‘fattori (o ambiti) ‘nomopoietici’ e simili, l’accezione di queste è assai sfumata, non implicando in alcun modo una raffigurazione in termini statualistico-normativistici delle complessive esperienze giuridiche d’età preclassica e classica né del ius civile, ius honorarium, ius gentium (sia isolatamente considerati rispetto alla civitas sia

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e, conseguentemente, le obbligazioni stesse ricevono esistenza giuridica. Ma riteniamo che in questa direzione spinga, più particolarmente, lo specifico contenuto delle due operazioni ordinatrici. Segnatamente, l’escogitazione della tripartizione ‘contractus-delictum-variae causarum figurae’ – la quale conferma che l’autore delle Res cott. sottoponeva il tema delle fonti delle obbligazioni ad un’attenta meditazione 125 – doveva facilmente avere una ricaduta sul piano del fondamento ‘remoto’126 del rapporto obbligatorio. E’ ovvio, infatti, che il fatto nuovo costituito dalla individuazione e dall’apposita considerazione 127 (tra le variae causarum figurae) di ipotesi di comportamenti illeciti sanzionati da azioni pretorie in factum – ‘iudex qui litem suam fecerit’, ‘positum et suspensum’, ‘effusum vel deiectum’, ‘damnum iniuria vel furtum in navi caupona stabulo factum’ – comporta 128 l’acquisizione di una precisa consapevolezza dell’esistenza di obbligazioni aventi

nel loro reciproco atteggiarsi).125 Si pensi, al riguardo, alla fissazione del dualismo tra obligationes civiles e

obligationes honorariae (per la cui derivazione dalle Res cott. cfr. appositamemte infra, n. 14) alle notazioni sul fondamento del rapporto obbligatorio congegnate in relazione a ciascuna delle variae causarum figurae (D.44.7.5; J.3.27; J.4.5); alla più compiuta rassegna delle obligationes re, comprendente, oltre al mutuo, anche il deposito, il comodato e il pegno (D.44.7.1.3-6; J.3.14.2-4); alla riflessione, se realmente genuina, in ordine all’appartenenza delle obligationes ex maleficio ad un unico genus (cfr. Gai 3.182-D.44.7.4).

126 Abbiamo mutuato la qualifica ‘remoto’ da VINNIUS, In quatuor Institutionum imperialium commentarius cit., II, 82, il quale con riguardo alla summa divisio obligationum di J.3.13.1, così annotava: «Distributio obligationis a causis efficientibus remotis. Nulla enim est obligatio [...] quae non aut Jure civili aut Praetorio constituta vel recepta sit» (mentre, a proposito della quadripartizione conservata in J.3.13.2, osservava a p. 83: «Haec divisio sumpta est a causis efficientibus proximis seu factis obligatoriis sine quibus nulla aut jure civili aut honorario confirmatur »).

127 Nelle Institutiones gaiane compare soltanto un rapido cenno all’ipotesi del ‘litem suam facere’ da parte del giudice nel § 4.52, e nemmeno sotto il profilo del rapporto obbligatorio, bensì in relazione alla questione del possibile tenore formale della condemnatio: G.FALCONE, Appunti sul IV commentario cit., 28 nt. 62.

128 A prescindere dall’assunzione di questo o quel profilo quale elemento unificante degli stessi comportamenti illeciti: sul punto cfr., per tutti, W.WOLODKIEWICZ, Obligationes ex variis causarum figuriis cit., 217ss. e, ultimamente, J.PARICIO, Las fuentes de las obligaciones en la tradición gayano-justinianea, in Derecho romano de Obligaciones. Estudios Murga, 1994, 57ss. e J.M.COMA FORT, El derecho de obligaciones cit., 206ss. (con valutazione critica delle diverse opinioni).

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fondamento nella iurisdictio pretoria.129 L’attenzione per tali fattispecie ben si prestava, cioè, ad ingenerare una coscienza del ruolo sostanzialmente nomopoietico del pretore e, per questa via, a sollecitare un’esigenza di sistemazione ulteriore sulla base degli ambiti ordinamentali130 (ius civile e ius honorarium) che attribuiscono giuridicità all’obligatio.131

La conclusione è evidente: se non vi è incompatibilità tra la summa divisio ‘obbligazioni civili-obbligazioni onorarie’, alla quale si coordinano (non: si collegano direttamente) le parole ‘secundum nostrae civitatis iura’, e la tripartizione ‘contractus-delictum-variae causarum figurae’, derivante dalle Res cott., viene meno l’ostacolo per ascrivere a quest’opera la definizione di obligatio.132

129 Cfr., ultimamente, A.GUARINO, Diritto privato romano11, 1997, 803, il quale (pur sostenendo l’origine giustinianea della divisio ‘obligationes civiles - honorariae’), con riferimento all’evoluzione del sistema delle obbligazioni dalle Istituzioni di Gaio alle Res cott., osserva che la presenza della tripartizione ‘ex contractu-ex delicto-ex variis causarum figuris’ «conferma il ricollegamento dei rapporti obbligatori a fonti diverse da quelle individuate nell’ambito del solo ius civile (vetus o novum)». Cfr., altresì, DE ZULUETA, The Institutes of Gaius.II.Commentary, 1953, 9; E.VOLTERRA, Istituzioni cit., 568s. Intravede un collegamento fra la categoria ‘obligatio honoraria’ e le variae causarum figurae, ultimamente, J.PARICIO, Las fuentes de las obligaciones cit., 55, il quale, tuttavia, finisce per considerare giustinianea la divisio tra obbligazioni civili e onorarie (infra, nt. ...).

130 Supra, nt. 124.131 Con il che non vogliamo sostenere che l’elaborazione del dualismo

‘obbligazioni civili-pretorie’ sia stata senz’altro indotta dalla considerazione degli atti illeciti rientranti tra le variae causarum figurae, con esclusione o di ulteriori singole fonti (ad es., i cd. patti pretori) o di altri fattori esterni alla griglia delle causae obligationum: invero, come diremo più avanti (n. 8.3), la classificazione delle obbligazioni dal punto di vista delle diverse sfere del ius che ne fondano la giuridicità è fenomeno che ben si inquadra in una generale impostazione sistematica delle Res cott., riscontrabile anche in tema di modi di acquisto del dominium e di actiones. Ciò che in questa occasione importa è la semplice constatazione di una compatibilità e, sinanche, di un’ammissibile interdipendenza tra la divisio calibrata sugli ordinamenti che riconoscono la giuridicità del vincolo e la tripartizione relativa ai fatti concretamente produttivi del vincolo stesso.

132 Leggendo le incisive pagine del Martini (Le definizioni dei giurisiti romani cit., 205ss. e spec. 232ss.; in adesione, P.ZANNINI, Rappresentazione dinamica del fenomeno giuridico nelle Istituzioni di Gaio cit., 382 nt. 24) sull’operato definitorio di Gaio, chi attribuisce direttamente a questo giurista la scrittura delle Res cott. potrebbe esser tentato, di primo acchitto, di affermare che contro la riferibilità a quest’opera della definizione di obligatio parrebbero giocare la circostanza che nelle Institutiones gaiane, allorché in relazione ad

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7. Il sintagma ‘vinculum iuris’ in J.2.23.1 come primo indizio in favore della provenienza della definizione dalle Res cottidianae.

Le pagine che precedono erano dirette ad acquisire alcuni punti di riferimento e a sgombrare il campo da alcune sollecitazioni a nostro avviso fuorvianti in ordine al tema della paternità della definizione. Ciò è servito a preparare il terreno per un percorso d’indagine autonomo, che possiamo, adesso, finalmente intraprendere.

Ribadendo, una volta per tutte, che la soluzione alle questioni dell’attribuzione del testo e del significato e valore dello stesso è unitaria e che tra i due filoni di studio si imporranno continui rinvii reciproci, sembra opportuno, per ragioni di linearità e di chiarezza espositiva, articolare la ricerca come segue: cercheremo dapprima di isolare, per quanto possibile, le indicazioni che permettono di stabilire un punto fermo (s’intende, a nostro modo di vedere) con riguardo all’individuazione dell’autore della definizione (nn. 7-8); di conseguenza, ci occuperemo più avanti, specificamente, del significato e della portata della definizione una volta che potremo riferire la stessa al pensiero e agli intendimenti di un determinato giurista (nn. 9-17). Questo proposito di tener distinte, nei limiti del possibile, le due prospettive di studio si riflette anche nella valutazione degli stessi argomenti che, a nostro avviso, concorrono a rivelare la figura del giurista che ha congegnato il testo. A tal riguardo, diciamo subito, vengono in questione principalmente le parole d’esordio ‘obligatio est iuris vinculum’ e la chiusura ‘secundum nostrae civitatis iura’. Ebbene, entrambi questi segmenti della definizione sono determinanti anche ai fini del recupero

un istituto compare sia una definizione che un’operazione classificatoria, queste si trovano normalmente in successione opposta rispetto alla sequenza ‘definizione+classificazioni’ riprodotta in J.3.13pr.-1-2 (sequenza che, dunque, sarebbe imputabile ad una escogitazione sistematica del compilatore del titolo J.3.13: cfr. R.MARTINI, op. cit., 238). Sennonché, come ha messo in evidenza lo stesso Martini (op. cit., 213; 232; 235), nelle stesse Institutiones gaiane vi sono due casi in cui l’ordine più ricorrente è invertito: Gai 1.159 rispetto ai §§ 160-162, in tema di capitis deminutio, e, nella sostanza, 4.139 rispetto ai §§ 142, 143 e 156 in tema di interdetti: e tanto basta a rendere senz’altro sostenibile che Gaio, nelle Res cott., abbia proceduto in questo modo pure con riguardo all’obligatio.

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del significato dell’intera operazione definitoria (cfr., rispettivamente, nn. 12-14 e nn. 16); tuttavia, secondo quel che stiamo precisando, per il momento li prenderemo in considerazione con esclusivo riguardo alle indicazioni che interessano direttamente la paternità dell’enunciato.

Ciò premesso, entriamo in medias res e segnaliamo un dato che, curiosamente, non è mai stato preso in considerazione, per quanto ci consta, dagli studiosi che si sono occupati della definizione di obligatio, e cioè la presenza dell’espressione ‘vinculum iuris’ nel brano delle Institutiones giustinianee in cui è delineata la storia del progressivo riconoscimento giuridico dei fedecommessi:

J.2.23pr. Nunc transeamus ad fideicommissa. Et prius de hereditatibus fideicommissariis videamus. 1 Sciendum itaque est omnia fideicommissa primis temporibus infirma esse, quia nemo invitus cogebatur praestare id de quo rogatus erat: quibus enim non poterant hereditates vel legata relinquere, si relinquebant, fidei committebant eorum, qui capere ex testamento poterant: et ideo fideicommissa appellata sunt, quia n u l l o v i n c u l o i u r i s , sed tantum pudore eorum qui rogabantur continebantur. Postea primus divus Augustus semel iterumque gratia personarum motus, vel quia per ipsius salutem rogatus quis diceretur, aut ob insignem quorundam perfidiam iussit consulibus auctoritatem suam interponere. Quod quia iustum videbatur et populare erat, paulatim conversum est in adsiduam iurisdictionem: tantusque favor eorum factus est, ut [paulatim] etiam praetor proprius crearetur, qui <de> fideicommissis ius diceret, quem fideicommissarium [appellabant] <appellamus>.133

133 Giustifichiamo le tre lievi emendazioni che, a nostro avviso, è necessario apportare alla parte finale del racconto. Il secondo ‘paulatim’ (‘ut paulatim etiam praetor proprius crearetur’), che non ha molto senso in relazione all’istituzione di una magistratura, sarà stato inserito per sbaglio da un copista pre- o giustinianeo (l’avverbio è riprodotto nella Parafrasi di Teofilo) a causa del ‘paulatim’ che ricorre poche battute prima (‘paulatim conversum est in adsiduam iurisdictionem’); sempre da un errore di copista potrebbe derivare la frase ‘qui fideicommissis ius diceret’ al posto di ‘qui de fideicommissis ius diceret’ (se ve ne fosse bisogno, cfr., a tacer d’altri riscontri, Gai 2.278; Ulp......); infine, crediamo che l’uso dell’imperfetto nella frase conclusiva ‘(praetor) ...quem fideicommissarium appellabant’ costituisca una consapevole modificazione compiuta dal compilatore giustinianeo: l’autore del testo originario avrà usato, con ogni verosimiglianza, la forma presente ‘appellamus’ (cfr. Gai 3.115; 4.170; D.44.7.5pr. [Gai. 3 aur.]; in Gai 2.21 e 3.110, compare il plurale ‘vocamus’), che al compilatore dovette apparire inadatta perché la

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Il contenuto ed il senso del testo sono chiarissimi. 134 Vi è stata una fase storica iniziale, nella quale i fideicommissa erano ‘infirma’: essi, infatti, non erano resi saldi da alcun vinculum iuris (‘...nullo vinculo iuris ...continebantur’), e la loro esecuzione dipendeva esclusivamente dalla fides e dal pudor del rogatus, che non poteva essere costretto ad adempiere (‘nemo invitus cogebatur praestare id de quo rogatus erat’); a questo stato di cose si è posto rimedio attraverso l’escogitazione di forme di tutela giudiziale della volontà del disponente vieppiù stabili ed apposite (progressivamente: l’interpositio dell’auctoritas dei consoli; l’affermarsi di una ‘adsidua iurisdictio’; la creazione di un ‘praetor proprius qui fideicommissis ius diceret’).

Meno chiara ed univoca è apparsa finora l’attribuzione del testo, che ha costituito oggetto di variegata riflessione anche assai recente. L’assoluto rilievo che, come vedremo, questo brano assume ai nostri fini impone di considerare da vicino e di sottoporre ad apposito vaglio critico le diverse posizioni espresse in argomento, 135 non senza anticipare

denominazione ‘praetor fideicommissarius’ era ormai da lungo tempo accantonata in favore di altre designazioni (su questa vicenda cfr., specificamente, R.RÖHLE, Praetor fideicommissarius, in RIDA 15, 1968, 399ss., con indicazioni delle presumibili alterazioni giustinianee, ma senza considerazione per il riscontro offerto dal tempo ‘appellabant’ in coda a J.2.23.1), talché essa sarà stata mantenuta nel testo del racconto escerpito, ma come semplice ricordo storico (segnaliamo, peraltro, per quel che vale, che anche in altri casi i compilatori delle Institutiones modificano la prima persona plurale usata da Gaio per indicare la denominazione di un istituto: cfr. Gai 2.21-J.2.1.40; Gai 3.115-J.3.30pr.; D.44.7.5pr.- J.3.27.1).

134 Sui contenuti del brano in relazione alle tappe storiche del riconoscimento giuridico dei fedecommessi cfr., ultimamente, V.GIODICE-SABBATELLI, La tutela giuridica dei fedecommessi fra Augusto e Vespasiano, 1993, 21ss. (con bibl.); F.LONGCHAMPS DE BÉRIER, Allargamento della circolazione dei beni mortis causa: le origini del fedecommesso, in Le droit romain et le monde contemporain. Mél. Kupiszewski, 1996, 205ss. Con riguardo alla più antica storia dei fedecommessi è da registrare la recente proposta di M.DE BRUIN, Papiria bona sua fidei commisit. Das Fideikommiß im zweiten Jahrhundet vor Christ, in RIDA 42, 1995, 167ss., di retrodatare l’esistenza della prassi dei lasciti fedecommissari al II secolo a.C. sulla base di Polyb., Hist. 31.27.1-4 e di Ter., Andr. 296 (scettico, al riguardo, F.LONGCHAMPS DE BÉRIER, Il fedecommesso universale nel diritto romano classico, 1997, 36).

135 Drastica la posizione di GENZMER, La genése du fidéicommis comme institution juridique, in RHD 40, 1962, 344s.: « A quelle origine classique elle [scil. la source de J.2.23.1] s’alimente, nous n’en savons rien ». La questione della fonte di J.2.23.1 non è nemmeno accennata in A.WATSON, The Early History of «fideicommissa», in INDEX 1, 1970, 181; mentre si limitano a

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subito la conclusione alla quale siamo pervenuti e, cioè, la convinzione che il testo è stato escerpito dalle Res cott.

Che il discorso conservato in J.2.23.1 derivasse dalle Res cott. era stato ritenuto verosimile dal Ferrini,136 ma sulla base di indizi insufficienti. Invero, non è significativo il fatto in sé che non sono estranee a Gaio le «sommarie ricapitolazioni di successive disposizioni» (Ferrini adduce, a titolo di esempio, Gai 1.32, 62, 84, 85): si sarebbe dovuto, piuttosto, sottolineare l’impiego del particolare modulo linguistico ‘divus imperator... m o t u s ’, (infra, sub 3); del pari, l’espressione ‘fideicommissa appellata sunt, quia...’ in sé non è probante: lo diventa solo ove si apprezzi la presenza e la posizione prolettica di ‘ideo’ (‘et ideo fideicommissa appellata sunt, quia...’: infra, sub 1); e il confronto tra le parole ‘ut paulatim...crearentur’ e l’affermazione di Gai 4.30 ‘legis actiones paulatim in odium venerunt’ non sembra rilevante, giacché non ci troviamo di fronte ad una particolare costruzione del discorso, che possa ritenersi tipica di Gaio.

Di fatto, l’unico elemento, tra quelli indicati dal Ferrini, che può presentare un certo interesse è l’espressione ‘iussit consulibus auctoritatem ... interponere’, da accostare all’esordio della trattazione sugli interdicta in Gai 4.139: ‘praetor aut proconsul auctoritatem suam finiendis controversiis interponit’. Scartando, infatti, i testi in cui si incontra ‘interponere auctoritatem’ in relazione al ruolo del tutore rispetto al pupillo,137 giacché si tratta di un ambito di applicazione assolutamente diverso, appare significativa la circostanza che, tra le fonti giurisprudenziali a noi giunte, solo nel trascritto passo di Gai 4.139 ricorre l’impiego di questa espressione per indicare, proprio come in J.2.23.1, un intervento lato sensu giurisdizionale di un magistrato:138 il

sintetizzare le diverse opinioni sul tema, G.LUCHETTI, La legislazione imperiale nelle Istituzioni di Giustiniano, 1996, 318s. e nt. 280 (che, comunque, assume che il brano «ha una sicura matrice classica»), e F.LONGCHAMPS DE BÉRIER, Il fedecommesso universale cit., 39 nt. 51 (senza sbilanciarsi sulla risalenza del testo).

136 C.FERRINI, Sulle fonti cit., 376.137 D.4.8.47pr.; 26.7.18pr.; 26.8.13 (Giuliano); 26.8.8 (Ulpiano); Ulp. ep.

11.25; 26.8.9.5 (Gaio); Gai 1.190: cfr. V.GIODICE-SABBATELLI, La tutela giuridica dei fedecommessi cit., 35 (ma in una prospettiva che non condividiamo: cfr. infra, nel testo)

138 Che nell’affermazione “Augustus...iussit consulibus auctoritatem suam interponere” l’auctoritas da ‘interponere’ sia quella dei consoli, anziché quella dello stesso Augusto, è stato, ultimamente, ribadito in modo persuasivo da V.GIODICE-SABBATELLI, La tutela giuridica dei fedecommessi cit., 99ss.

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testo ulpianeo (D.50.10.2.2 - Ulp. 3 opin.) in cui ricorre questa espressione nella medesima prospettiva magistratuale va, infatti, considerato come un excerptum di costituzione imperiale.139 Tuttavia, questo impiego di ‘interponere auctoritatem’ è, da solo, insufficiente: esso potrà legittimamente esser utilizzato solo in aggiunta ad altri indizi che saremo riusciti a rintracciare.

Dal canto suo, Maschi ha aderito alle osservazioni del Ferrini circa le assonanze con il linguaggio gaiano, ma, piuttosto che attribuire il brano alle Res cott., ha immaginato che esso facesse parte delle Institutiones e, precisamente, dell’apertura della trattazione sui fedecommessi, e che fosse contenuto in un manoscritto più completo di quello Veronese.140

L’ipotesi non può esser condivisa.141 In primo luogo, la pretesa presenza dell’excursus sull’origine dell’istituto in apertura di trattazione non è sostenibile a causa di un ostacolo di ordine topografico, consistente nella sequenza dei paragrafi inziali:

2.246 ‘Nunc transeamus ad fideicommissa’ - 247 ‘Et prius de hereditatibus videamus’ - 248 ‘Inprimis igitur sciendum est opus esse, ut aliquis heres recto iure instituatur eiusque fidei committatur, ut eam hereditatem alii restituat rell.’

Dove avrebbe potuto trovarsi la descrizione storica, che il copista del Veronese avrebbe, poi, omesso di trascrivere? Non tra le due brevi frasi ‘programmatiche’ dei §§ 246 e 247, che, in ragione della loro immediata concatenazione, non si prestano ad esser intese come originariamente interrotte dalla presenza di un lungo racconto storico; 142 e nemmeno tra i §§ 247 e 248, per due ragioni: da un lato, giacché l’excursus storico

139 Cfr. B.SANTALUCIA, I «Libri opinionum» di Ulpiano, I, 1971, 170ss., la cui diagnosi appare convincente pur se il testo di Gai 4.139, che questo studioso non ha tenuto in considerazione, smentisce l’affermazione che l’espressione ‘auctoritatem interponere’ «non si trova usata in nessun testo giurisprudenziale».

140 C.A.MASCHI, Tutela. Fedecommessi. Contratti reali (Omissioni nel manoscritto veronese delle Istituzioni di Gaio), in St. Volterra IV, 1971, 685ss.

141 Pur se, astrattamente, non dovrebbe sorprendere che il copista del Veronese potesse aver pensato di omettere il dettagliato racconto sulla preistoria e sulla storia dell’istituto. Diversamente, R.QUADRATO, Le Institutiones nell’insegnamento di Gaio. Omissioni e rinvii, 1979, 56.

142 E’ illuminante, del resto, il raffronto con gli altri casi in cui ricorre nel manuale gaiano la sequenza ‘nunc transeamus ad...’ (o ‘videamus de...’) - ‘et prius videamus’ (o ‘dispiciamus’). Gai 1.50-51; 1.124-125; 1.142-143; 3.88-89.

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pervenutoci riguarda non i soli fideicommissa hereditatis, ai quali la trattazione è limitata già dal § 247, bensì tutti i fedecommessi (cfr. ‘Sciendum est o m n i a fideicommissa primis temporibus...’), dall’altro lato, giacché l’‘igitur’ che si legge nelle prime battute del § 248 (‘Inprimis igitur sciendum est’) si collega immediatamente al precedente ‘videamus’ che chiude il § 247, conformemente ad un costante uso gaiano.143 Del resto, se nulla può provare, come è già stato da altri osservato,144 la mancanza dell’excursus nel corrispondente tratto dell’Epitome Gai, segnalata dal Maschi;145 così è una petizione di principio ritenere 146 che le notizie contenute nel brano della Parafrasi di Teofilo corrispondente a J.2.23.1 deriverebbero da un manoscritto delle Institutiones gaiane più completo, anziché dalle Res cott., che pure l’antecessore nella sua tradizione di insegnamento aveva certamente utilizzato.

In secondo luogo, contro l’idea di un’originaria presenza nelle Institutiones gaiane dell’excursus storico che leggiamo in J.2.23.1 può

143 Si considerino, infatti, i seguenti altri luoghi delle Institutiones, nei quali, proprio come accade nel passaggio tra Gai 2.247 e 248, l’autore ricorre alla congiunzione ‘igitur’ o all’equivalente ‘itaque’ in apertura di trattazione di un determinato argomento al fine di legare la trattazione stessa alle battute con cui, subito prima, quell’argomento era stato annunziato: 1.51 Ac prius d i s p i c i a m u s de iis, qui in aliena potestate sunt. 52. In potestate i t a q u e sunt servi dominorum ....; 1.116. Superest, ut e x p o n a m u s , quae personae in mancipio sint. 117. Omnes i g i t u r liberorum personae, [...] quae in potestate parentis sunt, mancipari ab hoc eodem modo possunt, quo etiam servi mancipari possunt; 1.143 Ac prius d i s p i c i a m u s de his, quae in tutela sunt. 144. Permissum est i t a q u e parentibus liberis, quos in potestate sua habent, testamento tutores dare .....; 2.1 Superiore commentario de iure personarum exposuimus; modo v i d e a m u s de rebus [...]. 2. Summa i t a q u e rerum divisio in duos articulos diducitur ...; 2.86 Adquiritur autem nobis non solum per nosmet ipsos, sed etiam per eos, quos in potestate manu mancipiove habemus; item per eos servos [...]; item per homines liberos et servos alienos, quos bona fide possidemus: de quibus singulis diligenter d i s p i c e m u s . 87. I g i t u r quod liberi nostri, quos in potestate habemus ......; 3.39 Nunc de libertorum bonis v i d e a m u s . 40. Olim i t a q u e licebat liberto patronum suum impune testamento praeterire ......; 4.138 Superest, ut de interdictis d i s p i c i a m u s . 139. Certis i g i t u r ex causis praetor aut proconsul principaliter auctoritatem suam finiendis controversiis interponit.....; 4.161 Expositis generibus interdictorum sequitur, ut de ordine et de exitu eorum d i s p i c i a m u s; et incipiamus a simplicibus. 162. Si i g i t u r restitutorium vel exhibitorium interdictum redditur .....

144 Da R.QUADRATO, Le Institutiones cit. 56.145 C.A.MASCHI, Tutela. Fedecommessi. Contratti reali cit., 689s.146 C.A.MASCHI, Tutela. Fedecommessi. Contratti reali cit., 690.

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osservarsi che il tenore della notazione di Gai 2.278 ‘apud consulem vel apud eum praetorem, qui praecipue de fideicommissis ius dicit’ rende improbabile che già prima fosse stata indicata la competenza di un organo direttamente indicato come praetor fideicommissarius (‘ut etiam praetor proprius crearetur, qui de fideicommissis ius diceret, quem fideicommissarium appellamus’).147

Successivamente al Maschi, l’assunto ferriniano di una matrice gaiana del nostro brano è stato senz’altro accolto anche dal Quadrato, il quale, tuttavia, ha ipotizzato che il brano comparisse originariamente nell’opera ‘De fideicommissis’.148 Questo studioso non adduce motivazioni a sostegno di questa proposta, talché la preferenza per lo scritto monografico piuttosto che per le Res cott. sembra legata, in definitiva, alla suggestione esercitata dalla più ampia ipotesi dell’esistenza di un sistema di impliciti rinvii dalle Institutiones verso la restante produzione scientifica gaiana, e segnatamente verso scritti specifici destinati a trattare temi assenti nel manuale istituzionale.149 In ogni caso, vi è uno specifico rilievo che può muoversi contro l’attribuzione al De fideicommissis: come è già stato da altri notato, 150 i

147 Su questa ricostruzione del testo originario cfr. supra, nt. 133.148 R.QUADRATO, Le Institutiones cit., 60s.149 In particolare, Quadrato, dopo aver posto l’attenzione sulla laconicità della

notizia storica contenuta in Gai 2.285 in confronto con l’apposito excursus presente in J.2.23.1 e aver proposto una spiegazione della mancanza, nel manuale istituzionale classico, di riferimenti alla specifica forma di tutela dei fedecommessi (su cui cfr. infra, nt. 151), trae le seguenti conclusioni ( Le Institutiones, cit., 60s.): «Gaio sarebbe incorso, quindi, in una omissione, dalla quale, però, avrebbe potuto riscattarsi adeguatamente in un’altra circostanza didattica e scientifica. Ed è questa consapevolezza, forse, che sta alla base del suo comportamento in Inst. 2.285. A questo proposito c’è da osservare che Gaio ha scrito un’opera sul fedecommesso. Nel Digesto ci sono numerosi brani escerpiti, per l’appunto, da quest’opera. E anche l’Indice fiorentino cita tra gli scritti gaiani i «fideicommisson bibl…a dÚo». / Ancora una volta ci troviamo dinanzi ad un dato significativo. Gaio avrebbe avuto modo in un discorso monografico tutto dedicato all’istituto di approfondire, fra i vari temi, anche quello dell’origine, con tutte le implicazioni (pure di carattere processuale) relative, senza vincoli di alcun genere. / Si potrebbe avanzare a questo punto anche un’ipotesi palingenetica in ordine a Inst. Iust. 2.23.1. Della provenienza gaiana del brano non si dubita. Ci sono indizi, nella cadenza del testo, che conducono con certezza a Gaio. Convinto ne era il Ferrini, e il Maschi ne condivide la diagnosi, anche se preferisce pensare alle Institutiones anziché alle Res Cottidianae. Noi, invece, guardiamo al De fideicommissis come alla possibile fonte della notizia giustinianea ».

150 V.GIODICE-SABBATELLI, La tutela giuridica dei fedecommessi cit., 37 e nt. 27, la quale opportunamente così conclude: «...la complessità del ragionamento (ad

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frammenti superstititi di quest’opera sono, per contenuto e complessità di ragionamento, difficilmente compatibili con una descrizione storica quale è quella conservata in J.2.23.1, che si addice, piuttosto, ad un’esposizione istituzionale del tema. In altri termini, occorre riferire il testo ad una trattazione didattica elementare. Ebbene, se si riconosce l’impronta linguistica di Gaio, scartate le Institutiones (come abbiamo rilevato a proposito della tesi del Maschi), non resta che pensare alle Res cott., nelle quali Gaio, in un contesto diversamente impostato, ha potuto esporre con adeguata ampiezza e distensione la storia del riconoscimento dei fedecommessi, ben al di là del brevissimo cenno compiuto nelle Institutiones (§ 2.285).151

esempio il taglio problematico di D.34.5.5; D.34.5.7.2; D.36.1.65.4, o l’insistente richiamo sia a categorie logico-argomentative - come il verissimo, l’assurdo, il conveniente -, che a criteri equitativi) potrebbe far supporre una destinazione qualificata del breve trattato: giuristi, amministratori della giustizia, tecnici in grado di coglierne ogni possibile difficoltà ermeneutica».

151 Gai 2.285 ‘Ut ecce peregrini poterant fideicommissa capere, et fere haec fuit origo fideicommissorum. sed postea id prohibitum est. et nunc ex oratione divi Hadriani senatusconsultum factum est, ut ea fideicommissa fisco vindicarentur’’. La laconicità di questa notizia storica deriverebbe, secondo R.QUADRATO, Le Institutiones cit., 56ss., dalla preoccupazione di Gaio di rispettare la scelta programmatica di circoscrivere la trattazione sulle actiones alle legis actiones e al processo formulare: dilungarsi sull’origine dei fedecommessi e sul loro progressivo riconoscimento giuridico fino all’interpositio auctoritatis dei consules e alla creazione del praetor fideicommissarius avrebbe costituito «un’occasione pericolosa», da cui Gaio sarebbe stato costretto ad accennare alla diversa forma di tutela rappresentata dalla cognitio extra ordinem; per questo motivo Gaio si sarebbe limitato ad un brevissimo cenno, riservandosi di trattarne più diffusamente nell’opera De fideicommissis. Sennonché, questa spiegazione appare contraddetta dal contenuto dei §§ 2.278-279 (‘Praeterea legata per formulam petimus; fideicommissa vero Romae quidem apud consulem vel apud eum praetorem, qui praecipue de fideicommissis ius dicit, persequimur, in provinciis vero apud praesidem provinciae’. [279]. Item de fideicommissis semper in urbe ius dicitur; de legatis vero, cum res aguntur’), nei quali Gaio non si crea scrupoli nel porre gli studenti di fronte ad un’esplicita e decisa contrapposizione tra la procedura formulare e un diverso modello di tutela, come abbiamo osservato in altra sede (G.FALCONE, Appunti sul IV commentario cit., 157ss.): una contrapposizione che non può essere sfumata – con R.QUADRATO, Le Institutiones cit., 59 - ove si consideri spassionatamente il tenore letterale sia dello stesso § 285 sia dell’intero blocco dei §§ 268-283, tutto dedicato, per espressa dichiarazione, a fissare le differentiae tra legati e fedecommessi. Riteniamo, peraltro, che sia proprio il complessivo impianto dei §§ 268-287 e, più specificamente, dei §§ 284-288 a costituire la chiave per intendere la ragione della posizione incidentale e della estrema brevità della notizia storica contenuta nel § 285. Invero, questo paragrafo fa parte di una complessiva esposizione volta a mostrare quelle

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E’, invece, proprio dell’ascendenza gaiana che ha, ultimamente, dubitato la Giodice-Sabbatelli,152 ma con argomenti che non ci sembrano affidanti. In particolare, secondo questa studiosa, l’ipotesi del Ferrini153

sarebbe da respingere, anzitutto, in base alla considerazione che i frammenti pervenutici delle Res cott. «non mostrano alcuna vocazione» per il racconto storico-antiquario e, per di più, «rivelano un linguaggio non consono nella sostanza e nella forma al complessivo tenore di J.2.23.1»;154 in secondo luogo, giacché i termini ‘pudor’, ‘perfidia’ e

differenze tra fedecomessi e legati che, in seguito ad una riforma del regime dei fedecommessi, sono col tempo venute meno (§ 2.284 ‘Erant etiam aliae differentiae, quae nunc non sunt’). I §§ 285-287 sono, per l’appunto, uniformemente congegnati attraverso r a p i d e contrapposizioni tra un regime più antico e una successiva innovazione. Inserire, nel § 285, subito dopo l’affermazione ‘ut ecce peregrini poterant fideicommissa capere’, un lungo e dettagliato racconto sul progressivo riconoscimento giuridico dei fedecommessi come quello di J.2.23.1 avrebbe, anzitutto, appesantito il discorso; inoltre, essendo la storia dell’istituto ricca al suo interno di scarti cronologici, avrebbe reso scarsamente incisiva la contrapposizione con la successiva scansione indicata nello stesso § 285 ‘sed postea – vindicarentur’, contrapposizione che, invece, nell’ambito della predetta ‘strategia espositiva’ dei §§ 284-288 (e cioè, cenni alle ‘differentiae’ ormai superate tra legati e fedecommessi) doveva risaltare quale oggetto centrale dell’informazione.

152 V.GIODICE-SABBATELLI, La tutela giuridica dei fedecommessi cit., 33ss. Al posto della derivazione da Gaio, la Giodice-Sabbatelli ha pensato (p. 38ss.) alla storiografica mano di Pomponio, operante nell’ambito dell’Enchiridion o dei libri fideicommisorum: un’attribuzione, questa, che lascia insoddisfatti non tanto per la mancanza anche nel corpus pomponiano dei termini ‘pudor’, ‘perfidia’ e ‘popularis’ (così A.MAFFI, Klio 77, 1995, 504: ma la stessa autrice, probabilmente consapevole di questa circostanza, aveva ipotizzato – p. 41 - una possibile mediazione d’età severiana, come le Institutiones marcianee), quanto per il fatto che l’unico elemento addotto a sostegno è l’attenzione al passato che caratterizza Pomponio, quasi che altri giuristi non possano aver avuto attitudine o interesse verso la storia di un istituto. Tornata ultimamente sul tema (Fideicommissorum persecutio. Contributo allo studio delle cognizioni straordinarie, 2001, 43), l’autrice ha fatto riferimento, con maggior cautela, ad « un giurista antonino o severiano ».

153 La circostanza che Ferrini, al fine di individuare la paternità di J.2.23.1, ha addotto alcuni luoghi delle Institutiones gaiane, anziché delle stesse Res cott., non ci sembra che autorizzi la conclusione che, in questo caso, lo stesso Ferrini avesse consapevolezza della difficoltà della propria ipotesi palingenetica (così V.GIODICE-SABBATELLI, La tutela giuridica dei fedecommessi cit., 34). Invero, è questo il criterio che Ferrini utilizza costantemente per attribuire un brano delle Institutiones imperiali alle Res cott. (considerate quale opera dello stesso Gaio).

154 V.GIODICE-SABBATELLI, La tutela giuridica dei fedecommessi cit., 33s.

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‘popularis’ non risultano mai utilizzati nel manuale gaiano e l’espressione ‘interponere auctoritatem’ non sarebbe esclusiva di Gaio.155

Sennonché, notiamo in primo luogo che, sulla base di un raffronto con i frammenti superstiti delle Res cott., la conclusione che può trarsi, quanto alla riconoscibilità di un’attitudine ‘storiografica’, non appare così univoca nel senso indicato da questa studiosa. Non mancano, infatti, spunti che ingenerano l’opposta impressione che le Res cott. indugiassero sulla storia degli istituti ancor più delle stesse Institutiones gaiane.

Così, diversamente che in quest’ultime, nelle Res cott. il criterio ispiratore della trattazione sui modi di acquisto della proprietà è quello della successione storica: D.41.1.1pr. ‘Quarundam rerum dominium nanciscimur iure gentium [...], quarundam iure civili [...]. et quia antiquius ius gentium cum ipso genere humano proditum est, opus est, ut de hoc prius referendum sit’;156 questo criterio è adottato anche all’interno dell’esposizione sui modi di acquisto fondati sul ius gentium, illustrando l’autore – con sequenza inversa rispetto a quella delle Institutiones gaiane – dapprima gli istituti più remoti (caccia, pesca, occupatio, etc.) e lasciando per ultima la traditio (D.41.1.9.3; J.2.1.40);157 in tema di acquisto della fera bestia è aggiunta rispetto al dettato di Gai 2.67 la menzione di un dibattito giurisprudenziale collocabile a cavallo tra la fine della Repubblica e i primi tempi del Principato (D.41.1.5.1);158 la disputa fra Sabiniani e Proculiani in materia di specificatio (D.41.1.7.7) è illustrata con maggiore dovizia e puntualità rispetto a Gai 2.79, sia con riguardo all’indicazione dei protagonisti sia con riguardo alle contrapposte argomentazioni;159 è

155 V.GIODICE-SABBATELLI, La tutela giuridica dei fedecommessi cit., 35s.156 Cfr. C.A.MASCHI, Il diritto romano. La prospettiva storica della

giurisprudenza romana, 1966, 36ss.; G.ARCHI, “Lex” e “natura” nelle Istituzioni di Gaio cit., 20s. (= Scritti cit., 167); G.FALCONE, Il metodo di compilazione cit., 287. L’intero testo di D.41.1.1pr. è riportato infra, n. 14.

157 Cfr. M.KASER, Ius gentium, 1993, 98; G.FALCONE, Il metodo di compilazione cit., 287; W.WALDSTEIN, «Ius gentium» und das Europäische «ius commune», in INDEX 26, 1998, 458s.

158 Su questa disputa, con particolare riguardo alla questione cronologica, cfr., per tutti, G.POLARA, Le «venationes». Fenomeno economico e costruzione giuridica, 1983, 64ss. e ivi bibl. in nt. 7.

159 Si confronti, infatti, Gai 2.79 ‘In aliis quoque speciebus naturalis ratio requiritur. proinde si ex uvis aut olivis aut spicis meis vinum aut oleum aut frumentum feceris, quaeritur utrum meum sit id vinum aut oleum aut frumentum, an tuum. item si ex auro aut argento meo vas aliquod feceris [...] quaeritur utrum tuum sit id quod ex meo effeceris, an meum. quidam materiam

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richiamata la norma delle XII Tavole sul tignum iunctum quale ratio storica del regime dell’inaedificatio (D.41.1.7.10=J.2.1.29); e sono menzionate, ancora, le XII Tavole a proposito del rapporto fra passaggio della proprietà e pagamento del prezzo (J.2.1.41).160

Sulla base di questa maggior presenza di impostazione storica e di

singole indicazioni storiche, dunque, può ben immaginarsi che, mentre nelle Institutiones (§§ 2.246-247) Gaio aveva preferito organizzare l’esposizione, magari anche per analogia rispetto a quella sui legati (cfr. i §§ 2.191ss.), separando sin dall’inizio i tipi di fedecommesso, quello universale e quello particolare (§ 247 ‘Et prius de hereditatibus videamus’; § 260 ‘Potest autem quisque etiam res singulas per fideicommissum relinquere...’), nelle Res cott. abbia, invece, pensato di far precedere l’illustrazione delle due tipologie di fedecommessi da un racconto sulla storia dell’istituto unitariamente considerato.

D’altra parte, con riguardo ai rilievi che l’autrice compie sul piano strettamente lessicale riteniamo che la circostanza che un termine (nel nostro caso, ‘pudor’, ‘perfidia’ e ‘popularis’) è estraneo alle Institutiones

et substantiam spectandum esse putant, id est, ut cuius materia sit, illius et res quae facta sit videatur esse, idque maxime placuit Sabino et Cassio. alii vero eius rem esse putant qui fecerit, idque maxime diversae scholae auctoribus visum est...’ con D.41.1.7.7 (Gai 2 rer. cott.) ‘Cum quis ex aliena materia speciem aliquam suo nomine fecerit, Nerva et Proculo putant hunc dominum esse qui fecerit, quia quod factum est, antea nullius fuerat. Sabinus et Cassius magis naturalem rationem efficere putant, ut qui materiae dominus fuerit, idem eius quoque, quod ex eadem materia factum sit, dominus esset, quia sine materia nulla species effici possit [...]. est tamen etiam media sententia recte existimantium, si species ad materiam reverti possit, verius esse, quod et Sabinus et Cassius senserunt, si non possit reverti, verius esse, quod Nervae et Proculo placuit...’. Anche scartando la genuinità della parte di D.41.1.7.7 relativa alla media sententia (cfr. M.SCHERMAIER, Materia cit., 199ss.), la maggior puntualità e completezza di Res cott. rispetto a Gai 2.79 risalta chiaramente (cfr. la menzione di Nerva e Proculo; il richiamo alla naturalis ratio; l’esplicitazione delle contrapposte rationes decidendi: ‘quia quod factum est, antea nullius fuerat’ e ‘quia sine materia nulla species effici possit’). Da ultimo, sul confronto tra questi due brani cfr., anche per i richiami bibl., E.STOLFI, Il modello delle scuole in Pomponio e Gaio, in SDHI 63, 1997, 53 nt. 246; 69 e nt. 312.

160 Sulla derivazione di questo brano dalle Res cott. cfr. C.FERRINI, Sulle fonti cit., 359; G.ARCHI, Il trasferimento della proprietà nella compravendita romana, 1934, 32ss.; THORMANN, Auctoritas, in IURA 5, 1954, 42s.; V.ARANGIO-RUIZ, La compravendita in diritto romano2, 1954, 304ss.; da ultimo, M.MARRONE, Trasferimento della proprietà della cosa venduta e pagamento del prezzo, in AUPA 42, 1992, 195 nt. 31.

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gaiane non è sufficiente, di per sé, ad escludere che un testo che lo contiene possa risalire alle Res cott. Quanto, infine, alle parole ‘interponere auctoritatem’, ribadiamo la coincidenza con l’impiego in Gai 4.139, la sola fonte giurisprudenziale in cui codesta espressione è riferita, proprio come in J.2.23.1, all’intervento di un organo con funzione in senso ampio giurisdizionale.161

Orbene, dopo aver mostrato, da un lato, l’intrinseca inadeguatezza dell’argomentazione del Ferrini e, dall’altro lato, l’insostenibilità sia di attribuzioni ad opere di Gaio diverse dalle Res cott. sia dell’esclusione di una paternità comunque gaiana, è tempo di indicare gli elementi che, a nostro avviso, riportano senz’altro il dettato di J.2.23.1 alle Res cott.

A tal fine, è necessario considerare alcune particolarità del testo, sin qui trascurate dagli studiosi.

1) Una prima peculiarità è costituita dalla presenza, nelle parole ‘et ideo fideicommissa appellata sunt, quia nullo vinculo iuris...’, della correlazione ‘et ideo ... quia’ con ‘ideo’ in posizione prolettica. Si tratta, invero, di un dato estremamente comune presso il solo Gaio, mentre appare assai raro presso tutti gli altri giuristi. In particolare, in Gaio esso compare 42 volte, e in 13 casi riguarda, proprio come nel nostro brano, la spiegazione della denominazione di un istituto (‘ideo appellatum est, quia...’, ‘ideo vocatur, quia... ’ o simili).162 A ciò si aggiungano i 10 riscontri gaiani dell’analoga correlazione ‘ideo ..., quod’, 163 di cui 2 attengono all’origine della designazione di un istituto (Gai 3.136 e 4.160). 164

161 Supra, su ntt. 137-139.162 Con riferimento alla denominazione di un istituto v. Gai 2.153; 2.157 (2

volte); 2.164; 2.194; 2.198; 3.56 (2 volte); 4.71 (2 volte); 4.94; 4.105; 4.144. Per gli altri impieghi v. Gai 1.22, 1.30, 1.63, 1.122, 1.166a, 2.64, 2.66, 2.121, 2.131, 2.147, 2.149a, 2.244 (2 volte), 3.13, 3.20, 3.184, 3.198, 4.11, 4.114; D.2.13.10.1; D.13.4.3; 13.6.18.4; D.39.2.20 (2 volte); D.39.2.32; D.44.7.1.5 (Res cott.); 44.7.5pr. (Res cott.); 44.7.5.5 (Res cott.).

163 Cfr. Gai 2.131; 3.136; 4.119; 4.160; D.2.11.6; 12.6.63; 26.7.13.1; 29.1.2; 40.12.25.1; 44.2.17.

164 Oltre al valore che questa rilevazione stilistica ha in termini assoluti, è degno di nota il risultato del raffronto con la produzione di Pomponio, al quale, come abbiamo visto, pensa la Giodice-Sabbatelli. In particolare, anche escludendo le attestazioni delle Institutiones, i riscontri gaiani conservati nel Digesto restano di gran lunga più numerosi di quelli pomponiani (‘ideo...quia’: D.12.6.52 e 16.2.3; ‘ideo...quod’: D.32.18; 12.6.52; 47.2.77[76].1); e ciò, nonostante la ben più consistente presenza di frammenti di Pomponio, rispetto agli squarci gaiani, nell’intero mosaico compilatorio. Si badi, poi, che in

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2) Un’altra particolarità dello stile gaiano è costituita dalla sequenza di due relative con riguardo alla denominazione di un istituto – ‘praetor ... qui fideicommissis ius diceret, quem fideicommissarium [appellabant] <appellamus>’165 –, che costituisce, proprio con riguardo alla denominazione di un istituto, un carattere distintivo dello stile gaiano e che, peraltro, è attestata anche in due luoghi delle stesse Res cott.: Gai 1.119 ‘...qui libram aeneam teneat, qui appellatur libripens’; 1.184 ‘...alius dabatur, quo auctore legis actio perageretur, qui dicebatur praetorius tutor’; 1.195a ‘...tutorem, a quo manumissa est, qui fiduciarius dicitur’; 3.10 ‘...qui ex duobus fratribus progenerati sunt, quos plerique etiam consobrini vocant’; 3.110 ‘...qui idem stipulatur, quem vulgo adstipulatorem vocamus’; 4.128 ‘...adiectione..., qua actor adiuvatur, quae dicitur triplicatio’; 4.170 ‘...iudicium comparatum est, quod appellatur fructuarium, quo nomine actor iudicatum solvi satis accipit’; D.50.16.30.2 (Gai. 7 ad ed. prov.) ‘Novalis est terra praecisa, quae anno cessavit, quam Graeci nšasin vocant’; D.44.7.5pr. (Gai. 3 aur.) ‘...actiones, quas appellamus negotiorum gestorum, quibus aeque invicem experiri possunt...’; J.3.13.1 ‘(obligationes) praetoriae sunt, quas praetor constituit, quae etiam honorariae vocantur’.166

3) E ancora, degno di assoluta attenzione è il tenore formale (oltre che la trama in sé) delle prime due scansioni storiche del racconto: ‘...omnia fideicommissa primis temporibus infirma esse, ... Postea primus divus Augustus semel iterumque gratia personarum m o t u s ...’.

Soltanto in Gaio, infatti, si incontrano descrizioni storiche congegnate con lo stesso andamento logico-linguistico che leggiamo in J.2.23.1: la spinta che ha determinato l’intervento di un divus imperator, che, correggendo una precedente situazione di inadeguatezza o di iniquità, ha segnato una svolta nella storia di un istituto, è predicata dal participio ‘motus’. Ciò è attestato dai seguenti brani (che, peraltro, costituiscono la totalità dei riscontri di ‘motus’ nelle Istituzioni gaiane): Gai 1.84 ‘Ecce nessuno dei 5 impieghi pomponiani pervenutici la correlazione in esame è utilizzata con riguardo ad una spiegazione della denominazione di un istituto.

165 Per questa emendazione del testo cfr. supra, nt. 133.166 Per la provenienza di J.3.13.1 dalle Res cott. cfr. infra, n. 14.Per contro, presso gli altri giuristi la sequenza immediata di due relative con

riguardo alla denominazione di un istituto si riscontra assai raramente: 1 volta in Pomponio (D.41.3.30pr.), 1 volta in Ulpiano (D.14.3.5.4), 5 volte in Paolo (D.2.13.7.1; 26.7.46.1; 50.16.144; 50.16.205).

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enim ex senatus consulto Claudiano poterat civis Romana... Sed p o s t e a d i v u s H a d r i a n u s iniquitate rei et inelegantia iuris m o t u s restituit iuris gentium regulam rell.’; 1.85 ‘Item e lege <...> ex ancilla et libero poterant liberi nasci; nam ea lege cavetur, ut... Sed et in hac specie d i v u s V e s p a s i a n u s inelegantia iuris m o t u s restituit iuris gentium regulam rell.’; 3.72 ‘...divus Traianus constituit... [74] Et quia hac constitutione videbatur effectum, ut..., d i v u s H a d r i a n u s iniquitate rei m o t u s auctor fuit senatus consulti faciundi, ut rell.’ Per contro, un siffatto impiego del participio ‘motus’, relativo ad un intervento normativo imperiale, non si riscontra in alcun testo di altri giuristi.167

4) Acquista effettivamente valore, a questo punto, la circostanza, in precedenza richiamata,168 che l’espressione ‘auctoritatem interponere’ (‘iussit consulibus auctoritatem ... interponere’) soltanto in Gaio (Gai 4.139) è utilizzata in riferimento ad un intervento magistratuale volto a dirimere controversie.169

5) Infine, occorre tener conto del fatto che il testo di J.2.23.1, oltre a contenere i predetti caratteri senz’altro tipici (e pressocché esclusivi) di Gaio, presenta particolari dati sintattici e lessicali che non sono estranei allo stile delle Institutiones gaiane.

167 A fronte della maggior parte di brani (nove), in cui il participio ‘motus’ è riferito o all’attività negoziale di un privato o alla valutazione di un giurista, in tre testi esso è, sì, riferito all’imperatore (D.36.1.56 [Papiniano]: ‘aequitatis ratione, exemplo motus’; 36.1.76.1 [Paolo]: ‘aequitate rei motus’; 50.16.240 [Paolo]), ma in relazione ad una pronunzia che l’imperatore compie nell’ambito di una specifica vicenda giudiziaria. Lo stesso Gaio (16 ad ed. prov. - D.38.8.2) usa ‘naturali aequitate motus’ in relazione ad un intervento nomopoietico del proconsul (la previsione della bonorum possessio unde cognati). Cfr., del resto, J.4.6.5, derivante dalle Res cott. (C.FERRINI, Sulle fonti cit., 405): ‘simili aequitate motus praetor accommodat’. Con analogo valore cfr. Ulpiano, in Coll.16.9.2.

168 Supra, su nt. 137-139.169 E’ interessante notare che, a prescindere dal sintagma ‘auctoritatem

interponere’, nelle Institutiones gaiane vi è un’ulteriore menzione dell’auctoritas del pretore in relazione al ruolo che questi ha in seno ad una vicenda processuale: Gai 3.224 ‘[...] Sed cum atrocem iniuriam praetor aestimare soleat, si simul constituerit quantae pecuniae eo nomine fieri debeat vadimonium, hac ipsa quantitate taxamus formulam, et iudex, qui possit vel minoris damnare, plerumque tamen propter ipsius praetoris auctoritatem non audet minuere condemnationem’.

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Così è per la costruzione di un discorso tramite l’inserimento di una proposizione ipotetica dopo una proposizione relativa iniziale, del tipo ‘quibus non poterant hereditates relinquere, si relinquebant, fidei committebant eorum rell.’. Si considerino, infatti: Gai 1.153 ‘quae vero angustam habet optionem, si dumtaxat semel data est optio, amplius quam semel optare non potest’; 2.38 ‘quod mihi ab aliquo debetur, id si velim tibi deberi, nullo eorum modo... efficere possum’; 2.59 ‘qui rem alicui fiduciae causa mancipio dederit vel in iure cesserit, si eandem ipse possederit, potest usucapere’; 3.169 ‘quod enim ex verborum obligatione tibi debeam, id si velis mihi remittere, poterit sic fieri rell.’

Così è, inoltre, per l’impiego del verbo plurale privo di soggetto, in relazione a descrizioni relative ad epoche storiche più antiche (come il ‘si relinquebant’ del nostro testo): cfr., infatti, Gai 4.16 ‘maxime sua esse credebant, quae ex hostibus cepissent’.

Così è, infine, per l’uso della qualifica ‘proprius’ (‘praetor proprius crearetur’) nel senso di ‘specifico’, ‘apposito’: cfr., infatti, Gai 3.33; 54 (commentarius); 127; 186; 187; 209 (actio); 4.169 (iudicium). A questo proposito, peraltro, non è inutile notare che l’intera affermazione ‘praetor p r o p r i u s crearetur, qui <de> fideicommissis i u s d i c e r e t ’ riprende con puntualità la sostanza della notazione di Gai 2.278 ‘(apud) eum praetorem, qui p r a e c i p u e de fideicommissis i u s d i c i t ’.170

Ebbene, in ragione delle particolarità or ora rilevate, determinanti in ragione del loro concorrere, riteniamo necessario trarre la seguente conclusione: il passo sulla storia dei fedecommessi conservato in J.2.23.1, in cui compare l’espressione ‘vinculum iuris’, era originariamente contenuto nelle Res cott.

Questo risultato palingenetico richiede, peraltro, due brevi precisazioni.

Anzitutto, la collocazione dell’excursus dopo le parole ‘et prius de hereditatibus fideicommissariis videamus’, inopportuna in quanto la narrazione storica riguarda esplicitamente tutti i fedecommessi (‘omnia fideicommissa ... infirma esse’) e non solo quelli universali, dovette evidentemente esser frutto di imprecisione compilatoria: il commissario

170 La corrispondenza tra l’impiego di ‘praecipue’ in Gai 2.278 e la qualifica ‘proprius’ in J.2.23.1 è stata opportunamente avvertita, ultimamente, da V.GIODICE-SABBATELLI, Fideicommissorum persecutio cit., 153 (la quale, però, come si ricorderà, non attribuisce il contenuto di J.2.23.1 alla mano di Gaio).

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giustinianeo ha cucito malamente i dati provenienti dalle due trattazioni gaiane, riproducendo in J.2.23pr. e 2 la trama di Gai 2.246-249 e inserendo le notizie storiche tratte dalle Res cott. non là dove sarebbe stato opportuno, e cioè subito dopo le parole di Gai 2.246 ‘Nunc transeamus ad fideicommissa’ (è pensabile che in ciò egli sia stato trascinato dall’esigenza di far apparire subito in apertura il tema specifico della trattazione, isolando la figura dei fedecommessi universali rispetto a quella dei fedecommessi aventi ad oggetto singole res, che avrebbe considerato in J.2.24; potrebbe essere indicativo, al riguardo, la modifica del testo gaiano ‘et prius de hereditatibus videamus’ con l’inserimento dell’aggettivo ‘fideicommissariis’ per uniformare l’argomento alla formulazione del Titolo ‘De fideicommissariis hereditatibus’).

D’altra parte, è il caso di avvertire, in ragione dell’attribuzione che sosteniamo delle Res cott. direttamente alla mano di Gaio, che tra il racconto storico conservato in J.2.23.1 ed il breve cenno di Gai 2.285 ‘ut ecce peregrini poterant fideicommissa capere; et fere haec fuit origo fideicommissorum...’ vi è piena compatibilità e assoluto coordinamento, come mostra, del resto, la compresenza delle due indicazioni nella Parafrasi di Teofilo (PT.2.23.1):171 invero, i peregrini fanno parte delle persone alle quali i Romani ‘non poterant hereditates vel legata relinquere’ e che trovavano nella fides e nel pudor l’unica garanzia per l’esecuzione della rogatio.172 Il fatto che in Inst. 2.285 Gaio restringa il riferimento ai peregrini si giustifica alla luce del particolare contesto, consistente in una elencazione delle differenze che un tempo si profilavano tra i fedecommessi ed i legati e che non esistono più al tempo in cui il giurista scrive: Gai 2.284 Erant etiam aliae differentiae, quae nunc non sunt. 285. Ut ecce peregrini poterant fideicommissa capere; et fere haec fuit origo fideicommissorum. Sed postea id

171 Evidentemente, anche su questo punto Teofilo ha utilizzato, oltre al dettato del manuale imperiale, anche i dati presenti nelle Istituzioni gaiane, secondo una pratica ricorrente: sul fenomeno in generale cfr. quanto osserviamo in Il metodo di compilazione cit., 306s. e ntt. 235, 236, 244 (con bil.), e in La formazione del testo della Parafrasi di Teofilo cit., 430 e nt. 36; con specifico riguardo a PT.2.23.1, cfr. V.GIODICE-SABBATELLI, La tutela giuridica dei fedecommessi cit., 46ss.

