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Bobbio Da Hobbes a Marx Clearscan

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Collana di Filosofia diretta da E. PAOLO LAMANNA PIETRO PIOVANI IV NORBERTO BOBBIO Da Hobbes a Marx Saggi di storia dea filosofia MORANO EDITORE
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Page 1: Bobbio Da Hobbes a Marx Clearscan

Collana di Filosofia diretta da E. PAOLO LAMANNA PIETRO PIOVANI

IV

NORBERTO BOBBIO

Da Hobbes

a Marx

Saggi di storia della filosofia

MORANO EDITORE

Page 2: Bobbio Da Hobbes a Marx Clearscan

PAG.

Prefazione 5

I. Legge naturale e legge civile nella filosofia poli tica di Hobbe s . . . . 11

II. Hobbe s e il giu sna turali smo . 51

,liii. Studi l ockiani

IV. Leibniz e Pufendorf

V. Kant e le due libertà .

VI. Studi hegeliani . . .

VII. La diale ttica in Mar x .

Nota

Indice dei nomi

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Page 3: Bobbio Da Hobbes a Marx Clearscan

l i.

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

© COPYRIGHT 1965 BY

Casa edi trice A. Morano Piazza S. Domenico Maggiore 9, Napoli

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Prefazione

Devo a Paolo E. Lamanna e a Pietro Piovani l'idea di questa raccolta di saggi di storia della filosofia, scritti in diversi tempi e sparsi in diverse riviste, e, di rincalzo - le idee, anche più ardite, non si muovono da sole -, l'offerta di ospitar/i nella promettente giovane collana di un vecchio editore.

Ho spesso vagheggiato raccolte di miei saggi, raggruppati secondo la materia. Ma non avevo mai pensato di mettere in­sieme un gruppo di saggi di storia della filosofia perché la mia atti­vità di storica è stata discontinua e poco sistematica. Ho affrontato spesso temi di filosofia contemporanea, da Croce a Gramsci, da Heidegger a Sartre, da Pareto a Kelsen, ma non con l'animo dello storico, sì, con quello del sostenitore di un certo indirizzo di pensiero e del divulgatore di una certa politica culturale. Non ho mai compiuto di proposito studi di storia della filosofia se non per i corsi universitari, avendo ormai da tempo eletto la regola di alternare, ogni anno, un corso storico a un corso teo­rico. I pochi saggi di argomento storico, pubblicati in questi anni, sono talora l'imbastitura, talora un ritaglio delle mie lezioni.

I due studi hobbesiani con cui ha inizio la presente raccolta ebbero origine da due corsi, tenuti rispettivamente all'Università di Padova nel 1947 e in quella di Torino nel 1962. La rassegna di studi lockiani, che segue come terzo saggio, rappresenta, per così dire, i lavori preparatori di un corso su Locke, svolto nel

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1963-64 a Torino. Il tema leibniziano, cui è dedicato il quarto saggio, nacque da un corso sul giusnaturalismo nel secolo deci­mottavo, col quale terminai i miei anni di insegnamento pado­vano (1947-1948), e da riflessioni anche più antiche sull'opera del Punfendorf, di cui avevo curato, qualche anno prima, un testo per la scuola. Dalla revisione, da me condotta insieme con Luigi Firpo, degli scritti politici di Kant, tradotti da Gioele Solari e pubblicati nel 1956, mi venne l'idea di un corso sulla filosofia politica di Kant, che svolsi nel 1957: il quinto saggio ne è una specie di residuo o di appendice. Non ho mai svolto un corso su Hegel: mi son sempre mancate le forze e l'ardimento per un simile compito. Ma la rassegna di studi hegeliani, che segue come sesto saggio, era stata concepita come una rac­colta di materiale per un corso sulla filosofia del diritto di Hegel, che avrebbe dovuto seguire cronologicamente e logicamente i due corsi sul giusnaturalismo del secolo XVII e del secolo XVIII, già ricordati. Abbandonato quell'anno il progetto che le prime letture, di cui è rimasta testimonianza nella rassegna qui pubbli­cata, mi fecero apparire immaturo, l'occasione non si è più pre­sentata, anche perché nel 1950, scendendo dalle vette perenne­mente avvolte dalle nubi in più praticabile e, almeno per me più abitabile, altipiano, e convinto sempre più che la filosofia non fosse occupazione da giorni feriali (le pagine finali della rassegna hegeliana recano le tracce di questa convinzione), ho cominciato a coltivare prevalentemente studi di teoria generale del diritto. L'unico contributo che esce fuori dal quadro è quello sulla dialettica in Marx: in realtà esso si ricollega piuttosto agli scritti di filosofia contemporanea, in particolare a un saggio sulla dialettica in Gramsci, di cui è stato, nello stesso tempo, spunto e conferma. L'ho inserito qui perché serve a chiudere il ciclo degli studi storici e ad aprire quello sugli studi sulla filosofia contemporanea, di cui seguirà forse un giorno o l'altro analoga raccolta.

In scritti nati da varie occasioni e sollecitazioni intellettuali come questi è vano sforzarsi di rintracciare un filone di ricerche, e tanto meno di presentare artificiosamente una veduta d'insieme. Può essere utile, se mai, un avvertimento perché il lettore non cerchi nella raccolta quel che non c'è: nello studio degli autori

. del passato non sono mai stato particolarmente attratto dal

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. ,.

miraggio del cosiddetto inquadramento storico, che inalza le fonti a precedenti, le occasioni a condizioni, si diffonde talora nei particolari sino a perdere di vista il tutto: mi sono dedicato, invece, con particolare interesse alla enucleazione di temi fon­damentali, al chiarimento dei concetti, all'analisi degli argomenti, alla ricostruzione del sistema. Se manca un filone, campeggiano però, in questo saggio, due temi: il giusnaturalismo e lo stori­cismo dialettico, le due grandi concezioni mondane della storia, che si sono succedute e contrapposte nella filosofia degli ultimi secoli e hanno esercitato nelle loro posizioni più conseguenti - Locke, Marx - la funzione di ideologie-guide dei due eventi decisivi della moderna storia europea, la rivoluzione francese e la rivoluzione russa.

Prescindendo da questa funzione ideologica mi interessano entrambe, teoreticamente, soprattutto come filosofie della storia, cioè come tentativi di fissare le leggi o la legge dello svolgimento della storia, del sorgere e del procedere delle istituzioni, del passaggio dall'uno all'altro stato dell'umano incivilimento. I n quanto filosofie della storia, se pur l'una inconsapevole, l'altra tutta spiegata, non sono così lontane l'una dall'altra come l'uni­laterale insistenza sull'aspetto ideologico e sull'esito politico ha sempre indotto a ritenere.

In primo luogo il giusnaturalismo - parlo s'intende sem­pre del giusnaturalismo moderno che nasce con Hobbes -cerca di spiegare il sorgere della vita sociale attraverso l'antitesi stato di natura - stato civile, antitesi che è già, se pur in forma rozza, l'intuizione originaria ai una concezione dialettica della storia, che risolve il processo storico, e quindi trova la salvezza dell'uomo, al di fuori di ogni intervento divino, nella fonda­zione dello stato, in un'innovazione o rinnovamento nella sfera tutta umana delle leggi che governano la vita sociale. Solo che in Hobbes il ritmo dell'affermazione e della negazione è diadico e come tale non consente progresso, essendo la storia concepita come una serie infinita e monotona di ascese e di ricadute. Il ritmo triadico già si intravvede in Locke, ove lo stato civile non è la soppressione pura e semplice dello stato di natura, ma un felice, se pure instabile, compromesso tra stato di natura ideale e stato di natura reale. Si afferma in Rousseau che scandisce il ritmo della vicenda della salvezza dell'uomo nei tre momenti

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della natura incorrotta, della civiltà corruttrice e dello stato che restituisce all'uomo, paradossalmente, la libertà perduta attra­verso l'obbedienza più assoluta al corpo civile. Diventa la gloria di Hegel e la fortuna di Marx. Mentre lo studio del giusnatu­ralismo, specie di Hobbes e di Locke, consente di vedere nella contrapposizione tra leggi naturali e leggi positive la prefigurazione della concezione dialettica della storia, lo studio della concezione dialettica della storia induce a cogliere nella contrapposizione tra società civile e stato i segni della dissoluzione e trasformazione della tradizione giusnaturalistica.

In secondo luogo, tanto per i giusnaturalisti come per Hegel il momento positivo del progresso storico è lo stato: la storia umana procede verso il meglio passando dalla società naturale alla società civile; l'umano incivilimento termina nello stato. In queste concezioni mondane della storia, ove la storia è creazione dell'uomo, l'uomo o si salva nello stato o non si salva affatto; lo stato è la sede, l'unica sede, dell'umana redenzione. Come mezzo di liberazione e di riscatto, la politica è destinata a sosti­tuire la religione. Lo stato libera l'uomo dal terrore primitivo della crudele e incessante lotta per l'esistenza (Hobbes); compie una radicale trasmutazione dell'uomo «sostituendo nella sua con­dotta la giustizia all'istinto, e attribuendo alle sue azioni la mora­lità che loro prima mancava» (Rousseau); esso soltanto dà all'in­dividuo singolo « oggettività, verità ed eticità » (Hegel). Non solo per Hobbes, ma per tutta la grande tradizione giusnaturali­stica sino a Hegel, valgono le celebri parole del De Cive: « Fuori dello stato è il dominio delle passioni... Nello stato è il do­minio della ragione . . . » (X, l). Dopo H e gel, a cominciare da Marx, l'idea del progresso attraverso lo stato decade. Le cor­renti vive del pensiero politico ottocentesco - dal socia­lismo utopistico a quello scientifico, dall'anarchismo al libera­lismo spenceriano, dal darwinismo sociale al vitalismo nietzschia­no - considerano lo stato come la continuazione sott'altra forma, e talora la sublimazione, della lotta ferina rivelata dallo stato di natura: nello stato la violenza non è soppressa ma soltanto trasfor­mata nella perpetua sopraffazione dei forti sui deboli, dei vinci­tori sui vinti, dei governanti sui governati. Lo stato è un regime di violenza e di terrore non meno dello stato di natura. Se l'uomo vorrà salvarsi, dovrà riformare, dis!rtf.ggere lo stato. Da momento

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't

positivo del ptogresso storico lo stato diventa momento negativo; e lo stato di natura ideale, che era apparso un punto di partenza, diventa il punto di arrivo.

, A mettere in crisi il mito dello stato contribuiscono le illu­sioni suscitate dall'estensione del metodo delle scie me naturali e sperimentali allo studio dei fenomeni sociali, lo straordinario sviluppo e l'incontrastato successo delle scienze economiche e so­ciali, in concomitanza con la nascita e la crescita della società in­dustriale. La dissoluzione del mito dello stato coincide con la fi11e della « filosofia della storia », cioè con quella serie di tentativi di interpretazione globale e di giustificazione razionale della storia che vanno da Hobbes a Marx.

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I. Legge n aturale e legge civile

nella filosofia politica di Hobhes

l. Thomas Hobbes 1 appartiene, di fatto, alla storia del diritto naturale : non vi è trattazione intorno alla storia del pensiero giuridico e politico che non menzioni ed esamini la sua filosofia, come una delle espressioni tipiche della corrente giusnaturalistica. D'altra parte, Hobbes appartiene, di diritto, alla storia del positivismo giuridico : la sua concezione della legge e dello stato è un'anticipazione, davvero sorprendente, delle teorie positivistiche del secolo scorso, nelle quali cul­mina la tendenza antigiusnaturalistica iniziata dallo storicismo romantico. Quando si parla, ad esempio, di Austin, si è soliti ricordare che ha avuto un precursore ( isolato ) in Hobbes . Giusnaturalismo e positivismo sono due correnti antitetiche, perennemente in polemica: l'una rappresenta la negazione del­l 'altra. Com'è possibile che Hobbes appartenga, contempo­raneamente, a tutte e due? Se hanno ragione gli storici del diritto naturale nell'annoverare l 'autore del Leviathan, in­sieme con Grazio, Spinoza, Pufendorf, tra i quattro grandi

' Le citazioni delle opere di Hobbes si riferiscono alle seguenti edizioni : per il De Cive (cit. come C.) all'edizione italiana, a cura di NoRBERTO BoBBIO, nella collana « Classici politici » diretta da L. FIR­PO: THOMAS HoBBES, Opere politiche, l, Torino, U .T .E.T . , 1959; per gli Elements of Law Natura! and Politic (cit. come El.) all'edizione curata da FERDINAND TéiNNIES, Cambridge University Press, 1928; per il Leviathan (cit. come Lev.) all'edizione a cura di MrcHAEL 0AKE­SHOTT, Oxford, Blackwell, 1951.

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giusnaturalisti del Seicento, come può la teoria politica hobbe­siana essere assunta a modello storico per quegli accaniti avversari del diritto naturale che sono stati i fondatori del positivismo giuridico, la cui fortuna dura ininterrottamente ormai da quasi un secolo, tra i giuristi? E se, invece, hann� ragione i positivisti, non è venuta l'ora di rivedere lo schema tradizionale delle storie del diritto naturale ed espungere il nome di Thomas Hobbes?

Che la storia del pensiero giusnaturalistica moderno abbia bisogno di una profonda revisione, è cosa ormai nota : basta pensare al lavorìo esegetico che si è venuto compiendo in questi anni su Grazio, da un lato, e sul diritto naturale della riforma cattolica, dall'altro, al fine di mettere in rilievo i legami con la tradizione del primo e l 'influsso sulle scuole posteriori del secondo, sì che si viene scolorendo l 'immagine di un Grazio innovatore c precursore, qual era stata fissata dai suoi stessi seguaci Pufendorf e Thomasius, e poi per lunga serie di meccaniche ripetizioni fedelmente e ostinatamente riprodotta. Ma il problema esegetico hobbesiano non è sol­tanto o forse non è affatto un problema di critica storica. Hobbes appartiene realmente al movimento giusnaturalistica ed è realmente iniziatore del positivismo giuridico. Il « para­dosso » hobbesiano - se è permesso usare ancora questa pa­rola ormai un po' consumata dagli storici ad effetto - è genuino. Si tratta, per comprenderlo, di entrare paziente­mente con analisi minuziose nel vasto e apparentemente soli­dissimo sistema, osservarne attentamente le più delicate giun­ture, saggiarne i punti di sostegno, metterne a nudo le esi­genze che hanno contribuito a formarlo in quella guisa. Ora tra i problemi fondamentali che permettono, a mio giudizio, d.i tocca�e i punti più sensibili dell'intelligentissimo congegno ststemattco hobbesiano, vi è quello dei rapporti tra legge naturale e legge civile: problema che, anzitutto, è di per sé stesso di importanza fondamentale per ogni dottrina giusna­turalistica , e che, in secondo luogo, acquista in Hobbes, come vedremo, una tale varietà di aspetti da indurci a considerarlo

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come uno dei problemi più tormentati di tutta l'opera giu­ridica e politica hobbesiana.

2. Il problema si può porre brevemente in questi termini : Hobbes ha espresso nel suo sistema una delle conce�oDi più caratteristiche e rigorose delll\ giustizia formale che mai siano state sostenute. Per concezione della giustizia formale s'in­tende quella concezione in base alla quale la giustizia con­siste nell'adempimento degli obblighi, quale che sia il con­tenuto dell'obbligo, o, considerando una particolare specie di obblighi ( quelli del cittadino nei confronti dello stato ) , nell'obbedienza alla legge quale che sia il contenuto della legge. Questa concezione è espressa da Hobbes nei noti passi in cui afferma che non si può commettere ingiustizia se non con colui col quale si è stretto un qualche patto o una pro­messa, e quindi giustizia significa adempimento, ingiustizia inadempimento del patto o della promessa 2• Da questa defi­nizione segue che mentre nello stato di

1natura, dove gli

uomini non sono legati tra loro da nessun patto, non si può parlare di azioni giuste od ingiuste ( ma soltanto di azioni utili o dannose ) , costituito che sia lo stato civile attraverso il patto intersoggettivo di unione, azione giusta è quella conforme alla legge, che deriva dalla volontà del sovrano espressa in base alle condizioni stabilite dal patto sociale, in­giusta ·quella non conforme. Si tratta, come ognun vede, di una chiara formulazione della concezione legalistica della giustizia che è un aspetto della concezione formale della giustizia.

La caràtt5!ristica della concezione legalistica della giustizia è la considerazione della legge, in quanto comando di colui che ha il potere legittimo di comandare, come unico e non superabile criterio del giusto e dell'ingiusto; è giusto ciò che è comandato, per il solo fatto di essere comandato da chi ha il potere di comandare; è ingiusto ciò che è proibito, per

2 C., III, 4 (p. 1 1 3).

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il solo fatto che è proibito. In tal modo, come ognun vede, la concezione legalistica della giustizia è l'ideologia del posi­tivismo giuridico, cioè di quella concezione giuridica che, considerando il diritto positivo come criterio autosufficiente del giusto e dell'ingiusto, elimina totalmente ogni riferi­mento al diritto naturale, inteso come quel complesso di princìpi o di norme di condotta che ci dovrebbero permettere di prendere posizione di fronte al diritto positivo per appro­varlo o disapprovarlo. Eppure - ed è qui che nasce il problema critico sopra accennato - tutto il sistema giuri­dico hobbesiano riposa sopra il riconoscimento dell'esistenza delle leggi naturali, allo studio delle quali vien dedicato, com'è noto, nei suoi libri politici una specifica ed ampia trattazione 3• Donde sorge la domanda : come può essere un'espressione tipica della concezione formale della giustizia un sistema di diritto che prende le mosse dall'ammissione delle leggi naturali?

La stessa difficoltà si affaccia se affrontiamo la questione in quest'altro modo. Il fine e il risultato del sistema hobbe­siano è la teoria dello stato assoluto, cioè di uno stato il cui potere sia il più privo di vincoli e di limiti che sia possibile umanamente escogitare. Uno dei caratteri salienti dell'inda­gine hobbesiana è la caccia sistematica e spietata a tutto ciò in cui si possa annidare un vincolo o un limite al potere dello stato. Alla fine di questa caccia condotta con abilità, rigore e passione razionale, Hobbes è riuscito a darci il concetto di uno stato in cui è condotto alle estreme conseguenze il fenomeno della monopolizzazione statuale del diritto attraverso l 'accu­rata eliminazione di tutte le fonti giuridiche che non siano la legge, o volontà del sovrano ( e in primi; del diritto consue­tudinario ) , e di tutti gli ordinamenti giuridici che non siano quello statuale ( in particolare dell'ordinamento della Chiesa, di quello della comunità internazionale, di quello degli enti

r 3 El., I, capp. XV, XVI, XVII, XVIII; C., capp. II, III, IV, Lev.,

capp. XIV-XV. '

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associativi minori ) . Orbene, · il monopolio giuridico dello stato non potrà dirsi completo se accanto al diritto positivo, alle varie forme in cui si può attuare una normatività posi­tiva, si lasci sopravvivere la legge naturale; o, in altre parole, un potere statale non potrà dirsi assoluto, cioè senza vincoli, se si riconosca esistenza e legittimità a un insieme di leggi , come sono appunto le leggi naturali, superiori per loro intima costituzione alle leggi positive e a cui le leggi positive deb­bono uniformarsi. Eppure Hobbes, come si è detto poc'anzi, non solo ha collocato il suo sistema statale sopra il piede­stallo tradizionale della legge naturale, ma ha posto continua­mente, ogpi qual volta se ne è presentata l 'occasione, la legge naturale accanto alla legge positiva, sì che il richiamo ad essa è costante, e i passi in cui viene citata sono, oltre la tratta­zione specifica ricordata, innumerevoli . Donde anche qui una domanda analoga alla precedente: com'è possibile l 'assolutezza del potere statale se la volontà del sovrano deve fare i conti con la legge naturale ? A che fine eliminare ogni forma di diritto non statuale se poi si lascia sopravvivere il più perico­loso avversario di ogni diritto positivo, cioè il diritto naturale ?

Infine si può presentare questa fondamentale aporia anche in questi termini : l 'indagine hobbesiana prende le mosse dalla legge naturale - onde a ragione i giusnaturalisti lo conside­rano uno dci loro - e giunge alla costruzione di una solida concezione positiva dello stato- onde, con altrettanta ragio­ne, i positivisti se ne appropriano. Tra il punto di partenza e il punto di arrivo sembra che vi sia un evidente contrasto. Per quali vie e con ,quali passaggi si svolge il discorso hobbe­siano, che è noto soprattutto per il suo vigore costruttivo e il suo rigore logico, perché avvenga questo trapasso da una certa premessa a una certa conclusione che la contraddice? Lo scopo del presente saggio è appunto di esaminare l 'itine­rario percorso da Hobbes, e di rispondere a questa domanda, che è essenziale, riteniamo, alla comprensione storica della sua filosofia giuridica.

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.3 . La definizione che Hobbes dà della legge naturale non differisce formalmente dalle definizioni tradizionali . Per Hob­bes la legge naturale è un dettame della retta ragione •.

Come tale la legge naturale si differenzia dalla legge positiva che è posta dalla volontà. Ciò che costituisce la differenza della definizione hobbesiana da quella degli altri giusnatura­listi è il diverso significato di ragione. Per Hobbes la ragione è una operazione di calcolo con la quale traiamo delle conse­guenze dai nomi convenuti per esprimere e notare i nostri pensieri . Non ha un valore sostanziale, ma soltanto formale; non ci rivela l'essere, ma ci mette in grado di ricavare da certi principi certe conseguenze; non è la facoltà con cui apprendiamo la verità evidente dei primi princìpi, ma la fa­coltà del ragionamento. È stato detto, ancora recentemente, che la ragione di Hobbes non ha un significato antologico, ma metodologico '. Essa non è un apprendimento di princìpi evidenti ma un metodo per pensare. La concezione ch'egli ha della ragione non è metafisica, ma strumentale. Lo stesso Hobbes, alla definizione sopra riportata di legge naturale, fa seguire questa annotazione : « Per retta ragione nello stato naturale dell'umanità, diversamente dalla maggior parte degli scrittori che la considerano una facoltà infallibile, intendo l'atto di ragionare, cioè il ragionamento, proprio a ciascun individuo e vero, nei riguardi delle azioni che possono por­tare utilità o danno agli altri uomini » 6•

Da questo diverso significato di ragione deriva una diffe­renza fondamentale tra la concezione hobbesiana della legge naturale e le concezioni tradizionali. Per_ queste ultime la naturalis ratio o recta ratio prescrive ciò che è buono o cattivo in sé- stesso; per Hobbes, invece, indica ciò che è buono o cattivo rispetto a un determinato fine: « Quelle che chiamiamo

1 C., II, l (p. 97). Cfr. anche El., pp. 57-58; Lev., XIV (p. 84). 5 R. PouN, Politique et philosophie chez Th. Hobbes Paris

P.U.F., 1952, p. XI. ' '

6 C., II, l (p. 97) . Il corsivo è mio.

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leggi di natura non sono altro che una specie di conclusione , tratta dalla ragione in merito a quel che si deve fare o tra­lasciare » '. E con una maggior chiarezza: « . . . non sono che conclusioni, o teoremi, relativi a ciò che conduce alla conser­vazione e alla difesa di sé stessi » 8• Del resto, non vi pos­sono essere princìpi per sé veri in una filosofia nominalistica come quella di Hobbes, secondo la quale « vero e falso sono attributi del discorso, non delle cose, e, dove non vi è di­scorso non vi è né verità né falsità » 9•

Posto che la legge naturale indica, secondo Hobbes, ciò che è buono o cattivo rispetto a un dato fine, il problema fondamentale per la comprensione della legge naturale viene rinviato alla posizione e alla comprensione del problema del fine. Qui la differenza tra la concezione hobbesiana e quella tradizionale si approfondisce. Il fine supremo dell'uomo, è, dal punto di vista utilitaristico da cui si pone Hobbes, la pace. Per gli altri giusnaturalisti il fine supremo è il bene ( morale ) . Perciò, mentre per i giusnaturalisti tradizionali la legge naturale prescrive ciò che è buono e proibisce ciò che è cattivo ( indipendentemente dall'utilità o dal danno che se ne può trarre ) , e per questa ragione essi possono parlare di qualcosa che è buono o cattivo in sé stesso; per Hobbes la legge naturale indica ciò che è conveniente o non conveniente per il raggiungimento del fine della pace, e questo a sua volta rappresenta la suprema utilità. Perciò la legge naturale fonda­mentale prescrive di cercare la pace. Da questa legge fonda­mentale, considerata come il principio primo della ragione pratica, derivano tutte le altre leggi naturali, che Hobbes chiama appunto « derivate », per mostrare che il suo sistema è un sistema deduttivo, conforme ai canoni di quel raziona­lismo non metafisica cui è giunto attraverso la consuetudine con le scienze matematiche. Egli infatti rimprovera ai suoi

7 C., III, 33 (p. 131 ). 8 Lev., XV (p. 104). " Lev., 1IV (p. 21 ).

2. N. BoBBIO - Da Hobbes a Marx.

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predecessori il fatto che « non avendo osservato che la bontà delle azioni è riposta nell'essere queste ordinate al consegui­mento della pace, e la malvagità nell'essere ordinate a procurar discordia, hanno fondato una filosofia morale completamente estranea alla legge morale e non sempre coerente a sé stes­sa » 10• Si badi che la conoscenza dello stesso fine ultimo, la pace, non è una conoscenza immediata, ricavata da una naturalis ratio, capace di apprendere verità evidenti; ma è anch'essa, coerentemente con la gnoseologia hobbesiana, una conoscenza tratta da un ragionamento che procede da princìpi a conseguenze. Il fine della pace, per Hobbes, è ricavato dallo studio p6sitivo della natura umana; il quale mostra che l 'uomo, dominato dall'istinto di conservazione, considera la vita come il valore supremo.

Non è qui il caso di discutere se abbia avuto ragione o torto Hobbes nel considerare la vita come il valore supremo ( sarebbe oltretutto, se fosse così impostata, una discussione inconcludente ) . Quel che importa mettere in rilievo è l 'impo­stazione metodologicamente corretta data da Hobbes al pro­blema della legge naturale ( che si identifica per lui, come del resto per "gli altri giusnaturalisti, con la legge morale ) : le leggi naturali, o morali, sono quel complesso di prescrizioni che discendono dal bene considerato come bene supremo, tale cioè che tutti gli altri beni sono ad esso subordinati, come mezzi rispetto al fine. Oggi abbiamo raggiunto una certa con­sapevolezza del fatto che ogni sistema morale è un sistema di norme che prescrivono azioni per il raggiungimentQ del fine considerato come supremo per l 'uomo e che i diversi sistemi si differenziano per il diverso fine da ciascuno posto come supremo. Quando Hobbes dice, nella frase citata, che « la bontà delle azioni è riposta nell'essere queste ordinate al conseguimento della pace», gli si potrà rimproverare di aver �onsiderato la pace come fine ultimo, ma non si potrà non apprezzare la chiarezza con cui egli pone il problema della

10 C., III, 32 (p. 130). II corsivo è mio.

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legge naturale, in cui si era travagliato il giusnaturalismo, e che non è tanto il problema insolubile, perché mal posto, di scoprire il bene e il male in sé, bensì quello sostanzialmente solubile ( per quanto suscettibile di diverse soluzioni ) di stabilire quali siano i comportamenti che l'uomo deve tenere, una volta dato e accettato un certo fine come fine supremo.

4. Teniamo ben presenti questi due punti : l ) le leggi naturali non prescrivono azioni buone in sé stesse, ma azioni buone relativamente a un certo fine; 2 ) questo fine è la pace ( o la conservazione della vita ) . Entrambe queste affermazioni ci servono per comprendere come da una premessa giusnatu­ralistica - attraverso una modificazione del concetto tradizio­nale di legge naturale - Hobbes sia giunto a una conclusione positivistica. Posto come fine la pace ( ciò che Hobbes consi­dera come la prescrizione della legge naturale fondamentale ) , la prima legge naturale derivata è quella secondo cui « il di­ritto a tutto non si deve conservare, ma certi diritti si devono o trasferire o abbandonare » 11• Ma attraverso la rinunzia al diritto su tutto e al trasferimento di questo diritto ad altri, l 'uomo esce dàllo stato di natura e costituisce lo stato civile. Dunque la prima legge di natura è quella che prescrive di costituire lo stato. Ciò vuoi dire che lo stato è il mezzo più efficace per conseguire la pace ( e quindi per realizzare il va­lore supremo della conservazione della vita ) . Ma se lo stato è il mezzo più efficace per conseguire la pace, ciò significa che l'uomo realizza mediante lo stato - vale a dire mediante l 'organo incaricato di produrre leggi positive - il fine su-

11 Questa è la formulazione, a mio avviso più genuina, di C., II, 3 (p. 98). In Lev. si legge questa formulazione: « Che un uomo, quando altri fanno altrettanto, e per quanto crederà necessario alla pace e alla difesa sua, rinunzi volontariamente al diritto su tutte le cose, e si accontenti di avere tanta libertà contro gli altri uomini, quanta è concessa agli altri contro di lui » (p. 85). Più precisa è pure la distinzione in C., tra la .legge naturale fondamentale e le leggi naturali derivate. In Lev. tale distinzione scompare, e la legge su riportata appare come la seconda legge naturale.

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premo posto dalla legge naturale. In tal modo lo stato è fondato sulla stessa legge naturale e le leggi positive - la cui produzione è la ragione stessa del sorgere dello stato -traggono dalla legge naturale la loro giustificazione. In altri termini : la legge naturale afferma che per raggiungere il fine prescritto dalla stessa legge naturale l'uomo deve lasciarsi go­vernare dalle leggi positive. È da parte della legge naturale una dichiarazione di impotenza: e infatti, a tacer d'altro, le leggi naturali non obbligano se non in coscienza, cioè non obbligano, data la concezione utilitaristica di Hobbes, affatto; ed è, nello stesso tempo, un'abdicazione di fronte alla forza delle leggi positive. In forma più radicale : la legge naturale è quel dettame della nostra ragione che suggerisce all'uomo, se vuoi ottenere la pace, di obbedire in tutto e per tutto soltanto alle leggi positive . Sembra quasi, stando all'impres­sione che si ricava da questo primo approccio al sistema, che la legge naturale non abbia altra funzione che quella di dare una giustificazione alla nascita dello stato e quindi delle leggi positive, cioè-- che emerga solo per scomparire subito dopo, e che pertanto la sua funzione sia non già quella di stabilire un codice di condotta per l 'uomo, valido al di fuori e al di sopra delle leggi positive ( secondo il significato che la tradi­zione dà al sistema di diritto naturale ) , ma unicamente di dare un fondamento razionale a quel sistema di leggi positive che è lo stato. Si sarebbe tentati di dar ragione al Tarantino, il quale osservò che le leggi naturali nel sistema hobbesiano sono destinate a non aver mai vigore, non nello stato di natura perché inter arma silere leges, Qon nello stato civile dove subentrano, a determinare il comportamento dei citta­dini , le leggi positive 12•

Hobbes dunque si è valso delle leggi naturali soltanto come di un espediente - tanto più efficace quanto più accre­ditato per il lungo e autorevole impiego - per dare un fon-

1" G. TARANTINO, Saggio sulle idee morali e politiche di T. Hobbes Napoli, Giannini, 1900, p. 116 .

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damento ben accetto al potere assoluto del sovrano, e quindi l all'incontrastata supremazia del diritto positivo. Ma appunto, adoperandola come un espediente, l'ha completamente svuo­tata di contenuto e privata di ogni prestigio. V al la pena di osservare, se pur di sfuggita, che l'uso delle categorie degli avversari per dimostrare proprio l 'opposto di quello che gli avversari intendono, fa parte delle più caratteristiche astu­zie hobbesiane, è un aspetto, fra i più brillanti e attraenti, della sua vocazione di polemista. Si pensi alla teoria del con­tratto sociale, che serviva da argomento principe per gli scrit­tori democratici, e che egli, invece, riesce a trasformare nella chiave di volta di uno stato assoluto. Nella stessa guisa, in questa prima considerazione della legge naturale, ci si affaccia l'idea che Hobbes abbia voluto di proposito ricorrere alla legge naturale, proprio per tirar dalla sua parte uno degli argomenti più formidabili che gli avversari avevano in mano per affermare i limiti del potere statale. In fondo, gli argo­menti dei sostenitori dello stato limitato erano principalmente due : fondamento contrattualistico dello stato e primato della legge naturale sulla legge positiva. Hobbes non nega né il contratto né la legge naturale. Non segue la via facile della negazione pura e semplice, per mettersi poi sopra un'altra strada ( ciò che facevano ai suoi tempi i difensori della mo­narchia. come il Filmer ) . Egli segue la via più difficile, ma quanto più piena di seduzione!, di adoperare gli stessi ingre­dienti degli avversari combinandoli in modo da ottenere un risultato opposto. Si capisce che, se sarà riuscito a dimostrare che la legge naturale, anziché essere, come sostenevano i libe­rali, i radicali, gli anarchici, il fondamento del diritto di resistenza, è il fondamento dell'obbedienza assoluta e incon­dizionata, avrà agito per la causa dell 'assolutismo in modo più abile e più efficace di coloro che, per giungere al suo stesso risultato, riesumavano vecchie dottrine o peggio vecchi testi che non avevano più alcun potere di penetrazione e di convinzione. Gli avversari sostenevano che il potere sovrano è per definizione revocabile perché è fondato sopra un con-

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tratto? Ebbene, Hobbes manipola con tal perizia da leguleio i termini della questione da riuscire a dimostrare che il patto con cui i cittadini costituiscono il potere sovrano è da parte degli individui che lo stabiliscono, indipendentemente dal consenso del sovrano, irrevocabile. Gli avversari sostenevano che la presenza di una legge naturale al di sopra delle leggi positive legittima il cittadino a resistere contro l 'oppressione? Ebbene, Hobbes trae così bene l'acqua al suo mulino da riuscire a dimostrare che l'obbedienza assoluta e incondizio­nata è nientemeno che il dettame primo e fondamentale della stessa legge naturale.

5. Senonché, la funzione della legge naturale nella dot­trina di Hobbes non si arresta a questo punto. Alla legge che prescrive la rinunzia ai diritti assoluti dello stato di natura seguono altre numerose leggi, le quali hanno in comune di prescrivere comportamenti necessari al mantenimento o al ristabilimento della pace. Ora, di queste leggi, solo la se­conda che prescrive di « stare ai patti », ed è quindi un corollario della prima, si riferisce, come la prima, alla costitu­zione dello stato civile. Le altre prescrivono comportamenti che valgono per sé stanti, indipendentemente dalla costitu­zione dello stato civile. Si possono dividere, tanto per tentare una classificazione, in due gruppi. Il primo comprende le leggi che prescrivono le virtù indispensabili al!a pace, ovvero la gratitudine ( 3a) , la socievolezza ( 4 a), la misericordia ( 5a) , la moderazione ( 9n)

' l'imparzialità ( l oa); o condannano i vizi

suscita tori di discordia e di guerra, ovvero la vendetta ( 6a) , l 'ingenerosità (r), la superbia ( 8a), e sono leggi che si potreb­bero chiamare sostanziali. Il secondo gruppo comprende le leggi che prescrivono le azioni e gli atteggiamenti necessari a ristabilire la pace qualora sia stata violata, e che potremmo chiamare in largo senso procedurali, e come tali sono relative ai mediatori di pace ( 14a ) , agli àrbitri ( 1 5", 1 63, 1 7a, 1 9a )

e ai testimoni ( 1 8n) . (Quanto alle leggi 1 1", 12a, 1 33 si pos-

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sono considerare un corollario della lOa che prescrive l 'im­parzialità ) 13•

Sorge un problema: queste leggi, che prescrivono compor­tamenti indipendentemente dalla costituzione dello stato ci­vile, hanno validità anche al di fuori dello stato civile? Se a questa domanda si dovesse dare risposta affermativa, crol­lerebbe la costruzione rigidamente positivistica, e avrebbero ragione coloro che pongono Hobbes fra i giusnaturalisti. Vediamo dunque di affrontare questa nuova difficoltà 14•

Vi è anzitutto una caratteristica generale delle leggi natu­rali che ne diminuisce il vigore : esse obbligano soltanto in coscienza". È vero che questa caratteristica non è propria della dottrina hobbesiana, anzi è comune a ogni teoria gius­naturalistica, cioè anche a quelle teorie che conservano il primato della legge naturale; ma il valore che tale caratteri­stica assume in Hobbes, dato il fondamento utilitaristico della sua dottrina morale, è tale da modificarne grandemente, o addirittura da vanificarne, il significato abituale. Per il gius­naturalismo di origine etico-religiosa, per il quale la legge naturale esprime valori morali assoluti, l 'obbligazione in co­scienza è un'obbligazione incondizionata, e quindi, come tale, più forte dell'obbligazione esterna propria delle leggi posi­tive che, in quanto tali, obbligano solo ad un comportamento esteriore di conformità al comportamento prescritto senza imporre una perfetta corrispondenza tra comportamento este­riore e interiore. Si aggiunga che là dove il comandamento proprio della legge naturale rinvia ad un ordinamento di­vino del mondo, la sanzione di questo comandamento è tale

· che, pur potendo non essere immediata, ad essa non si può in alcun modo sfuggire, perché dipende da una giustizia infal-

13 L'enumerazione è quella di C. Un diverso raggruppamento è stato proposto recentemente da R. PoLIN, op. cit., pp. 200-201.

14 Questa difficoltà hobbcsiana è stata vista molto bene da G. BrANCA, Diritto e Stato nel pensiero di T. Hobbes, Napoli, Casa editrice libraria Humus, 1946, cap. III, pp. 73-103.

1' El., pp. 71-72 ; C., III, 27-28 (pp. 125-127) ; Lev., XV (p. 103).

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libile, mentre la sanzione del potere civile, che accompagna la violazione delle obbligazioni puramente esterne, è eludibile. Che l'obbligazione nel forum internum sia per i giusnatura­listi tradizionali più forte di quella nel forum externum, è del resto dimostrato dal fatto che, secondo la communis opinio, si ritiene che le leggi positive ( o per lo meno la maggior parte di esse, ad esclusione delle leges mere poenales ) obblighino in coscienza: in altre parole si ritiene che l'obbligazione in co­scienza, legata com'è alle sanzioni ineludibili del giudice infal­libile, serva a rafforzare l'obbligazione esterna che sola può esser imposta dall'eludibile e fallibile potere civile.

In Hobbes, invece, il rapporto tra obbligazione interna e obbligazione esterna è completamente rovesciato. Gli obblighi che per lui hanno valore incondizionato sono quelli che il cittadino assume di fronte al potere civile. È nota su questo punto la sua posizione: una volta costituito per comune ac­cordo il potere sovrano, l'obbedienza che il cittadino deve allo stato è un'obbedienza assoluta, vale a dire è un'obbedienza al comando del sovrano in quanto tale, solo per il fatto che è comando, indipendentemente da ogni giudizio sul conte­nuto del comando. Non vi è passo più significativo a questo proposito che il § 23 del cap. XIV del De Cive, in cui Hobbes confuta la teoria dell'obbedienza passiva che era largamente sostenuta dalle dottrine pure assolutistiche, cop1e la sua, ma che davano fondamento divino al potere regio 1", e sostiene in contrario che l 'obbedienza dovuta allo stato è esclusiva­mente l'obbedienza attiva; e sostiene questa tesi, si badi, affer­mando che la legge positiva non è una norma ipotetica, che lascia una libera scelta tra seguire il precetto o sottoporsi alla sanzione, ma una norma categorica che prescrive incondizio­�atamente la esecuzione del precetto 17• Ma come, da un lato,

16 Sull'obbedienza passiva come caratteristica della teoria del di­ritto divino dei re si veda il noto libro di J. N. FIGGIS, The Divine Right of Kings, 2" ed., Cambridge University Press, 1922, pp. 208

e seguenti. 17 Questo passo del De Cive non ha il corrispondente in Lev., e

neppure in El.