172 Non ci sembra da accogliere l’idea, adombrata da W.WALDSTEIN, Entscheidungsgrundlagen der römischen Juristen, in ANRW 15.II, 1976, 69, secondo cui, mentre in J.2.23.1 si parlerebbe di una «Verpflichtung aus dem Ehrgefühl», in Gai 2.285 l’asse risulterebbe spostato verso il ius gentium.

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prohibitum est; et nunc ex oratione divi Hadriani senatusconsultum factum est, ut ea fideicommissa fisco vindicarentur. L’inciso ‘et fere haec fuit origo fideicommissorum’ (lo dimostra anche l’attacco della frase, con il pronome e il verbo in posizione iniziale) è funzionale ad una enfatizzazione del rapporto ‘fedecommessi-peregrini’, che il giurista voleva evidenziare quale differenza (non più esistente) rispetto ai legati: a tal punto – è questo l’ordine di idee sotteso all’inserimento della notizia storica – i peregrini potevano un tempo ricevere tramite fedecommesso che a un dipresso questa è stata l’origine stessa dell’istituto. Il che non significa che Gaio non fosse consapevole che in epoca preaugustea la categoria di persone che, per ragioni di incapacità a succedere, beneficiava dei fedecommessi era più ampia;173 anzi, proprio questa consapevolezza dovette essere alla base dell’impiego, in Gai 2.285, dell’avverbio ‘fere’, che smorza l’esclusività di un originario affermarsi dell’istituto in funzione ed a favore dei peregrini.174

Orbene, l’attribuzione del racconto storico di J.2.23.1, in cui si parla di ‘vinculum iuris’, alle Res cott. è, naturalmente, di grande rilievo ai fini della questione della paternità della definizione di obligatio. Ci troviamo, infatti, di fronte ad un’assoluta coincidenza terminologica, che investe un elemento così importante quale il tratto iniziale ‘obligatio est iuris vinculum’.

Non solo; ma questa coincidenza lessicale è rafforzata da una corrispondenza che riguarda, questa volta, il contenuto del brano. Invero, è ovvio che, se l’originaria incoercibilità del fedecommesso è indicata come mancanza di vinculum iuris, la fisionomia matura dell’istituto, conseguente all’escogitazione di forme di intervento giurisdizionale, è, per converso, (sotto)intesa dall’autore come segnata dalla presenza di un vinculum iuris (sul punto, specificamente infra n. 13

173 Un tentativo di individuare gli altri soggetti appartenenti a tale categoria è, di recente, in D.JOHNSTON, The Roman Law of Trusts, 1988, 31ss.

174 Diversa, ma non diremmo persuasiva, la spiegazione del ‘fere’ offerta da F.LONGCHAMPS DE BÉRIER, Il fedecommesso universale cit., 45. Le osservazioni che precedono non ci consentono, evidentemente, di accedere all’opinione di M.TALAMANCA, «Ius gentium» da Adriano ai Severi, in La codificazione del diritto dall’antico al moderno (Incontri di studio - Napoli, 1996), 1998, 218 nt. 89, il quale, traendo spunto dall’indicazione sull’origine dei fedecommessi contenuta in J.2.25pr., è portato a pensare che il collegamento tra origine dell’istituto e peregrini presente in Gai 2.285 costituisca una informazione errata, «dovuta ad una personale - e, forse, un po’ frettolosa - riflessione» di Gaio.

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sub I). Ebbene, questa rappresentazione va registrata tenendo conto del fatto che lo stesso Gaio espressamente parlava di ‘obligare’ con riguardo ai fedecommessi (ovviamente, nel loro assetto compiuto d’età classica): lo attestano due brani, Gai 2.184 e 2.277,175 della cui genuinità ormai non si dubita176 (così come, del resto, è comunemente ammessa la generale classicità dell’estensione della terminologia obbligatoria all’ambito dei fedecommessi)177 e che appaiono tanto più significativi in quanto l’impiego di ‘obligare’ in un caso (2.184) si accompagna ad un

175 Gai 2.184 ‘Extraneo vero heredi instituto ita substituere non possumus, ut si heres extiterit et intra aliquod tempus decesserit, alius ei heres sit; sed hoc solum nobis permissum est, ut eum p e r fi d e i c o m m i s s u m o b l i g e m u s , ut hereditatem nostram totam vel ex parte restituat; quod ius quale sit, suo loco trademus’ (cfr. Gai epit. 2.4.3 ‘...potest per fideicommissum obligari...’); Gai 2.277 ‘Item quamvis non possimus post mortem eius, qui nobis heres extiterit, alium in locum eius heredem instituere, tamen possumus eum rogare, ut, cum morietur, alii eam hereditatem totam vel ex parte restituat; et quia post mortem quoque heredis fideicommissum dari potest, idem efficere possumus et si ita scripserimus: CUM TITIUS HERES MEUS MORTUUS ERIT, VOLO HEREDITATEM MEAM AD PUBLIUM MAEVIUM PERTINERE. utroque autem modo, tam hoc quam illo, Titius heredem suum o b l i g a t u m r e l i n q u i t d e fi d e i c o m m i s s o r e s t i t u e n d o ’.

176 Cfr. soprattutto SEGRÈ, Obligatio, obligare, obligari cit., 567 nt. 184; nonché LAURIA, Contractus, delictum, obligatio (A proposito di recenti studi), in SDHI 4, 1938, 181 (limitatamente a Gai 2.184); GROSSO, I legati in diritto romano, II, 1955, 85; I2, 1962, 122 nt. 1; VAN OVEN, Le sens des mots «obligatio» et «obligare» chez Gaius, in Fest. Lewald, 1953, 126; IMPALLOMENI, Prospettive in tema di fedecommesso, in Conf. Romanistiche, II, 1967, 281 nt. 18 (ora in Scritti di diritto romano e tradizione romanistica, 1996, 156); MELILLO, In solutum dare. Contenuto e dottrine negoziali nell’adempimento inesatto, 1970, 58 e nt. 48; KASER, RPR, I2, 1971, 480 e nt. 10; implicitamente, TALAMANCA, v. ‘Obbligazioni’ cit., 18.

In precedenza, la genuinità dei due brani era stata esclusa da ALBERTARIO, La cosidetta obligatio ex causa fideicommissi, in Rend. Ist. Lomb. 60, 1927, 103ss. = Studi di dir. rom. cit., III, 45ss. (contro cui era diretta la replica di Segrè) e da SOLAZZI, SDHI 6, 1940, 349. Dal canto suo, SCHULZ, Classical Roman Law cit., 458 scriveva: «Possibly Gaius also described the duties resulting from fideicommissum as obligatio (Gai 2.184; 2.277), but the second of these two passages is certainly interpolated and in the first obligemus may have taken the place of an original rogemus»; e poco oltre, escludendo senz’altro un generale uso classico, concludeva (p. 459): «If Gai 2.184, 277 are genuine, then we have before us again a special Gaian usage» .

177 Agli Autori citati nella nota prec. va aggiunto - ed è significativo – V.ARANGIO-RUIZ, Le genti e la città, in Scritti Jovene, s.d. (ma 1954), 143 (ora in Scritti, I, 1974). Da ultima, L.DESANTI, La sostituzioni fideicommissaria (Per un corso di Esegesi delle fonti del diritto romano), 1999, 8 nt. 20. Invero, l’Albertario (cfr. la nt. prec.) non è riuscito a sbarazzarsi, oltre che della duplice

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esplicito rinvio alla apposita trattazione sui fedecommessi che sarà compiuta nel seguito del commentario, nell’altro caso (2.277) compare proprio all’interno della sedes materiae.

In conclusione, le parole d’apertura della definizione ‘obligatio est iuris vinculum’ costituiscono un primo indizio che orienta l’interprete verso la considerazione del Gaio delle Res cott. quale giurista autore della definizione stessa.

8. La chiusura ‘secundum nostrae civitatis iura’ quale

seconda indicazione che orienta verso le Res cottidianae.

testimonianza gaiana, nemmeno di alcuni brani sparsi nel Corpus iuris (cfr. le giuste osservazioni di SEGRÉ, loc. ult. cit.). Così, la critica di D.32.3.1, D.32.6.1 e D.36.1.78(76) è assai fragile, fondata com’è su semplici mende formali che, per di più, non investono l’intero testo; e con riguardo a C.6.50.8 (a. 233), si tratta di una vera petizione di principio. Quanto all’espunzione della chiusura di D.36.1.18(17).2 ‘nam hactenus erunt obligati, quatenus quid ad eos pervenit’, essa si fonda su un’errata correzione del tratto precedente. L’intero testo così recita: ‘Non tantum autem si heredem quem scripsero, potero rogare ut heredem faciat aliquem, verum etiam si legatum [vel quid aliud] reliquero: nam hactenus erunt obligati, quatenus quid ad eos pervenit’. L’Albertario ha immaginato che, al posto delle parole insiticie ‘vel quid aliud’, vi fosse il pronome ‘et’: onde conclude che l’uso del plurale ‘erunt obligati’ tradirebbe l’intervento di una (ulteriore) mano estranea. La critica viene meno, evidentemente, ove si accolga la persuasiva emendazione del SEGRÉ, loc. ult. cit., che inserisce, piuttosto, un ‘alicui’. Sembra, invece, da ammettere l’origine insiticia (oltre che del testo di Meciano in D.35.2.32.4: E.ALBERTARIO, op. cit., 50s.; G.SEGRÉ, loc. cit.) delle parole ‘quem testator o b l i g a r i cogitat’ in D.34.5.7(8).1, tratto dall’opera sui fedecommessi di Gaio, un segmento che, se genuino, avrebbe evidentemente offerto un riscontro quanto mai prezioso: ‘Cum quidam pluribus heredibus institutis unius fidei commisisset, ut, cum moreretur, uni ex coheredibus, cui ipse vellet, restitueret eam partem hereditatis, quae ad eum pervenisset: verissimum est utile esse fideicommissum. Nec enim in arbitrio eius qui rogatus est positum est, an omnino velit restituere, sed cui potius restituat; plurimum enim interest, utrum in potestate eius, quem testator o b l i g a r i cogitat, faciat, si velit dare, an post necessitatem dandi solius distribuendi liberum arbitrium concedat’. Nel senso dell’alterazione di queste parole cfr. (più fondatamente di E.ALBERTARIO, op. cit., 52) G.SEGRÈ, loc. cit., il quale fa leva sulla contraddizione fra l’‘obligari cogitat’ e le parole ‘in potestate eius ...faciat, si velit dare’. Avvertiamo sin d’ora che, a nostro parere, l’alterazione non coinvolge l’intero testo: cfr. infra, n. 13 nt. 285.

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Un secondo spunto verso il medesimo risultato palingenetico proviene dal tratto conclusivo della definizione, ‘secundum nostrae civitatis iura’.

In proposito è necessario, per prima cosa, precisare che l’utilizzabilità di questo tassello testuale è assicurata dal fatto che esso deve attribuirsi alla stessa mano (classica) che ha forgiato le parole ‘Obligatio – rei’ che lo precedono.

A compiere questa precisazione siamo specificamente indotti dalla presa di posizione del Biscardi,178 secondo il quale, invece, le parole conclusive della definizione sarebbero state aggiunte dal commissario giustinianeo con il significato di “conformemente alle regole del nostro diritto positivo” e allo scopo specifico di richiamare il dualismo fra obbligazioni civili e obbligazioni naturali,179 nel quadro di una generale impostazione del manuale imperiale basata sulla distinzione teorica tra il diritto positivo e il diritto naturale.180 Al riguardo osserviamo che non risulta persuasivo il presupposto di partenza dell’intera lettura proposta dal Biscardi, e cioè l’impossibilità di riferire le parole in questione ad un giurista classico. A prescindere dalla nostra complessiva posizione al riguardo, che enunzieremo al momento opportuno (n. 16), e considerando esclusivamente le affermazioni del Biscardi, ci limitiamo a rilevare che il predetto assunto si fonda sulla convinzione che, riferito ad un giurista classico, il plurale ‘iura’ non potrebbe che riferirsi al dualismo tra obbligazioni civili e onorarie e sulla ulteriore e connessa idea che la concettualizzazione di obbligazioni fondate sul ius honorarium non risalirebbe ad epoca classica:181 ebbene, quale che sia l’effettivo valore del plurale ‘iura’, la non classicità della nozione di obligatio honoraria costituisce un pregiudizio da cui la dottrina ha ormai giustamente preso le distanze.182 Del resto, al di là della specifica

178 A.BISCARDI, «Secundum nostrae civitatis iura» cit., 43ss. L’esito di questa ricerca specifica è stato, successivamente, richiamato dal Biscardi in vari scritti: cfr. Il tecnicismo della nozione di «res obligata», in Estudios d’Ors, I, 1987, 340 nt. 75; La dottrina romana dell’obligatio rei, 1991, 68 nt. 111; La genesi del concetto classico di ‘obligatio’ in Homenaje Murga-Gener, 1994, 26s.

179 «Secundum nostrae civitatis iura» cit., 45s.180 «Secundum nostrae civitatis iura» cit., 44.181 «Secundum nostrae civitatis iura» cit., 43.182 La classicità della terminologia ‘obligatio’ e ‘obligare’ anche in relazione

ai rapporti di origine pretoria è stata vigorosamente difesa, per primo, dal G.SEGRÉ, Obligatio, obligare, obligari cit., 499ss. ed è oggi comunemente ammessa: cfr., fra gli altri, F.PASTORI, Profilo dogmatico e storico dell’obbligazione romana, 1951, 239ss., spec. 268ss.; ID., Elementi di diritto

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ricostruzione del Biscardi,183 già da un punto di vista generale l’idea di un’attribuzione della chiusura della definizione ai giustinianei non appare sostenibile (né, in effetti, ci risulta che sia stata da altri avanzata). Certo, in sé preso, il sintagma ‘nostra civitas’ nel significato di ordinamento giuridico 184 (complessivo diritto vigente, assetto giuridico o simili) ben potrebbe imputarsi ad un giustinianeo, giacché esso compare con questo valore in un brano delle Institutiones di sicura origine compilatoria;185 e così pure, potrebbe risalire ad un commissario giustinianeo un impiego del plurale ‘iura’ nel senso di ‘istituti giuridici’186

(non certo nel senso di pluralità di ordinamenti giuridici).187 Quel che

romano cit., 20s.; G.SCHERILLO, Le definizioni romane cit., 115s.; M.KASER, RPR I2, 480; ID., ‘Ius honorarium’ und ‘ius civile’, in ZSS 101, 1984, 14; L.VACCA, op. cit., 554; 557; M.TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano cit., 507s.; M.MARRONE, Istituzioni di diritto romano cit., 559s. (il quale ammette, appunto, la classicità dell’obligatio ‘pretoria’, ma ritiene che le parole ‘secundum nostrae civitatis iura’ conservino «il ricordo dell’antico stato di cose», cioè la confinazione della qualifica di obligatio ai rapporti riconosciuti dal ius civile); A.BURDESE, Manuale di diritto privato romano cit., 409 (età classica avanzata); G.MELILLO, Contrahere, pacisci, transigere. Contributi allo studio del negozio bilaterale romano2, 1994, cit., 60s.; A.GUARINO, Diritto privato romano cit., 806 (con altra bibl.).

183 Alla quale, dal canto suo, A.GUARINO, ‘Obligatio est iuris vinculum’ cit., 266, ha opposto che la presunta cornice generale nella quale si inserirebbe l’intervento compilatorio, riguardante i rapporti tra diritto positivo e diritto naturale nel manuale imperiale, urta con la circostanza che in J.1.1.4 anche i ‘naturalia praecepta’ sono esplicitamente considerati quali elementi integranti del diritto positivo.

184 Qui come nel prosieguo della ricerca discorriamo di ‘ordinamento giuridico’ (o di ‘sfere ordinamentali’) della civitas senza alcun apposito impegno storico-dogmatico e senza alcuna presa di posizione nell’ambito della vexata quaestio dell’utilizzabilità di tale categoria in rapporto all’esperienza giuridica romana (per una densa sintesi sul dibattito in argomento cfr., ultimamente, P.ONIDA, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano, 2002, 127ss., con discussione critica della letteratura).

185 J.3.12.1 ‘quod indignum nostris temporibus esse existimantes et a nostra civitate deleri et non inseri nostris digestis concessimus’.

186 Il plurale ‘iura’ nel significato di ‘istituzioni giuridiche’ è, infatti, utilizzato dal compilatore delle Institutiones (con ogni probabilità, Triboniano: cfr. G.FALCONE, Il metodo di compilazione cit., 263 nt. 82) in J.1.1.2: ‘...incipientibus nobis exponere iura populi Romani...’.

187 Invero, di fronte alla concezione del potere imperiale e, correlatamente, del diritto e delle sue fonti al culmine dell’età del dominato (sul punto - evitando di proporre lunghe, e scontate, citazioni bibliografiche - ci limitiamo a richiamare l’efficace sintesi di R.BONINI, Introduzione allo studio dell’età giustinianea4, 1985, 78ss.), è assolutamente inverosimile che un commissario

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rimarrebbe inafferrabile è, però, per qual motivo un commissario giustinianeo avesse sentito il bisogno di porre al culmine di una definizione, e proprio della definizione di obligatio, un richiamo alla conformità alle istituzioni giuridiche dell’Impero. E, d’altra parte, se il compilatore, anziché limitarsi ad escerpire il testo così come già confezionato, avesse appositamente indugiato per intervenire su di esso, si sarebbe certamente accorto dell’inopportuno uso del plurale ‘adstringimur’ di cui abbiamo detto in apertura d’indagine (n. 2).

Ciò posto, e sorvolando, in questa sede, sul problema dell’autentica portata dei termini ‘secundum nostrae civitatis iura’ e sulla questione del significato della loro stessa presenza in seno alla definizione (temi che ci impegneranno appositamente più avanti: n. 16), osserviamo che queste parole conclusive inducono a ritenere che la definizione sia stata coniata da Gaio nelle Res cott. sulla base di una sollecitazione che riguarda il profilo terminologico-concettuale.

In proposito, va tenuto presente, anzitutto, il seguente riscontro offerto dalle stesse Res cott.: ‘Quarundam rerum dominium nanciscimur iure gentium, quod ratione naturali inter omnes homines peraeque servatur, quarundam iure civili, id est iure proprio civitatis nostrae.....’ (D.41.1.1pr. - Gai. 2 rer. cott.).188 In effetti, le parole ‘i u r e proprio c i v i t a t i s n o s t r a e ’ appaiono assai prossime all’espressione conclusiva della definizione di obligatio, non solo per la comune presenza del sintagma ‘civitas nostra’, ma, altresì, per il medesimo impiego del sintagma in funzione di genitivo del termine ‘ius’.189

D’altra parte, sempre da questo punto di vista non può non colpire il parallelismo e l’analogia tra la chiusura della definizione ed un paio di locuzioni che si incontrano nelle Institutiones gaiane. Così, l’accostamento con l’espressione ‘singularum civitatium iura requirentes’

giustinianeo fosse di per sé portato a rappresentarsi l’ordinamento giuridico in termini pluralistici

188 Sul rapporto con la versione dello stesso brano conservata in J.2.1.11 cfr. il nostro Il metodo di compilazione cit., 316ss. Segnatamente, in quella sede abbiamo sostenuto – rafforzando una diagnosi che era già del Ferrini – che la prima parte di D.41.1.1pr. (‘Quarundam – nostrae’), che qui specificamente interessa, conserva la scrittura originaria più fedelmente rispetto al testo del manuale imperiale.

189 Perché, poi, in tema di obligatio, a differenza del tema dei modi di acquisto della proprietà, il riferimento al ius sia congegnato al plurale (‘nostrae civitatis iura’) apparirà chiaro nell’immediato seguito dell’indagine, in questo stesso paragrafo.

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di Gai 3.96190 appare significativo sia in ragione dell’impiego dei termini ‘civitas’ e ‘iura’, sia a causa della posizione delle parole, giusta la completa simmetria tra ‘nostrae civitatis iura’ e ‘singularum civitatium iura’. E una perfetta corrispondenza nella posizione degli stessi termini civitas e ius collega il segmento finale della definizione alla notazione di Gai 1.189 ‘inpuberes ... in tutela esse o m n i u m c i v i t a t i u m i u r e contingit’. 191

In definitiva, la rispondenza delle parole ‘secundum nostrae civitatis iura’ all’usus loquendi gaiano e ad un preciso riscontro all’interno delle Res cott. (D.41.1.1pr.) e l’impiego del sintagma ‘vinculum iuris’ in J.2.23.1 (anch’esso derivante dalle Res cott.: n. 7), congiuntamente considerati, ci autorizzano fin d’ora a ritenere che la definizione è stata coniata da Gaio in apertura di trattazione sulle obligationes nelle Res cott.

Nel prosieguo della ricerca (nn. 13-17) vedremo come proprio questi elementi di riscontro appariranno ancora più nitidi e probanti e come, da un punto di vista più generale, la valutazione contenutistica del testo conforterà siffatta attribuzione della definizione (e dalla stessa, in un rapporto di circolarità, trarrà ulteriore sostegno).

9. La questione del significato della definizione: cenni introduttivi sul complessivo enunciato ‘obligatio est iuris vinculum quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei’.

190 Gai 3.96 ‘Item uno loquente **** haec sola causa est, ex qua iureiurando contrahitur obligatio. Sane ex alia nulla causa iureiurando homines obligantur, utique cum quaeritur de iure Romanorum. Nam apud peregrinos quid iuris sit, singularum civitatium iura requirentes aliud intellegere poterimus....’ Sul dato testuale di Gai 3.96 cfr., ottimamente, F.GORIA, Osservazioni sulle prospettive comparatistiche nelle Istituzioni di Gaio, in Il modello di Gaio nella formazione del giurista cit., 240 nt. 40, ove, tra l’altro, vi è una difesa definitiva contro la presunta origine glossematica del tratto ‘utique - poterimus’ sostenuta dal Solazzi.

191 Gai 1.189 ‘Sed inpuberes quidem in tutela esse omnium civitatium iure contingit, quia id naturali rationi conveniens est, ut is, qui perfectae aetatis non sit, alterius tutela regatur. Nec fere ulla civitas est, in qua non licet parentibus liberis suis impuberibus testamento tutorem dare; quamvis, ut supra diximus, soli cives Romani videantur liberos suos in potestate habere’. Sul brano cfr. F.GORIA, Osservazioni sulle prospettive comparatistiche cit., 273ss.

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Possiamo, dunque, affrontare adesso l’altro più avvincente piano di ricerca, rappresentato dall’esame del significato e del valore della definizione.

Per giudicare la concludenza e la bontà di contenuti dell’intero dettato gli studiosi hanno particolarmente fatto leva sull’enunciato ‘obligatio est iuris vinculum quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei’. E, dunque, su questo dobbiamo adesso concentrarci.

Più che una capillare rassegna delle diverse opinioni al riguardo formulate in dottrina, importa qui segnalare l’esistenza di alcuni assunti che costituiscono una sorta di sostrato comune della tradizione interpretativa:

a) le parole ‘iuris vinculum’ vengono generalmente intese come esprimenti l’idea di un vincolo ‘di natura ideale’ in contrapposizione ad un vincolo ‘materiale’, immaginandosi per lo più che l’autore della definizione abbia concepito la frase ‘obligatio est iuris vinculum’ sulla base della consapevolezza di un diverso atteggiarsi originario dell’obbligazione come assoggettamento («personale», «effettivo», «materiale», «immediato», a seconda delle diverse formulazioni) del

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debitore;192 più di rado si è pensato alla contrapposizione tra un vincolo sanzionato giuridicamente ed un mero vincolo di fatto;193

b) è strisciante, forse più di quanto non appaia da esplicite affermazioni, 194 la considerazione del dettato testuale in chiave di stretto ed assorbente abbinamento tra ‘necessitate’ e ‘adstringimur’, intendendosi l’ablativo quasi come semplice rafforzamento di ‘adstringi’ e perdendosi di vista il diretto, e significativo, collegamento tra il sostantivo e le parole ‘alicuius solvendae rei’, che da quello dipendono

192 Cfr., ad es., PACCHIONI, Concetto e origini dell’«obligatio romana» cit., 655s.; W.BUCKLAND, The Main Institutions of Roman Private Law, 1931, 236s.; E.ALBERTARIO, Corso di diritto romano. Le obbligazioni. Parte generale, I, 1936, 81s.; M.LAURIA, Contractus, delictum, obligatio, in SDHI 4, 1938, 188; G.SCHERILLO, Corso di diritto romano. Le obbligazioni cit., 156 s.; B.BIONDI, Istituzioni di diritto romano cit., 335; ID., Concetto e definizione di obligatio cit., 239ss., spec. 246 (in quest’ottica, l’autore ipotizza addirittura che la definizione contenesse originariamente la menzione di un ‘vinculum personae’ al posto del ‘iuris vinculum’); SOUBIE, Recherches sur les origines des rubriques du Digeste cit., 138 (in adesione a Biondi); V.ARANGIO RUIZ, Istituzioni di diritto romano,11 1952, 285; C.A.MASCHI, Caratteri e tendenze evolutive delle Istituzioni di Gaio, in Atti Congresso Internazionale di dir. romano e di storia del diritto (Verona 1948), I, 1951, 34 (aperto versa la predetta congettura del Biondi); LEPOINTE-MONIER, Les obligations en droit romain cit., 115; G.GROSSO, Obbligazioni. Contenuto e requisiti della prestazione. Obbligazioni alternative e generiche, 1955, 4ss.; ID., Schemi giuridici e società nella storia del diritto privato romano, 1970, 307ss. (spec. 315s.); ID., Kontinuität und Vielfalt der juristischen Gestaltungsformen und ihre Anpassung an die gesellschaftliche Entwicklung, in BIDR 87, 1974, 6 (= Scritti storico-giuridici, I, 2000, 993); E.VOLTERRA, Istituzioni di diritto romano cit., 443; J.MACQUERON, Precis des obligations en droit romain cit., 3; F.DUMONT, Obligatio cit., 87; L.LANTELLA, Note semantiche cit., 177s.; C.GIOFFREDI, Aspetti della sistematica gaiana cit., 257; A.BISCARDI, La dottrina romana dell’obligatio rei cit., 67ss.; ID., Il tecnicismo della nozione di «res obligata» cit., 340; ID., La genesi del concetto classico di «obligatio» cit., 25; ID., Obligatio personae e obligatio rei dans l’histoire du droit romain, in Rev. hist. de droit franç. et étranger, 70, 1992, 191s.; V.GIUFFRÉ, Il diritto dei privati nell’esperienza romana,2 1998, 484s.; C.A.CANNATA, Le definizioni romane cit., 149; ID., v. «Obbligazioni» cit., 41 (sin dall’inizio è un vinculum iuris); M.MARRONE, Istituzioni di diritto romano cit., 417ss.; D.DALLA-R.LAMBERTINI, Istituzioni di diritto romano cit., 315; M.BRETONE, I fondamenti del diritto romano cit., 190; A.GUARINO, Diritto privato romano cit., 769ss.; G.NICOSIA, Nuovi profili istituzionali essenziali di diritto romano, 2001, 232; ultimamente, U.VINCENTI, in A.Schiavone (a cura di), Diritto privato romano cit., 352 e 354 (ma v. anche A.SCHIAVONE, ibidem, 345s.). Sostanzialmente: S.PEROZZI, Le obbligazioni cit., 65ss.; U.VON LÜBTOW, Betrachtungen zum gajanischen Obligationenschema, in Atti Congresso Internaz. di diritto romano (Verona ......), III, 1948, 253; BRASIELLO, v. ‘Obbligazione (dir. rom.)’ cit., 556s. (§ 5) e 565 (§ 22); IGLESIAS, Derecho

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sintatticamente e concettualmente:195 siffatta separazione tra ‘necessitate’ e ‘alicuius solvendae rei’ – che, forse, risente dell’assolutizzazione di ‘necessitate’ operata in D.22.1.3pr. e D.35.2.54 (‘necessitate adstrictus’)196 e, soprattutto, in C.4.38.13 (‘adstringit necessitate’) 197 – finisce per rappresentare, in sostanza, il termine ‘necessitate’ come un pleonasmo di fronte al riferimento alla costrizione già espresso dal verbo ‘adstringimur’; 198

romano. Instituciones de derecho privado,7 1982, 385ss. Dal canto suo, A.MARCHI, Le definizioni romane dell’obbligazione cit., 33 affermava che, mentre « la parola vinculum, in senso proprio, serve ad indicare il vincolo materiale», con l’aggiunta di ‘iuris’ si precisa che l’obbligazione « è un vincolo che non cade sotto i nostri sensi ».

193 G.SEGRÉ, Distinzione ed antitesi tra diritti reali ed obbligazioni cit., 3 («l’obbligazione è un vincolo di diritto, cioè non di fatto ma imposto e garantito dal diritto»); P.VOCI, Le obbligazioni cit., 19 («la definizione ... aggiunge ‘iuris’ per far notare che non si tratta di un legame di fatto: si tratta della necessità di obbedire alla norma giuridica»); R.VILLERS, Rome et le droit privé cit., 314, peraltro nel quadro di un’attribuzione del tetso al compilatore giustinianeo (l’obbligazione è definita « comme un lien de droit sanctionné et non comme une simple convenance sociale ou mondane»).

194 Cfr., ad es., P.BONFANTE, Corso di diritto romano. Le obbligazioni cit., 17; A.MARCHI, Le definizioni romane dell’obbligazione cit., 35ss. (con emblematiche riflessioni sul rapporto tra ‘cogere’, ‘compellere’ e ‘necessitate adstringere’); G.SCHERILLO, Corso di diritto romano. Le obbligazioni cit., 149 e 152; E.BETTI, La struttura dell’obbligazione romana e il problema della sua genesi, 1955, 46; V.ARANGIO-RUIZ, Corso di Istituzioni diritto romano (diritti reali e di obbligazione) cit., 162 (particolarmente significativo, anche per l’eco prodotta nella dottrina successiva [infra, nt......], il seguente passo a p. 283: «La definizione è difettosa proprio in quella parte che dovrebbe esserne il nòcciolo: le parole “alicuius solvendae rei”»); C.A.CANNATA, Le definizioni cit., 142s.; F.PASTORI, Elementi di diritto romano. Le obbligazioni cit., 20; A.GUARINO, Obligatio cit., 265.

195 Il diffuso atteggiamento di cui diciamo nel testo è rivelato anche da due fenomeni che si constatano spesso nel modo in cui la definizione viene tradotta. Da un lato, il completo venir meno dell’autonoma consistenza dei segni ‘necessitate’ e ‘adstringimur’: dalla più antica traduzione in assoluto – quella compiuta da Teofilo, il quale unifica i due termini nel verbo ‘¢nagk£zein’ (‘dšsmoj dika…ou, di’oá tij ¢nagk£zetai katabale‹n tÕ ™pofeilÒmenon’) – fino, ad es., a recentissime versioni quali “l’obbligazione è quel vincolo giuridico ideale in forza del quale siamo costretti a qualcosa...” (V.GIUFFRÉ, Il diritto dei privati cit., 483) e “l’o. è un rapporto giuridico vincolante in base al quale siamo tenuti a prestare una cosa...” (M.TALAMANCA, Elementi di diritto privato romano, 2001, 258). Dall’altro lato, il mantenimento, al livello terminologico, del riferimento alla necessitas, che, però, viene agganciato in funzione avverbiale all’ ‘adstringi’: “l’o. è un vincolo giuridico in forza del quale siamo

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c) infine, il sintagma ‘solvere aliquam rem’, che rappresenta l’elemento principale su cui viene misurato il valore della definizione, è comunemente avvertito come una nota stonata: se inteso in senso proprio, limiterebbe il dettato alla sola ipotesi delle obbligazioni aventi ad oggetto un ‘dare’;199 se, sforzandolo, viene inteso in senso ampio fino a comprendere qualsiasi prestazione, sarebbe troppo vago e generico o, addirittura, determinerebbe una tautologia o, più ancora, impedirebbe di

necessariamente tenuti a un adempimento ...” (D.DALLA-R.LAMBERTINI, Istituzioni di diritto romano, 1996, 316); “L’obbligazione è un vincolo giuridico, per cui siamo necessariamente tenuti a compiere una data prestazione...” (P.VOCI, Istituzioni di diritto romano,5 1996, 352); “l’o. è un vincolo giuridico per cui siamo necessariamente costretti a dover pagare qualcosa...” (D.A.MANFREDINI, Istituzioni di diritto romano, 2000, 302); “un vincolo di diritto, per il quale siamo tenuti di necessità a pagare qualcosa...” (R.MARTINI, Appunti cit., 106); “un vinculum iuris por el cual nos vemos constreñidos necesariamente a pagar alguna cosa...” (P.FUENTESECA, La obligatio como vinculum iuris (civilis) y la obligatio rei pignoris causa, in Iuris vincula cit., III, 496).

196 D.22.1; 35.2.54; c.4.19.23197 Il testo è riportato supra, n. 3.198 Cfr., ad es., F.SCHULZ, Prinzipien des römischen Rechts cit., 32 nt. 35;

A.GUARINO, loc. ult. cit. («Siamo [...], quanto al ‘necessitate’, nulla più che di fronte ad un pleonastico intensivo dell’adstringi determinato dal vinculum iuris in cui consiste l’obligatio. [...] Un termine che nulla aggiunge, nella sostanza, all’ ‘adstringi’ e che, sempre nella sostanza (starei per dire nella substantia), in niente e per niente diversifica il ‘necessitate adstringimur’ di I.3.13pr. dal più asciutto ‘alius nobis obstringat’ che si legge nell’altra famosa definizione delle obligationes [...] formulata da Paul. 2 inst. D.44.7.3pr.»).

199 Cfr., in particolare, E.ALBERTARIO, Le definizioni cit., 14ss. (a detta del quale, come si è già visto, la definizione sarebbe frutto di una generalizzazione giustinianea di un enunciato riguardante la sponsio avente ad oggetto un certum). L’idea che ‘solvere rem’ contempla soltanto le obbligazioni aventi ad oggetto un ‘dare’ è giunta, oggi, ad es., fino a F.PASTORI, Elementi di diritto romano. Le obbligazioni cit., 19s.; ID., Gli istituti romanistici cit., 812 (in prospettiva analoga a quella dell’Albertario: supra, nt....); e a M.TALAMANCA, Elementi di diritto privato romano cit., 258 («vi è un’apparente e non facilmente spiegabile restrizione alle prestazioni in dando»). Dal canto suo, il Voci, che in Le obbligazioni cit., 19 parlava di “consegnare una cosa, a titolo di adempimento”, oggi traduce il ‘solvere aliquam rem’ come “compiere una data prestazione” (Istituzioni di diritto romano cit., 352). Va segnalata, altresì, la proposta di E BETTI, La struttura dell’obbligazione romana cit., 43s. di correggere le parole ‘alicuius solvendae rei’ (che sarebbero state scritte dal compilatore giustinianeo) con una presunta originaria indicazione ‘alicuius solvendae pecuniae’; ma, a parte ogni altra considerazione, un riferimento alla solutio della pecunia risulta insoddisfacente anche in sé preso, per ragioni

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distinguere l’obbligazione da qualsiasi altro dovere giuridico;200 solo raramente esso è valutato come perfettamente compatibile con una descrizione classica onnicomprensiva dell’obligatio.201

D’altro canto, nel quadro della dottrina, maggioritaria, che assume la classicità dell’enunciato è dato riconoscere, oltre alla diffusione delle suddette posizioni specifiche, anche una comunanza di atteggiamento critico complessivo. Ci riferiamo al fatto che gli interpreti, compiendo, se possiamo dir così, un’opera di contenimento, hanno cercato di giustificare la presenza ed il tenore delle parole in esame, mirando in sostanza più a difenderle che a valorizzarle. Riteniamo, invece, che possa attribuirsi anche alla complessiva affermazione ‘obligatio – rei’, come già alla chiusura ‘secundum nostrae civitatis iura’, un valore deciso e pregnante, che consente il recupero dello stesso significato della definizione, mostrando non già l’ammissibilità, sibbene l’opportunità della scelta di ogni singolo elemento del dettato.

Beninteso, non si tratta di sostenere che le parole in questione siano idonee a fissare adeguatamente e con precisione la nozione dell’obligatio. Ché, al contrario, ove si chiedesse questa portata al testo, esso apparirebbe anche a noi insoddisfacente quanto meno per la sua scarsa puntualità. Ma il punto è proprio questo: è sicuro che l’autore della definizione avesse inteso fornire una compiuta descrizione di cosa fosse l’istituto dell’obligatio, che ne avesse voluto connotare esaustivamente la nozione? O non è pensabile, piuttosto, che

dommatiche: cfr. C.A.CANNATA, Le definizioni romane cit., 143 nt. 2 e, in precedenza, E.ALBERTARIO, Le definizioni dell’obbligazione cit., 14 nt. 5.

200 Cfr., in particolare, V.ARANGIO-RUIZ, Corso di Istituzioni di diritto romano (diritti reali e di obbligazione) cit., 162, seguito da E.ALBERTARIO, Le definizioni cit., 14 (limitatamente alla pretesa tautologia) e, ultimamente, in toto, da V.GIUFFRÉ, Il diritto dei privati cit., 484 (il quale, appunto, ripropone le battute dell’Arangio-Ruiz, affermando che le parole ‘alicuius solvendare rei’ «o le si intende alla lettera, ed allora significano ‘pagare qualche cosa’ e non includono le obbligazioni di fare o non fare; o le si intende come ‘tenere un determinato contegno’, ed allora comprendono ogni dovere giuridico, pure quello dei soggetti passivi dei rapporti assoluti consistente in un ‘pati’»): sulla questione cfr. specificamente infra, n. 17. Indipendentemente da Arangio-Ruiz, come pare, W.BUCKLAND, The Main Institutions of Roman Private Law cit., 235 (‘tautological and uninforming’). Di « espressione certo alquanto generica e impropria » parla anche G.GROSSO, Schemi giuridici e società cit., 308.

201 Cfr., ad es., G.SCHERILLO, Le definizioni cit., 28 (ma v. infra, n. 15 su ntt. 365-366); B.ALBANESE, Papiniano cit., 169; G.PUGLIESE-L.VACCA-F.SITZIA, Istituzioni di diritto romano cit., 508; ultimamente, A.GUARINO, Obligatio cit., 267 (su cui, però, cfr. infra, ..., nt. ...).

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l’intendimento del giurista fosse quello di caratterizzare in un certo modo l’obligatio per distinguerla da qualche altra figura e che, di conseguenza, egli abbia costruito il complessivo dettato con i tasselli che gli sembrarono opportuni e, per altro verso, sufficienti per il raggiungimento di tale obiettivo?

Nelle pagine che seguono cercheremo di dare fondamento e consistenza al secondo corno di questa alternativa.

10. Alcune notazioni di Seneca in tema di beneficium.

In vista di questo obiettivo occorre per il momento lasciare l’autore della definizione e considerare, invece, alcune affermazioni di Seneca contenute nello scritto ‘De beneficiis’202 e dirette a contrapporre il

202 Su quest’opera, sulle sue ascendenze e sulle sue fonti, sul suo significato, cfr. per tutti F.-R.CHAUMARTIN, Le De beneficiis de Sénèque, sa signification philosophique, politique et sociale, 1985; ID., Les désillusions de Sénèque devant l’évolution de la politique néronienne et l’aspiration à la retraite: le ‘De vita beata’ et le ‘De beneficiis’, in ANRW II.36.3, 1989, 1962ss., cui rinviamo anche per la precedente letteratura.

In generale, sulla finalità e sul valore, e dunque sulla portata, dei riferimenti giuridici negli scritti di Seneca cfr., in tempi recenti, le lucide messe a punto di A.MANTELLO, ‘Beneficium’ servile - ‘debitum’ naturale, 1979, 17ss. e di M.DUCOS, Sénèque et le monde du droit, in R.CHEVALLIER-R.POIGNAULT (éd.), Présence de Sénèque, 1991, 109ss.

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beneficium e il creditum in senso giuridico, 203 dalle quali provengono alcuni dati di particolare interesse ai nostri fini.

La contrapposizione tra beneficium e operazione giuridica è qua e là attestata nella produzione letteraria già a partire da Plauto204 ed era, certo, presente nella tradizione del pensiero stoico;205 ma è nel trattato di Seneca che vengono enucleati ed illustrati i diversi profili di questa polarità, ivi assurta ad apposito oggetto di attenta riflessione e presente

203 Sul punto, a parte le indicazioni presenti in J.MICHEL, Gratuité en droit romain, 1962, 524ss. e i brevi accenni in G.GILIBERTI, «Beneficium» e «iniuria» nei rapporti col servo. Etica e prassi giuridica in Seneca, in Sodalitas, 4, 1984, 1847 e 1850s., cfr. soprattutto l’analisi di A.MANTELLO, ‘Beneficium’ servile cit., 72ss. (che, tuttavia, esemplarmente accurata ed efficace sulla questione dei precedenti retorico-filosofici e sul dualismo tra ‘honestum’ e ‘necessarium’, lascia in ombra alcuni aspetti importanti, quali la presenza dell’admonitio, la contrapposizione tra tutela processuale e fides, e la connessione di quest’ultima con il pudor: profili che, peraltro, sono di particolare rilievo ai nostri fini). Cfr., altresì, i richiami in R.MARTINI, Due testi per la storia del c.d. «credere» edittale, in Atti II Seminario romanistico gardesano (1978), 1980, 120s.

Non è il caso di soffermarci sulla figura in sé del beneficium, sui vari profili del relativo codice comportamentale, sul significato e le implicazioni sociali e politiche della pratica del beneficium in età tardo-repubblicana e nel Principato. Per queste tematiche, sia in generale sia con specifico riguardo alle indicazioni senechiane, cfr., oltre agli scritti di Chaumartin citati alla nt. prec., almeno J.MICHEL, Gratuité cit., spec. 507ss.; J.HELLEGOUARC’H; Le vocabulaire latin des relations et des partis politiques sous la république, 1972, 163ss.; A.MANTELLO, ‘Beneficium’ servile - ‘debitum’ naturale cit., spec. 39ss.; R.SALLER, Personal patronage under the early Empire, 1982, 15ss.; G.GILIBERTI, «Beneficium» e «iniuria» cit., 1843ss.; C.FEUVRIER-PRÉVOTAT, «Donner et recevoir»: remarques sur les pratiques d’échanges dans le De officiis de Cicéron, in Dialogue d’histoire ancienne, 11, 1985, 257ss., spec. 268ss.; V.SORENSEN, Seneca, tr. it. 1986, 226ss.; J.-M.DAVID, Le patronat judiciaire au dernier siècle de la république romaine, 1992, 145ss.; R.RACCANELLI, L’amicitia nelle commedie di Plauto, 1998, 19ss., spec. 26ss.

Del pari, non rileva in questa sede la questione dell’esatta nozione che il ‘credere’ ed il ‘creditum’ assumono nel sistema edittale e nella riflessione giurisprudenziale della tarda età repubblicana e nel I-II sec. d.C. (sulla questione cfr., ultimamente, A.SACCOCCIO, Si certum petetur cit., passim, con ragionata discussione della variegata dottrina). Quel che per noi è rilevante, infatti, è il fatto in sé del dualismo tra il meccanismo del beneficium ed il rapporto obbligatorio quale istituto giuridico, a prescindere, dunque, dal preciso ambito di applicazione del secondo. Osserviamo soltanto che Seneca, nel quadro di tale contrapposizione, assume il ‘creditum’ come comprendente l’operazione di mutuo e la locatio-conductio: cfr., esplicitamente, ben. 3.7.1, su cui, da questo punto di vista, A.SACCOCCIO, Si certum petetur cit., 425 (426) nt.

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quale autentico Leit-motiv dell’intero argomentare. Significativamente, i termini del dualismo si trovano scolpiti già nell’avvio della trattazione:

ben. 1.1.1 Inter multos ac varios errores temere inconsulteque viventium nihil propemodum, vir optime Liberalis, dixerim *** quod beneficia nec dare scimus nec accipere. Sequitur enim, ut male collocata male debeantur; de quibus non redditis sero quaerimur; ita enim perierunt, cum darentur. [2] Nec mirum est inter plurima maximaque vitia nullum esse frequentius quam ingrati animi. Id evenire ex causis pluribus video. Prima illa est, quod non eligimus dignos, cui tribuamus. Sed nomina facturi diligenter in patrimonium et vitam debitoris inquirimus, semina in solum effetum et sterile non spargimus: beneficia sine ullo dilectu magis proicimus quam damus. [3] Nec facile dixerim, utrum turpius sit infitiari an repetere beneficium; id enim genus huius crediti est, ex quo tantum recipiendum sit, quantum ultro refertur; decoquere vero foedissimum ob hoc ipsum, quia non opus est ad liberandam fidem facultatibus sed animo; reddit enim beneficium, qui debet.

26 (ha ragione questo studioso nell’escludere dal creditum senechiano il deposito, pur menzionato in 3.7.2; alle osservazioni in proposito addotte può aggiungersi che il depositum e il creditum sono distintamente menzionati ed accostati in ben. 7.16.5).

204 Plaut., Trin. 1130s. ‘...beneficium homini proprium quod datur, prosum perit;/ quod datum utendumst, id repetundi copiast, quando velis’; Ter., Phorm. 493 ‘Faeneratum istuc beneficium pulchre tibi dices’; Cic., inv. 2.115 ‘...inpudentem esse, qui pro beneficio non gratiam, verum mercedem postulet’; Lael. 31 ‘...benefici liberalesque sumus, non ut exigamus gratiam - neque enim beneficium faeneramur, sed natura propensi ad liberalitatem sumus...’; fam. 2.6.1 ‘Grave est [...] homini pudenti petere aliquid magnum ab eo, de quo se bene meritum putet, ne id, quod petat, exigere magis, quam rogare et in mercedis potius, quam beneficii loco numerare videatur’; fin. 2.117 ‘nec [...] cum tua causa cui commodes, beneficium illud habendum est, sed faeneratio’; Planc. 68 ‘...dissimilis est pecuniae debitio et gratiae. Nam, qui pecuniam dissolvit, statim non habet id quod reddidit; qui autem debet, retinet alienum; gratiam autem et qui refert, habet, et qui habet in eo ipso quod habet, refert’. Cfr., altresì, l’accostamento compiuto in Cic., off. 1.48 ‘Quodsi ea, quae utenda acceperis, maiore mensura, si modo possis, iubet reddere Hesiodus, quidnam beneficio provocati facere debemus?’. Tra queste testimonianze particolarmente significativa, dal nostro punto di vista, appare quella plautina, in ragione del preciso riferimento alla estraneità del repetere e, cioè, della presenza di un elemento discretivo di notevole rilievo, come vedremo immediatamente nel testo.

205 Cfr. A.MANTELLO, ‘Beneficium’ servile - ‘debitum’ naturale cit., 74ss.

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Dopo aver affermato (§ 1) che ‘beneficia nec dare scimus nec accipere’, con la conseguenza che i beneficia male dispensati vengono riconosciuti di mala voglia e che tardivamente ci si lamenta per i benefici non restituiti, dacché essi perirono nel momento stesso in cui sono stati attribuiti, Seneca segnala (§ 2) il frequente verificarsi dell’ingratitudine, e ne fornisce una prima spiegazione: mentre ‘nomina facturi diligenter in patrimonium et vitam debitoris inquirimus’, attribuiamo i beneficia senza alcuna opera preventiva di discernimento e di selezione circa il destinatario. D’altra parte (§ 3), al pari del rifiuto di attribuire un beneficium, è cosa turpe richiederne la restituzione (‘repetere beneficium’), poiché ciò che è proprio della natura di questo particolare creditum è il fatto che l’autore del dare può aspettarsi di recuperare solo ciò che il beneficiato riterrà di restituire (‘id enim genus huius crediti est, ex quo tantum recipiendum sit, quantum ultro refertur’); come pure è ‘foedissimum’ ricorrere alla procedura di fallimento (‘decoquere’), in quanto la fides che impegna l’accipiente verso il dante può esser liberata non in base alle disponibilità economiche del beneficiato, bensì in base al suo animus, nel senso che restituisce il beneficium colui che se ne riconosce debitore: ‘non opus est ad liberandam fidem facultatibus sed animo; reddit enim beneficium, qui debet’.206

Dunque, il lettore del De beneficiis si trova subito di fronte ad una esplicita e densa rappresentazione del beneficium come un particolare creditum, alla cui natura sono estranei sia il ‘repetere’ sia il ‘decoquere’, vale a dire i due meccanismi di reazione-sanzione che l’organizzazione giuridica della civitas prevede come risposta al mancato soddisfacimento del creditum in senso tecnico; del pari, immediata è la connessione tra la pratica del beneficium e la fides quale valore che lega l’accipiente al dante.

206 Si noti la compattezza narrativa dei §§ 2 e 3: i riferimenti compiuti nel § 2 alla considerazione per il patrimonium del debitore da parte di chi si appresta ad instaurare un vero e proprio rapporto di credito e alla diversa condotta di chi, invece, concede i beneficia si coordinano e si completano, nel § 3, con l’affermazione che la restituzione del beneficium non dipende dalle facultates economiche del beneficiato, il che spiega l’incompatibilità della concessione di un beneficium non solo con un successivo repetere, ma anche con l’esperimento di un’esecuzione patrimoniale.

Un impianto argomentativo prossimo a quello dei §§ 2-3 si rinviene in ben. 4.39.2, riportato infra, nel testo.

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Siffatta caratterizzazione del beneficium si incontra ripetutamente nel corso del trattato.

In particolare, la circostanza che il beneficium non è concesso in vista di una restituzione è scolpita, ad esempio, nell’incisivo enunciato ‘Beneficium est, quod potest, cum datum est, et non reddi’ (5.11.3) e, per quel che a noi maggiormente interessa, è ripresa in alcune notazioni volte a distinguere il beneficium da operazioni tecnico-giuridiche: dall’esortazione, tra le stesse battute iniziali, ‘...demus beneficia, non feneramus’, esplicitata attraverso l’aggiunta ‘dignus est decipi, qui de recipiendo cogitavit, cum daret’ (1.1.9),207 alla più distesa prospettazione ‘Beneficiorum simplex ratio est: tantum erogatur; si reddet aliquid, lucrum est, si non reddet, damnum non est. Ego illud dedi, ut darem. Nemo beneficia in calendario scribit nec avarus exactor ad horam et diem appellat. Numquam illa vir bonus cogitat nisi admonitus a reddente; alioqui in formam crediti transeunt. Turpis feneratio est beneficium expensum ferre’ (1.2.3); dall’affermazione che l’autore del beneficium ‘non [...] in vicem aliquid sibi reddi voluit; aut non fuit beneficium, sed negotiatio’ (2.31.2) alla puntualizzazione che ‘...alia condicio est in credito, alia in beneficio. Pecuniae etiam male creditae exactio est; et appellare debitorem ad diem possum et, si foro cesserit, portionem feram; beneficium et totum perit et statim’ (4.39.2), fino all’argomentazione di ben. 4.12.1, in cui, proprio come nelle battute iniziali dell’opera (§ 1.1.3), riportate in apertura di discorso, il beneficium è indicato esplicitamente come un particolare tipo di creditum, distinto dal creditum in senso tecnico-giuridico per il fatto di poter rimanere privo di solutio: ‘«Dicitis» inquit «beneficium creditum insolubile esse, creditum autem non est res per se expetenda». Cum creditum dicimus, imagine et translatione utimur; sic enim et legem dicimus iusti iniustique regulam esse, et regula non est res per se expetenda. Ad haec verba demonstrandae rei causa descendimus; cum dico creditum, intellegitur tamquam creditum. Vis scire? Adicio insolubile, cum creditum nullum non solvi aut possit aut debeat’. 208

Con riferimento, poi, all’incompatibilità tra l’attribuzione di un beneficium e la richiesta giudiziale, quale risvolto della predetta non-aspettativa di restituzione, si leggano i seguenti brani:

207 Cfr. anche l’affermazione che è ‘proprium’ del beneficium ‘nihil de reditu cogitare’ (2.31.3).

208 Per un’altra contrapposizione incisiva cfr., ad es., ben.2.17.7.

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ben. 3.7.1 ... p a r s o p t i m a b e n e fi c i i p e r i i t , s i a c t i o sicut certae pecuniae aut ex conducto et locato d a t u r . Hoc enim in illo speciosissimum est, quod dedimus vel perdituri, quod totum permisimus accipientium arbitrio; s i a p p e l l o , s i a d i u d i c e m v o c o , i n c i p i t n o n b e n e fi c i u m e s s e , s e d c r e d i t u m . [2] Deinde cum r e s honestissima sit referre gratiam, desinit esse honesta, si necessaria est; non magis enim laudabit quisquam gratum hominem quam eum, qui depositum reddidit aut, quod debebat, citra iudicem solvit. [3] Ita duas res, quibus in vita humana nihil pulchrius est, corrumpimus, gratum hominem et beneficium; quid enim aut in hoc magnificum est, si beneficium non dat, sed commodat, aut in illo, qui reddit, non quia vult, sed quia necesse est? ....

ben. 3.13.1 «Tardiores» inquit «ad beneficia danda facimus non vindicando data nec infitiatores eorum afficiendo poena». Sed illud quoque tibi e contrario occurrat multo tardiores futuros ad accipienda beneficia, si p e r i c u l u m c a u s a e d i c u n d a e adituri erunt et innocentiam sollicitiore habituri loco.

ben. 3.14.2 Etiam atque etiam, cui des, considera: n u l l a a c t i o e r i t , n u l l a r e p e t i t i o . Erras, si existimas succursurum tibi iudicem; nulla lex te in integrum restituet, s o l a m accipientis fi d e m specta. Hoc modo beneficia auctoritatem suam tenent et magnifica sunt; p o l l u e s illa, s i m a t e r i a m l i t i u m f e c e r i s .

ben. 7.23.3 Cum dicimus b e n e fi c i u m r e p e t i n o n o p o r t e r e , non ex toto repetitionem tollimus [...] Interveniat a l i q u a n d o a d m o n i t i o , sed verecunda, quae non poscat n e c i n i u s v o c e t .

Occorre, per il momento, soffermarci assai brevemente sul primo e sull’ultimo di questi quattro brani.209

Segnatamente, il testo di 3.7.1 esprime assai bene la complementarietà tra la consapevolezza dell’autore del beneficium circa

209 Ai quali va aggiunto almeno l’intero blocco argomentativo di ben. 3.15, impostato sul confronto con operazioni giuridiche e concluso con la seguente affermazione: ‘qui dat beneficia, Deos imitatur; qui repetit, feneratores’ (§ 4).

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l’eventualità di una mancata restituzione, la libertà dell’accipiente di restituire o meno e la non esigibilità giudiziale del beneficium: ‘speciosissimum est, quod dedimus v e l p e r d i t u r i , quod t o t u m p e r m i s i m u s a c c i p i e n t i u m a r b i t r i o ; si appello, si a d i u d i c e m v o c o , incipit non beneficium esse, sed creditum’. Vedremo più avanti (n. 13 sub II) il prezioso seguito immediato di questa notazione (i §§ 2 e 3, cioè), in cui l’argomentare senechiano viene immesso nel dualismo ‘honestum – necessarium’.

Quanto al dettato di 7.23.3, merita attenzione il riferimento all’admonitio,210 che rappresenta una forma di richiesta di restituzione che il ‘codice’ del beneficium ammette in casi particolari (‘interveniat a l i q u a n d o admonitio’) e che non comporta né un pretendere né un in ius vocare (risolvendosi, piuttosto, in una verecunda stimolazione della memoria di chi ha ricevuto un beneficium).211 Il ricorso all’admonitio al posto del repetere si trova esplicitamente collegato alla contrapposizione ‘beneficium-creditum’ in ben. 5.21.2: ‘«Sed ex beneficio» inquit «creditum facis». Minime; non enim exigo, sed repeto, et ne repeto quidem, sed admoneo’. 212

Ora, se è soltanto in casi eccezionali, per una cogente necessità, che l’autore del beneficium potrà richiederne tramite la predetta admonitio la restituzione,213 quest’ultima normalmente dovrebbe esser sollecitata da una spinta interiore al soggetto che ha ricevuto il beneficium, e

210 Riferimento che, ulteriormente, si rivelerà prezioso per il collegamento tra pratica dei beneficia e amicitia: infra, n. 11.

211 Cfr., ad es., anche i §§ 5.22.1-4; 5.23.2; 5.25.6; 7.25.2.212 Per meglio apprezzare questo passaggio è necessario tener conto che esso

è sollecitato dall’argomentare dei §§ 5.20.6-7, che conviene riportare per intero: ‘Dicet aliquis: «Quid tanto opere quaeris, cui dederis beneficium, tamquam repetiturus aliquando? Sunt, qui numquam iudicent esse repetendum, et has causas afferunt: Indignus etiam repetenti non reddet, dignus ipse per se refert. Praeterea, si bono viro dedisti, expecta, ne iniuriam illi facias appellando, tamquam sua sponte redditurus non fuisset; si malo viro dedisti, plectere; beneficium vero ne corruperis creditum faciendo. Praeterea lex, quod non iussit repeti, vetuit». Verba sunt ista. [7]. Quam diu me nihil urguet, quam diu fortuna nihil cogit, perdam potius beneficium quam repetam; sed si de salute liberorum agitur, si in periculum uxor deducitur, si patriae salus ac libertas mittit me etiam quo ire nollem, imperabo pudori meo et testabor omnia me fecisse, ne opus esset mihi auxilio hominis ingrati; novissime recipiendi beneficii necessitas repetendi verecundiam vincet. Deinde, cum bono viro beneficium do, sic do tamquam numquam repetiturus, nisi fuerit necesse’.