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l

Hobbes tende a dimostrare che le leggi positive valgono in­condizionatamente, cosl dall'altro non vuol lasciare ombra di dubbio sulla tesi opposta che le leggi naturali abbiano un valore meramente condizionato. Per Hobbes, che le leggi naturali obblighino in coscienza, significa semplicemente che ci inducono a desiderare la loro attuazione. Il passaggio dal desiderio di attuazione all'attuazione avviene soltanto quando noi siamo sicuri di poterle attuare senza nostro danno. Ciò vuoi dire che le leggi naturali obbligano condizionatamente, cioè a condizione che dalla loro attuazione non ne venga alcun ·nocumento. Come si vede, il principio utilitaristico della mo­rale hobbesiana entra in giuoco anche a questo punto. Se le leggi naturali non prescrivono azioni buone in sé stesse, e tanto meno rinviano alla. sanzione divina, ma sono semplice­mente mezzi per raggiungere un determinato fine vitale ( la pace ) , sarebbe contradditorio che colui che le eseguisce avesse da trame un danno anziché un'utilità. In altre parole, siccpme le leggi di natura non sono assolute, ma relative ad un fine, l'obbligazione che ne deriva non è incondizionata, ma condi­zionata al raggiungimento del fine. Ora, quand'è che l 'uomo si trova nelle condizioni migliori per agire in conformità della legge naturale senza averne alcun danno? Quando è sicuro che l'altro faccia altrettanto. « Colui - spiega· Hobbes in un passo del Leviathan 18 - che fosse modesto e socievole e mantenesse tutte le sue promesse a tempo e luogo, mentre nessun altro facesse altrettanto, non farebbe· altro che darsi in preda agli altri, e procurare la propria certa rovina, contro il fondamento stesso di tutte le leggi naturali che tendono alla conservazione della natura » . Ma questa sicurezza non si può ottenere che nello stato civile, cioè in quello stato in cui le azioni degli uomini sono non più condizionatamente ma incondizionatamente imposte. Il che vuoi dire che io sono obbligato a compiere ciò che mi prescrivono le leggi naturali, solo quando queste leggi naturali sono trasformate in leggi

18 Lev., XV (p. 103).

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civili. Ma a questo punto è chiaro che le leggi cm 10 d'ora innanzi obbedisco non sono più le leggi naturali, bensì quelle civili. Ancora una volta la strada su cui son gettate le leggi naturali, finisce, anzi precipita, nello stato. E una volta eretto lo stato, le leggi naturali non hanno più ragion d'essere.

6. Non hanno più ragion d'essere come leggi, ovvero come dettami che prevedono e regolano un determinato comporta­mento. Ma si potrebbe obiettare che continuano a valere per il loro contenuto, cioè per quello che prescrivono, Prendiamo, ad esempio, la legge naturale che prescrive agli àrbitri o giu­dici di essere imparziali. Essa obbliga, è vero, solo in quanto è assunta dal potere civile che solo ha il diritto di emanare leggi e di farle rispettare; ma donde lo stesso potere civile deriva il dettame dell'imparzialità se non dalla legge naturale? In altre parole : la legge positiva fornisce la forma, la legge naturale il contenuto.

Se si accoglie questa obiezione, la legge naturale non viene per nulla esautorata, ma conserva nel sistema una funzione rilévantissima e insostituibile. Anzi, conducendo alle estreme conseguenze logiche questo schema - le leggi naturali pre­scrivono i comportamenti che le leggi positive rendono obbli­gatori mediante l'apparato coercitivo dello stato -1 si do­vrebbe giungere alla conclusione che il sistema hobbesiano non differisce per nulla dal sistema dello stato liberale, nel quale la costituzione del potere civile obbedisce principal­mente allo scopo di istituire una garanzia della pacifica attuazione delle leggi naturali. La caratteristica dello stato liberale è appunto quella di essere costituito sopra un tes­suto di diritti e doveri naturali, e come tali precedenti al sorgere dello stato, con il compito, se non esclusivo, pre­ponderante, di rendere possibile attraverso l 'esercizio del potere coattivo la migliore attuazione di questo insieme di diritti e doveri naturali. Ma lo stato liberale è lo stato per eccellenza limitato : limitato nel senso che presuppone le leggi naturali, e trae da esse il contenuto della propria attività

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normativa. Come si concilia il disegno hobbesiano di dar vita a uno stato assoluto ( le sue opere politiche sono notoria­mente piene di attacchi polemici contro i teorici dei limiti dello stato ) con questa teoria dei rapporti tra legge naturale e legge positiva, che pone le premesse per una teoria !imita­trice dei poteri dello stato?

Effettivamente, l'ammissione delle leggi naturali è per una dottrina che tende a un'impostazione rigorosamente positivi­stica del diritto estremamente pericolosa. Una volta !immesse, è difficile potersene liberare. Anche Hobbes, su questo punto, lascia a dividere qualche incertezza o imbarazzo, che rischia di mettere a repentaglio tutto il sistema; sembra cioè lasciarsi sopraffare dalla logica del giusnaturalismo, fondata sul pre­supposto dualistico dell'esistenza di due ordini di leggi, di cui l 'uno è superiore all'altro. In un passo del De Cive si legge: « L'osservanza delle leggi naturali è necessaria a conservare la pace, e la sicurezza è necessaria all'osservanza delle leggi naturali » ( p. 145 ) . Questo passo significa che la funzione del potere civile, la sicurezza, consiste nel far osservare le leggi naturali. Dunque, stando a questo passo, le leggi naturali fornirebbero alle leggi positive il contenuto della regola : le leggi positive sarebbero leggi formali e materiali, quelle naturali sarebbero leggi soltanto materialmente, ratione ma­teriae. Le leggi positive dovrebbero essere sempre, se si può dir così, materialmente naturali. La stessa affermazione si ritrova nell 'opera maggiore, in forma ancor più estesa e quindi compromettente. Vi si dice addirittura che « la legge di natura e la legge civile si contengono a vicenda e sono di eguale estensione », e più decisamente che « legge civile e legge naturale non sono generi differenti di legge, ma parti differenti di una legge, della quale una parte, scritta, è detta civile, l'altra, non scritta, naturale » ( p. 174; il corsivo è mio ) . -L'unico senso che si possa dare a queste due propo­sizioni, tutt'altro che perspicue, è, se non andiamo errati, il seguente : le leggi naturali di per sé stesse non obbligano all'osservanza, solo le leggi civili obbligano; dunque, perché

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le leggi naturali diventino obbligatorie, bisogna che siano imposte da una legge civile. Ma allora ne viene che la legge civile è quella che rende obbligatoria una legge naturale; in altre parole è legge positiva in senso formale ( nel senso che è posta da un'autorità legittimata a creare norme giuridiche obbligatorie ) , ma è legge naturale in senso materiale, per il fatto che trae la materia delle proprie regole dai precetti della legge naturale. Solo su questa base si può dire, come dice Hobbes, che legge naturale e legge civile sono di eguale estensione ( e infutti la legge civile non contiene nulla di più e nulla di meno di quel che contiene la legge naturale ) e sono parti differenti di una stessa legge ( e infatti di una stessa legge la legge civile costituisce per così dire la forma, la legge naturale il contenuto ) . Il rapporto tra legge naturale e legge positiva appare qui completamente invertito rispetto alla dot­trina giusnaturalistica tradizionale. Invero: per un giusnatu­ralista la legge positiva è obbligatoria solo in quanto è con­forme alla legge naturale; per Hobbes la legge naturale è obbligatoria solo in quanto è conforme alla legge positiva.

7. Nonostante queste affermazioni, ritengo si debba an­dar molto cauti nel pretendere che Hobbes abbia fatto alla legge naturale più concessioni di quel che l'impianto del suo sistema avrebbe richiesto. Secondo la lettera dei brani ri­portati, soprattutto di quelli tratti da Leviathan, si sarebbe indotti a ritenere che la legge naturale non sia stata espunta dal sistema per il fatto che fa parte integrante della stessa legge positiva ( è il suo contenuto ) . Ma secondo altri passi e in generale secondo lo spirito del sistema, si vede che la legge positiva non si limita ad attribuire alle leggi naturali, come si direbbe oggi, validità giuridica e non rimane affatto estranea alla determinazione del contenuto. Le leggi naturali sono generiche: non determinano esattamente tutti i compor­tamenti e le modalità di comportamento di cui l'autorità civile abbisogna per istituire e mantenere la pace civile. Sono formule vuote che solo il potere civile è in grado di

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riempire. In alcuni passi del De Cive Hobbes dà la misura di ciò che il sovrano può fare per manipolare a suo van­taggio e a suo piacimento le duttili leggi naturali . Egli dice : « Le leggi di natura proibiscono il furto, l 'omicidio, l'adul­terio e tutte le varie specie di torti. Però si deve determi­nare per mezzo della legge civile, e non della naturale, quel

· che si debba intendere fra cittadini per furto, omicidio, adulterio, torto. Infatti non è un furto ogni sottrazione di quel che un altro possiede, ma solo di ciò che è in proprietà di un altro. Ma determinare quel ch'è nostro e quel ch'è altrui spetta appunto alla legge civile. Così pure non ogni uccisione è un omicidio; ma è omicidio soltanto uccidere per­sone che la legge civile ci proibisce di uccidere. Né tutte le unioni sono adultéri, ma solo le unioni che le leggi civili proibiscono » 19•

Qui, mi pare, la caccia alla legge naturale raggiunge la maggiore intensità, o, se si vuole, la maggiore perfidia. Che cosa rimane ancora della legge naturale, dopo tale imposta­zione del problema del rapporto tra leggi naturali e leggi positive? Era sembrato sino ad ora che la legge naturale offrisse il contenuto alla legge positiva. Ora si vede chiara­mente in che cosa consista realmente questa offerta. La legge naturale prescrive che non si deve commettere omicidio, ma la legge civile, decidendo essa che cosa si deve intendere per omicidio, stabilisce, ad esempio, che .l'uccisione di un nemico in guerra non è omicidio, e quindi l 'uccisione del nemico in guerra non è un atto proibito. L'offerta di contenuto che la legge naturale sembrava proponesse alla legge civile è com­pletamente annullata. Così, con questa impostazione, Hobbes giunge, se pur senza accorgersene, al positivismo integrale,

'9 C., VI, 16 (p. 169) . Altri passi analoghi in C. ; uno di essi a p. 273: « Per quanto la legge di natura proibisca il furto, l'adulterio, ecc.; se poi quella civile comanda di commettere un� qualche usurpa­zione tale usurpazione non è più un furto, un adulteno, ecc.»; un altro a p. Ì79: « Il vero problema non è se il furto sia un pecc�to, bensl che cosa si debba intendere per furto, e cosi per tutto tl resto ».

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dal momento che, oltretutto, vi è implicita una critica, forse non del tutto cosciente, dell'inutile genericità delle presunte leggi naturali. In un primo tempo sembrava che si fosse limi­tato a dire : le leggi naturali ci sono, ma non sono obbligatorie. Ora la sua svalutazione si spinge assai più in là: le leggi naturali ci sono, ma sono tanto indeterminate da essere inap­plicabili. Con la prima affermazione le leggi naturali erano soltanto inefficaci, con la seconda son diventate anche per­fettamente inutili. Dire, infatti, che è la legge civile che deve determinare ciò che è furto, omicidio, adulterio, significa dire che la legge civile determina da sé stessa - e non trae dalla legge naturale - il proprio contenuto. E non vi è esempio più calzante che quello addotto dallo stesso Hobbes : « Gli Spartani, un tempo, permettendo ai ragazzi per legge di impadronirsi dei beni altrui, avevano determinato che questi beni non erano più altrui, ma proprietà dei ragazzi che riu­scivano a prenderseli, perciò queste sottrazioni non erano furti » ( p. 273 ) . Che cosa dimostra questo esempio se non che soltanto il potere civile determina - senza dipendere da nessuna legge superiore - ciò che è lecito e ciò che è illecito? È una posizione cotesta che potrebbe essere piena­mente sottoscritta dal teorico più rigoroso del positivismo giuridico contemporaneo, Hans Kelsen, per il quale non vi è una materia precostituita alla legge positiva, ma qualunque comportamento può esser proibito o autorizzato purché ciò avvenga nelle forme stabilite.

8 . S'intende che se da un lato bisogna andar cauti nel­l 'ammettere nel sistema hobbesiano una breccia aperta verso le leggi naturali, dall'altro sembra che ci si debba guardare dal ridurre il suo sistema troppo semplicisticamente e con un anticipo di qualche secolo a sistema rigorosamente positi­vistico. Mette conto di fare su questo punto ancora alcune considerazioni. La tesi che abbiamo riportata nel paragrafo precedente si trova soltanto nel De Cive; nell'opera mag­giore, non solo tale tesi è espunta, ma alla legge naturale

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è indubbiamente concesso maggior posto e, anche se non si può parlare di mutamento di rotta, si deve riconoscere una maggiore condiscendenza verso le tesi giusnaturalistiche tradizionali. Vi è una questione, infatti, che nel Leviathan acquista particolare rilievo e in cui il problema dei rapporti tra legge naturale e legge positiva si presenta in tutta la sua gravità : la questione delle lacune dell'ordinamento giuridico.

Un positivista schietto ha su questo problema, com'è noto, la sua soluzione già pronta: la lacuna dell'ordinamento giuridico deve venir colmata senza che si esca dal sistema giuridico positivo, onde i metodi da seguire sono quelli ben noti dell'analogia e del ricorso ai principi generali del diritto vigente ( metodo cosiddetto dell'autointegrazione ) . Tale solu­zione non si affaccia minimamente allo Hobbes, né poteva affacciarglisi proprio perché egli, pur essendo positivista per l'esito cui mirava, era stato giusnaturalista per il fondamento su cui aveva poggiato il suo sistema, proprio perché, preci­siamo, la differenza fondamentale tra lui e un positivista del secolo scorso sta nel fatto che per un positivista del secolo scorso il sistema giuridico positivo è autosufficiente, per Hob­bes il sistema giuridico positivo trova la ragione della propria legittimità in un ordine naturale ( o di ragione ) preesistente. Questo ordine naturale ( o di ragione ) preesistente, che è stato sinora, come abbiamo visto, compresso, riemerge necessaria­mente nel caso in > cui l'ordine positivo venga meno. Ciò accade appunto nel caso delle lacune. È indubitabile per Hobbes che nelle materie non previste dall'ordinamento posi­tivo, il giudice debba ricorrere per la soluzione del caso alla legge naturale 20• Da questa affermazione si ricava un'ulteriore conseguenza, chiaramente espressa soltanto nel Leviathan : lé leggi naturali sono obbligatorie ovunque tacciono le leggi positive .

Questo secondo . punto è importante perché serve, a mio

20 Si veda El., p. 151 ; C., p. 276; Lev., p. 183.

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giudizio, a mettere in rilievo con la massima chiarezza la differenza tra una teoria giuridica rigorosamente positivistica e la teoria hobbesiana che rappresenta il massimo sforzo di ridurre il diritto a diritto positivo, compiuto in un ambiente culturale in cui l 'esistenza e la validità della legge naturale non erano mai state contestate. Per un positivista, là dove non giunge la legge positiva (o quel prolungamento di essa che si può ottenere mediante i processi di autointegrazione), vi è il cosiddetto spazio giuridico vuoto, vale a dire una sfera più o meno ampia di libertà di fatto. Per Hobbes, invece, là dove non giunge la legge positiva, vigono le leggi naturali, ovvero vi è uno spazio giuridicamente riempito da norme di ordine diverso da quelle positive. A questa conseguenza Hobbes giunge coerentemente attraverso l'operazione, già commentata, di recezione delle leggi naturali da parte dell'or­dinamento positivo. Si è visto infatti che funzione dell'ordi­namento positivo è di rendere valide le leggi naturali. Ora comprendiamo meglio che cosa ciò significhi. Significa che le leggi naturali obbligano, di obbligo esterno e non soltanto interno, esclusivamente nell'ambito di un ordinamento posi­tivo costituito, ossia obbligano soltanto coloro che in seguito al patto sono diventati membri di uno stato. In altre parole : le leggi naturali non obbligano nello stato di natura, perché non possono essere seguite senza riceverne un danno; obbli­gano, invece, nello stato civile, perché il sovrano è tenuto nel caso di violazione a farle eseguire.

Che questo sia il pensiero di Hobbes, si può ricavare da alcuni passi del Leviathan che non hanno riscontro nelle opere precedenti, e che rappresentano, a mio avviso, non tanto una resipiscenza, quanto piuttosto una piena presa di coscienza dei fondamenti stessi del sistema. A proposito del principio che la legge deve essere fatta conoscere per essere obbligatoria, Hobbes precisa che vi sono leggi che non hanno bisogno di nessuna pubblicazione o proclamazione e ciono­nostante « obbligano tutti i sudditi senza eccezione » e queste

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· ' .··,

sono le leggi naturali 2 1 • E ancora: « L'ignoranza della legge di natura non scusa l'uomo, poiché si suppone che ogni uomo che abbia raggiunto l'uso della ragione, sappia che non deve fare agli altri ciò che non vorrebbe che fosse fatto a sé » (p . 1 9 1 ). Sembra dunque che oltre alle leggi positive che sono il prodotto della volontà espressa (leggi propriamente dette) o tacita (consuetudine) del sovrano, nascano per il sud­dito obblighi giuridici direttamente dalle leggi naturali, la cui violazione potrebbe venir punita alla stessa stregua della violazione di una legge positiva. Stando a questo passo, le leggi naturali sarebbero entrate dentro alla cittadella del di­ritto positivo, tanto da riceverne protezione e da diventare vere e proprie leggi obbligatorie. Il che potrebbe essere con­fermato da un altro passo in cui si dice che « se una legge non scritta sarà osservata generalmente in tutte le province di un dominio, e non apparirà nessuna iniquità dalla sua applicazione, tale legge non può essere che una legge natu­rale, che obliga egualmente tutta la comunità » 22 • Dal quale passo risulta indirettamente che queste leggi non scritte, dhe sono le leggi naturali, obbligano alla pari delle leggi scritte, ed accanto ad esse.

S'intende dunque che se le leggi naturali vigono alla pari delle leggi positive ed accanto ad esse, e vigono, si badi, soltanto dentro un determinato sistema giuridico positivo, esse debbano fornire la soluzione giuridica dei casi non espres­samente previsti dalla legge positiva. Né vi è bisogno di un rinvio esplicito. È la logica stessa del sistema che conduce a tale soluzione. Le leggi naturali, costituito che sia lo stato, diventano leggi alla stessa stregua delle leggi dello stato, per­ché lo stato ha il compito appunto di rendere possibile, creando un ordinamento pacifico, la libera esecuzione dei dettami della retta ragione. Pertanto là dove lo stato non ha legiferato, ciascuno è tenuto a uniformare la propria condotta

21 Lev., XXVI (pp. 176-177). 22 Lev., XXVI (p. 175) .

3. N . BoBBIO - D a Hobbes a Marx.

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alle leggi naturali. Da ciò segue che è perfettamente legit­timo da parte del giudice valutare il comportamento del sud­dito - là dove la legge positiva non soccorre - in base al dettato della legge naturale. Facciamo un esempio (libera­mente scelto) : una delle leggi naturali, fissate da Hobbes, prescrive di non ingiuriare il mio prossimo; indipendente­mente dal fatto che nell'ordinamento positivo vi sia una legge che proibisce l 'ingiuria, io sono tenuto a non profferire ingiurie, perché la legge naturale è pienamente vigente. Se io infatti non mi conformo, il giudice potrà punirmi.

Ma siamo proprio sicuri che questo principio rappresenti un atto di omaggio alla legge naturale e insieme una restri­zione della legge positiva? Se così fosse, dovremmo attenuare la nostra tesi iniziale relativa al positivismo giuridico di Hobbes. Ma abbiamo qualche ragione di credere che anche in questo punto l'omaggio sia apparente e celi

-una reale

svalutazione. La legge naturale, che diamo per vigente accanto alla

legge positiva, non può essere applicata al caso concreto non previsto (perché solo nei casi non previsti è valida) senza essere interpretata. Ora a chi spetta l'interpretazione della legge naturale? Non c'è dubbio che per Hobbes essa spetta all'autorità dello stato, impersonata dal giudice. Egli spiega che l'interpretazione delle leggi di natura non dipende dai libri di filosofia morale, i quali esprimono semplicemente delle opinioni personali dei filosofi, sovente contradditorie, ma « dalla sentenza del giudice nominato dall'autorità so­vrana per ascoltare e deliberare nelle controversie » 23• Ma se è così, dipende esclusivamente dal giudice, cioè dal so­vrano, stabilire se quel caso concreto non previsto da una legge positiva sia regolato o no da una legge di natura, • nel caso affermativo che cosa disponga la legge di natura che si ritiene di dover applicare. È dunque interamente nel­l'arbitrio del giudice la rilevazione e la determinazione della

2" Lev., XXVI (pp. 180-181 ).

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legge di natura : ciò significa che chi fa diventare vigente una legge di natura e vi attribuisce questo piuttosto che quel contenuto è pur sempre il . sovrano attraverso la duplice oper'azione di rilevazione e di determinazione del contenuto specifico della legge. Insomma: quella stessa opera di mani­polazione della legge naturale che _ abbiamo messa in evi­denza parlando del potere del sovrano di determinare il con­tenuto delle leggi naturali, la constatiamo qui a proposito del potere del giudice in caso di lacuna. Si potrebbe dire che il sovrano, sotto specie di legislatore, priva di ogni significato le leggi naturali nel momento stesso in cui crea le leggi posi­tive, e che lo stesso sovrano, sotto specie di giudice, le priva di ogni significato là dove non è arrivato il potere legi­slativo 24•

9 . Tutto quello che abbiamo detto sin qui vale per quel che riguarda i rapporti tra la legge naturale e il comporta­mento dei singoli cittadini. Ma la dottrina politica di Hobbes conosce principalmente due soggetti (o persone) : i cittadini e il sovrano. Si tratta ora di sapere quale sia il rapporto tra legge naturale e comportamento del sovrano. Anche in questa sfera Hobbes pone il problema nei termini della più ortodossa dottrina giusnaturalistica, sostenendo la tesi che il sovrano sia tenuto a rispettare le leggi naturali. È un'affermazione questa che rimette in piedi le leggi naturali che ci sembrava di veder ormai per ripetuti colpi abbattute.

Infatti, se nei rapporti tra individui e sovrano le leggi naturali vengono a cessare, non è detto che esse siano del

2 1 Lo stesso discorso si può fare per l'affermazione secondo cui anche le consuetudini per essere « vere e proprie leggi » non devono essere contrarie alla legge di natura (Lev., p. 186). Ma a chi spetta il giudizio di conformità? Evidentemente al sovrano, come si può rica­vare da quest'altro passo: « I giuristi non considerano la consuetudine come legge, se non sono ragionevoli, mentre le cattive consuetudini debbono essere abolite. Ma il giudizio su ciò che è ragionevole e ciò che deve essere abolito, appartiene a colui che fa la legge, e cioè all'assemblea sovrana o al monarca » (Lev., p. 174 ) .

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tutto eliminate dai rapporti umani. Nello stato civile, tra le leggi naturali originarie e gli atti singoli dei cittadini si è interposto - attraverso il noto patto di rinunzia e di trasfe­rimento dei diritti naturali - il sovrano, il quale è diventato, a cominciare dal momento in cui il contratto è entrato in vigore, l 'unico titolare del potere di dettare norme giuridiche. Ma, se i cittadini sono sottoposti soltanto alle leggi civili, è sottoposto alle medesime leggi anche il sovrano? La risposta di Hobbes è su questo punto nettissima: il sovrano non è tenuto all'osservanza delle leggi civili, è, secondo l'antica formula, legibus solutus 2� . Ciò significa forse che il potere del sovrano è sciolto da vincoli di qualsiasi natura, cioè è arbitrario? Anche a questa seconda domanda la risposta di Hobbes è assai netta: il sovrano è tenuto all'osservanza delle leggi naturali. Dunque le leggi naturali tacciono per i citta­dini, ma continuano a valere per il sovrano. Un giusnatura­lista ortodosso non avrebbe avuto difficoltà ad accompagnare Hobbes nel progressivo esautoramento delle leggi naturali dentro l 'ambito dello stato, purché alla fine si fosse dato ad esse un posto d'onore tra i doveri dei principi. Di conseguenza sembra che Hobbes faccia alla fine gran conto di quelle leggi che ha finora strapazzate, proprio conservandole in quella funzione per cui la dottrina giusnaturalistica le ha principal­mente poste e sostenute, nella loro funzione fondamentale e insostituibile di !imitatrici e correttrici del potere assoluto. Hobbes, insomma, dopo aver roso con la sua dialettica la dottrina giusnaturalistica sino a farcela apparire come un guscio vuoto, nome senza sostanza, o con altra sostanza, ora, giunto al momento decisivo di darle il colpo di grazia, si rimetterebbe nella stessa scia dei suoi predecessori? Anche � per Hobbes le leggi naturali sono il codice dei principi? Co­\\ dice morale, se si vuole, più che giuridico, ma, cionondimeno,

2� C., VI, 14 (pp. 166-167). L'opinione che il sovrano sia sotto­po�to alle leggi civili è annoverata tra le teorie sediziose: El., p. 136; C., pp. 237; Lev., pp. 212-213.

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vincolante, se pur in coscienza e di fronte a Dio, e non da­vanti ai tribunali degli uomini? Ma allora quella lunga enu­merazione di leggi naturali fatta al principio della sua trat­tazione politica non sarebbe stata un'esibizione superflua: quei dettami della retta ragione varrebbero almeno per i sovrani .

Guardiamo le cose più da presso. Anzitutto l'afferma­zione secondo cui i sovrani sono tenuti a rispettare le leggi naturali è fatta più volte, ma di sfuggita, come cosa ovvia, si, ma di secondaria importanza. Nel De Cive, in una nota, a proposito della questione se il sovrano possa commettere atti illeciti, si dice: « In primo luogo, anche se ne ha il di­ritto, cioè se lo può fare senza commettere un torto, non è detto che lo possa fare giustamente, cioè senza violare le leggi naturali e senza recar torto a Dio » (pp. 1 63-164) . Nel Leviathan: « [ Il sovrano] non manca mai del diritto su di una cosa, se non in quanto è egli stesso suddito di Dio, e legato perciò ad osservare le leggi di natura » (p. 1 39) ; e altrove: « È vero che i sovrani sono tutti soggetti alle leggi di natura, perché tali leggi sono divine e da nessun uomo o da nessun governo possono essere abrogate ; ma a quelle leggi, che il sovrano stesso, cioè lo stato, fa, egli non è soggetto » (p . 2 12 ) . Una vera e proprià trattazione non è �ai stata da Hobbes dedicata di proposito al problema. E invero, se lo si esamina attentamente, ci si accorge che nel sistema hobbesiano è un problema apparente .

10 . Il sovrano istituisce essenzialmente due sorta di rela­zioni intersoggettive: con gli altri sovrani e con i sudditi. Quando si dice che egli è tenuto a rispettare le leggi naturali , s 'intende che tale obbligo dovrebbe valere sia nei rapporti con gli altri sovrani, sia nei rapporti coi sudditi. Ebbene: per quel che riguarda i rapporti internazionali, si può ripetere lo stesso ragionamento che Hobbes ha compiuto a proposito dei rap­porti tra gli individui nello stato di natura. Si può dire, cioè, che il sovrano è tenuto a rispettare la legge naturale

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solo se possa farlo senza suo danno; ma siccome questa sicu­rezza non esisterà sino a che egli stesso e gli altri sovrani non avranno costituito un potere superiore capace di eser­citare atti coattivi nei confronti dell'inadempiente, nel frat­tempo, perdurando nei rapporti internazionali lo stato di natura (e Hobbes considera la società internazionale come un tipico esempio storico di stato di natura), il sovrano non è tenuto a mettere a repentaglio la propria vita e la conser­vazione stessa dello stato sottoponendosi unilateralmente ai sublimi ma scomodi dettami della ragione. Dunque, rispetto al comportamento del sovrano nei confronti di altri sovrani, la legge naturale non ha, in quanto tale, nessuna efficacia.

Ne ha una maggiore nel campo dei rapporti tra sovrano e sudditi? Se si vuoi dare un significato giuridico al dovere del sovrano di rispettare le leggi di natura, bisogna ammettere che qualora il sovrano venga meno a quest'obbligo, al suddito spetti il diritto di non obbedire, cioè di resistere al comando del sovrano contrario alla legge naturale. Ma ammettere questa conseguenza, vorrebbe dire soppiantare, da un lato, la teoria dello stato assoluto, dall'altro la concezione positivi­stica del diritto e legalistica della giustizia che Hobbes, almeno per quel che abbiamo potuto vedere sin qui, ha cercato di tenere in piedi con ogni possibile accorgimento. Hobbes non si lascia attrarre neppure questa volta dall'ennesimo tranello teso dalla legge naturale alla compattezza dello stato asso­luto. La sua dottrina in proposito è chiara: la violazione di una legge naturale da parte del sovrano non autorizza il suddito alla disobbedienza. L'argomento fondamentale con cui questa tesi è sostenuta è il seguente : mediante il patto ogni suddito si è obbligato a fare tutto ciò che il sovrano comanda e a non fare ciò che lo stesso proibisce, vale a dire ha attribuito al sovrano il potere di determinare nei propri confronti ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, dal momento che l'effetto del patto è di far considerare al suddito come proprie le azioni del sovrano. Ne viene che tutto ciò che è comandato è giusto per il solo fatto di essere comandato, e

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\ i

pertanto il sovrano non può commettere torto o ingiustizia nei confronti dei suoi sudditi . Se viola una legge naturale - poniamo mandando a morte un innocente (è l'esempio fatto in Lev., XXI, p . 139 ) 26

- il sovrano fa un torto a Dio, non al suddito, al quale, posto che nessun torto vien recato, non può evidentemente spettare il diritto di resistenza che è la giusta e legittima reazione ad un'azione considerata ingiusta e illegale. Ecco come lo stesso Hobbes, su questo punto delicatissimo, si esprime senza lasciar luogo a dubbi : « È vero che un sovrano, sia esso un monarca o la maggio­ranza di un'assemblea, può ordinare che molte cose sian fatte sotto l'impulso delle proprie passioni e contro la propria coscienza, il che è un'infrazione della fede e della legge di natura; ma ciò non è sufficiente per autorizzare i sudditi sia a muover guerra sia ad accusarlo di ingiustizia sia a dir male in qualunque modo del loro sovrano, perché essi hanno auto­rizzato tutte le sue azioni, e costituendo il potere sovrano, le riconobbero come proprie » 27•

C'è, è vero, un'eccezione ben nota: il dovere dell'obbe­dienza viene a cessare nel momento in cui l'ordine del so­vrano mette in pericolo la vita del suddito. Ciò vuoi dire che il suddito deve obbedire a ogni comando tranne a quelli per cui ne va della sua stessa vita (per esempio una condanna a morte). La ragione di questa eccezione s'intende senza alcu­na difficoltà sol che si ponga mente alle premesse del sistema hobbesiano: il valore primario per l'uomo è la vita e lo stato viene costituito con nessun altro scopo che quello di soppri­mere lo stato di natura in cui la vita è continuamente minac­ciata dalla guerra universale. L'individuo accetta la dura disci­plina dello stato per aver salva la vita onde rinunzia a tutti

diritti che egli possiede nello stato di natura tranne al

26 Spiega in altro passo che la pumztone di sudditi innocenti r?pp�csenta la violazione di tre leggi di natura, di quella che impone dt mtrare, nella vendetta, al bene futuro, di quella che vieta l'ingrati­tudine, e infine di quella che comanda l'equità (Lev., XXVIII, p. 207).

27 Lev., XXIV (p. 162).

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diritto alla vita : di conseguenza , qualora lo stato metta in pericolo la sua vita, egli non è più vincolato al patto di obbe­dienza. Con terminologia rousseauiana si potrebbe dire che esi­ste per Hobbes un diritto naturale inalienabile, il diritto alla vita, allo stesso modo e con gli stessi effetti con cui per Rous­seau è inalienabile il diritto alla libertà . Ma, si badi , al diritto di resistenza del suddito non corrisponde affatto un dovere del sovrano di non condannare alla pena di morte un suddito che a suo giudizio ne sia meritevole. Cesare Beccaria par­tendo dallo stesso presupposto di Hobbes, cioè dalla consi­derazione che « nel minimo sagrifizio della libertà di cia­scuno », da cui risulta la sovranità, « non vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita » "" , giunge alla riprova­zione della pena di morte. Hobbes, invece, giunge semplice­mente ad ammettere nel suddito la facoltà di resistere legit­timamente all'esecutore della condanna, non già a negare al sovrano il diritto di condannare e di far eseguire la condanna contro il suddito recalcitrante ( anche se legittimamente re­calcitrante). Il diritto del sovrano urta contro l'eguale e con­trario diritto del suddito. Come si spiega questa situazione? Si spiega col fatto che ormai tra suddito e sovrano il patto è infranto, ed entrambi sono tornati nei loro reciproci rapporti allo stato di natura, cioè in quello stato in cui ognuno ha tanto più di diritto quanto più ha di potere. Il diritto del sud­dito condannato a morte è il diritto di sottrarsi con la forza all'imposizione; il diritto del sovrano, di ottenere con la forza l'esecuzione dell'ordine. Dei due vince, come nello stato di natura, il più forte. Insomma il richiamo alla legge naturale fondamentale « bisogna cercare la pace », serve per giustifi­care la ribellione del suddito, ma la stessa legge naturale non costituisce affatto un obbligo per il sovrano. Ancora una volta si vede quanto la legge naturale sia un mero flatus vocis, perché, come già si è detto, nello stato civile non vige, essendo totalmente sostituita dalle leggi positive, e nello stato

"' Dei delitti e delle pene, § XVI.

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di natura neppure, non vigendo quivi altra legge che quella del­l'utilità e della forza . Siccome non vi sono altri stati in cui l'uomo possa vivere, la legge naturale non ha una propria sfera di applicazione: nello stato di natura non è ancora, nello stato civile non è più . Non esiste mai e in nessun luogo, per essa, il presente .

1 1 . A questo punto il problema della validità della legge naturale sembra esaurito : essa non vige ancora nello stato di natura e non vige più nello stato civile. Ma si tratta ora di vedere che cosa avvenga nella fase di passaggio dallo stato di natura allo stato civile, nel momento stesso, cioè, in cui si istituisce lo stato. Che quando la sovranità è costituita non siano valide altre norme che quelle derivanti da tale auto­rità, è dottrina hobbesiana genuina (ed è pure, come abbia­mo fatto rilevare, schietto positivismo giuridico). Ma da che cosa deriva l 'autorità del sovrano? In altre parole : qual'è il fondamento di validità della norma che obbliga i sudditi ad obbedire al sovrano ?

Siamo perfettamente d'accordo col Kelsen 29 nel ritenere che, se una norma non è considerata evidente per sé stessa, deve avere un qualche fondamento della propria validità, e che il fondamento della validità di una norma non possa essere che un'altra norma, una norma detta, appunto per ciò, superiore. Ora, la norma secondo cui i sudditi debbono obbedire al sovrano o è una norma evidente per sé o deve avere il proprio fondamento in una norma superiore. La ri­sposta di Hobbes è la seconda. La norma, infatti, in base alla quale i sudditi debbono obbedire al sovrano deriva secondo Hobbes la propria validità dal fatto che i sudditi attraverso n· contratto di rinunzia e di trasferimento hanno autorizzato il sovrano a dettare norme giuridiche. Dunque il fondamento della validità della norma che prescrive l 'obbedienza dei sud-

29 cfr. la Teoria generale del diritto e dello Stato, traduz. i tal . , Milano, edizioni di Comunità; 1952, pp. 1 1 1- 1 12.

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diti è la norma che prescrive ai sudditi di attribuire al so­vrano un potere assoluto di comandare. Ma siccome tale nor­ma è per Hobbes una legge naturale, più precisamente è, secondo il testo del De Civ e 30, la prima delle leggi naturali derivate da quella fondamentale, ne segue che a fondamento della validità di tutto il sistema giuridico positivo sta una legge naturale . Per accanita che sia stata la persecuzione con­dotta da Hobbes contro i residui giusnaturalisti, per compatta e coerente che sia la sua costruzione positiva del diritto, egli non ha potuto non porsi il problema del fondamento di vali­dità dell'intero sistema giuridico positivo. Ora, per quanto le norme positive inferiori rimandino a norme superiori, an­ch'esse positive, si dovrà pur giungere al punto in cui si trova la norma superiore, la cui validità non è fondata da nessun'altra norma positiva e che è a sua volta il fondamento della validità di tutte le altre norme. Questa norma suprema, proprio perché è il fondamento ultimo di un sistema positivo, non può essere essa stessa positiva, cioè non può essere essa stessa fondata nello stesso modo in cui sono fondate le nor­me da essa derivate.

Un positivista moderno, che abbia consapevolmente ricu­sato o per lo meno provvisoriamente accantonato, ai fìni della propria ricerca, ogni riferimento giusnaturalistica, si limite­rebbe a dire che tale norma suprema è la norma fondamen­tale di quel determinato ordinamento giuridico e preciserebbe che la norma fondamentale non è più una norma assoluta­mente valida, ma è una norma ipotetica la quale permette di costruire una scienza obbiettiva del diritto positivo. Bob­bes, invece, positivista per inclinazione mentale e per ragio­namento ma giusnaturalista per necessità, attribuisce a questa

- norma suprema che regge il sistema positivo il carattere di legge naturale. In tal modo, pur avendo eliminato ogni inter­ferenza della legge naturale dal momento in cui l 'ordina­mento positivo è costituito, non può fare a meno di porre

"0 In Lev. viene citata come seconda legge naturale, XIV (p. 85).

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la legge naturale alla base del sistema, cioè cade inesorabil­mente in braccio al giusnaturalismo quando sembrava che gli fosse definitivamente sfuggito. Le conseguenze di questa posizione paragonata a quella del positivista moderno si pos­sono riassumere in questi termini : il positivista moderno, attribuendo alla norma suprema dell'ordinamento il carattere di norma ipotetica, considera quel particolare ordinamento giuridico, che egli fa oggetto della propria indagine, come uno degli ordinamenti possibili; Hobbes, attribuendo alla norma base dell'ordinamento il carattere di legge naturale, a causa del requisito di universalità e di assolutezza che porta con sé la legge naturale, considera l 'ordinamento da lui de­scritto come l 'unico ordinamento possibile . Non c'è del resto da meravigliarsi di questa differenza: dietro il giurista positivo c'è la concezione relativistica della scienza contemporanea, dietro Hobbes la concezione assolutistica della scienza propria del razionalismo seicentesco. Lo scienziato moderno non si preoccupa dei presupposti della propria ricerca; li accetta per quel che valgono ai fìni della ricerca stessa. Hobbes, nonostante il suo convenzionalismo c il suo nominalismo, è mosso dall'ambizione di stabilire, seguendo la vocazione razio­nalistica del suo tempo, un sistema politico assolutamente valido, altrettanto valido quanto la geometria, o, per meglio dire, quanto si riteneva fosse valida la geometria . Ma per dare validità assoluta al sistema non vi era che una sola via : collocarlo sul piedestallo delle leggi naturali, vale a dire sopra una legg� che fosse evidente di per sé come un assioma mate­matico, oppure fosse derivabile razionalmente da altra legge naturale evidente per sé.

1 2 . Non c'è.4ubbio che per Hobbes la norma fondamen­tale dello stato, vale a dire quella legge in base alla quale gli individui si accordano nel rinunziare ai propri diritti so­vrani e nel trasferirli ad altri, è una norma avente una vali­dità assoluta. Tale validità assoluta essa possiede perché è

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la logica conseguenza di un'altra legge naturale, della legge naturale prima e suprema che prescrive agli uomini di cercare la pace :n . A sua volta questa legge prima e suprema non è data come evidente di per sé, ma è giustificata attraverso quello studio della natura egoistica dell'uomo, che presiede alla nota descrizione dello stato di natura e porta alla con­clusione, per Hobbes inoppugnabile, della intollerabilità di questo stato e della necessità del passaggio dallo stato natu­rale allo stato civile. Si può dire allora che Hobbes, a diffe­renza del giurista moderno, si è preoccupato dei presupposti della propria ricerca, tanto da costruire un sistema razionale di leggi naturali che fungessero da valida base per l'ordina­mento positivo. Ciò non toglie che la concessione, se si può dir così, da lui fatta alla legge naturale è la più piccola che un razionalista potesse fare. I l problema del diritto naturale, così come lo può vedere un giusnaturalista auten­tico, non è evidentemente soltanto il problema del fondamento del diritto positivo, vale a dire se il diritto positivo si fondi su leggi universali (naturali) o su princìpi a validità limitata o addirittura su convenzioni; ma è il problema, assai più importante, se vi sia accanto al diritto positivo un altro diritto che abbia uguale, anzi superiore dignità, e a cui il cittadino, il giudice, o altra autorità possa appellarsi nel caso in cui il diritto positivo vi contraddica. Ciò che Hobbes non ammette è, come abbiamo cercato di mettere in luce, proprio questa concezione tradizionale del diritto naturale. Egli non ammette che vi siano due diritti, che accanto al di­ritto positivo, che per lui è il solo diritto vigente, vi sia, come si direbbe oggi dai superstiti e ingagliarditi giusnaturalisti, un diritto naturale vigente. Egli non ammette la legge naturale se non come fondamento del diritto positivo: ma ciò facendo,

. '" Il modo con cui la legge naturale seconda deriva dalla prima è d�v�rso da quello con cui una legge positiva deriva da un'altra legge P

.osltlva. I� questo secondo caso, seguendo la terminologia kelseniana,

si tratta. d1 .una derivazione formale o per delegazione; nel primo, di una derivaziOne attraverso il contenuto.

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non attribuisce alla legge naturale altra funzione che quella di giustificare il valore assoluto della propria concezione del diritto positivo. E allora si può dire che per Hobbes la legge naturale non vale essa stessa come norma giuridica, ma uni­cament� come argomentazione logica, cioè non per deter­minare la condotta ma per dimostrare razionalmente le ra­gioni per cui ci si deve condurre in un modo piuttosto che in un altro.