213 Cfr. ben.5.20.7, riportato alla nt. prec.

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precisamente dal pudor214: ‘aliquando ad referendam gratiam215 converti ex aliqua causa possunt (scil.: ingrati), si illos pudor admonuerit’ (ben. 3.1.4); ‘...ingratos [...] quos aut pudor aut occasio aut imitatio aliquando gratos poterit efficere’ (ben. 1.2.4).216

214 Sulla nozione di ‘pudor’ come atteggiamento di osservanza di un dovere cfr. J.HELLEGOUARC’H, Le vocabulaire cit., 283 e, soprattutto, G.NEGRI, La clausola codicillare nel testamento inofficioso cit., 212ss. (i quali, comunque, non se ne occupano con specifico riguardo alla fenomenologia del beneficium).

215 Sulle locuzioni ‘referre gratiam’ e ‘reddere gratiam’ in relazione alla restituzione del beneficium cfr., per tutti, C.MOUSSY, ‘Gratia’ et sa famille, 1966, 262ss.

216 Un perfetto pendant con il rapporto ‘admonitio-pudor’ del trattato senechiano si ha nella seguente testimonianza di Plin., epist. 1.19.3-4 ‘te memorem huius muneri amicitiae nostrae diuturnitas spondet; ego ne illud quidem admoneo, quod admonere deberem, nisi scirem sponte facturum [...] 4. Nam solliciter custodiendus est honos, in quo etiam beneficium amici tuendum est’. Plinio, in sostanza, raffigura il ricorso all’admonere come necessario solo nel caso in cui manchi una sollecitazione interna a colui che ha ricevuto il beneficium. Questo impulso interno è indicato come ‘honos’; ma che quest’ultimo sia intimamente collegato al pudor, tanto da poter essere richiamato alternativamente, si constata dall’abbinamento ‘Honor Pudorque’ di Hor., Carm. Saec. 57, riportato immediatamente di seguito, nel testo (sul punto cfr., peraltro, infra, n. 13 nt. 314).

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Ma il pudor è strettamente collegato alla fides. 217 Ciò è mostrato sia da attestazioni che si collocano su un piano generale, quali Cic., Mur. 30 ‘Ceterae tamen virtutes ipsae per se multum valent, iustitia, fides, pudor, temperantia...’; Cic., rep. 3.28 ‘...si pudor quaeritur, si probitas, si fides...’; Hor., Od. I.24.6-7 ‘Pudor et Iustitiae soror/incorrupta Fides’; e Hor., Carm. Saec. 57-59 ‘Iam Fides et Pax et Honor Pudorque/priscus et neglecta redire Virtus/audet’; sia, per quel che qui maggiormente rileva, da enunciati che riguardano specificamente gli ambiti degli officia e dei beneficia (tra loro contigui o sovrapponibili, come vedremo: infra, n. 11): così, Plinio elogia un testamento ‘quod pietas fides pudor scripsit, in quo denique omnibus adfinitatibus pro cuiusque officio g r a t i a r e l a t a e s t , relata et uxori’ (epist. 8.18.7) e Cic., fam. 13.21.2, dopo aver sottolineato l’officium e la fides di un certo liberto nei confronti del proprio patronus (‘est in patronum suum officio et fide singulari’), traspone i due lodati valori nella duplice qualifica ‘pudentem et officiosum’. Dunque, attraverso il riferimento al pudor che funge da stimolo e richiamo interiore all’adempimento siamo condotti alla fides quale componente essenziale del meccanismo del beneficium, l’ultima tra le particolarità fissate da Seneca già in apertura di trattato (1.1.3).

217 Sul collegamento tra il pudor e la fides cfr. G.NEGRI, La clausola codicillare nel testamento inofficioso cit., 212s. e G.FREYBURGER, Fides. Étude sémantique et religieuse depuis les origines jusqu’à l’époque augustéenne, 1986, 51 e 230 (che, tuttavia, citano esclusivamente le testimonianze del discorso pro Murena e dei versi di Orazio, non direttamente rilevanti con riguardo alle sfere del beneficium e dell’officium: cfr. subito di seguito, nel testo).

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Invero, la connessione tra il beneficium e la fides si ritrova nelle stesse battute preliminari, là dove (1.4.6) Seneca dichiara il proposito di impostare con argomenti seri, anziché ‘levi ac fabuloso sermone’, la dimostrazione dell’importanza di ‘fidem in rebus humanis retinere’; nel § 3.14.2 (più su trascritto fra le attestazioni in tema di incoercibilità del dovere di restituzione), in cui vi è un’esplicita contrapposizione tra strumenti processuali e fides: l’autore del beneficium non avrà a disposizione alcuna actio, alcuna repetitio, alcun soccorso del iudex, alcuna in integrum restitutio, potendo contare, piuttosto, esclusivamente sulla fides dell’accipiente (‘solam accipientis fidem specta’);218 nel complessivo argomentare dei §§ 3.15.1-2 e 4, là dove l’affermazione ‘Hoc unum deest avaritiae, ut beneficia s i n e s p o n s o r e n o n d e m u s ’ (§ 4) si coordina a quanto amaramente osservato poco prima in relazione all’insufficienza della fides in sé a render vincolanti gli impegni assunti in operazioni giuridiche (3.15.1 ‘Utinam quidem persuadere possemus, ut pecunias creditas tantum a volentibus acciperent! Utinam nulla stipulatio emptorem venditori obligaret nec pacta conventaque impressis signis custodirentur, fi d e s potius illa servaret et aequum colens animus! [2]. Sed necessaria optimis praetulerunt et c o g e r e fi d e m q u a m e x p e c t a r e m a l u n t . Adhibentur ab utraque parte testes; ille per tabulas plurium nomina interpositis parariis facit; ille non est interrogatione contentus, nisi reum manu sua tenuit’);219 nei §§ 5.23.1-2, in cui il filosofo presenta l’admonitio, di cui si è detto or ora, come un atto finalizzato a scuotere una fides che langue: ‘quorundam ad referendam gratiam fides non cessat, sed languet; hanc pervellamus [...] Admonebo ergo, non amare, non palam, non convicio, sic, ut se redisse in memoriam, non reduci putet’. Infine, la relazione ‘beneficium-fides/pudor’ compare, con insistenza ed incisività, verso la parte conclusiva del trattato, nel quadro di una sequenza narrativa che è opportuno riferire specificamente. In particolare, Seneca, dopo essersi appositamente soffermato sull’admonitio quale verecunda sollecitazione della memoria dell’accipiente (§§ 7.23-25), osserva che la mente di chi ha ricevuto il beneficium può esser distolta dal dovere di referre gratiam per il frequente prodursi di particolari situazioni e disposizioni d’animo e

218 Si noti come l’incalzante elencazione di prospettive processuali mancanti renda ancora più marcato, al culmine, il richiamo alla fides quale unico referente che possa garantire un reddere beneficium.

219 Su questo brano cfr., da altro punto di vista, infra, n. 17.

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conclude con la seguente domanda: ‘Inter affectus inquetissimos rem quietissimam, fidem, quaeris?’ (§ 7.26.5);220 ripropone, quindi, quanto appena affermato attraverso un’immagine allegorica (7.27.1-2): la vita appare come una grandissima città presa dai nemici, nella quale, ‘omisso p u d o r e ’, domina la forza ed il sovvertimento (§ 1); riprende, quindi, la raccomandazione (espressa nel § 7.25.2)221 a compiere un’admonitio dimessa, che non abbia il tono di un rimprovero, per far sì che l’ingrato ‘si quid est p u d o r i s residui, servet’ (§ 7.28.3); ed esorta l’autore del beneficium ad aver comprensione e fiducia verso un accipiente che tarda a restituire: ‘Quantum possumus, causam eius apud nos agamus: «Fortasse non potuit, fortasse ignoravit, fortasse facturus est». Quaedam nomina bona lentus et sapiens creditor fecit, qui sustinuit ac mora fovit. Idem nobis faciundum est; nutriamus fi d e m l a n g u i d a m ’ (§ 7.29.2, ove è da notare un ultimo raffronto con il creditum giuridico).

220 Ben. 7.26.4 ‘...Alius libidine insanit, alius abdomini servit; alius lucri totus est, cuius summam, non vias, spectat; alius invidia laborat, alius caeca ambitione et in gladios irruente. Adice torporem mentis ac senium et contraria huic inquieti pectoris agitationem tumultusque perpetuos; adice aestimationem sui nimiam et tumorem, ob quae contemnendus est, insolentem. Quid contumaciam dicam in perversa nitentium, quid levitatem semper aliquo transilientem? [5] Hoc accedat temeritas praeceps et numquam fidele consilium daturus timor et mille errores, quibus volvimur: audacia timidissimorum, discordia familiarissimorum et, publicum malum, incertissimis fidere, fastidire possessa, quae consequi posse spes non fuit. Inter affectus inquetissimos rem quietissimam, fidem, quaeris?’

221 In questo brano Seneca contrappone l’admonitio, rappresentata come un ‘subsmissis et familiaribus verbis memoriam revocare’, e il convicium, che produce l’effetto di ‘in odium beneficia perducere’ finendo per favorire il verificarsi delll’ingratitudine.

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Alcune delle predette indicazioni contenute nel trattato trovano una preziosa conferma nell’epistula 81 ad Lucilium, che costituisce un documento di notevole rilievo per una completa visione del modello del beneficium, giacché l’articolata e attenta riflessione ivi svolta – di per sé incentrata sulla specifica questione se l’aver subìto una iniuria da parte di colui che in precedenza era stato autore di un beneficium liberi o meno il destinatario dal beneficium222 – incrocia diversi aspetti dello ‘statuto’ del beneficium e, per ciò, integra la trattazione compiuta nel De beneficiis, opera alla quale, del resto, lo scrivente esplicitamente rimanda (§ 3).223 Ebbene, in primo luogo sono significative le parole con cui Seneca scolpisce l’oggetto di riflessione, poc’anzi riferito, dell’epistola: ‘quaerendum videtur [...] an is, qui profuit nobis, si postea nocuit, paria fecerit et nos d e b i t o s o l v e r i t ’. Esse rivelano che l’autore poteva senz’altro dare per scontata ed immediatamente intellegibile in sé la rappresentazione del beneficium come determinante il sorgere di un debitum.224 D’altra parte, in un paio di passaggi dell’epistola, diretti ad affermare che il sapiens, a differenza dell’imprudens, è in grado di discernere come occorre provvedere al reddere beneficium (§§ 8 e 14), Seneca, addirittura, applica alla questione della restituzione del beneficium il frutto della riflessione giurisprudenziale in materia di adempimento delle obbligazioni: § 8 ‘ ... Non omnes esse grati sciunt: debere beneficium potest etiam imprudens et rudis et unus e turba [...], ignorat autem quantum pro eo debeat. Uni sapienti notum est, quanti res quaeque taxandi sit. Nam ille [...] stultus etiam si bonae voluntatis est, a u t m i n u s q u a m d e b e t a u t

222 Per qualche cenno sulla soluzione sostenuta da Seneca cfr. A.MANTELLO, ‘Beneficium’ servile – ‘debitum’ naturale cit., 420s.

223 ‘...satis multa in iis libris locuti sumus, qui de beneficiis inscribuntur...’. Va segnalata, peraltro, l’opinione di F.PRÉHAC, Introduction à Sénèque, Des bienfaits, t. I (éd. «Les belles lettres»), 1961, pp. XIII-XVII, secondo cui la redazione di questa epistola sarebbe da collocare tra la scrittura dei primi sei libri del De beneficiis e la composizione del settimo e ultimo; sulla questione cfr., recentemente, F.-R.CHAUMARTIN, ANRW II.36.3 cit., 1702ss.

224 Il che è confermato, del resto, dal fatto che anche in questa epistula, come nel trattato De beneficiis, Seneca ricorre alla terminologia propria dei rapporti obbligatori: cfr. § 3 ‘debito solvere’; § 8 ‘beneficio debere’; § 17 ‘beneficio obligare’ (cfr. infra, n. 11 sub V). E’ solo per sostenere una sottile differenziazione tra ‘gratiam referre’ e ‘gratiam reddere’, funzionale allo specifico argomentare, che nel § 9 Seneca afferma, elogiando il rispetto della proprietas verborum, ‘...nullum ...nobis placuit, quod aeri alieno convenit, verbum’.

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t e m p o r e a l i o q u a m d e b e t a u t q u o n o n d e b e t l o c o r e d d i t ...’; e § 14 ‘Sapiens omnia inter se comparabit: maius enim aut minus fit, quamvis idem sit, t e m p o r e , l o c o , c a u s a ....’. A nostro avviso non può non scorgersi in queste notazioni 225 un collegamento con una concettualizzazione in materia di esatto adempimento delle obbligazioni, quella stessa elaborazione che, in ambito processuale, si rifletteva nella problematica del plus petere ‘re-tempore-loco-causa’.226 Il che rivela, una volta di più, la rappresentazione del beneficium nella prospettiva dei rapporti obbligatori. Tra le peculiarità che, tuttavia, conformemente alla raffigurazione offerta nel De beneficiis, distinguono questo creditum da quello propriamente giuridico,227 vi è la circostanza che l’adempimento, e cioè la restituzione del beneficium (‘reddere beneficium’, ‘referre gratiam’)228, è un impegno che spetta alla fides assolvere: ciò risalta con particolare chiarezza nella domanda provocatoria ‘An tibi videtur fidem habere, qui referre gratiam nescit ?’ (§ 12), testimonianza tanto più significativa in quanto il collegamento ‘restituzione–fides’ (come già l’assunzione del beneficium quale debitum nel § 3) viene dato per scontato.

In conclusione, mettendo insieme gli elementi che abbiamo fin qui raccolto, nel modello canonizzato da Seneca il beneficium è, sì, un ‘creditum’ ed impegna alla restituzione; tuttavia l’aver dato un beneficium vincola la fides dell’accipiente,229 non crea un impegno giuridicamente coercibile: la restituzione del beneficium, infatti, non

225 A quanto ci risulta, si tratta di testimonianze del tutto trascurate in dottrina sia da chi ha specificamente considerato i riferimenti giuridici nelle Epistole ad Lucilium (J.SANTA CRUZ TEIJEIRO, Digressiones Romanisticas en torno al Epistolario de Seneca a Lucilio, 1969, .....; ma si tratta, invero, di una rassegna complessivamente assai superficiale) sia dagli studiosi di questioni riguardanti l’adempimento delle obbligazioni sia, infine, da quanti hanno affrontato la problematica del plus petere.

226 E’ scontato, naturalmente, il richiamo a Gai 4.53a-53d. Si tenga presente, peraltro, che in epist. 48.10 Seneca si mostra perfettamente informato della restitutio in integrum in caso di plus petere: cfr. R.ORESTANO, «Plus petitio» e «in integrum restitutio», in St. Biondi, II, 1965, 234s.; G.SACCONI, La «pluris petitio» nel processo formulare. Contributo allo studio dell’oggetto del processo, 1977, 41s.

227 Il motivo del parallelismo/contrapposizione con il creditum tecnico-giuridico ricorre esplicitamente nei §§ 17 e 18.

228 Supra, nt. 214.229 Particolarmente incisiva è la menzione, in apertura di trattato (1.1.3), di

un ‘liberare fidem’.

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può esser chiesta giudizialmente tramite un’actio, né dà luogo a procedure esecutive (1.1.3; 4.39.2), bensì è rimessa all’arbitrium accipientium (3.7.1), i quali saranno in questa direzione interiormente230

sollecitati dal sentimento del pudor.231

11. Collegamento tra beneficium, amicitia e necessitudo, e loro riconduzione all’officium e alla fides; l’impiego di ‘obligare’ e ‘debere’; rappresentazione in termini di ‘vinculum’.

Dobbiamo proseguire su questa strada, segnalando alcuni dati preziosi ai nostri fini, che, coordinati tra loro, consentiranno la formulazione di una proposta interpretativa circa il valore dell’enunciato ‘obligatio – rei’ e, ulteriormente, dell’intera operazione definitoria.

I. Il primo dato consiste nella connessione che corre tra il beneficium,

da un lato, e l’amicitia e la necessitudo, dall’altro.

Il collegamento tra beneficium e amicitia 232 si configura, anzitutto, con riguardo alle due figure complessivamente assunte. Ad esempio, già Catone sovrappone la pratica dei beneficia e l’amicitia, scrivendo: ‘ea nunc derepente tanta beneficia ultro citroque, tantam amicitiam relinquemus?’ (orig. 25c); Cicerone compie il seguente efficace accostamento: ‘Ut enim benefici liberalesque sumus, non ut exigamus gratiam - neque enim beneficium faeneramur, sed natura propensi ad liberalitatem sumus - sic amicitiam non spe mercedis adducti, sed quod omnis eius fructus in ipso amore inest, expetendam putamus’ (Lael. 31); Seneca considera essenza di un beneficium una ‘voluntas amica’ (ben. 1.5.5; 2.5.4),233 presenta l’admonitio (e cioè, la sola corretta forma di

230 Cfr. l’efficace notazione di ben. 7.22.1 ‘Quod debes, quaere, cui reddas, et, si nemo poscet, i p s e t e a p p e l l a [...]. Oblitus es, quemadmodum inter vos officia divisa sint: illi oblivio imperata est, tibi meminisse mandavimus’.

231 Che può, eventualmente, esser stimolato attraverso una verecunda admonitio.

232 Cfr., in particolare, C.MOUSSY, ‘Gratia’ cit., 357ss.; J.HELLEGOUARC’H, Le vocabulaire cit., 164. Cfr., altresì, le notazioni in L.PIZZOLATO, L’idea di amicizia nel mondo antico classico e cristiano, 1993, 161s.

233 Lo stesso Seneca (ben. 6.7.2) afferma che ‘nullum esse beneficium, nisi quod ad nos primum aliqua cogitatio defert, deinde amica et benigna’. Del resto, cfr. anche Plaut., Trin. 1051s.; Cic., Rosc. 4; Lael. 26 (ove ‘meritum’ è

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richiesta del reddere beneficium)234 come un ‘ius amicitiae’, come un istituto ricorrente inter amicos (ben. 7.25.1) e, ancora, dalla connessione tra la pratica del beneficium e l’amicitia trae materia, nel De beneficiis, per uno dei numerosi elementi di distinzione tra i beneficia e i rapporti di credito in senso giuridico: ‘...eligendum est, a quo beneficium accipiam; et quidem diligentius quaerendus b e n e fi c i i q u a m p e c u n i a e c r e d i t o r . Huic enim reddendum est, quantum accepi, et, si reddidi, solutus sum ac liber; at illi et plus solvendum est, et nihilo minus etiam relata gratia cohaeremus; debeo enim, cum reddidi, rursus incipere, m a n e t q u e a m i c i t i a ’ (ben. 2.18.5). Più specificamente, poi, il beneficium è considerato come uno degli elementi fondanti dell’amicitia. Così, ad esempio, un personaggio di Terenzio afferma ‘cupio aliquos parere amicos beneficio’ (Ter., Eun. 149); Cic., inv. 2.168 parla di amicitiae ‘partim ab illorum partim ab nostro beneficio profectae’; nel Commentariolum petitionis i beneficia appaiono al primo posto tra i diversi elementi dai quali ‘amicorum studia parta esse oportet’ (§ 16)235; Seneca constata che ‘beneficia parant amicitias’ (epist. 19.12) e giunge ad entificare un ‘beneficiorum sacratissimum ius, ex quo amicitia oritur’ (ben. 2.18.5). Ma soprattutto, per quel qui maggiormente importa, è all’amicitia che viene ricondotto il dovere di restituzione del beneficium in fonti quali Sen., epist. 81.12, ove il referre gratiam è indicato come ‘amoris et amicitiae pars’ o Cic., Planc. 80-81 ‘... Quae potest esse vitae iucunditas sublatiis amicitiis? quae porro amicitia potest esse inter ingratos? [...] Cuius opes tantae esse possunt aut umquam fuerunt, quae sine multorum amicorum officiis stare possint? quae certe sublata memoria et gratia nulla extare possunt. Equidem nihil tam proprium hominis existimo quam non modo beneficio, sed etiam benivolentiae significatione alligari ...’.

D’altra parte, il compimento di un beneficium determina il sorgere di una relazione di necessitudo (concetto, quest’ultimo, notoriamente legato anche all’amicitia, della quale enfatizza l’aspetto della trama di doveri che da essa derivano).236 Si leggano, infatti, le seguenti attestazioni ciceroniane: fam. 13.29.8 ‘Hanc rem, mi Plance, si effeceris

sinonimo di beneficium); Plin., epist. 1.19.4 (riportato supra, nt. 215). Altre fonti in J.HELLEGOUARC’H, Le vocabulaire cit., 164s.

234 Cfr. supra, n. 10.235 ‘...Amicorum studia beneficiis et officiis et vetustate et facilitate ac

iucunditate naturae parta esse oportet...’. Cfr., altresì, il § 26.

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[...] ipsum Capitonem, gratissimum, officiosissimum, optimum virum, ad tuam necessitudinem tuo summo beneficio adiunxeris’; Att. 13.2a ‘...mihi summo beneficio meo magna cum fratribus illius necessitudo est...’; fam. 13.4.1 ‘Cum municipibus Volaterranis mihi summa necessitudo est. Magno enim meo beneficio affecti, cumulatissime mihi gratiam rettulerunt’; fam. 13.11.3 ‘Bonos vires ad tuam necessitudinem adiunxeris municipiumqe gratissimum beneficio tuo devinxeris’.237

II. Parimenti rileva ai nostri fini il nesso che lega le predette relazioni del beneficium, dell’amicitia e della necessitudo con l’officium.238

Consideriamo, anzitutto, l’intreccio tra il beneficium e l’officium.239

Esso si configura, da un lato, come sovrapposizione concettuale tra le due figure complessivamente considerate, nel senso che la pratica del beneficium è essa stessa un officium. 240 Lo attestano, per tutte, la

236 Per tutti, J.HELLEGOUARC’H, Le vocabulaire cit., spec. 72s., seguito da G.NEGRI, La clausola codicillare cit., 202s.

237 Cfr. anche Cic., fam. 13.7.5 (riportato infra, nel testo) e 13.27.2.238 Sull’officium in sé considerato cfr., per tutti, E.BERNET, De vi atque usu

vocabuli officii, diss. Vratislaviae, 1930; F.CANCELLI, Saggio sul concetto di officium in diritto romano, in RISG 92, 1957-58, 351ss.; ID., Nota preliminare sull’«officium civile», in St. F.Vassalli, I, 1960, 21ss.; ID., v. ‘Ufficio (dir. rom.)’, in ED 45, 1992, spec. 607ss.; J.HELLEGOUARC’H, Le vocabulaire cit.,152ss.; G.NEGRI, La clausola codicillare cit., 199ss.; 239ss.; I.CREMADES UGARTE, El officium en el derecho privado romano. Notas para su estudio, 1988; ultimamente, J.LMURGA, El ‘officium’, in Iuris vincula. Scritti in onore di M.Talamanca, VI, 2001, 1ss. (dello stesso A. cfr., con specifico riferimento all’officium nella riflessione senechiana, La original influencia de Séneca en la jurisprudencia romana, in Séneca dos mil años después [Atti Congresso Internazionale, Cordoba 1996], 1997, 143ss.).

239 Sui rapporti con il beneficium cfr., in particolare, E.BERNET, De vi atque usu vocabuli officii cit., spec. 32s. e 52s.; J.HELLEGOUARC’H, Le vocabulaire cit., 165; da ultima, R.RACCANELLI, L’amicitia cit., 40 nt. 66.

240 Cfr., per tutti, J.HELLEGOUARC’H, loc. ult. cit. E’ noto, peraltro, che, in particolari contesti le due nozioni vengono, più rigorosamente, distinte in base ad una più forte presenza del profilo della doverosità nell’officium: cfr., ad es., la precisazione compiuta da Seneca padre (controv. 2.5.13) ‘non est beneficium sed officium facere quod debeas’, e, soprattutto, la distinzione riportata in Sen., ben. 3.18.1 ‘...Sunt enim, qui ita distinguant, quaedam beneficia esse, quaedam officia, quaedam ministeria; beneficium esse, quod alienus est (alienus est, qui potuit sine reprehensione cessare); officium esse filii, uxoris, earum personarum, quas necessitudo suscitat et ferre opem iubet; rell.’ (su questi due testi v. l’analisi di A.MANTELLO, ‘Beneficium’ servile – ‘debitum’ naturale cit., 108ss.); aggiungasi Cic., fam. 1.7.2 (trascritto infra, in nt. 243). Sul punto cfr., più in generale, le pagine di E.Bernet, J.Hellegouarc’h e R.Raccanelli, citate in nt 238.

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circostanza che Cicerone inserisce nel trattato De officiis una sezione dedicata ai beneficia (1.42-60)241 o, in modo più puntuale, la seguente notazione di Sen., ben. 4.18.1 ‘...quo alio tuti sumus, quam quod m u t u i s i u v a m u r o ff i c i i s ? Hoc uno instructior vita contraque incursiones subitas munitior est, b e n e fi c i o r u m c o m m e r c i o ’.242

Più particolarmente, poi, la proiezione sul piano dell’officium è attestata con riferimento ai diversi momenti del ‘dare’, ‘accipere’ e ‘reddere beneficium’: così, ad esesmpio, Seneca, nella parte introduttiva del De beneficiis (1.3.8), considera oggetto del trattato l’‘officium dandi, accipiendi, reddendi beneficii’ e nel § 2.32.1 indica l’accipere e il reddere beneficium come partes di un officium: ‘Qui accepit [...] beneficium, licet animo benignissimo acceperit, nondum consummavit officium suum; restat enim pars reddendi’. 243 Con specifico riguardo, poi, al reddere beneficium (= referre gratiam), si considerino le seguenti attestazioni: Cicerone osserva che ‘nullum officium referenda gratia magis necessarium est’ (off. 1.47);244 Seneca, nelle battute preliminari della trattazione, pone come obiettivo dello scritto quello di ‘memoriam officiorum ingerere’ al fine di evitare il fenomeno delle ‘beneficiorum novae tabulae’ (ben. 1.4.6), parole, queste ultime, che alludono alla cancellazione dei debiti contratti a seguito dei beneficia ricevuti;245

afferma che l’admonitio mira a ‘reducere ad officium’ (ben. 5.22.1); parla di ‘officii inscitia’ (ben. 5.25.6) e di ‘ignorantia officii’ (ben. 7.26.3) per indicare l’ignoranza dell’impegno come una delle possibili cause che determinano la mancata restituzione del beneficium; infine, tra le raccomandazioni conclusive del trattato leggiamo la seguente: ‘cogita tecum, an, quibuscumque debuisti, gratiam rettuleris, an nullum

241 Cfr. F.CANCELLI, Saggio sul concetto di officium cit., 357.242 Ma cfr., almeno, ben. 2.18.1, in cui, subito dopo la posizione della

questione ‘quomodo se gerere homines in accipiendi beneficiis debeant’, la relativa trattazione è avviata con le seguenti parole: ‘Quodcumque ex duobus constat officium, tantundem ab utroque exigit...’.

243 Fra gli altri riscontri sparsi nel trattato, cfr., almeno ben. 1.1.8 e 4.12.5, con riguardo al dare beneficium; 2.18.1 e 2.33.1, in relazione all’accipere; 7.22.1 - trascritto supra, in nt.... - , con riguardo al rapporto ‘dare-reddere’. Cfr., inoltre, epist. 81.6 e 25.

244 Per altri riscontri ciceroniani cfr. inv. 2.66 e 161 (riportati tra breve, nel testo); Planc. 80-81 (supra, nel testo, sub II); fam.1.7.2 (‘...nostra propugnatio ac defensio dignitatis tuae, propter magnitudinem beneficii tui, fortasse plerisque officii maiorem auctoritatem habere videatur, quam sententiae’) .

245 Cfr. infra, n. 13 nt. 294.

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umquam apud te perierit officium, an omnium te beneficiorum memoria comitetur’ (7.28.1).

Quanto alla relazione tra amicitia ed officium, al di là dei numerosi riscontri dell’accostamento tra le due figure in sé considerate, 246

interessa qui soprattutto richiamare alcuni luoghi in cui i due concetti si trovano collegati tra loro a proposito della restituzione del beneficium: si tratta del già trascritto Cic., Planc. 81, ove si parla, nella predetta prospettiva, di ‘officia amicorum’, e di Cic., inv. 2.66 ‘gratiam, quae in memoria et remuneratione officiorum et honoris et amicitiarum observantiam teneat’ e 161 ‘gratia, in qua amicitiarum et officiorum alterius memoria et remunerandi voluntas continetur’.

Infine, con riguardo al collegamento tra la necessitudo e l’officium, 247

basti pensare all’uso dell’espressione ‘officium necessitudinis’248 o della coppia ‘officium ac necessitudo’,249 come pure alle affermazioni che gli officia possono determinare l’instaurarsi di una necessitudo tra due

246 Cfr., ad es., Cic., Cluent. 117 (‘officiorum et amicitiarum ratio’); Lael. 49 (nell’amicitia ‘nihil est [...] vicissitudine studiorum officiorumque iucundius’); 58 (‘altera sententia est, quae definit amicitiam paribus officiis ac voluntatibus’); 71 (‘officiose et amice’); fam. 14.4.2 (‘hospitii et amicitiae ius officiumque’); Q.T.Cic., Comm. pet. 16 (riportato supra, nt.....); Rhet. Her., 3.14 (‘considerabimus...qua fide, benivolentia, officio gesserit amicitias’). Cic., fam. 3.5.1 e Sext. Rosc. 111, fondamentali per il rapporto ‘officium-amicitia-fides’ sono trascritti infra, nel testo, sub 3. In generale, sul fenomeno della connessione tra officium e amicitia v. J.HELLEGOUARC’H, Le vocabulaire cit., 152ss., con ulteriori fonti. Non diremmo, con P.CERAMI, Potere e ordinamento nell’esperienza costituzionale romana,3 1996, 163 nt. 127, che l’assenza dell’amicitia dall’elenco riferito da Sabino nel terzo libro iuris civilis (Gell., N.A. 5.13.5 ‘Verba ex eo libro haec sunt: «In officiis apud maiores ita observatum est: primum tutelae, deinde hospiti, deinde clienti, tum cognato, postea adfini...»’) dimostra che il nesso ‘officium-amicitia’ è frutto di una razionalizzazione dell’amicitia compiuta da Cicerone e, per contro, era estraneo alla precedente cultura romana: per poter trarre siffatta conclusione, infatti, dovremmo avere a disposizione l’originale contesto nel quale il discorso di Sabino era inserito, giacché sappiamo che sia i gradi degli officia sia l’elencazione degli stessi variava a seconda delle questioni e delle esigenze (cfr. Cic., off. 1.59; part. or. 66; Gell., N.A. 20.1.40; Val. Max. 4.7.3).

247 Per il rapporto officium-necessitudo cfr., per tutti, J.HELLEGOUARC’H, Le vocabulaire cit., 154; G.NEGRI, La clausola codicillare cit., 201ss.

248 Cic., Mur. 73; Planc. 25; div. 14.249 Cic., Verr. 2.5.139.

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persone250 e che, a sua volta, dalla necessitudo scaturiscono officia.251 E un complessivo coordinamento ‘necessitudo-officium-beneficium’ emerge in Cic., fam. 13.7.5 ‘... a te peto atque contendo ut, [...] quod sit mihi necessitudine, officiis, benevolentia coiniunctissimum, id mihi des...’.

III. Un ulteriore dato che dobbiamo tener presente è il coinvolgimento

della fides nei predetti istituti e rapporti interpersonali fin qui considerati.

Del coordinamento tra lo scambio ‘dare - reddere beneficium’ e la fides abbiamo già detto (supra, n. 10). E troppo nota è la congiunzione tra fides e amicitia per insistervi qui specificamente.252 Per la necessitudo, valgano il seguente passaggio di una lettera ciceroniana di commendatio (fam. 13.19.2) ‘...contendimus, ut Lysonem in fidem necessitudinemque tuam recipias’ e l’attestazione di Gell.13.3.1, là dove la ‘religiosa coniunctio’ della definizione di necessitudo (‘ius quoddam et vinculum religiosae coniunctionis’)253 allude, appunto, alla fides.254

Per quel che concerne il nesso ‘fides-officium’, tra i numerosi riscontri ci limitiamo qui a segnalare: Cic., fam. 1.9.10 ‘mihi concederet, ut officium meum memoremque in bene meritos animum fidemque fratris mei praestarem’; fam. 3.9.1 ‘...cognosse te ex iis, qua in te absentem fide, qua in omnibus officiis tuendis erga te observantia et constantia fuissem’; 13.21.2 ‘est in patronum suum officio et fide singulari’; Cluent. 10 ‘fide ac officio (defensionis)’; divin., 1.27 ‘officium et fidem secutus esset’; Sext. Rosc. 116: ‘fidem laedere’=‘ius offici laedere’; part. orat. 8.28 ‘...aliquo genere virtutis, et maxime liberalitatis, officii, iustitiae, fidei...’; off. 3.105, ove è qualificata ‘officium retinere’ l’osservanza del iusiurandum, in un contesto in cui lo stesso Cicerone strettissimamente collega alla fides (cfr. § 104: il mantenimento di quanto promesso con giuramento ‘ad iustitiam et fidem pertinet’; ‘qui ius igitur iurandum violat, is fidem violat’; § 111 ‘nullum ... vinculum ad adstringendam fidem iure iurando maiores artius esse voluerunt’); Rhet. Her., 3.14

250 Cic., Cluent. 117 (‘...cum altero [...] summa utriusque officiis constituta necessitudo est’); reg. Deiot. 39 (‘...summam necessitudinem magna eius officia in me ... effecerunt’).

251 Cfr. Cic., Mur. 7; Sen., ben. 3.18.1 (riportato supra, nt. 239)252 Cfr., per tutti, J.HELLEGOUARC’H, Le vocabulaire cit., 24; G.FREYBURGER,

Fides cit., 177ss., entrambi con citazione di fonti.253 Il più ampio squarcio in cui è inserita questa definizione è riportato infra,

nel testo sub 5.254 Cfr. J.HELLEGOUARC’H, Le vocabulaire cit., 73 e nt. 2.

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‘considerabimus...qua fide, benivolentia, officio gesserit amicitias’; né può tacersi la celebre affermazione di rep. 3.33, che avremo modo di considerare anche più avanti,255 ‘Est quidem vera lex recta ratio naturae congruens ...., quae vocet ad officium iubendo, vetando a fraude deterreat’ (da leggere, ovviamente, alla luce della risaputa accezione di ‘fraus’ come violazione della fides. 256

D’altra parte, se è già implicita la circostanza che il collegamento tra la fides e l’officium si estende, per una legge di transività, alle coniunctiones che abbiamo poc’anzi visto essere correlate all’officium, meritano una segnalazione apposita almeno due attestazioni, che mettono insieme l’officium, la fides e l’amicitia, e che sono di particolare significato ai notri fini. Una consiste nella nota riflessione che Cicerone compie in Sext. Rosc. 111 sull’origine del mandatum, ove si afferma che negli affari di cui non ci possiamo occupare direttamente ‘operae nostrae vicaria fides amicorum supponitur’ e che ‘non possumus omnia per nos agere [...]; idcirco amicitiae comparantur, ut commune commodum mutuis officiis gubernetur’.257 L’altra consiste nell’osservazione di Cic., fam. 3.5.1, secondo cui un’amicitia autentica e l’osservanza della fides rendono superfluo il richiamo agli officia da compiere: ‘Re vera confirmata amicitia et perspecta fide commemoratio officiorum supervacanea est’.

255 Infra, n. 16 sub 1.256 Cfr., per tutti, G.FREYBURGER, Fides cit., 84ss.257 Vale la pena di trascrivere l’intero discorso ciceroniano: 111. In privatis

rebus, si qui rem mandatam non modo malitiosius gessisset, sui quaestus aut commodi causa, verum etiam neglegentius, eum maiores summum admisisse dedecus existimabant. Itaque mandati constitutum est iudicium non minus turpe quam furti, credo, propterea quod quibus in rebus ipsi interesse non possumus, in iis operae nostrae vicaria fides amicorum supponitur; quam qui laedit, oppugnat omnium commune praesidium et, quantum in ipso est, disturbat vitae societatem. Non enim possumus omnia per nos agere; alius in alia est re magis utilis. Idcirco amicitiae comparantur, ut commune commodum mutuis officiis gubernetur. 112. Quid recipis mandatum, si aut neglecturus aut ad tuum commodum conversurus es? Cur mihi te offers ac meis commodis officio simulato officis et obstas? Recede de medio; per alium transigam. Suscipis onus offici quod te putas sustinere posse; quod maxime videtur grave iis qui minime ipis leves sunt. Ergo idcirco turpis haec culpa est, quod duas res sanctissimas violat, amicitiam et fidem. Nam neque mandat quisquam fere, nisi amico; neque credit, nisi ei quem fidelem putat. Perditissimi est igitur hominis simul et amicitiam dissolvere et fallere eum qui laesus non esset, nisi credidisset.

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E’ appena il caso, poi, di precisare che, naturalmente, la suddetta inerenza della fides alla dinamica di questi rapporti reca con sé, per quel che abbiamo già osservato (supra, n. 10), la presenza del pudor quale sentimento che induce all’osservanza dei doveri che da quei rapporti derivano. Non è inutile, in proposito, ricordare esplicitamente – oltre ai testi che riguardano l’ambito del beneficium (Sen., ben. 1.2.4; 3.1.4; 7.27.1; 7.28.3) – le due attestazioni che abbiamo riportato in relazione alla sfera dell’officium: Cic., fam. 13.21.2, in cui il riferimento alla fides e all’officium (‘est ... officio et fide singulari’) si traduce nella coppia ‘pudentem et officiosum’, e Plin., epist. 8.18.7, che elogia un testamento ‘quod pietas fides pudor scripsit, in quo denique omnibus adfinitatibus pro cuiusque officio gratia relata est....’; e si aggiunga, tenendo presente il nesso poc’anzi rilevato tra l’amicitia e la fides, la testimonianza di Lucrezio (3.83), il quale afferma che la paura della morte determina le seguenti conseguenze: ‘vexare pudorem, vincula amicitiae rumpere et in summa pietatem evertere’.

IV. Ancora, merita di essere appositamente sottolineata una circostanza che scaturisce come naturale conseguenza del fatto che, come abbiamo visto poc’anzi (sub II), il ‘beneficium (o gratiam) reddere’ costituisce un officium.

Invero, risulta a questo punto evidente che quella incompatibilità con l’intervento giudiziale che avevamo in precedenza constatato nella riflessione senechiana quale elemento essenziale e connaturato al beneficium (supra, n. 10), va, per l’appunto, riferita in definitiva all’officium: è, cioè, più in generale, il compimento dell’officium (consistente, nel caso in ispecie, nel reddere beneficium) a contraddistinguersi per la mancata coercibilità tramite actio.

Sullo stesso piano, del resto, si colloca il seguente squarcio del De finibus ciceroniano, ove è presa in esame una questione riguardante un lascito fedecommissario:

Cic., fin. 2.58 ‘Si te a m i c u s t u u s m o r i e n s r o g a v e r i t , u t h e r e d i t a t e m r e d d a s suae filiae, nec usquam id scripserit [...] nec cuiquam dixerit, quid facies? Tu quidem reddes; ipse Epicurus fortasse redderet, ut Sex. Peducaeus, Sex. F., is qui hunc nostrum reliquit efficiem et h u m a n i t a t i s e t p r o b i t a t i s suae filium, cum doctus, tum omnium vir optimus et iustissimus, cum sciret nemo eum rogatum a

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C.Plotio, equite Romano splendido, Nursino, ultro ad mulierem venit eique nihil opinanti viri mandatum exposuit hereditatemque reddidit. Sed ego ex te quaero, quoniam idem tu certe fecisses, nonne intellegas eo m a i o r e m v i m e s s e n a t u r a e , quod ipsi vos, qui omnia ad vestrum commodum et, ut ipsi dicitis, ad voluptatem referatis, tamen ea faciatis e quibus appareat non voluptatem vos, sed o ff i c i u m s e q u i , p l u s q u e r e c t a m n a t u r a m quam rationem pravam v a l e r e . 59 [...] Perspicuum est [...], nisi a e q u i t a s , fi d e s , i u s t i t i a proficiscantur a natura, et si omnia haec ad utilitatem referantur, v i r b o n u m non posse reperiri; deque his rebus satis multa in nostris de re publica libris sunt dicta a Laelio’.258

L’argomentare ciceroniano fornisce più d’una indicazione interessante. Anzitutto, esso mostra che l’adempimento del fedecommesso è considerato come un officium (nei confronti dell’amicus, autore della rogatio). In secondo luogo, attesta che l’ ‘officium sequi’ è un’attività propria del bonus vir, e cioè di quello stesso soggetto che l’Arpinate, in altra occasione, considera portatore del dovere di restituzione del beneficium: ‘nullum [...] officium referenda gratia magis necessarium est. [...] Nam, cum duo genera liberalitatis sint, unum dandi beneficii, alterum reddendi, demus necne in nostra potestate est, n o n r e d d e r e v i r o b o n o n o n l i c e t ’ (off. 47-48).259 Ancora, l’ ‘officium sequi’ da parte del vir bonus viene esplicitamente presentato come un comportamento indotto da valori quali, oltre alla fides, l’aequitas,260

258 Questo brano – insieme con Cic., Verr. II.1.123-124; Cic., off. 2.55; Val.Max. 4.7 – è stato recentemente preso in considerazione da V.GIODICE-SABBATELLI, La tutela giuridica dei fedecommessi cit., 57ss. e da F.LONGCHAMPS DE BÉRIER, Il fedecommesso universale cit., 23ss., per verificare l’eventuale risalenza già all’ultimo secolo della Repubblica di strumenti giuridici a tutela del lascito fedecommissario. I due studiosi, opportunamente, hanno concluso che nulla in questi brani attesta l’esistenza di qualsivoglia strumento. Ebbene, come diremo tra breve nel testo, il tratto che immediatamente precede i §§ 2.58-59 del De finibus, e cioè la chiusura del § 57, conserva, addirittura, una traccia esplicita della inesistenza di sanzioni giuriche.

259 Cfr., del resto, con più ampio riferimento al nesso ‘honestum-iustitia-officium-fides’, la menzione del vir bonus in Cic., off. 1.20 ‘iustitia, in qua virtutis splendor est maximus, ex qua viri boni nominantur’, nonché nell’ambito del complessivo ragionamento di off. 1.31 (riportato infra, n.16 sub 3). Cfr. anche infra, nt. 402.

260 Per la connessione tra officium e aequitas basti considerare Cic., fin. 2.76, trascritto infra, nt. 262.

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l’humanitas,261 la probitas,262 la iustitia (tutti valori che anche altri luoghi indicano come strettamente collegati alla fides).263 Ma soprattutto, come si diceva all’inizio, questa testimonianza conferma che, in quanto tale, il dovere scaturente dall’officium non è coercibile. Infatti, il discorso svolto in fin. 2.58-59 costituisce l’esplicazione a titolo paradigmatico delle affermazioni che l’Arpinate compie subito prima, in chiusura del § 57, e che vertono sull’impossibilità di sanzionare determinati comportamenti. In particolare, nelle battute conclusive del § 57 Cicerone elogia la retta condotta del potente Pompeo, il quale, se avesse voluto, ‘esse ... iniquus poterat i n p u n e ’, ed esclama ‘Quam multa vero iniuste fieri possunt, q u a e n e m o p o s s i t r e p r e n d e r e ! ’; immediatamente di seguito svolgerà le considerazioni che abbiamo trascritto sull’officium consistente nell’adempimento del fedecommesso.

In sostanza, che sia inerente alla pratica dei beneficia, o all’amicitia, o alla necessitudo, è l’officium ad essere avvertito come non esigibile attraverso strumenti processuali.

261 Per il collegamento tra officium e humanitas sono significativi, ad es., Cic., Flacc. 57 ‘iura omnia officii humanitatisque violarent’; Cic., Verr. II.2.97 ‘iste, qui ...neque officii sui ...neque pietatis neque humanitatis rationem habuisset’.

262 Cfr., ad es., l’accostamento ‘multa improbe, multa perfidiose facta’ in Cic., Sext. Rosc. 118, nell’ambito di un più ampio discorso riguardante la violazione dell’officium e della fides.

263 Per l’accostamento tra fides e probitas, cfr., ad es., Cic., Tusc. 1.22; rep. 3.8; 27 e 28 (altre fonti in HELLEGOUARC’H, Le vocabulaire cit., 286 nt. 6 e in G.FREYBURGER, Fides cit., 51 nt. 127); per fides ed aequitas, v. Cic., rep. 1.2 e 1.55; off. 11.27(26); Lael. 19; fin., 1.52; e, particolarmente interessante per il riferimento all’officium, fin. 2.76 ‘officium, aequitatem, dignitatem, fidem ...haec cum loqueris...’; per l’accostamento tra fides e iustitia basta la nota affermazione di off. 1.23 ‘fundamentum iustitiae est fides’; infine, per ‘fides’ e ‘humanitas’ cfr. le numerose attestazioni segnalate, recentemente, da G.ROMANO, Ulpiano, Antistia e la fides humana, in AUPA 46, 2000, 269 nt. 28. E’ d’obbligo concludere questa breve rassegna esemplificativa richiamando la celebre osservazione di Seneca (de ira 2.28.2) ‘Quanto latius officiorum patet quam iuris regula! Quam multa pietas, humanitas, liberalitas, iustitia, fides exigunt quae omnia extra publicas tabulas sunt’.

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V. Si aggiunga che, con riguardo almeno alla fenomenologia del beneficium e dell’officium, è attestata ab antiquo l’utilizzazione dello strumentario terminologico proprio dei rapporti obbligatori. 264-265

In particolare, in relazione al beneficium già Plauto scriveva ‘...nobis sint obnoxii, /nostro devincti beneficio’ (Asin. 284s.). Di ‘beneficio/iis obligare/i’ parlano, ad es., Cic., off. 1.58; 2.69; Cat. 4.22; Phil. 2.116; 13.8; Planc. 73; fam. 6.11.1; 11.16.2; 13.4.2; 13.64.2; Q. fr. 3.1.16; Q.Cic., Comm. pet. 37; Liv. 26.49.8; 32.19.7; 32.22.12; 37.53.4; 42.5.3; 42.63.1; Quint., decl. 259; 342; Plin., epist. 4.15.4; e, soprattutto, Seneca nel De beneficiis: ad es., ben. 1.1.8; 1.4.3; 1.4.5; 1.7.1; 1.14.4; 2.7.2; 2.18.7 e 8; 2.24.4; 3.12.3; 4.13.3; 5.1.4; 5.8.1 e 3; 5.11.5; 5.19.1; 5.18.1; 6.7.2; 6.10.2; 6.11.4; 6.16.1 e 5; 6.23.4; 6.25.1; 6.40.2; 7.18.2 (v., altresì, epist. 81.17). Molto ricorrente è anche ‘beneficio debere’: Cic., de or. 1.121; fam. 6.2.2; 8.12.1; 13.27.2; Q.Cic., Comm. pet. 26; Sen., ben. 1.1.3; 1.15.6; 2.18.3, 6 e 7; 2.35.4; 4.21.1; 4.40.4; 5.8.1 e 3; 5.19.2; 6.4.2 e 6; 6.7.1; 6.8.2; 6.9.3; 7.22.1; epist. 81.8 e 26. ‘Beneficio obstringere/obstringi’ compare in Cic., Planc. 2; 72-73; off. 2.65; dom. 118; Caes., Gall. 1.9.3. D’altra parte, è opportuno sottolineare, da un lato, la circostanza che, nella riflessione senechiana, il beneficium è talvolta direttamente indicato come ‘debitum’, in connessione con verbi anch’essi tratti dal lessico dei rapporti obbligatori, quali ‘solvere’ (ben. 4.32.3: ‘debitum solvere’; ben. 6.4.1 e epist. 81.3: ‘debito solvere’) e ‘obstringere’ (6.11.3: ‘debito obstringat’); dall’altro lato, il coordinamento tra le due seguenti notazioni: ben. 1.4.2 ‘De beneficiis dicendum et ordinanda r e s q u a e m a x i m e h u m a n a m s o c i e t a t e m a d l i g a t ’266 (significativa anche per la posizione strategica, che funge da presentazione dell’intera materia) e ben. 5.11.5 ‘B e n e fi c i u m d a r e r e s s o c i a l i s e s t , aliquem conciliat, a l i q u e m o b l i g a t ...’.

Con riguardo all’officium, si considerino, ad es., Cic., fam. 13.18.2 ‘quibuscumque officiis ... Atticum o b s t r i n x e r i s , iisdem me tibi o b l i g a t u m fore’; Verr., II.5.35 ‘ut me omnium officiorum

264 Su questo fenomeno cfr., ad es., C.MOUSSY, ‘Gratia’ et sa famille, 1966, 359s. (per il beneficium); J.HELLEGOUARC’H, Le vocabulaire cit., 155 (per l’officium) e 164 (per il beneficium).

265 Naturalmente, anche se questo fenomeno non risulta attestato a livello terminologico per l’amicitia e la necessitudo, la presenza dell’elemento-officium fa sì che, almeno sul piano della rappresentazione concettuale, anche tali rapporti dovevano, certo, essere avvertiti come fonte di obblighi.

266 Di ‘beneficio adligari’ parla anche Cic., Planc. 81.

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o b s t r i n g i religione arbitrarer’; Mur. 7 ‘...ego [...] tibi omnia studia atque officia pro nostra necessitudine et d e b u i s s e confiteor et praestitisse arbitror’;267 mentre è implicita, ma non per questo meno incisiva, la rappresentazione di un ‘officio debere’ in Sen., ben. 6.18.1-2.

VI. Un ultimo tassello, di assoluto rilievo, consiste nel fatto che con riguardo a t u t t i i rapporti e gli istituti qui considerati è radicata una rappresentazione concettuale in termini di ‘vinculum’.268

Così, in relazione al beneficium è netta la testimonianza di Sen., ben. 6.41.2 ‘...beneficium commune vinculum est et inter se duos alligat’. 269

Per l’amicitia si considerino: Cic., Planc. 5 ‘... neque ullum amicitiae certius vinculum quam consensus et societas consiliorum et voluntatum .....’; Planc. 27 ‘...Torquatus...qui est quidem cum illo maximis vinclis et propinquitatis et adfinitatis coniunctus, sed ita magnis a m o r i s ut illae necessitudinis causae leves esse videantur’ (da leggere tenendo presente l’intima connessione amor-amicitia);270

Val.Max. 4.7, ove la trattazione ‘de amicitia’ è aperta con le parole ‘Contemplemur nunc amicitiae vinculum potens et praevalidum’ (che l’autore ritiene di particolare forza ‘quod...solido iudicio inchoata voluntas contraxit’); Lucr. 3.82-84 ‘obliti (scil. gli uomini) fontem

267 Per ‘officium debere’ cfr. anche Cic., off. 1.59; 1.160; Deiot. 13; Phil. 1.11; ‘officium debitum’ è in fin. 1.33; ‘officium iustum atque debitum’ in Tusc. 3.76. In Cic., Academ. 1.11 si legge: ‘dum me ... rei publicae ... cura ... multis officiis implicatum et constrictum tenebat’.

268 Indicativo è anche l’uso del verbo ‘devincire’. Con riguardo al beneficium: Plaut., Asin. 285 (trascritto poc’anzi, nel testo); Ter., Heaut. 394; Caes., civ. 1.29.3; Cic., Att. 1.13.2; fam. 6.11.1 (‘Dolabella antea tantummodo diligebam, obligatus ei nihil eram [...]; nunc tanto sum devinctus eius beneficio ... ut nemini plus debeam’); 13.11.3; 13.7.5; 13.27.2; Verr. II.5.82; Liv. 22.22.11 (cfr. anche Cic., fam. 1.7.3 e Nep., Alc. 3.4: ‘liberalitate d.’; Cic., Planc. 37 e 45; Tac., ann. 12.64: ‘largitionibus d.’). Con riguardo all’officium: Cic., fam. 13.3 (‘...summo officio et summa observantia ... devinxeris’); Plin., epist. 1.9.18; 6.10.2; 1.7.2; Tac., ann. 2.58. In relazione alla necessitudo: Cic., Flacc. 5.

269 A prescindere dall’esplicito ricorso al termine ‘vinculum’, il corrispondente ordine di idee si riconosce in Cic., off. 1.56 ‘...Magna etiam illa communitas est, quae conficitur ex beneficiis ultro citroque datis acceptis, quae et mutua et grata dum sunt, inter quos ea sunt, firma devinciuntur societate’, e nell’affermazione senechiana, assai vicina, secondo cui il sistema dei beneficia è una ‘res quae maxime humanam societatem adligat’ (ben. 1.4.2). In Cic., Planc. 72 ‘viderer maximis beneficii vinclis obstrictus, cum liber essem et solutus’ il termine è, forse, da intendere più nel senso materiale di catene.

270 Cfr. J.HELLEGOUARC’H, Le vocabulaire cit., 146s.

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curarum hunc esse timorem (scil. mortis), hunc vexare pudorem, hunc vincula amicitiae rumpere et in summa pietatem evertere suadet’.

Con riferimento alla necessitudo, vengono in questione, oltre al brano di Cic., Planc. 57 poc’anzi trascritto (i vincula propinquitatis et adfinitatis, infatti, sono ‘causae necessitudinis’), il discorso di Cic., Lig. 21, in cui le varie necessitudines intercorrenti tra l’oratore e Tuberone sono unitariamente considerate come un ‘vinculum’: ‘... Haec ego vi propter omnis necessitudines, quae mihi sunt cum L.Tuberone; domi una eruditi, militiae contubernales, post adfines, in omni vita familiares; magnum etiam vinculum quod isdem studiis semper usi sumus...’;271

nonché la testimonianza di Gell. 13.3.1, il quale riferisce che plerique grammaticorum distinguono la necessitas dalla necessitudo, intendendo la prima come ‘vis quaepiam premens et cogens’, la seconda come ‘ius quoddam et vinculum religiosae coniunctionis’.272

Quanto all’officium, in mancanza di attestazioni dirette 273 è indicativo il fatto che Gellio, nel seguito del discorso or ora citato, critica la posizione dei grammatici difendendo un uso scambievole dei termini necessitas e necessitudo (§§ 2-3), ma ammette che ‘necessitas sane pro iure o ff i c i o q u e observantiae adfinitatisve infrequens est’ (§ 4): dal che si desume una presupposta raffigurazione anche dell’officium come ‘vinculum’.

Non si trascuri, infine, che siffatta rappresentazione riguarda anche la fides, valore sotteso ai predetti rapporti. Lo attesta esplicitamente Quint., Decl. min. 343.12 ‘fides supremum rerum humanarum vinculum est’; mentre non sapremmo pronunziarci con decisione rispetto al senso

271 Struttura in qualche modo analoga ha il discorso di Cic., fam. 13.29.1, in cui l’Arpinate, dopo aver richiamato i rapporti e in sentimenti che lo legano a Plancio, afferma che ad essi si aggiunge il vinculum studiorum: ‘Non dubito quin scias in iis necessariis, qui tibi a patre relicti sunt, me tibi esse vel coniunctissimum non iis modo causis quae speciem habeant magnae coniunctionis, sed iis etiam quae familiaritate et consuetudine tenentur: quam scis mihi iucundissimam cum patre tuo et summam fuisse. Ab his initiis noster in te amor profectus auxit paternam necessitudinem [...] Accedebat non mediocre vinculum ... studiorum’. Dall’andamento del testo sembra potersi dedurre che la rappresentazione in termini di vinculum riguarda anche la necessitudo, la familiaritas, l’amor.

272 Di ‘vinculum necessitudinis’ parlerà esplicitamente Modestino in D.26.10.9.

273 Grave ci appare, anche da questo punto di vista, la perdita dell’apposito scritto ‘De officiis’ di Seneca (cfr. M.LAUSBERG, Senecae operum fragmenta. Überblick und Forschungsbericht, in ANRW II.36.3, 1989, 1925).

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da attribuire alla nota indicazione del nexum quale ‘ingens vinculum fidei’ in Liv. 8.28.8.274

12. Enunciazione della nostra ipotesi: le parole ‘iuris vinculum’ caratterizzano l’obligatio rispetto a situazioni vincolanti riconducibili all’ambito dell’officium.

Alla luce delle indicazioni che abbiamo acquisite ai nn. 10 e 11 possiamo, adesso, scoprire le carte ed enunciare la nostra ipotesi sul significato delle parole iniziali della definizione, ‘obligatio est iuris vinculum’, nel modo seguente.