E con questa ultima considerazione ritorniamo proprio al punto di partenza : le leggi naturali per Hobbes non sono leggi ma teoremi, o meglio non sono norme giuridiche, ma principi scientifici; non comandano, ma dimostrano; non obbligano (o costringono), ma tendono a convincere; non appartengono alla sfera del dover essere (per adottare anche qui la terminologia kelseniana) ma dell'essere. Le leggi natu­rali non valgono come norme giuridiche, ma per la dimo­strazione che esse dànno della validità di un determinato sistema di norme giuridiche. Ma questo, ancora una volta, significa la dissoluzione del, diritto naturale nel senso classico della parola, cioè nel senso di un sistema di norme giuridiche valide. Senonché, pur nella riduzione del sistema delle leggi naturali a sistema di proposizioni scientifiche aventi valore non normativa ma dimostrativo, il sistema giuridico positivo deve pure essere normativamente fondato e non solo razio­nalmente giustificato. Come per il Kelsen, anche per Hobbes l'ordinamento giuridico rinvia ad una norma fondamentale. E questa norma fondame�le non è per Hobbes una mera ipotesi normativa, ma una legge naturale. Ciò significa che la riduzione delle leggi naturali a teoremi non è completa e che il diritto naturale ha valore normativa almeno in un punto, che è il punto d'appoggio di tutto il sistema.

Si può aggiungere che questa norma fondamentale natu­rale che istituisce un contratto a favore di terzi come fon­damento normativa dell'ordinamento giuridico statuale, im­plica per la propria validità anche la validità di un'altra norma, delia norma in base alla quale i contratti devono

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essere osservati (pacta sunt servanda) . E Hobbes conseguen­temente considera tale norma come la seconda delle leggi naturali derivate "2 • Secondo un'autorevole dottrina nel cam­po del diritto internazionale, un ordinamento giuridico a base paritaria non può non riconoscere il proprio fondamento nella norma pacta sunt servanda : un ordinamento statuale, secondo la concezione contrattualistica che Hobbes accoglie, ha una base paritaria. Tutt'al più è da notare che, per quanto la tradizione scientifica degli internazionalisti abbia considerato, né più né meno che Hobbes, tale norma-base come un principio di diritto naturale, oggi un positivista coerente cercherà di dimostrare che anche questa norma, posto che egli l'accetti, è una norma di diritto positivo, soste­nendo che la sua validità, se non può derivare dall'accordo essendo essa stessa il presupposto di validità dell'accordo, deriva dalla consuetudine. Ma non si può chiedere a un filo­sofo e giurista del Seicento, per quanto spregiudicato, di ra­gionare come il più audace e coerente positivista dei nostri giorni.

Per Hobbes, tanto la norma che istituisce il contratto di unione quanto la norma paota sunt servanda sono leggi na­turali. Ne è una conferma il fatto che il delitto di lesa maestà, così come ci è presentato in un passo del De Cive, quel de­litto che consiste non nel disobbedire a questa o a quella legge, ma nell'infrangere il patto iniziale, è considerato come un peccato contro la legge naturale, « trasgressione della legge naturale stessa, non di quella civile » 33, il che porta

32 C., III, l, p. 1 1 1 . In Lev., figura come la terza legge di natura, xv (p . 93). . . . .

33 C., XIV, 21 (p. 283 ). In Lev. il problema. de1 dehtt� �h les� maestà non è trattato di proposito. Vengono elencati come dehtu p�rtl­colarmente gravi in un paragrafo in cui si stabilisce una comparazwn: dei diversi delitti rispetto ai loro effetti (XXVII, p. 2�0), t_na non s1 mette in rilievo la loro caratteristica di essere una vwlazwne della legge naturale, forse perché ciò verrebbe a contrastare con quanto è stato affermato nello stesso capitolo: delitto potersi chiamare soltanto la trasgressione della legge civile, mentre la violazione della legge

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alla conseguenza che il reo di lesa maestà non dovrà essere punito secondo il diritto civile, ma secondo quello naturale, cioè non come cattivo cittadino, ma come nemico dello stato.

1 3 . Possiamo ora tornare con maggior consapevolezza a quello che si è detto al § 4 : dalla tesi che la norma o le norme fondamentali del sistema siano leggi naturali, non deriva alcun argomento decisivo contro il positivismo giuri­dico hobbesiano, anzi, se mai, tale positivismo viene rafforzato.

Ci siamo domandati in primo luogo: come si concilia la concezione formale della giustizia con l 'affermazione che le leggi naturali valgono per il loro contenuto di giustizia? Siamo ora in grado di rispondere che la conciliazione non presenta alcuna difficoltà, dal momento che le leggi naturali che sopravvivono sono leggi che non prescrivono un deter­minato contenuto, ma prescrivono semplicemente che si deve costituire un ordinamento positivo il quale avrà, esso sol­tanto e con la for:m che gli sarà propria, un determinato contenuto. Ci siamo domandati in secondo luogo: come si concilia la teoria dello stato assoluto con l'ammissione di leggi naturali precedenti allo stato? Anche qui possiamo rispon­dere che la conciliazione è possibile, perché la legge naturale, a furia di essere neutralizzata�vunque potrebbe farsi valere, dalla norma giuridica positiva; finisce di non avere altra funzione, nel sistema hobbesiano, che quella di costituire il fondamento di validità di uno stato che non riconosce altro diritto che quello positivo .

Ma allora alla domanda finale se tra il punto di partenza del sistema hobbesiano, che è costituito da un sistema di leggi naturali , e il punto d'arrivo che è la costruzione di un sistema

naturale, per quanto possa essere ascritta a colpa, non può essere considerata come delitto (XXVII , p. 190). Sarebbe da esaminare a parte in quale relazione stia questa variante con la generale revisione politica a cui sarebbe stata sottoposta, mutate le condizioni del paese, e sconfitto · il partito regio, l'opera maggiore.

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positivistico del diritto, non ci sia contrasto, possiamo ancora una volta rispondere tranquillamente che contrasto non c'è perché la legge naturale hobbesiana, per quanto paradossale possa sembrare tale affermazione, non ha altra funzione che quella di convincere gli uomini che non vi può essere altro diritto che quello positivo. Con le parole stesse di Hobbes questo paradosso suona così : « La legge naturale comanda di obbedire a tutte le leggi civili in virtù della legge naturale che vieta di violare i patti. Quando, infatti, ci obblighiamo ad obbedire prima di sapere quello che ci verrà comandato, ci obblighiamo ad un'obbedienza generale e totale, onde deriva che nessuna legge civile [ . . . ] può essere contraria alla legge naturale » 14 • Con parole nostre ciò significa che contrasto non vi può essere tra legge civile e legge naturale, perchéJa legge naturale, comandando di obbedire a tutte le leggi civili, comanda di obbedire anche a quelle che sono contrarie alle leggi naturali. Contrasto non c'è, non già per­ché una legge civile non possa essere in contrasto con una legge naturale, ma perché al disopra di tutte le leggi naturali particolari vige la legge naturale fondamentale che bisogna obbedire allo stato, vale a dire la legge naturale sec<;mdo cui, costituito che sia lo stato, cessano di valere tutte le leggi naturali.

L'itinerario hobbesia:no è concluso. Ma bisognava percor­rerlo interamente per rendersi conto di ciò che all'inizio era sembrata una contraddizione o un paradosso. Ora abbiamo compreso che contraddizione o paradosso non c'è, perché la vera funzione della legge naturale, l 'unica che resiste alla de­molizione, è quella di dare un fondamento, il più assoluto dei fondamenti, alla norma che non vi può essere altro diritto valido che il diritto positivo. Tutto ciò che Hobbes riesce a

34 C., XIV, 10 (pp. 272-273). Il corsivo è mio. Un'altra formula­zione di questo paradosso si legge a XVII, 1 1 (p. 343 ) : « [ . . . ] il nostro Salvatore non ha indicato alcuna legge circa il governo dello stato, oltre le leggi naturali, cioè oltre il comandamento di obbedire allo Stato stesso ». Il corsivo è mio.

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spremere dalla dottrina tradizionale del diritto naturale è dunque un argomento in favore della necessità dello stato e dell'obbligo di obbedienza assoluta al diritto positivo. La legge naturale, sl, ma al servizio di una teoria c.Qerente e conse­guente del diritto positivo; o, se si vuole, la legge na­turale come espediente per giustificare con un'assolutezza che nessun argomento storico avrebbe saputo recare la vali­dità del diritto positivo. Se il giusnaturalismo era stato, prima di Hobbes, e sarà ancora, dopo Hobbes, una dottrina che riconosce due sfere giuridiche distinte, se pur variamente tra loro connesse, con Hobbes il giusnaturalismo sbocca in una concezione monistica del diritto, cioè in una negazione del diritto naturale come sistema di diritto superiore al sistema di diritto positivo.

4. N. BoBBIO - Da Hobbes a Marx.

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II. Hobbes e il giusnaturalismo

l . È opinione comune che la storia del giusnaturalismo debba essere divisa in due periodi, corrispondente, il primo, al giusnaturalismo classico e medioevale, il secondo, al giusna­turalismo moderno. Ma in questi ultimi anni mi pare sia avve­nuto uno spostamento nella valutazione del momento della svolta, senza che i difensori dell'uno o dell'altro giusnatu­ralismo ne abbiano acquistato piena consapevolezza. Sino a pochi anni or sono aveva resistito senza grandi scosse la dottrina, già consolidata alla fine del '600 e al principio del '700 per opera di Pufendorf, Thomasius e Barbeyrac, che l'iniziatore del giusnaturalismo moderno fosse Grozio. Ora, la prospettiva è diversa : si sta diffondendo la convinzione che il giusnaturalismo moderno cominci non da Grozio ma da Hobbes . È avvenuto che mentre, da un lato, l'originalità filosofica di Grozio è stata messa in dubbio, e i suoi legami con la tradizione e in particolare con la filosofia della tarda scolastica sono stati meglio studiati e confermati 1, il pen­siero giuridico di Hobbes, d'altro lato, è uscito definitiva­mente di quarantena e viene studiato con crescente curiosità e convinzione, come una illuminante anticipazione di teorie considerate, a torto o a ragione, rinnovatrici .

Si prendano in esame i criteri più frequentemente difesi da una parte e dall'altra per determinare e giustificare una distinzione tra giusnaturalismo medioevale (conviene p re-

1 Cfr. G. AMBROSETTI, I presupposti teologici e speculativi della concezione giuridica di Grazio, Bologna, Zanichelli, 1955.

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scindere da quello classico che può servire, secondo i casi , a rafforzare l'una e l 'altra parte) e giusnaturalismo moderno. Tutti questi criteri reggono ad una rigorosa prova storica, solo se il loro punto di riferimento è la @osofia di Hobbes. Commisurati alla teoria giusnaturalistica di Grazio, perdono quasi del tutto la loro forza argomentativa e diventano inac­cettabili. Si potrebbe dire scherzosamente che, nella disputa tra giusnaturalisti vecchi e nuovi, è avvenuta i rresistibilmente e inevitabilmente una reductio ad H obbesium di tutte le prin­cipali argomentazioni.

Considero i quattro criteri che sono più frequentemente addotti. Questi criteri possono essere classificati secondo che siano fatti valere per sostenere la superiorità del giusna­turalismo medioevale su quello moderno o per sostenere la tesi contraria ; oppure secondo che si valgano di argomenti ideologici e metodologici. Dei quattro criteri che esamino i primi due sono i più frequentemente addotti dai difensori del giusnaturalismo medioevale ( la e lb) , gli altri due i più frequentemente addotti dai difensori del giusnaturalismo moderno ( 2a e 2b). In entrambe le coppie, il primo argo­mento è prevalentemente di natura metodologica ( la e 2a), il secondo prevalentemente di natura ideologica ( l b e 2b) .

la ) La superiorità del giusnaturalismo medioevale su quello moderno consiste nel fatto che esso non ha mai avuto la pretesa di elaborare un sistema completo di prescrizioni dedotte more geometrico da un'astratta natura umana una volta per sempre stabilita: il diritto naturale del giusnatu­ralismo medioevale consiste di alcuni principi generalissimi, al limite di un solo principio ( bonum faciendum, male vitan­dum ), che devono essere integrati o specificati storicamente (attraverso il diritto naturale secondario o il diritto positivo umano) 2• Mentre il giusnaturalismo moderno è il frutto di

" Il Rommen parla di un diritto naturale-cornice, che non rende superfluo il legislatore u m ;� no (Lo stato nel pemiero cattolico, Milano 1959, pp. 78-79 ) .

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un razionalismo astratto, che non fa alcuna concessione allo sviluppo storico dell'umanità, il giusnaturalismo medioevale è il frutto di un razionalismo moderato che, concependo la verità come continua adeguazione della ragione umana alla ragione universale, ammette e giustifica lo sviluppo storico. Si sa con quale insistenza da parte dei giusnaturalisti cattolici più agguerriti, che non si danno per vinti e che anzi son tqrnati all'attacco in questi anni più vivi che mai, si affermi che il giusnaturalismo moderno è antistorico e il giusnatu­ralismo scolastico, riconciliato con la storia, è più moderno di quelle dottrine che si fanno chiamare moderne.

Orbene, il primo pensatore che ha cercato di costruire un sistema giuridico deduttivo con il suo postulato etico originario (la legge naturale fondamentale) e le prescrizioni secondarie ( le leggi naturali derivate), è stato non già Grazio, ma Hobbes. Grazio nei Prolegomena ( § 8 ), senza alcuna pretesa di redigere un codice eterno, si era limitato a fare un elenco non tassativo e ben poco impegnativo di regole comunissime, quali l'astenersi dalle cose altrui, la restitu­zione di dò che appartiene ad altri, l'obbligo di mantenere i patti, la riparazione del danno e la sottomissione alla pena per la trasgressione delle leggi. Hobbes nel II e III cap. del De Cive, nel XIV e XV del Leviathan presenta, invece, con molta sicurezza ed una certa dose di presunzione, le vere e proprie tavole della legge di natura, tra le quali, nella prima opera, persino il divieto di ubriacarsi . Checché si dica del razionalismo astratto settecentesco e delle sue pretese di fis­sare una volta per sempre il tenore dei diritti naturali, non conosco autore che abbia avuto più audacia di Hobbes nel­l'assumersi l'ingrato compito del legislatore universale.

l b) La superiorità del giusnaturalismo medioevale su quello moderno consiste altresl nel fatto che il secondo - prendendo le mosse non più dalla natura sociale dell'uomo, ma dalla sua natura egoistica, considerando più l'individuo isolato (nello stato di natura) che l 'individuo in società -

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ha espresso una concezione angusta, particolaristica, privati­stica, atomistica, e via discorrendo, dell'uomo, e ha dato origine a una particolare ideologia politica, quella del libe­ralismo, che è ora dovunque in declino. Qui il giusnatura­lismo scolastico si propone come un'etica personalistica da contrapporre all'etica individualistica dell'illuminismo e del­l 'utilitarismo, come una concezione comunitaria della società da contrapporre alla concezione atomistica, come una visione dell'uomo e della storia più consona ai compiti positivi (e non più soltanto negativi) dello stato moderno.

Sotto questo rispetto ancor più nettamente che rispetto al punto precedente, il momento della svolta è Hobbes : cer­tamente non Grazio. Dinnanzi al nuovo criterio di distin­zione è altrettanto evidente la irrilevanza di Grozio, quanto la piena rilevanza ·di Hobbes . Grozio era partito� molto alla buona dall'appetitus societatis, che era un discendente con poche pretese deLpoliticòn zoon di Aristotele e di San Tom­maso sino agli scolastici del '500 . Hobbes parte dall'indivi­duo asociale dello stato di natura che vive nel continuo so­spetto di esser ingannato e offeso dagli altri, che non rispetta le leggi di natura per timore che gli altri le trasgrediscano prima di lui, agitato perpetuamente dalla volontà di nuocere (altro che appetitus societatis) . E lo dice, com'è suo costume, molto chiaramente sin dalle prime pagine del De Cive, rispon­dendo in una nota della seconda edizione al coro delle obie­zioni mossegli dai tradizionalisti : « [ . . . ] l 'uomo non è adatto ad associarsi per natura, ma lo diventa per educazione » ( I , 2 ) .

2 a ) La superiorità del giusnaturalismo moderno su quello medioevale va cercata nel fatto che il primo si vale ormai di un nuovo concetto di ragione, più duttile e adatto alla mu­tata concezione del posto dell'uomo nel cosmo e, corrispon­dentemente, anche di un nuovo concetto di natura che non è più l 'ordine universale posto da Dio, ma puramente e sem­plicemente l 'insieme delle condizioni di fatto ( ambientali, sociali , storiche) di cui gli individui debbono tener conto

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per regolare i modi della loro coesistenza. È stato detto che, mutati i concetti di ragione e di natura, « il diritto naturale cessa di essere la via attraverso la quale le comunità umane possono partecipare all'ordine cosmico o contribuire ad esso, per diventare una tecnica razionale della coesistenza » � .

Siffatto ctiterio di distinzione tra i l vecchio e i l nuovo giusnaturalismo non sarebbe stato nemmeno concepito, se la fìlosofìa di Hobbes non fosse esistita : ancora una volta Bob­bes è il passaggio obbligato. Hobbes per primo costruisce una teoria della ragione come calcolo, in particolare, per l'uomo in società, come calcolo delle utilità, da cui siamo indotti a unirei con gli altri attraverso un patto, a costituire la società civile, a porre le condizioni per la trasformazione delle leggi naturali, buone, sì, ma inefficaci, nelle leggi posi­tive, buone, cioè vantaggiose, per il solo fatto di essere per lo meno efficaci e di garantire la realiz7:azione del valore su­premo della pace. Hobbes per primo, non limitandosi ad ascrivere al diritto naturale precetti generalissimi, come aveva­no fatto tutti i suoi predecessori, compreso Grazio, mette alla prova, col suo lungo elenco di leggi naturali, tratte in gran parte dal diritto di guerra, la tesi per cui le leggi naturali non sono nient'altro che il prodotto del calcolo delle utilità ( in questo senso nuovo, dictamina rectae rationis), espedienti escogitati dalla ragione per rendere possibile la coesistenza pacifica. Nell'opera di Grazio non esiste una teoria della ragione, se non come pallido riflesso delle discussioni del tempo, e anche la celebre frase etsi daremus non esse Deum, com'è stato am­piamente dimostrato dal Passò, è un imparaticcio scolastico. Quanto alla legge naturale, essa era ancora per Grazio il mag­gior baluardo contro l'utilitarismo e lo scetticismo morale, proprio perché veniva concepita come il riflesso di un ordine razionale immutabile, di cui l'uomo era parte : ciò che garan­tiva agli occhi di Grazio la validità universale della legge

3 N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, Torino 1 96 1 , voce Diritto, p. 245 b.

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naturale a paragone della validità storica della legge civile era la sua corrispondenza a una natura intesa come ordine divino (se pur posto non dalla volontà, ma dalla ragione divina).

2b) La superiorità del giusnaturalismo moderno su quello medioevale riposa sul fatto che il secondo considera la legge naturale quasi eslusivamente dal punto di vista degli obblighi che da essa derivano, il primo, invece, dal punto di vista dei diritti che essa attribuisce •. Si ammette che la funzione del giusnaturalismo sia stata sempre quella dl pon-e limiti al potere del sovrano: ma nella concezione tradizionale il giu­snaturalismo adempieva questa funzione affermando l'ob­bligo del sovrano di non trasgredire le leggi naturali ; il giu­snaturalismo moderno, invece, attribuisce ai sudditi, in un primo tempo, il diritto di resistere al sovrano che abbia trasgredito le leggi naturali, e cosl trasforma l'obbligo del sovrano di imperfètto in perfetto, di interno in esterno; in un secondo tempo, considera come fondamento originario dei limiti del potere dello stato non già il dovere del sovrano di rispettare le leggi naturali, ma un gruppo più o meno grande di diritti individuali preesistenti al sorgere dello stato, appunto i cosiddetti diritti naturali, dei quali il dovere da parte del sovrano di rispettare le leggi naturali viene consi­derato come una conseguenza.

Su questo punto l'accordo degli studiosi è unanime: la teoria dei diritti naturali nasce con Hobbes. In Grazio non ve n'è traccia: il presunto fondatore del giusnaturalismo mo­derno, quando tratta della sovranità, si preoccupa principal­mente di confutare l'opinione di coloro che sostengono in ogni caso il fondamento popolare della sovranità, ricorrendo, tra gli altri argomenti, anche a quello con cui Aristotele

� Cfr. da ultimo L. STRAUSS, Diritto naturale e storia, Venezia 1957, p. 183, e autori ivi citati. Ma anche A. PAS SERIN n'ENTREVES , La dottrina del diritto naturale, Milano 1954, p. 76 e segg.

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aveva giustificato la schiavitù. In un celebre passo del De Cive, ripetuto anche in Leviathan, Hobbes aveva affrontato senza mezze misure il problema della distinzione tra lex e ius, osservando che « la legge è un vincolo, il diritto è una libertà e i due termini sono addirittura antitetici » (XIV, 3 ) . Poiché la sfera della libertà contrapposta a quella regolata da leggi (qui bisogna intendere per leggi le leggi civili) è lo stato di natura, questo stato è caratterizzato dall'esistenza non di doveri ma di diritti : tra questi �iritti campeggiano il diritto alla vita e il diritto su tutte le cose, indispensabile àlla con­servazione della vita. Che poi nella costituzione dello stato civile l'individuo sia costretto a rinunciare alla sua libertà natur�le e a gran parte dei suoi diritti naturali, è problema che per ora non ci deve preoccupare. Ciò che conta al fine di dimostrare l'innovazione hobbesiana (innovazione che avrà molte conseguenze, anche se opposte a quelle cui Hobbes mirava) è che Hobbes elabora per la prima volta una com­piuta teoria dello stato di natura, cioè di quello stato che diventerà il principale espediente per fondare la teoria dei limiti della sovranità non tanto sul dovere imperfetto del principe, quanto sui diritti perfetti del cittadino.

Volendo ora trarre tutte le conseguenze dalle tesi esposte e brevemente commentate, si dovrebbe concludere che Bob­bes, solo Hobbes non altri, è l'iniziatore del giusnaturalismo moderno. Senonché vi è un'interpretazione del suo pensiero e della sua posizione nella storia del pensiero giuridico - e non vorrei ingannarmi, ma è l'interpretazione prevalente � -che fa del nostro autore il precursore del positivismo giuri­dico. In tal modo, il giusnaturalismo moderno passerebbe attraverso un pensatore da cui avrebbe inizio la dissoluzione del giusnaturalismo: situazione piuttosto imbarazzante. Per

� Per un'attenta storia della critica dr. M. CATTANEO, Il positi­vismo giuridico inglese. Hobbes, Bentham, Austin, Milano 1 962, pp. 46 e segg. L'autore di questo saggio, pur dando particolare rilievo .a Hobbes giusnaturalista, finisce anch'egli per considerarlo come « 11 primo rappresentante· del positivismo giuridico inglese » (p. 46).

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uscirne, si possono seguire queste due vie : o sostenere che il cosiddetto giusnaturalismo moderno non ha più nulla a che vedere col giusnaturalismo medioevale, anzi ne è l'antitesi, come lucus a non lucendo (ed è la via recentemente per­corsa dal Piovani ), oppure dimostrare che_ Hobbes, malgrado alcune concessioni più reali che verbali al positivismo giuri­dico, è uno strenuo difensore del diritto naturale e sostan­zialmente molto più giusnaturalista di quel che comunemente si sia disposti a credere (ed è la via percorsa magistralmente dal Warrender) . Io penso, invece, meno drasticamente che il nodo possa essere sciolto quando ci si renda conto di q�este due cose : l ) che giusnaturalismo e positivismo giuridico sono c.on�etti �iu�tosto ambi?ui (come, del resto, tutte le espres­

swm che mdtcano grandi correnti di idee, costantemente ricor­renti e rincorrentisi ), e vi sono vari modi, non tutti tra loro antitetici, di essere giusnaturalisti e positivisti ; 2 ) che, mal­grado la stupenda armatura di concetti, la coerenza di Hob­bes è meno invulnerabile di quel che appaia a prima vista e di quel che io stesso abbia in studi precedenti creduto � lasciato credere 6 •

Chiamo « giusnaturalistici » quei sistemi di idee in cui ri­corrono almeno queste due affermazioni : l ) oltre il diritto positivo ( la cui esistenza nessun filosofo del diritto ha mai osato negare), esiste il diritto naturale; 2 ) il diritto naturale è superiore (nel senso che preciseremo fra poco) al diritto positivo. Storicamente ritengo che queste due condizioni

�ssenz�ali. si !-"it.rovino in tre diversi sistemi filosofico-giuridici, l quah st dtstmguono tra loro in base al diverso modo di concepire il rapporto di superiorità tra diritto naturale e diritto positivo, e che pertanto sia necessario, per evitare

, ",

Ha ragione il Cattaneo quando afferma : « Il pensiero di Hobbes e cost compl�sso, e contiene alcune contraddizioni di fondo - quale soprattut�o; t1 conflitto tra il diritto naturale all'autoconservazione � la sovramta, entramb� t�ndenti all'assolutezza - che non è possibile trame delle conclustom estreme e troppo unilaterali » (Op cit pp. 1 1 9-120) . . . ,

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confusioni e fraintendimenti, distinguere tre specie diverse di sistemi giusnaturalistici, ricorrendo alla formulazione di tre tesi generali : l ) diritto naturale e diritto positivo stanno tra loro in rapporto di principio a conclusione (o di massime generali ad applicazioni concrete) ; 2 ) il diritto naturale deter­mina il contenuto delle norme gìuridiche, il diritto positivo, rendendole obbligatorie, ne garantisce l'efficacia; 3 ) il, diritto naturale costituisce il fondamento di validità dell'ordina­mento giuridico positivo, considerato nel suo complesso.

Ciò che viene inteso diversamente in questi tre possibili sistemi di giusnaturalismo è la superiorità del diritto naturale sul diritto positivo. Un diritto (per « diritto » qui intendo tanto la singola norma quanto un intero ordinamento) può essere detto superiore a un altro o nel senso del sistema sta­tico o nel senso del sistema dinamico, secondo la nota termi­nologia kelseniana, cioè o in quanto il diritto inferiore trae da esso il proprio contenuto (come una conclusione logica di una premessa evidente) oppure in quanto il diritto infe­riore trae da esso la propria validità . In entrambi i casi la norma inferiore non ha il potere di abrogare la superiore; ma nel primo caso la norma inferiore incompatibile con quella superiore si dice ingiusta, nel secondo caso, invalida. Orbene, i tre diversi sistemi giusnaturalistici si differenziano secondo che la superiorità del diritto naturale sul diritto positivo sia contemporaneamente di entrambi i tipi ( I sistema), o sia esclusivamente del primo ( II sistema), o esclusivamente del secondo ( III sistema) : l) in San Tommaso, il diritto umano, concepito come una conclusio tratta dalle massime generalis­sime del diritto naturale, trae dal diritto naturale e il conte­nuto e il fondamento della propria validità 7; 2 ) in un sistema in cui al diritto positivo venga attribuita la funzione di garan­tire l 'efficacia delle norme di diritto naturale ( si può consi-

7 Diverso è il caso delle leggi umane concepite come determina­tiones del diritto naturale : per queste S. Tommaso dice che « ex sola lege humana vigorem habent » (Summa theologica, ra, nae, q. 95, art. 2) .

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derare sistema di questo tipo, se pure con una certa appros­simazione, quello lockiano ) , le singole norme del diritto posi­tivo derivano dalle leggi naturali il loro contenuto ma non il loro fondamento di validità; 3 ) infine in un sistema in cui il diritto naturale costituisca il fondamento di validità dell'or­dinamento giuridico nel suo complesso, la superiorità del diritto naturale sul diritto positivo consiste, all 'inverso, nel fatto che il diritto positivo dipende dal diritto naturale non quanto al contenuto, bensì quanto alla validità.

Sebbene il pensiero di Hobbes sia, come si diceva, tutt'al­tro che semplice, anzi pieno di asprezze sotto una superficie levigata, quasi sempre la lettera e sempre, a mio parere, lo spirito del sistema mi inducono a interpretarlo come un giu­snaturalismo del terzo tipo. Ho illustrato altra volta questa tesi R. Ma poiché il giusnaturalismo di Hobbes è stato da autori recenti come il Warrender e, entro certi limiti, anche il Cattaneo, rivalutato, ho ritenuto opportuno riprendere la discussione con qualche nuovo chiarimento e anche con qual­che sfumatura in più (di cui son grato ai di versamenti pensanti ) .

2. Lo scopo principale che si prefigge Hobbes con la sua filosofia politica è di porre il potere civile su solide fonda­menta . L'ideologia del diritto naturale era ai suoi tempi ancor così vigorosa che il miglior modo di fondare il potere civile parve a Hobbes quello di dimostrare che l'obbligo di ubbidire al sovrano era un obbligo derivato da una legge di natura. Tutto il discorso hobbesiano sul diritto naturale - quel discorso per cui egli poté affermare che la legge natu­rale era il tema principale della sua opera, di un'opera, si badi, che mira a difendere il massimo di sovranità compa­tibile col minimo di resistenza - si risolve nell'affermare

8 Legge naturale e legge civile nella filosofia politica di Hobbes in Studi in memoria di Gioele Solari, Torino 1954, pp. 61-101 . [È qui pubblicato come primo saggio] .

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che l'obbligo di ubbidire al sovrano è di diritto naturale, e che, una volta costituito lo stato, non esiste per i sudditi, salvo casi eccezionali e ben circoscritti, altro obbligo naturale (o morale) che quello di ubbidire. Almeno due passi del De Cive sono a questo proposito irrefutabili : « La legge natu­

rale comanda di obbedire a tutte le leggi civili in virtù della

legge naturale che vieta di violare i patti »; [ . . . ] il nostro

Salvatore non ha indicato alcuna legge circa il governo dello Stato, oltre le leggi naturali, cioè oltre il comandamento di

obbedire allo Stato stesso » 9• Questa tesi si trova riconfer­mata nella più importante opera sul pensiero politico di Hobbes, apparsa in questi anni 1 0 • Anche se il proposito del­l'autore, Howard Warrender, non sia quello, alquanto futile del resto, di assegnare Hobbes al giusnaturalismo o al posi­tivismo, ma piuttosto di dimostrare che la legge naturale ha in questo pensiero una funzione ineliminabile, più pre­cisamente di confutare quegli interpreti che hanno a più ri­prese rilevato la mancanza o l'inefficacia, nel sistema hobbe­siano, di una obbligazione naturale (o morale) distinta da quella civile, l'argomento preferito dal Warrender per soste­nere la propria tesi è che, se Hobbes non avesse ammesso un obbligo morale precedente e indipendente dall'obbligo civile, tutta la sua teoria dell'obbligazione politica sarebbe crollata : il quale obbligo morale è poi quello derivante dalla legge naturale che prescrive di mantener i patti, in prima ed ublma istanza il patto da cui deriva l'obbligazione politica.

Non mancano, a dire il vero, spunti e passi che possono indurre a un'interpretazione del giusnaturalismo hobbesiano come giusnaturalismo del secondo tipo, cioè di quel giusna­turalismo in cui il diritto naturale offre il contenuto della regola, il diritto positivo ne garantisce l 'efficacia. Tutto il movimento iniziale della dimostnizione - le leggi naturali

» De Cive, XIV, 10 (ediz. U.T.E.T. , 1959, p. 272) ; De Ch.oe, XVII , 1 1 (p. 343).

1 0 H. WARRENDER, The Politica! Philosophy o/ Hobbes. His theory of Obligation, Oxford, 1957.

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esistono nello stato di natura, ma non sono generalmente efficaci a causa dello stato di insicurezza in cui versano gli individui nei loro reciproci rapporti, onde occorre un fermo e indiscusso potere che, restituendo agli uomini in società la sicurezza, renda possibile l'esecuzione delle leggi naturali ­farebbe pensare che Hobbes avesse avuto di mira la costru­zione di un sistema giuridico in cui il diritto naturale costi­tuisse l'insieme delle norme primarie o sostanziali, il diritto positivo l'insieme delle norme secondarie o sanzionatorie. Nella stessa direzione può essere interpretata la teoria se­guita da Hobbes riguardo alla integrazione delle lacune me­diante il ricorso alla legge naturale 1 1 : se in caso di mancanza di una legge positiva riaffiora la legge naturale, è segno, si argomenta, che il diritto naturale non è mai venuto meno, che anzi dietro o sotto ogni norma positiva sta, o deve stare, una norma corrispondente di diritto naturale . Anzi, precisa Hobbes, la legge civile punisce «anche i trasgressori mate­riali delle leggi naturali, quando la trasgressione sia avvenuta coscientemente e volontariamente » 12, lasciando intendere che, in quanto norme sostanziali di condotta, le leggi natu­rali sono sempre vigenti, anche se la loro obbligazione esterna, e quindi la loro efficacia, dipenda esclusivamente dalla rece­zione fattane, o preventivamente e una volta per sempre, dal legislatore, o successivamente, in caso di lacuna, cioè nel singolo caso preventivamente non previsto, dal giudice. Da un punto di vista letterale, il passo più favorevole a que­sta interpretazione è quello, tormentatissimo, che ha dato molto @o da torcere, se pur per altri motivi, anche al War­render, del cap. XXVI di Leviathan, ove Hobbes, dopo aver detto che legge di natura e legge civile si contengono a vi­cenda e sono di eguale estensione, precisa che le leggi di na­tura non diventano effettivamente leggi sino a che non sia

11 De Cive, XIV, 14 (p. 276) ; Lev., XXVI (ediz. Oakeshott, p. 183) .

1 2 De Cive, XIV, 14 (pp. 276-277).

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esistito lo Stato « perché il potere sovrano obbliga gli uomini ad obbedire a quelle », e conclude: « Legge civile e legge naturale non sono generi differenti di legge, ma parti differenti di una legge, della quale una parte, scritta, è detta civile, l'altra, non scritta, naturale » 13 •

Ma a sostegno della tesi secondo cui il giusnaturalismo hobbesiano sarebbe in ultima istanza un giusnaturalismo del terzo tipo, soccorrono argomenti, a parer mio, più decisivi. E in primo luogo un argomento generalissimo tratto dallo spirito del sistema: il giusnaturalismo del secondo tipo è storicamente l'ideologia dello Stato limitato o liberale, e delle teorie della resistenza; Hobbes mira con tutte le sue energie a sostenere le ragioni dello Stato assoluto, cioè di uno Stato il cui potere incontri il minor numero di limiti nei diritti degli altri, e dell'obbedienza assoluta, cioè di quella obbedienza, di cui non si può dare una maggiore 14 : a fondar razional­mente l'ideologia dello Stato assoluto serve egregiamente, come vedremo, il giusnaturalismo del terzo tipo, il cui carat­tere essenziale consiste nel respingere il diritto naturale come fonte di contenuti normativi e nell'accettarlo esclusivamente come fondamento di validità dell'ordinamento nel suo com­plesso.

L'avversione di Hobbes nei confronti del diritto naturale come insieme di norme sostanziali, valevoli come tali anche dopo la costituzione dello stato civile, può essere ampiamente docu!ilentata . Passo decisivo è quello del De Cive, in base al quale Hobbes potrebbe essere legittimamente annoverato tra i più puri rappresentanti del positivismo etico, ovvero di quella dottrina secondo cui la legge è giusta per il solo fatto di essere legge: « Poiché dunque è prerogativa dei re discer­nere il bene dal male, sono inique le parole che si sentono tutti i giorni : è re chi agisce rettamente, non bisogna obbe­dire ai re se non ordinano cose giuste e altre simili . Il giusto

13 Lev., XXVI, 4 (p. 174 ). 1 ' De Cive, VI, 13, (p. 165).

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e l 'ingiusto non esistevano prima che fosse istituita la sovra­nità; la loro natura dipende da ciò che è comandato; e ogni azione, per se stessa, è indifferente : che sia giusta o ingiusta, dipende dal diritto del sovrano. Pertanto i re legittimi, ordi­nando una cosa, la rendono giusta per il fatto stesso che la ordinano e, vietandola, la rendono ingiusta appunto perché la proibiscono » 15 • Questa affermazione è tanto grave che può indurre a cercare qualche attenuazione: per quanto Hob­bes sembri riferirsi a tutte le azioni possibili, si potrebbe sostenere che il potere del sovrano di stabilire ciò che è bene e ciò che è male valga soltanto per le azioni indifferenti, cioè per quelle azioni che non sono né comandate né proibite dalle leggi naturali, come risulterebbe da un altro passo: « Quel che la legge divina proibisce non può venir permesso dalla legge civile e quel che la legge divina comanda non può venir proibito dalla legge civile. Però, quel che è per­messo dal diritto divino, cioè quel che si può fare per diritto divino, è possibile che venga proibito dalla legge civile, perché una legge inferiore può restringere la libertà lasciata dalla legge superiore, per quanto non la possa ampliare » 16• Se­nonché, in senso contrario si può addurre la più curiosa e pro­vocante tesi del De Cive, spesso ripetuta, che riguarda pro­prio le azioni non indifferenti, vale a dire quelle comandate o proibite dalla legge naturale, e che mostra chiaramente come per Hobbes spetti esclusivamente al sovrano qualificare la liceità e la illiceità delle azioni pur regolate dalla legge

15 De Cive, XII, l (p. 233). In Lev. : « . . . è manifesto che la misura delle azioni buone e cattive è la legge civile, e il giudice è il legislatore, che è sempre il rappresentante dello stato » (.lG\IX, p. 2 1 1 ) .

1 " De Cive, XIV, 3 (p. 267). Altra interpretazione è quella proposta dal Cattaneo, il quale, volendo scagionare Hobbes dall'accusa di posi­tivismo etico, trae argomento dalla definizione di legge data in Lev. all'inizio del cap. XXVI, e da qualche altro passo, per mostrare eh� �obbes usa « giusto » e « ingiusto » per « legale » e « illegale » (op. crt., p. 106 e ss.) : l 'esegesi del Cattaneo, che mi sembra accettabile per la definizione di Lev., non mi pare si possa applicare anche al passo da me citato nel testo, passo che il Cattaneo non prende in considerazione.

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naturale : « Le leggi di natura proibiscono il furto, l'omici­dio, l'adulterio e tutte le varie specie di torti. Però si deve determinare per mezzo della legge civile, e non della natu­rale, quel che si debba intendere fra cittadini per furto, omi­cidio, adulterio, torto » 17• Da questa premessa deriva l'ardita conclusione (e stupefacente per la sua arditezza) che « nes­suna legge civile, a meno che sia stata promulgata con l'in­tenzione di offendere Dio [ . . . ] , può essere contraria alla legge naturale » 1 8 • Presa alla lettera (ma vedremo più oltre che occorre ammettere qualche eccezione), questa affermazione dovrebbe essere interpretata nel senso che il sovrano, qualun­que cosa comandi o proibisca, non sbaglia mai, è sempre nel giusto, perché, da un lato, l'estrema genericità delle leggi naturali, dall'altro la sua assoluta libertà di interpretarle, fanno sì che ogni legge civile sia sempre conforme alla legge naturale. Brevemente : secondo il giusnaturalismo del secondo tipo, la legge civile recepisce la legge naturale, e quindi ne dipende; secondo questo passo hobbesiano, la legge civile modella a suo modo il diritto naturale, e quindi lo sottomette ai propri scopi. Nel primo caso il sovrano è più simile al meccanico che mette in moto una macchina già in se stessa perfetta; nel secondo caso è più simile allo scultore che da una materia grezza crea la statua.

L'argomento più forte in favore dell'indipendenza della legge civile dalla legge naturale rispetto al contenuto è offerto, ancor più che dalla tesi su riferita (che scompare in Levia­than ) , dalla teoria hobbesiana dell'obbedienza, che è uno degli elementi essenziali del sistema. In più luoghi Hobbes chiama l'obbedienza dovuta dal suddito al sovrano « obbe­dienza semplice » . Come la sovranità assoluta è non già un potere senza limiti ( solo il potere di Dio è tale), ma « il potere maggiore che si possa mai concepire » 19, cosl l'obbe-

17 De Cive, VI, 16 (p. 169). Così pure XIV, 10 (p. 273 ); XVII, 10 (pp. 341-42) .

1 8 De Cive, XIV, 10 (p . 273 ) . 19 De Cive, VI, 6 (p . 159).