Esiste una serie di relazioni e dinamiche interpersonali – l’officium e alcune coniunctiones con questo collegate, quali lo scambio di beneficia, l’amicitia, la necessitudo – che presentano le seguenti caratteristiche: sono imperniate sulla fides; sono produttive di obblighi e doveri; sono rappresentate in termini di ‘vinculum’; sono avvertite come particolarmente pressanti,275 ma difettano di strumenti tecnico-processuali che costringano all’osservanza dei doveri; almeno il beneficium e lo stesso officium sono predicati attraverso la terminologia dell’ ‘obligare’. E’ proprio per distinguere da questi rapporti e da questi legàmi l’obligatio in senso tecnico che, nelle battute iniziali della relativa trattazione nel II libro delle Res cott., Gaio scolpisce l’istituto quale ‘iuris vinculum’. L’accento e la forza di queste parole iniziali della definizione risiedono nel genitivo ‘iuris’, che per ciò si trova al primo posto all’interno del sintagma. In tal modo, Gaio intende evidenziare, non un carattere ‘ideale’, ‘potenziale’ etc. dell’assoggettamento rispetto ad un pù antico assoggettamento ‘materiale’, ‘immediato’ etc., come si ritiene sovente (n. 9 sub a), bensì quel che di specifico ha il vinculum-obligatio rispetto ai predetti, differenti vincula imperniati sull’officium: la ‘giuridicità’, intesa come esistenza di uno strumento processuale che rende cogenti le prestazioni che gravano sul debitore.

274 Sul punto rinviamo all’approfondita ed equilibrata analisi di L.PEPPE, Studi sull’esecuzione personale, I, 1981, 208ss.

275 Assai incisive, in proposito, le notazioni di Publ. Syr. 48 ‘beneficium accipere libertatem est vendere’ e del giurista Marciano, il quale parla di una ‘necessitas iuris officii’ (D.1.1.12); ma cfr. anche Sen., ben 2.18.5 ‘beneficiorum sacratissimum ius’ e Val. Max. 4.7 ‘amicitia ... vinculum potens et praevalidum’.

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13. ‘Iuris vinculum’ e ‘necessitas solvendi’.

Si tratta, adesso, di provare a giustificare e precisare meglio l’interpretazione appena proposta, avvertendo sin d’ora che, com’è del resto intuitivo, la lettura che suggeriamo delle parole inziali della definizione si ripercuote, naturalmente, sul senso e sulla portata dell’intera operazione definitoria.

I. Intanto, sappiamo che nelle stesse Res cott., a proposito della storia dei fedecommessi (J.2.23.1),276 il medesimo sintagma ‘vinculum iuris’ è utilizzato con specifico riferimento alla presenza di meccanismi processuali che rendono coercibile l’adempimento di un dovere.

E’ opportuno riportare nuovamente i passaggi salienti di questa testimonianza:

J.2.23.1 Sciendum itaque est omnia fideicommissa primis temporibus infirma esse, quia n e m o i n v i t u s c o g e b a t u r p r a e s t a r e id de quo rogatus erat: quibus enim non poterant hereditates vel legata relinquere, si relinquebant, fi d e i committebant eorum, qui capere ex testamento poterant: et ideo fideicommissa appellata sunt, quia n u l l o v i n c u l o i u r i s , sed tantum p u d o r e eorum qui rogabantur continebantur. Postea primus divus Augustus [...] iussit consulibus a u c t o r i t a t e m s u a m i n t e r p o n e r e . Quod [...] paulatim conversum est in adsiduam i u r i s d i c t i o n e m : tantusque favor eorum factus est, ut [paulatim] etiam p r a e t o r proprius crearetur, qui <de> fideicommissis i u s d i c e r e t , quem fideicommissarium [appellabant] <appellamus>.277

L’argomentare gaiano, se capovolto in termini positivi, pone un’equivalenza tra il profilarsi di un vinculum iuris e il cogere l’invitus a praestare, in forza dell’esistenza di appositi strumenti processuali (l’interpositio dell’auctoritas dei consoli; l’affermarsi di una ‘adsidua iurisdictio’; la creazione di un ‘praetor proprius qui fideicommissis ius diceret’).

276 Per l’attribuzione di questo brano alle Res cott. cfr. supra, n. 7.277 Per queste correzioni del testo cfr. supra, nt. 133.

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Non solo; ma in questo squarcio conservato in J.2.23.1 l’espressione vinculum iuris è utilizzata in chiave discriminante e, per di più, quale concettualizzazione contrapposta proprio a quella coppia fides/pudor che abbiamo incontrato, anche con specifico riguardo alla rogatio fedecommissaria (Cic., fin. 2.58),278 come elemento peculiare dei ‘vincula’ beneficii, officii, amicitiae279 e che costituisce, per dir così, il foro interno preposto all’ ‘officium sequi’, all’adempimento dei doveri inerenti a quei vincula.280

Pur se, come abbiamo visto, lo stesso Gaio non manca di applicare ai fedecommessi la terminologia dell’obligare,281 non sappiamo se realmente in questo brano le parole ‘vinculum iuris’ possano senz’altro ritenersi equivalenti ad ‘obligatio’, come mostra di intendere Cuiacio («Fideicommissa, inquit, nullo juris vinculo continebantur, id est, jure civili nullam producebant obligationem»).282 Penseremmo, piuttosto, che codeste parole siano da rendere con ‘situazione vincolante sul piano del diritto’ in quanto realizzante un ‘cogi praestare’, che (in seguito ad un’evoluzione storica) si produce in forza della rogatio e che sorregge, dandovi stabile ed efficace consistenza, l’istituto dei fedecommessi.283 In

278 Supra, n. 11 sub IV.279 Il che ottimamente si spiega alla luce della collocazione della prassi delle

istituzioni fideicommissarie nell’orbita dell’officium amicitiae: circostanza, questa risaputa (cfr., in particolare, E.GENZMER, La genèse du fidéicommis comme institution juridique, in RHD 40, 1962, 325ss., che peraltro, riconduce l’adempimento della rogatio entro lo schema della restituzione del beneficium [p. 331s.]; G.NEGRI, La clausola codicillare cit., spec. 209ss.) e che noi stessi abbiamo sperimentato leggendo poc’anzi il passo di Cic., fin. 2.58 (supra, n. 8.4 sub 4). Si noti, peraltro, al corrispondenza tra questa testimonianza ciceroniana e la logica di J.2.23.1: nel brano di Res cott. la fides e il pudor figurano come alternativi all’esistenza di un intervento processuale, così come nel discorso svolto in fin. 2.58-59 la fides, la probitas, la iustitia etc. sono presentate come valori che inducono ad ‘officium sequi’ in mancanza di uno strumento di sanzione (come mostra la correlata chiusura del § 2.57).

280 E’ appena il caso di precisare che, naturalmente, l’introduzione della tutela processuale non toglie rilevanza all’officium e alla fides quali sottostanti cause giustificatrici dell’esecuzione della rogatio. Per un’esplicita attestazione cfr. Celso-Ulpiano in D.24.1.5.15, in cui si parla di ‘officium fidei praestare’ e di ‘fidem praestare’ ed ‘exsolvere’.

281 Supra, n. 7 su ntt. 175-176.282 CUJACIO, Recitationes sollemnes in Tit. VII De obligationibus et actionibus

lib. XLIV Digest. cit., 1326.283 Un paio di precisazioni sono necessarie in relazione a quanto abbiamo or

ora affermato. Anzitutto, occorre rispettare il punto di vista fissato dall’autore del testo, il quale, usando il verbo ‘contineri’ (‘fideicommissa ... nullo vinculo iuris, sed tantum pudore eorum qui rogabantur continebantur’) pone l’accento

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ogni caso, quel che è certo, e che per noi conta, è che l’immagine del vinculum iuris è impiegata per alludere all’esistenza di uno strumento di iurisdictio che costringe ad adempiere e, per di più, si contrappone alla fides e al pudor, due dei valori che, invece, vegliano sull’osservanza dell’officium: che è quanto noi ipotizziamo con riguardo al dettato della definizione di obligatio.

II. In secondo luogo, a sostegno dell’interpretazione che proponiamo militano, ci sembra, le parole ‘quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei’, sulle quali dobbiamo adesso specificamente soffermarci.

Abbiamo già segnalato (n. 9, sub b) che, secondo un diffuso orientamento, si tende in dottrina a congiungere e ad appiattire tra loro ‘necessitate’ ed ‘adstringimur’. Si tratta di una lettura che disattende il dettato testuale due volte: da un lato, cancella l’autonomia di necessitas rispetto all’ adstringi, riducendo il primo termine quasi ad un semplice rafforzativo del secondo, dall’altro lato, passa sopra all’unitarietà della locuzione ‘necessitate alicuius solvendae rei’. Questa posizione non è sostenibile: essa è smentita da alcune attestazioni che, oltre a rendere manifesti i due vizi interpretativi or ora accennati, per quel che più rileva consentono di riconoscere il valore pregnante e consapevole dell’intera precisazione ‘quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei’.

non sull’effetto dei fedecommessi (come assume il Cuiacio : «fideicommissa ... nullam producebant obligationem»), bensì su ciò che, a monte, consente ai fedecommessi di avere stabilità (ed efficacia: cfr. Gai 4.105 ‘ideo autem imperio c o n t i n e r i iudicia dicuntur, quia tamdiu v a l e n t , quamdiu is qui ea praecepit imperium habebit’): per ciò abbiamo parlato di “situazione vincolante (derivante dalla rogatio tutelata dalla iurisdicitio) che sorregge l’istituto dei fedecommessi”. D’altra parte, in linea teorica non potrebbe escludersi che il termine ‘vinculum’ faccia riferimento, piuttosto che ad una situazione, ad un atto vincolante (su questa potenzialità del vocabolo cfr., in via generale, infra, n. 17): vinculum iuris potrebbe dirsi dell’atto della rogatio, vincolante sul piano del diritto una volta introdotta la tutela giurisdizionale. In quest’ottica, la frase ‘fideicommissa ... nullo vinculo iuris, sed tantum pudore eorum qui rogabantur continebantur’ andrebbe intesa come segue: “i fedecommessi (complessivamente assunti dall’esterno come figure negoziali, istituti, e non nel senso di concrete rogationes) non erano tenuti fermi (sorretti, sostenuti etc.) da un atto obbligante (la rogatio)”. Tuttavia, nel senso di ‘situazione vincolante’ sembra orientare il fatto che la correlazione ‘nullo vinculo iuris, sed tantum pudore’ pare logicamente calibrata non sul fatto stesso e sul momento stesso della rogatio, ma su quel che si crea in seguito al compimento della rogatio (‘pudore eorum q u i r o g a b a n t u r ...’).

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A convincere che l’ablativo ‘necessitate’ non sia un’aggiunta pleonastica del verbo ‘adstringimur’ ma, al contrario, abbia nel contesto della definizione una posizione ed una dignità autonome e ricche di significato, dovrebbero già valere alcuni testi giurisprudenziali d’epoca classica. Alludiamo, in particolare, ad un brano di Celso in materia di adempimento del fideiussore, in cui compare, seppur in prospettiva non del tutto perspicua, l’espressione ‘necessitas solvendi’,284 e ad alcune attestazioni di Gaio, Papiniano e Ulpiano, nelle quali, con riferimento alla posizione dell’onerato di un fedecommesso, ricondotta (ormai lo sappiamo) a quella di ‘obligatus’,285 si parla rispettivamente di

284 D.17.1.50.1 (Cels. 38 dig.) ‘Sive, cum frumentum deberetur, fideiussor Africum dedit, sive quid ex necessitate solvendi plus impendit quam est pretium solutae rei, sive Stichum solvit isque decessit aut debilitate flagitiove ad nullum pretium sui redactus est, id mandati iudicio consequeretur’. Va segnalata la proposta del Mommsen di leggere ‘dedit ex necessitate solvendi sive quid’. B.ALBANESE, Papiniano cit., 1668, attribuisce a questo riferimento celsino alla necessitas solvendi «qualche valore di precedente – assai vago, in verità – rispetto alla definizione (scil. di obligatio)».

285 Supra, n. 7, su nt. 175-176.

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‘necessitas dandi’,286 ‘necessitas restituendi’,287 ‘necessitas relinquendi’.288

Ma in aggiunta a questi brani, già noti agli studiosi (e però non valorizzati in questa direzione), occorre tener conto di due fonti letterarie, Cic., off. 2.84 e Sen., ben. 5.19.8, che assumono un particolare rilievo sia per la loro collocazione cronologica, notevolmente arretrata rispetto alle predette attestazioni giurisprudenziali, sia per il tipo di informazioni che esse contengono – fonti che, curiosamente, non soltanto non sono mai state prese in considerazione da coloro che, studiando la definizione di obligatio, si sono soffermati sul tratto ‘necessitate adstringimur alicuius solvendae rei’, ma sono state trascurate o,

286 D.34.5.7.1 (Gai. 1 fideicomm.) ‘Cum quidam pluribus heredibus institutis unius fidei commisisset, ut, cum moreretur, uni ex coheredibus, cui ipse vellet, restitueret eam partem hereditatis, quae ad eum pervenisset: verissimum est utile esse fideicommissum. nec enim in arbitrio eius qui rogatus est positum est, an omnino velit restituere, sed cui potius restituat: plurimum enim interest, utrum in potestate eius, quem testator obligare cogitat, faciat, si velit dare, an post necessitatem dandi solius distribuendi liberum arbitrium concedat’. Un intervento postgaiano sul testo è assai verosimile soltanto con riguardo al tratto ‘quem testator obligare cogitat’: cfr. G.SEGRÈ, Obligatio, obligare, obligari cit., 567 nt. 184, il quale fa leva sulla contraddizione fra l’‘obligari cogitat’ e le parole ‘in potestate eius ...faciat, si velit dare’. Ma, pur espungendo l’esplicita menzione dell’obligare, la testimonianza conserva il suo valore, in quanto Gaio, comunque, svolgeva il proprio ragionamento, discorrendo di ‘necessitas dandi’, partendo dal presupposto della rappresentazione concettuale dell’obligare fideicommisso: supra, su nt. 177. Questa testimonianza gaiana è richiamata anche da T.GIARO, Excusatio necessitatis nel diritto romano, Studia Antiqua, 1982, 43, quale precedente classico del nesso tra ‘obligatio’ e ‘necessitas’ che compare nella definizione dell’obligatio, che lo studioso considera giustinianea (ibid.).

287 D.31.76.5 (Pap. 7 resp.) ‘Pater cum filia pro semisse herede instituta sic testamento locutus fuerat: «peto, cum morieris, licet alios quoque filios susceperis, Sempronio nepoti meo plus tribuas in honorem nominis mei». Necessitas quidem restituendi nepotibus viriles partes praecedere videbatur, sed moderandae portionis, quam maiorem in unius nepotis personam conferri voluit, arbitrium filiae datum’.

288 D.32.11.9 (Ulp. 2 fideicomm.) ‘Haec verba: «te, fili, rogo, ut praedia, quae ad te pervenerint, pro tua diligentia diligas et curam eorum agas, ut possint ad filios tuos pervenire», licet non satis exprimunt fideicommissum, sed magis consilium quam necessitatem relinquendi, tamen ea praedia in nepotibus post mortem patris eorum vim fideicommissi videntur continere’. Avvertiamo di due opportune emendazioni proposte dal Mommsen: la sostituzione del verbo ‘diligas’ (derivante da una svista indotta dal termine ‘diligentia’ che immediatamente precede) con il verbo ‘custodias’ o con un altro di analogo significato, e la correzione di ‘tamen ea praedia’ in ‘ea praedia, tamen’.

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comunque, non sono state adeguatamente valorizzate perfino dagli studiosi che, in tempi recenti, hanno appositamente dedicato stimolanti contributi alla ‘Topik der necessitas’, con o senza riferimento alla definizione.289 Consideriamo per prima la fonte senechiana.

Seneca, partendo dall’esortazione ad essere riconoscenti anche nei confronti di coloro che hanno beneficiato le persone care (5.17.7 ‘Grati simus...etiam adversos eos, qui nostris praestiterunt’), imposta uno scambio dialettico di battute e repliche con il proprio interlocutore sulla questione se colui che attribuisce un beneficium a qualcuno debba intendersi che lo attribuisce anche al pater dello stesso e, dunque, se il beneficium dato al filium obbliga il pater alla restituzione (ben. 5.18.1; 5.19.1-7). Al culmine di un articolato percorso dialettico viene compiuta l’osservazione che il dante vuole dare al filius, non al pater, e che talvolta il pater è sconosciuto o, addirittura, inimicus al dante stesso:290

questi, dunque – è la conseguenza implicita –, non può aver voluto rendere a sé obbligato il pater del beneficiato. Come risolvere l’intera questione? A questo punto compare il passaggio che ci interessa:

ben. 5.19.8 Sed u t dialogorum altercatione seposita t a m q u a m i u r i s c o n s u l t u s r e s p o n d e a m , mens spectandam est dantis; beneficium ei dedit, cui datum voluit. Si in patris honorem fecit, pater

289 In particolare, se abbiamo ben visto, i due brani in questione non vengono affatto menzionate nei contributi di T.MAYER-MALY, Obligamur necessitate cit., passim e spec. 52 (ove l’autore segnala i riscontri classici dell’accostamento tra ‘necessitas’ e ‘solvere’ – assunti quali precedenti della definizione di obligatio, ritenuta di origine postclassica: supra, n. 2); ID., Topik der necessitas, in Études J.Macqueron, 1970, 477ss., spec. 485; e di D.NÖRR, Ethik und Recht im Widerstreit? Bemerkungen zu Paul. (29 ad ed.) D.13,6,17,3, in Ars boni et aequi. Fest. Waldstein, 1993, spec. 270ss. (che, pure, esamina materiale senechiano). Dal canto suo, T.GIARO, Excusatio necessitatis cit., 44 e nt. 26 (la nota si trova a p. 210) richiama i due testi come riscontri della stretta correlazione tra l’obligatio e il concetto di necessitas, ma, da un lato, del passo ciceroniano considera solo l’espressione ‘necessaria solutio’ e non anche quella, ben più significativa, ‘solvendi necessitas’, dall’altro lato, si limita ad una semplice citazione delle due fonti, senza chiedersi quale siano il significato e la portata di tale necessitas (solvendi).

290 Sen., ben. 5.19.8 ‘Tu autem non vis patri, sed filio dare, et interim ne nosti quidem patrem. Itaque cum dixeris: «Patri ergo beneficium non dedi filium eius servando?», contra oppone: «Patri ergo beneficium dedi, quem non novi, quem non cogitavi?». Et quid, quod aliquando eveniet, ut patrem oderis, filium serves? Beneficium ei videberis dedisse, cui tunc inimicissimus eras, cum dares?’

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accipit beneficium; si filii in usum, pater beneficio in filium collato n o n o b l i g a t u r , etiam si fruitur. Si tamen occasionem habuerit, volet et ipse praestare aliquid, n o n t a m q u a m s o l v e n d i n e c e s s i t a t e m h a b e a t , sed tamquam incipiendi causa. Repeti a patre beneficium non debet; si quid pro hoc benigne facit, iustus, non gratus est.

Nell’ambito di un discorso che – ecco il punto per noi determinante – per espressa affermazione dell’autore (‘ut ... tamquam iuris consultus respondeam’) si colloca su un piano tecnico-giuridico, Seneca illustra la posizione del pater nei seguenti termini: costui ‘beneficio ... non obligatur’, ma, se ne avrà l’occasione, compia anch’egli una prestazione (‘volet et ipse praestare aliquid’), non in quanto abbia su di sé una solvendi necessitas, ma per iniziare uno scambio di beneficia (‘non tamquam solvendi necessitatem habeat, sed tamquam incipiendi causa’). Evidentemente, la notazione è concepita sulla base di un’assunzione della necessitas solvendi quale elemento caratterizzante un rapporto obbligatorio.

Dunque, il brano senechiano rivela, da un lato, il tecnicismo dell’espressione ‘solvendi necessitas’, dall’altro lato, la salda presenza, già nell’ambiente giurisprudenziale (almeno) della metà del I secolo d.C., di una concettualizzazione dell’‘obligare’ imperniata sulla ‘necessitas solvendi’.

Consideriamo, adesso, la testimonianza di Cic., off. 2.84.Nel § 2.72 Cicerone, terminata la trattazione dei beneficia ‘quae ad

singulos spectant’, passa a considerare i beneficia ‘quae ad rem publicam pertinent’, i quali devono esser elargiti dai governanti in modo tale da giovare o almeno da non nuocere allo stato. Inoltratosi in questa strada, l’Arpinate cita, quali esempi di cattiva gestione della cosa pubblica, due provvedimenti tratti dalla storia recente, la cacciata dei possessori dalle proprie terre (‘possessores pellere suis sedibus’) e il condono dei debiti (‘pecuniam creditam condonare’).291 Concluso il discorso sul primo (§§ 79-83), Cicerone si scaglia contro il secondo tipo

291 Cic., off. 2.78: Qui vero se populares volunt ob eamque causam aut agrariam rem temptant, ut possessores pellantur suis sedibus, aut pecunias creditas debitoribus condonandas putant, labefactant fundamenta rei publicae, concordiam primum, quae esse non potest, cum aliis adimuntur, aliis condonantur pecuniae, deinde aequitatem, quae tollitur omnis, si habere suum cuique non licet.

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di provvedimento, sinteticamente indicato, adesso, come ‘tabulae novae’:292

Cic., off. 2.84 Tabulae vero novae quid habent argumenti, nisi ut emas mea pecunia fundum, eum tu habeas, ego non habeam pecuniam? Quam ob rem ne sit aes alienum, quod rei publicae noceat, providendum est, quod multis rationibus caveri potest, non si fuerit, ut locupletes suum perdant, debitores lucrentur alienum; nec enim ulla res vehementius rem publicam continet quam fides, quae esse nulla potest, nisi erit n e c e s s a r i a s o l u t i o r e r u m c r e d i t a r u m . Numquam vehementius actum est quam me consule ne solveretur; armis et castris temptata res est ab omni genere hominum et ordine, quibus ita restiti, ut hoc totum malum de re publica tolleretur. Numquam nec maius aes alienum fuit nec melius nec facilius dissolutum est; fraudandi enim spe sublata s o l v e n d i n e c e s s i t a s consecuta est. 293

Il brano può essere diviso in due parti, una prima contenente un discorso generale, una seconda impostata in chiave autobiografica. Nella prima parte Cicerone afferma che l’obiettivo da perseguire è quello di evitare che insorga il fenomeno dell’indebitamento su vasta scala, e non, invece, quello di far sì che ‘locupletes suum perdant, debitores lucrentur alienum’: infatti il più saldo fondamento della res publica è la fides e questa non può sussistere ‘nisi erit necessaria solutio rerum creditarum’.294 Nella seconda parte, l’Arpinate ricorda di essersi

292 Su questo provvedimento e sulle questioni ad esso collegate cfr. l’ampia analisi di M.PIAZZA, «Tabulae novae». Osservazioni sul problema dei debiti negli ultimi decenni della Repubblica, in Atti del II Seminario romanistico gardesano (1978), 1980, 39ss., con bibl.

293 Tabulae novae, fides e fraus si trovano collegati anche nel seguente riferimento in Cic., Phil. 6.11 ‘...Trebellium valde iam diligit: oderat tum, cum ille tabulis novis adversabatur; iam fert in oculis, postea quam ipsum Trebellium vidit sine tabulis novis salvum esse non posse. Audisse enim vos arbitror, Quirites, quod etiam videre potuistis, cotidie sponsores et creditores L. Trebelli convenire. O Fides! – hoc enim opinor Trebellium sumpsisse cognomen – quae potest esse maior fides quam fraudare creditores, domo profugere, propter aes alienum ire ad arma?’

294 Queste affermazioni vanno intese in relazione ad un filo unitario che parte, addirittura, dalle battute iniziali dell’opera. Bisogna, anzitutto, tener presente che il discorso in questione rientra nella tematica dei beneficia (proponedosi l’autore, in particolare, di mettere in guardia da un cattivo uso dei beneficia: § 2.72) e, dunque, nella sfera dell’honestum. Ebbene, in off. 1.15, che costituisce il programma dell’intera esposizione successiva, si afferma che una delle

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con successo battuto personalmente, durante il consolato, contro le iniziative (di Catilina) volte ad ottenere la cancellazione dei debiti (è questa la portata delle tabulae novae):295 ‘fraudandi enim spe sublata solvendi necessitas consecuta est’. E’ chiaro che, nel ragionamento ciceroniano, come le tabulae novae comportano l’estinzione dei debiti, così la contrapposta necessitas solvendi allude alla loro sussistenza. In sostanza, la necessitas solvendi è elemento che evoca l’esistenza di un

quattro parti da cui trae origine l’honestum consiste ‘in hominum societate tuenda tribuendoque suum cuique et rerum contractarum fide’. Come si vede, vengono subito collegati tra loro la sussistenza stessa della societas tra gli uomini, l’attribuzione ad ognuno del suum e la fides delle res contractae. Ebbene, il valore che particolarmente presiede al mantenimento della societas umana è (unitamente alla beneficentia) la iustitia (§ 1.20) e questa ha come fundamentum la fides, intesa (§ 1.23) come ‘dictorum conventorum constantia et veritas’ (a siffatto collegamento tra la fides e le res contractae può accostarsi una notazione compiuta dallo stesso Cicerone in part. or. 22.78: premesso che la virtus che presiede allo svolgimento dell’attività pratica prende il nome di temperantia [§ 76], l’Arpinate afferma nel § 78 che, nelle relazioni con gli altri, ‘in communione’, la temperantia si chiama iustitia e che quest’ultima a sua volta, più particolarmente, ‘erga deos religio, erga parentes pietas, c r e d i t i s i n r e b u s fi d e s , ...amicitia in benivolentia nominatur’). D’altra parte, con riguardo all’altro cardine del ragionamento di off. 2.65, e cioè il fatto che il problema del corretto rapporto tra ‘suum’ ed ‘alienum’ coinvolge la sussistenza stessa della res publica, va ricordato che l’attribuzione a ciascuno del suum è non soltanto vista come un preminente compito dei governanti (§ 2.73: ‘In primis autem videndum erit ei, qui rem publicam administrabit, ut suum quisque teneat neque de bonis privatorum publice deminutio fiat...’), ma, addirittura, è considerata come la principale ragion d’essere dell’esistenza stessa delle comunità organizzate (ibid.: ‘...Hanc enim ob causam maxime, ut sua tenerentur, res publicae civitatesque constitutae sunt...’).

Il coordinamento di queste diverse premesse concettuali rende, dunque, ben comprensibile il fatto che nel nostro § 2.84 la fides intesa come osservanza degli impegni assunti in seno alle res creditae (e, cioè, l’assolvimento del dovere di solvere) venga indicata come la base stessa della res publica.

295 Sulla circostanza che le tabulae novae implicano una completa estinzione del debito cfr. le osservazioni di M.PIAZZA, «Tabulae novae» cit., 75ss. Alle argomentazioni svolte da questa studiosa sono da aggiungere due testimonianze di Seneca: ben. 1.4.6 ‘At qui ingenia sanare et fidem in rebus humanis retinere, memoriam officiorum ingerere animis volunt, serio loquantur et magnis viribus agant; nisi forte existimas levi ac fabuloso sermone et anilibus argumentis prohiberi posse rem perniciosissimam, b e n e fi c i o r u m n o v a s t a b u l a s ’ (da tutta l’esposizione introduttiva che precede questa notazione e che, con quest’ultima, serve a fissare il contenuto e l’obiettivo del trattato, risulta palese che l’espressione ‘beneficiorum novas tabulas’ – ennesimo

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rapporto obbligatorio.296 E ciò è perfettamente in linea con quanto abbiamo visto poc’anzi con riguardo a Sen., ben. 5.19.8.

Ma qual è il concreto significato di questa solvendi necessitas menzionata da Seneca e, circa un secolo prima, da Cicerone?

Per intendere la portata del riferimento senechiano occorre tener presente la circostanza che nel trattato De beneficiis è registrata una riflessione, di più antica ascendenza, che proietta il dualismo ‘beneficium – creditum’ nella dicotomia ‘honestum – necessarium’. Rinviando alle ottime pagine del Mantello sia per quel che concerne l’osservazione della latitudine del fenomeno sia per la considerazione dei precedenti e delle radici culturali dello stesso,297 qui ci interessa specificamente richiamare la seguente attestazione, determinante ai nostri fini:

ben. 3.7.1 ... p a r s o p t i m a b e n e fi c i i p e r i i t , s i a c t i o sicut certae pecuniae aut ex conducto et locato d a t u r . Hoc enim in illo speciosissimum est, quod dedimus vel perdituri, quod totum permisimus a c c i p i e n t i u m a r b i t r i o ; s i a p p e l l o , s i a d i u d i c e m v o c o , i n c i p i t n o n b e n e fi c i u m e s s e , s e d c r e d i t u m . [2] Deinde cum r e s h o n e s t i s s i m a sit referre gratiam, d e s i n i t e s s e h o n e s t a , s i n e c e s s a r i a e s t ; non magis enim laudabit quisquam gratum hominem quam eum, qui

esempio di prestito dalla terminologia tecnico-giuridica – allude ad un’assoluta mancanza di restituzione del beneficium, non ad una restituzione in misura ridotta); ep. 81.26 ‘...animus sapientis, ubi paria maleficiis merita sunt, d e s i n i t quidem d e b e r e , sed non desinit velle debere, et hoc facit quod qui p o s t t a b u l a s n o v a s solvunt’.

296 Come abbiamo osservato a proposito del dualismo beneficium-creditum nel trattato di Seneca (supra, nt. 202 in fine), anche con riguardo a questa testimonianza del De officiis precisiamo che ai nostri fini non importa sapere con quale accezione Cicerone discorresse di ‘res creditae’ (‘necessaria solutio rerum creditarum’), quale fosse, cioè, la sfera di applicazione del ‘creditum’ al quale si sarebbe dovuto applicare il meccanismo delle novae tabulae (sulla questione, rinviamo all’apposita indagine di M.PIAZZA, «Tabulae novae» cit., ..ss.). Quel che interessa le nostre riflessioni è il collegamento fissato tra necessitas solvendi e rapporto obbligatorio (‘creditum’), quale che fosse la concreta estrinsecazione di quest’ultimo in termini di fattispecie contrattuale.

297 A.MANTELLO, ‘Beneficium’ servile – ‘debitum’ naturale cit., 72ss. e spec. 83ss.. Più di recente, questo studioso ha avuto modo di tornare sulla questione nel contributo Un’etica per il giurista? Profili d’interpretazione giurisprudenziale nel primo Principato, in Per la storia del pensiero giuridico romano. Da Augusto agli Antonini (Atti Seminario – Univ. S.Marino, 1995), 1996, 158ss.

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depositum reddidit aut, quod debebat, c i t r a i u d i c e m solvit. [3] Ita duas res, quibus in vita humana nihil pulchrius est, corrumpimus, gratum hominem et beneficium; quid enim aut in hoc magnificum est, si beneficium non dat, sed commodat, aut in illo, qui reddit, n o n q u i a v u l t , s e d q u i a n e c e s s e e s t ? ....

Il § 1 era già stato esaminato in precedenza (n. 10), in quanto costituisce un riscontro particolarmente incisivo della mancanza di esigibilità giudiziale quale elemento caratteristico del beneficium ed essenziale nota discretiva rispetto al creditum in senso tecnico-giuridico: segnatamente, la restituzione del beneficium dipende dall’arbitrium dell’accipiens e la presenza di una iniziativa processuale fa venir meno l’essenza del beneficium, trasformando quest’ultimo in un creditum. Ora, nel seguito del discorso (§§ 2-3) Seneca compie un passo ulteriore, immettendo esplicitamente la predetta contrapposizione ‘beneficium/arbitrium – creditum/coercizione giudiziale’ nel dualismo ‘honestum – necessarium’: la restituzione (‘referre gratiam’) è una ‘res honestissima’, che, tuttavia, cessa di qualificarsi ‘honesta’ se, a causa dell’intervento del iudex, diviene ‘necessaria’, se, cioè, la volontariertà del reddere cede il posto alla cogenza dello stesso (‘reddit, non quia vult, sed quia necesse est’).298 E’ palese, dunque, nella rappresentazione senechiana la riconduzione del ‘necessarium’ e del ‘necesse est’, quali caratteristiche del creditum, all’instaurazione di un’actio e alla pronunzia di un iudex. Coerentemente, la solvendi necessitas che egli richiama in ben. 5.19.8 come termine immediatamente sintomatico dell’ ‘obligare’ è da intendere come alludente alla presenza di uno strumento giudiziale.299

298 Cfr. A.MANTELLO, ‘Beneficium’ servile – ‘debitum’ naturale cit., 83; 85; 91; v. anche D.NÖRR, Ethik und Recht im Widerstreit? cit., 272.

299 In questa direzione non è di per sé utilizzabile, invece, il collegamento di ben. 5.19.8 tra ‘necessitas solvendi’ e ‘repetere’ (‘Si tamen occasionem habuerit, volet et ipse praestare aliquid, non tamquam solvendi necessitatem habeat, sed tamquam incipiendi causa. Repeti a patre beneficium non debet...’) Il verbo ‘repetere’, infatti, non è sempre impiegato da Seneca in relazione ad un richiedere processualmente: cfr., ad es., le diverse accezioni in ben. 3.14.2 (‘Etiam atque etiam, cui des, considera: n u l l a a c t i o e r i t , n u l l a r e p e t i t i o . Erras, si existimas succursurum tibi iudicem; nulla lex te in integrum restituet, solam accipientis fidem specta. Hoc modo beneficia auctoritatem suam tenent et magnifica sunt; pollues illa, si materiam litium feceris’) e in ben. 7.23.3 (‘Cum dicimus b e n e fi c i u m r e p e t i n o n o p o r t e r e , non ex toto repetitionem tollimus [...] Interveniat a l i q u a n d o

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La stessa conclusione deve trarsi, a nostro avviso, con riguardo al riferimento compiuto da Cicerone. In questo senso depone l’immediato seguito del discorso, in cui l’autore formula l’ammonimento generale che trae dai cattivi exempla dei provvedimenti agrari e delle novae tabulae:

off. 2.85 Ab hoc igitur genere largitionis, ut aliis detur, aliis auferatur, aberunt ii, qui rem publicam tuebuntur, in primisque operam dabunt, ut i u r i s e t i u d i c i o r u m a e q u i t a t e suum quisque teneat et neque tenuiores propter humilitatem circumveniantur neque locupletiores ad sua vel tenenda vel recuperanda obsit invidia...

Coloro che hanno la funzione di ‘tuere rem publicam’ devono, dunque, provvedere a che ciascuno possa mantendere il suum300 e questo obiettivo va conseguito attraverso l’aequitas301 del ius e dei iudicia. Dai contenuti dell’intero blocco narrativo che sfocia in questo § 85 risulta palese che con il termine ‘ius’ Cicerone allude, con un riferimento collettivo, ai provvedimenti che i governanti devono adottare (ispirandosi a modelli quali i provvedimenti introdotti da Arato di Sicione, dettati, appunto, dalla ricerca dell’aequum302). L’altro termine, ‘iudicia’, non può che riferirsi agli strumenti processuali che consentono la concreta sussistenza e applicazione del ‘ius’. Una congiunzione,

a d m o n i t i o , sed verecunda, quae non poscat n e c i n i u s v o c e t ’). 300 Si ricordino le parole di off. 1.15 (riportate supra, in nt. 293), che

esplicitamente connettono il ‘t u e r e ’ la societas hominum al ‘tribuere suum cuique’ ed alla ‘rerum contractarum fide’.

301 L’ ‘aequitas’ di cui parla Cicerone è quella che, più volte richiamata proprio nei paragrafi che immediatamente precedono il nostro § 85, viene indicata, tra l’altro, come un fondamento della res publica che viene meno ‘si habere suum cuique non liceat’ (§ 78, trascritto supra, nt. 290). Del resto, nel § 79 si legge: ‘Quam autem habet aequitatem, ut agrum multis annis aut etiam saeculis ante possessum qui nullum habuit habeat, qui autem habuit amittat?’. Ma già in chiusura di § 71, in un luogo che funge da cerniera fra la trattazione sui beneficia che ‘ad singulos spectant’ e quelli che ‘ad rem publicam pertinent’, Cicerone avvertiva: ‘Extremum autem praeceptum in beneficiis operaque danda, ne quid contra aequitatem contendas’.

302 La descrizione delle misure adottate dal greco Arato di Sicione occupa i §§ 81-82. Si veda il seguente passaggio del § 81: ‘et eos, quos ipse restituerat, quorum bona alii possederant, egere iniquissimum esse arbitrabatur et quinquaginta annorum possessiones movere non nimis aequum putabat’; nonché, nel § 83, la parte conclusiva dell’elogio: ‘ille Graecus...omnibus consulendum putavit, eaque et summa ratio et sapientia boni civis, commoda civium non divellere atque omnis aequitate eadem continere’ (subito dopo, si badi, comincia l’invettiva contro le novae tabulae).

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questa tra il ‘ius’ nel senso anzidetto e i risvolti processuali, che altrove lo stesso Cicerone attesta esplicitamente proprio in critica ad un provvedimento agrario che avrebbe comportato il sovvertimento del rapporto ‘suum-alienum’. Ci riferiamo al seguente passaggio del discorso De lege agraria contro la proposta del tribuno Rullo: ‘...Hoc tribunus plebis promulgare ausus est ut, quod quisque post Marium et Carbonem consules possidet, id eo iure teneret quo quod optimo privatum? Etiamne si vi deiecit, etiamne si clam, si precario venit in possessionem? Ergo hac lege ius civile, causae possessionum, praetorum interdicta tollentur’ (III.3.11). Ebbene, poiché la narrazione che precede il nostro § 2.85 impone, altresì, di ricondurre al ‘suum quisque tenere’ unitariamente sia l’exemplum riguardante la questione terriera sia l’exemplum relativo all’aes alienum, consegue che Cicerone con il termine ‘iudicia’ allude, oltre che agli strumenti processuali che difendono la titolarità degli immobili, anche alla tutela processuale delle res creditae. Il che, del resto, sembra trovare una conferma esterna, ancora una volta, nel predetto discorso De lege agraria, là dove l’oratore, nel dipingere la turbolenta situazione della res publica al momento del suo insediamento come console, afferma che ‘sublata erat de foro fides ... suspicione ac perturbatione iudiciorum, infirmatione rerum iudicatarum’ (leg. agr. II.3.8): questo collegamento tra il venir meno della fides e lo sconvolgimento delle vicende processuali rafforza l’idea che le parole del § 2.84 ‘fi d e s ... e s s e n u l l a p o t e s t , nisi erit n e c e s s a r i a solutio rerum creditarum’ siano da intendere con riferimento all’azionabilità della solutio. In sostanza, la connessione tra i §§ 2.84 e 85, letta alla luce dell’intero ragionamento di off. 72-85 e confermata da alcuni passaggi dell’argomentare del De lege agraria, porta inevitabilmente al risultato che Cicerone, parlando di ‘solvendi necessitas’, alludeva all’esistenza (e forse, più concretamente, all’esperibilità)303 dell’actio in personam. Anche nel pensiero di

303 Invero, con le parole ‘solvendi necessitas consecuta est’ Cicerone potrebbe aver voluto alludere al fatto che, opponendosi, da console, ai tentativi di condonare pecunias creditas (§ 78), aveva scongiurato il verificarsi – su larga scala – della seguente vicenda, facilmente immaginabile: il creditore che si rivolge al pretore per agire contro il debitore insolvente si sarebbe vista opporre una denegatio actionis in ragione del fatto, risaputo dal pretore o, comunque, prontamente richiamato, certo, dal vocatus, che con il provvedimento delle tabulae novae era stato cancellato il debito. Quelle parole, cioè, potrebbero riferirsi all’ avere il console-Cicerone assicurato la possibilità per i creditori di esercitare l’actio in personam.

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Cicerone, dunque, la solvendi necessitas è determinata dal fatto che sul debitore incombono lo svolgimento dell’actio e la condanna giudiziale.

In conclusione, attraverso i brani di Cicerone e di Seneca ci rendiamo conto che la ‘necessitas solvendi’ - che all’interno delle fonti giurisprudenziali compare, ma senza alcun elemento connotativo, solo in un testo celsino304 - costituisce una concettualizzazione tecnica (si ricordi che Seneca ne parla in un passaggio formulato ‘tamquam iuris consultus’) e ben radicata;305 che essa ha una sicura centralità nella fenomenologia del rapporto obbligatorio, al punto da legittimare l’equivalenza, nell’argomentare di ben. 5.19.8, tra ‘non obligari’ e ‘non habere solvendi necessitatem’; che, infine, essa si configura in ragione dell’esistenza di uno strumento giudiziale, che rende coercibile il dovere di ‘solvere’.

I riflessi sul tratto della definizione che stiamo esaminando sono di tutta evidenza: a) l’ablativo ‘necessitate’ non può venir appiattito sul verbo ‘adstringimur’, a mo’ di semplice rafforzamento dell’idea di cogenza già espressa dal verbo, bensì è parte, con il complemento ‘alicuius solvendae rei’, di una precisa formulazione tecnica;306 b) l’unitario elemento ‘necessitate ... alicuius solvendae rei’ costituisce un

304 D.17.1.50.1, trascritto supra, in nt. 283.305 Invero, Cicerone, la cui testimonianza si colloca nell’anno 44 a.C., parla di

‘solvendi necessitas’ senza aggiungere, nell’ambito della stessa affermazione, ulteriori precisazioni (il riferimento all’intervento giudiziale si trova, come abbiamo visto, solo nel prosieguo del discorso), il che farebbe pensare che si trattasse di un concetto già diffuso e di sicura intelligibilità almeno per i destinatari, certo non sprovveduti, del De officiis.

Non può escludersi che alla fissazione del concetto di necessitas solvendi abbia lavorato o comunque contribuito, un cinquantennio prima, Quinto Mucio, al quale, notoriamente, la formazione giuridica di Cicerone è fortemente legata (cfr., da ultimo, A.SACCOCCIO, Si certum petetur cit., 152 nt. 30). Sappiamo, infatti, che questo giurista ha sottoposto ad apposita elaborazione proprio l’elemento del solvere nei rapporti obbligatori. Alludiamo, naturalmente, alla nota testimonianza di D.46.3.80 (Pomp. 4 ad Q.Mucium), per la parte che sembra senz’altro riflettere il pensiero del giurista repubblicano (cfr., per tutti, A.SACCOCCIO, op. cit., 153ss., con ampia bibl.): ‘Prout quidque contractum est, ita et solvi debet: ut, cum re contraxerimus, re solvi debet: veluti cum mutuum dedimus, ut retro pecuniae tantundem solvi debeat. Et cum verbis aliquid contraximus, vel re vel verbis obligatio solvi debet, verbis, veluti cum acceptum promissori fit, re, veluti cum solvit quod promisit’.

306 Per qual motivo, poi, nel congegnare la definizione Gaio abbia adattato il sintagma ‘necessitas solvendi’ in ‘necessitas alicuius solvendae rei’ potrà esser apprezzato (nel quadro della nostra complessiva ricostruzione) solo dopo aver considerato il significato dell’espressione ‘solvere rem’: infra, n. 15.

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cardine dell’intero enunciato, giacché indica quel che, per consolidata riflessione giuridica, caratterizzava il rapporto obbligatorio, e cioè la cogenza derivante dall’esistenza di uno strumento processuale.

In sostanza, con le parole ‘quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei’ il giurista ha descritto l’obbligato come un soggetto che si trova in una situazione di costrizione derivante dall’esistenza di una necessitas di compiere una determinata prestazione. 307 La terminologia che egli impiega è asciutta e giuridicamente rigorosa, da lungo tempo consolidata quale indicazione tecnica che esprime la cogenza dell’adempimento inerente ad un rapporto obbligatorio. Tale cogenza scaturisce dalla presenza di un meccanismo di coercizione, consistente nell’esposizione del debitore alla condanna in sede di actio di accertamento.

In definitiva, quel che per noi è maggiormente prezioso è che questi risultati circa il tratto ‘quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei’ collimano perfettamente con l’argomento tratto dalla testimonianza di J.2.23.1. Come in quest’ultimo brano Gaio ricorre al concetto di ‘vinculum iuris’ per alludere all’esistenza di una tutela giurisdizionale che costringe anche l’‘invitus’ a ‘praestare’, così il segmento della definizione ‘quo – rei’, che costituisce l’immediata esplicitazione delle parole ‘obligatio est iuris vinculum’, si riferisce con rigoroso tecnicismo alla presenza di una costrizione all’adempimento in forza di un meccanismo processuale di accertamento e condanna.308

III. D’altra parte, la nostra ipotesi muove dal presupposto che Gaio, nel coniare la definizione, avesse specificamente presente quelle forme di coniunctiones e di relazioni interpersonali e, soprattutto, i tratti peculiari attribuiti alle stesse, che abbiamo rintracciati con l’ausilio di testimonianze letterarie, specialmente di Cicerone e Seneca.

Ebbene, che quei rapporti figuravano nell’armamentario scientifico ed argomentativo non diciamo del singolo Gaio, ma della generalità dei giuristi classici è circostanza scontata e risaputa, sulla quale sarebbe superfluo soffermarsi appositamente;309 come pure è notorio che

307 Sull’accezione delle parole ‘alicuius solvendae rei’ in riferimento all’idea (onnicomprensiva) di ‘prestazione’ cfr. appositamente infra, n. 15.

308 Sul punto cfr. in questo stesso paragrafo, in fine. 309 Ne sono sufficente testimonianza, da una parte, il dato oggettivo del

collegamento di numerosi istituti giuridici con l’amicitia, la fides, l’officium; e, dall’altra parte, la consapevolezza presso i giuristi di questo collegamento,

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relazioni e valori quali l’officium, l’amicitia, la fides, la necessitudo, oltre a segnare l’origine o il regime di istituti giusprivatistici, appaiono giuridicamente rilevanti in sé 310 e che, pertanto, anche come tali, cioè in quanto giuridicamente connotate di per sé, le predette coniunctiones dovevano certamente confluire nel bagaglio scientifico di ogni giurista. Tutto ciò, naturalmente, doveva comportare una presenza nella formazione culturale dei giuristi anche degli scritti di Cicerone e di Seneca sugli officia e sui beneficia, e anche questo costituisce un dato da tempo acquisito in dottrina, 311 pur se soltanto in tempi recenti si è cominciato a vagliarne approfonditamente la consistenza con riguardo a singole tematiche.312

lungo una linea culturale che giunge fino a Paolo. Cfr., per qualche attestazione, infra, n. 14 ntt. 358-359.

310 Su questo aspetto cfr., in generale, F.CANCELLI, Saggio sul concetto di officium cit., 365ss.; 373ss.; e, con impostazione in parte diversa, G.NEGRI, La clausola codicillare cit., passim e spec. 199ss. Per qualche riscontro concreto, basti pensare alla presenza, tra le nozioni ‘quae ad ius pertinent’ fissate da Elio Gallo, dei ‘necessaria officia’ (Fest., v. ‘Necessarii’ [158 L.]); alla nota affermazione di Cic., De or., 3.33.133, secondo cui i giuristi vengono consultati ‘non solum ... de iure civili, ... verum etiam ... de omni ... aut officio aut negotio’; all’interesse di Sabino, nel terzo libro iuris civilis, per la gerarchia fissata dai maiores nell’osservanza degli officia (Gell., N.A. 5.13.5); alla circostanza che Marciano definisce i ‘dona’ come ‘quae nulla necessitate i u r i s o ff i c i i , sed sponte praestantur...’ (D.1.1.12); alle parole di Cic., Flacc. 57 ‘iura omnia officii ... violarent’ (per altre attestazioni della contiguità tra officium e ius cfr. F.CANCELLI, Saggio sul concetto di officium cit., 367ss. e G.NEGRI, La clausola codicillare cit., 239ss.); alla definizione che plerique grammaticorum, ricordati da Gellio, forniscono di ‘necessitudo’ come ‘ius quoddam et vinculum religiosae coniunctionis’ (N.A.13.3.1); o ancora, al modo con cui Paolo isola la nozione di ‘amici’ in D.50.16.223.1 ‘“Amicos” appellare debemus non levi notitia coniunctos, sed quibus [in] iura cum patre familias honestis familiaritatis quaesita rationibus’ (su questo brano cfr., incisivamente, B.ALBANESE, La struttura della manumissio inter amicos. Contributo alla storia dell’amicitia romana, in AUPA 29, 1962, 87ss.; ID., L’«amicitia» nel diritto privato romano, in Jus 14, 1963, 138s.).

311 Cfr., ad es., F.CANCELLI, Saggio sul concetto di «officium» cit., 365ss. (il quale, peraltro, si mostra aperto all’interpretazione di PRÉHAC, Introduction a Sénèque, Des bienfaits, Paris 1926, p. XL, secondo la quale il personaggio Liberale al quale Seneca dedica il trattato De beneficiis, sarebbe stato un giurista); F.GUIZZI, La letteratura «De officio», in Labeo 7, 1961, 260.

312 Pensiamo, in particolare, alla ricerca più volte citata di Giovanni Negri sul testamento inofficioso, per qualche verso pionieristica; e alle indagini di Dieter Nörr sulla rappresentazione di Paolo circa i rapporti tra il comodatum e il beneficium (Ethik und Recht in Wiederstreit? cit.) e sulle connessioni tra il mandatum, la fides e l’amicitia (Mandatum, fides, amicitia, in D.Nörr-S.Nishimura [Hrsg.], Mandatum und Verwandtes. Beiträge zum römischen und

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Semmai, in aggiunta a queste considerazioni segnaliamo brevemente un passo delle Istituzioni di Gaio, dal quale potrebbe, forse, ipotizzarsi un contatto diretto di questo giurista specificamente con il De beneficiis senechiano. Viene in questione, al riguardo, la corrispondenza tra la precisazione in tema di res incorporales che si legge in Gai 2.14 ‘Incorporales sunt quae tangi non possunt, qualia sunt ea quae in iure consistunt, sicut hereditas ususfructus obligationes quoquo modo contractae. Nec ad rem pertinet quod in hereditate res corporales sunt, et quod ex aliqua obligatione nobis debetur, id plerumque corporale est, velut fundus, homo, pecunia; nam ipsum ius successionis et ipsum ius utendi fruendi et ipsum ius obligationis incorporale est.....’

e le seguenti notazioni di Seneca sulla distinzione tra la natura incorporale del beneficium e la corporeità dell’oggetto del beneficium stesso:

ben. 1.5.2 ‘... Non potest beneficium manu tangi: res animo geritur. Multum interest inter materiam beneficii et beneficium; itaque nec aurum nec argentum nec quicquam eorum, quae pro maximis accipiuntur, beneficium est, sed ipsa tribuentis voluntas. Imperiti autem id, quod oculis incurrit et quod traditur possideturque, solum notant ....’; 1.6.3 ‘Non est beneficium ipsum, quod numeratur aut traditur...’; 6.2.1 ‘An beneficium eripi posset, quaesitum est. Quidam negant posse; non enim res est, sed actio ...’; 6.2.2 ‘Illud incorporale est, irritum non fit; materia vero eius huc et illuc iactatur et dominum mutat ...’; 6.2.3 ‘... Potest eripi domus et pecunia et mancipium et quidquid est, in quo haesit beneficii nomen; ipsum vero stabile et immotum est ....’.313

modernen Recht, 1993, 13ss.).313 Su questi rilievi, che Seneca compiva per sostenere la natura in sé neutra

dell’attività in cui consiste il beneficium, cfr., in particolare, A.MANTELLO, ‘Beneficium’ servile – ‘debitum’ naturale cit., 40ss.. Questo studioso, peraltro, opportunamente collega la considerazione del beneficium come res incorporalis alla concettualizzazione gaiana in tema di res incorporales (p. 45[44] nt. 52), ma non con specifico riguardo alla distinzione che Gaio propone tra la res incorporalis in sé ed il suo oggetto, corporale. In questo senso, invece, la testimonianza senechiana e quella gaiana sono avvicinate da F.HERNANDEZ-TEJERO, El pensamiento juridico en Seneca, «De beneficiis», in Revista Facultad de Derecho Universidad de Madrid, 12, 1968, 46.

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Questa corrispondenza non crediamo possa ritenersi accidentale, tanto più se si tiene presente che tra le res incorporales che Gaio prende in considerazione vi è il rapporto obbligatorio, e questo, come abbiamo visto, insistentemente compare nel trattato di Seneca come paradigma concettuale al quale il beneficium ora si riconduce ora si contrappone.

Qualsiasi cosa si voglia pensare di quest’ultima circostanza, le ragioni di ordine generale che, come abbiamo detto, portano ad assumere una conoscenza (anche) da parte di Gaio dell’apposita riflessione ciceroniana-senechiana sugli officia e sui beneficia confortano l’idea che (anche) Gaio fosse a conoscenza della corrente rappresentazione con cui tali rapporti ed istituti erano, per dir così, canonizzati: raffigurazione in termini di ‘vinculum’; applicazione della terminologia dei rapporti obbligatori all’officium e al beneficium; produzione di doveri, sentiti come pressanti, e però non coercibili tramite actio; esplicita contrapposizione tra il beneficium (e quindi, l’officium reddendi) e il creditum.

In conclusione, alla luce dei riscontri considerati sub I e sub II e in

ragione dell’ammissibilità, su un piano generale, constatata sub III, crediamo di poter ribadire, come ci eravamo prefissati, l’ipotesi che abbiamo enunciato nel paragrafo precedente. Il giurista ha voluto distinguere l’obligatio da altri vincula, ed in particolare dall’officium e dalle coniunctiones nelle quali questo si realizza, quali lo scambio di beneficia, l’amicitia, la necessitudo: in ultima analisi, il giurista ha contrapposto l’obligatio alla figura dell’officium. A tal fine, attraverso la raffigurazione ‘obligatio est iuris vinculum’ egli ha messo immediatamente in risalto l’elemento della giuridicità che, per l’appunto, contraddistingue l’obligatio e che consiste nell’essere il debitore in senso proprio un soggetto ‘adstrictus’ non da istanze e da valori, pur assai rilevanti nei rapporti interpersonali, quali la fides, il

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pudor, l’aequitas,314 la pietas,315 l’honos,316 la probitas,317 l’humanitas318

(come, invece, colui che ‘deve’ prestare un officium), bensì da una necessitas solvendi, concetto tecnico che allude all’esistenza di un fenomeno, l’esposizione del debitore all’actio di accertamento e alla condanna del iudex, che rende giuridicamente cogente una determinata prestazione.

A quest’ultimo proposito, è appena il caso di osservare che, naturalmente, nei fatti la complessiva ‘obbligatorietà’ della prestazione si collegava, certo, anche all’ulteriore procedibilità in via esecutiva. Tuttavia, che la necessitas fissata nella definizione alludesse, con

314 Per il rapporto tra l’aequitas e l’adempimento dell’officium si vedano, ad es., i già citati testi di Cic., fin. 2.59 (supra, n. 11 sub IV) e 2.76 (supra, nt. 262), nonché Cic., part. orat. 37.130, con specifico riferimento al reddere gratiam nello scambio di beneficia; ma v. già Plaut., Stich. 7-8a ‘Nostrum officium/nos facere aequomst;/neque id magis facimus/quam nos monet pietas’.

315 Nell’ambito delle relazioni interpersonali (la pietas, infatti, si colloca originariamente e primariamente anche nei rapporti con le divinità [per tutti, J.HELLEGOUARC’H, Le vocabulaire cit., 276s.] e nei rapporti familiari [per tutti, R.SALLER, Pietas, obligation and authority in the Roman family, in Alte Geschichte und Wissenschaftsgeschichte. Fest. f. K.Christ, 1988, 393ss.]), «...le mot désigne ...le parfait accomplissement des devoirs d’officium par un homme qui a reçu des beneficia»: così J.HELLEGOUARC’H, op. cit. 277. Alle fonti citate da questo studioso occorre aggiungere, almeno, con riguardo all’officium: il già citato Plaut., Stich. 7-8a (v. la nt. prec.); Cic., Verr. II.2.97 ‘iste, qui ...neque officii sui ...neque pietatis neque humanitatis rationem habuisset’ e Plin., epist. 8.18.7, che elogia un testamento ‘quod pietas fides pudor scripsit, in quo denique omnibus adfinitatibus pro cuiusque officio gratia relata est....’; per la connessione con l’amicitia: Lucr. 3.83, in cui vengono messi insieme ‘vexare pudorem, vincula amicitiae rumpere et in summa pietatem evertere’; infine, con accostamento tra pietas e fides, Plin., epist. 1.22 e Paneg. 42.2.

316 Sul collegamento tra la nozione di honos e l’adempimento di doveri derivanti dall’officium e dal beneficium cfr. J.HELLEGOUARC’H, Le vocabulaire cit., 383ss. E’ significativo che già in Plaut., Trin. 697 sono affiancati l’honos e il pudor in relazione all’adempimento dell’officium: ‘is est honos homini pudico, meminisse officium suom’. Del resto, sarebbe superfluo sottolineare, in generale, l’attinenza dell’officium alle sfere ‘honestas’/‘honestum’ (basti ricordare il dualismo ‘honestum-necessarium’ che abbiamo già constatato [sub II.A] nel trattato senechiano come proiezione del dualismo ‘beneficium-creditum’ e segnalare, per tutte, le parole di Cic., off. 1.60 ‘...honestum, ex quo aptum est officium...’ e la coppia ‘honestas officiumque’ del § 61).

317 Per l’accostamento tra probitas e fides cfr. supra, nt...... Dobbiamo rinviare nuovamente all’indagine di Hellegouarc’h (p. 286) ed alle fonti ivi citate per l’attitudine di ‘probitas’ ad indicare la qualità di chi adempie ai doveri dell’officium e dell’amicitia.

318 Per la connessione tra adempimento dell’officium e humanitas cfr. le fonti citate supra, nt. 260.

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accezione tecnica, esclusivamente al profilo dell’azione dichiarativa sembra doversi ammettere, anzitutto, alla luce delle attestazioni poc’anzi esaminate di Cic., off. 2.84-85 e di Sen., ben. 3.7.1-3 (peraltro, si osservi che nel brano di Seneca l’esclusivo richiamo all’intervento del iudex appare tanto più significativo in quanto in altri passaggi dell’opera, nei quali non è in questione la categoria del ‘necessarium’, compare, invece, anche un riferimento alla procedura esecutiva: ben. 1.1.3 e 4.39.2); e sulla base del fatto che la concettualizzazione ‘iuris vinculum’, della quale il richiamo alla necessitas solvendae rei costituisce lo svolgimento, proprio nelle Res cott. è utilizzata per alludere alla presenza di un intervento di iurisdictio (J.2.23.1). E d’altronde, che in sede di enunciato generale venisse richiamato (solo) il profilo dell’actio di accertamento appare del tutto naturale, ove si ponga mente al fatto, risaputo, che la corrente rappresentazione dei giuristi in tema di rapporti obbligatori era proprio incentrata su una correlazione, e sovente su uno scambio concettuale e terminologico, tra l’obligatio e l’actio in personam.

14. L’obligatio come ‘iuris vinculum’ nel quadro della trattazione delle Res cottidianae sulle obbligazioni.

L’ipotesi, che abbiamo or ora delineato, sulla portata e sul significato dell’enunciato ‘obligatio – rei’ e l’ipotesi, cui eravamo autonomamente pervenuti (nn. 6-7), che autore della definizione sia il Gaio delle Res cott. sembrano potersi saldare tra loro, oltre che per il dato fondamentale, da cui abbiamo preso le mosse, costituito dalla presenza nelle stesse Res cott. e dal valore del sintagma vinculum iuris in J.2.23.1 (come abbiamo visto all’inizio del paragrafo precedente), anche alla luce di alcuni dati relativi alla complessiva trattazione sulle obbligazioni nelle Res cott.

In primo luogo, il fatto in sé che la definizione sia stata congegnata non soltanto avendo riguardo, come abbiamo già notato (n. 6), al lato passivo della posizione debitoria, ma, più specificamente, mettendo in risalto come indicazione essenziale l’esistenza di una necessitas solvendi intesa come soggezione all’actio si coordina ottimamente con la circostanza che nelle Res cott. Gaio, diversamente dal disinteresse mostrato nelle Institutiones, illustrando i singoli tipi contrattuali insiste

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sui profili della responsabilità del debitore, 319 è, cioè, sensibile al punto di vista dell’esposizione alla sanzione per l’inadempimento. Si vedano: D.44.7.1.4, in tema di comodato; D.44.7.1.5, riguardante il deposito; D.18.6.2.1, per la compravendita; D.17.2.72, in materia di società; e J.3.14.4, in relazione al pegno, giusta la derivazione, generalmente ammessa, di questo brano dalle Res cott.320

In secondo luogo, la predetta centralità della necessitas solvendi in senso processuale trova perfetta corrispondenza nel fatto che nelle Res cott. in cima all’edificio sistematico delle obbligazioni e di seguito alla definizione compariva una summa divisio tra obbligazioni civili e onorarie (A), la quale era calibrata proprio dal punto di vista della tutela giurisdizionale (B).

A) Il dettato della summa divisio obligationum è conservato in J.3.13.1: ‘Omnium autem obligationum summa divisio in duo genera diducitur: namque aut civiles sunt aut praetoriae. civiles sunt, quae aut legibus constitutae aut certe iure civili comprobatae sunt. praetoriae sunt, quas praetor ex sua iurisdictione constituit, quae etiam honorariae vocantur’. L’orientamento prevalente, in passato come ai nostri giorni, considera questa summa divisio un’escogitazione del compilatore giustinianeo.321 Tale

319 In generale, per l’analisi delle questioni riguardanti la responsabilità in ordine ai singoli contratti nella illustrazione delle Res cott. rinviamo a J.M.COMA FORT, El derecho de obligaciones cit., passim e spec......, (da utilizzare, però, tenendo presente che questo studioso non solo attribuisce le Res cott. ad una mano postclassica, ma trae uno degli indizi in tal senso proprio dal maggior rilievo del tema della responsabilità rispetto al dettato delle Institutiones: supra, n....).

320 Cfr., per tutti, FERRINI, Sulle fonti cit., 386 e, ultimamente, J.M.COMA FORT, El derecho de obligaciones cit., 72s.

321 Cfr., ad es., S.PEROZZI, Le obbligazioni romane cit., 135ss. nt. 1; E.ALBERTARIO, La cosiddetta honoraria obligatio, in Studi di diritto romano cit., III, 29ss. (già in RIL 59, 1926); Corso di diritto romano. Le obbligazioni cit., 125ss., spec. 131ss.; G.SEGRÈ, Obligatio, obligare, obligari cit., 599 nt. 291; S.DI MARZO, I «libri rerum cottidianarum sive aureorum» cit., 20s.; T.MAYER-MALY, Divisio obligationum, in The Irish Jurist, 2, 1967, 378; C.A.CANNATA, Le definizioni romane cit., 148; IGLESIAS, Derecho romano. Historia e Instituciones3, 1993, 333; J.PARICIO, Las fuentes de las obligaciones cit., 59 (pur rilevando l’anacronismo della distinzione); G.MELILLO, Contrahere, pacisci, transigere cit., 70s. (il quale, pure, ammette la classicità della nozione e dell’impiego della terminologia di obligatio in campo pretorio: supra, nt. 41); S.TONDO, Classificazioni delle fonti d’obbligazione, in Labeo 41, 1995, 385s. (su cui v. infra, nt. 352); A.GUARINO, Diritto privato romano cit., 806s. (cfr. quanto constatato per Melillo); NELSON-U.MANTHE, Gai Institutiones III 88-181. Text

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attribuzione è, a nostro avviso, senz’altro infondata. Già vi è stato chi ha opportunamente osservato che il contenuto di J.3.13.1 costituisce un rilievo isolato, che non trova alcun seguito nell’intera trattazione e per il quale i compilatori non avrebbero avuto alcuno specifico interesse.322

Aggiungiamo che è inverosimile che un compilatore delle Institutiones, per quanto potesse prestar attenzione alla storia degli istituti,323 avesse autonomamente escogitato una divisio fondata su un relitto storico qual era, ormai, il dualismo fra ius civile e ius honorarium,324 che, nel caso specifico, non aveva più rilevanza alcuna nemmeno a livello terminologico; e, per di und Kommentar, Studia Gaiana VIII, 1999, 71s.; R.MARTINI, Appunti di diritto privato romano cit., 107 nt. 40; 111 e nt. 47.

Questa attribuzione è stata ed è tuttora sostenuta per lo più senza argomenti specifici e, come sembra, quale ultimo retaggio dell’antica, e ormai superata (supra, n. 8 nt. 182), idea della non classicità dell’obligatio honoraria (v., tuttavia, la posizione del Martini: infra, su ntt. 340-341). Va segnalato, però, che il Perozzi (Le obbligazioni romane cit., 141 nt. 1) e l’Albertario (La cosiddetta honoraria obligatio cit. 30 [= Corso cit., 134]) sono giunti a questa diagnosi anche sulla base del seguente argomento: sarebbe impossibile che la distinzione tra obbligazioni ex contractu ed ex delicto fosse presentata da uno stesso giurista, in un luogo, come ‘summa divisio’ (Gai 3.88), in un altro luogo solo come ‘sequens divisio’ (J.3.13.2), e che, in questo luogo ulteriore, una diversa distinzione (quella tra obbligazioni civili e onorarie) assumesse il ruolo e la qualifica di ‘summa’ («E’ possibile che uno scrittore chiami in un libro sia pure elementare “summa divisio” una data divisione, se ha in mente un’altra divisio superiore a questa?»: E.ALBERTARIO, loc. cit.). L’obiezione – rimasta a tutt’oggi priva di replica (non sono infatti risolutive, in contrario, le notazioni di G.SEGRÉ, Obligatio, obligare, obligari cit., 600 nt. 191) – merita di essere appositamente considerata, specie per noi che attribuiamo le Res cott. allo stesso Gaio. Ebbene, essa è agevolmente superabile sol che si pensi che nelle Institutiones Gaio è esclusivamente interessato al profilo operativo e concreto delle vicende che generano un rapporto obbligatorio, e quindi opportunamente sottopone ai suoi studenti (Gai 3.88) come ‘summa’ la distinzione fra obligationes ex contractu e obligationes ex delicto; e che lo stesso giurista, mutando in un’altra opera la prospettiva e prendendo in considerazione, anzitutto, il punto di vista della sfera ordinamentale che conferisce giuridicità all’obligatio, conseguentemente attribuisce la posizione di vertice al dualismo ius civile – ius honorarium (che nel particolare impianto ‘operativo’ delle Institutiones non rilevava) e colloca solo come seconda scansione la sistemazione imperniata sul concreto fatto che produce il vincolo.

322 W.BUCKLAND, The Main Institutions of Roman Private Law cit., 239; J.A.C. THOMAS, The Institutes of Justinian. Text, translation and commentary, 1975, 199; ID., Textbook of Roman Law cit., 219; VILLERS, Rome et le droit privé, 1977, 315.

323 Sull’interesse dei compilatori delle Institutiones per la storia degli istituti ci limitiamo a rinviare, anche per le indicazioni bibliografiche, a G.FALCONE, Il metodo di compilazione cit., 287 nt. 160 (p. 308ss. con specifico riferimento al compilatore-Teofilo) e a M.VARVARO, Contributo allo studio delle quinquaginta

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più, l’avesse congegnata in modo tale da presentarla agli studenti come attuale 325 e attribuendole, addirittura, il primo rango! 326 Dovette trattarsi, piuttosto, di un’escogitazione più risalente,327 congegnata « quando la distinzione fra i due sistemi aveva ancora valore normativo », 328 che fu mantenuta nelle Institutiones in ragione della predetta sensibilità dei compilatori di quest’opera verso la prospettiva storica (e, forse, al contempo perché le sequenze e gli intrecci di divisiones erano, in generale,

decisiones, in AUPA 46, 2000, 372 nt. 11.324 «Una dicotomia, questa, all’epoca davvero stupefacente»: così,

giustamente, commenta la summa divisio V.GIUFFRÈ, La traccia di Quinto Mucio cit., 84. Non occorre, certo, indugiare appositamente sulla vicenda storica del superamento della contrapposizione tra ius civile e ius honorarium. Solo, riportiamo le recenti parole di M.KASER, ‘Ius honorarium’ und ‘ius civile’ cit., 110s., che ci sembrano incisive: «In der nachklassischen Periode sind die Voraussetzungen für die Antithese von ius civile und ius honorarium endgültig weggefallen. [...] Im Westen konnten die degenerativen, teilweise vulgaristischen Kräfte diesen überholten Dualismus nicht mehr verstehen und haben ihn darum teils vernachlässigt, teils mißdeutet. Aber auch der oströmische Klassizismus findet für unsere Antithese kein reales Anwendungsfeld mehr vor. Er bewahrt sie [...] als bloßes literarisches Relikt ohne lebendige Funktion ».

325 E’ insufficiente il tentativo compiuto dal T.MAYER-MALY, Divisio obligationum cit., 378, sostenitore di un’origine giustinianea della summa divisio, di superare l’ostacolo invocando la ‘classicising attitude’ di Giustiniano: altro è la tendenza ‘classicista’ giustinianea altro è l’escogitazione ex novo da parte dei compilatori di una categoria priva di qualsiasi attualità e la presentazione della stessa come adeguata e innervata nel diritto vigente.

Diverso è il caso in cui, sulla base di affermazioni già presenti nel testo escerpito e, soprattutto, in vista di qualche perdurante diversità di regime (condizioni, entrambe, inesistenti nel caso della divisio di J.3.13.1), un autore d’epoca giustinianea potesse far risaltare meglio un dualismo tra istituti riconducibili al ius civile e all’attività del pretore: è il caso, ad es., dell’esplicitazione del dualismo tra azioni civili e azioni di origine pretoria compiuta in PT.4.12pr. e 1.

326 Laddove, invece, proprio l’anacronismo della divisio ne determinava l’irrilevanza: cfr. C.A.CANNATA, La classificazione delle fonti delle obbligazioni cit., 70.

327 Contro l’attribuzione ad epoca classica non è possibile seguire E.ALBERTARIO, La cosiddetta honoraria obligatio cit., 30, secondo cui un giurista classico non avrebbe potuto scrivere la frase ‘obligationes...quas praetor constituit’ in quanto vigeva il principio ‘praetor ius facere non potest’: è chiaro che il giurista parlava di ‘constituere obligationem’ considerando il profilo, inscindibilmente intrecciato, dell’introduzione di un’azione, la quale, dando tutela alla fattispecie, fornisce al contempo riconoscimento giuridico al rapporto obbligatorio (cfr. le osservazioni di Kaser con specifico riguardo al

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funzionali alle esigenze di una ordinata e organica trattazione elementare).329

Più particolarmente, poi, siamo convinti che, come abbiamo poc’anzi accennato, questa summa divisio obligationum proviene dalle Res cott.330

Questa palingenesi è sostenibile sulla base di indicazioni di vario tipo.Anzitutto, viene in questione il profilo terminologico-stilistico. In

particolare, sono significativi, insieme con altri elementi del testo,331

soprattutto i seguenti dati, che riteniamo stringenti giacché rispondono ad

correlato ‘legibus constitutae’: infra, nt. 352).328 Così M.TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano cit., 511. Cfr. ID., Elementi

di diritto privato romano, 2001, ....329 Che, poi, ulteriormente la summa divisio potesse risultare utile ad

avvertire che, «pur provenendo dal vecchio ius honorarium, erano “obligationes” a tutti gli effetti parificate alle obbligazioni civilistiche» (A.GUARINO, Diritto privato romano cit., 782s.) è plausibile; ma non riterremmo che la divisio stessa sia stata dai compilatori addirittura escogitata ad hoc piuttosto che semplicemente rinvenuta e conservata. Non potrebbe, d’altra parte, leggersi l’uso dei verbi al passato (‘constitutae sunt’, ‘comprobatae sunt’, ‘introduxit’) quale indice di una escogitazione compiuta in un’epoca in cui la produzione degli istituti obbligatori fosse ormai assunta come un’esperienza storicamente conclusa, e, dunque, quale segno di una osservazione retrospettiva giustinianea. Una siffatta conclusione – che, per vero, non ci risulta sia mai stata enunciata – è infatti smentita dall’analoga impostazione del discorso in Gai 4.76 ‘constitutae sunt noxales actiones aut legibus aut edicto praetoris’.

330 Questa attribuzione è stata qua e là avanzata in dottrina, ma sulla base di argomenti insufficienti. Cfr. spec. C.FERRINI, Sulle fonti cit., 385; ZOCCO-ROSA, Palingenesia cit., 108ss.; G.SCHERILLO, Le definizioni romane cit., 110s. (che si basa solo su una corrispondenza linguistica con Gai 3.88 [su cui infra, nt. 242] e sul confronto con il richiamo alla iurisdictio pretoria in J.4.6.3, derivante da Res Cott.); M.KASER, Divisio obligationum cit., 84 nt. 75 (ma senza addurre alcun argomento e, anzi, rinviando per l’interpretazione del testo al citato studio del Mayer-Maly [supra, nt. 324], che, invece, attribuisce il brano al compilatore giustinianeo!); ID., ‘Ius honorarium’ und ‘ius civile’ cit., 14 nt. 48 (in adesione a Ferrini). Ultimamente, sembra disponibile verso questa attribuzione (seguendo il Kaser) V.GIUFFRÈ, La traccia di Quinto Mucio cit., 80 e nt. 164.

331 Ci riferiamo anzitutto alla frase ‘summa divisio in duo (genera) diducitur’. Essa coincide con la formulazione della divisio in Gai 3.88 ‘Nunc transeamus ad obligationes, quarum summa divisio in duas species diducitur’ e in J.4.6.1 ‘Omnium actionum...summa divisio in duo genera deducitur’ (derivante da Res Cott.; v., peraltro, infra, nt. 265); per l’uso di ‘diducere’ cfr., del resto, Gai 1.188; 2.2; 3.182. Inoltre, rileva l’ espressione ‘legibus c o n s t i t u t a e ’, che trova corrispondenza - peraltro, proprio in una medesima prospettiva di dualismo tra fattori nomopoietici - in Gai 4.76 ‘Constitutae sunt autem noxales actiones aut legibus aut edicto praetoris’ (per altri impieghi di ‘constituere’ in

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un complessivo, e personale, usus loquendi:332 a) la sequenza di due relative (‘praetoriae sunt, quas praetor constituit, quae etiam honorariae vocantur’), che abbiamo avuto modo di apprezzare come tipicamente gaiana in sede di ricostruzione palingenetica di J.2.23.1;333 b) la precisazione ‘praetor ex sua iurisdictione’, dal momento che la sottolineatura ‘ex sua iurisdictione’ in aggiunta al riferimento al praetor – estranea, per quel che ne sappiamo, all’uso degli altri giuristi – appare un vero topos stilistico in Gaio;334 c) il lessema ‘comprobatum’, che, in genere poco usato presso i giuristi, soltanto da Gaio è utilizzato anche in relazione a singoli istituti giuridici (Gai 2.117: heredis institutio; D.24.2.2.1 [Gai 11 ad ed. prov.]: verba in repudiis).335

Inoltre, esistono alcune tracce testuali che rivelano non soltanto un generale interesse dell’autore di Res cott. verso la rappresentazione dei diversi istituti alla luce della pluralità delle sfere del ius, 336 ma, soprattutto,

relazione ad un istituto cfr. Gai 3.189 [ma v. anche 3.192 e 223]; 4.16; 4.72; 4.111; 4.171; 4.177; 4.183). Non ci sembra, invece, significativo il fatto - segnalato, cautamente, da G.SEGRÉ, Obligatio obligare obligari cit., 600 nt. 291 - che le parole ‘aut certe’ compaiono anche in Gai 2.180.

332 Per questi elementi del testo, quindi, non è calzante la seguente osservazione del S.PEROZZI, loc.ult. cit.: «data la pratica di Gaio che avevano i compilatori, che cosa di più naturale che scrivessero con termini favoriti di Gaio!» (cfr., in modo più sfumato, G.SEGRÉ, loc. ult. cit.). Si tratta, invero, di un rilievo che, a tutto concedere, potrebbe valere per le sole voci ‘diducere’ e ‘constitutae’ (cfr. nt. prec.) singolarmente considerate.

333 Supra, n. 7 sub 2.334 Cfr. Gai 4.110 (=J.4.12pr.); 4.118 (=J.4.13.7); J.4.6.3; 8; 12; 13 (tutti da

Res cott.); D.33.2.29 (Gai.1 fideicomm.).335 Secondo S.PEROZZI, Le obbligazioni romane cit., 142 nt. 1, all’opposto,

proprio l’uso di ‘comprobatum’ contribuirebbe a mostrare l’origine compilatoria della divisio, e ciò sotto due profili: da un lato, in quanto un giurista classico non avrebbe scritto la ripetizione ‘aut constitutae aut comprobatae’ stante la (pretesa) equivalenza, nel contesto in esame, fra il significato dei due verbi; dall’altro lato, in quanto l’uso di ‘comprobatae’ per ‘constitutae’ sarebbe esclusivo dei giustinianei, a fronte di un impiego classico di ‘comprobare’ nel senso di ‘confermare, dare validità’. Sennonché, è proprio quest’ultimo il valore che il verbo assume nel nostro brano (cfr. supra, nt. 255): il che destituisce di fondamento entrambi i rilievi critici. Oltretutto, il Perozzi non ha tenuto conto dell’uso gaiano di ‘comprobare’ contenuto in D.24.2.2.1, richiamato nel testo.

336 Così, in materia di modi di acquisto del dominium - oltre all’apposita fissazione del dualismo di D.41.1.1pr., di cui diremo nel testo - viene in questione, a proposito dell’acquisto di animali ‘quae terra mari caelo capiuntur’, l’esplicita menzione in D.41.1.3.1 del ius prohibendi del dominus fundi, che può entrare in collisione con la libertà di caccia: ‘Nec interest quod ad feras bestias et volucres, utrum in suo fundo quisque capiat an in alieno.

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una specifica attenzione per la distribuzione delle materie sulla base delle diverse sfere ordinamentali 337 della civitas. In particolare, quest’ultima impostazione, con cui si pone in linea per l’appunto l’impianto di J.3.13.1, si incontra in materia di actiones e in materia di modi di acquisto del dominium. In tal senso depongono, da un lato, J.4.6.3 ‘Sed istae quidem actiones, quarum mentionem habuimus, et si quae sunt similes, ex legitimis et civilibus causis descendunt. Aliae autem sunt quas praetor ex sua iurisdictione comparatas habet tam in rem quam in personam, quas et ipsas necessarium est exemplis ostendere’ (della cui provenienza da Res cott. non

plane qui in alienum fundum ingreditur venandi aucupandive gratia, potest a domino, si is providerit, iure prohiberi ne ingrediatur’ (G.LOMBARDI, Libertà di caccia e proprietà privata in diritto romano, in BIDR 53-54, 1948, 272s.; 304ss. ha ritenuto postclassica la menzione del ius prohibendi del dominus, ma esclusivamente sulla base di una pretesa origine postclassica delle Res cott.; contra, per la classicità del testo cfr., con equilibrate valutazioni, P.VOCI, Modi di acquisto della proprietà, 1952, 13ss. e spec. 17; M.GARCIA-GARRIDO, Derecho a la caza y «ius prohibendi» en Roma, in AHDE 26, 1956, 274ss. [con altra bibl.]; G.POLARA, Le “venationes” cit., 9ss., spec. 15 nt. 12). Ora, per apprezzare, dal punto di vista che qui interessa, questo richiamo occorre tener presente i due seguenti dati. 1) Già nelle Institutiones gaiane era saldamente presente la consapevolezza che il ius gentium può esser integrato, o addirittura modificato, da una statuizione positiva: Gai 1.83; 1.84; 1.85 (cfr. G.LOMBARDI, Sul concetto di “ius gentium”, 1947, 140ss.; T.HONORÈ, Gaius cit., 109s.; WAGNER, Studien zur allgemeinen Rechtslehre des Gaius cit., 198ss., spec. 210ss.; G.ARCHI, «Lex» e «natura» nelle Istituzioni di Gaio cit., .ss. [= Scritti cit., 147ss.]; T.MAYER-MALY, Das ius gentium bei den späteren Klassikern, in IURA 34, 1983, 94; M.KASER, Ius gentium cit., 100 nt. 409); 2) la statuizione positiva del ius prohibendi da parte del dominus fundi dovette essere fissata, con estrema verosimiglianza, in epoca ben anteriore alla stesura delle Institutiones gaiane (cfr., praecipue, M.GARCIA-GARRIDO, op. cit., 301ss.; 309ss.: ultimi due secoli della repubblica; v. anche M.KASER, RPR I2, 425 nt. 6; NELSON, Überlieferung, Aufbau und Stil cit., 322 nt. 38 in fine; l’ipotesi di G.POLARA, op. cit., 15 e nt. 12, secondo cui, invece, il testo delle Res cott. registrerebbe la recentissima innovazione fissata dal rescritto di Antonino Pio riferito da Callistrato in D.8.3.16, non può essere accolta sia perché le parole di D.41.1.3.1 ‘p l a n e ... potest a domino ...prohiberi’ si attagliano, piuttosto, ad una soluzione scontata e indiscutibile e, in sostanza, ad una regola da tempo assodata, sia perché dovremmo ammettere - e ciò appare eccessivo - che un giurista autonomamente trasformasse in un manuale didattico e rendesse in tono deciso un disposto imperiale che, invece, era stato espresso in forma attenuata e prudente: l’imperatore, infatti, si limitava a considerare ‘oÙk eÜlogon’ l’ingresso nel fondo altrui contro il divieto dei proprietari). Ebbene, nonostante queste due premesse, soltanto in Res cott. (cfr., infatti, Gai 2.66) si manifesta l’attenzione per il coordinamento tra il modo di acquisto derivante dal ius gentium (la caccia) ed un istituto, il ius prohibendi appunto, riferibile a diversa matrice nomopoietica.

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è possibile dubitare),338 che fissa una polarità tra actiones che ‘ex legitimis et civilibus causis descendunt’ e actiones direttamente provenienti dalla iurisdictio pretoria;339 dall’altro lato, il testo di D.41.1.1pr. (Gai. 2 r. cott.) ‘Quarundam rerum dominium nanciscimur iure gentium, quod ratione naturali inter omnes homines peraeque servatur, quarundam iure civili, id est iure proprio civitatis nostrae. et quia antiquius ius gentium cum ipso genere humano proditum est, opus est, ut de hoc prius referendum sit’, in cui il dualismo concernente le sfere del ius che costituiscono l’ambito di provenienza degli istituti (in questo caso, ‘modi di acquisto iure gentium - modi di acquisto iure civili’) non soltanto è posto quale perno e criterio sistematico ispiratore dell’intera illustrazione, ma soprattutto – è quel che in questa sede maggiormente rileva340 – viene fissato nelle battute iniziali

Con riguardo, poi, al settore delle successioni, il confronto diretto tra Gai 2.270 (‘Item intestatus moriturus potest ab eo, ad quem bona eius pertinent, fideicommissum alicui relinquere: cum alioquin ab eo legari non possit’) e J.2.23.10 (‘Praeterea intestatus quoque moriturus potest rogare eum, ad quem bona sua vel legitimo iure vel honorario pertinere intellegit, ut...’), rivela che nelle Res cott. Gaio aggiunge un esplicito richiamo al dualismo tra ius legitimum e ius honorarium.

337 Per l’uso di questa terminologia cfr. quanto abbiamo osservato supra, nt. 184.

338 In aggiunta alle semplici indicazioni ‘istae omnes actiones’ (cfr. Gai 4.30) e ‘quarum mentionem habuimus’ (cfr. Gai 4.69), segnalate dal Ferrini (op. cit., 405), orientano verso la scrittura gaiana sia l’inciso ‘et si quae similes essent’ (cfr. Gai 4.24 e 112; per il primo di questi due riscontri cfr. già S.DI MARZO, I «libri rerum cottidianarum sive aureorum» cit., 82 nt. 258), ritenuto invece compilatorio dal Ferrini, sia, soprattutto, il peculiare ricorso al participio passato con il verbo ‘habere’ nell’affermazione ‘aliae ... quas praetor ... comparatas habet’ (cfr. Gai 4.118 ‘Exceptiones autem alias in edicto praetor habet propositas, alias causa cognita accommodat’), nonché l’espressione ‘ex legitimis et civilibus causis’, che compare in J.2.5.6 (‘...exposuimus summatim, quibus modis iure gentium res adquiruntur: modo videamus, quibus modis legitimo et civili iure adquiruntur’), anch’esso derivante con ogni verosimiglianza da Res cott. (C.FERRINI, op. cit., 362). Probabilmente è compilatorio il tratto finale ‘quas et ipsas necessarium est exemplis ostendere’ (C.FERRINI, op. cit., 405).

339 Significativamente, anche in relazione alle formulae praeiudiciales, trattate in coda agli esempi di azioni pretorie, è riproposto il dualismo tra origine civile e origine pretoria: J.4.6.13 ‘Praeiudiciales actiones in rem [...]. Ex quibus fere una illa legitimam causam habet, per quam quaeritur, an aliquis liber sit: ceterae ex ipsius praetoris iurisdictione substantiam capiunt’. Per un cenno cfr., recentemente, G.PROVERA, Lezioni sul processo civile giustinianeo, I-II, 1989, 91.

340 Rinviamo alla predetta ricerca sui primi tre commentari delle Institutiones gaiane l’esame delle possibili ragioni che stanno alla base della diversa organizzazione della trattazione presente nel manuale più antico, sia con

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della trattazione, proprio come noi assumiamo essere avvenuto per il tema delle obligationes. Infine, può forse risultare indicativa l’apertura ‘omnium autem obligationum summa divisio in duo g e n e r a diducitur’, in ragione della singolarità, autorevolmente rilevata, della divisio in genera rispetto al consueto strumentario della logica antica. 341 Invero, questa particolarità, anziché costituire un argomento contro la classicità di J.3.13.1,342 si presta a ricondurre il testo alle Res cott., sulla base di un dato terminologico-concettuale che si rinviene nella trattazione delle Institutiones gaiane sugli interdetti. Si consideri, infatti, che l’esposizione sugli interdetti si articola attraverso una sequenza di divisiones,343 che viene così enunciata: Gai 4.142: ‘Principalis igitur divisio in eo est, quod aut prohibitoria sunt interdicta aut restitutoria aut exhibitoria’; 4.143: ‘Sequens in eo est divisio, quod vel adipiscendae possessionis causa comparata sunt vel retinendae vel reciperandae’; 4.156: ‘Tertia divisio interdictorum in hoc est, quod aut simplicia sunt aut duplicia’. Ebbene, subito dopo aver illustrato l’ultima delle predette divisiones (§§ 157-160), Gaio passa a trattare quel che consegue, a livello procedurale, all’emanazione di un interdetto ed introduce il tema – ecco il punto – nel seguente modo (§ 161): ‘E x p o s i t i s g e n e r i b u s i n t e r d i c t o r u m sequitur, ut de ordine et de exitu eorum dispiciamus rell.’. Da questa locuzione riassuntiva risulta che i singoli membri di ciascuna divisio esposta nei paragrafi precedenti erano concepiti da Gaio quali ‘genera’, onde ogni classificazione avrebbe potuto indifferentemente così presentarsi: ‘(principalis, sequens, tertia) divisio interdictorum in ... genera diducitur, aut ... aut ... ’. Pur se non si tratta di una esplicita fissazione di una divisio in genera, nondimeno una rappresentazione concettuale in siffatta chiave da parte del giurista è rivelata chiaramente; e ciò porta a considerare la presenza della divisio in genera in J.3.13.1 un ulteriore esempio di peculiarità del pensare e dello scrivere gaiani, che, unita alle altre indicazioni, induce ad assegnare il testo alle Res cott. 344

riguardo ai modi di acquisto del dominium sia con riguardo al tema delle obligationes (e delle actiones).

341 R.MARTINI, Appunti di diritto romano privato cit., 111 nt. 47 (v. anche p. 107).

342 Come ritiene R.MARTINI, loc. ult. cit.343 Su questa caratteristica della trattazione gaiana sugli interdetti ci

permettiamo di rinviare al nostro studio Ricerche sull’origine dell’interdetto Uti possidetis, in AUPA 44, 1996, 81ss.

344 Il coordinamento, or ora considerato, tra Gai 4.142-143-156 e 4.161 è tale da conferire peso probatorio anche al testo, derivante dalle Res cott. (cfr.

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A tutto ciò si aggiunga – sul piano delle possibili motivazioni sottese alla fissazione della divisio in esame – che, al di là della complessiva tendenza, poc’anzi richiamata, ad impostare la trattazione delle materie sulla base dei diversi ambiti nomopoietici,345 una forte spinta a segnalare la presenza di obbligazioni pretorie accanto a quelle civili doveva provenire per l’autore delle Res cott., come abbiamo già avuto modo di osservare,346 anche da una circostanza più specifica. Alludiamo all’apposita considerazione di rapporti obbligatori, lasciati fuori dalle Institutiones, che traggono riconoscimento giuridico dalla presenza di una tutela approntata dal pretore: vengono in questione, in particolare, le obligationes derivanti dagli illeciti sanzionati da actiones in factum (D.44.7.5.4-6), che i giustinianei avrebbero poi qualificato quasi-delitti, nonché, almeno, la figura dei cd. patti pretori, che certamente l’autore doveva aver presenti nell’imbastire l’ordito dell’opera, giusta la menzione dell’actio de constituta pecunia nella trattazione sulle actiones; 347 e potrebbe pensarsi anche all’obligatio nascente dal contratto di pegno (D.44.7.1.6), se è vero che fino a tarda epoca classica la relativa protezione era soltanto pretoria.348 Naturalmente, nessun giurista classico, il quale avesse voluto alludere alle diverse sfere ordinamentali che storicamente sono confluite nell’istituto dell’obligatio, avrebbe pretermesso il contributo decisivo apportato, in relazione almeno ai contratti consensuali, dal ius gentium: e infatti, come ha riconosciuto una consolidata tradizione,349 proprio ai rapporti obbligatori

C.FERRINI, Sulle fonti cit., 404; D.LIEBS, Gemischte Begriffe im römischen Recht, in Index 1, 1970, 156 e nt. 102) di J.4.6.1 ‘Omnium actionum ... summa divisio in duo genera deducitur: aut enim in rem sunt aut in personam’.

345 Supra, ntt. 335-339.346 Supra, n. 6.347 Cfr. J.4.6.8, la cui prima parte (‘In personam quoque actiones ex sua

iurisdictione propositas habet praetor, veluti de pecunia constituta’) non lascia dubbi circa la provenienza gaiana. Cfr. C.FERRINI, op. cit., 406.

348 Cfr. M.KASER, Studien zum römischen Pfandrecht II. Actio pigneraticia und actio fiduciae, in TR 44, 1976, 214ss. (ora in id., Studien zum römischen Pfandrecht, «Antiqua» 16, 1982, 78ss.); M.MARRONE, Istituzioni di diritto romano cit., 468; A.GUARINO, Diritto privato romano cit., 867.

349 Oltre alla Glossa, cfr. la Summa Institutionum ‘Iustiniani est in hoc opere’, 27.33-36 e 90.11-18 Legendre; e, fra gli interpreti d’età moderna, BALDUINUS, Iust. Institutionum libri IV, ed. Parisiis 1546, 474; CUJACIUS, Notae in IV libros Institutionum D.N.Justiniani, in Opera ed. Pratii 1836, vol. II, 1086 nt. 4; BORCHOLTEN, In IV libros Institutionum civilium D.Iustiniani Commentaria cit., 367; BASSETUS, Institutiones D.Justiniani Imperatoris ad usum forensem accommodatae, ed. Lugduni 1634, 264; DE LASAIGNE, Synopsis Institutionum Justiniani, ed. Parisiis 1656, 116; OINOTOMUS, In IV Institutionum Imperialium libros commentarium, ed. Venetiis 1673, 261; VINNIUS, In IV libros

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creati dalla prassi del ius gentium e recepiti dal ius civile tramite il filtro dei giuristi dovette riferirsi la menzione delle obligationes che ‘iure civili comprobatae sunt’, accanto a quelle per dir così genuinamente ‘civiles’.350 Il fatto, poi, che Gaio, anziché menzionare esplicitamente il ius gentium accanto al ius civile, lo abbia presentato come ‘recepito’ dal ius civile si coordina con l’esigenza di collegare il contenuto della categoria alla denominazione ‘obligationes c i v i l e s ’; e, d’altra parte, in generale, è risaputo che nella contrapposizione tra ius civile e ius honorarium la sfera del ius gentium si pone come partizione del ius civile.351

La conclusione di tutto ciò è che nelle Res cott. la prima scansione sistematica in tema di obbligazioni è rappresentata dalla dicotomia tra obligationes constitutae dal ius civile e obligationes constitutae dal pretore.352 E possiamo senz’altro ritenere, in ragione del modello Institutionum imperialium commentarius, II, ed. Venetiis 1783, 82s.; PEREZIUS, Institutiones Imperiales erotematibus distinctae, ed. Venetiis 1794, 207; HUBERUS, Praelectionum jurisi civilis tomi III secundum Institutiones et Digesta Justiniani cit., 282s.; WISSENBACH, Disputationes ad Instituta Imperialia, ed. Franekerae 1700, 167; STRUVIUS, Syntagma juris civilis, ed. Francofurti 1718, 467; LAUTERBACH, Collegii theoretico-practici à libro trigesimo nono Pandectarum pars tertia, ed. Tubingae 1725, 567; cfr., altresì, ORTOLAN, Explication historique des Instituts de Justinien, III, 1863, 131.

350 Circa il motivo per cui come unica fonte di tali obligationes è richiamata la ‘lex’ cfr. infra, nt. 352.

351 Cfr., ultimamente, M.TALAMANCA, «Ius gentium» da Adriano ai Severi cit., 210 nt. 63; ID., Rec. a M.KASER, Ius gentium cit., 301).

352 E’ il caso di precisare che contro questa conclusione non potrebbe invocarsi il dato esterno costituito dalla mancanza della summa divisio obligationum nel titolo D.44.7, il quale, pure, si apre con un brano tratto proprio dalle Res cott. e contenente la famosa tripartizione delle causae obligationum: ‘Obligationes aut ex contractu nascuntur aut ex maleficio aut proprio quodam iure ex variis causarum figuriis’. In effetti, proprio come la mancanza della definizione di obligatio (supra, n. 6), anche l’assenza della summa divisio nel titolo D.44.7 può ben dipendere da cause che riguardano non i contenuti del materiale escerpito, bensì il confezionamento del titolo giustinianeo. In particolare, riterremmo che la summa divisio tra obbligazioni civili e obbligazioni onorarie, pur presente nel testo delle Res cott., sia stata omessa in D.44.7 perché appariva insufficiente e inadeguata, trattandosi di un’alternativa sovraordinante che lasciava fuori le obligationes naturales, alle quali, invece, i compilatori del titolo ‘De obligationibus et actionibus’ prestano particolare attenzione. Invero, in D.44.7, dopo il blocco di frammenti gaiani sui tre tipi di fonti di obbligazioni (D.44.7.1; 2; 4; 5), mentre non compare alcun cenno ad obbligazioni qualificate ‘honorariae’, un certo numero di testi riguarda l’ambito delle obbligazioni naturali (per lo più, dal punto di vista dell’esperibilità o meno di un’actio in relazione allo status di alieni iuris): D.44.7.7; 9; 10; 13; 14; 39; 43; 46; 58; e all’interno di questi brani (non importa qui se genuini o meno) non manca un dualismo, esplicito o sottinteso,

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rappresentato da Gai 3.88ss. e dell’orditura presente nel titolo J.3.13, che questo dualismo costituisse la prima informazione specifica nella trattazione delle Res cott. subito dopo le battute di presentazione della materia.

B) Che codesta summa divisio obligationum è impostata dall’angolazione della tutela giurisdizionale lo mostra chiaramente il fatto che, a proposito delle obligationes honorariae, ad esser menzionata è, esplicitamente, la iurisdictio praetoris (‘praetoriae sunt, quas praetor ex sua iurisdictione constituit...’), anziché l’edictum o il ius honorarium; il che implica, evidentemente, che sullo stesso piano della tutela processuale tra la figura di obbligazione civile e quella di obbligazione naturale, talora espresso in chiave di articolazioni del ius: fr. 14 ‘servi ...ex contractibus civiliter non obligantur, sed naturaliter et obligantur et obligant’; fr. 43 ‘...pupillus sine tutoris auctoritate non obligatur iure civili’; fr. 58 ‘Pupillus mutuam pecuniam accipiendo ne quidem iure naturali obligatur’. Diversamente, il compilatore responsabile della trattazione delle Institutiones imperiali sulle obbligazioni non si mostra interessato alla figura delle obligationes naturales (egli si limita a trascrivere in J.3.20.1 - con qualche variante formale, dovuta alla scomparsa delle figure di sponsor e fideipromissor - il testo di Gai 3.119a riguardante la posizione dei fideiussores, in cui compare una semplice menzione dell’obligatio naturalis, che viene data per scontata; né si preoccupa di cucire, all’interno della complessiva trattazione de obligationibus, qualche frammento di altra provenienza che contenesse riferimenti - più espliciti e distesi - alle fattispecie o al regime delle obligationes naturales); e dunque ben poteva accogliere, ponendolo come vertice sovraordinante e onnicomprensivo della fenomenologia delle obligationes, il dualismo tra obbligazioni civili e obbligazioni pretorie. Si aggiunga che i compilatori del titolo D.44.7 potrebbero aver tralasciato la summa divisio tra obbligazioni civili e onorarie anche per il fatto che essa non appariva compatibile con la nota classificazione di Modestino accolta in D.44.7.52 (il testo è trascritto supra, nt. 6 nt. 112), nella quale il riferimento alla lex e all’intervento del pretore sono assunti con un valore del tutto diverso rispetto al dettato di quella summa divisio. Non possiamo seguire lo Scherillo (Le definizioni cit., 114), il quale ha voluto spiegare la mancanza della summa divisio in D.44.7 nello stesso ordine di idee prospettato per l’assenza della definizione di obligatio (supra, n. 6): la summa divisio obligationum sarebbe stata aggiunta in una successiva rielaborazione delle Res cott., posseduta e utilizzata dai compilatori delle Institutiones ma non dai redattori delle Institutiones. A prescindere, ancora una volta, dal giudizio circa la supposta esistenza di due diverse versioni dell’opera circolanti tra i compilatori del Corpus iuris, è assolutamente inverosimile che il dualismo ‘obbligazioni civili-obbligazioni onorarie’ venisse escogitato in epoca postclassica (addirittura, Scherillo non esclude che la pretesa rielaborazione delle Res cott., contenente la summa divisio, fosse stata compiuta da Teofilo!).

Parimenti, non costituisce ostacolo la mancanza di conferme esterne di una circostanza che, evidentemente, della palingenesi qui proposta costituisce il presupposto, e cioè del fatto che, sul finire del II secolo, la qualifica ‘obligatio honoraria’ fosse consolidata al punto da consentire ad un giurista – il Gaio delle Res cott., appunto – di presentare siffatta designazione come scontata

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doveva collocarsi, nella mente del giurista, anche l’indicazione relativa alle obligationes civiles, che, cioè, la figura della lex era richiamata in quanto istitutiva di una forma di tutela che dava riconoscimento giuridico all’obligatio.353

Ebbene, la circostanza che la summa divisio, posta come prima battuta sistematica della materia delle obbligazioni di seguito alla parte introduttiva (comprendente la definizione), è congegnata dal punto di vista della tutela giurisdizionale si raccorda compiutamente con l’idea che la definizione stessa avesse come ratio, per l’appunto, la

(‘...quae etiam honorariae v o c a n t u r ’). Invero, occorre tener conto, da un lato, com’è ovvio, del carattere frammentario del materiale giurisprudenziale pervenutoci, dall’altro lato, del fatto che già Aristone, richiamato da Ulpiano in D.30.28pr., parlava di un legato avente ad oggetto ‘id quod honoraria actione d e b e t u r ’, esprimendo in tal modo (come ha recentemente riconosciuto F.GALLO, La riflessione di Papiniano sul «ius honorarium» cit., 32 e 40) un tutt’uno fra l’actio e l’obligatio, nulla impedisce di ritenere – valutando le cose senza pregiudizi – che nel corso del II secolo la terminologia si fosse stabilizzata anche con immediato e diretto riferimento all’obligatio.

353 In questo modo ben si comprende il riferimento eslcusivo alla lex nel primo membro della dicotomia (‘civiles sunt, quae aut legibus constitutae aut certe iure civili comprobatae sunt’). In effetti, se si esclude la prassi del ius gentium recepita tramite il filtro dei giuristi (cui alludono le parole ‘...iure civili comprobatae’: supra, su nt. 348), agli occhi di un giurista classico era la lex publica a presentarsi come normale alternativa alla iurisdictio pretoria quale strumento di creazione di un’obligatio/actio in personam. Si pensi, ad es., alle XII tavole in relazione a iniuria, furtum, pauperies e sponsio; alla lex Aquilia; alla lex Silia e Calpurnia in relazione al mutuo e, probabilmente, al comodato; alla lex Furia de sponsu; alla lex Publilia; etc. In quest’ordine di idee già M.KASER, Lex und ius civile cit., 170s. ha inteso il dettato di J.3.13.1; cfr. anche, ad altro proposito, M.TALAMANCA, Rec. a KASER, Ius gentium cit., 288.

Segnaliamo che, dal canto suo, S.TONDO, Classificazione delle fonti d’obbligazione cit., 385s., ha ipotizzato che il testo di J.3.13.1, con la sua contrapposizione fra la lex e l’editto pretorio, sarebbe frutto di una reinterpretazione giustinianea della tendenza dei giuristi severiani a considerare la legge o l’editto del pretore quali possibili fonti costitutive di obbligazione, tendenza che trasparirebbe, in particolare, dal frammento di Modestino conservato in D.44.7.52pr. (il testo è riportato supra, in nt. 120): tuttavia, da un lato, non pare possibile mettere in relazione il valore del richiamo alla lex e alla iurisdictio pretoria in J.3.13.1 con il valore, completamente diverso, assunto nei §§ 5 e 6 del frammento di Modestino, dall’altro lato, la summa divisio comprende, in realtà, quale ambito costitutivo di obbligazioni, oltre alla lex e alla iurisdictio anche il ius gentium recepito dal ius civile (supra, nt. 112).

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sottolineatura dell’esistenza di un dovere coercibile attraverso uno strumento processuale.

In terzo luogo, infine, e più particolarmente, vi è qualcosa nella complessiva trattazione delle Res cott. sulle obbligazioni che ben si presta ad aver sollecitato la fissazione di una definizione dell’obligatio in cui la sottolineatura della cogenza processuale recasse con sé un’implicita, ma apposita, distinzione rispetto all’incoercibilità dell’officium. In proposito, bisogna anzitutto tener conto del fatto che, con riguardo alle singole causae obligationum, nelle Res cott. Gaio si mostra attento all’individuazione di ciò che, al livello del concreto comportamento dei protagonisti e di funzione economico-sociale dell’operazione, costituisce il fondamento del rapporto obbligatorio. Così, per quel poco che ci è giunto della trattazione, può notarsi che: il giurista osserva che ‘...pignus utriusque gratia datur, et debitoris, quo magis ei pecunia crederetur, et creditoris, quo magis ei in tuto sit creditum...’ (J.3.14.4);354 in tema di obligatio verbis aggiunge, rispetto alle Institutiones, la concettualizzazione ‘proprio nomine – alieno nomine obligari’ con riferimento all’intervento dei garanti (D.44.7.1.8);355 amplia l’osservazione del fondamento e dell’ammissibilità del mandato, prevedendo anche le ipotesi di mandato ‘mea et aliena gratia’, ‘mea et tua gratia’, ‘tua et aliena gratia’, e, nell’escudere l’ammissibilità del mandato ‘tua tantum gratia’, insiste sulla qualificazione come consilium e sulla impossibilità di obbligarsi ex consilio (D.17.1.2pr.-6);356 ha cura

354 Il probabile intervento successivo – postclassico o giustinianeo – sul seguito del testo non inficia la genuinità di questo passaggio, che deve attribuirsi alle Res cott.: cfr., per tutti, J.M.COMA FORT, El derecho de obligaciones cit., ......

355 Il testo gaiano, peraltro, ha subìto l’intervento compilatorio, che ha circoscritto il discorso alla figura dei fideiussores.

356 D.17.1.2.6 ‘...Tua autem gratia intervenit mandatum, veluti si mandem tibi, ut pecunias tuas potius in emptiones praediorum colloces quam faeneres, vel ex diverso ut faeneres potius quam in emptiones praediorum colloces: cuius generis mandatum magis consilium est quam mandatum et ob id non est obligatorium, quia nemo ex consilio obligatur, etiamsi non expediat ei cui dabatur, quia liberum est cuique apud se explorare, an expediat sibi consilium ’. Parte della dottrina ha negato la classicità del brano, ma esclusivamente come conseguenza dell’asserita origine postclassica delle Res cott. (V.ARANGIO-RUIZ, Il mandato in diritto romano, 1949, 121 e, in adesione, A.WATSON, Contract of Mandate in Roman Law, 1961, 119 e nt. 3; A.GUARINO, Mandatum credendi, 1982, 121ss.; ID., Alle origini del «mandatum credendi», in Estudios Murga, 1994, 653s.); ultimamente, per la classicità almeno della sostanza si è

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di precisare il fondamento dell’obligari con riguardo a ciascuna delle fattispecie rientranti tra le variae causarum figurae (D.44.7.5).357 Ora, questo dato si combina con la circostanza che Gaio, nell’ambito della risaputa riorganizzazione del sistema delle causae obligationum rispetto alla trattazione precedentemente compiuta nelle Institutiones,358 prende in esame nelle Res cott., fra i contratti che determinano il sorgere di un’obligatio re, anche il deposito, il comodato e il pegno (D.44.7.1.4-5; J.3.14.2-3), e, tra le variae causarum figurae, la negotiorum gestio (D.44.7.5pr.; J.3.27.1). Si tratta di operazioni giuridiche le quali, a livello sottostante, sono imperniate sull’officium e sulla fides e, a parte il pegno, sottendono nella normalità dei casi un rapporto di amicitia.359 pronunziato J.H.MICHEL, Gaius et le mandatum mea, tua ou aliena gratia, in RIDA 44, 1997, 298ss. Un dualismo tra ‘consilium’ e ‘obbligatorietà’ (espressa, questa volta, in termini di necessitas relinquendi) si trova pure in un testo ulpianeo in materia di lascito fideicommissario (D.32.11.9, trascritto supra, nt. 287).

357 Particolarmente accurata, da questo punto di vista, è la descrizione relativa alla negotiorum gestio (D.44.7.5pr.): cfr., praecipue, A.CENDERELLI, La negotiorum gestio. I. Struttura, origini, azioni, 50ss.

358 Cfr., per un cenno, supra n. 6.359 Con riguardo al deposito, disponiamo, anzitutto, di alcune significative

attestazioni di Cicerone: decisa e lapidaria è l’affermazione fin. 3.59 ‘in officiis ponatur depositum reddere’; più articolato è il coordinamento tra la restituzione della cosa e le sfere dell’honestum, della fides, dell’officium in off. 1.31 e 3.95, testi che considereremo appositamente infra, n. 16 sub 3. Quanto al materiale giurisprudenziale, si veda la sottolineatura della fides come fondamento dell’intera operazione del depositum da parte di Ulpiano in D.16.3.1pr. (30 ad ed.) ‘Depositum est, quod custodiendum alicui datum est, dictum ex eo quod ponitur: praepositio enim «de» auget positum, ut ostendat totum fidei eius commissum, quod ad custodiam rei pertinet’ (cfr. anche, se il riferimento è genuino, il § 4); nonché i riferimenti alla fides in D.16.3.5pr. (esperire l’actio depositi directa equivale ad ‘agere de fide rupta’) e al ‘fidem sequi’ in D.4.9.1.1; 42.5.24.2; 45.2.9pr.

Con riguardo al comodato, valgano le attestazioni di Papiniano in D.45.2.9pr., ove è richiamata la fides dell’accipiente (‘Eandem rem apud duos pariter deposui utriusque fidem in solidum secutus, vel eandem rem duobus similiter commodavi rell’; è chiaro che il ‘similiter’ allude alla presupposto ‘utriusque fidem in solidum secutus’ subito prima menzionato per il deposito) e di Paolo in D.13.6.17.3, che, osservando l’opposta prospettiva del dante, riconduce esplicitamente il comodato al beneficium e all’officium (cfr. infra, n. 18).

Per il comodato, il pegno ed il mutuo congiuntamente rileva la celebre affermazione di D.12.1.1.1 che considera queste operazioni come imperniate sul fidem sequi da parte di chi consegna una res ad un terzo (non importa qui se tale rappresentazione risalga a Celso o ad Ulpiano: cfr., per l’intera questione, A.SACCOCCIO, Si certum petetur cit., ....ss., il quale, dal canto suo, proponde per l’attribuzione al giurista severiano).

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Ciò significa che il nostro giurista, attento in quest’opera a riflettere sul fondamento e sull’essenza delle singole vicende obbliganti, aveva a che fare – oltre che con negozi già contemplati nelle Institutiones e pur essi significativi in tal senso, quali il mutuo, i contratti consensuali e soprattutto il mandato360 – con istituti che particolarmente si prestavano a stimolare la consapevolezza dell’esistenza di quei vincula di altra natura, che davano luogo ad obblighi e doveri e che, come abbiamo visto, erano anch’essi predicati in termini di ‘obligare’,

Infine, per la negotiorum gestio cfr. i riferimenti al rapporto di amicitia in D.3.5.5.8; 3.5.36(35); 3.5.3.9 (ove l’ ‘affectio’ corrisponde all’ ‘affectio amicalis’ di D.17.1.10.7); 20.6.1pr.; 26.7.39.2; 34.5.5; 42.5.23 (‘officium amicitiae’); all’officium in 3.5.35(34)pr.; e alla pietas in D.3.5.26.1; 3.5.33. Ma cfr. anche Cic., top. 10.42 ‘Si tutor fidem praestare debet, si socius, si cui mandaris, si qui fiduciam acceperit, debet etiam procurator’; nonché la riconduzione all’idea di beneficium in Sen., ben. 3.19.1; 5.18 (in fine); 5.19.1 (cfr. A.MANTELLO, ‘Beneficium servile’ cit., 424). Per altre fonti cfr. H.H.SEILER, Der Tatbestand der negotiorum gestio im römischen Recht, 1968, 38ss.

360 Per il mutuo si v. D.12.1.1.1, richiamato alla nt. prec., nonché i riferimenti ciceroniani alla fides rerum creditarum (off. 2.78; 84) e le notazioni di Sen., ben. 3.14.2, 7.16.3, 7.19.2. Un’apposita citazione merita, poi, la seguente osservazione del giurista Africano (riportata in Gell. N.A. 20.1.41), addotta per giustificare la durezza delle sanzioni dcemvirali contro il debitore inadempiente: ‘Hanc autem fidem maiores nostri non modo in officiorum vicibus sed in negotiorum quoque contractibus sanxerunt maximeque in pecuniae mutuaticae usu atque commercio...’. D’altra parte, proprio con riguardo all’operazione del dare a mutuo si era consolidata quella tradizionale contrapposizione tra creditum e beneficium ripresa negli scritti di Cicerone e di Seneca, che, come abbiamo detto, Gaio doveva con ogni verosimiglianza avere ben presenti.

Per i contratti consensuali in blocco è appena il caso di segnalare la centralità dell’elemento della fides (bona) e, con specifico riguardo a Gaio, l’esplicito collegamento con la sfera del ‘bonum et aequum’ in Gai 3.137.

Con riferimento al mandato, una consolidata tradizione parte da Cicerone (Sext. Rosc. 111-112, trascritto supra, nt. 256), per giungere, passando per Giavoleno (‘officium’ in D.17.1.36.2), Papiniano (‘fides’ in D.17.1.57 e 46.1.52.2) e Africano (‘officium’ in D.47.2.62(61)5), fino ad Ulpiano (che parla di ‘fidem liberare’ in D.17.1.12.9; e si preoccupa di distinguere il vero e proprio mandatum dalla commendatio legata all’amicitia: D.17.1.12.12 ‘cum quidam talem epistulam scripsisset amico suo: ‘rogo te, commendatum habeas Sextilium Crescentem amicum meum’) e a Paolo, il quale parla di ‘fidem praestare’ (D.17.1.22.5), mette insieme officium e amicitia in relazione all’origine del mandatum (D.17.1.4.4: ‘Mandatum nisi gratuitum nullum est: nam originem trahit ex officio et amicitia rell.’) e considera un’operazione del tipo ‘facio ut facias’, ricondotta ad una sorta di mandato, come un ‘mutuum officium praestare’ (D.19.5.5.4; codesta espressione, pur in un contesto che sembra fortemente affetto da interventi compilatori, appare genuina e pregnante, specie se confrontata con Cic., Sext. Rosc. 111 ‘commune

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‘debere’ e simili; e, per questa via, a sollecitare l’esigenza di precisare che, rispetto a tali legàmi, l’obligatio in senso tecnico era un vincolo diverso, che impegnava a compiere prestazioni coercibili in forza di un’actio.

Al riguardo, peraltro, si tenga conto che lo stesso Gaio proprio in relazione al deposito e comodato offre un paio di attestazioni assai significative. Segnatamente, quanto al deposito, è indicativo il fatto che nella relativa esposizione compiuta nelle Res cott. Gaio identifica il

commodum mutuis officiis gubernetur’: cfr. F.CANCELLI, Saggio sul concetto di officium cit., 361 e I.CREMADE UGARTE, El officium cit., 107s.). In questa dorsale si colloca lo stesso Gaio, con la seguente notazione ‘Qui mandatum suscepit, si potest id explere, d e s e r e r e p r o m i s s u m o ff i c i u m non debet, alioquin quanti mandatoris intersit damnabitur: si vero intellegit e x p l e r e s e i d o ff i c i u m non posse, id ipsum cum primum poterit debet mandatori nuntiare, ut is si velit, alterius opera utatur: quod si, cum possit nuntiare, cessaverit, quanti mandatoris intersit tenebitur: si aliqua ex causa non poterit nunitare, securus erit’ (D.17.1.27.2 - Gai. 9 ad ed. prov., su cui si veda l’incisivo commento di G.NEGRI, La clausola codicillare cit., 244ss.). In generale, su questo profilo del mandato cfr., fondamentale, D.NÖRR, Mandatum, fides, amicitia cit., passim (ove, però, non tutte le fonti qui citate vengono prese in considerazione); da ultimo, J.M.RIBAS ALBA, «Mandatum post mortem», in SCDR 14, 2002, 57ss.