5. N. BoBBIO - Da Hobbes a Marx.

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dienza semplice, che Hobbes chiama anche assoluta, non è un'obbedienza senza limiti, ma è quella di cui « non si può dare una maggiore » 20• Ora per obbedienza semplice Hobbes intende l'obbedienza dovuta al comando in quanto tale, indi­pendentemente dal suo contenuto, fondata com'è sulla pro­messa di fare, senza discutere, tutto quello che la persona, cui trasmettiamo il diritto di comandare, comanderà. È la stessa obbedienza dovuta dallo schiavo al padrone 21 , da Adamo ed Eva a Dio nel paradiso terrestre 22• Questo tipo di obbedienza, tra l 'altro, caratterizza la legge in quanto comando rispetto al consiglio: « Poiché si obbedisce alle leggi non per il loro contenuto, ma per la volontà di chi le ha emanate, la legge non è un consiglio, ma un ordine, e la si può definire così : la legge è l'ordine di quella persona ( individuo o assemblea) il cui precetto contiene in sé la ragione dell'obbedienza » 23 •

Uno degli aspetti preminenti e caratteristici del giusna­turalismo tradizionale è la teoria secondo cui una legge positiva è valida solo se è conforme alla legge naturale. Con le celebri parole consacrate da S . Tommaso: « Non videtur esse lex quae iusta non fuerit, unde inquantum habet de iustitia in­tantum habet de virtute legis » 24 • Le tesi su esposte di Bob­bes appaiono tutte quante come una negazione di questa teoria. Primo: se spetta al sovrano stabilire ciò che è bene e ciò che è male, onde è giusto ciò che è comandato, ingiusto ciò che è proibito, la legge è giusta non in quanto conforme a una legge diversa e superiore, ma per il solo fatto di essere

20 De Cive, VI, 13 (p. 165). 21 « Chi si obbliga.. . ad obbedire ai comandi di qualcuno prima

di sapere quello che gli si ordinerà, è tenuto ad eseguirli semplice­mente senza alcuna restrizione » (De Cive, VIII, l , p. 194).

22 « . . . con il famoso precetto di non mangiare i frutti dell'albero della scienza del Bene e del Male . . . Dio aveva richiesto un'obbedienza semplicissima ai suoi comandi, cioè un'obbedienza che non ammetteva di discutere se quel che era stato ordinato fosse bene o male » (De Cive, XVI, 2, p. 312).

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23 De Cive, XIV, l (p. 265). Cfr. anche Lev., XXV (p. 166). 2 ' Summa theologica, P, Il"e, q. 95, art. 2 .

posta dal sovrano legittimo. Secondo: se nessuna legge civile può essere contraria alla legge naturale, viene meno la possi­bilità di una discordanza tra legge civile e legge naturale, discordanza che sola permetterebbe di considerare invalida una legge civile pur legittimamente posta. Terzo: se il suddito deve ubbidire ai comandi del sovrano in quanto tali, quale che sia il loro contenuto, ne segue che i comandi del sovrano, cioè le leggi, sono validi indipendentemente dalla loro con­formità alla legge naturale. Si deve dunque trarre la conclu­sione che per Hobbes, una volta costituito lo stato, le leggi poste dallo stato sono tutte quante valide, anche quelle con­trarie alla legge naturale, e che pertanto il suddito è tenuto ad obbedire a tutte le leggi civili, anche a quelle contrarie alla legge naturale? Se si potesse dare una risposta affermativa a questa domanda, in qual senso si potrebbe ancora parlare di un giusnaturalismo hobbesiano? Non sarebbe Hobbes piut­tosto da annoverare tra i più recisi sostenitori del positivismo giuridico, anzi di quell� forma radicale di positivismo giuridico che è il legalismo etico?

Credo si possa dare una risposta non evasiva a questa do­manda richiamando l 'attenzione sulla terza forma di giusnatu­ralismo, che abbiamo visto essere più corrispondente al pen­siero di Hobbes, e illustrandone tutte le implicazioni . Il proprio di_questa forma di giusnaturalismo è, come si è detto, di riconoscere che, costituito lo stato, sopravvive una sola legge narurale, quella che impone il dovere di ubbidire alle leggi civili . Orbene, pur prescindendo dalla particolare tesi hobbesiana, secondo cui spetta al sovrano determinare il contenuto delle leggi naturali, si deve ammettere, seguendo la logica di questa teoria, che la legge naturale generale, che fonda la legittimità del potere civile, finisce per sanare qual­siasi futuro eventuale contrasto tra legge naturale e legge civile. Se, nel caso in cui fosse possibile un contrasto tra legge civile e legge naturale, il cittadino ubbidisse alla seconda e non alla prima, violerebbe la legge naturale generale che pre­scrive l'obbedienza alle leggi civili. Si potrebbe rispondere

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che la legge generale impone di ubbidire solo alle leggi civili che non contrastano con le leggi naturali. Ma se così fosse, la legge generale non avrebbe più alcuna ragion d'essere, perché basterebbe ammettere l'esistenza dell'obbligo di ubbi­dire alle leggi naturali particolari. Detto altrimenti : se il cittadino fosse obbligato ad ubbidire solo alle leggi civili conformi al diritto naturale, non vi sarebbe alcun bisogno di scomodare la legge naturale per farle enunciare il dovere di ubbidire alle leggi civili, perché basterebbe, per ottenere il rispetto richiesto alle leggi civili, il dovere di obbedienza alle leggi naturali. Se è esatta questa interpretazione, cioè se è giusto interpretare la terza forma di giusnaturalismo come una teoria che, mediante l'enunciazione di una legge naturale ge­nerale che legittima il diritto positivo, mira a garantire tutto il sistema giuridico positivo, una volta per tutte, contro la di­sobbedienza individuale, questa terza forma di giusnaturalismo può essere considerata come una forma di transizione fra il giusnaturalismo tradizionale e il positivismo giuridico. Il che, tra l'altro, può spiegare perché autori diversi, pur essendo sostanzialmente d'accordo nella interpretazione da dare al pensiero hobbesiano, possano sostenere, alcuni, che è ancora giusnaturalista con la stessa sicurezza con cui altri sostengono che è già positivista 25 •

Ciò che induce ad annoverare il sistema hobbesiano tra i sistemi giusnat�ralistici è la presenza in esso di entrambe le condizioni che abbiamo ritenuto di dover porre per caratteriz­zare ogni forma possibile di giusnaturalismo: vale a dire il ri­conoscimento che esiste un diritto naturale oltre al diritto positivo, e che il primo è superiore al secondo. Viceversa, ciò

25 « . . . è interessante notare come una tesi hobbesiana, e cioè la considerazione 'del diritto naturale come mero fondamento e giustifica­zione del diritto positivo, induca da un lato il Bobbio a qualificare Hobbes come iniziatore del positivismo giuridico, e induca invece dall'altro il Kelsen a considerare Hobbes come giusnaturalista, e a confermare la sua idea che lo scopo principale del diritto naturale sia quello di attribuire un fondamento assoluto e sacrale al diritto posi­tivo » (CATTANEO, Il positivismo giuridico inglese, cit., p. 49).

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che suggerisce un accostamento alle teorie positivistiche è il diverso modo con cui opera l 'attributo della superiorità. Nelle prime due forme di giusnaturalismo la superiorità del diritto naturale sul diritto positivo opera nel senso che una norma positiva contraria al diritto naturale non è valida, o, con altre parole, nel senso che la conformità al diritto naturale è criterio di validità di ogni singola norma di diritto positivo: sia che si affermi che le norme positive derivano deduttiva­mente dai princìpi generali del diritto naturale oppure che costituiscono la garanzia di efficacia delle leggi naturali corri­spondenti, la conseguenza in entrambi i casi è che una norma positiva è valida solo se è conforme al diritto naturale. Nella terza forma di giusnaturalismo, invece, anche se è pur sempre lecito affermare che la legge naturale è superiore alla legge positiva per il fatto che ne fonda la legittimità e ne istituisce l 'obbligatorietà, questa superiorità ha ormai un'altra conse­guenza : essa fonda la legittimità e istituisce l'obbligatorietà dell'ordinamento giuridico positivo nel suo complesso, non delle singole norme che lo compongono. Una volta costituito il potere civile, se pur sulla base di una legge naturale, le singole norme del sistema traggono la loro validità non più dalle leggi naturali particolari, ma esclusivamente dall'autorità del sovrano, onde singole norme possono essere valide senza essere conformi al diritto naturale. Vale per questo principio di legittimaziòne dell'ordinamento giuridico quel che vale per il principio di effettività nel sistema kelseniano : allo stesso modo che il principio di effettività costituisce il triterio di validità dell'intero ordinamento, non delle singole norme di esso, onde vi possono essere singole norme che continuano a essere valide senza essere efficaci, così il principio di legittima­zione hobbesiano offre un criterio di validità per l'intero ordinamento, non per le singole norme, onde si può dare il caso di norme che sono valide pur essendo contrarie al diritto naturale.

Questo accenno al principio di effettività serve anche a impedire ogni confusione tra il sistema hobbesiano e il posi-

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tivismo giuridico moderno, a evitare che l'accostamento del sistema hobbesiano alla teoria del positivismo giuridico induca a scambiare Hobbes per un positivista contemporaneo. Al positivismo giuridico si possono assegnare tutte quelle teorie che non riconoscono l'esistenza di un diritto naturale accanto al diritto positivo, e per le quali, quindi, non esiste altro diritto che il diritto positivo. Hobbes, come si è visto, pone una legge naturale a fondamento del diritto positivo: dunque non è un positivista. Se un positivista moderno risale alla norma fon­damentale del sistema giuridico positivo, questa non è una legge naturale, ma un'ipotesi o una premessa convenzionale. Se cerca una legittimazione dell'ordinamento, non la cerca in una norma che trascenda il sistema, ma nel fatto empirica­mente constatabile che l 'ordinamento è di fatto obbedito. Per l'appunto, in una teoria positivistica moderna il principio di effettività, prendendo il posto della legge naturale generale di Hobbes, cancella anche l'ultima traccia di giusnaturalismo.

3 . Questa analisi del pensiero hobbesiano tra giusnatu­ralismo e positivismo non sarebbe completa se non si aggiun­gesse che Hobbes è ben !ungi dal trarre dalle premesse del suo sistema tutte le conseguenze. Non dobbiamo essere più hob­besiani di Hobbes. Il quale, nonostante le intenzioni e le enunciazioni già esaminate, ammette in alcuni casi il diritto di resistere alla legge ingiusta. Già a proposito dell'obbedienza dello schiavo verso il padrone aveva aggiunto: « Il vinto deve al vincitore un servizio e un'obbedienza assoluta, nei limiti delle sue possibilità e delle prescrizioni delle leggi divine » 26 •

All'inizio della terza parte del De Cive, riassumendo breve­mente il suo pensiero, dice : « [ . . . ] bisogna obbedire al so­vrano semplicemente, cioè in tutto quel che non contrasta coi comandamenti di Dio » 27 • Leggi naturali e comandamenti di-

26 De Cive, VIII, l (pp. 193-194). Il corsivo è mio. 27 De Cive, XV, l (p. 288). Il corsivo è mio. Cfr. Lev., XXXI

(p. 232).

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vini, si noti, sono per Hobbes la stessa cosa : la differenza tra le une e gli altri riguarda non il contenuto, ma unicamente la fonte . Altrove : « Quel che la legge divina proibisce non può venir permesso dalla legge civile e quel che la legge divina comanda non può venir proibito dalla legge civile » 28 • Se­nonché, una volta ammesso il principio, Hobbes cerca di !imi­tarne quanto più gli è possibile gli effetti, definendo esatta­mente i casi in cui è lecita la disobbedienza in modo da non !asciarla alla discrezione del singolo, e riconoscendo il diritto di resistenza solo in situazioni estreme.

Com'è noto, e com'è stato più volte illustrato, dalla mas­sima morale fondamentale secondo cui la vita deve essere conservata, Hobbes trae la conclusione che il diritto naturale alla vita è. inalienabile. Ma non sempre ci si ricorda del fatto che Hobbes non intende proteggere solo il diritto alla vita terrena, ma anche quello alla vita eterna. Il sovrano può co­mandare ogni cosa tranne ciò che mette a repentaglio la vita terrena e quella eterna: di fronte a un comando di tal na­tura, sorge il diritto di resistenza o, testualmente, « la libertà di disobbedire » 29• I casi relativi al diritto alla vita sono stati esaminati con cura anche recentemente dal Cattaneo 30 • Ma si badi : a voler trarre tutte le conseguenze dalle premesse hobbesiane, si dovrebbe riconoscere che il sovrano ha anche in questo caso, per così dire, il coltello dal manico: si è visto che per H()bbes spetta al sovrano definire ciò che

. è furto,

omicidio, adulterio. Ebbene, come spetta al sovrano decidere che l 'uccisione per legittima difesa o l 'uccisione di un nemico in guerra non è un omicidio, non si vede perché lo stesso sovrano non abbia il potere di stabilire che non è un omi­cidio l'uccisione di un suddito in altre circostanze, per esem­pio nel caso della pena capitale.

Per quel che riguarda il diritto alla vita eterna, le con-

28 De Cive, XIV, 3 (p. 267 ). 29 Lev., XXI (p. 142). 30• CATTANEO, Il positivismo giuridico inglese, cit., pp. 88 e ss.,

103 e ss.

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cessioni fatte da Hobbes alla libertà di disobbedire sono estremamente esigue. Le leggi divine sono o le leggi naturali (delle quali è interprete soltanto lo stato) oppure le leggi relative al culto. Per queste ultime Hobbes esamina quali sono i doveri degli uomini nel regno di Dio attraverso la natura, attraverso l 'Antico Testamento, attraverso il Nuovo Testamento. Nel regno di Dio attraverso la natura, le leggi relative al culto o riguardano i modi convenzionali di ono­rare Iddio, e allora spetta allo stato determinarli, o riguar­dano i modi naturali di culto, e allora lo stato deve egual­mente intervenire sia per uniformarne l'uso pubblico, sia per darne un'interpretazione univoca e valida per tutti i sudditi. Conclusione: « L'interpretazione delle leggi naturali, tanto sacre che secolari, quando Dio regna attraverso la natura, di­pende dall 'autorità dello Stato [ . . . ] : onde Dio comanda tutto quello che vuole attraverso la voce dei sovrani, e viceversa, quel che costoro comandano circa il culto di Dio e in materia secolare, si deve intendere come comandato da Dio » 31 • Due sole eccezioni al dovere di obbedienza vengono am­messe: l ) quando il sovrano imponga di offendere Dio; 2 ) quando imponga di onorare se stesso co�e se fosse Dio 32 •

Nel regno di Dio attraverso l'Antico Testamento, la rapida analisi compiuta da Hobbes nel cap. XVI del De Cive tende a dimostrare che gli Ebrei erano tenuti ad obbedire ai loro capi in tutto tranne nel caso in cui il comando del superiore implicasse la negazione della provvidenza divina o imponesse l'idolatria. Conclusione : « In tutte le altre cose dovevano obbedire, e se il re o il sacerdote che aveva il potere supremo avesse emanato un ordine contrario alle leggi, ciò costituiva peccato per chi aveva l 'autorità suprema, non per il suddito, il quale ha il dovere non già di discutere, ma di eseguire gli ordini dei superiori » 33• Infìne per quel che riguarda il

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:n De Cive, XV, 17 (p. 304). Cfr. Lev., XXXI (p. 240). 32 Ma anche questa eccezione è eliminata in Lev., XLV (p. 427). "" De Cive, XVI, 18 (p. 328) . Cfr. Let•., XL.

regno di Dio attraverso il Nuovo Testamento, Hobbes dà con una mano, quando enuncia il principio che « i cittadini devono ubbidire in tutto ai loro sovrani, salvo in quello che è contro i comandamenti di Dio », ma toglie subito con l'altra : « I comandamenti di Dio in uno Stato cristiano sono, nei riguardi delle cose temporali [ . . . ] , le leggi e le sentenze dello Stato [ . . . ] ; nei riguardi delle cose spirituali [ . . . ] , le leggi e le sentenze dello Stato, cioè della Chiesa, poiché Stato cristiano e Chiesa [ . . . ] sono la stessa cosa » 34 • Conclusione: « [ . . . ] in uno Stato cristiano, si deve obbedire ai governanti in tutto, tanto nelle materie spirituali che in quelle materiali » " .

Come s i vede, se Hobbes era disposto a lasciare un certo margine alla disobbedienza civile per garantire la sicurezza della vita terrena, era assai meno liberale quando era in gioco la sicurezza della vita eterna : alla mia vita ci penso io, ché alla vita eterna ci pensa lo Stato. Ancora una volta la nor­ma-chiave per ribadire il principio dell'obbedienza è la legge naturale che prescrive di ubbidire alle leggi civili: la quale è poi anche, come tutte le leggi naurali, un comandamento divino, e quindi un comando, la cui obbedienza è necessaria anche alla salvezza eterna . Come si può ammettere che il cittadino disubbidisca allo Stato per assicurarsi la vita eterna quando una delle condizioni per assicurarsela è di ubbidire alla legge divina-naturale che prescrive di ubbidere allo Stato? Così, ubbidendo allo Stato, il cittadino prende due piccioni con una fàva: guadagna la pace in terra e la guadagna anche in cielo. Il sistéma hobbesiano si chiude con una nuova prova di predilezione per il giusnaturalismo del terzo tipo, in cui tra tutte le leggi naturali prende alla fine il sopravvento quella che prescrive l'obbedienza alle leggi civili, e che per sua essenza, una volta riconosciuta e rispettata come condizione di sicurezza terrena e di salvezza ultraterrena, tende a ren­dere invalide tutte le altre leggi naturali nel momento stesso

34 .De Cive, XVIII, 13 (p. 387). Cfr. Lev., XLIII. 35 De Cive, eodem.

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in cui fonda la validità di tutte le leggi civili : « Ma allora è chiaro che la legge di Cristo nei riguardi dell'omicidio, e per estensione anche di ogni altra lesione e delle pene che si possono stabilire, comanda di obbedire soltanto allo Stato » :w.

Il punto di partenza di questo saggio è stato la consta­tazione che, attraverso vie diverse, il giusnaturalismo mo­derno comincia da Hobbes . Il punto di arrivo è il riconosci­mento che il giusnaturalismo hobbesiano è di tal sorta che apre la strada al positivismo giuridico più di quel che perfe­zioni l'edificio del giusnaturalismo tradizionale. Errerebbe peraltro chi credesse di poter concludere che il giusnatura­lismo moderno va a cadere nelle braccia del positivismo giu­ridico. Tutt'altro! La verità è che Hobbes inventa, elabora, perfeziona i più raffinati ingredienti giusnaturalistici - lo stato di natura, le leggi naturali, i diritti individuali, il con­tratto sociale -, ma li adopera ingegnosamente per costruire una gigantesca macchina dell'obbedienza. Bisognerà arrivare a ' Locke per trovare, insieme congiunti e procedenti di con­serva, il metodo giusnaturalistica, cosl ben maneggiato da Hobbes, e l'ideologia tipicamente giusnaturalistica dei limiti del potere statale, da Hobbes confutata e respinta. Il giusna­turalismo moderno passa, è vero, per Hobbes, ma si afferma soltanto con Locke.

'" De Cive, XVII, 10 (p. 342) .

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III. Studi lockiani

l . Del rinnovamento degli studi lockiani. - Dura ormai da più di dieci anni - e non accenna a sfiorire - la lunga e florida stagione di studi, chè hanno in parte corretto in parte eliminato alcune idee tramandate sull'opera e sulla perso­nalità di John Locke. Mentre stavo per finire di scrivere questa rassegna, è apparsa un'ampia, minuziosa, e�auriente monografia, con molti passi inediti e alcune splendide foto­grafie, su Locke cultore di scienza medica e medico egli stesso, cioè su uno degli aspetti meno noti e meno studiatì della sua personalità 1 • Questo fervore di ricerche ha avuto inizio, com'è noto, sin da quando, nel 1 948, la ricchissima Lovelace Collection, contenente lettere, manoscritti, diari, taccuini del filosofo, fu aperta agli studiosi presso la Bodleian Library di Oxford.

Nel 1 953, un giovane studioso italiano, Ernesto De Mar­chi aveva per-così dire preannunciato il nuovo corso di studi, daddo particolareggiata notizia dei due trattatelli giovanili inediti sul magistrato civile che sarebbero stati pubblicati solo qualche anno più tardi : soffermandosi sulle influenze ricevute da Locke negli anni di Oxford, specie attraverso il Tew Circle, luogo d'incontro dell'anglicanesimo moderato e del latitudinarismo, aveva cercato nei primi incompiuti e non sempre coerenti saggi letterari del giovane tutor di Ox-

1 K. DEWHURST, fohn Locke Physician_ and Phil?sopker. A Me­dicai Biography with an Edition of the Medtcal Notes m Hts Journals, London, The Wellcome Historical Medicai Library, 1963, pp. XII-331.

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ford i segni della futura grandezza 2• Nello stesso anno usciva una prima raccolta di inediti : l 'edizione di ampie parti dei diari del viaggio di Locke in Francia ( 1 675- 1 679) a cura di J. Lough 3• Ma solo l'anno seguente la nuova fase di studi veniva inaugurata in un modo che non poteva essere più promettente, con la pubblicazione, a cura del benemerito W oH­gang von Leyden, degli otto saggi giovanili inediti sul diritto naturale, che avrebbero posto le basi per una fertile discus­sione, che dura tuttora, su uno dei temi prediletti dall'autore di una delle più celebri teorie politiche ispirate al diritto naturale 4 • Seguivano nel 1 9 55 il libro di Gabriel Banno sui rapporti di Locke con la Francia � e la seconda edizione della monografia di Richard I . Aaron 6, dello stesso studioso che

2 E. DE MARCHI, Le origini dell'idea della tolleranza religiosa nel Locke e gli scritti inediti della Lovelace Collection, in « Occi­dente », IX, 1953, pp. 460-492. Il De Marchi aveva pubblicato qualche anno prima Considerazioni intorno alla divisione dei poteri nel Locke, in « Occidente », IV, 1948, n. 9-10, pp. 25-38, in cui metteva in particolar modo l'accento sulla naturalità dei poteri, nascenti nello stato di natura, e sulla conseguente distinzione tra poteri e organi. Dello stesso De Marchi cfr. Locke's Atlantis, in « Politica! Studies », III, 1 955, pp. 164-165.

3 J. LouGH , Locke's Travels in France 1 675-1 679, Cambridge, At the University Press, 1 953, pp. LXVI-309.

4 }OHN LocKE, Essays on the Law of Natute [ . . . . . . ], edited by W. von Leyden, Oxford, At the Clarendon Ptess, 1954. L'eccellente intro­duzione di von Leyden (pp. 1-92), ricca di notizie biografiche e storiche sulla formazione del pensiero di Locke, sull'ambiente culturale in cui visse, sulle fonti cui s'ispirò, può essere considerata come la prima ormai matura espressione del recente rinnovamento degli studi lockiani. L'autore aveva anticipato alcune notizie sugli inediti di Locke in un articolo apparso su una rivista italiana : fohn Locke's Unpublished Papers, in « Sophia », XVII, 1949, pp. 73-80. Cfr. anche Notes concerning Papers of fohn Locke in the Lovelace Collection, in « Philosophical Quarterly », Jan. 1952.

5 G. BONNO, Les relations intellectuelles de Locke avec la France, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1 955, pp. 263. Lo stesso autore aveva pubblicato qualche anno prima sei lettere dell'Abbé Du Bos a Locke sulla << Revue de littérature com­parée », 1950, pp. 481-520.

" RICHARD I. AARON, fohn Locke, Second Edition, Oxford, At the Clarendon Press, 1955, pp. XI-323 (la prima edizione è del 1937) .

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aveva pubblicato, insieme con J. Gibb, il Primo Abbozzo (Draft A) dell'Essay of Human Understanding 1 • Nel 1 957 vedeva la luce la fondamentale biografia di Maurice Cran­ston 8, dopo la quale sono da considerarsi in gran parte supe­rate le due biografie precedenti, quella, del resto infelice, di Lord King ( 1 830 ), e quella buona ma ormai invecchiata di H. R. Fax Bourne ( 1 876) . Nel 1 959 il già ricordato Bonno pubblicava un manipolo di lettere di Jean Le Clerc a Locke, anch'esse tratte dalla Lovelace Collection 9• Maturava infine nel 1 960 l'an nus mirabilis dei nuovi studi lockiani, perché apparvero in un solo anno quattro opere destinate, se pur con diverso impeto, a smuovere le acque: la prima edizione critica dei Two Treatises of Government, a cura di Peter Laslett, con un'ampia e importante introduzione 10 ; una inter­pretazione filosofica, accompagnata da una documentata rico­struzione storica, del pensiero di Locke nei suoi vari aspetti, pazientemente e intelligentemente composta da uno studioso italiano, Carlo Augusto Viano 1 1 ; un'analisi minuta e precisa, testo per testo, della filosofia morale e politica strettamente

' R. I. AARON and J. GmB, An Early Draft of Locke's Essay, Oxford, At the Clarendon Press, 1936.

8 M. CRANSTON, fohn Locke: a Biography, London, Longmans, Green and Co., 1957, pp. XVI-496.

y Lettres inédits de Le Clerc à Locke, edited, with an Introdu­ction and Notes, by Gabriel Banno, Berkeley and Los Angeles, University of California Press , 1959, pp. 135. Si tratta di 65 lettere di Le Clerc (le corrispondenti di Locke sono andate perdute, tranne due), in gran parte scritte dopo la partenza del Locke dall'Olanda ( 1689) : l'ultima reca la data del 24 giugno 1704, quattro mesi prima della morte di Locke. Nell'Introduzione (pp. 1-25) il Banno dà notizie sull'attività letteraria di Le Clerc e sui suoi rapporti con Locke : da ricordare i buoni uffici, interposti dal Le Clerc, per far tra­durre in latino l'Essay, ma senza sucesso, e le cure dedicate alla buona riuscita della traduzione francese di Pierre Coste, che egli stesso aveva fatto conoscere al Locke.

10 Locke's Two Treatises of Government. A Critica! Edition with I ntroduction and Notes by Peter Laslett, Cambridge a t the University Press, 1960, pp. XIII-521 .

1 1 C . A . VIANO, fohn Locke. Dal razionalismo all'illuminismo, Torino, Einaudi, 1 960, pp. 618 .

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congiunte, ad opera di Raymond Polin, già noto per un pre­cedente libro sulla filosofia politica di Hobbes

12 ; uno studio esegetico sullo stato di natura e sul diritto tra gli stati con particolare riguardo al problema dei rapporti tra Locke e Hobbes, di Richard H. Cox 13 • Ma anche dopo il 1 960 la corrente di studi lockiani non è stata interrotta . Soltanto in Italia nel 1961 il v o l umetto di Loris Ricci Garotti, che con­tiene, tra l'altro, un'appendice sulla fortuna di Locke in Italia 14 ; nello stesso anno, l 'edizione critica di scritti giova-

12 R. PoLIN, La politique morale de fohn Locke, Paris, Presses Universitaires de France, 1960, pp. 320.

13 R. H. Cox, Locke o n W ar and P e ace, Oxford, A t the Claren­don Press, 1960, pp. IX-220. A dire il vero nel 1960 è apparso in Italia anche un altro libro sul Locke: R. CRIPPA, Studi sulla co­scienza etica e religiosa del Seicento. Esperienza e libertà in f. Locke, Milano, Marzorati, 1960, pp. 163 , il quale, peraltro, rispetto ai temi qui di seguito discussi, è più espositivo che problematico.

14 L. RICCI GAROTTI, Locke e i suoi problemi, in « Pubblica­zioni dell'Università di Urbino. Serie di Lettere e Filosofia », vol. XIII, Urbino, S.T.E.U., 196 1 , pp. 255. L'appendice su menzionata (pp. 191-250) parte da una noterella di Abbagnano che attribuisce la fine della fortuna del Locke in Italia all'interpretazione del Gal· luppi; parla di Cattaneo e di Ferrari; riproduce le invettive antilo­ckiane di Rosmini e Gioberti. Anche i positivisti non ricorrono più a Locke e non lo capiscono. Per trovare un Locke ancora vivo bisogna andarlo a cercare, cosi sembra al nostro autore, tra i filosofi del diritto di quel tempo (Laviosa, Mondolfo e soprattutto Solari) . Eppure vien fatto di osservare che anche per Solari Locke rappre­sentava pur sempre una fase primitiva del liberalismo (il liberalismo empirico), che sarebbe stato superato dal liberalismo etico di Rousseau e da quello giuridico di Kant, e che Solari stesso non era né un empirista né un liberale, anzi aveva criticato per tutta la vita l'indi­vidualismo giusnaturalistica in nome di un superamento dell'individuo nella società. Per questa sua concezione s'ispirava, negli ultimi anni, alla teoria dello spirito oggettivo di Hegel, proponendo il nome di « idealismo sociale ». Indi, il Ricci Garotti si sofferma in modo parti­colare sul noto libro del Carlini ( 1 920-2 1 ) e sui suoi critici; fa alcune giuste annotazioni su Gentile. Poi Saitta e l'esaltazione di Locke ( 1941 ) . Giunge con gli ultimi studi sino al libro di Viano, di cui riconosce la solidità della ricostruzione e la validità dell'interpre­tazione. - Oltre a quest'appendice, il libro del Ricci Garotti comprende quattro saggi, rispettivamente sul pensiero politico (pp. 1 1-81 ), sulla filosofia morale (pp. 85- 113 ), sulla antropologia o concezione dell'uomo

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nili in gran parte inediti sulla tolleranza, a cura del bene­merito Viano 15, e una nuova edizione italiana della nota

(pp. 1 17-164), sulla polemica contro l'innatismo (pp. 1 67- 187) : l'in­tento principale del libro, rilettura aggiornata di testi e ripensamento di alcuni temi lockiani più che ricostruzione e proposta di una nuova interpretazione, è di reagire alla consueta riduzione di Locke a filo­sofo della conoscenza, e di spostare l'attenzione dal Locke precursore di Kant al Locke impegnato nello studio . dei problemi etico-politici del suo tempo.

15 ]OHN LocKE, Scritti editi e inediti sulla tolleranza, a cura di

C. A. Viano, Torino, Taylor, 196 1 , pp. 257. Il volume contiene: l ) una nuova edizione della Epistola de tolerantia ( 1689), in una nuova traduzione italiana (pp. 108-15 1 ); 2 ) testo originale e traduzione italiana dei due trattati giovanili, uno in inglese e uno in latino ( 1660), rimasti sinora inediti, sul magistrato civile (rispettivamente, pp. 14-61 e 152-198; 62-80 e 199-218), cui il Viano ha dato il titolo, che a me pare un po' fuorviante, di Primo e Secondo scritto sulla tolle­ranza, conosciuti di solito col titolo della quaestio cui danno risposta : Se il magistrato civile possa legittimamente imporre e determinare l'uso delle cose indifferenti relative al culto religioso. Il titolo di Viano mi pare un po' fuorviante perché fa pensare siano scritti favorevoli alla tolleranza mentre sono contrari. Più esatto sarebbe stato intitolarli Primo e Secondo scritto contro la tolleranza. Questi trattatelli erano già stati studiati dal von Leyden nell'opera citata (pp. 21-30), ed esaminati dal De Marchi, Le origini dell'idea della tolleranza religiosa, cit. (che il Viano non ricorda); 3 ) la prima edi­zione critica di An Essay Concerning Toleration ( 1 667), con tre Appendici (pp. 8 1-107) e la traduzione italiana del testo senza le appendici (pp. 219-239). Questo saggio, già pubblicato da H. R. Fox Bourne nella nota biografia di Locke (The Life of fohn Locke, 2 voli ., London, King, 1876, pp. 1 74-194) da un manoscritto del Public Record Office, viene ora pubblicato dal Viano col sussidio di altri tre manoscritti, due negli Stati Uniti (l'uno presso la Henry E. Hun­tington Library di San Marino, Calif., l'altro in possesso di Mr Arthur Houghton), il terzo nella Lovelace Collection. Il nuovo testo riproduce quest'ultimo con le più importanti varianti rispetto agli altri. Nel­l'introduzione il Viano si sofferma in modo particolare sul mano­scritto di San Marino che contiene in appendice molto probabilmente il primo abbozzo dell'intero saggio, e tre inizi diversi del saggio, da cui trae indicazioni per ricostruire le diverse fasi di redazione del­l'operetta. Tutti e quattro gli scritti, raccolti in questo volume, sono corredati di note storiche (pp. 240-255). Cfr. anche dello stesso autore L'abbozzo originario e gli stadi di composizione di « An Essay Concerning Toleration » e la nascita delle teorie politico-religiose di fohn Loc/ee, in « Rivista di filosofia », LII, 1961, pp. 285-31 1

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Epistola de tolerantia 1" ; nel 1 962 nella serie dei venti « Clas­sici della democrazia moderna » un'antologia lockiana con introduzione di Felice Battaglia 1 7 • Infine nel 1 962, anno in cui si arresta questa rassegna, C. B. Macpherson, già noto per due articoli provocanti sul pensiero politico ed econo­mico di Locke 1 8 , pubblica un'opera d'insieme sull'« indivi­dualismo possessivo », di cui la teoria della proprietà di Locke costituisce la fase conclusiva 19 •

Prima d'iniziare la rassegna forse non è inutile un'os­servazione preliminare : il carattere saliente di questa rina­scita di studi lockiani è il prevalente interesse per il Locke politico . La maggior parte di questi studi è dedicata alla filosofia pratica di Locke. Se tra il '30 e il '40, la scoperta del Secondo abbozzo (Dra/t B ) dell'Essay, nel 1 93 1 , e del Primo abbozzo (Draft A) nel 1 9 36 aveva riaperto il dibattito sulla gnoseologia, in questi ultimi dieci anni gli scoprimenti e la pubblicazione di inediti, seguite da revisioni di idee tramandate, da nuove interpretazioni o prospettive, toccano essenzialmente la sfera della filosofia etica e politica. Per restare in Italia è particolarmente istruttivo, tanto da appa­rire un tema obbligato, il confronto tra la recente monografia di Viano e quella di Armando Carlini, che, nata in clima idealistico, ha fatto testo per tanti anni 20: in questa Locke è soprattutto l'autore dell'Essay e su una ventina di capitoli

16 }OHN LocKE, Lettera sulla tolleranza. Testo latino e versione italiana, Premessa di R. Klibansky, introduzione di E. De Marchi, traduzione di L. Formigari , nella Collana « Filosofia c Comunità mon­diale », n. 3, Firenze, La Nuova Italia editrice, 1961, pp. XXXIX-108.

17 Antologia degli scritti politici di fohn Locke, a cura di Felice Battaglia, Bologna, Società editrice Il Mulino, 1962, pp. 199.

1 8 Locke on Capitalist Appropriation, in « Western Politica! Quarterly » IV, 195 1 , pp. 27-45; The Social Bearing of Locke's Poli­tica! Theory, in « Western Politica! Quarterly », VII, 1954, pp. 1-22.

19 C. B. MACPHERSON, The Politica! Theory of Possessive Indi­vidualism, Hobbes to Locke, Oxford, At the Clarendon Press, 1962. Su Locke cfr. pp. 194-262. 20 A. CARLINI, La filosofia di G. Locke, 2 voli . , Firenze, Vallecchi editore, 1920-192 1 , pp. XCIV-287-379.

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soltanto due trattano espressamente e marginalmente dell'eti­ca e della politica; in quella, invece, divisa in tre parti,

· come vedremo, una sola è dedicata ai problemi tradizionali della critica del sapere; le altre due trattano rispettivamente del problema etico-politico e di quello religioso; e sopra ogni altra grandeggia la figura di un Locke riformatore. Anche le nuove filosofie di tendenza empiristica, che non hanno mai interrotto il dialogo con Hume, e lo hanno ripreso con Berkeley, hanno messo quasi del tutto da parte Locke teorico della conoscenza. I grandi temi lockiani oggi riemersi sono proprio quelli esaminati da Viano, l'etica, la politica e la religione.

Per questa rassegna ho scelto, tra le opere dal 1 960 in poi, quelle che ritengo di maggior rilievo : l'edizione critica del Laslett, le monografie di Polin, di Cox, di Macpherson e di Viano. E in ognuna di queste opere, dopo una breve espo­sizione del contenuto, ho trascelto per un esame critico un problema di fondo, quel problema che mi è parso, alla lettura, particolarmente atto a far conoscere l'intenzione principale dell'autore e, insieme, a far progredire la discussione su al­cuni punti nodali del sistema politico lockiano. Ne sono emersi cinque temi: l'indirizzo critico del secondo dei Two Treatises, nel commento a Laslett, che vede i� Filmer non in Hobbes il principale bersaglio della teoria pÒlitica lockia­na; il rapporto fra gli scritti giovanili e l'opera della maturità, tra le opere politiche e quelle filosofiche, nel commento a Polin, il quale ritiene, contrariamente all'opinione più dif­fusa, che vi sia un nesso sistematico tra le varie parti del­l'opera lockiana; il disputatissimo rapporto fra Locke e Bob­bes, nel commento al Cox, il quale crede di poter cogliere tra i due grandi filosofi politici inglesi, considerati di solito antagonisti, un'affmità sostanziale corretta o mascherata da cautele meramente formali ; il problema della giustificazione della proprietà come punto di partenza di un'interpretazione ideologica della teoria politica di Locke, nel commento al Macpberson il quale considera Locke come primo coerente

8 1 6 . N . BoFBIO - Da Hobbcs a Marx.

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teorico del capitalismo nascente; e infine il problema del giu­snaturalismo lockiano, che è problema capitale, nel commento all'opera, pur essa capitale, del Viano con particolare riguardo al nesso tra società naturale e società civile.

Sono i cinque temi in cui il pensiero politico di Locke, apparentemente chiaro ma sostanzialmente ambiguo, fluido, poco rigoroso ( a differenza di quello di Hobbes), ha dato luogo alle interpretazioni più diverse, a interpretazioni addi­rittura antitetiche, incompatibili le une con le altre, sl che oggi più che mai dopo i sopravvenuti ripensamenti e le reali o presunte revisioni occorre, prima di avventurarsi in nuove inedite interpretazioni, la cui forzata originalità va spesso a scapito della moderazione del giudizio, conoscere esattamente i risultati raggiunti, e con ciò stesso fissare la natura e l'estensione dei punti controversi. I quali possono essere espressi sinteticamente in queste cinque alternative: l ) il grande avversario di Locke fu Filmer o Hobbes ? 2 ) tra gli scritti lockiani della giovinezza recentemente scoperti e quelli della maturità vi è rottura o continuità? 3 ) il rapporto di Locke con Hobbes è di antitesi o di derivazione? 4 ) la teoria della proprietà di Locke apre la strada al capitalismo o al socialismo? 5 ) in quale senso del termine «giusnatu­ralismo », Locke può dirsi giusnaturalista? I primi quattro autori esaminati hanno assunto sui primi quattro punti posi­zioni che vanno quasi sempre controcorrente o hanno accen­tuato le antitesi invece di attenuarle o di superarle, onde si può dire che mai come in questo momento le idee di Locke sono state messe a soqquadro, rovesciate e rovistate, e hanno bisogno forse di un periodo di discussione aperta, senza pre­venzioni, prima di poter essere riassestate in un'opera d'in­sieme, che assimili le scoperte documentarie senza perderei la testa, rifugga, come rifuggiva il saggio Locke, dalle tesi troppo radicali . La quinta opera esaminata, quella di Viano, può essere considerata già come un'opera di ricostruzione sintetica, e per questo la esaminerò per ultimo.

Lo scopo di questa rassegna è duplice : informare il let-

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tore italiano sulle questioni discusse, e sollevare qualche dubbio sulle soluzioni proposte.

2. Origine e struttura dei due trattati. - Già da alcuni anni, prima dell'edizione critica dei Two Treatises, Peter Laslett, dopo aver curato nel 1 949 l'edizione del Patriarcha del Filmer " 1 , aveva cominciato a enunciare in articoli sparsi 22

su alcuni aspetti del pensiero politico di Locke le tesi inno­vatrici che ora formano il principale oggetto della introdu­zione all'opera in esame 23 • Sin dalla premessa afferma di voler confutare tre dogmi: l) che il Locke avesse scritto i ·

Two Treatises nell'89 per giustificare la gloriosa rivoluzione come il Locke stesso lascia intendere nella Prefazione ed è diventata communis opinio tra i commentatori; 2 ) che avesse scritto la sua opera avendo sottocchio i testi di Hobbes, se-

21 Patriarcha [ . . . ] , edited with an Introduction and Notes by Peter Laslett, Oxford, Basil Blackwcll, 1949, pp. 326.

22 P. LASLETT, Locke and the First Earl of Shaftesbury, in « Mind », LXI, 1 952, pp. 89-92 ; The 1 690 Edition of Locke's Two Treatises of Government, in « Transactions of the Cambridge Bibliogra­phical Society », I , 1949-53, pp. 341-47 ; con F. Bowers e J. Gerritsen, Further Observations on Locke's « Two Treatises of Government », ibidem, II, 1954, pp. 63-87 ; The English Revolution and Locke's Two Treatises of Government, in « Cambridge Historical Journal » , XII, 1956, pp. 40-55; fohn Locke, the Great Recoinage and the Board of Trade, in « William and Mary Quarterly », XIV, 1 957, n. 3 .

23 Laslett presenta la propria opera come la prima edizione critica inglese, riferendosi cavallerescamente all'edizione italiana del Pareyson, a proposito della quale dice testualmente: « Si deve ancora precisare che questa [ si riferisce alla propria edizione] non è la prima edizione critica dell'opera sul governo di Locke, per quanto sia la prima in lingua inglese. Nel 1948 Luigi Pareyson pubblicò un'edizione con note ad entrambi i trattati che sono state qui liberamente trasferite e sono state invero molto utili » (p. Xl) . Il testo riprodotto dal Laslett è quello della copia della terza edizione ( 1698) detta del Crist's College di Cambridge, o Crist's copy, corretta scrupolosamente dal Locke, che, esasperato per la cattiva riuscita delle prime due edizioni ( 1 690 e 1694 ), aveva voluto preparare per la posterità un testo di cui potesse finalmente essere soddisfatto. In una nota finale (pp. 447-498) sono registrate le varianti rispetto alle prime sei edizioni ( 1690, 1694 .. 1698, 1713 , 1728, 1764).

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condo la raffigurazione di maniera che fa della dottrina di Locke l'antitesi della dottrina hobbesiana, o quella più sot­tile (ma non meno erronea) che ne fa un hobbesianesimo mascherato; 3 ) che le idee politiche di Locke fossero una derivazione e un'applicazione delle idee filosofiche.

Contro il primo dogma Laslett sostiene una teoria che si biforca in due tesi entrambe sconvolgenti : l ) i Two Treatises (pubblicati soltanto nel 1690) furono scritti improvvisamente, quasi per intero, negli anni 1 679-80, onde la grande opera politica lockiana, di solito esaltata come la giustificazione di una rivoluzione già fatta, è da considerarsi piuttosto come la proposta di una rivoluzione da fare; 2 ) non furono scritti nell'ordine in cui vennero poi dati alle stampe, ma il primo dei Two Treatises (contenente la pars destruens, la critica della dottrina del Filmer) fu composto dopo il secondo (con­tenente la pars construens, la celebre teoria dello stato libe­rale, limitato dal riconoscimento di alcuni diritti naturali inalienabili , fondato sul consenso dei cittadini, organizzato sulla base della separazione dei poteri ) . Per dimostrare i due punti, Laslett confuta via via le altre possibili tesi: a) che entrambi i trattati siano stati scritti dopo la rivoluzione (è la tesi corrente ) ; b ) che il primo sia stato scritto prima del 1683 e il secondo durante la rivoluzione ( tesi da ultimo sostenuta dal Gough) ; c) che il primo sia stato scritto prima del 1 683 e il secondo durante l 'esilio olandese (cioè tra il 1683 e il 1689) ; d) che entrambi siano stati scritti prima del 168.3 ma nell'ordine in cui sono apparsi . La confutazione si svolge attraverso tre momenti successivi : occorre anzitutto dimostrare che i due trattati formano un blocco unico, cioè sono stati scritti nello stesso periodo di tempo, e con ciò vengono eliminate le tesi che li attribuiscono a tempi diversi (b e c) ; in secondo luogo occorre dimostrare che non possono essere stati scritti durante e dopo la rivoluzione, onde viene scartata la tesi corrente (a) ; infine, dimostrando che il secondo trattato è stato scritto prima del primo, si eli­mina b tes i d. Per la prima confutazione il Laslett ricorre

principalmente ad argomenti testuali (lo stesso Locke parla della sua opera come di un tutto unico) ; per la seconda, già suggerita dalla inverosimiglianza che un autore così prudente e meticoloso come Locke abbia scritto in pochi mesi una tale opera (e l'abbia, quel che è più strano, in pochi mesi, anche in parte perduta, come dichiara nelle prime righe della prefazione), il Laslett si vale di argomenti tratti dalla bio­grafia di Locke ( l'influenza di Shaftesbury, e la necessità urgente in cui questi si venne a trovare nel 1 679 di avere una propria dottrina che giustificasse un mutamento della costituzione) , dalle letture politiche di Locke che furono particolarmente intense tra il 1679 e il 1682, da argomenti testuali ( ad esempio, due volte nella I edizione Locke si riferisce a Re Giacomo senz'altra specificazione, volendo indi­care Giacomo I, mentre dopo il 1685, cioè dopo l'avvento di Giacomo II, quella citazione sarebbe stata ambigua) ; per la terza, infine, soccorrono sottili argomenti testuali ricavati dal diverso modo con cui nel primo e nel secondo dei T w o Treatises vengono citate le opere del Filmer, onde è lecita la supposizione che il Locke, quando scrisse il secondo, non conoscesse ancora il Patriarcha, pubblicato nel 1 680; con il rinforzo di una considerazione, a dire il vero di scarso mor­dente, come la seguente: «Chi mai deciderebbe di cominciare l 'esposizione di un tema complicato con la confutazione di un sistema altrui senza stabilire le proprie premesse? » 24 •

La conclusione di Laslett può essere esposta sommariamente in questi termini : i due trattati furono concepiti, abbozzati e in .parte scritti tra il 1679 e il 1 680; riveduti nell'8 1 con l 'aggiunta dei riferimenti a Hooker, e di una cinquantina di paragrafi, poi ancora nell'82 e ne11'8 3 . Quando si presentò l 'occasione di pubblicar li, nell'89, Locke li sottopose a nuova revisione; ma, secondo il Laslett, le aggiunte non andarono al di là della prefazione, dei titoli e di non più di venticinque nuovi paragrafi (compresi gli interi capitoli I, IX e XV) .

24 • Op. cit., p. 61 .

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La seconda leggenda da sfatare, secondo il Laslett, è che Locke, dopo aver scritto il primo dei Two Treatises contro Filmer, abbia indirizzato il secondo contro Hobbes; in altre parole, poiché questo secondo trattato, e non il primo, è stato considerato per secoli l 'opera politica di Locke per ec­cellenza, Locke sia il grande antagonista di Hobbes . Laslett indica nell'introduzione e commenta passo per passo nelle note i vari punti in cui il tiro polemico di Locke contro l'as­solutismo appare molto più centrato se riferito a Filmer anziché a Hobbes. Il bersaglio di Locke non è l'assolutismo in genere e tanto meno l'assolutismo così come era stato fondato razionalmente da Hobbes, ma il patriarcalismo. Quando scrisse i trattati Locke non aveva sottocchio alcuna opera di Hobbes : delle opere politiche possedeva nella sua biblioteca soltanto il Leviathan, ma l'aveva prestato nel 1 6 7 4 a Tyrrell, che non glie l 'avrebbe restituito che nel 1 69 1 . Nelle carte di Lo<:ke, attraverso cui si possono seguire quasi giorno per giorno le sue letture, non si è trovato un solo estratto di opere hobbesiane. L'unica citazione del Leviathan nei Two Treatises è tanto generica da non poter essere assunta come prova di una conoscenza diretta : « Una costituzione come questa renderebbe il potente Leviatano di durata più breve che le più deboli creature » ( II , § 98) . Con questi ed altri indizi Laslett non intende giungere alla conclusione ·

aberrante che Locke ignorasse addirittura l'opera di Hobbes e non ne fosse stato attratto, per lo meno negli anni giovanili ; ma vuole sostenere che se ne era liberato forse assai presto, e certo, quando scrisse la sua opera politica maggiore, non era più materia di discussione per lui. Insinua che la connes­sione tra Locke e Hobbes nei Two Treatises vada ricercata piuttosto attraverso l'intermediazione dell'opera di Pufendorf, cui Locke aveva copiosamente attinto, e di altri critici di Hobbes 2 5 •

25 Sui rapporti tra Locke e Pufendorf, che meriterebbero di es­sere approfonditi, richiama l'attenzione pure il von Leyden, op. cit., pp. 38-39.

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Mentre Hobbes mira al sistema chiuso, Locke lascia sempre aperto il proprio sistema: sarebbe anzi, secondo Laslett, il meno coerente di tutti i grandi filosofi. Questa constatazione permetterebbe di sfatare la terza leggenda, secondo cui l 'opera politica di Locke sarebbe una deriva­zione o un'applicazione di quella filosofica. Mentre l 'opera politica è fondata sull'accettazione della legge di natura, l 'Essay on Human Understanding, là dove distingue vari tipi di leggi ( I I , 28, 7 ), non la menziona neppure: anzi, se dal­l'Essay si può trarre qualche conseguenza pratica, questa è in una direzione contraria al tradizionale atteggiamento giusna­turalistico. Si può giungere persino ad affermare che dal-

. l 'opera maggiore di Locke nasce, almeno idealmente, la dis­soluzione del giusnaturalismo. Chi volesse trarre una teoria politica dalle opere filosofiche di Locke, si ti:overebbe ad aver costruito un'opera ben diversa dai Two Treatises. Opera politica e opera filosofica non hanno nulla in comune, né il proposito, né il contenuto, e neppure il metod�: « Quando leggiamo la sua opera sul governo dovremmo avere in mente più il Locke medico che il Locke epistemologo. Chiamarla ' filosofia politica ', pensare a Locke come ad un ' filosofo politico ' è improprio. Egli fu piuttosto l'autore di un'opera di intuizione, di_ penetrazione, di immaginazione, se non di profonda originalità, e fu insieme un teorico della cono­scenza » 26 •

La tesi di Laslett sul Filmer antagonista di Locke anche nel secondo dei Two Treatises è importante e deve consi­derarsi un risultato definitivo; ma nella perseveranza con cui tende ad allontanare l 'ombra del grande Hobbes dall'opera lockiana va forse oltre il segno 27• La chiave di volta del

26 Op. cit., p. 85. " 7 La stessa tesi era stata enunciata in forma più moderata nella

Introduzione al Patriarcha, ove, dopo aver affermato che Locke ri­sponde a Filmer e non ad Hobbes anche nel secondo trattato, aggiun­geva: « The frequent veiled references and coincidences in vocabulary show that he had the arguments of Leviathan in mind as well as of Pa�riarcha » (ediz. cit., p. 40).

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secondo trattato è, a mio giudizio, il breve, ma chiaro e denso, capitolo quindicesimo che probabilmente fu aggiunto, secon­do una congettura dello stesso Laslett, nel 1 689 al momento della pubblicazione. In questo capitolo Locke distingue, so­prattutto in base al fondamento o al titolo d'acquisto, le tre tradizionali forme di potere di un uomo sugli altri uomini: il potere paterno, il potere civile e il potere dispotico. Ri­prende, se pur con qualche variazione più terminologica che sostanziale, la teoria tradizionale, che era stata accolta da Grozio 28, secondo cui il potere sulle persone può derivare o dalla generazione o dal consenso o dal delitto (cioè come san­zione di un fatto illecito) . Mentre era indiscutibile che il pote­re paterno nasce ex generatione (ad immagine e somiglianza di quello di Dio sugli uomini, che deriva ex creatione) e il po­tere dispotico ex delicto (la sottomissione dello schiavo veniva giustificata, anche da Locke, ad esempio nel caso del prigio­niero del vincitore di una guerra giusta, come la punizione per l 'atto criminoso), sempre incerto era stato il fondamento del potere civile, che al di fuori delle teorie contrattualisti­che, che ne avevano individuato il fondamento caratteristico nel consenso, era stato di volta in volta identificato col potere paterno o col potere dispotico, secondoché se ne vedesse il fondamento nella generazione, o nella conquista . Il secondo trattato si può considerare come un tentativo di dimostrare che il potere civile si distingue e dal potere paterno e dal potere dispotico, perché ha un suo fondamento caratteristico: sin dalle prime battute Locke rivela la propria intenzione di mostrare la differenza che corre « fra il governante di una società politica, il padre d'una famiglia e il capitano d'una galera » ( II , § 2 ), in poche parole, tra l'uomo di governo, il padre e il padrone. Più particolarmente, nel capitolo quin­dicesimo, Locke afferma che, mentre il potere paterno deriva dalla natura e quello dispotico dal rischio cui si espone l'in­giusto aggressore ( formulazione diversa di una teoria sostan-

"� Huco GROTIUS , De iure belli ac pacis, Lib. II, cap. V, § l .

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zialmente identica a quella che fa derivare il potere dispotico ex delicto ) , il potere civile deriva esclusivamente dal con- "

·senso . Le prime righe di questo capitolo enunciano chiara­mente il proposito fondamentale: « Sebbene io abbia sopra avuto occasione di parlare di questi tre poteri separatamente, tuttavia, poiché i recenti grandi errori sul governo sono, a mio credere, derivati dal confondere tra loro questi poteri distinti, non sarà forse male considerarli qui insieme » ( I I , § 169) . Se, dunque, secondo Locke, i « grandi errori » com­messi dagli scrittori politici recenti ( e avrebbe potuto aggiun­gere di tutti i tempi) consistono nella confusione dei tre po­teri, che sono distinti, ne segue che lo scopo di una nuova teoria del governo è quella di stabilire con precisione i cri­teri in base ai quali debbono essere distinti . E infatti il nerbo della teoria lockiana sta nella dimostrazione che i tre poteri hanno ciascuno un diverso fondamento e che il potere civile è l 'unico ad avere per fondamento il consenso.

Mentre è chiaro che l 'errore di confondere il potere civile col potere paterno era stato commesso da Filmer, l'er­rore di non distinguere il potere dispotico dal potere civile era stato commesso soprattutto da Hobbes . Certamente l'er­rore che Locke combatte direttamente, tanto da dedicarvi un capitolo apposito ( il capitolo sesto sul potere dei genitori)

· . e da ritornarvi spesso in altre occasioni, è il primo; ma non mancano precisi attacchi, anche contro il secondo, soprattutto là dove egli afferma che il potere dispotico, essendo giusta­mente fondato soltanto quando deriva ex delicto, non può es­sere fondato ex contractu 29• Chi aveva sostenuto che anche il potere del padrone sullo schiavo è fondato sul contratto era proprio Hobbes, il quale aveva scritto chiarissimamente nel De Cive che non c'era alcuna differenza tra potere civile e potere padronale, perché entrambi sono derivati da una promessa, là di individui che si pongono sotto il dominio di un sovrano per amor della pace, qua di vinti che promettono

"'' Cfr. soprattutto Lib. II, cap. IV, §§ 23 e 24; cap. XV, § 172.

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di servire il vincitore pur di aver salva la vita 30 ; e aveva ripetuto in Leviathan che « non la vittoria dà diritto di do­minio sopra il vinto, ma il patto di lui; né questi è obbligato perché è stato vinto [ . . . ] ma perché si rimette e si sotto­mette al vincitore » 31• Non ci può esser dubbio che questa teoria di Hobbes era una confusione fra potere civile e po­tere dispotico, se pure in senso inverso alla confusione fra potere civile e potere paterno compiuta da Filmer, e in genere dai sostenitori della teoria paternalistica del potere : Filmer aveva compiuto la riduzione classica del potere civile a potere paterno, che comportava la identificazione del re · col padre, negando il fondamento proprio del potere civile, il con­senso, e facendo derivare anche il potere civile dalla genera­zione; Hobbes, invece, aveva compiuto non già l 'analoga riduzione del potere civile a potere dispotico, bensì , inver­samente, la riduzione del potere dispotico a potere civile, facendo derivare anche il potere dispotico dal consenso, e quindi cancellando la ragione principale ( almeno secondo Locke) della loro differenza.

Tenendo presenti queste considerazioni, si può affermare, credo, che la polemica di Locke è diretta continuamente non contro un fronte solo : o Hobbes, secondo un'opinione acriti­camente tramandata, o Filmer, secondo l'opinione di Laslett ; ma contro due fronti : da un lato, contro la teoria paterna­Ustica, dall'altro, contro il cattivo uso della teoria contrattua­listica, adoperata per dare un fondamento anche al potere dispotico, e quindi a cancellare, per altro verso, il carattere proprio del potere civile. I grandi errori, che egli si era proposto di combattere, erano non uno ma due : il primo consisteva nel disconoscere il consenso come corattere proprio :\ del potere civile; il secondo consisteva nell'attribuire il fon­damento del consenso anche al potere dispotico, cioè ad un

30 De Cive, VIII, 1 . :a Leviathan, II, 80, 5 , ediz. Oakeshott, p . 132 (ed. Laterza,

I, p. 166).

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potere diverso, o almeno che Locke riteneva dovesse essere considerato diverso, dal potere civile. Questo secondo era l 'errore hobbesiano. È vero che Hobbes e Locke intendono in modo diverso l'estensione del potere dispotico: per Bob­bes questo potere si estende alla proprietà del sottomesso ma non alla vita, mentre per Locke si estende certamente alla vita, e forse anche alla proprietà 3 2 • Ma, comunque fosse inteso, il potere dispotico era pur sempre il potere maggiore che un uomo avesse su altri uomini : ciò che Locke negava contro Hobbes era la tesi che questo potere massimo del­l 'uomo sull'uomo potesse essere fondato sul consenso, cioè su quello stesso titolo di acquisto del potere, con cui egli giusti­ficava un potere minore, certo non assoluto, circoscritto entro limiti ben precisi, quale era il potere civile. Si può aggiungere che alcuni passi, in lui Locke critica la monarchia assoluta ne­gando che possa considerarsi una forma di potere civile (II , § 90 e ss . ) , presuppongono come interlocutore diretto, stando alla lettera del testo, piuttosto Filmer che Hobbes '13 : ma uno degli argomenti principali addotti in questi passi per affermare che la monarchia assoluta, cioè un governo non sottoposto alle leggi da esso stesso promulgate ( legibus solutus), non sopprime interamente lo stato di natura, perché questo stato rimane nei rapporti tra sovrano e sudditi, consiste nel mo­strare che là dove vi è un monarca assoluto non vi è, non vi può essere, separazione del potere legislativo dal potere esecutivo ( II , § 9 1 ) . Ora, avesse o non sottocchio i libri di Hobbes, Locke non poteva aver dimenticato che la critica della separazione dei poteri era uno dei grandi temi della

32 Circa la natura del potere dispotico sulla proprietà, la posi­zione di Locke nel secondo trattato è ambigua: nei §§ 9 1 e 92 sembra che il potere dispotico si estenda anche alla proprietà; vice­versa nel § 180, a proposito dei limiti del potere che il conquistatore consegue sui vinti in una guer�a giu�ta, Lo.c�e dice . esp�icitamente che questi ha il potere sulla vita del suddlt! conqmstatt , ma non sui loro beni.

33 Cfr. ediz. Laslett, Commento al § 92, linea 7, p. 345; al § 9-3, linee 7-15 , p. 346.

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teoria politica di Hobbes, mentre non era un tipico tema filmeriano. Se dunque dietro le spalle di Filmer compare questa volta anche Hobbes non dobbiamo meravigliarcene, o far finta di non vederlo. Filmer è, certo, l'interlocutore diretto, ma Hobbes era stato un personaggio troppo grande per scomparire dalla scena senza che gli si rivolgesse nep­pure una parola.

3 . L'unità contestata dell'etica lockiana. - Il ritratto che di Locke ci presenta Raymond Polin non è molto diverso da quello presentatoci dall'opera italiana, apparsa nello stesso anno, del Viano, là dove fin dalle prime pagine la filosofia lockiana viene definita come « la filosofia della souplesse, della conciliazione, della sintesi, e per così dire, del compro­messo, dell'accordo fondato in tutte le cose su consensi liberi e ragionevoli » 34 • Anche Viano ritorna spesso, come vedre­mo, sul tema del « consenso », quale fondamento della società civile: ed è un tema che anche noi dovremo riprendere. Ma l'ambito in cui si muove Polin è più ristretto, sia perché oggetto della ricerca è principalmente il Locke moralista e politico, sia perché l'esplorazione è diretta esclusivamente alle opere lockiane non all'ambiente e alla cultura del tempo. Questa delimita�ione, del resto, è giustificata dal fatto che, più o meno esplicitamente, la ricerca di Polin sembra mossa prevalentemente da due intenti : scoprire una sostanziale coe­renza e continuità entro il pensiero etico-politico lockiano dai primi agli ultimi scritti, e mostrare il valore filosofico, e quindi al di sopra delle contingenze storiche, della sua teoria politica. Entrambi i propositi sono rivolti polemica­mente contro opinioni ormai abitualmente condivise, ma dei due il primo, sul quale soprattutto intendo soffermarmi, è il più audace.

Per quel che riguarda la pretesa unità del pensiero etico lockiano, occorre subito avvertire che esso è minacciato da

34 La politique morale de fohn Locke, cit. , p. 5.

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due gravi fratture, la prima tra gli scritti etici e l'Essay, la se­conda, nell'ambito degli stessi scritti etici, tra gli scritti giovanili, come gli Essays on the Law of Nature, e i Two Treatises. La prima frattura riguarda i fondamenti : nell'Essay Locke espone una teoria edonistica dell'etica di cui non vi è alcuna traccia negli scritti etici e politici . La seconda frattura riguarda invece soprattutto le soluzioni : negli scritti giovanili Locke è, alla maniera hobbesiana, un teorico dell'obbedienza e nulla lascia sospettare in quegli scritti il futuro fautore del diritto di resistenza. Di queste due fratture, Polin non sembra disposto a riconoscere né l'una né l'altra. Anzitutto non mostra di essere conquistato dall'idea che l'incoerenza, o più esatta­mente la mancanza di una qualsiasi unità sistematica tra i diversi frammenti che compongono nei diversi periodi l'etica incompiuta di Locke, dipendano da un contrasto profondo, non mai risolto, perché irrisolvibile, tra il fine che il Locke si proponeva, che era quello di comporre un'etica dimostrativa, che avrebbe dovuto sbaragliare gli scettici senza piegarsi alle pretese dei dommatici, e i mezzi di cui da empirista, impegnato sin dagli scritti giovanili sul diritto naturale nella battaglia contro gli innatisti, poteva disporre. Egli infatti interpreta i famosi passi dell'Essay in cui Locke considera la morale « tra le scienze suscettibili di dimostrazione » '" unicamente come miranti a mostrare la possibilità e le condizioni di un discorso morale coerente, e pertanto perfettamente compatibile con la pluralità dei discorsi morali . Ma l'intento di Locke era ben più ambizioso, come si può vedere dal passo in cui dice con la massima chiarezza: « Non ho alcun dubbio che in essa [ cioè nella morale ] , da proposizioni evidenti di per se stesse, me­diante conseguenze necessarie, non meno incontestabili di quelle della matematica, si potrebbero trarre le misure del giusto e dell' ingiusto, se alcuno volesse applicarsi a questa scienza con la medesima indifferenza e attenzione che pone

"' Saggio sulla intelligmza ttlrtullù, trad. i tal . , Bari, Laterza, 1 95 1 , p. 755. Cfr. anche pp. 734 e 776 .

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nell'altra » 36 • Tanto ambizioso che lo annunciò spesso ma dovette sempre rinunciare ad attuarlo.

Senonché, se si considerano i mezzi di cui Locke poteva disporre per costruire un'etica suscettibile « quanto le mate­matiche, di reale certezza » .H , la concezione edonistica del bene e del male cui era giunto nell'Essay non era certo la più adatta allo scopo: chi voglia costruire un'estetica dimo­strativa si metterebbe su una cattiva strada, se partisse dal­l'idea che è bello ciò che piace. Così la speranza di un'etica dimostrativa non sembra molto ben riposta quando ci si affida ai sentimenti cangianti del piacere e del dolore. Se è bene ciò che procura piacere, e male ciò che procura dolore, buona è l'azione conforme ad una legge che dà un premio a colui che l 'ubbidisce, cattiva l'azione conforme alla legge che stabilisce un castigo per i trasgressori: bene e male in questo caso di­pendono da ciò che stabilisce la legge, e ci sono tanti beni e tanti mali quanti sono i diversi tipi di leggi. Locke stesso, com'è noto, ne riconosce, nell'Essay, tre tipi: la legge divina, la legge civile, la legge dell'opinione, e ammette francamente che essendo il bene e il male morale « la conformità o di­scordanza delle nostre azioni volontarie rispetto a qualche legge, in seguito a che ci procuriamo un bene o un male, a causa della volontà e del potere del legislatore » 38, ciò che è bene per una legge può essere male per l'altra, come ad es. il duello che è peccato rispetto alla legge di Dio, virtù in certi paesi per la legge del costume, delitto per la legge civile di certi altri paesi. Polio, è vero, cerca di nobilitare l'edonismo di Locke lustrandone la sua patina teologica per cui piaceri e dolori sono « segni » della saggezza divina, che debbono essere interpretati ragionevolmente. Ma resta il fatto che piacere e dolore sono idee semplici non ulteriormente riduci­bili, che non possono venir né descritte né definite, conoscibili

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3 6 Saggio, ediz. cit., p. 755. 37 Saggio, ediz. cit., p. 776 . 38 Saggio, ediz. cit., pp. 480-481 . Cfr. anche pp. 486-487.

solo con l'esperienza « come accade per le idee semplici dei sensi » ; e che « le cose sono buone o cattive solo in rapporto al piacere e al dolore » 39 • L'edonismo è l'etica di un empiri­stica coerente e integrale .

Ma occorre forse ripetere che l'etica edonistica dell'Essay rimase un programma, non diventò mai un sistema? l fon­damenti filosofici delle opere più propriamente dedicate al problema etico e politico non hanno niente a che vedere con l'edonismo dell'Essay. Lo stesso Polio non può fare a meno di osservare, a proposito degli Essays giovanili sul diritto naturale, che la dimostrazione della legge naturale si trova nella struttura teleologica del mondo, sino a concludere che il fondo del pensiero di Locke non è l'empirismo ma « l'esi­stenza di un ordine di cose pieno di senso, benché sfugga di fatto in parte alla curiosità degli uomini » 40 ; di conseguenza non può evitare di mettere in rilievo la sostanziale identità tra il giusnaturalismo degli anni giovanili e quello del secondo trattato sul governo civile dove i problemi di fondo del giusna­turalismo - l'esistenza, la conoscenza e il fondamento della legge naturale -, sono dati ormai come una volta per tutti risolti e quindi non bisognosi di particolare esame. Con questa osservazione Polio coglie, a mio parere, perfettamente nel segno. Ma proprio sulla base di questa osservazione, può essere sicuramente confermata la differenza profonda, rispetto ai fondamenti, tra l'Essay, che abbozza le linee di un'etica edonistica senza svilupparla, e l 'opera politica principale, che sviluppa una compiuta teoria della società e dello stato senza troppo preoccuparsi dei fondamenti. E infatti l 'edonismo dell'Essay, e il conseguente relativismo, restano, rispetto al­l'elaborazione effettiva di un sistema morale e politico, com­piuta da Locke soprattutto nel secondo trattato, enunciazioni di principio, senza conseguenze. Il secondo trattato è un tentativo di ricostruzione razionale della società civile, ispirato

39 Saggio, ediz. cit . , p. 306. ·•o

.La politique morale, cit . , p. 1 18.

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.,

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al principio, meglio si direbbe al postulato, di una legge na­turale che governa gli uomini, e che è compito della nostra ragione scoprire e della nostra volontà rendere efficace; rientra nel solco del giusnaturalismo moderno in ciò che ha di più ca­ratteristico, cioè nel razionalismo etico, e lo riprende e lo uti­lizza proprio in quegli elementi fondamentali in cui il giusnatu­ralismo moderno riproduce quello classico (lo stesso Polio nota le somiglianze tra un testo di Locke e uno di Cicerone). Ag­giungo che su questo punto sarei incline a vedere Locke an­che meno moderno di quel che l'abbia considerato il Viano: le frequenti dichiarazioni sulla legge naturale che si trovano nel secondo trattato sono di un'acrisia e di un'ingenuità stu­pefacenti: vi si dice che la legge naturale « è scritta nel cuore di tutti gli uomini », oppure è reperibile « nella mente degli uomini », oppure è « evidente ed intellegibile ad ogni creatura ragionevole » ecc . 41 • Quando poi si vada a vedere in che cosa consiste questa « natura » che ritorna quasi ad ogni pagina, ci si ritrova di nuovo di fronte alla vecchia teoria delle in­clinationes, che corre lungo tutto l 'arco del giusnaturalismo; di queste inclinationes Locke nomina espressamente il deside­rio (desire) di conservazione e quello di procreazione ( I , § 88 ) .

Con questa contrapposizione tra l'etica dell'Essay e l'etica degli scritti giuridici e politici non si vuoi dire che questi ultimi compongano una linea coerente di sviluppo e non esista tra gli scritti della giovinezza e quelli della maturità alcuna differenza. Una differenza esiste, anche se Polio, tutto preso dalla sua ricostruzione unitaria, non ha creduto di doverla sottolineare. Anzitutto vi è una differenza rispetto ai fonda­menti . Nel primo degli Essays Locke dà della legge naturale una definizione volontaristica : « Ordinatio voluntatis divinae lumine naturae -cognoscibilis » 42 ; nel secondo trattato, pro-

, babilmente sotto l'influsso di Richard Hooker, identifica sic et simpliciter la legge naturale con la ragione: And Reason,

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I l Il. §§ 1 1 , 136, 1 24 . " Ediz. von Leyden, p. 1 10 .

which is that Law ( II , § 6 ) . Locke aveva subito nei primi anni, come ora è stato rivelato dallo studio e dalle pubblicazioni dei due scritti sul magistrato civile, l'influsso di Hobbes, tanto da essersi messo dalla parte di coloro che negavano una sfera riservata alla libertà dell'individuo nelle cose indifferenti e ap­poggiavano le tesi autoritarie dei sostenitori del potere asso­luto e arbitrario del sovrano. Il volontarismo del giovane Locke riecheggiava il volontarismo del vecchio Hobbes, che proprio negli stessi anni in cui Locke iniziava la sua carriera di scrittore, componeva la sua ultima opera giuridica, il Dia­logue between a Philosopher and a Student of the Common Laws of England, in cui ribadiva energicamente, sin dalle prime pagine, la sua convinzione col detto : It is not wisdom, but authority that makes a law. Ma per cancellare ogni dif­ferenza tra i saggi giovanili e il secondo trattato Polio è co­stretto ad attenuare l'hobbesianesimo iniziale di Locke: a tal fine cita alcuni passi sulla libertà della Prefazione al lettore del primo trattato sul magistrato civile nei quali non riesco a trovare che un elogio di maniera e un riconoscimento a denti stretti della libertà civile, inserito in un contesto di così zelante ossequio all'autorità e di così evidente intonazione autoritaria da far comprendere benissimo l'oblio in cui lo stesso Locke volle tenere quelle sue prime esercitazioni di scrittore politico. La tesi centrale del primo trattatello, di sapore tipicamente hobbesiano (certamente più del secondo), è che il supremo magistrato « qualunque sia il modo in cui è creato, deve necessariamente avere un potere assoluto e arbi­trario su tutte le azioni indifferenti del suo popolo » 43 • Circa il problema del diritto del sovrano di intervenire nelle cose indifferenti relative al culto c'erano due tesi in contrasto: la tesi, che oggi diremmo liberale, che lo negava; la tesi antili­berale che lo affermava. Locke scrive i due trattatelli per sostenere la seconda tesi, cioè per sostenere una tesi che è dia­metralmente opposta a quella che difenderà negli scritti

-.43 Scritti editi e inediti sulla tolleranza, ediz. cit., p. 156.

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7. N. BoBBIO - Da Hobbes a Marx.

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successivi, a cominciare dall'Essay concerning toleration, del 1667, che hanno fatto di lui il filosofo della tolleranza e del liberalismo. La spaccatura tra il primo e l'ultimo Locke è nettissima, e riguarda non soltanto i fondamenti, ma, quel che è più, le soluzioni : il Locke del secondo trattato è l'antitesi del Locke dei due trattatelli giovanili, e il passaggio dall'una all'altra fase è segnato da un rapido e risoluto distacco dal pri­mitivo, convinto hobbesianesimo. Hobbes era stato il più ardito e conseguente teorico del dovere d'obbedienza : nel De cive aveva chiamato quest'obbedienza « semplice » per fare intendere che l'obbedienza del suddito deve essere tanto estesa quanto basti per consentire al sovrano l'esercizio del suo di­ritto, e non se ne può dare una maggiore -t• . Locke, nel secondo trattato, difenderà con abilità e con argomenti che qualsiasi scrittore autoritario non esiterebbe a considerare demagogici, il diritto di resistenza. Al contrario, nei due trattatelli giovanili il diritto di resistenza non è riconosciuto, neppure nei casi più odiosi di abuso del potere da parte del sovrano. Locke am­mette, sl, nel secondo trattatello, molto più interessante dal punto di vista della teoria generale della politica e del diritto, e anche meno hobbesiano del primo, l'obbedienza passiva, che Hobbes aveva respinta; ma l'obbedienza passiva era un omag­gio all'ipocrisia assai più che un riconoscimento della libertà dei sudditi; e l'ammette comunque soltanto nel caso estremo di prevaricazione, quando il sovrano viola la legge naturale.

- In altri due casi di potere distorto, quello del sovrano che regola comportamenti riservati al suo potere (le cose indiffe­renti) ma con intenzione cattiva, e quello del sovrano che regola comportamenti indifferenti vincolando anche la co­scienza, Locke pretende addirittura l'obbedienza attiva -t• .

Quanto al sovrano prevaricatore, Locke ripete la formula tra­dizionale di ogni teoria assolutistica, affermando che questi

44 De Cive, VI, 13. 45 Ho sviluppato maggiormente questo tema nel mio corso Locke

e il diritto naturale, Torino, Giappichelli, 1963, § 15 .

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non viola alcun diritto dei sudditi, ma semplicemente com­mette peccato : il che dal punto di vista giuridico comporta due conseguenze : a) il sovrano è obbligato solo di fronte a :pio e quindi risponde dei propri misfatti politici solo di fronte a Dio e non ai sudditi; b) i sudditi non hanno alcun diritto a che il sovrano non eserciti oppressivamente il potere (solo Dio ha questo diritto), e pertanto non hanno quel diritto di opposizione all'abuso, in cui consiste appunto il diritto di resistenza. Di fronte ad uno dei problemi centrali della filosofia politica di tutti i tempi, quali siano la natura e i limiti dell'ob­bligazione politica, è difficile immaginare due posizioni più contrastanti come quelle del primo e del secondo Locke.

Rispetto all'altro tradizionale problema di ogni inter­pretazione lockiana, quale sia il rapporto tra la filosofia di Locke e il suo pensiero politico, tra il Locke dell'Essay e il Locke dei Two Treatises, Polin prende una posizione altret­tanto netta: mentre Laslett, come abbiamo visto, esclude qualsiasi rapporto tra l'una e l'altra opera, Polin sostiene con forza la tesi dell'unità del pensiero lockiano e quindi dell'indissolubilità delle due opere, testualmente di una « so lidarité incomparable », onde non si può comprendere l'una senza l'altra 4 6 • Per provare il suo assunto, non segue però la via più battuta : tra i vari argomenti, sceglie quello piuttosto insolito del « potere ». Effettivamente, come si è visto, il tema centrale della teoria politica lockiana è il tema del potere: tutto il secondo trattato si può considerare come un tentativo di caratterizzare il potere civile come tipo di potere distinto tanto dal potere familiare quanto dal potere dispotico. Al con­cetto di potere è dedicato uno dei capitoli più discussi del­l'Essay, il capitolo ventunesimo che contiene la celebre trattazione della libertà. Ma quale sia poi il rapporto tra il concetto di potere illustrato dall'Essay e quello di cui si vale nel secondo trattato, il Polin non si sofferma a spiegare. La verità è che non esiste alcun rapporto. Quando Locke parla

4 6 La politique morale, cit., p. 164.

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dell'idea del potere nell' Essay si riferisce ai poteri naturali ( il potere del fuoco di fondere l'oro) ; i poteri del secondo trattato sono poteri umani o morali, istituiti dall'uomo. È singolare che nella prima opera non vi sia alcun riferimento ai poteri istituiti, nella seconda non vi sia alcun riferimento ai poteri della natura: nelle due opere Locke parla di due con­cetti che appartengono per lo meno alla stessa famiglia, ma non mostra di accorgersene, e non accenna neppure con la più tenue allusione al possibile passaggio dall'uno all'altro. Chi volesse cercare di gettar qualche luce sulla teoria del potere politico studiando l'analisi del concetto di potere nell'Essay, tornerebbe a mani vuote. Quanto al problema della libertà, la lunga trattazione dell'Essay si riferisce alla libertà del volere, il secondo trattato si riferisce alla libertà civile, intesa nel duplice senso di potere di agire non impe­dito dal potere altrui e di dovere di non sottomettersi ad altro potere che a quello stabilito per comune consenso (II , § 22) : la prima trattazione non è di alcuna utilità al chiarimento della seconda, dal momento che l'una esamina il problema della libertà di scelta, connesso alla questione del determinismo e dell'indeterminismo, l'altra esamina il problema della libertà politica, connessa alla questione del­l'assolutismo e del liberalismo. E di fatto Locke non mostra mai di avere alcun interesse di passare dall'una all'altra.

4. Locke, un hobbesiano mascherato? - Il libro di Ri­chard H. Cox solleva un altro dei problemi più dibattuti della critica lockiana: il problema dei rapporti tra Hobbes e Locke. Cox rovescia l 'opinione tradizionale che considera Locke l'antitesi di Hobbes, e sostiene sulla base di una minu­ziosa indagine testuale, soprattutto sul concetto lockiano di stato di natura, che l 'influsso di Hobbes su Locke fu deter­minante rispetto alla posizione assunta da Locke di fronte ai �roblemi della guerra e della pace, o dei rapporti degli stati tra loro, molto maggiore di quel che di solito si creda e di quel che Locke stesso avesse voluto lasciar trapelare.

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Laslett si era limitato a sostenere che il bersaglio polemico di Locke nel secondo trattato non era Hobbes ma Filmer; Cox fa un passo innanzi, e vede profondi motivi hobbesiani an�he nel Locke maturo. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, sull'hobbesismo degli scritti giovanili di Locke non è più lecito aver dubbi. Si tratta di sapere ora se Locke continua a restare hobbesiano, per lo meno sotto certi aspetti, nella sua opera maggiore, ad onta del fatto che Hob­bes non venga mai citato, e che anzi Locke abbia dichiarato nella tarda età di non averlo mai letto.

Cox parte dalla constatazione inoppugnabile che la teoria lockiana dei rapporti tra gli stati è identica a quella di Hob­bes : gli stati vivono fra loro allo stato di natura e quindi i loro rapporti non sono regolati da altra legge che da quella naturale. Basterà citare il passo del § 14 del secondo dei Two Treatises, in cui Locke per dimostrare che lo stato di natura è uno stato storico, che è esistito ed esiste tuttora adduce l 'esempio dei « principi e magistrati di governi indi� pendenti » che « per tutto il mondo sono in uno stato di natura » n . Si potrebbe subito obiettare che il problema dei rapporti fra stati è nel pensiero di Locke marginale : scri­vendo i Two Treatises Locke si proponeva di elaborare una teoria dei rapporti tra governo e cittadini, non tra uno stato e gli altri stati, e quindi che cosa abbia scritto intorno a questo secondo problema non ha molta importanza al fine di caratterizzare il suo pensiero. Peraltro, se lo stato dei rap­porti internazionali è lo stato di natura, e l'idea che Locke ha dei rapporti internazionali è hobbesiana, non sarà da ve­dere se per avventura la derivazione da Hobbes non debba essere cercata nella concezione stessa che Locke ha dello stato di natura? Effettivamente Cox sostiene che la conce­zione lockiana dello stato di natura non è diversa da quella di Hobbes. La parte più interessante e più sottile del suo libro è dedicata alla dimostrazione di questa tesi.

47 . Altri passi : §§ 145, 147, 1 8 1 , 1 83 , 1 84 .

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Bìsogna riconoscere che la concezione lockiana dello stato di natura è molto ambigua. Netta era la concezione hobbesiana, secondo cui lo stato di natura è uno stato di guerra; altrettanto netta quella di Pufendorf secondo cui lo stato di natura è uno stato di pace. Possiamo supporre che l'incertezza di Locke dipendesse dal fatto che l'ipotesi hob­besiana era più attraente e perfettamente adeguata allo scopo, ma era contraria non soltanto alle sacre scritture, ma anche alla storia; la teoria pufendorfiana, invece, andava d'accordo con le sacre scritture, ma era inutilizzabile : se infatti gli uomini vivevano pacificamente allo stato di natura, a quale scopo avrebbero dovuto abbandonarlo per entrare nello stato civile? L'ambiguità della posizione lockiana si manifesta in modo sconcertante nel contrasto tra il famoso passo del § 1 9 del secondo trattato in cui si afferma che stato di na­tura e stato di guerra « per quanto taluni li abbiano confusi » �ono distinti « come lo sono tra loro uno stato di pace, bene­volenza, assistenza e conservazione reciproca e uno stato di ostilità, malvagità, violenza e reciproca distruzione », e il paragrafo successivo dove si legge che nello stato di natura « per mancanza di leggi positive e di giudici forniti di auto­rità a cui appellarsi, lo stato di guerra, una volta cominciato, continua ». Conducendo a fondo l'analisi testuale, Cox mo­stra che via via che Locke si allontana dalle prime pagine dimentica completamente la prima affermazione e ribadisce, magari incidentalmente, la seconda, suscitando il sospetto che questa e non quella corrisponda al suo reale pensiero. Al­l'inizio del cap. IX ( § 123 ) , infatti, esponendo ancora una volta le ragioni per cui l'uomo decide di abbandonare lo stato di natura, lo descrive in termini puramente hobbesiani come quello stato in cui il godimento dei diritti « è molto incerto e continuamente esposto alla violazione da parte di altri », come una condizione « piena di timori e di continui pericoli » . Verso la fine dell'opera lo stato di natura è addi­rittura considerato sinonimo di stato « della pura anarchia » ( II , § 225 ) ; e poco dopo, per designare la situazione cui

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riportano lo stato coloro che governano dispoticamente, si parla di stato di guerra (II, § 226) . Poiché la situazione cui gli individui ritornano quando è infranto il contratto sociale è lo stato di natura, stato di natura e stato di guerra sono la stessa cosa? 4" .