Si aggiunga che anche con riferimento alla stipulatio di operae del liberto Gaio espressamente indica l’officium quale assetto etico-sociale sottostante: D.38.1.22pr. (Gai. 14 ad ed. prov.) ‘Cum patronus operas stipulatus sit, tunc sciliscet committitur stipulatio, cum poposcerit nec libertus praestiterit. Nec interest, adiecta sint haec verba ‘cum poposcero’ an non sit adiecta: aliud enim est de operis, aliud de ceteris rebus. Cum enim operarum ediitio nihil aliud sit quam o ff i c i i p r a e s t a t i o , absurdum est credere alio die d e b e r i o ff i c i u m , quam quo is vellet, cui praesatndum est’. Su questa testimonianza cfr., per tutti, W.WALDSTEIN, Operae libertorum. Untersuchungen zur Dienstpflicht freigelassener Sklaven, 1986, spec. 265ss. e C.MASI DORIA, Civitas Operae Obsequium. Tre studi sulla condizione giuridica dei liberti, 1993, 57ss.

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depositario tout court con un amicus; 361 quanto al comodato, si legga il seguente brano:

D.47.2.55.1 (Gai 13 ad ed. prov.) Eum, qui quod utendum accepit ipse alii commodaverit, furti obligari responsum est. ex quo satis apparet furtum fieri et si quis usum alienae rei in suum lucrum convertat. nec movere quem debet, quasi nihil lucri sui gratia faciat: species enim lucri est ex alieno largiri et b e n e fi c i i d e b i t o r e m sibi adquirere. unde et is furti tenetur, qui ideo rem amovet, ut eam alii donet. 362

Il testo è per noi particolarmente importante per due ragioni: da un lato, in quanto vi compare come pacifica e scontata una raffigurazione dell’operazione del commodare in termini di beneficium;363 dall’altro lato, e ancor più, in quanto esso mostra che Gaio, parlando di chi riceve una cosa in comodato come di un ‘beneficii debitor’, è pienamente consapevole, e si serve egli stesso, di quella concettualizzazione del ‘debere’ con riguardo al beneficium che costituisce, come si ricorderà, una costante terminologico-concettuale delle riflessioni sugli officia di Cicerone e di Seneca.364 Ciò significa che Gaio non soltanto assume l’esistenza di un collegamento funzionale tra la figura del comodato ed il

361 D.44.7.1.5 (Gai. 2 aur.) ‘Is quoque, apud quem rem aliquam deponimus, re nobis tenetur: qui et ipse de ea re quam acceperit restituenda tenetur. sed is etiamsi neglegenter rem custoditam amiserit, securus est: quia enim non sua gratia accipit, sed eius a quo accipit, in eo solo tenetur, si quid dolo perierit: neglegentiae vero nomine ideo non tenetur, quia qui neglegenti amico rem custodiendam committit, de se queri debet...’. Il testo è conservato con alcune variazioni anche in J.3.14.3, ove il tratto che a noi specificamente interessa è così formulato: ‘quia, qui neglegenti amico rem custodiendam tradit, suae facilitati id imputare debet’.

Se si potesse assumere come appartenente al testo delle Res cott., anziché ad un intervento compilatorio, sarebbe significativa anche la seguente notazione di J.3.26.13 ‘Et ut generaliter dixerimus,quibus casibus sine mercede s u s c e p t o o ff i c i o mandati aut d e p o s i t i contrahitur negotium, his casibus interveniente mercede locatio et conductio contrahi intellegitur’.

362 La genuinità del tratto per noi fondamentale ‘nec movere – donet’ è stata opportunamente difesa da B.ALBANESE, La nozione del furtum da Nerazio a Marciano, in AUPA 25, 1956, 159ss. (contro i sospetti di Huvelin). Lo stesso Albanese, invece, aggiungendo altre riflessioni alle riserve avanzate dal Beseler, considera spurio il tratto ‘ex quo – convertat’, ai nostri fini irrilevante.

363 In questo senso, oltre all’impiego del termine beneficium, è indicativo anche il verbo ‘largiri’.

364 Supra, n. 11 sub V.

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binomio officium-beneficium (come avrebbe fatto, più tardi, Paolo),365 ma si immette in una tradizione culturale di applicazione della semantica propria dei rapporti obbligatori al fenomeno del beneficium. Quest’ultima circostanza doveva ancor più sensibilizzare lo stesso giurista verso una esigenza di differenziazione dell’obligatio vera e propria da altre fenomenologie pur esse avvertite e predicate in chiave di ‘obligare’.366

15. ‘Solvere aliquam rem’.

Con il quadro che si è venuto fin qui componendo si armonizza compiutamente anche l’ indicazione ‘alicuius solvendae rei’.

Per mostrare questa circostanza è necessario, anzitutto, chiarire il significato di queste parole.

Abbiamo in precedenza segnalato (n. 9, sub c) che una delle critiche avverso l’efficacia della definizione si appunta proprio sul fatto che il comportamento che deve assumere il debitore è indicato attraverso l’espressione ‘solvere aliquam rem’, la quale, comunque venga intesa – in senso ampio o come riferentesi esclusivamente alle prestazioni di dare rem – desta perplessità tra gli studiosi.

La nostra opinione è che questa locuzione alluda al compimento di una prestazione dovuta, sia essa un dare, un facere o un non facere, un praestare; e che si tratti di una terminologia tecnica e puntuale, la quale, pur potendo anche apparire all’odierno lettore come approssimativa e generica, doveva risultare, all’epoca in cui la definizione fu coniata, giuridicamente significativa.

Per vero, a sostegno di una portata onnicomprensiva delle parole ‘alicuius solvendae rei’ non sono stati a tutt’oggi portati elementi di qualche consistenza. Non è, infatti, concludente addurre l’esistenza di brani in cui a comparire con accezione ampia è il verbo in sé ‘solvere’.367

Quel che occorre valutare è, piuttosto, il significato che questo verbo

365 D.13.6.17.3, su cui infra, n. 18.366 Sul punto cfr. anche infra, n. 18 in sede di osservazioni conclusive.367 In questo senso, ad es., G.SCHERILLO, Lezioni sulle obbligazioni cit., 28 (che

richiama Gai 3.168) e C.CANNATA, Le definizioni cit., 144s. (con riferimento a D.42.1.4.3; 46.3.54; 50.16.47; 50.16.176). In termini generali e senza addurre fonti, già G.SEGRÈ, Obligatio, obligare, obligari cit., 544/545 nt. 127, e, di recente, G.PUGLIESE, Istituzioni cit., 508.

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assume in unione con il sostantivo ‘res’, in locuzioni quali ‘solvere rem’, ‘res soluta’ e simili; e da questo punto di vista i testi conservati nel Digesto segnano un punto in favore della lettura restrittiva, giacché le predette espressioni vi compaiono costantemente con riguardo a ‘res’ intesa in senso concreto come ‘cosa’, in relazione a fattispecie nelle quali è questione di dare (in proprietà o in consegna) o restituire una singola cosa o un complesso di cose.368

E tuttavia, l’uniformità di queste attestazioni non è, da sola, idonea a mostrare che questo fosse l’unico significato con cui un giurista classico poteva usare l’espressione ‘solvere rem’. Nel congegnare la definizione Gaio ben potrebbe aver ripreso una diversa accezione tecnica parimenti diffusa, della quale, tuttavia, non è rimasta traccia alcuna a livello di documentazione classica trasmessa nel Digesto. Del resto, si ricordi che il sintagma ‘necessitas solvendi’ era diffuso in ambiente giuridico già almeno agli inizi del I secolo d.C. e, tuttavia, esso affiora nell’intero corpus giurisprudenziale a noi pervenuto soltanto in un frammento celsino (supra, n. 13).

Ma soprattutto, al di là di siffatta concessione sul piano della mera ammissibilità, l’esistenza di una nozione di tecnica di ‘solvere rem’ come esprimente il compimento di una prestazione dovuta, a prescindere dal concreto contenuto della stessa, è rivelata da alcune fonti, che ne attestano la risalenza almeno agli ultimi due secoli della repubblica.

Viene in questione, anzitutto, uno dei formulari utilizzati nel complessivo rituale della dichiarazione di guerra, del quale abbiamo notizia attraverso la narrazione liviana.369

In particolare, i verba che qui interessano fanno parte della domanda che il rex rivolgeva ai patres in seguito all’infruttuoso esperimento della condictio compiuta dal pater patratus lungo il confine:

368 D.3.5.49; 4.9.1.7; 5.3.16.7; 12.6.15pr. e 2; 12.6.26.4; 13.5.1.5; 17.1.50.1; 20.1.13.2; 23.3.25; 24.1.63; 32.20; 35.2.16; 36.4.13; 45.1.141.5; 45.2.19; 46.3.20; 46.3.46pr.-1; 46.3.98pr.; 2; 3; 50.12.2pr.; Gai 2.83. Ha, dunque, ragione, a questo proposito, E.ALBERTARIO, Le definizioni romane cit., 14 e nt. 3; ID., Corso di diritto romano cit., 171; contra, ma senza (poter) addurre testi, C.CANNATA, Le definizioni cit., 144.

369 La più recente e scrupolosa analisi degli elementi orali e gestuali del complessivo rito della dichiarazione di guerra si deve a B.ALBANESE, “Res repetere” e “bellum indicere” nel rito feziale (Liv. 1,32,5-14), in AUPA 46, 2000, 5ss.

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Liv. 1.32.11 “Quarum rerum litium causarum condixit pater patratus populi Romani Quiritium patri patrato Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis, quas r e s nec dederunt n e c s o l v e r u n t nec fecerunt, quas r e s dari fieri s o l v i oportuit, dic [...] quid censes? ”

L’appartenenza delle espressioni ‘res (nec) solverunt’ e ‘res solvi (oportuit)’ ad un formulario risalente ad una fase storica molto antica (se non anche ad epoca regia) è stata ultimamente difesa, crediamo in modo persuasivo, dall’Albanese.370 Ma quand’anche si volesse pensare ad un inserimento più recente, compiuto da antiquari del III-II secolo a.C.,371

che certo dovevano riprodurre una concettualizzazione diffusa ai loro tempi, ci troveremmo, comunque, di fronte ad un riscontro d’età mediorepubblicana.

Non è possibile stabilire quale dovette essere il significato preciso che questa espressione aveva al momento in cui è stata congegnata quale parte dei verba rituali.372 Quel che è sicuro, tuttavia, è che ci troviamo di fronte ad un formulario tecnico, nel quale il solvere rem è attività distinta ed ulteriore rispetto al dare rem e al facere rem, ai quali si trova accostato. Proprio in ragione della non coincidenza tra il ‘solvere rem’ ed attività più concretamente indicate con il dare ed il facere, questo segmento del formulario giuridico-religioso dovette facilmente condurre – ove non fosse già esso stesso il portato di una tale rappresentazione – all’affermarsi di un concetto tecnico di ‘solvere rem’ quale realizzazione di una condotta avvertita come giuridicamente dovuta, quale che fosse il concreto contenuto della stessa.

370 B.ALBANESE, “Res repetere” e “bellum indicere” cit., spec. 30ss. 371 In particolare, le parole in questione sono state ritenute frutto di

ammodernamento da parte di OGILVIE, A commentary on Livy: Books 1-5, 1965, 133; una diagnosi, questa, che nella dottrina sucessiva viene talvolta data per scontata ed assunta senza specifica motivazione o appositi richiami (un esempio recente è in R.FIORI, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, 1996, 159).

372 Di recente, le parole ‘res nec dederunt nec solverunt nec fecerunt, quas res dari fieri solvi oportuit’ sono state intese da M.BRETONE, I fondamenti del diritto romano cit., 52, ma senza apposito approfondimento, nel seguente modo: “cose che essi non consegnarono, né misero a disposizione né restituirono, ma che era loro obbligo consegnare, mettere a disposizione, restituire”. Dal canto suo, B.ALBANESE, “Res repetere” e “bellum indicere” cit., 34 parla di ‘solvere res’ come di «“consegnare cose” (o “liberare persone”?)».

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Certo è, in effetti, che alcuni brani plautini – e veniamo così alle altre testimonianze – mostrano che siffatta concettualizzazione era ormai senz’altro acquisita al linguaggio giuridico dei rapporti inter privatos. Si tratta di alcuni passaggi del Curculio (vv. 379, 553, 618, 722) e in uno dell’Aulularia (v. 525), nei quali le espressioni ‘rem solvere’ e ‘res soluta’ non possono non intendersi come riproposizione di una terminologia tecnica373 e si riferiscono al compimento di una prestazione dovuta.

Consideriamo, per primo, il riscontro offerto da Curc. 553. Therapontigonus chiede indietro le trenta mine consegnate al tarpezita Lyco (535s.: ‘...properas dare triginta minas quas ego apud te deposivi...’); Lyco risponde che non deve nulla (‘nil debeo’; ‘nec tu me ...umquam subiges redditum ut reddam tibi, nec daturus sum’), asserendo di aver già restituito ad un liberto che gli aveva esibito una lettera (‘liberto tuo ... reddidi, qui has tabellas opsignatas attulit’) a tal fine scritta dallo stesso Therapontigonus (vv. 537-550); quest’ultimo apostrofa Lyco per aver prestato fede ad una lettera falsa, che egli non aveva mai scritto (v. 551); ma Lyco replica che non v’era motivo di non uniformarsi ad una pratica seguita negli affari pubblici e privati (v. 552) e conclude, ponendo fine alla discussione: ‘Ego abeo; tibi res solutast recte’ (v. 553). Evidentemente, la presenza del dativo ‘tibi’ impedisce di attribuire al sintagma ‘rem solvere’ il significato generico di ‘concludere la vicenda, l’affare’ (altrove attestato in Plauto):374 l’affermazione ‘tibi res solutast recte’ – tenuto conto anche del generale contesto – non può che intendersi in chiave giuridica. Ebbene, il fatto che la concreta menzione del denaro oggetto della restituzione e le più puntuali indicazioni ‘dare’ e ‘reddere’, pur ricorrenti nel corso del dialogo, lasciano il posto ai lessemi (tra loro congiunti) ‘res’ e ‘solvere’ porta a leggere quest’ultimi come prestiti dal linguaggio giuridico e, più precisamente, porta ad intendere le parole ‘tibi res solutast recte’ come espressione tecnica significante “nei tuoi confronti l’adempimento è stato compiuto correttamente”.375

373 In altri luoghi le espressioni in esame ricorrono in un’accezione atecnica, con il significato generico di conclusione di una vicenda o disbrigo di un affare: cfr., Asin. 219; 321 e, forse, 454; Poen. 1354; Pseud. 630; Rud. 1413 e, forse, 558.

374 Cfr, la nt. prec.375 Da questo punto di vista il testo va aggiunto a quelli che M.PIANTELLI, Una

ricerca su «ritus» in epoca arcaica, in St. Grosso, VI, 1974, 300 nt. 412, indica come riscontri di un ‘uso solenne’ di ‘recte’ nelle commedie plautine: Epid. 292 ‘hic poterit cavere recte iura qui et leges tenet’ e Trin. 872 ‘iuratori recte

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Analoghe conclusioni si traggono dal v. 618. Therapontigonus ribadisce l’appartenenza a sé di una ancilla, che, invece, Phaedromus ritiene libera. Alla domanda di Phaedromus ‘Quis tibi hanc dedit mancupio aut unde emisti?’ (v. 617), egli così risponde: ‘Ego quidem pro istac rem solvi ab tarpezita meo; quam ego pecuniam quadruplicem aps te et lenone auferam’. Il ricorso al sintagma ‘solvere rem’ al posto di un concreto richiamo al pagamento di una somma di denaro compiuto dal tarpezita376 rivela, a nostro avviso, che tale sintagma costituiva un’espressione ormai stereotipata per indicare il compimento di un’attività giuridicamente dovuta.377

Un ulteriore riscontro si trova verso la conclusione della commedia (v. 722). Therapontigonus affronta il lenone Cappadox (vv. 686ss.), pretendendo il pagamento del denaro che questi si era impegnato a restituire nel caso in cui l’ancella fosse stata rivendicata come libera (v. 709s.: ‘Promistin, si liberali quisquam hanc adsereret manu,/ te omne argentum redditurum?’). Il lenone cerca (invano) di resistere, e, messo alle strette da una sentenza pronunziata da Phaedromus (vv. 715ss.: ‘Nunc adeo, ut tu scire possis, leno, meam sententiam, libera haec est...tu huic argentum redde; hoc iudicium meum est’), invita Therapontigonus a seguirlo in tribunale: ‘...ad praetorem; nam inde rem solvo omnibus quibu’ debeo’ (v. 722). A prescindere dall’esatto significato del richiamo al praetor,378 quel che conta ai nostri fini è che l’espressione ‘rem solvo omnibus quibus debeo’ ricorre in un’accezione giuridica, come risulta dal

rationem dedi’ (meno probanti ci sembrano Amph. 583 ‘valeo et salvus sum recte’ e Trin. 1155 ‘deos volo consilia vostra recte vortere’, parimenti addotti dal predetto studioso).

376 Alla pecunia versata si richiama il verso successivo, ove il riferimento è al pagamento del quadruplo a titolo di condanna nell’actio furti (‘q u a m pecuniam quadruplicem ...auferam’).

377 Si consideri, peraltro, che l’impiego delle parole in esame ricorre in un contesto, i vv. 616-626, particolarmente denso di riferimenti tecnico-giuridici: dal manumittere al mancipare e all’emere, dal quadruplum dell’actio furti all’in ius vocatio con tanto di antestari.

378 Non sapremmo se questo invito a recarsi presso il pretore sia da intendere nel senso che la restituzione del denaro sarebbe avvenuta in iure per evitare future contestazioni - così A.PETRUCCI, Mensam exercere. Studi sull’impresa finanziaria romana (II secolo a.C. – metà del III secolo d.C.), 1991, 81 - ovvero nel senso che il lenone si prefigge di mettere in discussione la pretesa o, ancora, di farsi dichiare fallito dal pretore (come ritengono, in genere, i traduttori del testo) e, dunque, di evitare la restituzione. Ad una di queste due ultime interpretazioni potrebbe far pensare l’immediata replica di Therapontigonus (v. 723): ‘Ego te in nervom, haud ad praetorem hinc rapiam, ni argentum refers’.

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contesto, e, soprattutto, che essa ha una portata ampia, la quale trascende il singolo adempimento richiesto dall’interlocutore e mostra come ‘rem solvere’ indicasse, in generale, l’effettuazione di una prestazione.

Una volta acquisiti i riscontri che precedono, possiamo apprezzare anche il riferimento contenuto in Curc. 379. Nei versi 371ss. il tarpezita Lyco compie una riflessione sulla propria situazione contabile:

‘Beatus videor. Subduxi ratiunculam,quantum aeris mihi sit quantumque alieni siet.Dives sum, si non reddo eius quibu’ debeo.Si reddo illis quibu’ debeo, plus alieni est.Verum hercle vero quom belle recogito,si magi’ me instabunt, ad praetorem sufferam.Habent hunc morem plerique argentarii,ut alius alium poscant, reddant nemini,pugnis rem solvant, siquis poscat clarius.’

E’ di immediata evidenza che quasi ogni verso contiene riferimenti ad operazioni giuridico-contabili e ad istituti giuridici. Non solo; ma compare anche qui la menzione del praetor che abbiamo appena constatato nei versi finali della stessa commedia, là dove il presentarsi dinanzi al pretore era collegato al compimento del solvere rem da parte del debitore. Ebbene, queste due circostanze, unitamente al constatato ricorrere nella commedia di ‘solvere rem’ in relazione all’adempimento di un debito, induce a leggere in quest’ottica anche le parole ‘pugnis rem solvant’ del v. 379. In particolare, è verosimile che Plauto abbia giocato con una pluralità di significati dell’ablativo ‘pugnis’: l’affermazione ‘pugnis rem solvant’, infatti, si prestava ad esser percepita dall’uditorio non tanto o non soltanto nel senso che gli argentarii, se qualcuno reclamerà il denaro con più insistenza, ‘risolveranno la faccenda a pugni’ (il che, per vero, non avrebbe molto senso), ma, al contempo, nel senso che essi ‘adempiranno con qualche manciata di denaro’ (cioè con un mucchietto di monete, ‘pugnus aeris’, evidentemente in misura inferiore al dovuto),379 e, ancora, ‘effettueranno

379 Cfr. Oxford Latin Dictionary, v. ‘Pugnus’, sub b), ove sono citati Rhet. Her. 4.9; Sen., Dial. 5.33.3 e Petr. 66.7.

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l’adempimento ricorrendo a contese giudiziarie’380 (allusione, quest’ultima, che ben si coordinerebbe con il riferimento al pretore).

L’ultima attestazione plautina che dobbiamo considerare è costituita da Aul. 525. Nei vv. 475ss. Megadorus lamenta gli svantaggi e le spese enormi che derivano dai matrimoni in cui la donna porta una considerevole dote: la donna pretenderà una serie di regali e di servizi che costano parecchio, onde il marito si vedrà pressato da una folla di persone che pretendono il relativo pagamento. E alla fine, ‘Ubi nugigerulis res soluta est omnibus,/ibi ad postremum cedit miles, aes petit’ (vv. 525s.). Anche in questo caso ci sembra che l’espressione ‘res soluta est omnibus’, a fronte di un più specifico riferimento alla consegna del denaro, rifletta una terminologia giuridica e vada intesa come ‘una volta che è stato adempiuto a tutti’.

Poco importa che gli impieghi plautini si riferiscono, in ragione delle vicende messe in scena, ad operazioni consistenti nel dare o nel restituire una somma di denaro. ‘Rem solvere’ (come pure ‘res soluta’) figura nei versi in questione come espressione che astrae sia dal contenuto del comportamento dovuto, ‘dare’ o ‘reddere’, sia dall’oggetto materiale dello stesso, ‘aes’, ‘pecunia’, ‘minae’: contenuto ed oggetto che – si badi – negli altri versi, anche limitrofi, vengono invece indicati dal commediografo con quei termini concreti. Il significato di ‘rem solvere’ appare, in sostanza, quello di ‘compiere la prestazione dovuta’ o, più semplicemente, ‘adempiere’.

In definitiva, mettendo insieme il fatto che in un antico formulario giuridico-religioso, quale i verba della belli indictio, ‘res solvere’ figura come attività distinta rispetto a ‘res dare’ e a ‘res facere’, e il fatto che nei versi plautini ‘rem solvere’ e ‘res soluta’ sono locuzioni utilizzate, in contesti e con accezione di chiara ispirazione giuridica,381 al posto di un concreto riferimento al dare o al reddere una somma di denaro,382

380 ‘Pugnis’ da ‘pugna’, nel senso di «conflict in words or actions (esp. apllied to the activity of the law-courts)»: Oxford Latin Dictionary, v. ‘Pugna’, sub 3). L’impiego di ‘pugna’ in relazione alle contese giudiziarie è espressamente attestato in Plauto: cfr. Capt. 63.

381 E’ appena il caso di esplicitare che, con riguardo alla presenza delle locuzioni ‘rem solvere’ e ‘res soluta’ i n s é p r e s e , la classica questione della riferibilità delle allusioni giuridiche plautine al diritto romano o al diritto attico non ha ragion d’essere.

382 Diversamente, nelle testimonianze giurisprudenziali contenenti il sintagma ‘solvere rem’, che abbiamo indicate in nt. 366, non si verifica questo scarto tra la designazione ‘res’ e l’oggetto concreto della prestazione: questo oggetto, infatti, consiste in una ‘cosa’, non in una somma di denaro (come nei luoghi

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sembra legittimo giungere alla seguente conclusione: ‘solvere rem’ dovette cristallizzarsi, a partire almeno dagli ultimi due secoli della repubblica, come designazione tecnica dell’adempimento tout-court, indicante il compimento di una prestazione giuridicamente dovuta, riferibile a qualsiasi tipo di impegno, dal dare al facere/non facere al praestare.383 Dunque, intendere il sintagma della definizione ‘solvere aliquam rem’ nel senso di “compiere una data prestazione”384 non è una forzatura né risulta privo di riscontri testuali. Al contempo, di fronte a codesto sintagma non è affatto necessario pensare ad una sorprendente limitazione della definizione alle obbligazioni di ‘dare’. Invero, l’esistenza della nozione tecnica di ‘solvere rem’ che abbiamo or ora segnalata impone che la pretesa portata circoscritta della definizione venga, semmai, specificamente dimostrata, dovendosi presumere, appunto fino a prova contraria, che il giurista, nel contesto di un enunciato generalizzante quale si presenta la definizione di obligatio, abbia adottato l’accezione di ‘solvere rem’ come evocatrice del concetto di adempimento, quale che fosse il concreto contenuto della prestazione. E plautini). Il che, appunto, rende inutilizzabili tali testimonianze.

383 Gli impegni giuridici tra privati, ai quali si sarebbe applicata la terminologia ‘rem solvere’, si estendono a prestazioni ulteriori rispetto al consegnare, trasferire o restituire una determinata cosa o somma di denaro già almeno nella prima metà del II secolo a.C. Ciò è attestato, notoriamente, dalla ‘prisca formula’ trascritta da Varrone ‘haec sic recte fieri spondesne?’ (R.R., 2.2.5), che costituisce una conceptio anteriore ai formulari di Manilio (cfr., ultimamente, R.CARDILLI, L’obbligazione di «praestare» e la responsabilità contrattuale in diritto romano (II sec. a.C. - II sec. d.C.), 1995cit., 116ss.); e dalle due seguenti promesse citate da Catone (rispettivamente, in agr., 146.5 e 144.5): ‘Recte haec dari fieri...promitto’ e ‘Oleam cogi recte satisdato arbitratu L.Manli’ (cfr., nuovamente, R.CARDILLI, L’obbligazione di «praestare» cit., 63ss., il quale, peraltro, ridimensiona il valore di questi riscontri osservando – a p. 67 – che «il fatto che la conceptio verborum [...] preveda l’haec dari fierique non dimostra necessariamente che le prestazioni calate nella promessa formale fossero dirette ad un incertum»). Né va trascurata la sigla T.M.D.F.O. = ‘(aio) te mihi dare facere oportere’ registrata in Excerpta probiana ex cod. einsidl. 326, n. 13 (FIRA II, 458), su cui cfr. PASTORI, Elementi di diritto romano cit., 104s. Ma non può escludersi che l’utilizzazione di una sponsio con oggetto diverso dal certum dare abbia fatto la sua comparsa in epoca ben più antica: cfr., di recente, B.ALBANESE, Il processo privato romano delle legis actiones, 1987, 103 nt. 356.

384 Per qualche esplicito esempio recente cfr. B.ALBANESE, Papiniano cit., 169; 170; G.PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano cit., 507; P.VOCI, Istituzioni di diritto romano cit., 351; M.BRETONE, I fondamenti del diritto romano cit., 190; J.GAUDEMET, Naissance de la notion d’obligation cit., 152.

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ciò tanto più appare legittimo proprio con riguardo a Gaio, sulla base di due dati.

Da un lato, proprio nelle Istituzioni di Gaio vi sono due brani nei quali il termine ‘res’ (notoriamente, uno dei segni più spiccatamente polivalenti anche all’interno del manuale gaiano) viene assunto con un’accezione che in sostanza racchiude, con sfumature difficilmente separabili, i significati di ‘prestazione’, ‘oggetto dell’obligatio’, ‘oggetto dell’adempimento’, ‘adempimento’:

Gai 3.176 ‘Praeterea novatione tollitur obligatio, veluti si quod tu mihi debeas, a Titio dari stipulatus sim. Nam interventu novae personae nova nascitur obligatio et prima tollitur translata in posteriorem, adeo ut interdum, licet posterior stipulatio inutilis sit, tamen prima novationis iure tollatur; veluti si quod mihi debes, a Titio post mortem eius vel a muliere pupillove sine tutoris auctoritate stipulatus fuero. Quo casu r e m a m i t t o : nam et prior debitor liberatur et posterior obligatio nulla est. Non idem iuris est, si a servo stipulatus fuero; nam tunc prior proinde adhuc obligatus tenetur, ac si postea a nullo stipulatus fuissem’;

Gai 3.179 ‘Quod autem diximus, si condicio adiciatur, novationem fieri, sic intellegi oportet, ut ita dicamus factam novationem, si condicio extiterit: alioquin si defecerit, durat prior obligatio. Sed videamus, num is, qui eo nomine agat, doli mali aut pacti conventi exceptione possit summoveri, quia videtur inter eos id actum, ut ita e a r e s p e t e r e t u r , si posterioris stipulationis extiterit condicio. Servius tamen Sulpicius existimavit statim et pendente condicione novationem fieri, et si defecerit condicio, ex neutra causa agi posse et eo modo r e m p e r i r e . Qui consequenter et illud respondit, si quis id, quod sibi L. Titius deberet, a servo fuerit stipulatus, novationem fieri et r e m p e r i r e , quia cum servo agi non posset. Sed in utroque casu alio iure utimur: nec magis his casibus novatio fit, quam si id, quod tu mihi debeas, a peregrino, cum quo sponsus communio non est, SPONDES verbo stipulatus sim’.385

385 Non può, invece, addursi il seguente brano: Gai 3.205 ‘Item si fullo polienda curandave aut sarcinator sarcienda vestimenta mercede certa acceperit eaque furto amiserit, ipse furti habet actionem, non dominus, quia domini nihil interest ea non periisse, cum iudicio locati a fullone aut sarcinatore suum consequi possit, si modo is fullo aut sarcinator r e i p r a e s t a n d a e sufficiat; nam si solvendo non est, tunc quia ab eo dominus suum consequi non

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Si tratta di un impiego che, pur riguardando in questi due luoghi il

punto di vista dell’aspettativa del creditore,386 si pone in linea con il complessivo valore di ‘compiere una data prestazione’, ‘adempiere alcunché’ e simili che attribuiamo al sintagma ‘solvere aliquam rem’ della definizione.

Dall’altro lato, la portata onnicomprensiva del solvere aliquam rem nella definizione di obligatio trova conferma nella circostanza che il Gaio delle Res cott., nel quadro più volte accennato di un complessivo riordino delle fonti delle obbligazioni, organizza la duplice articolazione in obbligazioni constitutae dal ius civile e obbligazioni constitutae dalla iurisdictio pretoria e, a seguire, in obbligazioni nascenti da contratti, delitti e variae causarum figurae. Ebbene, non avrebbe avuto senso far precedere la fissazione di questo complessivo impianto classificatorio da una definizione nella quale il riferimento all’oggetto della prestazione fosse concepito come non esaustivo. In questa cornice, peraltro, può osservarsi che, a fronte della possibilità di riproporre fedelmente la consolidata concettualizzazione necessitas solvendi congegnando la più potest, ipsi furti actio competit, quia hoc casu ipsius interest rem salvam esse.’ Vero è che la semantica del ‘praestare’ (la forma verbale ed il sostantivo derivato) si trova impiegata nel manuale di Gaio anche per esprimere un concetto che corrisponde alla nostra idea di ‘compiere una prestazione’, ‘adempiere ad una prestazione’ (cfr., infatti, Gai 4.131: ‘Saepe enim ex una eademque obligatione a l i q u i d iam p r a e s t a r i oportet, aliquid in futura p r a e s t a t i o n e est: veluti cum in singulos annos vel menses certam pecuniam stipulati fuerimus; nam finitis quibusdam annis aut mensibus huius quidem temporis p e c u n i a m p r a e s t a r i oportet, futurorum autem annorum sane quidem obligatio contracta intellegitur, p r a e s t a t i o vero adhuc nulla est. Si ergo velimus id quidem, q u o d p r a e s t a r i oportet, petere et in iudicium deducere, futuram vero o b l i g a t i o n i s p r a e s t a t i o n e m in integro relinquere, necesse est ut cum hac praescriptione agamus: EA RES AGATUR, CUIUS REI DIES FUIT; rell.’; per un’altra attestazione gaiana cfr. D.4.5.8. In generale, per questo valore di ‘praestare’ e ‘praestatio’ cfr., di recente, C.A.CANNATA, Sul problema della responsabilità nel diritto privato romano, in IURA 44, 1993 [pubbl. 1996], 23ss.); tuttavia, il contesto in cui è inserita, in 3.205, l’affermazione ‘si modo is fullo aut sarcinator rei praestandae sufficiat’ costringe a riconoscere nella locuzione ‘rem praestare’, qui equivalente a ‘solvere’, un impiego in ambito processuale, e cioè ad attribuirvi il significato di ‘soddisfare la pretesa’ del proprietario-attore in sede di actio locati (‘suum consequi’ = ottenere quel che spetta).

386 Talché, in sostanza, in Gai 3.176 ‘rem amittere’ va inteso nel senso di ‘perdere il diritto, la facoltà di richiedere la prestazione (o l’adempimento)’; nel § 179 ‘rem perire’ equivale a ‘venir meno la possibilità di esigere la prestazione’ e ‘res petere’ allude a ‘esigere la prestazione’, ‘richiedere l’adempimento’.

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neutra formulazione ‘necessitate adstringimur solvendi’, la scelta di completare il ‘solvere’ con l’indicazione, per quanto generica, dell’oggetto (res) e di aggiungere a quest’ultimo l’aggettivo indeterminativo (‘alicuius solvendae rei’) appare idonea a fare intendere l’esistenza di una pluralità di possibili, differenti prestazioni, quale derivava dalle molteplici causae obligationum richiamate nelle due predette classificazioni, che vanno dal dare-facere-praestare delle obbligazioni ex contractu, alle prestazioni derivanti dalla tutela o dal legatum, fino al noxae dedere in caso di illeciti compiuti da sottoposti a potestà.

Orbene, chiarito che la locuzione ‘solvere aliquam rem’ è, in sé, idonea ad abbracciare tutti i possibili oggetti di un rapporto obbligatorio e che in questa accezione onnicomprensiva dovette esser impiegata da Gaio nel contesto della definizione, con il significato tecnico di ‘compiere una data prestazione’,387 possiamo adesso esplicitare in pochissime battute ciò che abbiamo accennato in apertura di paragrafo e, cioè, il fatto che anche questo segmento del testo si coordina perfettamente con il modello interpretativo che abbiamo proposto.

In quest’ottica, infatti, appare indicativa la circostanza che il giurista, pur avendo in mente l’intera gamma dei possibili contenuti del dovere del debitore, non si dà cura di precisarli attraverso una puntuale menzione del dare, del facere e del praestare (come avrebbe, invece, fatto Paolo in D.44.7.3). Ciò è da leggere, a nostro avviso, quale riflesso del fatto che Gaio ha come interesse esclusivo quello di evidenziare l ’ e l e m e n t o i n s é dell’esistenza di una necessitas di solvere: elemento che, come abbiamo visto, nel suo significato di cogenza processuale rappresenta il tratto distintivo dell’esser

387 E’ implicito in ttuo quanto abbiamo fin qui osservato che non possiamo condividere la più recente proposta interpretativa che è stata formulata in merito alla locuzione ‘solvere rem’, secondo cui questa andrebbe intesa come alludente al “disbrigo di una certa faccenda”, “compimento di un determinato affare”, “liquidazione di un affare” (A.GUARINO, ‘Obligatio est iuris vinculum’ cit., 267, nel quadro di un’ipotizzata presenza, nell’espressione in esame, di un’eco dell’originario vincolo quale assoggettamento del debitore: « la ‘necessitas alicuius solvendae rei’ [...] deve essere tradotta con riguardo al senso di soggezione, di subordinazione, di sottomissione del debitore al creditore in ordine al disbrigo di una certa faccenda, al compimento di un determinato affare. Sino a che la liquidazione (‘solutio’) di questo affare (‘res’) non sia giunta al termine, eventualmente col ricorso al mezzo estremo della ductio o della bonorum venditio»).

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obbligati388 rispetto al ‘debere’ collegato alla sfera dell’officium. In sostanza, è vero che l’indicazione dell’oggetto della necessitas solvendi è generica e indefinita; tuttavia, questa circostanza, anziché essere intesa come un difetto e screditare il valore dell’intera definizione, conferma, a nostro avviso, quale fosse l’autentica ed esclusiva finalità della definizione stessa: e cioè non la compiuta fissazione della nozione di obligatio, con una consentanea descrizione dettagliata dei contenuti del dovere, bensì la sottolineatura del discrimine esistente tra il vinculum-obligatio ed il vinculum-officium, rappresentato da quella necessitas (processuale) di solvere che rende il primo dei due un vinculum ‘iuris’.

16. Natura, ius gentium e ‘nostrae civitatis iura’.

Infine, con la ricostruzione qui sostenuta si coordina perfettamente anche la chiusura della definizione ‘secundum nostrae civitatis iura’.

Come si ricorderà, di questo segmento finale del testo abbiamo avuto modo di occuparci in due diverse occasioni. Una prima volta, nelle battute iniziali dell’indagine (n. 2), per sostenere che esso è da collegare non già soltanto alle parole immediatamente precedenti ‘alicuius solvendae rei’, come intese Teofilo, bensì all’elemento della necessitas: la conformità ai nostrae civitatis iura, cioè, serve a precisare non le semplici modalità dell’adempimento, ma l’esistenza in sé della necessitas alicuius solvendae rei (intesa come cogenza derivante da uno strumento processuale); una seconda volta, a ricerca progredita, per trarne argomento, su un piano terminologico-concettuale, in favore dell’attribuzione della definizione al Gaio delle Res cott. (n. 8).

Occorre, adesso, affrontare la questione del significato di queste parole finali, e chiedersi per quale ragione il giurista abbia sentito il bisogno di esplicitare in sede di definizione la conformità ai iura della propria civitas, ponendo questo dato in risalto a chiusura dell’enunciato. Si tratta, del resto, di un interrogativo pesante e non eludibile in alcun modo, specie in ragione dell’attuale persistenza dell’antica convinzione che tale riferimento alla conformità ai iura civitatis sia pleonastico e

388 Si ricordi l’assunzione, nella definizione, del punto di vista del debitore: n. 6.

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banale, oltre che sorprendente per il suo esclusivo ricorrere proprio con riguardo alla figura dell’obligatio.389

Al riguardo, osserviamo preliminarmente che nessuna delle interpretazioni suggerite in dottrina circa il senso (della presenza) delle parole ‘secundum nostrae civitatis iura’ appare soddisfacente. In particolare, un riferimento ad una generica conformità dell’istituto-obligatio all’ordinamento giuridico, o alle regole dell’ordinamento giuridico,390 renderebbe la chiusura della definizione realmente

389 Cfr., ad es., le limpide parole di B.BIONDI, Istituzioni di diritto romano cit., 335: «L’ultima frase della definizione (secundum nostrae civitatis iura), che vorrebbe indicare la conformità al diritto positivo, appare superflua, giacché tale conformità è implicita in ogni istituto giuridico, tanto che nessuna definizione romana la mette in evidenza [...]». Di superfluità e banalità parlava anche E.ALBERTARIO, Le definizioni cit., 15, traendone argomento contro la classicità: «Quando ci imbattiamo in altre [...] definizioni, perché il ‘secundum nostrae civitatis iura’ non ci si presenta più? Che diremmo se alla definizione dell’usufrutto, per esempio, che Paolo ci tramanda [...] trovassimo appiccicato ‘secundum nostrae civitatis iura’? Noi grideremmo alla banalità dell’aggiunta: e perché allora diversamente giudicarla, quando la troviamo nella definizione dell’obbligazione?». In un ordine di idee non dissimile si è posto C.GIOFFREDI, Aspetti della sistematica gaiana, in Nuovi studi di diritto greco e romano, 1980, 257 nt. 19 (per il quale la locuzione in esame «sembra usata per ornare e concludere bellamente una frase»); più velatamente A.GUARINO, ‘Obligatio est iuris vinculum’ cit., 266 e P.VOCI, Istituzioni di diritto romano cit., 353 nt. 1. Come abbiamo accennato nel testo, si tratta di un atteggiamento di antica ascendenza, riscontrabile anche – o forse, soprattutto – in sede di assunzione metastorica della definizione, non accompagnata da un interesse per la genesi del suo dettato: così, se nella tradizione orientale l’autore di uno scolio della Synopsis Maior risalente al XIV secolo, pur dichiarando di citare testualmente la versione della definizione presente nella Parafrasi di Teofilo, ne omette la chiusura ‘kat¦ toÝj tÁj ¹metšraj polite…aj nÒmouj’ (Sch. Perˆ ™nocîn a Syn. Bas. E. XXII: ‘™noc» ™sti desmÕj dika…ou, fhsˆn Ð qeÒfiloj, di’ oá tij ¢nagk£zetai katabale‹n tÕ ™pifeilÒmenon’; per la cennata cronologia dello scolio cfr. SVORONOS, La Synopsis Maior des Basiliques et ses Appendices, 1964, 59), in Occidente un filo lega, ad esempio, Zoesius (Commentarius ad Institutionum juris civilis libros IV, ed. Venetiis 1757, p. 329), per il quale le parole finali «non sunt necessaria», o Huberus (Praelectionum jurisi civilis tomi III secundum Institutiones et Digesta Justiniani, ed. Lipsiae 1735, p. 280) e Richerius (Universa civilis et criminalis Jurisprudentia, ed. Venetiis 1841, II, 927), che autorizzano i lettori ad eliminarle dal ricordo: «praecidere e memoria», «omitti possunt»; fino al più recente Puchta (Cursus der Institutionen9, II, 1881, 298 nt. a), il quale direttamente e senza esplicitarne le ragioni riporta la definizione priva delle parole finali.

390 S.PEROZZI, Le obbligazioni romane cit., 12s.; B.BIONDI, Istituzioni di diritto romano cit., 335; P.VOCI, Le obbligazioni romane cit., 19; E.VOLTERRA, Istituzioni di diritto privato romano cit., 1960, 442; G.PUGLIESE-F.SITZIA-L.VACCA, Istituzioni

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superflua e banale; una specifica contrapposizione dell’ordinamento giuridico romano al ius gentium391 – inteso, quest’ultimo, nel senso tradizionale di complesso di istituti presenti presso ogni comunità organizzata e/o di complesso di istituti giuridici romani applicabili anche agli stranieri392 – è inammissibile sia in quanto nella predetta accezione il ius gentium è, comunque, parte dei iura civitatis,393 sia, più particolarmente, giacché rimarrebbero fuori dall’ambito della definizione un gruppo assai consistente di rapporti obbligatori da atto lecito;394

ancora, l’idea che la chiusura della definizione esprima un riferimento della nozione di obligatio ai soli rapporti del ius civile, con esclusione del ius honorarium395 – oltre a risentire di un pregiudizio oggi non più di diritto romano cit., 509.

391 CUGIA, Acceptilatio solutioni comparatur cit., 27; E.ALBERTARIO, Le definizioni cit., 7; 15ss. (=Corso cit., 160 e 172ss.). In particolare, l’Albertario ha osservato che siffatta precisazione sarebbe inammissibile per un giurista classico, giacché essa lascerebbe fuori alcune importantissime figure quali i contratti consensuali, derivanti dal ius gentium: l’osservazione, in sé esatta, ha portato questo studioso a ritenere che la definizione andrebbe attribuita ai giustinianei, i quali avrebbero generalizzato una definizione classica relativa all’obligatio verbis, che i giuristi precisavano esser ‘propria civium romanorum’ (cfr. Gai 3.93): v. supra, n. 2, nt 14. In un ordine di idee analogo, in tempi recenti, C.A.CANNATA, Le definizioni romane dell’«obligatio» cit., 147 ad asserire con decisione che «Secundum nostrae civitatis iura non poteva alludere, nel linguaggio di un giurista classico, che al ius civile come contrapposto al ius gentium»; con la conseguenza che, essendo impensabile che un giurista classico lasciasse fuori dalla sfera dei rapporti obbligatori il ius gentium, occorre escludere «che il significato di secundum nostrae civitatis iura possa essere determinato con riferimento al linguaggio dei giuristi classici».

392 Per un’ulteriore accezione del ius gentium, alla quale la dottrina, tradizionalmente, non ha dato rilievo (e che invece, a nostro avviso, è proprio quella che sta dietro la fissazione delle parole conclusive della definizione), cfr. infra, su ntt......

393 G.SEGRÉ, Obligatio, obligare, obligari cit., 544 nt. 127.394 Così, oltre ad Albertario (supra, nt. 387), recentemente C.A.CANNATA, Le

definizioni romane cit., 147.395 Cfr., ad es., in passato, A.MARCHI, Le definizioni romane dell’obbligazione

cit., 35 nt. 2 (il quale ritiene preferibile questa interpretazione con riferimento al diritto classico, laddove, avendo riguardo al diritto giustinianeo, la chiusura della definizione alluderebbe al «diritto romano nel suo complesso, in antitesi al diritto degli altri popoli e ivi compreso anche il diritto pretorio»); V.ARANGIO-RUIZ, Corso di Istituzioni di diritto romano (diritti reali e di obbligazione) cit., 169; e di recente, MACQUERON, Precis des obligations en droit romain, 1962, 2; BRASIELLO, v. ‘Obbligazione’ cit., 555; A.BURDESE, Manuale di diritto privato romano cit., 409; M.MARRONE, Istituzioni di diritto romano, 1989, 560; F.PASTORI, Elementi di diritto romano cit., 19; ID., Gli istituti romanistici cit., 812 (su cui, però, v. supra, nt. 56); V.GIUFFRÈ, La traccia di Quinto Mucio cit.,

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sostenibile, e cioè la non classicità delle obligationes honorariae 396 – urta contro il dato testuale: se con il termine ‘iura’ si intendono gli ‘ordinamenti’ della civitas, un riferimento al solo ius civile è già reso impossibile dall’uso del plurale,397 se, invece, il termine ‘iura’ viene riferito ai concreti contenuti degli ‘ordinamenti’,398 costituisce difficoltà insormontabile la circostanza che anche gli istituti e le regole provenienti dall’attività pretoria fanno parte della civitas;399 d’altra parte, l’idea opposta400 che le parole ‘secundum nostrae civitatis iura’ siano coordinate e, anzi, finalizzate alla fissazione della summa divisio tra obligationes civiles e honorariae (conservata in J.3.13.1) non chiarisce pienamente la presenza delle parole stesse: sfugge, invero, la ragione per la quale il giurista abbia ritenuto opportuno esplicitare già nel corpo della definizione un richiamo alla pluralità di ordinamenti che dànno riconoscimento all’istituto; infine, non ci appare persuasiva nemmeno l’isolata posizione del Segré, secondo cui la coda della definizione avrebbe la funzione di contrapporre le causae obligationum proprie dei romani a quelle operanti presso i peregrini:401 non si comprende come un giurista potesse risolversi ad aggiungere all’indicazione generale di cosa è l’obligatio un’apposita avvertenza circa la limitazione/conformità delle fonti dell’obligatio stessa all’ordinamento giuridico romano rispetto ad ordinamenti giuridici stranieri.

82s.; ID., Il diritto dei privati cit., 377. 396 Cfr. supra, n. 14. 397 Così, ad es., G.SCHERILLO, Le definizioni romane cit., 115; C.A.CANNATA,

Le definizioni romane cit., 147 nt. 38. Di questa difficoltà si rendeva conto, del resto, lo stesso CUGIA, Acceptilatio cit., 27, il quale, di conseguenza, proponeva di correggere il testo sostituendovi il singolare ‘ius’.

398 Per i riscontri con riguardo al linguaggio gaiano cfr. infra, in questo stesso paragarfao, su ntt. 427-431.

399 Se ve ne fosse bisogno, basti pensare a Gai 1.2 ‘Constant iura populi Romani ex ... edictis eorum, qui ius edicendi habent’: cfr., opportunamente, G.SEGRÉ, Obligatio, obligare, obligari cit., 544 nt. 127. Sul significato delle parole ‘iura populi Romani’ cfr. infra, nt. 427.

400 Cfr. G.SCHERILLO, Le definizioni cit., 115s.; M.TALAMANCA, v. ‘Obbligazioni’ cit., 19 nt. 130.

401 G.SEGRÈ, Obligatio, obligare, obligari cit., 544 nt.127. L’illustre studioso si limita ad un accenno, nel quadro di una critica all’interpretazione dell’Albertario (supra, nt. 287) e prendendo spunto dalle parole di Gai 3.96 ‘Item uno loquente **** haec sola causa est, ex qua iureiurando contrahitur obligatio. Sane ex alia nulla causa iureiurando homines obligantur, utique cum quaeritur de iure Romanorum. Nam apud peregrinos quid iuris sit, singularum civitatium iura requirentes aliud intellegere poterimus.....’ (senza, peraltro, trarne illazioni circa una possibile origine gaiana della definizione).

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Detto ciò, riteniamo di poter avanzare, come accennato in apertura di paragrafo, una spiegazione delle parole ‘secundum nostrae civitatis iura’ in armonia con la nostra complessiva chiave di lettura dell’intero testo: una spiegazione che non solo si sottrae alle predette obiezioni e riabilita le parole in esame dalle critiche di pleonasmo e banalità, ma, soprattutto, assume la presenza stessa di queste parole come senz’altro pregnante e ricca di significato ai fini della presentazione dell’istituto-obligatio.

La spiegazione che intendiamo proporre muove dalla rilevazione di t r e d a t i che attengono alla riflessione di Cicerone e di Seneca in materia di officium: 1) sia l’officium in sé, sia i valori che ne stimolano l’osservanza (fides, iustitia, pietas, pudor, aequitas, etc.), sia, più in generale, l’ambito dell’honestum, al quale l’adempimento dell’officium appartiene, sono considerati nella elaborazione ciceroniana discendenti dalla natura;402

402 In fin. 2.58-59 a suo tempo esaminato (n. 13 sub IV) – testimonianza per noi tanto più importante perché riguarda l’esecuzione di una rogatio fedecommissaria e cioè proprio l’ambito in relazione al quale Gaio nelle Res cott. giustappone tra loro la coppia fides/pudor e il vinculum iuris (J.2.23.1) – i valori della fides, dell’aequitas, della probitas, della iustitia che inducono il vir bonus ad ‘officium sequi’ vengono esplicitamente fatti discendere dalla natura. Del resto, che il bonus vir preposto all’adempimento dell’officium sia portatore di valori ricollegati alla natura è autonomamente attestato, ad es., da Lael. 19 ‘Qui ita se gerunt, ita vivunt, ut eorum probetur fi d e s , integritas, a e q u a l i t a s , liberalitas ... hos v i r o s b o n o s ... appellandos putemus, quia sequantur, quantum homines possunt, n a t u r a m o p t i m a m b e n e v i v e n d i d u c e m ’ (cfr., ad es., anche off. 1.20; 3.75; leg. 1.14.41). E proprio il luogo (purtroppo mutilo) del De re publica al quale Cicerone fa riferimento, nelle battute finali del predetto fin. 2.59, a proposito della provenienza dei predetti valori dalla natura, ci restituisce la seguente notazione generalizzante: ‘Est quidem vera lex recta ratio n a t u r a e c o n g r u e n s ...., quae v o c e t a d o ff i c i u m iubendo, vetando a fraude deterreat’ (rep. 3.33). Per una lettura in chiave ‘politica’ della elaborazione ciceroniana del coordinamento tra la figura del vir bonus, i valori dell’honestum e la natura – una prospettiva che esula dai nostri interessi specifici – cfr., in particolare, U.KNOCHE, Ciceros Verbindung der Lehre vom Naturrecht mit dem römischen Recht und Gesetz, in ..... Cicero ein Mensch seiner Zeit...., 19.., 51ss.

Sempre nel De finibus compare ripetutamente l’affermazione che gli officia scaturiscono da principia naturae (cfr., ad es., 3.22; 23; 4.18). In particolare, un’apposita segnalazione merita il § 4.18, in cui a tali principia vengono riferiti, come costituenti il sostrato della coniunctio e della societas tra gli uomini, il pudor, la iustitia e, più in generale, l’honestas: ‘...quodque hoc solum animal natum est pudoris ac verecundiae particeps appetensque coniunctionum

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2) i predetti valori, in quanto ricondotti alla natura, sono avvertiti come riconosciuti ed applicati presso ogni popolo, e vengono predicati per ciò come suggeriti dal ius gentium, che, in questa prospettiva, è concettualmente assunto come contiguo o, addirittura, coincidente con la natura e, per quel che più rileva, come coordinato a valori e istanze che si collocano sul piano etico prima ancora che giuridico;403

3) nell’ambito della riflessione sugli officia e sui beneficia, la sfera dell’honestum e dell’officium e le concettualizzazioni a questa connesse

hominum ad societatem animadvertensque in omnibus rebus quas ageret aut diceret ut ne quid ab eo fieret nisi honeste ac decore, his initiis, ut ante dixi, et seminibus a natura datis temperantia, modestia, i u s t i t i a e t o m n i s h o n e s t a s perfecte absoluta est’. D’altra parte, in uno squarcio del V libro Cicerone, dopo aver indicato come più nobile manifestazione dell’honestum la trama delle relazioni sociali che costituiscono la sostanza del consorzio umano (§ 65 ‘In omni autem honesto ...nihil est tam illustre nec quod latius pateat quam coniunctio inter homines hominum et quasi qaedam societas et communicatio utilitatum et ipsa caritas generis humani.... Quae animi affectio, suum cuique tribuens atque hanc quam dico societatem coniunctionis humanae munifice et aeque tuens, i u s t i t i a dicitur, cui sunt adiunctae p i e t a s , b o n i t a s , liberalitas, benignitas, comitas, quaeque sunt generis eiusdem’; cfr. anche il collegamento tra iusta ratio, sostanzialmente coindicente con iustitia, e natura in fin. 5.58), conclude (§ 66) che «la vita rispondente all’honestum e alle virtù può considerarsi recta et honesta et constans et n a t u r a e c o n g r u e n s ». Del resto, poco oltre (§ 69) egli afferma che i sapienti adempiono agli officia nei confronti degli amici e dei parentes sotto la guida della natura (duce natura). Quanto al termine ‘virtus’, si veda off. 3.13, in cui Cicerone afferma che ‘convenienter naturae vivere’ significa ‘cum virtute congruere semper’.

In leg. 1.12.32, Cicerone, a conferma dell’affermazione che la iustitia (e il ius) derivano dalla natura (§ 28 ‘...in hominum doctorum disputatione ... nihil est profecto prestabilius quam plane intellegi nos ad iustitiam esse natos, neque opinione, sed natura constitutum esse ius’; cfr. anche, almeno, off. 3.69 in fine), menziona la gratitudine per il beneficium ricevuto e il disprezzo per l’ingratitudine: ‘Quae autem natio non comitatem, non benignitatem, non gratum animum et beneficii memorem diligit? quae superbos, quae maleficos, quae crudeles, quae ingratos non aspernatur, non odit? ’. E più avanti l’Arpinate afferma (§ 15.43): ‘Atque, si natura confirmatura ius non erit, <virtutes omnes> tollentur; ubi enim l i b e r a l i t a s , ubi patriae caritas, ubi p i e t a s , ubi aut bene merendi de altero aut r e f e r e n d a e g r a t i a e v o l u n t a s poterit existere? nam haec nascuntur ex eo, quia natura propensi sumus ad diligendos homines, quod fundamentum iuris est’. Sempre con riferimento alla restituzione del beneficium può menzionarsi anche off. 48 ‘cum duo genera liberalitatis sint, unum dandi beneficii, alterum reddendi, demus necne in nostra potestate est, n o n r e d d e r e v i r o b o n o n o n l i c e t ’, ove si tenga presente il collegamento, poc’anzi osservato, tra ‘vir bonus’ e natura. Per apprezzare appieno la scelta ciceroniana di menzionare, nel citato

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sono chiamate in causa – con implicito o espresso collegamento alla natura o all’equipollente ius gentium – anche in relazione al rapporto obbligatorio in senso tecnico-giuridico: al riguardo, in aggiunta ad alcune affermazioni generali sulla coppia iustitia/fides nella dinamica dei rapporti obbligatori,404 ci sono pervenuti riferimenti più specifici al mantenimento degli impegni assunti e all’adempimento degli obblighi in relazione ai pacta, al deposito, al mutuo e al comodato.405

leg. 1.12.32, il beneficium e la gratitudine quale riscontro della provenienza della iustitia dalla natura, occorre, da un lato, tener presente che l’autore, nelle battute introduttive del discorso (§ 28), afferma che il collegamento tra natura e iustitia risulta palese ‘si hominum inter ipsos societatem coniunctionemque perspexeris’, dall’altro lato, ricordare il significato ‘sociale’ dello scambio di beneficia: off. 1.56 ‘Magna etiam illa communitas est, quae conficitur ex beneficiis ultro citroque datis acceptis, quae et mutua et grata dum sunt, inter quos ea sunt, firma devinciuntur societate’ (cfr., ancor più esplicitamente, Sen., ben. 1.4.2 ‘De beneficiis dicendum et ordinanda res q u a e m a x i m e h u m a n a m s o c i e t a t e m adligat’; 5.11.5 ‘B e n e fi c i u m d a r e r e s s o c i a l i s e s t , aliquem conciliat, aliquem obligat...’).