Di questa ambiguità il Cox dà una spiegazione meta­mente psicologica : Hobbes era un maestro pericoloso e Locke un discepolo pavido e guardingo, che non intendeva rinun­ciare alle idee hobbesiane ma non voleva manifestarle troppo apertamente; cercava di insinuarle o di mormorarle, mentre pronunciava ad alta voce, soprattutto nelle prime pagine per stornare l'attenzione dei lettori malevoli, il nome del giudi­zioso Hooker, teologo ufficiale e non sospetto. La duplicità della concezione lockiana dello stato di natura sarebbe dun­que per il nostro autore l'effetto di doppiezza, se pur giu­stificata dalla nobiltà del fine, e in fin dei conti Locke sa­rebbe, per lo meno nel modo di intendere lo stato di natura e le relazioni internazionali, un Hobbes mascherato (e per giunta mascherato male). Per dimostrare questa tesi, Cox accumula, saltando destramente da una citazione all'altra ' denunciando le manipolazioni di testi biblici, prove su prove. Ma finisce per provar troppo: alla fine del libro la nostra immagine di Locke si sovrappone su quella tradizionale di Ho�bes, e fanno un'immagine sola. Ma un'immagine in cui non si riesce più a distinguere Hobbes da Locke è un'im­magine confusa.

Anzitutto la spiegazione psicologica dell'ambiguità lo­ckiana è insufficiente. Non tiene conto della difficoltà ogget­tiva del problema che Locke doveva risolvere : se lo stato di natura veniva concepito come perverso alla maniera hob­besiana, si ponevano le basi per una teoria assolutistica del potere, cioè per una teoria che avrebbe elevato lo stato ad antitesi radicale dello stato di natura e quindi avrebbe con-

48 Lo stato di natura viene identificato con lo stato di anarchia anche alla fine del § 94.

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cepito lo stato come soppressione totale dello stato di na­tura· se lo stato di natura veniva concepito come pacifico alla

'maniera pufendorfiana, si adduceva un argomento for­

midabile in favore della superfluità dello stato civile . Locke si propose di elaborare una teoria dello stato in cui fosse dimostrata, sì, la necessità dello stato ma insieme anche i limiti del potere civile : il suo stato avrebbe dovuto essere non l'antitesi dello stato di natura, ma la sua redenzione, non l 'abrogazione delle leggi naturali, ma la loro conserva­zione e garanzia. La tanto discussa ambiguità lockiana deriva, a mio parere, dalla prospettiva da cui Locke si pone per defi­nire lo stato di natura, distinguendo, da un lato, lo stato di natura quale deve essere, in cui gli uomini, creature ragio­nevoli, si dirigono secondo le leggi della natura, conoscibili dalla ragione, dall'altro, lo stato di natura quale può diven­tare, posto che di fatto non tutti gli uomini sono ragionevoli e quindi non sempre sono in grado di conoscere la legge naturale né, conoscendola, di seguirla. La differenza essen­ziale tra lo stato di natura hobbesiano e quello lockiano sta nel fatto che il primo è uno stato di guerra per principio e quindi in modo permanente ed esclusivo, mentre il secondo può diventare, di fatto, uno stato di guerra, se alcune con­dizioni per il rispetto delle leggi naturali non sono osservate, ma di diritto, cioè secondo la sua essenza, è lo stato perfetto, ovvero, come si legge sin dalle prime righe, « di perfetta libertà di regolare le proprie azioni ecc. ecc. » ( II , § 4 ) . Si osservi la differenza tra la definizione hobbesiana, secondo cui « non si può negare che lo stato naturale degli uomini, prima che si costituisse la società, fosse uno stato di guerra, e non di guerra semplicemente, ma di guerra di ciascuno contro tutti gli altri » 49; e quella, già citata, di Locke : « lo stato di guerra, una volta cominciato, continua ». La diffe­renza sta proprio nell'inciso « una volta cominciato >> ( once begun ) : nello stato di natura hobbesiano la guerra è l'es-

"' De Cive, I, 12.

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senza, in quello lockiano è un accidente, se pur decisivo per Io sviluppo del genere umano.

In secondo luogo la circostanza, notata dal Cox, che Locke quando parla dello stato di natura, al di fuori del capitolo appositamente dedicato all'argomento, lo considera come uno stato di guerra o di anarchia, non basta a fare di Locke un hobbesiano. Le ragioni per cui lo stato di na­tura è, per Hobbes, e diventa, per Locke, uno stato di guerra sono molto diverse; e questa diversità spiega poi la diversità del rimedio escogitato rispetto al quale Hobbes e Locke diventano i campioni di due teorie antitetiche dello stato. Rispetto al punto di partenza lo stato di natura di Hobbes e quello di Locke sono apparentemente identici : entrambi sono stati di perfetta libertà e di perfetta egua­glianza. Ma libertà ed eguaglianza hanno in Hobbes e Locke ben diversi significati : la libertà hobbesiana consiste nel diritto illimitato di ciascuno su tutte le cose ( ius in omnia ) , solo di fatto limitato dall'eguale diritto di tutti gli altri; la libertà di Locke è il potere per sua natura limitato, di agire nella sfera delle cose indifferenti, cioè nella sfera dei comportamenti non regolati dalla legge naturale 50• L'egua­glianza di cui parla Hobbes è l' �guaglianza fisica o delle forze ( « sono eguali quelli · che possono compiere; l'uno contro l 'altro, gli stessi atti » ) 51 ; quando Locke parla di eguaglianza intende quello stato « in cui ogni potere e ogni giurisdizione è reciproca, nessuno avendone più di ogni altro », e in cui non esiste « subordinazione o soggezione »

'0 Nel § 4 del secondo trattato Locke dice che lo stato di natura è uno stato di libertà, intendendo dire che è uno stato in cui l'uomo è libero di regolare le proprie azioni c�m�e crede r_n�glio <� e�tro f limiti della legge di natura ». Ma la mtgltore defimz�one d1 ltberta in questo senso si legge all'in�zio del § 22; « La libert� naturale dell'uomo consiste nell'esser libero da ogm potere supenore sulla terra e nel non sottostare alla volontà o all'autorità legislativa di alcuno, e nel non avere per propria norma che la legge di natura ».

51 De Cive, I, 3 .

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di un individuo su un altro ( § 4 ) , si riferisce cioè ad una eguaglianza non fisica ma giuridica. Dal diverso modo di intendere la libertà e l'eguaglianza, deriva il diverso modo di spiegare l'origine e la ragione della trasformazione dello stato di natura in istato di guerra: in Hobbes la guerra di tutti contro tutti è una conseguenza e della libertà illimi­tata che mette necessariamente ogni uomo contro il suo simile e dell'eguaglianza fisica che rende possibile material­mente l 'offesa ( se gli uomini fossero per natura diseguali, non vi sarebbe guerra ma sottomissione del più debole al più forte ) ; secondo Locke, perché nasca dallo stato di natura uno stato di guerra, devono verificarsi due condizioni : a ) che un individuo abusi della sua libertà ( solo di una libertà limitata, come quella di Locke, si può abusare ) , violando le leggi naturali; b ) che la persona dell'offeso, facendosi giustizia da sé per effetto dell'eguaglianza reciproca, e quindi della mancanza di un superiore cui possa appellarsi per rin­tuzzare l 'offesa e punire il colpevole, ecceda nella difesa e offenda a sua volta l 'offensore. Lo stato di natura hobbe­siano è, immediatamente, uno stato di guerra: non può essere, dati i presupposti, che uno stato di guerra. Al contrario, perché lo stato di natura lockiano diventi uno stato di guerra occorre in un primo tempo la violazione di una qualsiasi legge naturale che prescrive una determinata condotta, cioè, secondo la terminologia moderna, della norma primaria, in un secondo tempo, la violazione della legge naturale che autorizza l'offeso a chiedere una giusta riparazione del danno o una giusta punizione del colpevole, cioè della norma secon­daria. Come si vede, gl'inconvenienti che Hobbes scopre nello stato di natura sono molto più gravi di quelli che vi scopre Locke: per Hobbes manca nello stato di natura addirittura la legge, perché la legge positiva non esiste ancora e quella naturale esiste ma è inefficace, per Locke manca soltanto il giudice imparziale, cioè colui che s'imponga ai litiganti per fare rispettare la legge naturale. Sinteticamente: nello stato di natura lockiano mancano, nel senso che non esistono,

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soltanto le norme secondarie; in quello hobbesiano man­cano, nel senso che non sono efficaci, anche le norme pri­marie. Proprio perché lo stato di natura hobbesiano è uno stato senza leggi, in cui ogni individuo, cosl come il sovrano una volta costituito il potere civile, è legibus solutus} è uno stato di totale anarchia, quello lockiano, essendo privo di giudici imparziali, corre continuamente il pericolo di dege­nerare in uno stato di anarchia: è uno stato di guerra non totale e permanente, ma parziale e intermittente, non esi­stente ab initio} ma destinato probabilmente a continuare, per ripetere ancora una volta il testo più espressivo del secondo trattato, once begun.

Poiché il rimedio agli inconvenienti dello stato di natura è lo stato civile, la diversa gravità degli inconvenienti giu­stifica la diversa natura del rimedio. Hobbes e Locke, par­tendo da presupposti diversi, giungono a conclusioni diverse; se si vuole, le conclusioni diverse cui giungono, e su cui nessuno può sollevare dubbi fondati, sono alla loro volta una riprova della diversità dei presupposti, che un'analisi come quella di Cox finisce per far dimenticare. Hobbes, partendo dal presupposto dell'inesistenza delle leggi nello stato di natura, attribuisce al potere civile il compito pri­mario di fare le leggi, e non concepisce altre leggi vincolanti che quelle poste dal potere civile; Locke, prendendo le mosse dall'inesistenza del giudice imparziale, attribuisce al potere costituito il principale compito di dirimere le con­troversie che possono sorgere tra gli individui nella appli­cazione delle leggi naturali. Hobbes : a male radicale, rime­dio radicale. Locke : a male parziale, rimedio parziale. Lo stato di Hobbes nasce con il compito di cancellare anche l'ultima traccia dello stato di natura, è una restauratio ab imis fundamentis; lo stato di Locke nasce con il compito più limitato di correggere lo stato di natura e di farlo rie­mergere, con tutti i suoi vantaggi, quanto più è possibile, nello stato civiie.

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5 . Locke, teorico del capitalismo. - Anche Macpherson, come Cox, riconduce Locke ad Hobbes. Ma il procedimento dei dui autori è diverso: Cox isola un tema, quello dei rap­porti internazionali, e mostra che rispetto a questo tema i testi di Hobbes e quelli di Locke sono identici ; Macpherson elabora una categoria storiografìca generalissima, quella che dà il titolo al volume, la categoria dell 'individualismo pos­sessivo, e vi comprende tanto Hobbes che Locke ( oltre i livellatori e Harrington ) . Se il primo metodo, come abbiamo visto, pecca per la parzialità della prospettiva, il secondo conduce a vedere le somiglianze generiche, che nessuno ha mai potuto negare, e a perdere di vista le differenze spe­cifiche, quelle che contano. Locke rappresenterebbe, dunque, secondo il Macpherson, il punto culminante della teoria individualistica della società, di cui Hobbes rappresenta il principio. Il carattere peculiare che contraddistingue l 'indi­vidualismo che va da Hobbes a Locke è di essere « posses­sivo », ossia di considerare « l 'individualismo come essen­zialmente proprietario della sua propria persona o capacità, e quindi come in nulla debitore verso la società di ciò che possiede » 52• L'individualismo possessivo è la teoria che riflette la nascita della società borghese e del capitalismo moderno, e si ispira al modello di una società contraddi­stinta dall'economia di mercato e dalla riduzione del lavoro a merce ( il lavoro alienato), che il Macpherson chiama, ana­logamente, « società di mercato possessiva ». Basta richia­mare per un momento alla mente la teoria lockiana della proprietà, magari proprio l 'inizio del § 27 del secondo trat­tato, dove Locke deriva il diritto di proprietà sulle cose dalla proprietà che ogni uomo ha sulla propria persona e quindi anche sul « lavoro del suo corpo » e sull'« opera delle sue mani », per rendersi conto che Locke è inconfu­tabilmente un individualista possessivo.

La parte migliore dell'analisi del Macpherson è quella

'" The Politica! Tbeory of Possessiue Individualism, cit., p. 3 .

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in cui l 'autore sfata la leggenda, di tanto in tanto riailio­rante, di un Locke precorritore di idee socialiste 53 • Nella dottrina di Locke, condotta alle sue estreme conseguenze, si trovano, invece, tutte le premesse per giustificare il di­ritto alla accumulazione illimitata della ricchezza, propria della società capitalistica in espansione. Alcune pagine di Macpherson illustrano abilmente il contrasto, nella teoria lockiana della proprietà, tra i limiti della proprietà inerenti ad un diritto che trova il proprio fondamento nel lavoro, e il superamento di questi limiti che di fatto avviene nella società reale descritta da Locke : per « limiti » della pro­prietà intendendosi non già, nel senso in cui ne parlerebbe un giurista, i limiti all'esercizio del diritto di proprietà, ma i limiti rispetto alla possibilità di accumulare ricchezza, cioè rispetto alla quantità di beni di cui un individuo può di­sporre. Secondo l'analisi di Macpherson questo diritto all'ac­cumulazione non ha, per Locke, alcun limite, non tanto per quel che egli dice espressamente, ché anzi egli afferma il contrario, ma secondo quel che si può ricavare dall'interpre­tazione della sua dottrina. Macpherson illustra tre limiti inerenti al concetto stesso di proprietà fondata sul lavoro e i tre rispettivi superamenti : l ) ognuno impossessandosi col proprio lavoro di una parte del mondo esterno ne deve lasciare quanto basti perché anche gli altri possano soprav­vivere 54• A parte la considerazione che questo limite nasce da un obbligo morale derivato dalla legge naturale, che impone ad ognuno di esercitare i propri diritti in modo da

s3 Non ha perduto nulla del suo interesse la critica mossa al Locke per la sua concezione della proprietà da R. MONDOLFO da un punto di vista socialista: il fondaJ?e�to della proprietà, cs�ogitat� d� Locke è conveniente per i bem dt consumo non per 1 mezz1 dt produ�ione (Dalla dichiarazione dei diritti al Manifesto dei Comunisti, in « Critica sociale », XVI, 1906, pp. 329-332).

54 « Poiché questo lavoro è proprietà incontestabile del lavora­tore nessun altro che lui può avere diritto a ciò ch'è stato aggiunto mediante esso, almeno quando siano lasciate in comune P_er gfi at:ri cose sufficienti e ultrettanto buone » (II, § 27). Il cors1vo e mto.

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non rendere impossibile l'esercizio dei diritti altrui, ed obbliga solo in coscienza, esso è superato di fatto dalla con­statazione, da Locke spesso ribadita, che di terra ce n'è in abbondanza per tutti, e non c'è quindi da temere che l'ap­propriazione di uno, per quanto estesa, possa impedire l'a_

ccu­mulazione degli altri 55 ; 2 ) poiché il fine dell'istituto della proprietà è il sostentamento proprio e della propria fami­glia, ciascuno ha diritto soltanto sulle cose che servono a questo fine, e pertanto non può accumulare beni che, non usati, finirebbero per deteriorarsi, e sarebbero quindi sot­tratti agli altri senza proprio vantaggio •o . Ma questo limite non ha un valore assoluto: vale soltanto in una società pri­mitiva in cui non sia ancora comparsa la moneta: la carat­teristica della moneta è di essere un bene indeperibile, e quindi accumulabile indefinitamente senza danneggiare altri. Chi accumula più grano di quel che possa consumare, de­frauda tutti gli altri della parte che lascia marcire; chi accu­mula monete, che non si deteriorano, non sottrae nulla a nessuno. Locke riconosce apertamente che con l'introdu­zione della moneta « gli uomini hanno consentito a un pos­sesso della terra sproporzionato e ineguale » (II, § 50); 3 ) se il lavoro è il fondamento del diritto di proprietà, è natu­rale che la capacità di lavoro di ciascuno ne costituisca anche il limite. Si potrebbe formulare il principio : « Ciascuno ha un diritto su tutto ciò che è frutto del suo lavoro ». L'ener-

55 « Quel che ardisco affermare è che la stessa norma della pro­prietà, cioè a dire che ognuno possegga quel tanto di cui può far uso, può sempre valere nel mondo senza pregiudicare nessuno, poiché vi è terra sufficiente nel mondo da bastare al doppio di abitanti » ( Il, § 36). Il corsivo è mio.

56 « La stessa legge di natura che ci conferisce [ . . . ] la proprietà ce la limita anche. " Dio ci ha dato abbondantemente ogni cosa " (l Tim. VI, 17) : questa è la voce della ragione confermata dalla rivelazione. Ma con quale limitazione Dio ce l'ha data? " A godere ". Di quanto si può prima che vada perduto far uso a vantaggio della propria vita, di tanto si può col proprio lavoro istituire la proprietà : tutto ciò che oltrepassa questo limite, eccede la parte di ciascuno e spetta ad altri » (Il, § 3 1 ). Il corsivo è mio.

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gia lavorativa di ciascuno ha dei limiti; quindi il diritto di proprietà è naturalmente limitato quanto alla sua pos­sibile espansione. Ma il lavoro di cui parla Locke è il lavoro mio o è anche il lavoro degli altri che lavorano per me? La risposta lockiana non è dubbia : il lavoro è cosa che appar­tiene all'uomo, il quale può alienarlo come può alienare tutte le cose di cui è in possesso. Ammessa l'alienabilità del lavoro, colui che acquista il lavoro altrui ha diritto sulle cose prodotte dal lavoro acquistato, quindi ha tanto mag­giore proprietà quanto ha più gente che lavora per lui. Così viene trasceso il limite al diritto di proprietà nascente dalla disponibilità naturalmente limitata delle propri è energie 57 •

Quest'analisi dei limiti della proprietà, posti e superati, può essere utilmente integrata dalla menzione di un quarto « limite trasceso », di cui Macpherson non fa menzione : si tratta del limite derivante naturalmente dalla constatazione che la stessa vita umana è limitata. Se il diritto di pro­prietà è legato all'energia spesa dall'uomo per trasformare le cose materiali e farne oggetti utili, il diritto dovrebbe cessare quando l'energia vien meno, cioè con la morte. Che cosa avviene alla morte del proprietario dei beni che gli appartengono? Il problema del diritto successo rio viene discusso incidentalmente da Locke nel primo dei Two Trea­tises ( I, § 86 e ss.), e per questo è di solito trascurato dagli studiosi, ma non per questo è meno rilevante al fine che il Macpherson si è proposto 58 • Secondo la logica del sistema, poiché la proprietà nasce dallo sforzo personale con cui

•57 Un passo molto significativo per provare che Locke ammetteva il lavoro alienato è il seguente : « E il prendere questa o quella parte non dipende dal consenso esplicito di tutti i membri della comunità: cosi l'erba che il mio cavallo ha mangiato, le zolle che il mio servo ha tagliato, il minerale che io ho scavato in un luogo in cui io vi ho diritto in comune con altri, diventano mia proprietà senza l'asse­gnazione o il consenso di alcuno » (Il, § 28). Il corsivo è mio.

5 8 Ma si veda l'esauriente saggio di G. SoLARI, Il fondamento naturale del diritto successorio in Giovanni Locke, in « Atti R. Ace. Scienze di Torino », LIX, 1924, pp. 745-774.

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ognuno prende e trasforma le corse ongmariamente in co­mune, queste cose dovrebbero tornare alla morte del pro­prietario alla comunità. Ma Locke esclude di proposito questa limitazione, e la esclude introducendo, accanto allo istinto di conservazione, l'istinto di propagazione, da cui nasce «nei figli il titolo a partecipare alla proprietà dei geni­tori e il diritto di ereditare i loro possessi » ( I , § 88) . Come non c'è bisogno di lavorare in proprio perché è sufficiente che lavorino per me altri di cui ho acquistato l'energia lavo­rativa; così non c'è bisogno di lavorare in proprio anche per un'altra ragione : basta essere discendenti legittimi di chi ha lavorato per noi .

Se sono accettabili le osservazioni di Macpherson sulla teoria della proprietà in Locke, non sono altrettanto accet­tabili, anzi sono francamente incredibili, le conclusioni che ne trae, qual! le due seguenti : a) Locke è uno scrittore col­lettivista e non individualista, inteso il collettivismo come quella dottrina che afferma la supremazia dello stato sull'in­dividuo; b) il potere supremo di Locke è assoluto come quello di Hobbes, e pertanto non c'è alcuna differenza tra il secondo trattato e gli scritti giovanili. Su quest'ultimo punto Macpherson si ricongiunge alla tesi di Polin, ma per una ragione diametralmente opposta : Polin vede una con­tinuità tra l'uno e l'altro Locke perché considera anche il primo Locke come un liberale; Macpherson vede una con­tinuità tra i due estremi, perché considera anche il secondo Locke come un assolutista . Per sostenere queste sue tesi paradossali Macpherson porta innanzi soprattutto due argo­menti : aa) la società di Locke è una società di classe fondata sulla disuguaglianza non solo economica ma anche spirituale degli uomini ( i poveri non sono neppure essere ragionevoli) ; bb) lo stato non ha altro scopo che la difesa della proprietà.

Entrambi gli argomenti sono, a mio giudizio, irrilevanti: altro è la struttura economica e sociale di una società, altro l� sua str?ttura giuridica che sola è in questione quando si discute dt assolutismo e di liberalismo. Macpherson con-

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fonde la considerazione sulla sostanza con la considerazione sulla forma, e trasporta il proprio giudizio politico sul ter-

. reno della teoria giuridica dello stato, di cui non riesce a cogliere i caratteri originali . Non si vede quale sia il nesso logico tra l'affermazione che lo stato appartiene solo ai pro­prietari e l'affermazione che lo stato è superiore agli indi- . vidui. Il Macpherson si limita ad affermare che se lo stato deve essere in gtado di proteggere le proprietà « l'autorità politica deve essere suprema sopra gli individui, altrimenti non ci può essere alcuna sicurezza che le istituzioni della proprietà essenziali a questo genere d'individualismo pos­sano avere sanzioni adeguate » 59• Ma che l'autorità dello stato debba essere suprema è un'affermazione così ovvia che non si sa quale conseguenza se ne possa trarre : i pro­blemi di fondo di una teoria dello stato vengono dopo, cioè quando si comincia a discutere se quest 'autorità suprema abbia limiti e di quale natura ed estensione. Ora su questo punto l'analisi di Macpherson è stranamente lacunosa: si richiama esclusivamente ai passi del capitolo nono in cui Locke, descrivendo il passaggio dallo stato di natura allo stato civile, dice che questo passaggio avviene con la rinun­cia da parte degli individui ai due poteri fondamentali che l'uomo possiede nello stato di natura, quello di provvedere alla propria conservazione e quello di punire coloro che vio­lano la legge naturale, e con il trasferimento di questi diritti al corpo politico. Ma sorvola sulle ragioni per cui avviene questo passaggio, che consistono essenzialmente, com'è noto, e come Locke non si stanca dal ripetere ad ogni occasione, nella conservazione della proprietà. A parte il fatto che il nostro autore sembra ignorare i passi, ben noti, in cui Locke afferma di intendere « proprietà » in senso largo sì da inclu­dervi altri diritti naturali come la vita e la libertà 60, la

59 Op. cit., p. 256. "0 « L'uomo [ . . . ] ha per natura il potere non soltanto di con­

servare la sua proprietà e cioè la propria vita, libertà e fortuna »

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8. N. BoBBIO - Da Hobbcs a Marx.

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difesa della proprietà, comunque intesa, costituisce dello stato non soltanto lo scopo, ma anche il limite : Hobbes, �

che mirava a eliminare il più possibile le limitazioni al po­tere dello stato, aveva concepito la proprietà non come un diritto naturale ma come un diritto positivo; Locke, in­vece, già nello stesso passo dianzi citato, che Macpherson adduce per sostenere la propria tesi : « . . . gli uomini, quando entrano in società, rimettono l 'eguaglianza, la libertà e il potere esecutivo, che essi hanno nello stato di natura, nelle mani della società », aggiunge poco dopo che « il potere della società, o il legislativo da essi costituito, non si può mai supporre che trascuri il bene comune, ma è obbligato a garantire la proprietà di ciascuno » (II, § 1 3 1 ) . Questo passo deve essere collegato coi due passi stranamente pas­sati sotto silenzio dal Macpherson, in cui Locke esamina i casi di dissoluzione del governo per abuso di potere da parte del legislativo o dell'esecutivo, e di conseguente legit­timazione del diritto di resistenza. Il primo passo è molto chiaro: « Il legislativo agisce contro la fiducia riposta in lui, quando tenta di violare la proprietà dei sudditi e di rendere sé o una parte della comunità padrone o signore arbitrario delle vite, libertà ed averi del popolo » (II, § 22 1 ). Il secondo passo è ancora più chiaro: « Il legislativo [ . . . ] ogni qual volta [ . . . ] tenta di porre in possesso proprio o in mani altrui il potere assoluto sulle vite, libertà e averi del popolo, con questa infrazione della fiducia perde il potere che il popolo ha posto nelle sue mani per fini del tutto opposti, e questo potere ritorna al popolo, che ha il diritto di riprendere la sua libertà originaria » (II, § 222 ) . Si noti quel « padrone o signore arbitrario » del primo passò e quel « potere assoluto sulle vite, libertà e averi » del

(II, § 87) ; « . . . non è • senza ragione che l 'uomo cerca e desidera unirsi in società con altri che già sono riuniti, o hanno intenzione di riunirsi , per la mutua conservazione della loro vita, libertà e averi, cose ch'io denomino, con termine generico, proprietà >> (II, § 123 ) .

Il corsivo è mio.

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secondo: il Locke degli scritti giovanili non aveva avuto alcun ritegno ad usare questi due aggettivi, quando aveva affermato che il sovrano, in qualunque modo sia creato, deve « necessariamente avere un potere assoluto e arbitrario su tutte le azioni indifferenti del suo popolo » 61 •

Macpherson cerca di sfuggire alla evidente difficoltà in cui si viene a trovare con l 'equiparazione tra scritti giova­nili e scritti della maturità, sottolineando che questo potere assoluto ed arbitrario di cui Locke parla negli scritti gio­vanili si esplica sulle cose indifferenti : ma per l 'appunto ciò che è mutato dai primi scritti agli ultimi è l'estensione di questo potere. Pur prescindendo dal mutamento avve­nuto nelle idee di Locke rispetto al potere del sovrano in materia religiosa, e restringendoci alla questione del potere in materia economica, nel secondo trattato la sfera di cose moralmente indifferenti che riguardano la formazione della proprietà e i rapporti economici, è di dominio esclus

_iv�

dell'individuo, e il corpo politico ne è soltanto a postenon il garante o il custode. Anzi che essere lo stato padrone assoluto e arbitrario dei beni degli individui (come in Bob­bes ), gli individui proprietari, cioè padroni di beni, finiscono per diventare anche i padroni dello stato. La novità della

. costruzione lockiana che ne fa il modello dello stato libe­rale-borghese è l'individuazione e la scoperta dello stadio

, dei rapporti economici tra gli individui precedente allo stadio , delle strutture politiche. Lo stato di natura non è più in Locke uno stato ipotetico, ma è lo stato in cui si sviluppano i rapporti economici naturali , e questi rapporti sono natu­rali per il fatto che si formano e si consolidano indipenden­temente dall'intervento dello stato : il quale, se mai, ne è l 'organo di registrazione e di coordinamento. La regolamen­tazione di quella vasta sfera di cose moralmente indifferenti che è costituita dalle azioni economiche, è affidata agli indi-

61 Scritti editi e inediti sulla tolleranza, ediz. cit., p. 156. I cor­sivi sono miei.

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vidui medesimi, cioè è sottratta al potere assoluto e arbi­trario dello stato. Far passare Locke per un « collettivista » significa non intendere il significato della sua riforma che consiste nel porre la sovrastruttura politica al servizio della struttura economica, nel subordinare il potere politico al potere economico, nell'invertire insomma i termini del pro­blema quali erano stati posti da Hobbes.

6. Locke e il giusnaturalismo. - Le ragioni del rinno­vato interesse per Locke in Italia non sono difficili da spie­gare : da un lato, l'avvento del nuovo regime democratico ha indotto a rileggere con rinnovata curiosità le opere classi­che del pensiero liberale, dall'altro, la crisi dell'idealismo, in genere della filosofia speculativa, ha aperto la strada verso una considerazione meno superficiale della tradizione della filosofia empiristica, e fatto volgere gli sguardi, con insolita attenzione, al pensiero anglosassone. È abbastanza signi­ficativo il fatto che tra i grandi fùosofi del passato Locke fosse stato in Italia, nell'ultimo secolo, uno dei meno tra­dotti. Nel 1 9 1 9 era apparsa nella collezioncina della « Cul­tura dell'anima » di Carabba una traduzione dell'Essay /or the Understanding of St. Paul's Epistles, a cura di F. A. Ferrari ; nel 1 925 la traduzione del seèondo dei Two Treatises, col titolo tradizionale della prima traduzione francese del 1 69 1 , Saggio sul governo civile, a cura di V. Beonio Broc­chieri ; nel 1 933 , la traduzione dell 'Epistola de to[erantia, presso Carabba, a cura dello stesso Ferrari. _ L'opera prin­cipale, incredibile a dirsi, non era più stata tradotta : l 'unica traduzione, tratta da quella francese del Coste, era apparsa nella « Collezione di Classici Metafisici » del Bizzoni a Pavia nel 1 8 1 9 (in otto piccoli tomi ). Bisogna riconoscere che questa grossa e strana lacuna. è stata colmata rapidamente ed egre­giamente, in pochi anni, subito dopo la seconda guerra mon­diale. Nel 1948 Luigi Pareyson diede alle stampe una buona traduzione dei Due trattati sul governo civile, cui si è già

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accennato, aggiungendo in appendice la prima traduzione italiana del Patriarcha del Filmer 6 2 • Pure nel 1 948 apparve, a cura di Armando Carlini, la traduzione del Draft B del­l'Essay, col titolo La conoscenza umana, presso l 'editore Laterza. Seguì nel 1 9 5 1 , presso lo stesso editore, Il primo abbozzo del Saggio, a cura di Vittorio Sainati : entrambe le traduzioni erano per così dire l 'anticipazione e la prepara­zione della traduzione dell'opera maggiore che apparve nel 1 9 5 1 nella collana dei « Classici della filosofia moderna » di Laterza, in due volumi, a cura di Camillo Pellizzi, con introduzione del Carlini ( e con un'appendice comprendente il Primo abbozzo nell'edizione del Sainati). Era anche il primo volume della celebre e fortunata collana, apparso dopo la guerra (ventiseiesimo della serie) : e la scelta, intenzio­nale o meno, del principe degli empiristi e dell'ispiratore degli illuministi per iniziare il nuovo corso dopo tanta pole­mica antiempiristica e antilluministica fu, per lo meno, di buon auspicio. Negli anni che seguirono la letteratura su Locke, a dire il vero, molto copiosa non è stata : se si toglie l'articolo di Ernesto De Marchi, già ricordato, che si avviava per il primo verso l 'esplorazione dei testi inediti, ma non

. ebbe la continuazione annunziata, e un lungo articolo di Alberto Pala scritto con intenti di epistemologo moderno 6" , un accurato studio di Giulio Pietranera sulla teoria del valore in Locke 64 (né l 'uno né l 'altro ricordati dal Viano), i saggi apparsi qua e là sulle riviste non sono stati tali da rappresentare un indirizzo specifico o da rivelare l'esistenza

62 Due trattati sul governo di John Locke col Patriarca di Robert Filmer, a cura di L. Pareyson, terzo volume della Collana dei « Classici politici », diretta da L. Firpo, Torino, U.T.E.T., 1948, pp. 555.

63 A PALA, Definizione operativa dei concetti di sostanza e di tabula rasa in J. Locke, « Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia della Università di Cagliari », XXI, 1 953, Parte II, pp. 221-270.

61 G. PrETRANERA, La teoria del valore di Locke e di Petty, in « Società >>, XIII, 1957, pp. 1021- 1060.

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e tanto meno l'avvenuto consolidamento di un nuovo inte­resse 65 •

Preceduta da un saggio sui rapporti tra Locke e Shaftes­bury 66, è apparsa nel '60 l'opera imponente per mole e ricchezza di documentazione di Carlo Augusto Viano. Per un primo approccio allo studio di quest'opera può giovare un raffronto con la monografia del Carlini, apparsa esatta­mente quarant'anni prima: mentre questa era prevalente­mente una esposizione del pensiero di Locke, ' l'opera di Viano ne è, nel senso migliore, una ricostruzione, che inse­gue il formarsi e lo svolgersi delle idee lockiane attraverso tutti gli scritti, maggiori e minori, editi e inediti, e attra­verso un'ampia esplorazione dell'ambiente culturale in cui queste idee si erano venute formando. La monografia del Carlini, nonostante i fasti dello storicismo, teneva scarsis- ·

simo conto del contesto storico. Viano, fin dalle prime bat­tute, mostra di essere particolarmente sensibile ai « condi­zionamenti storici », deplora la mancanza di « prospettiva storica » di gran parte della critica inglese, scarta le inter­pretazioni che hanno in qualche modo deformato o sminuito il significato e la funzione storica del pensiero di Locke facendone un inconsapevole precursore di Kant, si propone di mostrare che la filosofia di Locke non è nata -arbitraria­mente, ma « da un mutamento storico-culturale negli anni che vanno dalla morte di Cartesio al successo di Newton » 67, e nel corso della ricerca affronta, nutrito di molte letture, lo studio dei nessi tra Locke e la società, la cultura, la poli­tica, la vita religiosa dell'Inghilterra del tempo. Dell'impor­tanza attribuita dal Viano al Locke non gnoseologo si è

65 Da ricordare anche R. FoRNACA, La psicologia del fanciullo nel Saggio sull'intelligenza umana di f. Locke, « Il Saggiatore », IV, 1954, pp. 289-324; L'influenza di Erasmo sul pensiero educativo di Locke, « Il Saggiatore », V, 1955, pp. 405-433; VI, 1956, pp. 39-71 . 66 C. A . VIANO, I rapporti tra Locke e Shaftesbury e le teorie economiche di Locke, « Rivista di filosofia », XLIX, lg58, pp. 69-84.

67 Op. cit., Introduzione, passim, e p. 26.

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già detto. Il libro è diviso in tre parti, più o meno, di eguale lunghezza: di queste la prima è dedicata alla filosofia poli­tica e giuridica, la seconda alla ragionevolezza del cristia­nesimo e alla libertà religiosa, la terza alla filosofia e al pro­blema della conoscenza. Per ognuno di questi grandi temi, lo stato, la religione, la scienza, Viano segue lo svolgi­mento del pensiero di Locke dalle opere giovanili a quelle della maturità, mostrandone la graduale liberazione da posi­zioni di iniziale conservatorismo, mentre avviene il passaggio dall'età della Restaurazione alla gloriosa e pacifica rivolu­zione. Anche se l 'interesse politico prevale nei primi anni, quello religioso negli ultimi, e quello filosofico in senso stretto (teoria della conoscenza) negli anni della maturità, i tre temi fondamentali si sviluppano parallelamente e con­giuntamente in un'analoga linea di svolgimento. La esposi­zione di Viano si svolge su tre piani e in tre diversi tempi : alla fine sovrapponendo i tre piani si ottiene l 'immagine completa. Di decisiva importanza l 'incontro con Shaftesbury avvenuto nel '66-6 7, quando Locke ormai è giunto al mezzo del cammino della sua vita : il contatto con la vita politica attiva, coi problemi concreti della riforma della società e dello stato, stimola la sua intelligenza, gli apre nuovi oriz­_zonti di ricerca, lo avvicina alle idee progressive dei libe­rali. Il primo scritto, nato dall'amicizia col suo protettore, è di argomento economico (Some Considerations of the Con­sequences of the Lowering of I nterest an d Raising the V alue of Money, scritto nel '68, ma pubblicato soltanto nel 1 692), nel quale il Viano vede una prima applicazione della ricerca dei limiti delle possibilità umane che ben presto diventerà il metodo della filosofia lockiana ( il Draft A è del 1 6 7 1 ) .

Mettendo da parte l'annosa controversia su Locke sen­sista o criticista, Viano concentra la sua analisi sul concetto di esperienza: Locke e la teoria dell'esperienza. Alla fine del I Jibro dell'Essay, dopo la famosa critica all'innatismo, Locke aveva scritto: « Tutto ciò che ho da dire a favore dei prind�i su cui fonderò i miei ragionamenti è che mi

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appello unicamente all'esperienza . . . » ; subito dopo, all'ini­zio del cap. I del non meno celebre libro II sulle idee: « Donde ho tratto tutti questi materiali della ragione e della conoscenza? Rispondo con una sola parola: dall'esperienza. È questo il fondamento di tutte le nostre conoscenze; da qui esse traggono la loro prima origine » 68 • Per Viano l' espe­rienza in Locke serve a due scopi principali : come fonda­mento delle nostre nozioni (esperienza in senso generico) e come strumento di controllo dei nostri giudizi esistenziali (esperienza in senso specifico). I due usi si condizionano a vicenda. E attraverso entrambi Locke porta a compimento « la correzione del razionalismo seiccntesco », colpendone l'aspetto dogmatico e sistematico, mantenendone vivo l 'aspet­to critico 419• In questo uso critico e pratico della ragione egli rappresenta il più importante anello di congiunzione tra razionalismo e illuminismo e, si potrebbe aggiungere, il prototipo del filosofo moderno che attribuisce alla filoso­fia il compito del giudice e dell'arbitro, non del legislatore. ') Viano riprende spesso nel corso del libro il problema dei rapporti tra Cartesio e Locke: « Mentre Cartesio - egli dice - aveva preteso di essere il fondatore e il costruttore delle nuove discipline scientifiche, Locke riconosceva l 'auto­nomia del lavoro di un Boyle e di un Newton, e rivendicava per sé soltanto l'ufficio di loro collaboratore, con il modesto compito di sgombrare il terreno dalle scorie e dagli ostacoli, che il linguaggio dissemina sul cammino di coloro che ten­tano di edificare il mondo del sapere » 70 • Soffermiamoci su questa idea della filosofia come collaboratrice di ogni forma di sapere particolare e della stessa azione ragionevole : è un punto centrale. Anche in politica Locke si propose di essere null'altro che il collaboratore dell'uomo politico: la filosofia non doveva sostituire la politica, m� soltanto aiu-

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68 Saggio, ediz. cit., pp. 119 e 124. 69 Op. cit., p. 25. 7 0 Op. cit., p. 551 .

tarla ad uscire dalle interessate falsificazioni, come quella del Filmer. Egli non scrisse una precettistica né tracciò i linea­menti di un'ottima repubblica: elaborò una teoria del go­verno che avrebbe dovuto porre su più salde basi il potere politico e correggere gli errori che avevano arrecato tanti lutti al suo paese.