In rep. 1.2.2 Cicerone, per sottolineare che la virtù sussiste in quanto applicazione pratica, non in quanto mera conoscenza teorica, esalta la funzione di coloro ‘a quibus civitatibus iura discripta sunt’. Costoro hanno, infatti, il merito di rendere concretamente operanti e rispettate le virtù negli ordinamenti giuridici: ‘Unde i u s t i t i a , fi d e s , a e q u i t a s ? Unde p u d o r , continentia, fuga turpitudinis, adpetentia laudis et honestatis? .... Nempe ab iis, quia haec disciplinis informata alia moribus confirmarunt, sanxerunt autem alia legibus’. Ebbene, da un lato questa riflessione si pone come seguito dell’affermazione (§ 2.1) che l’inclinazione alla virtù proviene dalla natura; dall’altro lato, da rep. 3.4.7 si desume che le virtù tradotte in istituzioni e normazioni positive costituiscono ‘naturae principia’ (‘...illi [scil. i filosofi] verbis et artibus aluerunt naturae principia, hi [scil. gli uomini di stato] autem institutis et legibus’).

In inv. 2.53.161 troviamo connessi alla natura la pietas e la gratia quali valori sottostanti all’officium: ‘n a t u r a e i u s est, quod non opinio genuit, sed quaedam in natura vis insevit, ut religionem, p i e t a t e m , g r a t i a m, vindicationem, observantiam, veritatem. [...] pietas, per quam sanguine coiniunctis patriaeque benivolum officium et diligens tribuitur cultus; g r a t i a, in qua a m i c i t i a r u m e t o ff i c i o r u m a l t e r i u s m e m o r i a e t r e m u n e r a n d i v o l u n t a s continetur’ (cfr. le affermazioni, identiche nella sostanza, dei §§ 2.65-66). Con riferimento alla pietas, può richiamarsi anche Rhet. ad Her. 2.13.19 ‘Constat igitur (scil. ius) ex his partibus: natura, lege, consuetudine, iudicato, aequo et bono, pacto. N a t u r a i u s est quod cognationis aut p i e t a t i s causa observatur...’.

Similmente, in Lael. 49-50 dalla natura è fatta discendere la benevolentia, e cioè il sentimento che sta alla base dello scambio reciproco di officia e di beneficia: ‘Nihil est ... remuneratione benevolentiae, nihil vicissitudine

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Le tre indicazioni testé riferite sono da coordinare, per quel che qui interessa, con un paio di dati che riguardano la formazione culturale di Gaio. Uno l’abbiamo già segnalato e consiste nel collegamento con la produzione ciceroniana-senechiana in tema di officia e di beneficia (supra, n. 13 sub III). L’altro consiste nella circostanza, ormai acclarata in dottrina, che Gaio ha seguìto ed assorbito la riflessione ciceroniana in materia di rapporti tra natura e ius gentium.406

studiorum officiorumque iucundius. [50] ...opinor, bonis inter bonos quasi necessariam benevolentiam, qui est amicitiae fons a natura constitutus’. Per il nesso tra benevolentia e natura cfr. anche Cic., leg. 1.13.35.

Alla luce di una siffatta complessiva rappresentazione non sorprende che nel De officiis Cicerone abbia tradotto la questione ‘de duobus honestis utrum honestius’ (1.152) nella questione di quali officia e quali virtù siano più conformi alla natura (1.153 ‘Placet igitur a p t i o r a e s s e n a t u r a e e a o ff i c i a, quae ex communitate, quam ea, quae ex cognitione ducantur’; 158 ‘Ergo omne officium, quod ad coniunctionem hominum et ad societatem tuendam valet, anteponendum est illi officio, quod cognitione et scientia continetur’; 159 ‘Illud forsitan quarendum sit, num haec c o m m u n i t a s, q u a e m a x i m e e s t a p t a n a t u r a e, sit etiam moderationi modestiaeque semper anteponenda’); né che, addirittura, sia giunto a concettualizzare una coppia ‘officium naturaque’ (off. 1.146 ‘quid ...apte fiat, quid ab officio naturaque discrepet’).

403 Nel terzo libro del De officiis Cicerone, dopo aver affermato (§ 21) che ‘detrahere ... alteri aliquid et hominem hominis incommodo suum commodum augere’ è ‘contra naturam’ più che la morte, la povertà e il dolore, in quanto si tratta di un comportamento che distrugge il consorzio umano (‘tollit convictum humanum et societatem’) e che ‘natura non patitur, ut aliorum spoliis nostras facultates, copias, opes augeamus’ (§ 22 in fine), aggiunge la seguente notazione (§ 23): ‘Neque vero hoc solum n a t u r a , i d e s t i u r e g e n t i u m , sed etiam legibus populorum, quibus in singulis civitatibus res publica continetur, eodem modo constitutum est, ut non liceat sui commodi causa nocere alteri. Hoc enim spectant leges, hoc volunt, incolumen esse civium coniunctionem, quam qui dirimunt, eos morte, exsilio, vinclis, damno coercent. Atque hoc multo magis efficit ipsa naturae ratio, quae est lex divina et humana; cui parere qui velit - omnes autem parebunt, qui secundum naturam volent vivere - numquam committet ut alienum appetat et id, quod alteri detraxerit, sibi adsumat’. Si tratta di una testimonianza assai rilevante, non solo in quanto i comportamenti riassunti in termini di ‘detrahere alteri aliquid’ e ‘appetere alienum’ sono predicati come contrari alla naturae ratio e in quanto vengono strettamente accostati, in questa prospettiva, la natura e il ius gentium, perché è compiuta una esplicita giustapposizione tra natura/ius gentium e statuizioni positive di singole civitates. E’ il caso di precisare che le parole ‘natura, id est iure gentium’ rilevano ai nostri fini indipendentemente dall’individuazione dell’esatto valore che va attribuito all’elemento di raccordo ‘id est’, che per G.LOMBARDI, Sul concetto cit., 82, secondo cui nel pensiero ciceroniano ius

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A questo punto, mettendo insieme le circostanze considerate sub 1, 2 e 3, i due dati or ora accennati e l’insostenibilità, osservata in apertura di paragrafo, delle interpretazioni del tratto ‘secundum – iura’ fin qui tentate in dottrina,407 possiamo formulare la nostra proposta interpretativa, nei termini che seguono. Le parole ‘secundum nostrae civitatis iura’ sono state congegnate da Gaio per evidenziare un ultimo ed essenziale elemento discretivo dell’obligatio rispetto alla situazione vincolante connessa all’officium,

naturale e ius gentium sarebbero nettamente distinti, indica «non un rapporto di identità..., ma semplicemente ... un elemento che completi e perfezioni il concetto che si viene esponendo» , mentre per J.MICHEL, Sur les origines du «jus gentium» in RIDA 3, 1956, 339, orientato nel senso di un’identità tra i due concetti, introduce «une explication» («jus gentium éclaire le lecteur sur ce qu’est le droit naturel, que Cicéron juge peu connu de ses contemporains»; «la nature des Stoïciens lui paraît trop abstraite»); sul punto cfr. anche H.WAGNER, Studien zur allgemeinen Rechtslehre des Gaius cit., 60 nt. 1 (curiosamente, invece, non si occupa della questione il recente contributo specifico di G.HAMZA, Bemerkungen über den Begriff des Naturrechts bei Cicero, in St. Gallo, I, 1997, 349ss., ove, curiosamente, dei rapporti tra natura e ius gentium nella riflessione ciceroniana né, dunque, del nostr.

In un altro settore dello stesso libro (§§ 65ss.) Cicerone, prendendo spunto dalle controversie giuridiche ricorrenti nella riflessione degli Stoici (‘quaestiones’: § 50; ‘controversa iura’: § 91), ha occasione di soffermarsi sul comportamento insidioso e astuto consistente nel tacere consapevolmente i difetti di una res al momento della vendita. In proposito egli, dapprima, ricorda (§ 65) che ‘de iure quidem praediorum sanctum apud nos est iure civili, ut in iis vendendis vitia dicerentur, quaqe nota essent venditori’ e indica le sanzioni stabilite per chi abbia taciuto; quindi osserva (§ 69) che, anche a prescindere dalle disposizioni positive che si è data la comunità, l’agire insidiose, simulate, fallaciter è comunque disapprovato dalla lex naturae (‘Hoc quamquam video propter depravationem consuetudinis neque more turpe haberi neque aut lege sanciri aut iure civili, tamen naturae lege sanctum est’) e, tirando le fila del discorso, afferma: ‘Societas est e n i m ... latissime quidem quae pateat, omnium inter omnes, interior eorum, quid eiusdem gentis sint, proprior eorum, qui eiusdem civitatis. I t a q u e maiores aliud ius gentium, aliud ius civile esse voluerunt: q u o d c i v i l e , n o n i d e m c o n t i n u o g e n t i u m , q u o d a u t e m g e n t i u m , i d e m c i v i l e e s s e d e b e t ’. Del resto, nel § 71 Cicerone afferma che il ius civile richiamato nel § 65 come sanzionante la reticenza sui vizi della cosa venduta (e, per ciò, reprimente la fraus e la malitia) è ‘a natura ductum’ e poco oltre aggiunge: ‘hoc secundum naturam esse, neminem id agere, ut ex alterius praedetur inscitia’ (§ 72). Anche in questo squarcio, dunque, come nel blocco dei §§ 3.21-23, una condotta non honesta (in questo caso, le insidiae e le astutiae nella gestione di un rapporto obbligatorio) viene raffigurata come contraria alla lex naturae e questa lex naturae è fatta coincidere con il ius gentium; e anche in questo squarcio l’argomentazione è impostata con un esplicito dualismo tra natura/ius gentium

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che costituisce il completamento delle indicazioni che lo precedono. Segnatamente, come la fissazione dell’elemento della necessitas si collega ad un consolidato proiettarsi del dualismo ‘creditum – officium/beneficium’ nella contrapposizione ‘necessarium – honestum’ impostata sull’intervento o meno di meccanismo di tutela giudiziale,408

così la sottolineatura finale della conformità ai iura della civitas si pone in linea con la riconduzione, nella stessa tradizione di pensiero, dell’officium, dell’honestum e delle connesse virtutes alla coppia

e assetto giuridico positivo di una singola comunità organizzata (ius civile).In leg. 1.12.32, in parte già richiamato sub 1, Cicerone afferma che la

gratitudine per il beneficium ricevuto e la riprovazione dell’ingratitudine sono sentimenti e valori presenti nel genere umano a prescindere dall’appartenenza a diverse nationes: ‘Quae autem n a t i o non comitatem, non benignitatem, non gratum animum et beneficii memorem diligit? quae superbos, quae maleficos, quae crudeles, quae ingratos non aspernatur, non odit? Quibus ex rebus cum o m n e g e n u s h o m i n u m sociatum inter se intellegatur, illud extremum est, quod recte vivendi ratio meliores efficit’). E questa uniformità tra le diverse genti è tradotta, nel seguito del ragionamento, in chiave di rispondenza alla natura: nel § 33, infatti, lo stesso Marco afferma ‘Sequitur igitur ad partecipandum alium alio communicandumque inter omnes ius n o s n a t u r a e s s e f a c t o s ; e nel § 35 Attico osserva ammirato che è ormai dimostrato, sulla base di quanto espresso da Marco, ‘... o m n e s inter se n a t u r a l i quadam i n d u l g e n t i a e t b e n i v o l e n t i a , tum etiam societate iuris c o n t i n e r i ’.

In De orat. 1.13.56 il ius hominum (=ius naturale) e il ius gentium sono accostati tra loro all’interno di un elenco che attiene esclusivamente a virtutes connesse agli officia e all’honestum: ‘Etenim cum illi in dicendo inciderint loci, quod persaepe evenit, ut de dis immortalibus, de pietate, de concordia, de amicitia, de communi civium, de hominum, de gentium iure, de aequitate, de temperantia, de magnitudine animi, de omni virtutis genere sit dicendum, clamabunt (scil. i filosofi), credo, omnia gymnasia atque omnes philosophorum scholae sua esse haec omnia propria, nihil omnino ad oratorem pertinere’. Quanto al ‘ius commune civium’, riterremmo, dato il contesto, che sia necessario riconoscervi il ius civile nell’accezione che lo stesso Cicerone indica in Top. 2.9: ‘Ius civile est a e q u i t a s constituta eis qui eiusdem civitatis sunt ad res suas obtinendas’.

In rep. 1.2.2, poc’anzi trascritto sub 1, Cicerone assegna il merito di render concretamente operanti la iustitia, la fides, l’aequitas e il pudor (derivanti dalla natura, come si desume da rep. 1.2.1 e 3.4.7) a coloro ‘a quibus c i v i t a t i b u s iura discripta sunt’, con ciò assumendo quei valori come presenti e riconosciuti presso ogni civitas.

404 Ad esempio, nelle battute iniziali del De officiis, dedicate alla presentazione delle articolazioni dell’honestum, Cicerone afferma (§ 1.15): ‘omne, quod est honestum, id quattuor partium oritur ex aliqua: ...aut in hominum societate tuenda tribuendoque suum cuique et r e r u m c o n t r a c t a r u m fi d e ...’. E tenendo conto del fatto che la iustitia è una delle virtutes di cui è composto

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natura/ius gentium. In quest’ottica, la chiusura ‘secundum nostrae civitatis iura’ ha, cioè, la funzione di precisare che – mentre l’osservanza dell’officium è imposta da spinte etiche interiori quali la fides, la iustitia, l’aequitas etc., scaturenti e sancite dalla natura, talché chi non ottemperi viene riprovato in quanto agisce ‘contra naturam’ (per usare una terminologia ciceroniana) – la cogenza che incombe su chi deve adempiere una prestazione nel rapporto obbligatorio è data dall’esistenza di un meccanismo sanzionatorio introdotto e riconosciuto

l’honestum (basti aver presente off. 1.20), possiamo apprezzare la precisazione di off. 1.23 secondo cui la iustitia ha come fundamentum la fides, ‘id est d i c t o r u m c o n v e n t o r u m q u e constantia et veritas’; l’osservazione di off. 2.40 ‘...iis etiam, qui vendunt, emunt, conducunt, locant, contrahendisque negotiis implicantur, iustitia ad rem gerendam necessaria est...’; nonché la precisazione che la iustitia ‘erga deos religio, erga parentes pietas, c r e d i t i s i n r e b u s fi d e s , ... nominatur’ (part. or. 22.78). A proposito del richiamo alla constantia in off. 1.23, il suo valore pregnante in collegamento con la natura è mostrato dalla già richiamata affermazione di fin. 5.66, secondo cui «la vita rispondente all’honestum e alle virtù può considerarsi recta et honesta et c o n s t a n s et n a t u r a e c o n g r u e n s ».

405 In particolare, da Cicerone provengono un paio di interessanti squarci del De officiis, riguardanti il deposito e i pacta. Il primo consiste in off. 1.31-32: ‘Sed incidunt saepe tempora, cum e a , q u a e m a x i m e v i d e n t u r d i g n a e s s e i u s t o h o m i n e , e o q u e q u e m v i r u m b o n u m d i c i m u s , commutantur fiuntque contraria, ut r e d d e r e d e p o s i t u m , f a c e r e p r o m i s s u m q u a e q u e p e r t i n e n t a d v e r i t a t e m e t a d fi d e m , ea migrare interdum et non servare fit iustum. Referri enim decet ad ea, quae posui principio fundamenta iustitiae, primum ut ne cui noceatur, deinde ut communi utilitati serviatur. [32] Potest enim accidere p r o m i s s u m a l i q u o d e t c o n v e n t u m , ut id effici sit inutile vel ei, cui promissum sit, vel ei, qui promiserit ... Nec promissa igitur servanda sunt ea, quae sint iis, quibus promiseris, inutilia, nec si plus tibi noceant, quam illi prosint cui promiseris, contra officium est maius anteponi minori, ut, si constitueris cuipiam te advocatum in rem praesentem esse venturum atque interim graviter aegrotare filius coeperit, non sit contra officium non facere quod dixeris, magisque ille, cui promissum sit, ab officio discedat, si se destitutum queratur. Iam illis promissis standum non esse quis non videt, quae coactus quis metu, quae deceptus dolo promiserit? Quae quidem pleraque iure praetorio liberantur, nonnulla legibus’. Il richiamo, nelle battute finali di off. 1.32, a leges che sciolgono le promesse che qualcuno abbia fatto coactus metu o deceptus dolo, potrebbe indurre a pensare che Cicerone, parlando in questo squarcio di ‘promissa’, avesse in mente anche gli obblighi assunti tramite stipulatio, dal momento che quel richiamo contiene una sicura allusione anche alla lex Laetoria (cfr., infatti, off. 3.15.61), che prevedeva espressamente l’ipotesi della stipulatio (cfr., per tutti, S.DI SALVO, «Lex Laetoria». Minore età e crisi sociale tra il III e il II a.C., 1979, 62ss.); nondimeno, la complessiva riflessione ciceroniana è direttamente ed esplicitamente calibrata soltanto su accordi e

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dalle statuizioni positive dell’ordinamento giuridico. E tanto più siffatta precisazione finale doveva apparire opportuna in quanto, come si è visto (sub 3), nella tradizione di pensiero frequentata da Gaio lo stesso compimento delle prestazioni derivanti da un rapporto obbligatorio era considerata come un officium (Cic., off. 1.31 e 3.95, per il depositum reddere), e, cioè, l’adempimento della prestazione era inteso, su un piano parallelo e sottostante rispetto a quello tecnico-giuridico retto dalle istituzioni positive delle singole civitates, come indotto da valori

promesse informali, come si constata sia dagli esempi addotti in questo stesso squarcio, sia dalle osservazioni e dagli esempi presenti in off. 3.92-95, ove è ripresa più diffusamente la questione del mantenimento delle promesse (si badi, peraltro, che tale questione è introdotta con l’interrogativo ‘pacta et promissa semperne servanda sint, QUAE NEC VI NEC DOLO MALO, ut praetores solent, FACTA SINT’: da cui sembra doversi desumere che in off. 1. 32 Cicerone, riferendosi a ‘promissa’ viziati da metus o dolus, pensasse primariamente agli impegni informali presi in considerazione nell’editto pretorio de pactis). Il secondo squarcio che rileva ai nostri fini è off. 3.25.95: ‘... Ergo et p r o m i s s a non facienda non numquam neque semper d e p o s i t a r e d d e n d a . Si gladium quis apud te sana mente deposuerit, repetat insaniens, r e d d e r e p e c c a t u m s i t , o ff i c i u m n o n r e d d e r e . Quid? Si is, qui apud te pecuniam deposuerit, bellum inferat patriae, reddasne depositum? Non credo: facies enim contra rem publicam, quae debet esse carissima. Sic multa, quae honesta n a t u r a videntur esse, temporibus fint non honesta: f a c e r e p r o m i s s a , s t a r e c o n v e n t i s , r e d d e r e d e p o s i t a commutata utilitate fiunt non honesta’.

Quanto alla produzione di Seneca, sono, anzitutto, particolarmente significative le affermazioni contenute in ben. 3.7.2 (facenti parte di un più ampio discorso che nella sua interezza avevamo già considerato quale riscontro del collegamento tra creditum e necessitas solvendi: supra, n. 10): ‘... cum res honestissima sit referre gratiam, d e s i n i t e s s e h o n e s t a , s i n e c e s s a r i a e s t; non magis enim laudabit quisquam gratum hominem quam eum, q u i d e p o s i t u m r e d d i d i t a u t , q u o d d e b e b a t , c i t r a i u d i c e m s o l v i t ’. Dal complessivo discorso risulta palese che Seneca qualifica ‘honesta’ la restituzione del deposito e della somma avuta in prestito che avvenga volontariamente, e ‘necessaria’ la restituzione che, invece, sia determinata dall’intervento di un giudice. La testimonianza è per noi estremamente indicativa per due ragioni: da un lato, in quanto riconduce l’adempimento spontaneo e, per dir così, ‘fisiologico’ dell’obbligo di restituzione all’ambito dell’honestum; dall’altro lato, giacché alla categoria dell’honestum (e, cioè, in concreto, all’adempimento inteso quale officium sequi, secondo l’esplicita concettualizzazione ciceroniana) contrappone il ‘necessarium’ assunto come imperniato sull’esperimento di un’actio.

Un collegamento, poi, tra l’obbligo di restituzione, il ius gentium e l’aequum (coordinato, come sappiamo, all’officium, all’honestum, alla iustitia e alla fides: supra, n. 13) è appositamente fissato in ben. 3.14.2 ‘aequissima vox est et ius gentium prae se ferens: «Redde quod debes»; haec turpissima est in beneficio:

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etici che rispondono a princìpi della natura (Sen., ben. ben. 3.14.2 e de rem. fort. 2.1, per il richiamo al ius gentium a proposito della restituzione nel mutuo e nel comodato). Con la sottolineatura del fatto che la necessitas solvendae rei operava in conformità ai iura nostrae civitatis, la separazione dell’obligatio rispetto all’officium era, dunque, completa e netta. Nel quadro di questa ricostruzione, evidentemente, il significato che attribuiamo alle parole ‘secundum nostrae civitatis iura’ è quello di

«Redde!»’. In particolare, in questo brano, che sembra riferirsi al debere derivante da mutuo – al termine dell’intero argomentare svolto nei §§ 3.14-15 (impostato in prospettiva giuridica per contrapporre il beneficium al creditum) si legge, infatti, la seguente affermazione: ‘qui dat beneficia, Deos imitatur, qui repetit, f e n e r a t o r e s ’ (§ 4) –, il ius gentium è accostato all’aequum ed è, in sé, direttamente allusivo al valore della fides, elemento su cui è imperniata l’immediata prosecuzione dell’argomentare senechiano (3.15). In quest’ultimo squarcio, peraltro, la coppia fides/aequum e l’osservanza dell’honestum sono chiamate in causa in relazione all’adempimento degli obblighi derivanti da mutuo, emptio-venditio e pacta: ben. 3.15.1 ‘Utinam quidem persuadere possemus, ut p e c u n i a s c r e d i t a s tantum a volentibus acciperent! Utinam nulla stipulatio e m p t o r e m v e n d i t o r i obligaret nec p a c t a c o n v e n t a q u e impressis signis custodirentur, fi d e s potius illa servaret et a e q u u m c o l e n s animus! [2]. Sed n e c e s s a r i a optimis praetulerunt et cogere fi d e m quam expectare malunt....’. E ancora, sulla base della testimonianza di ben. 3.14.2, è agevole riconoscere la medesima portata del richiamo al ius gentium nell’affermazione di Sen., de rem. fort. 2.1 ‘Gentium lex est, quod acceperis reddere’, in cui il rapporto ‘accipere-reddere’ è da intendere come riferentesi sia al mutuo che al comodato: l’affermazione, infatti, va letta alla luce di una concezione senechiana della vita come un prestito da parte della natura, e della morte come restituzione di quanto ricevuto in prestito, un’idea che è più volte da Seneca espressa in termini giuridici con allusione ora al mutuo ora al comodato (cfr., nel medesimo scritto, i §§ 2.4 ‘“Morieris”. Nihil grave, quod semel est. a e s a l i e n u m meum novi. hoc equidem cum eo creditore contraxi, cui decoquere non possum’ e 3.2 ‘ “Peregre morieris”. Ego quod debeo, solvere paratus sum: videat f e n e r a t o r , ubi me appellet’; nonché consol. ad Polib. 10.4 ‘...Rerum natura illum tibi sicut ceteris fratribus fratres suos non mancipio dedit, sed c o m m o d a v i t ; cum visum est, deinde repetiit...’ e 10.5 ‘Si quis p e c u n i a m c r e d i t a m solvisse se moleste ferat, eam praesertim cuius u s u m g r a t u i t u m a c c e p e r i t , nonne iniustus vir habeatur? Dedit natura fratri tuo vitam, dedit et tibi: quae, suo iure usa, si a quo voluit d e b i t u m s u u m citius exegit, non illa in culpa est, cuius nota erat condicio, sed mortalis animi spes avida...’; l’allusione ad un debitum, ma senza ulteriori specificazioni, è anche in 2.8: ‘“Morieris”. Immo carnis tributum naturae debitum persolves, mox futurus liber’; per riferimenti al comodato in altri autori cfr. Publ. Syr., sent. 220, Lucr., rer. nat. 3.971 e, più tardi, in Arnob., adv. nat. 2.27; queste testimonianze, senechiane e non, sono state trascurate da

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“conformemente agli istituti del nostro ordinamento giuridico positivo”, con sottintesa contrapposizione, appunto, rispetto ai princìpi riconducibili alla coppia natura/ius gentium. E’ appena il caso di precisare che questa traduzione-interpretazione si sottrae alle obiezioni cui sono esposte le prime due tra le interpretazioni proposte in dottrina che abbiamo più su ricordate. Infatti, quel che individuiamo nelle parole di chiusura delle definizione non è un generico riferimento ad una conformità all’ordinamento giuridico, che apparirebbe, come si è detto, superfluo e banale, bensì un riferimento pregnante all’organizzazione giuridica positiva di Roma rispetto a princìpi ‘prepositivi’ scaturenti dalla natura. Correlatamente, il ius gentium al quale riteniamo Gaio abbia contrapposto i iura civitatis non è il ius gentium nell’accezione che, come abbiamo detto, lascerebbe fuori, inconcepibilmente, le numerose causae obligationis fruibili anche dai peregrini,409 sibbene il ius gentium come concettualmente contiguo o sovrapposto alla natura e inteso quale insieme di princìpi e di valori etico-giuridici che riguardano la sfera dell’honestum e dell’officium.410

H.WAGNER, Studien zur allgemeinen Rechtslehre des Gaius cit., 25, il quale senza esitazione afferma che de remed. fort. 2.1, oltre che ben., 3.14.2, si riferisce al mutuo).

406 Cfr., per tutti, R.VOGGENSPERGER, Der Begriff des «Ius naturale» im Römischen Recht, 1952, 100ss., spec. 104ss.; H.WAGNER, Studien zur allgemeinen Rechtslehre des Gaius cit., passim e spec. 58ss.; 99ss.; 113ss.; 173ss.; 214ss.; P.DIDIER, Les diverses conceptions du droit naturel à l’oeuvre dans la jurisprudence romaine des IIe et IIIe siècles, in SDHI 47, 1981, 204; G.ANSELMO ARICÒ, Ius publicum-ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone cit., 729ss.; M.KASER, Ius gentium cit., 40s.; da ultimo, A.ARNESE, Nancisci in Gaio: la natura e il caso cit., 62ss.

407 Supra, su ntt. 386-397.408 Cfr., con particolare limpidezza, Sen., ben. 3.7.2, su cui supra, n. 13 sub II

e in questo stesso paragrafo, sub 3.409 Supra, su nt..... 410 Cfr. supra, su nt. 403. Questa accezione di ius gentium come coordinato

all’ambito dell’officium (e alle virtutes a questo connesse) non ci sembra sia stata presa in specifica considerazione in dottrina, né in relazione allo studio della fenomenologia dell’officium né in sede di valutazione della nozione di ius gentium. A quest’ultimo riguardo, è emblematica, in particolare, la mancata registrazione di questa prospettiva anche nella trattazione di F.WIEACKER, Römische Rechtsgeschichte, I, 1988, 444s. e 639ss., ove, pure, un apposito discorso è dedicato all’influsso della riflessione stoica e ciceroniana sulla formazione della categoria del ius gentium (spec. 444) e, addirittura, alla presenza del ‘Naturrecht’ e della ‘stoische Pflichtenlehre’ nella giurisprudenza repubblicana (spec. 642ss.). Lo stesso dicasi per la più volte citata recente monografia del Kaser sul ius gentium, ove, pure, l’occasione per un

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D’altra parte, siffatta traduzione-interpretazione è perfettamente consona all’usus loquendi gaiano. Quanto al termine ‘iura’, il suo impiego in relazione ai concreti prodotti della nomopoiesi è attestato, con il significato di ‘istituti’ o ‘istituzioni giuridiche’, in Gai 1.2 ‘Constant ... iura populi Romani ex....’,411 riscontro assai importante data la posizione strategica rispetto all’intera esposizione del manuale; con riferimento a ‘regole’ e/o ‘istituti giuridici’ esso compare in Gai 3.96412 e nella dicotomia ‘civilia iura-naturalia iura’ di Gai 1.158413 e D.4.5.8 (Gai.

riconoscimento del legame esistente tra ius gentium e ambito dell’officium era agevolmente offerto dalla riflessione che l’Autore compie (p. 143s. e nt. 586) sul rapporto tra (possibile) connotazione del mandatum come istituto iuris gentium ed origine del mandatum stesso ‘ex officio atque amicitia’. Nel corso degli ultimi anni, poi, si sta dipanando una ricca produzione del Behrends, particolarmente sensibile al versante etico del ius gentium, e segnatamente ai valori della fides e dell’aequum (basti citare, anche per i richiami ivi contenuti a precedenti lavori con analoghi spunti, Antropologie juridique de la jurisprudence classique romaine, in Rev. hist. de droit franç. et étr., 68, 1990, spec. 348ss.; Die Grundbegriffe der Romanistik, in Index 24, 1996, spec. 12ss.; Dalla mediazione arbitrale alla protezione giudiziaria. Genesi e vicende delle formula edi buona fede e delle cd. formulae in factum conceptae, in C.Cascione-C.Masi [a cura di], Diritto e giustizia nel processo. Prospettive storiche costituzionali e comparatistiche, 2002, 197ss.), ma, ancora una volta, senza una specifica segnalazione del coordinamento tra ius gentium e ambito degli officia.

411 ‘Constant autem iura populi Romani ex legibus, plebiscitis, senatusconsultis, constitutionibus principum, edictis eorum, qui ius edicendi habent, responsis prudentium’. Contrariamente ad un diffuso convincimento, riteniamo che il termine ‘iura’ all’interno della locuzione ‘iura populi Romani’ si riferisca non direttamente alle fonti di produzione, bensì al risultato, al prodotto dei diversi fattori nomopoietici, equivalendo, come diciamo nel testo, ad ‘istituti, istituzioni giuridiche’. In questo senso è indicativo, anzitutto, l’impiego dell’espressione ‘constare ex’ (lo hanno rilevato, di recente, A.GUARINO, La consuetudine e il catalogo delle fonti, in Pagine di diritto romano, IV, 1994, 367s.; ID., St. Gallo 1, 1997, 344s.; F.GALLO, Un nuovo approccio per lo studio del ius honorarium, in SDHI 62, 1996, 23 e nt. 65; A.CORBINO, Nota minima in margine ai valori di “ius”, in Mél. Wolodkiewicz, I, 2000, 183); ma, a nostro avviso, è probante anche la notazione del § 7 ‘responsa prudentium sunt sententiae et opiniones eorum, quibus permissum est i u r a c o n d e r e ’, la quale, fungendo da pendant rispetto alle parole del § 2 ‘constant iura populi Romani ex ... responsis prudentium’, mostra che, nei §§ 3-7, Gaio sta passando in rassegna i vari fattori nomopoietici intendendoli non come (essi stessi) ‘iura’, bensì come atti o attività che hanno contribuito e contribuiscono a condere i iura (populi Romani).

412 Il relativo dettato è riportato immediatamente di seguito, nel testo.413 ‘Sed adgnationis quidem ius capitis deminutione perimitur, cognationis

vero ius eo modo non commutatur, quia civilis ratio civilia quidem iura

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4 ad ed.);414 e il termine allude a ‘situazioni giuridiche soggettive’ in D.28.5.32.1 (Gai. 1 de testamentis ad ed. praetoris urbani): ‘... omnia iura civitatis in personam eius in suspenso retinentur...’. Quanto al sostantivo ‘civitas’ inteso nel senso di ‘complessiva organizzazione giuridica’ o, in termini modernizzanti, ‘ordinamento giuridico’, basterà richiamare un brano del manuale istituzionale, per noi di estremo rilievo in quanto vi compaiono insieme tanto il termine ‘civitas’ in siffatta accezione quanto il termine ‘iura’ nel senso di ‘istituti giuridici’: Gai 3.96 ‘Item uno loquente **** haec sola causa est, ex qua iureiurando contrahitur obligatio. Sane ex alia nulla causa iureiurando homines obligantur, utique cum quaeritur de iure Romanorum. Nam apud peregrinos quid iuris sit, s i n g u l a r u m c i v i t a t i u m i u r a requirentes aliud intellegere poterimus...’ (si tratta, peraltro, di un testo che avevamo già in precedenza indicato come uno degli indizi in favore della paternità gaiana della definizione;415 qui non sarà inutile sottolineare nuovamente anche la simmetria della struttura ‘singularum civitatium iura’ rispetto a ‘nostrae civitatis iura’). Quanto, infine, all’aggettivazione ‘n o s t r a civitas’, essa compare in un altro luogo delle stesse Res cott. e, si badi, proprio nell’ambito di una contrapposizione con un assetto giuridico (avvertito come) comune a tutte le gentes, e cioè in una prospettiva identica a quella in cui noi collochiamo la chiusura della definizione: D.41.1.1pr. (Gai. 2 rer. cott.) ‘Quarundam rerum dominium nanciscimur i u r e g e n t i u m , quod r a t i o n e n a t u r a l i inter omnes homines peraeque servatur, quarundam iure civili, id est iure proprio civitatis nostrae.....’.416 Si aggiunga, poi, il riscontro offerto dal seguente brano, conservato nelle Istituzioni giustinianee ed escerpito, a nostro avviso, dalle Res cott.:

J.1.2.11 ‘Sed n a t u r a l i a i u r a , quae apud omnes gentes peraeque servantur, divina quadam providentia constituta semper firma atque immutabilia permanent: e a vero, q u a e ipsa sibi quaeque c i v i t a s corrumpere potest, naturalia vero non potest’.

414 ‘Eas obligationes, quae naturalem praestationem habere intelleguntur, palam est capitis deminutione non perire, quia civilis ratio naturalia iura corrumpere non potest....’. Su questo brano cfr. infra, n. 16.2.

415 Supra, n. 8.416 Anche questo testo, come Gai 3.96, avevamo già autonomamente

considerato quale indizio a sostegno della provenienza della definizione dalle Res cott.: supra, n. 8.

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c o n s t i t u i t , saepe mutari solent vel tacito consensu populi vel alia postea lege lata’.

Che questo brano possa derivare da Gaio è stato autorevolmente sostenuto dal Nörr417 e, in adesione, dal Waldstein,418 ma esclusivamente in ragione del fatto che il giurista antonino è, tra quelli a noi noti, «der stärkste Deklamator für die Würde des Naturrechts»: il che ha, coerentemente, lasciato sussistere per i due studiosi anche l’eventualità della provenienza da un’opera istituzionale di un altro giurista classico.419

Per parte nostra, ci orientiamo con maggiore decisione per la paternità gaiana, e specificamente per l’originaria appartenenza del testo alle Res cott., sulla base del concorrere di indicazioni più precise. Anzitutto, da un punto di vista formale non può sfuggire che le parole ‘apud omnes gentes peraeque servantur’ richiamano immediatamente quelle di Gai 1.1 ‘apud omnes populos peraeque custoditur’ e quelle di D.41.1.1pr. (Gai. 2 rer. cott.) ‘quod ratione naturali inter omnes homines peraeque servatur’; come pure è palese che la struttura ‘quae ipsa sibi quaeque civitas constituit’ è identica a quella di Gai 1.1 ‘quod quisque populus ipse sibi ius constituit’. E ancora, può notarsi che la medesima entificazione di ‘naturalia iura’ ricorre, in tutto il corpus giurisprudenziale pervenutoci, due volte in Gaio (Gai 1.158 e D.4.5.8 [Gai. 4 ad ed.])420 e una volta in Ulpiano (D.37.4.8.7).421

Accanto a questi elementi di ordine testuale, già significativi, rilevano due

417 D.NÖRR, Rechtskritik in der römischen Antike, 1974, 101.418 W.WALDSTEIN, Ius naturale in der nachklassichen römischen Recht und bei

Justinian, in ZSS 111, 1994, 34 (in generale, cfr. p. 33ss. per la difendibilità dell’origine classica del dettato).

419 In passato, ma senza argomenti persuasivi, M.VOIGT, Das jus naturale, aequum et bonum und jus gentium der Römer, I, 1856, aveva attribuito il testo a Marciano; è poi prevalsa, tuttavia, la posizione agnostica di C.FERRINI, Sulle fonti cit., 334: cfr., ad es., G.LOMBARDI, Sul concetto di ius gentium cit., 280 e nt. 1 (il quale, peraltro, pensa a pesanti interventi giustinianei sul dettato originario) e H.WAGNER, Studien cit., 150 nt. 4; M.KASER, Ius gentium cit., 60. Per C.MASCHI, La concezione naturalistica cit., 221ss., il testo sarebbe di fattura giustinianea almeno fino a ‘immutabilia permanent’; ma v., contra, già P.FREZZA, Ius gentium, 308.

420 I due testi sono trascritti supra, rispettivamente in nt. 429 e 430.421 D.37.4.8.7 (Ulp. 40 ad ed.) ‘Si quis emancipatum filium exheredaverit

eumque postea adrogaverit, Papinianus libro duodecimo quaestionum ait iura naturalia in eo praevalere: idcirco exheredationem nocere’. Dal confronto con D.28.2.23pr., che conserva il brano di Papiniano richiamato da Ulpiano, sembra necessario desumere (a meno di non pensare ad un’ulteriore prosecuzione del discorso papinianeo, non trascritta dai compilatori) che è ad Ulpiano che si deve l’espressione ‘naturalia iura’.

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dati che attengono alla sostanza delle affermazioni. Da un lato, i termini in cui è congegnata la precisazione relativa ai naturalia iura, ‘quae apud omnes gentes peraeque servantur’, fanno emergere quella contiguità/identificazione tra natura e ius gentium che, su influsso ciceroniano, si riscontra nell’opera gaiana;422 dall’altro lato, sempre alla luce del collegamento tra Gaio e Cicerone, è interessante il fatto che il contenuto del discorso conservato in J.1.2.11 richiama le osservazioni che l’Arpinate a più riprese ha compiuto sul carattere immutabile e sempiterno della lex naturae rispetto alla portata in sé potenzialmente temporanea e caduca delle statuizioni delle singole civitates: rep. 3.22.33; leg. 1.6.19; 2.4.8; leg. 2.6.14.423

Ora, in J.1.2.11 non solo ci si riferisce (in modo implicito ma assai chiaro, tramite il pronome ‘ea’, che riprende il precedente e correlato ‘naturalia iura’) a iura della civitas nel senso di istituti e regole, ma, ulteriormente, questi iura della civitas sono richiamati per indicare un assetto giuridico positivo a fronte dei princìpi riconosciuti dalla natura: si tratta, cioè, dei medesimi tasselli e della medesima cornice concettuali che abbiamo ipotizzato per le parole ‘secundum nostrae civitatis iura’. Per ultimo, osserviamo che la plausibilità della nostra lettura appare corroborata da un dato di ordine sistematico. In proposito, dal momento che, come abbiamo più volte rilevato, la necessitas solvendi indicata nella definizione consiste nella cogenza dell’adempimento determinata dall’esperibilità di una iniziativa giudiziale (n. 13), gli “istituti (‘iura’) della nostra civitas”, ai quali, appunto, si ricollega nell’enunciato la necessitas solvendi e che si contrappongono ai valori della natura presenti presso tutte le gentes, consistono nei modelli dell’agere dichiarativo (rientranti, del resto, tra i ‘i u r a populi Romani’ di cui Gaio si era occupato nelle Institutiones).424 Ebbene, questa circostanza trova un prezioso pendant nel fatto che, come abbiamo visto (n. 14), nelle Res

422 Sul punto cfr., per tutti, R.VOGGENSPERGER, Der Begriff des «Ius naturale» cit., 106; H.WAGNER, Studien zur allgemeinen Rechtslehre des Gaius cit., passim e spec. 58ss.; 99ss.; 113ss.; 173ss.; 214ss.

423 Rimane dubbio se il riferimento alla divina providentia sia frutto di un inserimento giustinianeo (ad es., di recente, H.WAGNER, Studien cit., 150 e nt. 4; 221; D.NÖRR, Rechtskritik cit., 101 e nt. 83) o, riflettendo anch’esso una tradizione di pensiero stoico e ciceroniano, possa attribuirsi anch’esso ad un giurista classico, come segnala, ultimamente, W.WALDSTEIN, Ius naturale in der nachklassichen römischen Recht cit., 35s. (ma cfr. già, su questa possibile ascendenza stoica, P.FREZZA, Ius gentium, in RIDA 1949, 308).424 ? Per il valore dell’espressione ‘iura populi Romani’ di Gai 1.2 come riguardante gli istituti giuridici (anziché le fonti di produzione) cfr. supra, nt. 411.

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cott. la trattazione sulle obligationes prosegue, dopo le battute iniziali di presentazione, con una dicotomia (obligationes civiles-honorariae: J.3.13.1) che si fonda proprio sulle sfere nomopoietiche positive della ‘nostra civitas’425 e che è congegnata proprio dal punto di vista della tutela processuale.

17. Precisazioni sul valore e sull’oggetto della definizione.

425 Volendo sottilizzare, a proposito del coordinamento tra la chiusura della definizione e la summa divisio obligationum si può compiere la seguente riflessione. La specificazione ‘iura n o s t r a e civitatis’ sembra ben rispondere all’esigenza di caratterizzare l’assetto giuridico della singola civitas-Roma rispetto alla generalità delle civitates, nel quadro di una rappresentazione gaiana dell’obligatio come istituto «universale», riconosciuto presso tutti i popoli (cfr. G.SEGRÈ, Obligatio, obligare, obligari cit., 570; la prova è nei ripetuti riferimenti ‘comparatistici’ delle Institutiones proprio in tema di obbligazioni: cfr., per tutti, F.GORIA, Osservazioni sulle prospettive comparatistiche nelle Istituzioni di Gaio cit., spec. 211ss.). Ebbene, l’alternativa o, se si preferisce, la compresenza tra ius civile e ius honorarium, su cui si articola appunto la summa divisio, è un fenomeno peculiare dell’ordinamento romano rispetto a quello delle altre civitates, e come tale era avvertito dai cultori del diritto lungo tutto l’arco temporale in cui l’ordinamento giuridico si è atteggiato in termini pluralistici. Lo rivelano un brano di Cicerone ed un testo di Paolo. Il primo è un passaggio del De legibus nel quale l’Arpinate, tramite lo scambio di battute fra Attico e Marco, precisa quale sarà l’impostazione tematica del trattato e nel quale è proprio un dualismo ‘editto pretorio-XII Tavole’ ad esser contrapposto come paradigma dei ‘iura nostri populi’ alla universale ‘natura iuris’, alle ‘leges quibus civitates regi debent’ e ai ‘iura populorum’ (1.5.16-17): « ATTICUS: ‘Non ergo a praetoris edicto, ut plerique nunc, neque a duodecim tabulis, ut superiores, sed penitus ex intima philosophia hauriendam iuris disciplinam putas’. MARCUS: ‘Non enim id quaerimus hoc sermone, Pomponi, quem ad modum caveamus in iure, aut quid de quaque consultatione respondeamus. [...] Nobis ita complectenda in hac disputatione tota causa est universi iuris ac legum, ut, hoc civile quod dicimus, in parvum quendam et angustum locum concludatur. Natura enim iuris explicanda nobis est, eaque ab hominis repetenda natura, considerandae leges quibus civitates regi debeant; tum haec tractanda, quae composita sunt et descripta iura et iussa populorum, in quibus ne nostri quidem populi latebunt quae vocantur iura civilia’». Il testo di Paolo consiste nella nota rassegna circa le possibili significationes del termine ‘ius’ (D.1.1.11), là dove il giurista afferma che, diversamente da quanto vale per qualunque altra civitas, al termine ‘ius’ si riconduce a Roma anche una sfera ordinamentale ulteriore, costituita dal ius honorarium: ‘Ius pluribus modis dicitur: uno modo, cum id quod semper aequum ac bonum est ius dicitur, ut est ius naturale. altero modo, quod omnibus aut pluribus i n q u a q u a c i v i t a t e utile est, ut est ius civile. nec minus ius recte appellatur i n c i v i t a t e n o s t r a i u s h o n o r a r i u m’. che (sull’angolazione

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In sede di presentazione della ricerca avevamo anticipato che, a nostro avviso, le parole ‘obligatio est iuris vinculum, quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei secundum nostrae civitatis iura’, formulate da Gaio in apertura di trattazione sulle obligationes nelle Res cott., anziché esser concepite come miranti a descrivere in modo compiuto ed esaustivo in cosa consiste l’obligatio (quel che si suole indicare come definizione intensionale o connotativa),426 sono state pensate in chiave di distinzione dell’obligatio da un’altra figura concettuale. Dopo aver dato conto di questo nostro convincimento, riconducendo ciascun tassello testuale ad un dualismo tra vincolatività dell’obligatio e vincolatività dell’officium, possiamo adesso esplicitare che – come del resto sarà apparso chiaro a partire dalla distesa enunciazione della nostra ipotesi (n. 12) e per tutto il corso della costruzione della stessa – continuando a parlare di ‘definizione di obligatio’ abbiamo implicitamente fatto riferimento ad un’operazione mentale di distinzione tra due realtà aventi tratti comuni (il carattere vincolante; la produzione di un dovere di adempiere; la rappresentazione in termini di vinculum e di obligare e debere) e però, al contempo, elementi discretivi (esistenza-mancanza di un meccanismo giudiziale di

‘comparatistica’ del discorso cfr., in particolare, il recente contributo di A.MANTELLO, Il sogno, la parola, il diritto. Appunti sulle concezioni giuridiche di Paolo, 1993, 19 e 42s.; ma si vedano . anche i cenni in M.TALAMANCA, Per la storia della giurisprudenza romana, in BIDR 80, 1977, ... nt. .... e in F.GALLO, La riflessione di Papiniano sul ius honorarium cit., 50). E che la presenza del ius honorarium fosse una particolarità della sola civitas-Roma doveva, certo, esser avvertito anche dal nostro Gaio, pur se non ci sono giunte sue esplicite affermazioni in tal senso (possiamo soltanto segnalare l’intrigante circostanza che soltanto il ius edicendi, tra i vari fattori nomopoietici menzionati in Gai 1.3-7, è accompagnato da un apposito riferimento al populus Romanus: Gai 1.6 ‘Ius autem edicendi habent magistratus p o p u l i R o m a n i ’. Che questa precisazione costituisca il riflesso di una radicata consapevolezza della peculiare ‘romanità’ del ius edicendi e, quindi, del ius honorarium? Non abbiamo elementi per rispondere senz’altro affermativamente. Certo è che, in contrario, non varrebbe osservare che tutte le fonti, e non solo il ius edicendi, singolarmente illustrate nei §§ 3-7 sono dapprima menzionate, nel § 2, all’interno di un elenco che si apre con le parole ‘Constant autem iura p o p u l i R o m a n i ex ...’: infatti, diversamente da quanto accade nel § 6 con riguardo al ius edicendi, nell’elencazione del § 2 l’indicazione ‘populi Romani’ non è applicata alle fonti di produzione, bensì agli istituti giuridici che da quelle sono state introdotte: supra, nt. 427).

426 Cfr., per tutti, P.ZANNINI, Rappresentazione dinamica del fenomeno giuridico nelle Istituzioni di Gaio cit., , 377 e nt. 10 (con bibl.).

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costrizione all’adempimento; riconduzione agli istituti positivi della civitas e, rispettivamente, alla natura e all’honestum). Evidentemente, così facendo, abbiamo assunto il verbo ‘definire’ nel senso, corrispondente alla sua formazione etimologica, di determinare i confini (de-finire) di un istituto o di una figura, isolando e distinguendo da un altro istituto o un’altra figura per qualche verso simile e, per l’appunto, ‘affine’: ciò, del resto, in conformità ad un’opzione terminologico-concettuale già compiuta dagli stessi giuristi romani.427-428 Meritano di esser segnalati alcuni aspetti che riguardano la tecnica con cui la de-finizione di obligatio appare costruita. In primo luogo, può notarsi che essa risulta congegnata attraverso il ricorso al criterio del genus e della differentia. Segnatamente, posto che l’apertura ‘obligatio est iuris vinculum’ imprime il senso e, per così dire, traccia il binario all’intero enunciato (come preciseremo meglio tra breve), è significativo che essa consti dell’immagine del ‘vinculum’, alla quale si rapportano tanto l’obligatio quanto il beneficium, l’amicitia, la

427 In argomento, rinviamo alle limpide pagine di B.ALBANESE, «Definitio periculosa». Un singolare caso di duplex interpretatio, in St. G.Scaduto, 3, 1970, 321-331 (ora in Scritti giuridici, cit., I, 723-733). 428 E’ il caso di avvertire che, per quanto il confronto con le Institutiones lasci qua e là riconoscere un’impostazione delle Res cott. meno pragmatico-operativa e più teorica – si pensi al fatto che, in tema di modi di acquisto della proprietà, al posto del criterio sistematico basato, secondo una visuale dinamico-operativa, sull’applicabilità o meno di mancipatio, in iure cessio e traditio (Gai 2.18-65), Gaio segue adesso il criterio della riconduzione al ius gentium e al ius civile (D.41.1.1pr.); e alla circostanza che, in materia di obbligazioni, compare una divisio impostata sulle sfere del ius da cui i diversi fattori traggono giuridicità (J.3.13.1: ‘obligationes civiles-honorariae’) a fianco e prima ancora della classificazione riguardante i concreti fattori di produzione del vincolo obbligatorio (D.44.7.1pr.: contratti, delitti, variae causarum figurae): cfr. anche supra, nt. 321 – non è assolutamente possibile immaginare se in questo scritto vi fosse una diffusa tendenza alla formulazione di enunciati generali e, più particolarmente, se la presenza della de-finizione di obligatio possa calarsi in un più ampia rete di operazioni concettuali aventi analoga portata. Del resto, non può escludersi che con riguardo all’obligatio l’esigenza di una siffatta delimitazione sia derivata, piuttosto che da una generale propensione in tal senso dell’autore dell’opera, semplicemente da una sollecitazione contingente sorta, come si è detto (n. 14), sia dall’apposita attenzione che, nelle Res cott., Gaio dedica a quel che costituisce il fattore obbligante all’interno delle singole figure negoziali, sia dalla specifica considerazione, in questo scritto, di figure quali le obligationes re nella loro totalità e la negotiorum gestio, che facilmente si prestavano ad evidenziare nella mente dell’autore (in ragione, appunto, della predetta apposita attenzione) la fenomenologia dell’officium. In altri termini, l’operazione de-finitoria con riguardo all’obligatio potrebbe anche aver costituito un episodio isolato all’interno delle Res cott.

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necessitudo, l’officium e i valori a questi connessi (n. 11 sub VI), e dell’aggiunta del termine ‘iuris’, che, per l’appunto, allude a quel che di specifico ha questo vinculum rispetto agli altri. Pur senza volerne sopravvalutare l’importanza, è comunque interessante osservare che questa tecnica è utilizzata dallo stesso Gaio nelle Institutiones, a proposito della nozione di agnati: Gai 1.156 ‘Sunt autem agnati (Dig.: qui) per virilis sexus personas cognatione iuncti (Dig.: sunt), quasi a patre cognati’.429 Questa nozione è fornita avendo in mente i casi in cui non si instaura un rapporto di agnatio: lo si constata nel seguito del § 156, in cui il giurista ha cura di precisare che coloro che, invece, ‘per feminini sexus personas cognatione coiniunguntur’ non sono agnati, bensì ‘naturali iure cognati’.430 E, cosa che maggiormente rileva, per mettere in risalto l’elemento discretivo ‘per virilis sexus personas’ il giurista lo ha anticipato rispetto alle parole ‘cognatione iuncti’ (valide, invece, anche per il diverso fenomeno della cognatio naturali iure): proprio quel che si verifica con riguardo all’obligatio, con l’anticipazione del discriminante ‘iuris’ rispetto al sostantivo ‘vinculum’. Del pari, è interessante notare che l’enunciato ha una struttura estremamente compatta e densa, nella quale i singoli tasselli che si susseguono hanno un peso essenziale, ma non nel senso di aggiungere aspetti o dati ulteriori ed autonomi rispetto alle parole ‘obligatio est iuris vinculum’, bensì in quanto rivolti, tutti, a far dischiudere progressivamente il significato di quelle parole d’esordio, già in sé ricomprendenti i termini della differenziazione dell’obligatio rispetto all’officium. Così, fissata l’equivalenza ‘obligatio=iuris vinculum’, segue

429 Il testo ci è giunto anche attraverso D.26.4.1, con le varianti che abbiamo indicato tra parentesi. Al riguardo, nota finemente R.MARTINI, Le definizioni cit., 211 che queste varianti sottolinenao meglio il carattere definitorio delle parole gaiane.

430 Conviene trascrivere l’intero passaggio in questione: ‘Sunt autem agnati per virilis sexus personas cognatione iuncti, quasi a patre cognati, veluti frater eodem patre natus, fratris filius neposve ex eo, item patruus et patrui filius et nepos ex eo. At hi, qui per feminini sexus personas cognatione coniunguntur, non sunt agnati, sed alias naturali iure cognati rell.’. E’ importante notare che quel che viene distinto dalla nozione di agnati (‘At hi qui ....’) non è, dal canto suo, una definizione: se così fosse, la nozione di agnati sarebbe da intendere come primo membro di una contrapposizione classificatoria (come avviene in altri casi nel manuale gaiano, per i quali v. la ragionata rassegna in R.MARTINI, Le definizioni cit., 207ss.), e, di conseguenza, si svilirebbe il rilievo della sua costruzione intorno all’elemento discriminante (e, cioè, de-finiente) ‘virilis sexus’.

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il tratto ‘quo necessitate astringimur alicuius solvendae rei’, e cioè l’esplicitazione del predetto differenziarsi: esso consiste nell’esistenza di un adstringi che è determinato non da una spinta di natura etica, bensì da una necessitas solvendi; quindi, le parole finali ‘secundum nostrae civitatis iura’, nel completare il riferimento a tale necessitas solvendi, spiegano che la stessa è dettata dagli istituti (processuali) positivi della civitas e, in tal modo, precisano al contempo la diversità rispetto agli stimoli interiori che presiedono all’adempimento dell’officium e che derivano, invece, dalla natura: il che significa che queste parole conclusive, in definitiva, contribuiscono anch’esse al pieno dispiegarsi dell’iniziale sintagma ‘iuris vinculum’. All’efficacia della comunicazione contribuisce, infine, anche una felice scelta nella disposizione delle parole utilizzate. Così, anteponendo il genitivo ‘iuris’ al termine ‘vinculum’ (in un altro brano delle Res cott. si parla, all’opposto, di ‘vinculum iuris’: J.2.23.1) l’autore fa sì che la giuridicità come elemento discretivo del vinculum-obligatio rispetto a vincula di altro tipo collegati alla sfera dell’officium risalti immediatamente non soltanto all’interno della frase ‘obligatio est iuris vinculum’, ma anche rispetto all’intero enunciato che, appunto, si apre con siffatto riferimento al ‘ius’. Analoga considerazione può compiersi per le parole ‘necessitate adstringimur alicuius solvendae rei’. Posto che il termine necessitas non è concettualmente separabile dalle parole alicuius solvendae rei, il fatto che esso, anziché esser immediatamente contiguo a queste parole, è, invece, collocato prima del verbo ‘adstringimur’ determina una sua posizione di spicco che non riterremmo casuale: il giurista dà notevole rilievo a ciò da cui è determinato l’adstringi nel caso di un rapporto obbligatorio (e cioè, la coercibilità processuale), avendo in mente i diversi fattori di cogenza (e cioè, la fides, il pudor, l’aequitas etc.) che determinano l’adstringi con riguardo all’osservanza dell’officium.431 Infine, nella coda ‘secundum nostrae civitatis iura’ il segno ‘iura’, che allude alla positività degli istituti processuali a fronte della legge interiore, naturae congruens, dalla quale è imposta l’osservanza dell’officium, ha una posizione terminale (in un altro luogo delle Res cott. – D.41.1.1pr.432 – lo stesso Gaio ricorre, invece, ad una sequenza opposta: ‘ius civitatis nostrae’) che determina una

431 Si ricordi, in particolare, l’uso del verbo ‘obstringere’ (accanto a ‘obligare’ e ‘adligare’) attestato in relazione all’officium e al beneficium: supra, n. 11 sub V.

432 Il testo è trascritto supra, n. 8 su nt. 188.

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circostanza singolare: come notammo nelle battute introduttive (n. 1), l’intero enunciato si trova compreso tra due riferimenti al ius (‘iuris vinculum’; ‘nostrae civitatis iura’), e ciò determina una enfatizzazione della dimensione del giuridico che adesso, a conclusione dell’indagine, lungi dall’apparirci frutto del caso, acquista un preciso significato nel quadro di un’apposita contrapposizione al piano metagiuridico ed etico dell’officium.433

Quanto all’oggetto dell’enunciato, il quadro che si è andato fin qui componendo ci consente, adesso, di prender brevemente posizione su una questione che avevamo fino a questo punto rinviato e che può essere così formulata: le parole del giurista riguardano l’obligatio come rapporto che lega debitore e creditore o l’obligatio come atto che determina il sorgere di quel rapporto? Si tratta, peraltro, di una questione che è tanto più necessario e ineludibile considere in quanto il termine ‘obligatio’ come significante, oltre al rapporto obbligatorio, anche l’atto che obbliga è utilizzato, tra gli altri giuristi,434 anche da Gaio,435 e cioè proprio dal giurista che noi riteniamo esser l’autore della definizione. Ora, pur se non sono mancati, in anni non lontani, interventi diretti a sostenere almeno l’inerenza al dettato di entrambe le prospettive436 o a

433 Giunti a questo punto, è appena il caso di avvertire che il richiamo ai nostrae civitatis iura non costituisce alcuna pleonastica ripetizione rispetto al riferimento al ius fissato in apertura di definizione, come pure si è qualche volta adombrato in dottrina. Infatti, da un lato, ciò a cui si collega in modo immediato l’indicazione della conformità ai nostrae civitatis iura è, specificamente, l’elemento della necessitas solvendi e solo tramite quest’ultimo essa confluisce nell’affermazione iniziale ‘obligatio est iuris vinculum’; dall’altro lato, e correlatamente, le parole finali hanno una precisa funzione strategica, alla quale l’indicazione ‘i u r i s vinculum’ da sola non adempie: e cioè la sottolineatura del fatto che il necessitate adstringi è ricondotto agli istituti positivi (= i modelli dell’agere dichiarativo) della singola civitas Roma, a differenza dei valori che presiedono all’osservanza dell’officium, che sono, invece, conformi alla natura e al ius gentium.

434 Cfr., ad es., D.2.14.1.3 (Pedio-Ulpiano); 50.16.19 (Labeone-Ulpiano); 46.4.8.3 (Ulpiano); 5.1.20; 23.4.12.2 (Paolo). Per questi riscontri cfr. R.Santoro, Il contratto nel pensiero di Labeone cit., 14ss.; W.FLUME, Rechtsakt und Rechtsverhältnis cit., 23ss.; C.CANNATA, SDHI 57, 1991, 336 e nt. 10; 392 e nt. 45.

435 Cfr. i luoghi delle Institutiones richiamati supra, nt. 97. 436 F.DUMONT, Obligatio cit., 11. Questo studioso, commentando la definizione

di obligatio, osserva: « S’il ne plus question d’un acte qui astreint, mais de ses effets, [...] l’accent est mis sur la Haftung et non sur le debitum »; e, riferendosi congiuntamente ai contenuti di J.3.13pr. e di D.44.7.3pr. (la notazione di Paolo

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lasciare aperta la questione,437 la dottrina più recente sembra ormai essersi attestata nel senso di considerare come acquisita l’assunzione, da parte dell’autore della definizione, dell’obligatio come rapporto e non come atto obbligante.438 Ma in questa direzione i soli argomenti specifici rimangono tutt’ora i due addotti a suo tempo dal Marchi,439 che, a nostro avviso, non hanno alcuna consistenza.440 Piuttosto, l’assunzione di obligatio in chiave di rapporto, della quale anche noi siamo convinti (come, certo, sarà affiorato più volte tra le righe nel corso dell’indagine),

sulla obligationum substantia), scrive che « les deux définitions ne considèrent pas les rapports entre créancier et débiteur », e che esse « traduisent [...] le sentiment du vieil acte juridique essentiellement dirigé vers la Haftung du créancier, par lequel il acquérait un pouvoir sur le débiteur ».

437 L.LANTELLA, Note semantiche cit., 177ss.; 222ss.438 C.CANNATA, Le definizioni cit., 137; R.SANTORO, Il contratto nel pensiero di

Labeone cit., 17; B.ALBANESE, Papiniano cit., 168s.; G.PUGLIESE, Istituzioni cit., 508; M.TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano cit., 502; M.BRETONE, I fondamenti del diritto romano cit., 190.

439 A.MARCHI, Le definizioni romane dell’obbligazione cit., 38s. 440 Infatti, far leva sulla circostanza che i compilatori giustinianei, inserendo

la definizione subito prima delle due classificazioni trascitte in J.3.13.1 e 2, intendono la definizione stessa come riguardante il rapporto obbligatorio, e non l’atto obbligante (« La collocazione stessa della nostra definizione induce a ritenere che essa, dai bizantini, fu intesa come definizione del rapporto, perché fu inserita in un luogo delle Istituzioni (3.13 §§ 1 e 2) in cui si tratta di rapporti di obbligazione e non già di causae obligationum...»), se già appare imprudente da un punto di vista metodologico generale, tanto più è inadeguato in relazione ad un dettato che, in ragione della sua genericità e della sua mancanza di univoca espressività in termini tecnici, si presta particolarmente ad essere avvertito, magari già dagli antecessori giustinianei, con un significato differente rispetto a quello attribuitovi dall’autore della definizione. In realtà, la collocazione attuale della definizione può rilevare non in quanto attesti il modo in cui i compilatori giustinianei hanno inteso la definizione, bensì ove si assuma, come noi facciamo, che tanto la definizione quanto le due classificazioni riportate di seguito dai compilatori appartenessero originariamente ad un unico contesto (v. immediatamente infra, nel testo). Né è affidante il secondo argomento, consistente nell’osservazione che ‘obligatio’ al singolare e senza un’immediata connessione con una causa obbligante sarebbe usato dai giuristi esclusivamente nel senso di rapporto obbligatorio: « il singolare obligatio quando, come qui, è usato senza riferimento a una data causa obligationis, indica, di regola, il rapporto: se l’autore della definizione avesse voluto definire la causa obligationis avrebbe qui indubbiamente usato il plurale obligationes. Ci troviamo, dunque, innanzi a una definizione del rapporto ». Infatti, anche a prescindere da riserve sulla concludenza di un siffatto elemento indicatore, basterebbe pensare, a volerci immettere in quest’ordine di idee, alla celebre definizione labeoniana in D.50.16.19 del contractus come ‘ultro citroque obligatio’ e alla notazione di Paolo (D.5.1.20)

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ci sembra sostenibile sulla base delle seguenti circostanze, alcune discendenti dai risultati della ricerca che abbiamo fin qui condotto. Intanto, non è attestato nelle fonti, e apparirebbe del resto forzato, un uso del termine obligatio come atto obbligante in relazione ad un maleficium: accezione che, invece, dovremmo ammettere, in quanto il nostro testo costituisce un enunciato generalizzante che, certo, bisogna pensare come ricomprendente la totalità dei fattori obbliganti, e dunque anche la commissione di un atto illecito. Inoltre, è interessante osservare che il termine ‘vinculum’, la cui presenza iniziale fissa il punto di vista dell’intera rappresentazione, se astrattamente potrebbe alludere, anche in ambito obbligatorio, all’atto che determina uno stato di costrizione,441 tuttavia proprio in materia di obbligazioni risulta usato dai giuristi sempre in applicazioni che esprimono, con maggiore o minore approssimazione, l’effetto di un atto obbligante o la situazione che da questo scaturisce e, in particolare, l’idea di obbligo, rapporto vincolante, ‘vincolatività’, esposizione ad un obbligo e/o ad una responsabilità.442 E tra questi riscontri nelle fonti giurisprudenziali un certo rilievo assume il

‘Omnem obligationem pro contractu habendam existimandum est’ (per questi due riscontri basti rinviare agli studiosi citati supra, in nt.....; non può, invece, essere addotto contro il Marchi il dictum di Pedio riferito da Ulpiano in D.2.14.1.3 ‘nullum esse contractum, nullam obligationem, quae non habeat in se conventionem, sive re sive verbis fiat’, giacché, pur dovendosi ammettere che ‘obligatio’ indichi l’atto obbligante, la presenza delle parole ‘sive re sive verbis fiat’ fa sì che non ci si trovi di fronte ad un impiego di ‘obligatio’ al singolare «senza riferimento ad una data causa obligationis»).

441 Si consideri, ad es., l’affermazione di Cic., off. 3.31.111 ‘nullum ... vinculum ad adstringendam fidem iure iurando maiores artius esse voluerunt’, che qualifica come vinculum un atto: il giuramento (il iusiurandum, peraltro, era stato indicato dall’autore nello stesso contesto argomentativo proprio in termini di atto obbligante: 3.29.104 ‘est enim iusiurandum affirmatio religiosa; quod autem affirmate quasi deo teste promiseris, id tenendum est’; e del resto, il discorso fa parte di una più ampia trattazione sulla vincolatività dei pacta et promissa: 3.24.92ss.). La presenza dell’idea del ‘vincolo’ non appare, dunque, rilevante in sé considerata (diversamente, come sembra, B.ALBANESE, Papiniano cit., 168s.).

442 Cfr. D.3.3.67; D.12.6.59; 26.5.13.1-2; 26.7.39.5; 28.6.40; 30.43.3; 33.10.9.2; 41.2.46; 42.1.15.7; 46.1.52.2; 46.3.95.4; 49.15.21pr. (semmai, nella locuzione usata in D.45.1.134pr. [Paul. 15 resp.] ‘vinculo poenae matrimonia obstringi’ potrebbe, forse, scorgersi anche un indiretto riferimento al compimento di una stipulatio poenae quale causa dell’obstringi). Quanto agli impieghi nelle costituzioni imperiali, C.4.36.1.2 (a. 293); 4.2.6.1 (a. 293); 4.32.3 (a. 200); 8.45.2 (a. 240).

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testo di Modestino conservato in D.44.7.54,443 in cui è proprio la locuzione ‘iuris vinculum’ ad esser impiegata per esprimere l’idea di vincolatività, effetto obbligante: ‘contractus imaginarii ... iuris vinculum non optinent’: una testimonianza che, peraltro, acquista maggior peso ove si ammetta che il giurista tardoclassico abbia mutuato le parole ‘iuris vinculum’ proprio dalla definizione di obligatio (supra, n. 4).444

Quanto all’incidenza dei risultati della nostra ricerca, potrebbe, in primo luogo, citarsi l’impiego del sintagma ‘vinculum iuris’ in J.2.23.1, derivante dalle Res cott. (supra, n. 7), ove si preferisca ritenere che esso, come pare più probabile, alluda al prodursi di una situazione vincolante a seguito della rogatio fedecommissaria, piuttosto che alla rogatio stessa quale atto vincolante.445 Ma, soprattutto, in favore di una raffigurazione dell’obligatio come rapporto, anziché come atto, depone la circostanza che nelle Res cott. la trattazione sulle obligationes si articolava, dopo le battute iniziali di presentazione dell’argomento (comprendenti anche la definizione), su due distinzioni riguardanti entrambe le obligationes come rapporti (‘obbligazioni legibus constitutae - obbligazioni quas praetor ex sua iurisdictione constituit’; ‘obligationes ex contractu, ex maleficio, ex variis causarum figuriis’). A questo proposito, peraltro, non è inutile sottolineare la circostanza che due risultati che si sono formati indipendentemente l’uno dall’altro convergono tra loro. Da un lato, la rappresentazione dell’obligatio in chiave di rapporto obbligatorio, or ora constatata; dall’altro lato, la prospettiva de-finitoria dell’enunciato: è chiaro, infatti, che, nel suo contrapporsi alle relazioni vincolanti ricondotte alla sfera dell’officium,

443 ‘Contractus imaginarii etiam in emptionibus iuris vinculum non optinent, cum fides facti simulatur non intercedente veritate’.

444 La locuzione ‘iuris vinculum’ compare anche in due costituzioni imperiali, che, secondo il nostro modello interpretativo, sono successive all’epoca di fissazione della definizione; ma, in entrambi i luoghi, la locuzione non ha nulla a che vedere con la materia obbligatoria né, soprattutto, si riferisce ad un singolo atto o ad uno specifico rapporto vincolante. In particolare, in C.6.21.3pr. (a. 213) ‘Quamquam militum testamenta iuris vinculis non subiciantur, cum propter simplicitatem militarem quomodo velint et quomodo possint ea facere his concedatur,...’ l’espressione ha il significato di limiti e strettoie di natura formale imposti dall’ordinamento, in contrapposizione all’assenza di requisiti nella redazione del testamentum militis; e nelle affermazioni di C.9.9.28 (=Cth. 9.7.1, del 326) ‘domina a vinculis iuris excepta’ e ‘quae (scil. feminae) iuris nexibus detinentur’ il riferimento è direttamente alla vincolatività dell’ordinamento giuridico.

445 Sul punto cfr. supra, n. 7 e nt....

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anche l’elemento-obligatio doveva esser assunto come situazione vincolante e non come atto obbligante.446

Infine, e soprattutto, vi è un punto che più di ogni altro preme considerare e sottolineare con decisione, e che investe al contempo l’oggetto delle definizione e il valore scientifico della stessa. Si tratta, propriamente, di difendere la concludenza della definizione dalle gravi osservazioni formulate dal Marchi e dall’Arangio-Ruiz, che, autonomamente l’uno dall’altro e con diversità di punti di vista, hanno negato l’idoneità del dettato di J.3.113pr. a caratterizzare adeguatamente l’istituto dell’obligatio. Ciò, tanto più in quanto la critica dell’Arangio-Ruiz proprio assai di recente è stata testualmente riprodotta in maniera integrale447 e, d’altra parte, parrebbe aver influenzato, insieme con le pagine del Marchi, alcune importanti prese di posizione sia tra i romanisti sia tra i civilisti.448

446 In proposito, è opportuno avvertire che non è utilizzabile l’impiego in quanto tale del sostantivo ‘vinculum’ con riguardo alla sfera dell’officium, dal momento che esso ricorre con accezioni differenti nelle fonti letterarie che abbiamo a suo tempo citate (n. 11 sub VI). Così, ‘vinculum’ indica, sì, il rapporto-amicitia (Val.Max. 4.7 ‘amicitiae vinculum potens et praevalidum quod...solido iudicio inchoata voluntas contraxit’) e il rapporto-necessitudo (Cic., Lig. 21 e Gell. 13.3.1), nonché una relazione interpersonale che, a sua volta, è fonte di un rapporto o una generalità di relazioni (Cic., Planc. 5 e 27: consensus et societas consiliorum et voluntatum come vinculum dell’amicitia; la propinquitas e l’adfinitas sono vincula dell’amicitia; Quint., Decl. min. 343.12 ‘fides supremum rerum humanarum vinculum est’); ma indica l’atto-beneficium in Sen., ben. 6.41.2 ‘...beneficium commune vinculum est et inter se duos alligat’.

447 Ci riferiamo a V.GIUFFRÉ, Il diritto dei privati cit., 484: v. supra, n. 9 nt. 200.

448 Per i primi cfr. C.CANNATA, Le obbligazioni in generale, in P.Rescigno (direz.), Trattato di diritto privato, IX cit., 6, secondo cui dall’enunciato conservato in J.3.13pr. «l’obbligazione non esce affatto connotata, trattandosi piuttosto di una scialba definizione del dovere giuridico in generale» (una posizione che, anche in ragione della sede in cui è apparsa, si presta ad orientare la civilistica).

Per i secondi, cfr. M.GIORGIANNI, L’obbligazione. I, cit., 144s., il quale, nel dedicare un apposito sforzo al raggiungimento di una definizione dell’obbligazione, si è confrontato con gli analoghi tentativi compiuti dai giuristi romani, e ha ritenuto che la definizione di J.3.13pr. avrebbe il difetto – presunta conseguenza fatale dell’assunzione del punto di vista passivo del debitore – di ridursi ad una mera descrizione del dovere giuridico; e, più di recente, R.DI MAJO, Delle obbligazioni in generale (art. 1173-1176) cit., 1s., a detta del quale la definizione è «carente per quanto concerne la individuazione dei veri caratteri differenziali tra obligatio e vincoli giuridici di altra natura (ad es. doveri familiari)».

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In particolare, il Marchi, al termine della nota disamina ex professo dedicata alla definizione, si è chiesto se quest’ultima riesca ad individuare quel che vuole definire, e risponde negativamente in considerazione del fatto che il suo dettato non distinguerebbe l’obligatio rispetto ad altri rapporti giuridici quali, in particolare, quelli nascenti dalle garanzie reali.449 Ciò dipenderebbe dal fatto che la definizione « non dice, nè lascia in alcun modo intendere che il creditore, in forza del rapporto obbligatorio stesso, può esigere che il debitore paghi; essa non dice, nè lascia in verun modo intendere, che il debitore trovasi mediante actio in personam costretto al pagamento. Il testo si limita a rilevare, e in termini assai generici, solo l’effetto coercitivo del rapporto obbligatorio ».450 In realtà, il riferimento alla coercizione espresso con le parole ‘necessitate adstringimur’ mostrerebbe che l’autore della definizione, anziché la nozione classica dell’obligatio, ha, in realtà, scolpito la situazione di assoggettamento e di costrizione propria dell’obligatio primitiva.451 Sennonché, il fatto che la definizione coglie soltanto il lato passivo del rapporto obbligatorio, senza nulla dire circa la titolarità del creditore del diritto di esigere la prestazione, è agevolmente spiegabile nel quadro del modello interpretativo che abbiamo proposto. La definizione è impostata esclusivamente dall’angolazione del debitore in quanto è concepita come differenziazione rispetto alla posizione di un altro soggetto adstrictus, di un altro ‘debitore’:452 propriamente, di colui che è chiamato ad adempiere all’officium. E d’altra parte, quel riferimento alla necessitas che il Marchi intende come traccia di una configurazione arcaica dell’obligatio, è, invece, un elemento prezioso per riconoscere la correttezza e la congruità del dettato in relazione al diritto classico e, al contempo, per smentire l’affermazione che la definizione non lascerebbe intendere l’esistenza di un’actio in personam. Come abbiamo visto, infatti, tramite l’indicazione ‘necessitate ... alicuius solvendae rei’ Gaio, lungi dall’esprimere una generica e quasi incolore idea di cogenza del solvere, riproponeva una consolidata concettualizzazione tecnica,

449 A.MARCHI, Le definizioni cit., 43ss.450 A.MARCHI, op. cit., 44.451 A.MARCHI, op. cit., spec. 50ss. La nozione adeguata all’esperienza giuridica

classica e giustinianea sarebbe stata: ‘obligatio est iuris vinculum alicuius solvendae rei’ (p. 60)..

452 Si ricordi il ricorrente impiego esplicito di ‘debitum’, ‘debere’, ‘solvere’ in relazione all’officium e al particolare dovere di restituzione del beneficium: supra, n.13 sub V.

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attestata in fonti del I sec. a .C. e del I sec. d.C., che alludeva proprio alla coercibilità dell’adempimento tramite actio in personam (supra, n. 13). Dal canto suo, l’Arangio-Ruiz, muovendo dalla questione del significato delle parole ‘alicuius solvendae rei’, ha concluso che, ove non si voglia accusare l’autore di aver calibrato la definizione esclusivamente sulle obbligazioni di dare, bisogna attribuire a quelle parole un valore ampio che, però, esporrebbe il giurista alla non meno grave critica di non esser riuscito a distinguere l’obligatio rispetto alla generalità dei doveri giuridici: « Chi si contenta di tradurre bene, deve tenersi pago di quell’inesatto “pagar qualche cosa” che il testo ci offre; chi vuol completare la definizione secondo il suo stesso spirito, deve intenderla come se dicesse che l’obbligazione è “un vincolo giuridico in forza del quale siamo tenuti di fronte ad altri a un determinato contegno”./Senonché, così integrando o correggendo la definizione, avremo definito un concetto assai più generale: quello del dovere giuridico. La definizione a cui siamo pervenuti si adatta così all’obbligazione del compratore di pagare il prezzo come all’obbligo della fedeltà coniugale, così all’obbligazione del mutuatario di restituire la somma presa a prestito come all’obbligo di rispettare la cosa e la donna d’altri ».453

453 V.ARANGIO-RUIZ, Corso di Istituzioni di diritto romano (Diritti reali e di obbligazioni) cit., 162. Il Corso risale al 1921; le osservazioni in questione si trovano ripetute in tutte le varie edizioni delle Istituzioni di diritto romano, fino alla quattordicesima edizione, apparsa nel 1960 e non più modificata.

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Ebbene, contro questa ricostruzione454 dobbiamo anzitutto ricordare, da un lato, la circostanza che, diversamente da quanto ritiene il Maestro napoletano, le parole ‘solvere (aliquam) rem’, in sé prese, possono ben riferirsi con accezione tecnica, anziché al solo adempimento di obbligazioni di dare, al compimento di qualsiasi prestazione che possa formare oggetto di un rapporto obbligatorio (lo attestano un antico formulario giuridico-religioso risalente, al più tardi, al III secolo a.C. e alcuni impieghi plautini di chiara impronta tecnico-giuridica); dall’altro lato, la circostanza che nella definizione l’adozione di questo valore onnicomprensivo, già autorizzato dall’impiego di ‘res’ nel senso di ‘prestazione’ o ‘adempimento’ in Gai 3.176 e 179, è senz’altro da ammettere giusta il coordinamento con la divisio ‘obligationes civiles-honorariae’ e con la divisio ‘obligationes ex contractu-ex delicto-ex variis causarum figuriis’, entrambe ricomprendenti la totalità dei rapporti obbligatori (supra, n. 15). Ciò significa che non può accogliersi l’idea che il dettato della definizione voglia dire che “siamo tenuti ... a un determinato contegno” (idea che, nella sua genericità, effettivamente porterebbe a concludere nel senso della inadeguatezza della definizione ad isolare l’obbligazione rispetto a qualsivoglia obbligo).455 In secondo

454 Alla quale si era già opposto G.SCHERILLO, Corso di diritto romano. Le obbligazioni cit., 152ss., ma con rilievi che rimangono sempre sullo sfondo della lettura tradizionale dell’enunciato come definizione connotativa dell’obligatio e che, inoltre, si proiettano sul piano della distinzione concettuale tra obbligazioni e obblighi, la quale, a nostro modo di vedere, non contribuisce alla intelligenza del dettato della definizione di obligatio sì come congegnato dal suo autore.

Direttamente calibrata sul dettato della definizione è, invece, l’osservazione che, prima dell’apparizione dei rilievi dell’Arangio-Ruiz, aveva formulato A.MARCHI, op. cit., 59s. Secondo questo studioso, la definizione riesce bene ad isolare l’obligatio rispetto ad ogni altro obbligo giuridico in ragione del riferimento all’elemento tecnico della solutio; tuttavia, il Marchi intende, riduttivamente, il verbo solvere della definizione come significante ‘compiere un pagamento’: il che - a prescindere dalla questione della concludenza, in astratto, dell’imposizione a compiere un pagamento quale criterio discretivo tra obbligazione e obbligo giuridico - non risponde all’effettivo contenuto della definizione.

455 Non interessa, ai nostri fini specifici, entrare nel dibattito (al quale, in definitiva, si riportano le notazioni dell’Arangio-Ruiz) sull’operatività, nell’esperienza giuridica romana, della distinzione tra obbligazioni e obblighi, cui ha dato impulso il noto scritto del Perozzi su Le obbligazioni romane (per una disamina, nel vivo della discussione, cfr., almeno, le pagine di G.SEGRÉ, Obligatio, obligare, obligari cit., passim e spec. 557ss.; ID., Corso di diritto romano cit., spec. 24ss.; più di recente, cfr. F.PASTORI, Profilo storico e

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luogo, come abbiamo poc’anzi riaffermato a proposito della tesi del Marchi, il dettato della definizione esprime, attraverso il richiamo alla necessitas solvendi, la spiccata specificità del rapporto obbligatorio consistente nel fatto che il dovere di adempimento è accompagnato dall’esistenza di un’actio in personam: e cioè, proprio il tratto più saliente di un rapporto obbligatorio agli occhi di un giurista classico, come rivelano fenomeni risaputi quali il normale disporsi delle riflessioni giurisprudenziali in tema di obbligazioni sul piano della esperibilità dell’actio e lo scambio anche terminologico tra obligatio e actio. In sostanza, il tecnicismo sia di ‘solvere rem’, in relazione al compimento di una prestazione oggetto di un rapporto obbligatorio, sia di ‘necessitas solvendae rei’, in relazione alla presenza di un meccanismo giudiziale di accertamento ed eventuale condanna, rende sufficientemente delineata la figura dell’obbligazione rispetto a quella di un generico dovere giuridico. Del resto, è il caso di notare che l’intero ragionamento svolto dall’Arangio-Ruiz presuppone, in definitiva, che il giurista avesse voluto porre al centro dell’enunciato il fatto in sé che l’adstringi si dirige verso un solvere aliquam rem. Secondo il nostro convincimento, invece, l’accento cade sul fatto che l’adstringi è tale in forza di una necessitas (alicuius solvendae rei): l’elemento-chiave del tratto ‘quo – rei, nel quadro di una differenziazione rispetto ai casi in cui l’adempimento ha una cogenza di natura etica, è la precisazione che il ‘solvere rem’, quale compimento di una prestazione obiettivo dell’adstringi, si riporta ad una necessitas456 (nell’accezione tecnica or ora ribadita).

18. Osservazioni conclusive.

Con le notazioni or ora compiute, la nostra interpretazione del testo conservato in J.3.13pr. può dirsi ultimata in tutti i suoi aspetti.

La riassumiamo assai rapidamente. Gaio nelle Res cott. pone in apertura di trattazione sulle obligationes un’affermazione generale riguardante il rapporto obbligatorio, che possiamo rendere nel seguente

dogmatico cit. 74ss.).456 Non a caso, l’Arangio-Ruiz, nella traduzione approntata per mostrare che

il testo varrebbe per qualsiasi dovere giuridico, trascura del tutto il riferimento all’elemento della necessitas: “un vincolo giuridico in forza del quale siamo tenuti di fronte ad altri a un determinato contegno”.

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modo: “l’obligatio457 è un vincolo di natura giuridica,458 in forza del quale siamo astretti da una necessitas di compiere una data prestazione, necessitas che è conforme agli istituti positivi della nostra civitas”. Si tratta di una precisazione, che il giurista compie avendo in mente l’esistenza di altre situazioni vincolanti, e segnatamente di quelle riconducibili all’ambito dell’officium, che configurano anch’esse un obligari e un debere, e rispetto alle quali il rapporto obbligatorio in senso proprio si specifica come ‘giuridico’ (i u r i s vinculum) in ragione della presenza di uno strumento processuale (a questo allude il concetto tecnico ‘necessitas solvendi’) che rende coercibile l’adempimento e in ragione della riconduzione di siffatto strumento processuale agli istituti (iura) dell’ordinamento giuridico positivo della civitas, anziché a valori etici, quali la fides, il pudor, l’aequitas e la iustitia (ma anche la probitas e l’humanitas), che derivano, invece, dalla natura e dal ius gentium (inteso in senso ‘ideale’). In sostanza, ciò che l’enunciato esprime è la specificità dell’essere adstricti dalla necessitas (in senso processuale) di eseguire una data prestazione rispetto all’esser adstricti dalla fides, dall’aequitas etc. all’osservanza di un dovere rientrante nell’officium: in altri termini, viene sottolineata la giuridicità dell’obligatio rispetto alla dimensione etica dell’officium, o, se si vuole riproporre un modello proprio della riflessione giuridico-filosofica di matrice stoica al quale il giurista sembra essersi direttamente o indirettamente ricollegato, la vincolatività del ‘necessarium’ rispetto alla vincolatività dell’ ‘honestum’. Nella rappresentazione dell’obligatio quale iuris vinculum,459 dunque, è

457 O: “un’obligatio”?458 La locuzione ‘(vincolo) di natura giuridica’ ci sembra che si presti meglio

dell’aggettivazione ‘(vincolo) giuridico’ a rendere l’intento gaiano di distinguere il tipo di vincolatività dell’obligatio rispetto al diverso tipo di vincolatività dell’officium.

459 Secondo il modello che proponiamo, il perno e l’originalità dell’escogitazione gaiana consistono nella specificazione ‘iuris’, non già nel ricorso all’immagine del ‘vincolo’. Invero, non può escludersi che già anteriormente a Gaio si fosse affermata una rappresentazione del rapporto obbligatorio in termini di ‘vinculum’. Basti pensare che almeno a partire dagli inizi del I secolo a.C. doveva essere in atto atto un’apposita riflessione sulla fenomenologia dell’‘obligari’, come attesta, pur nel suo incerto significato, la notazione di Quinto Mucio secondo cui il nexum è ‘quod per aes et libram fiat ut obligentur (o ‘obligetur’?), praeter quam mancipio dentur’ (Varr., l.l. 7.105): un brano, quest’ultimo, che potrebbe costituire una traccia di qualche interesse ove la si coordini con il fatto che proprio in relazione al nexum Livio (8.28.8), evidentemente rifacendosi ad antiche fonti, parlava di ‘v i n c u l u m fidei’ (qualunque valore debba attribuirsi a questa espressione: supra, nt......). Con

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condensata (non un’evoluzione storica da un antico vinculum materiale verso un vinculum solo ideale e/o potenziale, sibbene) una individuazione ed una differenziazione del rapporto obbligatorio rispetto a vincoli di natura morale e sociale, avvertiti come ‘obbliganti’ e però non coercibili.460

Guardando questa ricostruzione adesso, dall’esterno e con distacco, ci prende il dubbio che, in definitiva, siamo caduti nella trappola di un enunciato composto da termini che, sebbene in parte esprimenti nozioni tecniche (‘necessitas solvendi’; ‘solvere rem’), sono nel complesso talmente poco specifici da determinare, oltre ad una placida attualità del testo attraverso i secoli, anche la possibilità di letture differenti da parte di ciascun interprete, che quei termini può mettere insieme ed intendere conformemente alla propria sensibilità ed intuizione; il dubbio, cioè, che questa nostra complessiva lettura in chiave di implicita contrappozione tra obligatio e vincolo attinente all’officium altro non sia che una duplex interpretatio di un dettato che era stato, invece, concepito dal suo autore con tutt’altro significato e finalità.

Nondimeno, esistono tre circostanze, in massima parte già emerse nello svolgimento dell’indagine, dalle quali traiamo motivi di conforto.

La prima. Vi sono due coincidenze troppo rilevanti per lasciar pensare che ci troviamo semplicemente di fronte ad un fenomeno di casuale prestarsi del testo ad essere compiutamente apprezzato a n c h e con un altro significato, d i v e r s o da quello pensato dall’autore. Si ricordi: ‘vinculum iuris’ è immagine utilizzata nelle stesse Res cott. e proprio con riferimento all’esistenza di una tutela processuale che si giustappone ai valori della fides e del pudor (nn. 7 e 13); e la concettualizzazione ‘necessitas solvendi’ è attestata, nei luoghi ciceroniani e senechiani, in

riguardo ad un ‘obligare’ diverso da quello giusprivatistico, può citarsi Cic., Balb. 34, nel quale l’espressione ‘religione obligare’ con riguardo al foedus rafforzato dal iusiurandum va coordinata con l’indicazione, nello stesso contesto, del iusiurandum come ‘publicum vinculum religionis’ (cfr., del resto, Cic., off. 3.31.111 ‘nullum enim vinculum ad adstringendam fidem iure iurando maiores artius voluerunt’, su cui supra, nt........).

460 Si noti che in ambiente civilistico – non direttamente attratto (diremmo: fuorviato) dalla questione dell’atteggiarsi del vinculum nello svolgimento storico dell’obligatio romana – è stata qua e là intuito che nella definizione di J.3.13pr. la raffigurazione come ‘vincolo giuridico’ serve a distinguere l’obbligazione da vincoli di natura morale e sociale (pur senza che sia stato còlto il riferimento pregnante alla fenomenologia dell’officium): cfr. G.LONGO, Diritto delle obbligazioni, 1950, 5; A.TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile cit., 510; P.RESCIGNO, v. ‘Obbligazioni’ cit., 137.

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relazione all’intervento giudiziale e proprio nel quadro di un dualismo tra ‘honestum’ e ‘necessarium’ (n. 13). Dunque, due su tre dei segmenti di cui è composta la definizione, e peraltro così rilevanti come l’equivalenza iniziale ‘obligatio est iuris vinculum’ e le parole che ne costituiscono l’immediata esplicazione (‘quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei’), trovano precisa fisionomia e consistenza nell’ottica di una polarità con la figura del debere connesso all’officium e afferente all’ambito dell’honestum.

La seconda. La lettura che abbiamo proposta non soltanto consente di superare le critiche di volta apportate in dottrina a questo o a quell’elemento dell’enunciato e all’enunciato nel suo complesso; ma altresì, e soprattutto, consente di apprezzare l’efficacia e la portata pregnante sia di ogni singolo segmento sia dell’intero dettato. Invero, troppo numerosi, rispetto ad un testo comunque di ridotta estensione, sono gli elementi che, seguendo il tipo di lettura tradizionale, rimarrebbero difficilmente spiegabili e lascerebbero insoddisfatti: la eccessiva sottolineatura dell’aspetto della costrizione, con l’impiego congiunto del verbo ‘adstringi’ e del sostantivo ‘necessitas’ (quest’ultimo, per di più, collocato in evidenza al primo posto nella frase ‘quo – rei’ volta a chiarire il senso del iuris vinculum); il richiamo generico alla prestazione, al posto di una puntuale indicazione dei possibili comportamenti in concreto dovuti da parte del debitore; l’aggiunta ‘secundum nostrae civitatis iura’, che rimarrebbe enigmatica nel suo apparire solo a proposito dell’obligatio e che anche in relazione a questo istituto si rivelerebbe, comunque, irrimediabilmente banale e pleonastica. Al contrario, il punto di vista che abbiamo sostenuto fa sì che ciascun elemento del testo si chiarisce ottimamente e armonicamente ed ogni scelta terminologico-concettuale appare azzeccata ed incisiva, finanche sul piano della posizione topografica delle parole.

La terza. Che Gaio abbia congegnato la nozione di obligatio avendo in mente l’esistenza del fenomeno di una differente vincolatività nell’ambito dell’officium, lungi dal rappresentare un episodio singolare e curioso, ci appare senz’altro ammissibile in relazione alle apposite sollecitazioni che in questo senso dovevano provenire dall’interno della scrittura delle Res cott., come abbiamo a suo tempo osservato (n. 14). In un’opera, infatti, in cui Gaio mostra una specifica attenzione per l’individuazione, all’interno di un rapporto obbligatorio, dell’elemento di volta in volta obbligante, egli considera appositamente figure negoziali

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nelle quali, a livello di funzione economico-sociale, si innestano le prospettive dell’officium, della fides e dell’amicitia (le obligationes re, il mandatum e la negotiorum gestio, in particolare): onde sembra lecito pensare egli fosse portato ad aver immediatamente presente il diverso piano della vincolatività dell’officium già in sede di presentazione dell’istituto-obligatio. E ciò tanto più – possiamo adesso aggiungere –, in quanto il tema di cui egli si occupa specificamente subito dopo la parte introduttiva (definizione + divisiones) è il raggruppamento dei rapporti obbligatori nascenti re. Invero, in tutte le figure che fanno parte di questo raggruppamento è in primissimo piano l’elemento della fides;461 e, tra le altre, vengono in questione il mutuo, che nella elaborazione del De beneficiis senechiano era assurta come paradigma del creditum in alternativa al beneficium (e, segentamente, all’officium reddendi), il deposito, nel cui ambito il reddere era inteso come un officium nelle controversiae iuris degli stoici e nella elaborazione ciceroniana de officiis,462 e il comodato, che lo stesso Gaio, in altra sede, non manca di indicare direttamente in termini di ‘beneficium’.463-464

A queste tre circostanze crediamo possa aggiungersi, sempre a conferma del modello interpretativo che abbiamo suggerito, il soccorso di alcuni auctores.

E’ il caso di addurre per primo Paolo, il quale, a proposito di un profilo particolare del rapporto contrattuale di comodato, contrappone l’obligatio e l’officium:

D.13.6.17.3 (Paul. 29 ad ed.) Sicut autem voluntatis et officii magis quam necessitatis est commodare, ita modum comodati finemque praescribere eius est qui beneficium tribuit. Cum autem id fecit, id est

461 Supra, n. 14 nt. 359.462 Cfr. supra, n. 16 sub 3.463 Cfr. D.47.2.55.1 (Gai 13 ad ed. prov.), su cui supra, n. 15 su ntt. 362-366.

D’altra parte, non si dimentichi che proprio Gaio (D.17.1.27.2) ha ben presente l’importanza, nel rapporto tecnico-giuridico del mandatum, del sottostante piano dell’officium, intendendo l’inadempimento del mandatario come un ‘deserere promissum officium’: supra, nt. 360.

464 Le due circostanze che abbiamo segnalate, e cioè la caratteristica generale della trattazione e la presenza delle obligationes re in apertura di esposizione sulle singole figure, crediamo ci mettano al riparo dall’obiezione, di primo acchitto prospettabile, secondo cui la fissazione del concetto di obligatio in chiave di (implicita) distinzione rispetto alla vincolatività dell’officium sarebbe, semmai, configurabile come ratio decidendi di una singola, peculiare questione piuttosto che come apertura di una trattazione generale sulle obbligazioni.

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postquam commodavit, tunc finem praescribere et retro agere atque intempestive usum commodatae rei auferre non officium tantum impedit, sed et suscepta obligatio inter dandum accipiendumque. Geritur enim negotium invicem et ideo invicem propositae sunt actiones, ut appareat, quod principio beneficii ac nudae voluntatis fuerat, converti in mutuas praestationes actionesque civiles. Ut accidit in eo, qui absentis negotia gerere incohavit: neque enim inpune peritura deseret: suscepisset enim fortassis alius, si is non coepisset: voluntatis est enim suscipere mandatum, necessitatis consumare. Igitur si pugillares mihi commodasti, ut debitor mihi caveret, non recte facies importune repetendo: nam si negasses, vel emissem, vel testes adhibuissem. Idemque est, si ad fulciendam insulam tigna commodasti, deinde protraxisti, aut etiam sciens vitiosa commodaveris: adiuvari quippe nos, non decipi beneficio oportet. Ex quibus causis etiam contrarium iudicium utile dicendum est.465

Di questo argomentare paolino è stato in tempi recenti autorevolmente evidenziato il collegamento con l’elaborazione, di ascendenza stoica e, per dir così, canonizzata da Seneca nel De beneficiis, del dualismo voluntas-necessitas ed è stato rimarcato il ricorso alle figure, approfondite dalla produzione ciceroniano-senechiana, del beneficium e dell’officium.466 Ora, ciò che a noi interessa specificamente, in difesa del modello interpretativo che

465 Il dettato è oggi ritenuto – eccezion fatta per l’isolata (ma non specificamente argomentata) posizione di J.PARICIO, La pretendida formula «in ius» del comodato en el Edicto pretorio, in RIDA 29, 1982, 241s. –, almeno nella sostanza integralmente genuino: cfr., per tutti, F.PASTORI, Il comodato nel diritto romano, 1954, 90 e nt. 63 (=Comodato, Contratto, Responsabilità, 1986, 140 nt. 63); D.NÖRR, Ethik und Recht im Wiederstreit? cit., 268ss. (a p. 270 nt. 11 richiami alla letteratura orientata in senso conservativo); P.CERAMI, Il comodato, in Homenaje J.L. Murga Gener cit., 305 (ivi, in nt. 18, altri riferimenti bibl.).

466 ? Ci riferiamo all’apposita disamina di D.NÖRR, Ethik und Recht im Wiederstreit? cit., passim, e alle osservazioni di A.MANTELLO, Un’etica per il giurista? [ Profili d’interpretazione giurisprudenziale nel primo Principato, in Per la storia del pensiero giuridico romano. Da Augusto agli Antonini (Atti Seminario – San Marino 1995), 1996,] cit., 162s. (nell’ambito di una lucida messa a punto che getta le basi per uno studio di ampio respiro sul manifestarsi della dialettica etica-diritto non solo nel campo delle obbligazioni). Cfr., altresì, F.CANCELLI, v. ‘Ufficio (dir. rom.)’ cit., 612s. Fuori misura le critiche di I.CREMADES-UGARTE, El officium cit., 106s. alla raffigurazione del rapporto voluntas-officium-necessitas.

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abbiamo proposto, è non solo il fatto in sé che il giurista giustappone tra loro officium e obligatio, ma, soprattutto, la circostanza che, come contraltare della coppia ‘voluntas/officium’, la coppia ‘necessitas/obligatio’ è presa in considerazione dallo specifico punto di vista dell’esistenza dello strumento processuale (‘...non officium tantum impedit, sed et suscepta obligatio inter dandum accipiendumque. Geritur enim negotium invicem et ideo invicem propositae sunt actiones, ut appareat, quod principio beneficii ac nudae voluntatis fuerat, converti in mutuas praestationes actionesque civiles....’). Il che, peraltro, mostra che Paolo ripropone il modello senechiano con adesione maggiore di quanto non sia stato fin qui riconosciuto, giusta l’accezione con cui lo stesso Seneca parla di necessitas e di necessarium in riferimento all’esistenza di un esperimento giudiziale (n. 13). Ebbene, che in un arco di tempo situato tra la fissazione del ‘codice’ degli officia e del beneficium ad opera di Cicerone e di Seneca (ivi inclusa, specialmente, l’individuazione di tratti caratterizzanti quali la rappresentazione in termini di obligare e debere, l’incoercibilità tramite actio e la correlata proiezione sul piano dell’honestum in opposizione a quello del necessarium) e la recezione dello stesso da parte di Paolo, un giurista come Gaio, del quale sono riconoscibili i punti di contatto con la produzione ciceroniano-senechiana, abbia congegnato un dettato che, nel fissare il concetto di obligatio, mette in evidenza le specificità di questo rapporto vincolante rispetto alla situazione vincolante dell’officium appare perfettamente ammissibile.467 Il secondo auctor che invochiamo è Papiniano. Occorre premettere, in proposito, che, avendo raggiunto la conclusione che la definizione è stata coniata da Gaio, possiamo senz’altro ribadire quel che, in partenza, avevamo prefigurato ragionando astrattamente, e cioè che il frequente ricorrere nel materiale papinianeo in materia di rapporti obbligatori dell’immagine del ‘vincolo’ (oltre che del sostantivo necessitas e del verbo adstringi) si spiega come riscontro della fortuna e della penetrazione immediate della definizione nella cultura giuridica,468 e

467 Naturalmente, ove si accolga la nostra proposta interpretativa, si aprirebbe la strada per l’ulteriore ipotesi che l’impostazione di Paolo – dualismo officium-obligatio; rappresentazione dell’obligatio in chiave di necessitas; esplicazione dell’obligatio/necessitas in prospettiva processuale – possa risentire, in alternativa o in aggiunta al modello senechiano, proprio della fissazione della nozione di obligatio da parte di Gaio.

468 Incidentalmente, notiamo che, una volta consolidato il convincimento che la definizione è stata coniata da Gaio nelle Res cott., possiamo ritenere

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particolarmente nella formazione del giurista severiano (n. 4). Ora, tra i predetti impieghi papinianei del termine vinculum in ambito obbligatorio, che possono considerarsi influenzati dalla definizione di obligatio, è utile ai nostri fini quello contenuto nel seguente brano:

D.46.3.95.4 (Pap. 28 quaest.) ‘Naturalis obligatio ut pecuniae numeratione, ita i u s t o pacto vel iureiurando ipso iure tollitur, quod v i n c u l u m a e q u i t a t i s , quo s o l o s u s t i n e b a t u r , conventionis aequitate dissolvitur: ideoque fideiussor, quem pupillus dedit, ex istis causis liberari dicitur’. 469

Secondo una persuasiva opinione consolidata, l’osservazione che “alla base della naturalis obligatio vi è s e m p l i c e m e n t e , s o l t a n t o un vinculum aequitatis” rinvia ad una distinta figura di obligatio, caratterizzata da un vinculum di diverso tipo, che sembra necessario individuare nel vinculum iuris.470 Ebbene, ove si ammetta che Papiniano in questo caso avesse avuto direttamente presente il dettato della definizione di obligatio, sarebbe per noi di sostegno constatare che un giurista notoriamente sensibile e aduso a questioni e istanze di natura

senz’altro come eco della definizione stessa la presenza di [che] due testi che avevamo incontrato nel corso dell’indagine [costituiscono un’eco della definizione stessa]: si tratta dell’affermazione di Modestino ‘Contractus imaginarii etiam in emptionibus i u r i s v i n c u l u m non optinent rell.’ (D.44.7.54: supra, n. 5) e della statuizione dioclezianea ‘In vendentis vel ementis voluntatem collata condicione comparandi, quia non a d s t r i n g i t n e c e s s i t a t e contrahentes, o b l i g a t i o nulla est rell.’ (C.4.38.13: supra, n. 3). Per ulteriori possibili riflessi [echi] della definizione in altre costituzioni imperiali cfr. ALBANESE, Papiniano cit., 177 nt. 31.

469 La stesura attuale del testo è oggi con ragione attribuita a Papiniano: [, anche da chi, in passato, aveva espresso riserve sulla integrale genuinità del dettato:] cfr., ad es., CORNIOLEY, Naturalis obligatio cit., 204s.; A.MANTELLO, ‘Beneficium’ servile - ‘debitum’ naturale cit., 196 nt. 15; A.BURDESE, La «naturalis obligatio» nella più recente dottrina, in Studi Parmensi XXXII, 1983, 71 (= Miscellanea romanistica cit., 217), che ha abbandonato [abbandonando] la precedente posizione critica espressa in La nozione classica di naturalis obligatio, 1955, 86; implicitamente, B.ALBANESE, Papiniano e la definizione di obligatio cit., 174 e nt. 22.

470 Così, ad es., già O.SCHRADER, Imp. Iustiniani Institutionum cit., nt. ad h. l.; S.PEROZZI, Le obbligazioni romane cit., [1903,] 74 nt. 2 e E.ALBERTARIO, Corso di diritto romano cit., 93 (i quali, però, ritengono sia D.46.3.95.4 che J.3.13pr. di fattura compilatoria); recentemente, A.BURDESE, La «naturalis obligatio» cit., 71 (= Misc. rom., 217).

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etica471 avverte il iuris vinculum di quell’enunciato gaiano (e cioè, l’immagine iniziale che dà l’impronta all’intero messaggio) come giustapposto al vinculum aequitatis, vale a dire alla vincolatività di uno di quei valori che abbiamo visto esser presente anche nella dinamica dei rapporti riconducibili alla sfera dell’ ‘honestum’ e dell’officium.

Infine, continuando a ritroso, un intervento a sostegno è compiuto, ancora una volta, dalla coppia Seneca/Cicerone. Abbiamo detto che l’autore della definizione di obligatio compie – anche a livello esteriore, tramite la collocazione dei segni ius e iura ai due margini dell’enunciato – un’apposita sottolineatura della vincolatività giuridica rispetto alla vincolatività dell’officium e, in ultima analisi, del ius rispetto all’officium. Ora, al di là della sua portata specifica,472 una notazione come quella di Sen., de ira 2.28.2 ‘Quanto latius o ff i c i o r u m patet quam i u r i s

471 E’ superfluo compiere apposite citazioni sia di fonti che di letteratura. Ci limitiamo a richiamare la circostanza (acclarata in recenti studi di T.Mayer-Maly: ‘Verecundia’ inm Rechtssprache, in Estudios Iglesias, I, 1988, 375ss.; Contra bonos mores, in Iuris professio. Fest. M.Kaser, 1986, 151ss.) del caratteristico ricorrere negli scritti di Papiniano delle due concettualizzazioni ‘verecundia’ e ‘boni mores’. La prima rinvia all’orizzonte tematico degli officia (cfr., ad es., Cic., off. 1.27ss.; fin., 4.18; Sen., ben. 7.23.3), la seconda è dal giurista espressamente collegata al ius gentium (nell’accezione ideale che abbiamo visto esser tenuto presente da Gaio, e già prima da Seneca e da Celso, in relazione ai valori della fides e dell’ ‘aequum’): D.39.5.29.2 (Pap. 12 resp.) ‘quoniam adversus bonos mores et ius gentium festinasset’ (cfr. T.MAYER-MALY, Das ius gentium bei den späteren Klassikern, in IURA 34, 1983, 102); e significativamente entrambe ricorrono simultaneamente in (D.28.7.15 - Pap. 16 quaest.) ‘...quae facta laedunt pietatem existimationem verecundiam nostram et, ut generaliter dixerim, contra bonos mores fiunt, nec facere nos posse credendum est’ (su questa affermazione papinianea cfr., per tutti, T.MAYER-MALY, Contra bonos mores cit., 161s.; ID., ‘Verecundia’ cit., 384s.; O.BEHRENDS, Papinians Verweigerung oder die Moral eines Juristen, in U.Melk (hrsg.), Literatur und Recht. Literarische Rechtsfälle von der Antike bis in die Gegenwart, 1996, 269ss.).

472 Ecco il più ampio contesto: 1. Si volumus aequi rerum omnium iudices esse, hoc primum nobis persuademus neminem nostrum esse sine culpa; hinc enim maxima indignatio oritur: «Nihil peccavi» et «Nihil feci». Immo nihil fateris! Indignamur aliqua admonitione aut coercitione nos castigatos, cum illo ipso tempore peccemus, quod adicimus malefactis arrogantiam et contumaciam. 2. Quis est iste qui se profitetur omnibus legibus innocentem? Ut hoc ita sit, quam angusta innocentia est ad legem bonum esse! Quanto latius officiorum patet quam iuris regula! Quam multa pietas, humanitas, liberalitas, iustitia, fides exigunt quae omnia extra publicas tabulas sunt!. 3. Sed ne ad illam quidem artissimam innocentiae formulam praestare nos possumus: alia fecimus, alia cogitavimus, alia optavimus, aliis favimus; in quibusdam innocentes sumus, quia non successit.

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r e g u l a ! Quam multa p i e t a s , h u m a n i t a s , l i b e r a l i t a s , i u s t i t i a , fi d e s exigunt quae omnia extra publicas tabulas sunt!’ può far legittimamente pensare all’esistenza (all’epoca di Gaio; ma già prima, ai tempi di Seneca) di una consolidata rappresentazione di una polarità tra il ius e l’officium (ed i valori ad esso collegati), che parrebbe costituire uno sfondo concettuale al quale ottimamente si riporta l’enfatizzazione del iuris vinculum rispetto ad un officiorum vinculum. D’altra parte, in relazione ad uno dei valori che, per Seneca, individuano l’officiorum regula in contrapposizione alla iuris regula, e cioè la liberalitas, Cicerone aveva indicato il seguente modello di comportamento:

Cic., off. 2.18.64 ‘Conveniet autem cum in dando munificum esse, tum i n e x i g e n d o n o n a c e r b u m i n o m n i q u e r e c o n t r a h e n d a , v e n d u n d o e m e n d o , c o n d u c e n d o l o c a n d o , vicinitatibus et confiniis aequum, facilem, m u l t a m u l t i s d e s u o i u r e c e d e n t e m , a l i t i b u s vero, quantum liceat et nescio an paulo plus etiam quam licet, a b h o r r e n t e m ’.

Dunque, la precettistica dell’officium contempla, con riguardo alla virtù-liberalitas,473 la rinuncia a far valere le pretese, intese anche in senso giudiziale, che scaturiscono da un rapporto obbligatorio: esattamente l’opposto dell’ordine di idee espresso dal riferimento al ius nella definizione di obligatio, nella quale il iuris vinculum è tale (e per ciò, secondo noi, è contrapposto al vinculum officiorum) proprio in quanto caratterizzato specificamente dall’esposizione del debitore alla richiesta processuale dell’adempimento (‘quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei’).

Ebbene, se il c o n v e r g e r e delle tre predette circostanze e della testimonianza di Paolo, di Papiniano e di Seneca/Cicerone coglie nel segno, se, cioè, esso può realmente confortare la complessiva lettura che abbiamo proposto della definizione in chiave di dualismo tra vincolatività giuridica dell’obligatio e del ‘necessarium’, da un lato, e vincolatività dell’officium e dell’honestum, dall’altro, avremo gettato le basi per un apposito approfondimento sul significato che la definizione stessa può

473 Per l’appartenenza della coppia liberalitas/beneficentia alla sfera dell’officium e dell’honestum cfr., espressamente, almeno i §§ 1.14.42 e 2.15.52 dello stesso trattato ciceroniano De officiis.

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assumere nello sfondo della considerazione, da parte dei giuristi dei secolo I-III d.C., di elementi metagiuridici e prepositivi, e segnatamente della polarità ‘etica-diritto’, in tema di rapporti obbligatori:474 una problematica, quella dei rapporti (di coesistenza, interferenza o tensione) fra etica e diritto nella riflessione giurisprudenziale in tema di obligationes, che solo di recente ha iniziato ad esser specificamente studiata con riguardo a singole figure contrattuali475 e che, a nostro

474 Accenniamo, in via esemplificativa, a due possibili punti da sviluppare. Da un lato, la definizione di obligatio, in quanto stimolata dalla consapevolezza dell’esistenza di un diverso tipo di vincolatività, situato sul piano dell’honestum e governato dai valori dell’aequum e della fides, i quali si riportano alla coppia natura/ius gentium, potrebbe esser collocata in un punto intermedio di un tracciato che va da Sen., ben. 3.14.2 ‘Aequissima vox est et ius gentium prae se ferens: «Redde quo debes!»’, ove sono coordinati tra loro il dovere (officium) di reddere, l’‘aequum’ e il ius gentium (supra, nt. 405) – ma è verosimile che la testimonianza presupponga una già avvenuta elaborazione in termini simili da parte dei giuristi – , fino alla nota affermazione di Paolo ‘Is n a t u r a debet, quem i u r e g e n t i u m dare oportet, cuius fi d e m secuti sumus’ (D.50.17.84.1), ove il natura debere potrebbe alludere ad un sottostante livello etico, imperniato sulla fides, posto a fondamento di una sovrastruttura giuridica munita di tutela giurisdizionale (per un collegamento tra il brano di Seneca e il testo di Paolo cfr. A.MANTELLO, ‘Beneficium’ servile - ‘debitum’ naturale cit., 196 e nt. 16). Dall’altro lato, andrebbe considerato il coordinamento tra la de-finizione di obligatio, la considerazione, da parte dello stesso Gaio, in termini di ‘naturalità’ di prestazioni coercibili tramite actio e imperniate sul valore dell’aequum (D.4.5.8 – Gai. 4 ad ed. prov.: ‘Eas o b l i g a t i o n e s , quae n a t u r a l e m p r a e s t a t i o n e m habere intelleguntur, palam est capitis deminutione non perire, quia civilis ratio naturalia iura corrumpere non potest. itaque [de dote] <rei uxoriae> actio, q u i a i n b o n u m e t a e q u u m c o n c e p t a e s t , nihilo minus durat etiam post capitis deminutionem’) e l’esistenza di un consolidato filone giurisprudenziale influenzato dalla morale stoica, al quale la predetta notazione di D.4.5.8 sembra collegarsi, che all’aequum e alla natura riporta il divieto di arricchirsi a detrimento di altri (D.24.3.66.7: Labeone-Giavoleno; D.12.6.14, D.23.3.6.2 e 50.17.206: Pomponio; D.23.3.16: Ulpiano; su questo fenomeno cfr. l’accurata indagine di C.WOLLSCHLÄGER, Das stoische Bereicherungsverbot in der römischen Rechtswissenschaft, in Römisches Recht in der europäischen Tradition. Symposion aus Anlaß des 75. Geburtstages von Franz Wieacker, 1985, 41ss.).

475 Pensiamo, in particolare, oltre al contributo di C.WOLLSCHLÄGER, Das stoische Bereicherungsverbot in der römischen Rechtswissenschaft, citato alla nt. prec., ai lavori di D.NÖRR, Mandatum, fides, amicitia cit., passim; ID., Ethik und Recht im Wiederstreit? cit., passim; e di O.BEHRENDS, Die bona fides im mandatum cit., passim; ID., Gesetz und Sprache. Das römische Gesetz unter dem Einfluss der hellenistischen Philosophie, in O.Behrends-W.Sellert (herausg.), Nomos und Gesetz (Symposion - 1993), 1995, spec. 210ss.; ID.,

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avviso, potrebbe prestarsi a vedute di ampio raggio sia sul versante casistico-problematico che sul versante teorico-sistematico.

Diversamente, dovremo contentarci di avere, almeno così ci sembra, reso meno incerta la paternità della definizione e, quel che più importa, di avere recuperato il consolidato tecnicismo sia del riferimento alla necessitas solvendae rei, come alludente all’esposizione del debitore all’esperimento di un’actio in personam, sia della locuzione ‘solvere rem’ nel senso di ‘compiere una prestazione’. Si tratterebbe, comunque, di un risultato già da solo ripagante del lungo percorso investigativo, dal momento che la predetta valenza tecnica, oltre al fatto in sé di contribuire a riconoscere l’effettiva portata delle parole del giurista, consente di far giustizia delle gravi critiche, a tutt’oggi rimaste prive di replica ed, anzi, recentemente rilanciate,476 contro la concludenza dell’enunciato, evitando la beffarda eventualità del dover ritenere che un testo che tanto ha contribuito, in ogni tempo, all’educazione giuridica non sia, in sostanza, che una vuota formula, nemmeno idonea ad isolare la nozione di obligatio dalla più ampia figura dell’obbligo né da quella, ancor più generale, del dovere giuridico.

Dalla mediazione arbitrale alla protezione giudiziaria cit., 197ss. (di più ampio respiro tematico); ma si vedano anche i riferimenti in W.WALDSTEIN, Entscheidungsgrundlage cit., spec. 72ss. e in M.KASER, Ius gentium cit., 152ss. e 162ss. Cfr., altresì, con specifico riguardo all’officium, I.CREMADES-UGARTE, El officium cit., passim e spec. 104ss. Di grande interesse, per una preliminare e innovativa visione d’insieme del manifestarsi del dualismo etica-diritto anche al di fuori del campo delle obbligazioni, le pagine di A.MANTELLO, Un’etica per il giurista? cit., spec. 161ss.

476 Cfr. supra, n. 17, spec. su ntt. 447-448.

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