Per designare il risultato conseguito da Locke col suo appello all'esperienza e con la sua concezione della filosofia, Viano parla di « liberalizzazione del mondo del sapere », intendendo dire che per Locke non ci sono nel sapere gerar­chie o forme chiuse o oggetti privilegiati, ma ogni forma di sapere trova la propria legittimità entro i limiti in cui ricorre all'esperienza e fa uso della ragione . In conseguenza di questo allargamento entrava a pieno diritto nell'orto con­cluso della filosofia il mondo delle discussioni politiche, delle controversie religiose, dei conflitti morali . La filosofia a servizio dell'uomo nel senso piì-t ampio e completo della parola. Sarebbe bello parlare di · umanesimo filosofico, se la parola « umanesimo » nori fosse di solito accaparrata da coloro che hanno l 'empirismo in gran disdegno. Ma per quel che riguarda la funzione della filosofia, e in genere del sapere, occorre metter l'accento sul suo valore strumentale, non finalistico. Lo svincolamento delle varie forme di sapere da pregiudiziali metafisiche e teologiche, con la conseguente disarticolazione dell'universo del sapere, è poi stretta­mente collegato al riconoscimento della loro indipendenza e della loro disponibilità. Si ponga attenzione a questa fun­zione liberatrice dell'appello all'esperienza: essa proviene dal pensatore che è considerato il primo grande teorico dello stato liberale. Il nesso non può sfuggire, e non pare che Viano abbia voluto sfuggirvi, anche se il nesso non è espli­citamente dichiarato. Al di là delle discussioni sempre vive fra gli interpreti, come abbiamo visto, sul rapporto tra Locke filosofo e Locke politico, tra questa tesi filosofica e quella tesi politica, c'è una profonda unità nella filosofia lockiana, .ed è un'unità d'ispirazione e di compiti. I con-

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cetti di liberalizzazione, indipendenza, disponibilità che Via­no adopera per definire il significato dell'appello lockiano all'esperienza sono propri del linguaggio giuridico e servono altrettanto bene a definire alcuni tratti salienti dello stato liberale. E poi l 'esperienza ha, come si è detto, anche la funzione di controllare i nostri giudizi esistenziali : espe­rienza in senso specifico. Qui il rapporto è inverso : un'ope­razione squisitamente intellettuale, come quella del con· trollo, propria delle scienze sperimentali, diventa in uno stato ben congegnato, alla portata di tutti, in uno stato secondo ragione, un'operazione politica . Uno stato liberale è uno stato in cui vengono predisposte forme di controllo del potere, allo stesso modo che un sapere controllato dal ricorso all'esperienza è un sapere liberato da presupposti metafisici.

Tra filosofia e politica, infine, c'è un collegamento an­cora più profondo : l'idea della riforma del sapere che va di pari passo con la riforma della società . L'una non può essere concepita senza l 'altra: la scienza moderna ha biso­gno di libertà, s 'intende di libertà politica; ma lo stato di libertà ha bisogno di leggi fondate sull'esame metodicamente condotto degli interessi e degli istinti ( che sono il diritto naturale nell'interpretazione lockiana). Questa solidarietà tra concezione del sapere e teoria politica traspare da tutta l'in­dagine, anche se Viano vi insiste raramente, pur avendola sempre presente . Ma uno dei luoghi in cui vi accenna è illu­minante : riguarda il problema dei limiti rispettivamente del sapere e del governo. Come nel campo del sapere Locke si era proposto non già di dettare i contenuti ma di fissare « i limiti di compatibilità e di legittimità dei contenuti più diversi », così nella sfera della politica aveva mirato a defi­nire i limiti dei poteri che in una società vengono inevita­bilmente in conflitto 7 1 • Più sinteticamente: al problema dei limiti del sapere, da una parte, contro una concezione acri-

7 1 Op. cit., p. 273.

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tica della filosofia, fa da contrappeso, dall'altra, il problema dei limiti del potere, contro la concezione paternalistica e dispotica dello stato. Si potrebbe allora concludere che Locke è insieme e per le stesse ragioni teorico consapevole della scienza moderna e dello stato moderno. A differenza della filosofia di Cartesio, la filosofia lockiana ha per la sua stessa natura un esito etico-politico. La filosofia di Cartesio fu al centro di una grande riforma del sapere, quella di Locke anche di una riforma politica e religiosa. Il nucleo vitale e fondamentale del libro di Viano sta proprio nell'aver visto Locke in funzione del contributo dato dalla sua filo­sofia « all'elaborazione degli schemi culturali della nuova società » 7 2 •

Giustamente centrale è per Viano il problema del con­senso : « Tutta la dottrina politica lockiana - egli dice -può essere intesa come il tentativo di elaborare la tecnica di una politica basata sul consenso » 73 • E a questo proposito aggiunge : « L'opera politica di Locke, che sarebbe diven­tata il testo sacro del liberalismo settecentesco, aveva così tra i suoi presupposti proprio la filosofia empiristica di Locke » 74 • È l 'indirizzo empiristico della sua filosofia che lo introduce alla scoperta del meccanismo umano dell'obbe­dienza in cui avrebbero potuto congiungersi i precetti parti­colari dell'arte politica con le norme generali del diritto natu­rale, le quali costituiscono di per se stesse i presupposti più generali della possibilità del consenso. Soprattutto nell'esame dell'opera di Laslett abbiamo insistito sul fatto che il pro­posito principale di Locke, quando scrisse la sua opera poli­tica maggiore, era stato quello di mostrare che il potere politico si distingue da ogni altra forma di potere perché acquista il proprio titolo di legittimità esclusivamente dal consenso. Con ciò Locke non voleva dire né che non potesse

7" Op. cit., p. 2 1 . n Op. cit., p . 156. " Op., cit., p. 156.

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esistere di fatto un potere politico non fondato sul consenso né che qualsivoglia forma di consenso generasse un potere politico. Un potere politico non fondato sul consenso dava luogo a una forma corrotta di stato, era un potere politico di fatto ma non secondo la natura ideale del governo, quale da saggio indagatore delle leggi naturali che regolano la vita dell'uomo singolo e in società Locke aveva scoperto ed indi­cato: non si dimentichi che Locke, da buon giusnaturalista, non si era proposto il compito di descrivere la vita reale di uno stato, bensì di tracciare le linee di riforma dello stato presente secondo una prospettiva che gli era parsa la più conforme ai dettami della natura . D'altra parte, non ogni forma di consenso poneva le basi di una società civile, per esempio non il consenso della multitudo hobbesiana che rinuncia in favore del sovrano a tutti i diritti che competono all'individuo nello stato di natura, tranne uno, quello alla vita; ma solo l'acconsentire a quella rinuncia minima che è di per se stessa sufficiente ad eliminare gli inconvenienti dello stato di natura, senza instaurare uno stato di sogge­zione quasi totale, c che si risolve poi, rovesciando la posi­zione hobbesiana, nel mantenere tutti i diritti acquistati nello stato di natura, tranne uno, quello di farsi giustizia da sé.

Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che proprio in questo rovesciamento della posizione hobbesiana, che con­duce al positivismo giuridico, sta il carattere genuino del giusnaturalismo lockiano : la parte maggiore della vita umana, ovvero la vita familiare, la vita religiosa, la vita economica, si svolge, o per lo meno si dovrebbe svolgere, secondo le direttive delle leggi naturali, e quindi trova il suo naturale luogo di origine e di crescita, nello stato di natura. La società politica o civile è un nuovo stato solo -formalmente, non sostanzialmente : dello stato di natura non è, come quella hobbesiana, una soppressione, ma un consolidamento. Il suo scopo è puramente e semplicemente quello di proteggere tutto ciò che gli individui acquistano

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i l

nello stato di natura, di fare in modo che le conquiste natu­rali, ottenute cioè seguendo le leggi della natura, non vadano miseramente perdute a causa dell'unico inconve­niente di quello stato, la mancanza di un giudice imparziale. Hobbes aveva espresso nella sua concezione dello stato di natura gli orrori della guerra civile e aveva invocato la poli­tica risanatrice del Leviatano; Locke attribuisce allo stato di natura i caratteri di una pacifica società mercantile in espansione, che trova nella società politica con un potere limitato e controllato una garanzia per il proprio sviluppo. La concezione lockiana dello stato di natura contiene già in nuce il concetto di società come sfera di tutto ciò che pre­cede lo stato, e costituisce una sfera intermedia tra l 'indi­viduo isolato e lo stato, e sarà poi l'oggetto lentamente guadagnato, attraverso i primi economisti, della sociologia. Più correttamente, anziché di stato di natura, per compren­dere quella parte importantissima della vita umana che si svolge prima e fuori dello stato e si contrappone alla società civile e politica, si dovrebbe parlare di società naturale, comprendente tutte quelle forme di rapporti intersoggettivi che si svolgono indipendentemente dallo stato, e che lo stato non ha altro compito che di trasformare, per usare l 'inci­siva formula kantiana, da provvisori in perentori : tra que­sti, in primis, i rapporti familiari e quelli economici (si pensi alla famiglia e alla società borghese di Hegel che precedono il momento fìnale dello stato).

Di fronte all'importanza e all'estensione che assume la società naturale nella concezione lockiana, non mi persuade l'insistenza con cui Viano ha voluto metter l'accento non tanto sulla società naturale quanto sulla società civile, inter­pretata come uno stato intermedio fra la società natur�le e il governo, tanto da farne quasi il nodo di una nuova inter­pretazione. A parte il fatto che Locke usa « società civile »

come sinonimo di « società politica » , c molto più spesso questa seconda espressione, per « società civile o politica »

egli intende, secondo la terminologia del tem o, né più né ·

\)O' s ro.t, c,\ ;,(' o 125

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meno che lo stato, cioè quella particolare forma di asso­ciazione che si distingue da tutte le altre possibili associa­zioni dallo scopo per cui è istituita, scopo che consiste nel mettere in comune non questo o quel bene, ma la forza : « Vi è società politica soltanto là ove ciascuno dei membri ha rinunciato al proprio potere naturale, e lo ha rimesso nelle mani della comunità » (II, § 87) . Non è chiaro donde Viano abbia tratto la sua interpretazione delle società civili come « concrezioni d'interessi sulla cui base sorgerà lo stato vero e proprio » 75, e a qual titolo possa parlare di una « realtà della società civile e della spontanea organizzazione sociale prima e fuori dello stato » 76, con un'accezione di « società civile » che riecheggia magari senza volerlo la bur­gerliche Gesellschaft di Hegel, tradotta abitualmente e mala­mente in « società civile ». Ciò che Viano chiama società civile è in realtà la società naturale, di cui la società civile dovrebb'essere, in una costituzione secondo natura, il riflesso quanto più è possibile fedele. Questo scambio tra società civile e società naturale, oltre ad attribuire a Locke l 'idea di un momento intermedio tra stato di natura e stato, che non gli appartiene, finisce per oscurare uno dei motivi più importanti della teoria politica lockiana : l 'allargamento dello stato di natura ad una vera e propria società naturale, in cui gli uomini seguendo le leggi naturali istituiscono la famiglia e la proprietà, e perseguendo i loro interessi instau­rano quei rapporti di disuguaglianza di fatto, che sono giu­sti proprio perché naturali, e in quanto giusti e naturali, lo stato fondato sul rispetto della legge naturale dovrà rico­noscere e legittimare.

Il giusnaturalismo di Locke, che è poi tutt'uno col suo liberalismo e con la sua teoria dello stato limitato e con­trollato, si esprime principalmente nell'affermare l 'esi­stenza e la bontà d'una società naturale distinta dalla

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75 Op. cit., pp. 214-215 . 76 Op. cit., p. 266.

società politica . Poiché la società naturale è di fatto preva­lentemente la rete dei rapporti economici, questo giusnatu­ralismo lockiano contiene una teoria del primato dell'econo­mico sul politico, mentre l'antigiusnaturalismo di Hobbes si risolve nella teoria opposta del primato del politico sul­l'economico. Il perno del sistema lockiano è la teoria della proprietà : orbene, la proprietà è l'istituto fondamentale della vita economica. La scoperta di Locke, almeno di fronte ai suoi immediati predecessori, è che la proprietà è un istituto naturale, non civile ; il suo assunto è quello di far retroce­dere l 'origine della proprietà allo stato di natura. Di fronte ad Hobbes, che aveva fatto della proprietà un istituto di diritto positivo, Pufendorf aveva iniziato, ma non condotto sino in fondo, la retrocessione, facendone un istituto di diritto naturale convenzionale. Solo Locke riesce, con la sua teoria del lavoro come titolo d'acquisto della proprietà, riportarla al fondo, cioè all'energia dell'individuo, unico signore del proprio corpo. Attraverso l'acquisto e lo scam­bio dei beni i destini dell'uomo si consumano nella società naturale : quando sorge la società civile il gioco è già fatto. Non per nulla la ragione principale per cui sorge la società civile, cioè quella società che ha per iscopo la convivenza pacifica, è la conservazione della proprietà. Del resto la sot­tile ed ampia analisi che Viano fa delle ragioni politiche e ideologiche della tesi lockiana, maturata in un certo am­

biente economico interessato alla libera espansione della ricchezza, conferma questo giudizio, e dà una risposta non evasiva alla domanda in che senso Locke possa dirsi giusna­turalista. Il giusnaturalismo di Locke è la fiducia nello svi­luppo naturale, cioè secondo leggi naturali, e non civili, delle condizioni basilari della vita economica : questa fiducia lo induce a sottrarre quanto più materia è possibile alla regolamentazione della legge civile . Per afferrare la chiave del sistema, uno dei passi decisivi è quello in cui Locke scrivé che « le obbligazioni della legge di natura non ces­sano nella

_ società, ma in molti casi diventano più coattive »

1 27

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( II , § 135) . La società civile assume e riassume la società naturale, e vi aggiunge la coazione, dal momento che il fine esclusivo per cui la società civile sorge è la comunione e l 'unione della forza . Il giusnaturalismo, col qual nome s'in­tende la teoria che fa posto al diritto naturale nel sistema del diritto vigente e lo considera gerarchicamente superiore al diritto civile, ha assunto storicamente tre forme secon-

' doché la legge naturale venisse considerata o come principio di derivazione del diritto positivo, o come fondamento del­l 'intero sistema del diritto positivo, o come l'insieme delle norme primarie rispetto alle quali il diritto positivo costi- , tuisce l'insieme delle norme secondarie 77 • Delle tre forme quella che fa maggiori concessioni al diritto naturale o in altre parole, estende maggiormente l'ambito del di;itt� naturale rispetto a quello del diritto positivo, è la terza. Il sistema lockiano può essere considerato come un'espres­sione tipica di questa terza concezione. In questo senso Locke è un classico del giusnaturalismo moderno.

77 Sulla differenza tra le tre forme di giusnaturalismo mi sono s�ffer�ato p�ù. a lungo nell'articolo Giusnaturalismo e positivismo giuri­drco, m « RlVlsta di diritto civile », VIII, 1962, pp. 503-515.

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IV. Leibniz e Pufendorf

l . È nota la grande influenza che ebbe sulla valutazione dell'opera del giusnaturalista seicentesco, Samuel von Pufen­dorf, il giudizio severamente negativo che ebbe ad esprimere su di lui il Leibniz, oltre che in molte delle sue lettere, nel breve scritto conosciuto col titolo di Monita quaedam ad Samuelis Pufendorfii principia. Meno nota, forse, è l'im­portanza dire_tta e indiretta, che questo scritto ebbe nella storia del giusnaturalismo settecentesco, in cui si trovò a rappresentare, per così dire, il punto di rottura con la scuola giusnaturalistica del Seicento iniziata con Grazio, e ad assu­mere la posizione di capostipite della scuola di diritto natu­rale culminata con Wolf. Perciò si è ritenuto opportuno di richiamare l 'attenzione sulle vicende della sua compo­sizione e della sua fortuna.

L'occasione alla stesura di questo breve scritto sul Pu­fendorf fu offerta al Leibniz da Just Christoph Boehmer, pro­fessore di politica ed eloquenza alla Università di Helm­stadt 1, il quale, secondo la testimonianza dello stesso Leibniz,

· « volendo tenere lezione » sul notissimo libro istituzionale del Pufendorf, De officio hominis et civis 2, o, secondo un'altra non dissimile testimonianza, volendo « spiegare ai

1 Da non confondere col più celebre giurista contemporaneo Just Herrning Boehmer ( 1674-1749), professore alla Università di Halle.

2 Remarques de M. de Leibniz sur le premier tome des Nouvelles littéraires de la Haye (Dutens, V, p. 610) .

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9. N. BoBBIO - Da Hobbes a Marx.

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suoi uditori in lezioni private questo libretto 3, pensò di rivolgersi al celebre filosofo di Hannover per averne un autorevole giudizio. Il Boehmer, che molto probabilmente non conosceva personalmente il Leibniz, non gli si rivolse direttamente, ma gli fece chiedere il parere da uno zio materno a cui doveva essere strettamente legato 4, il celebre Gerhard Molanus, abate di Loccum, matematico e teologo, direttore del Concistoro della Chiesa luterana di Hannover, legato a sua volta da vecchia amicizia al Leibniz per i ten­tativi, da entrambi insieme compiuti, di unificare la Chiesa cattolica con quella protestante, e per i rapporti, insieme intrattenuti in quella circostanza, col Bossuet. Per­tanto, come ricorda lo stesso Leibniz in un'aggiunta al ms. riprodotta dal Ravier, il giudizio fu steso nell'aprile del 1 706 in forma di lettera al Molanus � .

Contrariamente alla maggior parte degli scr1tt1 occasio­nali leibniziani, che dovettero attendere molti anni, o anche più d'un secolo, per vedere la luce, se pur la videro, il giu­dizio sul Pufendorf fu pubblicato tre anni dopo la sua com­posizione, ad Helmstadt nel 1 709, a cura dello stesso richie�

dente, il quale, quasi certamente con l 'autorizzazione del­l'autore 6 , lo aggiunse come appendice a certo suo pro-

3 Ep. XXVII ad Seb. Kortholtum, 2 luglio 1715 (Dutens V p. 328).

' '

4 Ciò che si può dedurre dal fatto che il Molanus negli ultimi anni della vita ebbe a designare come suo eventuale successore e C<;Jadiutore al pos�o di direttore del Concistoro luterano appunto suo mpote Boehmer, Il quale fu poi nominato nel 1 723 alla morte dello zio, abbate di Loccum.

'

5 E. RAVIER, Bibliographie des oeuvres de Leibniz Paris 1937 P·. 1�1 : Il Ba.rbe:rrac, in una nota informatissima del su� scrit�o anti�

le1bmzlano, d.1 cm parle.remo in seguito, precisa che il ms. fu consegnato al Molan':ls Il 2� aprile (Jugement d'un Anonyme, in PUFENDORF, Les devozrs de l homme et du citoyen, traduits du latin par Jean Barb

.eyrac, V! ed., Londres, 1 741 , II, p . 195, n. 1 ). l! Rav�er, �oc. cit., dice che la pubblicazione sarebbe avvenuta

se?za. � a�tonzz�z�one dell'autore. Ma a parte il fatto che nei passi leibmz1am relat1v1 allo scritto in questione non si trova traccia di

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gramma premesso a dodici temi di discussione intorno alla opera del Pufendorf, presentandolo, anonimo, con questo titolo : Epistola Viri Excellentissimi ad Amicum qua Monita quaedam ad principia pufendorfiani operis de officio homi­nis et civis continentur 7 • Questa pubblicazione del Boehmer fu l 'inizio della straordinaria fortuna dell'operetta; la quale, due anni dopo, nel 1 7 1 1 , veniva pubblicata in una rivista letteraria di Lipsia, il Neuer Bucher Saal der Gelehrten Welt, come lo s}esso Leibniz riferisce in qualche sua lettera 8 ; poco dopo, nel 1 7 12 , secondo una testimonianza del Bar­beyrac 9, ignorata nella bibliografia del Ravier, veniva ristam­pata, col nome dell'autore, in appendice ad un'edizione, oggi piuttosto rarlf;' del De o/ficio pufendorfiano, a cura di Alexan­der Pagenstecherus, presso l 'editore van Velsen (Gronin­gen); e ancora nel 1 716, come si può ricavare da un altro passo del Barbeyrac 1 0, riappariva in una seconda edizione del Programma, citato, del Boehmer. Ma sino a questo punto l'operetta leibniziana, ristampata, sl, più volte ma in edizioni a diffusione assai limitata, non doveva essere conosciuta al di là di una ristretta cerchia di dotti 1 1 •

questo �ancat? consenso, il Boehmer stesso ebbe a protestare per una allusiOne lfl questo senso del Barbeyrac (da cui trasse probabil­mente l'informazione il Ravier) con una lettera inviata allo stesso Barbeyrac (nov. 1719) , in cui asseriva di aver pubblicato l'opuscolo leibniziano col consenso dell'autore (Jugement d'un Anonyme, cit., p. 195, n. 1 ).

7 JusTI CHRISTOPIIORI BoEHMER Polit. et Eloqu. Prof. Programma di�putationibus XII pufendorfianis ab ]o. Christoph. Leonhard Ge­ra-Varisco respondente in iis perpetuo publice instituendis praemissum. Accedit Epistola Viri Excellentissimi ad Amicum qua Monita quaedam ad principia pufendorfiani operis de 0/ficio hominis et civis continentur Helmstadii, ex officina Hammiana, 1709.

'

8 E p. XIX ad Se b. Kortholtum, 8 settembre 1 71 1 : « Epistola mea [ . . . . . . ] inserta est nuper uni ex menstruis libellis litterariis qui Lipsiae germanico sermone prodeunt titulo: Biichersaal » (Dutens V p. 318): Cfr. anche Remarques, cit.

' '

9 Jugement d'un Anonyme, cit., p. 195, n. 2. 1 0 ]ugement d'un Anonyme, cit., p. 1 95, n. l . 1 1 Il Barbeyrac, osservando malignamente che l'anonimo autore

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La sua più larga notorietà comin�iò quando Jea� �ar­beyrac, che sin dal 1707 aveva pubblicato la fortunat1ss1ma traduzione - volgarizzazione francese dell'operetta pufendor­fìana ( seguita ad un anno di distanza alla traduzione del­l'opera maggiore, il De iure naturae et gentium), ne intrapren­deva la traduzione in francese, accompagnandola con una severa ed acuta confutazione e pubblicava l'una e l'altra insieme in appendice alla quarta edizione dei Devoirs de l'homme et du citoyen (Amsterdam, P. de Coup, 1 7 18), col titolo di Jugement d'un Anonyme sur l'origina! de l'Abregé de Pufendorf avec des Réflexions du Traducteur. Questa confutazione, che il più recente studioso del Barbeyrac con­sidera «nella sua brevità mordente uno dei saggi migliori » del giurista francese 12, rappresentava, insieme con una di­fesa del Pufendorf compiuta da uno dei più noti seguaci della nuova scuola giusnaturalistica, una riconferma dei punti fondamentali di distacco tra la scuola giusnaturalistica che ri­conosceva in Grazio il suo capo, e la posizione leibniziana che ritornava sotto certi aspetti ad una posizione tradizionale. Pro­prio per la nettezza di questo contrasto, la traduzione-confu­tazione del Barbeyrac era destinata a richiamare, assai più di quel che fosse avvenuto sino allora> l'attenzione sullo scritto leibniziano, il quale frattanto, nella chiara traduzione francese seguita dalle annotazioni del professore di Losanna, parte­cipava della straordinaria fortuna dell'edizione francese del­l 'operetta pufendorfìana 13 , si che ci vien fatto di ritrovarlo,

dell'opuscolo antipufendorfiano aveva_ le sue. buone ragi?ni per nascon­dersi, aggiunge che fu questo forse ti motivo che lo m�usse a pub; blicare le sue meditazioni in un programma accademico « perche gli scritti di questo genere non son soliti avere un� l�rga_ diffusione » (op. cit., p. 194). Del resto il Kortholt non era m�t nusctto a leggere l'opuscolo leibniziano sino a che era stato pubbhcato solo nel Pro­gramma del Boehmer (Ep. XIX ad Seb. Kortholtum, cit., p. 3 18).

12 P. MEYLAN, Jean Barbeyrac, Lausann�, 1937, p. 1 10 . 1 3 I l Meylan (op. ci t., p. 61, n. l ) ncorda dopo la quarta,

citata, la quinta di Amsterdam ( 1734-35 ), la sesta di Londra ( 1741) , e sei edizioni postume.

l 32

riprodotto nel testo originale latino, in appendice alla popo­lare e nota edizione del De officio, riproducente quella del Barbeyrac ( « ex instituto et curo notis Barbeyracii » ), a cura di Sebastiano Masson, di cui la prima edizione usci a Gies­sen nel 1729, seguita a breve distanza da parecchie altre '\ e ancora, tradotta in italiano dal testo francese, nell'edizione veneziana a cura di Michele Grandi 1 5 •

Quando uscl la traduzione e confutazione del Barbeyrac, il Leibniz era morto da pochissimo tempo. Egli non poté rispondere, ma non mancarono i suoi difensori. Tra questi, un giovan.e giurista olandese, Balthasar Branchu, il quale, in un'opera stampata a Leida ( 1721 ), Observationes ad ius romanum, aggiunse una risposta alle argomentazioni antilei­bniziane det'Barbeyrac 16 • Ma questi, sdegnando di entrare in una pubblica polemica col suo contraddittore, si limitò a riferire, brevemente, quindici anni dopo, nella successiva edizione della sua traduzione, ciò che aveva risposto al Bran­chu quando questi gli aveva fatto pervenire il primo volume

14 La seconda, a Giessen, è del 17 3 1 ; la terza, a Francoforte e Lipsia, con prefazione di Fr. Ayrmann, informatiss�mo sulle vicende delle edizioni pufendorfiane, esce nel 17 41 , segm ta da altre. Tra l'altro, lo Ayrmann ci fa sapere che tra le migliori edizioni dell'operetta del Pufendorf è da annoverare quella di Gerschomus Carmichael, apparsa ad Edimburgo nel 1724 e poi riprodotta a Ba�ilea nel 17 39; in cui l'editore, professore di filosofia a Glasgow, « st preoccupò dt soddisfare alcune richieste espresse da Leibniz nel suo opuscolo pu­fendorfiano » (p. 9). Effettivamente il Carmichael, pur essendo fervido ammiratore del Pufendorf, cercò in certi suoi Supplementa et obser­vationes al De ufficio di attenuare il distacco tra teologia morale e giurisprudenza, seguendo un suggerimento d'origine leibniziana.

1 5 I doveri dell'uomo e del cittadino tali che a lui dalla legge naturale sono prescritti, Venezia, 1761 . Poco dopo l'operetta leibniziana sarà ristampata, sola, nel 1768 a Ginevra nella raccolta del Dutens ( IV, 3, pp. 275-283) col titolo di Munita quaedam ad Samuelis Pu­fendorfti principia Gerh. Wolth. Mola�o directa. E �a �lo�a �on. v_err

più riprodotta in nessuna delle successtve raccolte dt scnttl letbmztam. 16 Viri illustris God. Guil. Leibnitii Judicium de Puffendorfti

Otficio hominis et civis a clarissimo viro Joanne Barbeyraccio nuper impugnatum mmc a BALTH. BRANCHU jcto vindicatum, I, pp. 1 17-143.

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delle sue Observationes 17• Al di fuori della polemica diretta e personale, non bisogna dimenticare infine che la confuta­zione di Leibniz ad opera del Barbeyrac, assunta quasi come il manifesto della scuola giusnaturalistica che faceva capo a Grazio, fu il punto di partenza da cui un giovane filosofo leibniziano e giurista, che doveva lasciare buon nome fra i dottrinari del diritto internazionale, Emmerich de Vattel, prese le mosse per riconfermare la sua adesione ai princìpi giuridici leibniziani, allora ormai solidificati in sistema dal Wolf, e per esprimere i punti di dissenso dalla scuola pufen­dorfiana, in uno scritto che è testimonianza non ultima della fortuna non soltanto polemica ma costruttiva dell'operetta leibniziana: Essai sur le fondement du droit nature! et sur le premier principe de l'obligation où se trouvent tous les hommes d'en observer les loix 18 •

3 . L'atteggiamento di Leibniz nei confronti del Pufen­dorf, per quel che si può conoscere dal suo epistolario, non fu generalmente, dalle prime lettere sino alle ultime, bene­volo, sia che le sue critiche colpissero la persona, sia che fossero rivolte allo studioso. Leibniz conobbe Pufendorf personalmente 19 ; e per quanto sia difficile dire di quale in­tensità fosse questa relazione, pure è certo che oltrepassò i limiti di una occasionale e convenzionale contatto fra dotti · ' era fondata non soltanto sulla conoscenza delle opere, di cui pure il Leibniz dimostrò di essere accuratamente infor-

17 Les devoirs de l'homme et du citoyen, V ed., Amsterdam, 1735, p. V e seguenti.

18 _Pubblicat? n_ella �accolta Le loisir philosophique, Dresda, 1747;

ma scntto p_er dtchtarazwne dell'autore nel 1742 quando il Barbeyrac era a�cora vtvo (MEYLAN, op. cit., p. 188, n. 1). Giova ricordare altresì c�e �1 . Vattel aveva gi� preso posizione tra i seguaci della scuola letb?tztana . co?- . uno scritto stampato a Lei da nel 17 41 : Défense du systeme letbmtten contre !es objections et !es imputations de M.de Crousaz.

19 Un corrispondente di Leibniz, suo conterraneo, Philipp, in una lettera del 22 nov. 1679, allude ad un incontro che avrebbe avuto con Leibniz in casa di Pufendorf (Gerhardt, IV, p. 281) .

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mato, da quello straordinario lettore che era e anche per l 'interesse che egli nutriva per i due campi dell'attività scientifica. del Pufendorf, la giurisprudenza e la storia, ma sulla comunità dell'ambiente sociale e culturale in cui en­trambi, che tra l'altro, non si dimentichi, erano nati nella stessa terra a breve distanza di anni (essendo il Pufendorf nato in un villaggio della Sasson,ia meridionale il 1 632 e il Leibniz a Lipsia il 1 646), si trovarono a vivere in alcuni momenti della loro vita. Il Leibniz fece una parte dei suoi studi universitari a Jena, dove sei anni prima aveva studiato pure il Pufendorf; ed ebbe ivi per maestro il matematico Erhard Weigel che un'influenza decisiva esercitò sulla sua form�zione spirituale, e da cui pure il Pufendorf aveva impa­ra�o 1l

.metod� della r�cerca scientifica traendo ispirazione e

pnncìp1 per l elaboraz10ne della sua prima opera di diritto naturale, gli Elementa iurisprudentiae universalis libri duo pubblicati all'Aia nel 1 660 . Anzi, proprio nell'ambiente di Jena,

. e ?robabilmente nella cerchia degli allievi del Weigel,

d Le1bmz ebbe a raccogliere e a divulgare una malignità a proposito di quest'opera del Pufendorf, con un atteggiamento che dimostra sin dall'inizio (è questa infatti la prima testi­

O:�nianza rimastaci dei rapporti tra i due filosofi) una dispo­SlZlOne poco favorevole nei riguardi del suo conterraneo 20 •

2� Scrive il Leibniz a Giacomo Tomasio, in una lettera datata da Jena Il. 2 settembre 1663 : « Unus mihi Dominus Pufendorfius notus est, qm tamen sua elementa iurisprudentiae ex Weigelii nostri Ethica Euclidea manuscripta dicitur fere tota efformasse » (Dutens IV 1 p. 20). Ora, che la prima opera pufendorfiana fosse ispirata

' all'i�se�

gnamento del We!gel è .a�messo a p�ù riprese dall'autore, il quale nella st�ssa prefaziOne dtchr.ara . csscrg�t stato questo. lavoro suggerito dal Wet�el. Ma .che. la de�rvazton� sta an?ata �I. dt là di una pura e. �emp!rce app�1caz10ne dt alcum schemt logtct alla materia giu­ndtca, e smenttt.o dal contenuto stess? dell'opera, ove il preteso met<?d� ma�ema

_uc.o rappresenta . se�pbc�mente una superstruttura

postlccta, . dt. cm ti Pufendorf st ltberera nell'opera maggiore. Lo stesso Lerbmz dovette ricredersi forse dopo la lettura, se nella Nova Methodus, che è del 1667, nominò il Pufendorf tra coloro che avevano tentato « laudabiliter » un nuovo metodo nel diritto: passo da ri-

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In seguito il Leibniz, com'è noto, fu in istretti rapporti col barone di Boineburg, da cui ebbe importanti missioni di fiducia. Appunto il barone di Boineburg, allora cancelliere dell'Elettore di Magonza, promotore e fautore di studi, sol­tanto pochi anni prima delle sue relazioni con Leibniz, pre­cisamente nel 1 663, si era rivolto ad alcuni celebri giuristi del tempo e, tra gli altri, anche al Pufendorf, perché qual­cuno di essi prendesse l'iniziativa di elaborare un corpo sistematico delle leggi naturali; al quale invito solo il Pufen­dorf aveva risposto con una lettera di piena adesione, in cui indicava il metodo che si sarebbe dovuto seguire in un'opera del genere e ne abbozzava il sistema 21• Effettiva­mente quest'opera veniva dal Pufendorf compiuta non molti anni dopo, e fu il celebre trattato De iure naturae et gen­tium, uscito per le stampe nel 1 6 72 . Il Leibniz, in quel tempo a contatto col Boineburg, ebbe modo di vederne uno schema 2 2 (forse quello stesso contenuto nella lettera al Boineburg? ) e di seguire le vicende della composizione, onde in una lettera del 1 670, cioè di due anni anteriore alla pub­blicazione del libro e datata, si badi, da Magonza, era in grado di comunicare allo Spener questa primizia : « Pufen­dorfii corpus iuris naturalis sub praelo sudare dudum mihi perscriptum est » 2 3 , usando proprio l'espressione « corpus iuris naturalis » di cui appunto il Boineburg si era valso nel su citato invito ai giuristi del tempo e sotto la quale quindi si preannunciava, per lo meno agli amici del Boineburg, l 'opera maggiore del Pufendorf.

Oltre a questi contatti, svoltisi attraverso i fili del mondo della cultura, il Leibniz ci conserva pure il ricordo di una

cardare oltretutto perché questo « laudabiliter » è una delle poche parole di lode che il Leibniz abbia pronunciato nei riguardi del Pufendorf. Cfr. anche Nuovi saggi, trad. Cecchi, II, p. 136.

2 1 Questa lettera si può leggere in appendice a C. THOMASIUS , Paulo plenior historia iuris naturalis, Halle, 1719, pp. 156-166.

22 Cfr. Lettera a Conring, 9-19 aprile 1670 (Gerhardt, I, p. 170). 23 Ep. II ad Phil. Spenerum (Dutens, V, p. 468) .

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relazione non accademica, se pure avvenuta anch'essa per interposta perso�a e destinata, da quel che si può facilmente capire, a .non migliorare l'intesa tra i due filosofi, e se mai a confermarlo nel giudizio poco lusinghiero che egli si era venuto facendo del Pufendorf, estendendolo dallo studioso alla persona. Ci riferisce infatti il Leibniz, in una lettera al Bierling, che il Pufendorf aveva accettato un tempo di curare un certo suo affare in !svezia ( dove appunto il Pufendorf si era recato nel 1 668 rimanendovi poi vent'anni ) , ma di aver poi appreso da amici che se n 'era disinteressato 24 • Quale che fosse la natura dell'affare, l 'episodio è una riprova che i rapporti tra i due filosofi non erano soltanto di natura libresca.

4. Certamente il Leibniz fu anche un buon lettore delle opere pufendorfiane. Come abbiamo visto, cita gli Elementa nella Nova Methodus 2 ' , cosl come parla con conoscenza del De statu imperii germanici ( 1667 ) in alcune lettere, forse senza riconoscere l'autore nascosto sotto lo pseudonimo di Severino da Monzambano. Conobbe anche le opere storiche e stimò la storia svedese ( Commentariorum de rebus sue ci cis libri XXVII) superiore a quella brandenburghese (De rebus gestis Friderici Wilhelmi Magni e De rebus gestis Fride­rici III). Ma il giudizio che diede dello storico non fu più lusinghiero di quel che aveva dato del filosofo e del giurista : gli rinfaccia infatti mediocre erudizione, non sempre felice scelta del materiale documentario, povertà di metodo, e gli riconosce soltanto il merito di una copiosa raccolta di mate­riale 26 • Anche gli scritti polemici, coi quali il Pufendorf si difese, aggredendo, dalla copiosa letteratura libellistica che

24 Ep. II ad Frid. Guil. Bierling, 28 ottobre 1710 (Dutens, V, p. 358; Gerhardt, VII, p. 488).

25 Ne parla pure in Pro;et d'un art d'inventer, in Opuscules et fragments inédits, a cura di L. Couturat, Paris, 1903, p. 180.

26 E p. I e E p. II ad Bierling (Dutens, V, pp. 355 e 358; Gerhardt, VII, pp. 487 e 488).

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il suo libro maggiore aveva provocato, e che costituiscono la parte più viva e speculativamente più notevole dell'opera pufendorfiana, non furono sconosciuti al Leibniz il quale ne fu, come al solito, informato non appena videro la luce in volume 27 • Giudicandoli, ne coglie esclusivamente l'aspetto polemico e ne condanna l'acrimonia e l 'ostinazione nell'er­rore 28 • Anche di una minore opera postuma, infine, inti­tolata ]us foeciale divinum, pubblicata nel 1 695, tiene conto nella Théodicée, dimostrandosene per altro, tanto per cam­biare, insoddisfatto 29 • Quanto al De officio, non è neppure il caso di parlare, perché si tratta dell'opera a cui il Leibniz dedicò la confutazione di cui qui in particolare si discorre, ed è anche quella che nelle lettere è più spesso ricordata.

Rimane però da osservare che di tutte le opere pufendor­fiane proprio quella di cui non ci è accaduto di trovare un giudizio è l'opera maggiore, il De iure naturae, di cui può darsi che il Leibniz non avesse mai approfondito la cono­scenza; il che può servire a spiegare, come vedremo, la ra­gione per cui la critica leibniziana alla filosofia del Pufen­dorf sia sotto certi aspetti manchevole e debba essere accolta con molte cautele.

5. Se poi nell'atteggiamento costantemente malevole del Leibniz verso il Pufendorf siano intervenuti, oltre al dissenso teoretico che fu nettissimo, anche motivi d'ordine personale o influenze esterne d'ambiente, è difficile dire, e in fondo

27 Apparve nel 1686 col titolo di Eris Scandica qua adversus libros de iure naturae et gentium obiecta diluuntur, e !--eibniz in un� lettera a Piaccio del 10 maggio 1687, da Hannover, scrtveva : « Nesc10 an cl. viri Sam. Pufendorfii librum legeris Eridis parum amabili titulo in-scriptum [ . . . . . . ] Ego scriptoris ingenium c?lo �tque .e�os�lor, �ed vel-lem moderati sibi nonnihil, minusque acnter mveht m drsscnttentes » (Dutens, VI, p. 44).

28 Ep. II ad Bierling, cit. (Dutens, V, p. 358; Gerhardt, VII, p. 488).

29 Essais de théodicée, § 182. Cfr. pure Lettera a Th. Burnet, Hannover, febbraio 1 700 (Dutens, VI, p. 269 ; Gerhardt, III, p. 2 7 1 ).

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ha anche poco importanza. Naturalmente si è parlato pure in questo caso d'invidia; ma il Bono, che per primo vi accenna 30, è probabile avesse sottocchio la maliziosa allu­sione del Earbeyrac che, fingendo di non sapere chi fosse l 'anonimo autore dei Monita pubblicati nel Programma del Boehmer, mentre lo sapeva benissimo perché il Leibniz in persona, punto sul vivo da certe critiche apparse nella se­conda edizione del Droit de la nature et des gens ( 1712 ) , gli aveva fatto pervenire attraverso i l Turrettini un esem­plare dei Monita 3\ avanzò l'ipotesi che l'autore si fosse coperto sotto l'anonimo tra l'altro per evitare che si cre­desse essere stato egli indotto a denigrare un'opera tanto celebre per desiderio di mettersi in mostra o per invidia. Certamente il Barbeyrac non nutriva alcuna simpatia per il grande filosofo e sappiamo che si era espresso in modo molto aspro sul suo carattere 32 • Ma non bisogna dimenticare che il Barbeyrac, ammiratore e difensore del Pufendorf, all'ombra del quale era cresciuta la sua fama, e legatissimo per amicizia e per gratitudine al collega losannese de Crousaz, che era noto come un fervente avversario di Leibniz, da lui accusato di spinozismo, non era nella condizione migliore per esprimere un giudizio spassionato 33 •

30 Nella prefazione alle opere giur!diche le�bniziane ne�la rac�olta del Dutens Giovanni Battista Bono scnve: « Scro non defmsse qmb�s Leionitii iudicium de Puffendorfii scriptis parum probatum futt, eousque ut eum accusaverint invidia actum tanti viri famam obscurare voluisse » (Dutens, IV, 3, p. 44 ) .

31 La notizia è data dal Meylan (op. cit., p. 110) che. la trae dall'epistolario del Barbeyrac; ma può essere efficace�ent: mtegrat� con quel che dice Leibniz in due lettere a Bourguet, m cm parla de1 suoi -rapporti col Barbeyrac (Gerhardt, III, pp. 590 e 593 ). . .

32 Racconta il Meylan che il Barbeyrac, avendo conoscmto d Leibniz a Berlino disse di essere stato più volte testimone della « gelosia che egli �utriva cont�o _

tutti coloro c�e si dist!nguevano nel�a repubblica delle lettere », e gh rtmproverava d1 « esercitare una specie di dominio » (op. cit., p. 109). . . . 33 È ciò che del resto gli nmprovera Loms Bourguet, amico insieme di Leibniz e di Barbeyrac, in una interessante lettera inedita al marchese Du Lignon ( 18 gennaio 172 1 ), riportata in parte dal Meylan:

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Peraltro non si può escludere che una certa prevenzione, di cui difficilmente si possono indicare motivi plausibili 34 , ma forse risalente sino al periodo degli studi di Jena, fosse pure nell'atteggiamento di Leibniz, che non sdegnò di dar corso a voci calunniose, o per lo meno maligne, sul conto del Pufendorf, come nel caso già ricordato dei rapporti col Weigel, e a riferire episodi che sono da considerarsi, volendo interpretarli nel modo più benevolo, come tipici prodotti del pettegolezzo accademico. Un giorno raccontò che il Pu­fendorf nella sua prima opera, quella stessa che in altra occasione disse ricalcata sul Weigel, aveva lodato Hobbes e attinto da lui per ingraziarsi l'elettore palatino, Carlo Ludo­vico, ammiratore del filosofo inglese, e che solo per questo aveva ottenuto la cattedra di Heidelberg 3� . Era un giudizio avventato: risulta evidente dalla lettura dell'opera che l'in­fluenza dello Hobbes sul pensiero del Pufendorf fu effettiva e non soltanto dichiarata in forma esornativa nel proemio; inoltre l'ammirazione per l'autore del De Cive non venne mai meno neppure nella grande opera scritta in !svezia, quando evidentemente il Pufendorf poteva fare a meno della protezione dell'elettore palatino.

6 . La critica che il Leibniz muove al Pufendorf nei Mo­nita è imperniata schematicamente su questi tre punti : il fine, l'oggetto e la causa efficiente del diritto naturale. Quanto al primo punto, il dissenso è di questa natura : Pufendorf sostiene che il fine della scienza del diritto naturale si esau­risca nell'ambito di questa vita; Leibniz sostiene, al contra-

« Permettetemi di rifiutare nel caso in questione le idee del nostro dotto amico di Olanda [ il Barbeyrac era allora professore a Groningen] . Potrei dimostrarvi che c'è della prevenzione, qualora esaminassi in vostra presenza le riflessioni che si trovano nell'ultima edizione del piccolo Pufendorf » (op. cit., p. 130).

34 Vi allude il Barbeyrac nell'Avis posterieur alla IV ed. dei Dev<_Jirs, ove parla di « prove particolari » che egli avrebbe sull'ani­mosità segreta di Leibniz verso Pufendorf.

3 ·' Dutens, VI, p. 3 1 1 .

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rio, che siffatta scienza debba aver riferimento anche alla vita futura. �ul secondo punto il dissenso è non meno netto: il primo afferma che la scienza del diritto naturale si occupa delle azioni esterne dell'uomo, essendo le azioni interne og­getto della teologia morale; il secondo ritiene che siano oggetto del diritto naturale non soltanto le azioni esterne ma anche le interne. Infine, sul terzo punto si apre la con­troversia principale, che tocca il fondamento metafisica dell'una e dell'altra dottrina: il Pufendorf, almeno secondo il Leibniz, sarebbe un volontarista, che giustifica l'obbliga­torietà del diritto fondandola esclusivamente sulla volontà di Dio; a questa tesi Leibniz risponde che la giustizia è fondata sulle eterne verità che sono oggetto dell'intelletto divino.

Ai fini del presente saggio interessa, proprio in ragione dell'importanza che il giudizio del Leibniz ha assunto nella valutazione del pensiero del Pufendorf, rilevare i limiti entro cui può essere ritenuto valido, e quindi sottrarre in parte il Pufendorf al grave peso della condanna leibniziana. A tale scopo ci soccorrono due osservazioni.

Prima di tutto, le critiche del Leibniz, provenendo da _una concezione filosofica compiuta, non discutono il nucleo generatore del sistema avversario e quindi non entrano nel suo" interno, limitandosi a contrapporre ad un sistema un altro sistema, giustificato prevalentemente da intendimenti moralìstici e pedagogici, come si rileva dal tono abbastanza visibilmente edificante dello scritto, dove, forse anche per la preoccupazione di non dire, parlando ad un teologo, cose spiacevoli ai teologi, si contrappone alla dottrina giuridica proposta dal Pufendorf una scienza « sublimior » , fondata su principi che eccitino « ad veram virtutem », e si afferma che la fondazione di principi « migliori » gioverebbe « alla gioventù e allo Stato » . In una contrapposizione siffatta dei due sistemi si spiegano e in un certo senso si svuotano la prima e la seconda critica, di cui si è fatto cenno, cioè quelle relative al fine e all'oggetto, tanto più poi se si pon

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mente al fatto che lo sviluppo del pensiero filosofico-giuri­dico non ha seguito la direzione di Leibniz, ma quella dei giusnaturalisti nuovi, di fronte ai quali, moventisi nel clima d'opinione dell'illuminismo, la posizione leibniziana appare come un ritorno puro e semplice alla tradizione 36• E in vero l'esigenza fondamentale, cui i giusnaturalisti nuovi, come Pufendorf, Barbeyrac e Thomasius, ubbidivano, era la

_ se�a­

razione tra la giurisprudenza e la teologia, che aveva d1 mua la fondazione di una vera e propria giurisprudenza naturale in antitesi ad una giurisprudenza cristiana, nella stessa dire­zione in cui filosofi e moralisti andavano elaborando una religione naturale e una morale naturale. Incisivamente, il Pufendorf si espresse in un suo scritto polemico così: « Cum nobis ius naturae et gentium hoc fine tractetur ut sit regula actionum et negotiorum inter omnes homines non qua Christiani sed qua homines sunt [ . . . ] igitur absurdum est Christianis dare peculiare principium eius iuris, quod ipsis commune cum aliis etiam non Christianis esse debet » 3 7 • Leibniz, in ciò veramente filosofo cristiano e non illuminista, seguì la strada opposta : se un significato univoco si può dare alla sua filosofia giuridica, questo non può essere trovato che nel costante sforzo da lui compiuto, in un atteggiamento che non poteva essere più chiaramente polemico nei confronti dei novatori, di fondare un diritto naturale e delle genti « se­cundum disciplinam Christian o rum » 38• Ne parla pure nello

36 Monita, § 3. E a guisa di commento si leg�a 9uesto bran? di lettera : « Opinio quae ius naturae ad externa restrtnglt nec vetenbus philosophis, nec iurisconsultis olim gravioribus placuit donec Pufend?r­fius vir parum iurisconsultus et minime philosophus quosdam seduxlt » (E p. ad Henricum Kestnerum, 21 agosto 1709, Dutens, IV, 3, p. 261 ).

·1 7 S pecimen controversiarum circa ius naturale i p si nuper mota­rum, in Eris Scandica, in appendice all'edizione del De iure naturae et gentium, Francofurti et Lipsiae, 1744, tomo II, p. 203.

38 Si vedano le T abulae duae disciplinae iuris naturae et gentium secundum disciplinam Christianorum, nella raccolta del Mol!at� Rechts­philosophisches aus Leibnizens ungedruckten Schnften, Letpztg 1885, pp. 7-12.

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scritto antipufendorfiano 39, opponendo alla separazione tra giurisprudenza e teologia una giurisprudenza universale che concordi « •cum sana theologia », e appoggiandosi all'auto­rità ( assai debole in verità ) di Johann Ludwig Prasch, au­tore di un'opera di intenti dichiaratamente antitetici a quelli dei giusnaturalisti nuovi, intitolata appunto Designatio iuris naturalis ex disciplina Christianorum ( 1 689) 40 •

7 . In secondo luogo le critiche di Leibniz si riferiscono esclusivamente al De officio, che, com'è noto, è un riassunto dell'opera maggiore, ad uso prevalentemente scolastico, e ove quindi il pensiero del Pufendorf esce monco e non perfetta­mente fondato, essendo per lo più data come presupposta la giustificazione critica delle varie soluzioni. Perciò le osser­vazioni leibniziane possono sembrare sovente sfocate, e là dove sembrano colpire nel segno colpiscono spesso un bersa­glio fittizio. Il che vale soprattutto per la critica al terzo punto che è quella che sta certamente più a cuore al Leibniz impe­gnato nella polemica anticartesiana, sì che vi ritorna su qua­si sempre ogni qual volta gli accade di parlare del Pufendorf 41 : sarebbe pure la più mortale se fosse giusta la direzione del tirò. Il Leibniz considera il Pufendorf, troppo scheletricamen­te, come un puro ed ingenuo volontarista da mettere sullo stesso piano di Hobbes 42 • Ma prescindendo dal fatto che il problema del fondamento metafisica del diritto è posto dal Leibniz in termini di alternativa, quasi che non ci fossero che

3" Monita, § 2. Così pure in Codex iuris gentium diplomaticus, § 13 . "

40 Di questo scrittore e delle sue opere parla sdegnosamente ii Thomasius in Paulo plenior historia, cit., pp. 127-128.

41 Cfr. Dutens, I, p. 427; IV, 3, pp. 267, 275; V, pp. 303, 358, 371 .

42 Monita § 4. Vedi anche Considerationes ad opus Hobbesii, Dutens, I, p. 427. Del resto il Leibniz _e:a d'opini�ne c�e « P�fendor­fius in quibusdam hobbesianorum op11�10num retment10r fmt quam par erat » (Ep. V ad Bierling, 7 lugho 17 1 1 , Dutens, V, p. 371 ; Gerhardt, VII, p . 499).

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due soluzioni possibili, opposte l'una all'altra 4 3 , a chi tenga presente l'opera maggiore del Pufendorf, soprattutto il cap. 2 ( § § 5 e 6 ) del libro I e il cap. 3 ( § § 4 e 5) del libro II, e le precise ed esaurienti risposte date agli avversari, soprattutto al Velthemius che già lo aveva attaccato fraintendendolo, sullo stesso punto 44, non sfuggirà che il Pufendorf si era già poste le obiezioni mossegli dal Leibniz, e vi aveva ri­sposto sostenendo una tesi che non può ridursi, nella contesa tra volontaristi ed intellettualisti, né all'una né all'altra del­le due tesi, ma si deve considerare un tentativo di conciliarle entrambe in una posizione superiore . Questa superiore posi­zione del Pufendorf traeva dalla volontà divina il fondamen­to dell'obbligatorietà delle leggi naturali, e dalla natura delle cose, a cui la volontà divina era assurdo si volesse sot­trarre, dopo averla costituita, la garanzia della loro immu­tabilità, onde la legge naturale finiva per essere obbligato­ria perché voluta, e necessaria, se pure di una necessità ipotetica e non assoluta, perché corrispondente alla natura delle cose. La raffigurazione che il Leibniz si era fatta del Pufendorf, e ribadiva ogni qualvolta gli accadeva di porre il problema del principio del diritto, era insomma una raf­figurazione deformata con la quale egli finiva per imporre all'avversario, a causa di una conoscenza non completa della dottrina criticata, un pensiero non suo.

Al di là di queste brevi note, un commento adeguato del dissenso tra il filosofo giurista e il giurista filosofo, dopo quel che si è detto sull'importanza assunta dall'opuscoletto leibniziano nella storia del diritto naturale e sui termini

43 Si veda ad esempio la Méditation sur la notion commune de la justice, in Mollat, op. cit., p. 56.

41 Valentino Veltheim ( 1 645-1700), teologo protestante, scrisse �or:tro il Pufendorf una dissertazione, V era et genuina fundamenta zum naturae contra Pufendorfium, Jena 1674; e replicò in Introductio a� Hugonis Grotii librum de iure belli ac pacis, Jena 1676. Per la :1spos�a del Pufendorf, cfr. l'Appendice alla Epistola ad Scherzerum, m Erzs Scandica, cit., pp. 79-89, e Spicilegium controversiarum, cit., p. 223 e ss.

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della controversia, dovrebbe mettere in discussione la vali­dità di due indirizzi fondamentali della filosofia giuridica che hanno' avuto in Leibniz e in Pufendorf due grandi e ben caratterizzati rappresentanti, con l'avvertenza che il dissidio importante, cioè storicamente rilevante, tra l'uno e l'altro indirizzo, non fu tanto quello vertente sopra l'accet­tazione o meno della concezione volontaristica, che faceva restare la controversia sopra un piano astrattamente specu­lativo, ma era se mai quello implicito nella prima e nella seconda critica, che esprimeva il contrasto tra la concezione teologica e la concezione laica e mondana del diritto, ed era un contrasto destinato ad agire anche in una sede più ampia di quella delle dispute dei dotti.

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l O. N. BoBBIO - Da Hobbes a Marx.

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V. Kant e le due libertà

l . Nel linguaggio politico vi sono due modi prevalenti di intendere la parola « libertà», su cui mi sono intrattenuto altrove 1 • « Libertà » significa ora facoltà di compiere o non compiere certe azioni, non essendo impediti dagli altri con me conviventi o dalla società come complesso organico o più semplicemente dal potere statale; ora, potere di non ubbi­dire ad altre norme che a quelle che io stesso mi sono impo­ste . Il primo significato è quello che ricorre nella dottrina liberale classica, secondo la quale « essere liberi » significa godere di una sfera d'azione, più o meno larga, non con­trollata dagli organi del potere statale; il secondo significato è quello adoperato dalla dottrina democratica secondo la quale « esseri liberi » significa non già non aver leggi, ma dare leggi a se stessi. Si dice infatti « liberale » colui che persegue il fine di allargare sempre più la sfera delle azioni non impedite, mentre si dice « democratico » colui che tende ad accrescere il numero delle azioni regolate mediante processi di autoregolamentazione. Onde « stato liberale » è quello in cui l'ingerenza del potere pubblico è quanto più è possibile ristretta; « democratico » quello in cui sono più numerosi gli organi di autogoverno.

Dal punto di vista della teoria generale del diritto la

1 Nel saggio Della libertà dei moderni comparata a quella dei posteri, in Politica e cultura, Torino, Einaudi, 1955, p . 172 e ss. In seguito, ai due concetti di libertà ha dedicato la sua prolusione di Oxford I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, Oxford, At the Clarendon Press, 1958.

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differenza esistente fra questi due significati di libertà si può formulare nel seguente modo. Permesso e obbligatorio sono due termini contraddittori, onde si dice che « tutto ciò che non è permesso è obbligatorio », e inversamente « tutto ciò che non è obbligatorio è permesso » . Perciò se si intende, conformemente al primo significato, « libertà » come sfera di ciò che è permesso, essa si identifica col non­obbligatorio. E invece, nel secondo significato, « libertà » coincide con la sfera dell'obbligatorio, seppure di ciò che è obbligatorio in forza di una auto-obbligazione. In altre parole, mentre il primo modo di intendere la parola fa coin­cidere la sfera della libertà con lo spazio non regolato da norme imperative (positive o negative), col secondo modo la sfera della libertà vien fatta coincidere con lo spazio re­golato da norme imperative, purché queste norme siano autonome e non eteronome.

La differenza di questi due usi del termine libertà nel linguaggio politico e giuridico non ci deve far dimenticare che si possono entrambi ricondurre a un significato comune, che è quello di autodeterminazione : la sfera del permesso, a ben guardare, è quella in cui ognuno agisce senza costri­zione esteriore, il che torna a dire che agendo in questa sfera si agisce non determinati da altri che da se stessi; e così pure che un individuo o un gruppo non ubbidiscano ad altre leggi che a quelle imposte a se stessi, significa che quel­l'individuo o quel gruppo si autodeterminano. Mi pare molto significativo a questo proposito il concetto di libertà natu­rale delineato da Locke là dove, parlando dello stato di na­tura, dice che lo stato di natura « è uno stato di perfetta liber­tà di regolare le proprie azioni e disporre dei propri possessi e delle proprie persone come si crede meglio, entro i limiti della legge di natura senza chiedere permesso o dipendere dalla volontà di nessun altro » 2 • Dalle due frasi che ho sottolineato '

" Due trattati sul governo, trad. Pareyson, Torino U.T.E.T., 1948, p. 2.35. Il corsivo è mio.

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si vede che la liberà come assenza di vincoli ( « agire come si crede meglio » ) coincide con la libertà come autodetermina­zione ( « senza dipendere dalla volontà di nessun altro » ) . Risalendo al significato comune di libertà come autodeter­minazione, la differenza tra dottrina liberale e democratica si potrebbe riformulare in questo modo: la prima tende ad allar­gare la sfera della autodeterminazione individuale restrin­gendo quanto più è possibile quella del potere collettivo; la seconda tende ad allargare la sfera della autodetermina­zione collettiva restringendo quanto più è possibile la re­golamentazione di tipo eteronomo. Il movimento storico reale degli stati moderni è avvenuto nella direzione di una graduale integrazione delle due tendenze, la cui formula sin­tetica, in termini di autodeterminazione, potrebbe essere espressa in questo modo: « Fin dove è possibile, occorre lasciare libero sfogo all'autodeterminazione individuale ( li­bertà come non-impedimento ) ; dove non è più possibile, occorre fare intervenire l 'autodeterminazione collettiva ( li­bertà come autonomia ) ». In altre parole : ciò che un uomo è in grado di decidere da solo sia lasciato alla libera deter­minazione del suo volere; là dove c'è bisogno di una deci­sione collettiva, egli vi partecipi in modo che anche questa sia o appaia una libera determinazione del suo volere.

Pur partendo da un senso comune di libertà, l'uso di­verso del termine, da cui abbiamo preso le mosse, dipende dal fatto che la dottrina liberale considera il problema della libertà in funzione dell'individuo singolo, la dottrina demo­cratica in funzione dell'individuo in quanto partecipe di una collettività (di una volontà comune) . Le due dottrine rispon­dono a due domande diverse. La prima: « Che cosa signi­fica essere libero per l'individuo considerato come un tutto a sé stante? ». La seconda: « Che cosa significa essere libero per un individuo considerato come parte di un tutto? » . Malgrado i l significato comune di libertà come autodeter­minazione, le due diverse prospettive conducono a dare due risposte che accentuano due diversi aspetti del pro-

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blema della libertà, e a introdurre due usi diversi del ter­mine libertà. Per chi si pone la prima domanda, il problema della libertà si presenta soprattutto come richiesta di limiti all'azione dello stato, donde la libertà come non-impedi­mento; per chi si pone la seconda domanda, lo stesso pro­blema si presenta soprattutto come richiesta di limiti ad ogni forma di legislazione imposta dall'alto, donde la libertà come autonomia. In altre parole, la risposta alla prima doman­da conduce ad accentuare il momento del « permesso », la ri­sposta alla seconda il momento della « auto-obbligazione » .

2 . Se s i leggono le due più celebri definizioni di libertà politica che siano state date nel '700, quella di Montesquieu e quella di Rousseau, ci si avvede che corrispondono per­fettamente ai due significati finora illustrati : la prima cor­risponde alla tematica della dottrina liberale, la seconda è la gloriosa capostipite di tutte le dottrine democratiche. Montesquieu nel cap. II, libro XII, dell'Esprit des lois, intitolato appunto Che cosa è la libertà?, scrive : « La . libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permetto­no » 3• Il problema fondamentale per Montesquieu è quello dei limiti del potere statale: bisogna che certi limiti ci siano, e vi siano mezzi sufficienti per farli osservare. La libertà è il frutto gradito di questi limiti: libero è colui che può fare tutto quello che vuole entro quei limiti. Rousseau nel cap. VIII, libro I, del Contra! social, intitolato Sullo stato civile, scrive invece: « La libertà è l 'obbedienza alla legge che ci si è prescritta » 4 • Per Rousseau il problema fondamentale è quello della formazione della volontà gene­rale : la sola libertà possibile nello stato è che i cittadini diano -

leggi a se stessi. La libertà coincide non con l 'autodetermina­zione individuale, ma con l'autodeterminazione collettiva.

3 Lo spirito delle leggi, trad. Cotta, Torino, U.T.E.T., 1952, I, p. 273.

4 Contra! social, ed. Halbwachs, Paris, Aubier, 1953, p. 1 15 .

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Chi colse esattamente la distinzione fra i due significati di libertà fu il Constant, anche se con una trasposizione storica arbitraria chiamò la prima « libertà dei moderni » e la seconda « libertà degli antichi », e con una valutazione che oggi giudicheremmo poco accettabile esaltò la prima per abbassare la seconda. Egli contrappone la libertà come godi­mento privato, la libertà individuale, come propriamente la chiama, alla libertà come partecipazione al potere politico, id est alla libertà collettiva. « Il fine degli antichi - egli scrive - era la distribuzione del potere politico tra tutti i cittadini di una medesima patria : ciò essi chiamavano li­bertà. Il fine dei moderni è la sicurezza nei godimenti pri­vati; essi chiamano libertà le garanzie accordate dalle isti­tuzioni a questi godimenti » 5• Egli combatte Rousseau e Mably che avevano scambiato l'autorità del corpo sociale con la libertà, e proclama che l'indipendenza individuale essendo il primo bene dei moderni, non bisogna chieder loro di sacrificarla in cambio della libertà politica . « La libertà individuale, io lo ripeto, ecco la vera libertà mo­derna. La libertà politica ne è la garanzia ; e quindi anche la libertà politica è indispensabile. Ma domandare ai popoli d'oggi di sacrificare, come facevano gli antichi, la totalità della loro libertà individuale alla libertà politica, è il mezzo più sicuro di distoglierli dall'una, e quando ci si sarà riu­sciti, non si tarderà di strappar loro anche l'altra » 6• La libertà politica era da lui accettata solo in quanto essa fosse un mezzo per realizzare la libertà individuale che era il fine supremo della convivenza civile.

A noi non interessa qui l'ideologia liberale del Constant : ci interessa il fatto che egli abbia mostrato con una precisione sino allora sconosciuta la differenza fra i due modi diversi di intendere la libertà nel linguaggio politico, sì che dopo

5 Cito dall'Antologia di scritti di Constant, curata da G. Cordié, Milano, Hoepli, 1946, p. 213 .

" Op. cit., pp. 223-224.

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di lui la confusione diventa più difficile. Non cosl prima: un esempio abbastanza cospicuo di questa confusione si trova nell'opera politica di Kant. Lo scopo delle pagine che seguono è · appunto quello di mettere in evidenza che Kant si vale di entrambi i concetti di libertà senza peraltro mai distinguerli chiaramente; e lasciando credere, attraverso la definizione esplicita, di adoperare il termine di libertà nel senso rousseauiano di autonomia, di autodeterminazione col­lettiva, non lascia vedere chiaramente che la libertà, da lui invocata ed elevata a fine della convivenza politica, è , la libertà come non-impedimento, la libertà individuale.

3 . La principale difficoltà nell'interpretazione della teo­ria politica kantiana consiste, a mio avviso, nella differenza tra la definizione esplicita e quella implicita di libertà giu­ridica, ossia tra la definizione che lo stesso Kant presenta ai suoi lettori e quella che l'interprete può desumere dal significato globale della sua teoria. Un giurista potrebbe parlare di divergenza tra l'interpretazione letterale e quella secondo lo spirito o l'intenzione.

In una nota dell'opuscolo Per la pace perpetua Kant scrive : « La libertà giuridica (e come tale esterna) non può essere definita, come si fa ordinariamente, come la facoltà di fare tutto ciò che si vuole pur di non recare ingiustizia ad alcuno [ . . . ] . Meglio è definire la mia libertà esterna (cioè giuridica) come la facoltà di non obbedire ad altre leggi esterne, se non a quelle cui io ho potuto dare il mio assen­so » 7 • Non diversa è la definizione che si trova in un passo della Metafisica dei costumi, ove si parla della « libertà le­gale », e la si definisce « la facoltà di non obbedire ad altra

' Tutte le citazioni di Kant sono tratte dal volume Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto di Emmanuel Kant, Torino, U.T.E.T., 1 956. I passi citati sono stati confrontati col testo tedesco e in qualche caso ho introdotto lievi correzioni per rendere la tradu­zione più aderente al testo originale. Il passo a cui si riferisce la presente nota si trova a p . 292.

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legge, che non sia quella a cui egli [ il cittadino] ha dato il suo consenso » 8 • Queste definizioni non danno luogo ad equivoci: ' Kant intende per « libertà giuridica » il potere di dare collettivamente leggi a se stessi, cioè fa coincidere il significato di « libertà » con « autonomia politica ». Anzi, nel primo passo citato, negando che per libertà giuridica si possa intendere « la facoltà di fare tutto ciò che si vuole pur di non recare ingiustizia ad alcuno », pare voglia escludere espressamente il significato di libertà come non-impedi­mento� Si può infatti integrare questo passo con la defini­zione che Kant dà di « facoltà giuridica » nella introduzione

l alla Metafisica dei costumi: « È permessa ( l ici tu m) un'azione che non è contraria all'obbligazione; e questa libertà, che . non è limitata da nessun imperativo oppposto, si chiama facoltà (facultas moralis) » 9 Di qua risulta che l'uso del termine, che egli rifiuta, per designare la libertà giuridica, è quello che si riferisce alla sfera delle azioni permesse con­trapposte alle azioni comandate (o proibite) .

L'ispirazione rousseauiana di questa concezione kantiana della libertà politica è innegabile . È del resto noto, e facil­mente documentabile, che là dove Kant enuncia la formula del contratto originario che sta a fondamento ideale (non storico-empirico) dello stato, riecheggia parole e frasi del­l'autore del Contra! social. Il contratto originario per Kant è quello « secondo il quale tutti ( omnes et singuli) nel popolo rinunciano alla libertà esterna, per riprenderla di nuovo subito come membri di un corpo comune, vale a dire come membri del popolo in quanto vien considerato come stato (universi) . Non si può quindi dire che l'uomo nello stato abbia sacrificato ad un certo scopo una parte della sua libertà esterna innata in lui, bensì che egli ha completamente abbandonato la libertà selvaggia e senza legge per ritrovare nuovamente la sua libertà in generale non diminuita, in

8 Scritti, p. 500. •• Scritti, p. 398.

153

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una dipendenza legale, vale a dire in uno stato giuridico, perché questa dipendenza scaturisce dalla sua propria vo­lontà legislatrice · » 1 0 • Rousseau aveva scritto: « Ciò che l'uomo perde col contratto sociale è la sua libertà naturale e un diritto illimitato a tutto ciò che lo tenta e che egli può raggiungere; ciò che guadagna è la libertà civile e la proprietà di tutto ciò che possiede » 1 1 •

4. È noto altresì che, per quanto ripeta la formula rous­seauiana, Kant non è affatto uno scrittore democratico . Il contratto originario, che egli pone a fondamento dello stato; non è un fatto storico, ma una pura idea regolativa. Ciò significa che per Kant, affinché uno stato possa dirsi con­forme al principio del consenso, non è necessario che il consenso sia di fatto manifestato attraverso i procedimenti ca­ratteristici della forma democratica di governo, ma basta che il sovrano emani leggi tali che sarebbero dal popolo approvate se tale consenso gli fosse richiesto (ma non occorre di fatto che tale richiesta gli venga fatta). Kant ripete in più luoghi questo concetto. La formulazione più limpida è forse quella che si legge nel saggio Sopra il detto comune: questo può essere giusto in teoria, "ma non vale per la pratica ( 1793 ) : « Esso [ cioè il contratto originario ] è invece una semplice idea della ragione, ma che ha indubbiamente la sua realtà (pratica) : questa sua realtà consiste nell'obbligare ogni legi­slatore a far leggi come se dovessero derivare dalla volontà comune di tutto un popolo, e nel considerare ogni suddito, in quanto vuole essere cittadino, come se egli avesse dato il suo consenso a una tale volontà » 1 2 • Questo contratto originario è puramente e semplicemente un criterio per di­stinguere lo stato buono dallo stato cattivo; non implica, al contrario, alcuna conseguenza pratica rispetto alle istituzioni

1 54

10 Scritti, p. 502. 1 1 Contrat social, ed. cit., p . 11 5. 1 " Scritti, p. 262 .

da adottare o alle tecniche politiche da impiegare. Sin dal saggio Risposta alla domanda : che cosa è l'illuminismo? { 1784 ) , che è d i un decennio anteriore alle opere sinora menzionate, Kant aveva posto il problema della libertà in-

, tesa nel senso di autonomia non come esigenza di riforma delle istituzioni ma come criterio astratto di distinzione della forma buona di governo dalla cattiva, in questi termini : « La pietra di paragone di ciò che può imporsi a un popolo come legge è nella questione : se un popolo potrebbe im­porre a se stesso una tale legge »

1 3 •

Se si chiama stato democratico quello in cui i l principio della autonomia è attuata attraverso certe istituzioni carat­teristiche, quale, ad esempio, un parlamento elettivo, lo stato ideale di Kant, in cui il consenso è soltanto un criterio ideale di distinzione tra buone leggi e cattive leggi, non è necessariamente uno stato democratico. E del resto egli chiama la forma buona, cioè quella ispirata all'idea del con­tratto originario o del consenso, non democrazia, m.a repub-_

_ blica, e quella cattiva, dispotismo. Inoltre, dal momento che il consenso non è un fatto istituzionale, ma soltanto una finzione ideale ( si ricordi il « come se » della frase dianzi citata), non è necessario per Kant che lo stato repubblicano sia di fatto una repubblica. Anche una monarchia può essere uno stato repubblicano (cioè non dispotico), « quando lo stato fosse amministrato sotto l'unità del monarca in base a quelle stesse leggi che il popolo darebbe a se stesso secondo princìpi di diritto universale » 14 • Poco dopo Kant procla­ma che è « dovere dei monarchi, anche se autocratici », di governare in forma repubblicana, e precisa che la forma re­pubblicana non deve confondersi con la forma democratica, come del resto aveva spiegato a sufficienza in un passo della Pace perpetua. 15 • E che cosa vuoi dire « governare in forma

13 Scritti, p. 145. 14 Questo passo si legge nello scritto Se il genere umano sia

m costante progresso verso il meglio ( 1798), in Scritti, p. 222. 10 Vedilo in Scritti, p. 294.

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repubblicana » ? Vuoi dire, appunto, « trattare il popolo se­condo princìpi conformi allo spirito delle leggi di libertà ( cioè quali un popolo di matura ragione prescriverebbe egli stesso ) , anche se, stando alla lettera, a questo popolo non vien richie­sto il suo consenso » 1 6 • Vuoi dire, insomma, conservare il più rigido rispetto al principio (ideale) della libertà come auto­nomia, anche se questo rispetto non è poi destinato ad esser confermato dall'effettiva approvazione dei cittadini, attra­verso un'elezione popolare . Del resto, Kant per quel che riguarda l'estensione del suffragio, non andò mai al di là della comune dottrina liberale moderata del suo tem­po: considerando come requisito per l'attribuzione dei di­ritti politici l'indipendenza economica, escludeva dal diritto di voto e quindi dal novero dei cittadini gli operarii, ovvero i salariati, i lavoratori subordinati, cioè coloro che svolge­vano un'attività regolata da un contratto di locatio opera­rum 17 •

5 . Se, come abbiamo visto, l a definizione esplicita che Kant dà della libertà giuridica si riferisce alla libertà rous­seauiana o democratica, o degli antichi ( secondo Constant), altra è la definizione implicita che si ricava dall'insieme del suo sistema. Cercherò di provare que�a asserzione attraverso l'esame della definizione del diritto (a), del fine dello stato (b ) e della concezione del progresso storico (c).

(a) Che il diritto sia, secondo la celebre definizione, « l'in­sieme delle condizioni, per mezzo delle quali l'arbitrio del­l'uno può accordarsi con l 'arbitrio di un altro secondo una legge universale di libertà » 18, significa che lo scopo della legislazione giuridica o esterna, distinta dalla legislazione mo­rale o interna, è di garantire ricorrendo, se è necessario,

16 Scritti, pp. 225-226. 17 Kant tratta della questione in due punti nella Pace perpetua

e nella Metafisica det costumi, rispettivamente Scritti, pp. 260 e 5Q._l. 18 Scritti, p. 406.

1 56

anche alla forza, una sfera di libertà in cui ogni membro della comunità possa agire non impedito dagli altri. Sembra abbastanza chiaro che ciò che qui Kant ha di mira non è più la libertà come autonomia collettiva, cioè quella definita 'nei passi dianzi citati, ma la libertà nel senso tradizionale della dottrina liberale, cioè la libertà individuale o libertà cofne non-impedimento. E infatti, spiegando subito dopo la definizione, Kant aggiunge: « Se [ . . . ] la mia azione o, in ge­nerale, il mio stato, può sussistere colla libertà di ogni altro secondo una legge universale, agirà ingiustamente verso di me colui che me lo impedisce; perché questo impedimento (questa resistenza) non può sussistere colla libertà secondo leggi universali » n . Il concetto di libertà giuridica che si ricava dalla definizione del diritto non è già quello del potere di partecipare alla creazione della libertà collettiva, bensl della facoltà di agire senza essere ostacolati dagli altri.

Se ne può trarre conferma sia dalla teoria della coazione sia da quella del « mio e tuo » esterni (o del possesso) . Nel passo che Kant dedica al problema della coazione, la parola

-« libertà » ricorre più volte. « Tutto ciò che è ingiusto è un impedimento alla libertà, in quanto essa è sottomessa a leggi universali, e la coazione è essa stessa un impedimento o una resistenza che si fa alla libertà. In conseguenza, quando un certo uso della libertà stessa è un impedimento alla li­bertà secondo leggi universali (vale a dire è ingiusto), allora la coazione opposta a tale uso, in quanto costituisce l'impe­dimento di un impedimento fatta alla libertà, s 'accorda colla libertà stessa secondo leggi generali, cioè è giusto » 20• Kant vuole spiegare che diritto e coazione non sono incompatibili, perché se è vero che la coazione è un atto di illibertà, essa in quanto è destinata a respingere quell'atto di illibertà che è la invasione illegittima nella sfera di libertà altrui, ripri­stina la libertà primitiva (la negazione della negazione è

19 Scritti, p. 407. Il corsivo è mio. 20 Scritti, p. 408.

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un'affermazione) . Orbene, in tutto questo contesto la parola « libertà » viene usata nel senso di facoltà di agire non im­pediti . Si provi a sostituire ad essa le parole con cui Kant ha definito la libertà giuridica nei passi citati al § 3 - « facol­tà di non obbedire ad altre leggi esterne, se non a quelle cui io ho potuto dare il mio assenso » -, e tutto il passo non avrà più senso. Se si vuoi attribuirvi un senso, bisogna dare alla parola « libertà » proprio quel significato che Kant nel presentare la sua definizione esplicita aveva scartato, cioè intendere la libertà come « la facoltà di fare tutto ciò che si vuole pur di non recare ingiustizia ad alcuno ».

Il problema fondamentale del diritto privato è per Kant quello di stabilire che cosa si debba intendere per « mio e tuo » esterni . All'inizio della trattazione del diritto si trova la seguente definizione : « Il mio giuridico (meum juris) è quello col quale io sono così legato, che l'uso che un altro potrebbe farne, senza il mio consenso, mi danneggerebbe »

21 •

In altre parole, per « mio e tuo » este�ni, Kant intende ogni forma di possesso ( il possesso originaria è soltanto quello della terra) il cui esercizio non può essere impedito dagli altri . Si potrebbe dire che possesso equivale a « libero » uso di una cosa, dove « libero » sta per « non-impedito ». Pos­sesso e libertà del resto sono concetti, nel pensiero di Kant, strettamente connessi, come è già stato osservato. « La pro­prietà - ha scritto il Solari - viene. . . a porsi come prin­cio supremo del sistema giuridico e politico kantiano. . . Il possesso assorge a categoria suprema dell'ordine giuridico naturale kantiano, poiché in esso l'attività giuridica dell'uomo, la sua libertà esterna prende forma concreta . . . Nella pro­prietà la libertà esterna prende forma e valore giuridica » 2 2 •

6 . (b) Un varco aperto verso la concezione liberale della libertà è, in modo ancor più significativo, la teoria dei fìni

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21 Scritti, p. 425. Altra definizione a pp. 428-429. "" Vedi la Introduzione agli Scritti, p. 29.

dello stato. Per Kant, fine dello stato non è la felicità ma la libertà garantita dal diritto . I passi in questa materia ab­bondano : uno dei tratti caratteristici del pensiero politico kantiano è la polemica contro lo stato eudemonistico, o pa­ternalistico, che è necessariamente dispotico, in nome di quella forma di stato che sarà chiamata in seguito « stato di diritto », nel senso che ha per fine esclusivo l'ordine giuri­dico, ovvero la coesistenza delle libertà esterne mediante l'esercizio della coazione. Il passo più importante, forse, è quello del saggio Sopra il detto comune : « Il concetto di un diritto esterno in generale deriva interamente dal con­cetto della libertà nei rapporti esterni degli uomini tra loro e non ha nulla a che fare con il fine che tutti gli uomini hanno naturalmente ( la ricerca della felicità) e con la pre­scrizione dei mezzi per conseguirlo; in maniera che questo ultimo fine [ della felicità ] non deve in nessun modo entrare in quella legge come suo motivo determinante. [ . . . ] Nei ri­guardi della felicità, e di ciò in cui ognuno la vuoi riporre, gli uomini la pensano del tutto diversamente e la loro volontà non può ricondursi ad alcun principio comune e quindi nep­pure ad alcuna legge esterna, che debba accordarsi con la libertà di ciascuno »

23 • Ancora una volta « libertà » significa sfera del permesso, e coincide con « liceità ». Subito dopo, parlando della libertà dell'individuo come di uno dei tre principi a priori dello stato giuridico (gli altri due sono l 'eguaglianza formale e l'indipendenza economica), ne illu­stra il principio con questa formula : « Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo [ . . . ] , ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di ten­dere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coe­sistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale [ . . . ] » "4 • Il miglior commento a questa con-

23 Scritti, p. 254. 21 Scritti, p. 255 .

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trapposizione di felicità e libertà è il passo seguente: « La massima: salus publica suprema civitatis lex est rimane nella sua immutata validità e autorità; ma la pubblica salute, che è anzitutto da tenere in considerazione, è precisamente quella costituzione legale che garantisce a ciascuno la sua libertà mediante la legge; con ciò rimane a ciascuno lecito di cer­care la sua felicità per quella via che gli sembra migliore, purché non violi la libertà generale conforme alla legge, e quindi il diritto degli altri sudditi consociati » 25 • Non vi può essere alcun dubbio che la libertà che la costituzione le­gale garantisce ad ognuno mediante la legge, e che costituisce la condizione formale in base alla quale ciascuno possa per­seguire la propria felicità per la via che ritiene migliore, sia quella libertà che Constant chiamava « privata » per contrap­porla a quella « pubblica » di Rousseau. Anche in questo pas.so chi volesse sostituire il concetto di libertà espresso con quello di autonomia collettiva (nel senso rousseauiano) priverebbe la frase di ogni significato. Quando Kant dice che il fine (la suprema !ex) dello stato è la libertà, intende la libertà indivi­duale, o, per usare una contrapposizione ormai consueta, la liberto dallo stato, non già la libertà nello stato. A ulteriore conferma, si consideri il passo del saggio Risposta alla do­manda: che cos'è l'illuminismo? , in cui si proclama la neces­sità della libertà di critica affinché gli uomini possano uscire dallo stato di minorità. Kant scrive: « Senonché a questo illuminismo non occorre altro che la libertà, e, la più inof­fensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi » 26 • Qui « libertà » è adoperata nel senso tradizionale dei diritti di libertà, che sono appunto i diritti di non essere ostacolati in questo � quel campo della propria attività dalla costituzione statale.

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7 . (c) La filosofia della storia di Kant è dominata dal-

"' Scritti, pp. 263-264 . "c Scritti, p. 143.

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l'idea che il progresso della specie umana, come del resto di ogni altra specie animale, consista nel pieno sviluppo delle facoltà naturali degli individui che la compongono; e che il mezzo di cui la natura si serve per attuare questo sviluppo sia il loro antagonismo nella società. Non c'è bisogno di sot­tolineare quanto questa teoria dell'antagonismo come con­dizione del progresso si inserisca in tutto il moto liberale che eleverà la lotta, la contesa, la rivolta, la concorrenza, la discussione, il dibattito, a proprio ideale di vita, e contrap­porrà società statiche o stazionarie a civiltà dinamiche e pro­gressive secondo che in esse i conflitti siano soffocati o sol­lecitati. « Siano [ . . . ] rese grazie alla natura - si legge nello scritto Idee di una storia universale dal punto di vista cosmo­politico ( 1 7 84) - per la intrattabilità che genera, per la invidiosa emulazione della vanità, per la cupidigia mai soddi­sfatta di averi o anche di dominio! Senza di esse tutte le eccellenti disposizioni naturali insite nella umanità rimarreb-

. bero eternamente assopite senza svilupparsi. L'uomo vuole · la concordia; ma la natura sa meglio di lui ciò che è buono

per la sua specie : essa vuol la discordia » 21 • Una concezione liberale della storia - la storia come teatro degli antago­nismi - fa da sostegno, nel pensiero di Kant, alla conce­zione liberale del diritto - il diritto come condizione di coesistenza delle libertà individuali -, e alla concezione liberale dello stato - lo stato come avente lo scopo non di guidare i sudditi alla felicità ma di garantire l'ordine.

Affinché gli antagonismi si sviluppino e attraverso gli antagonismi l'umanità progredisca verso il meglio è neces­saria la libertà . Quale libertà? In nessun altro luogo, forse, più che in questa visione della linea di sviluppo della storia umana l'ideale della libertà come non-impedimento ispira il

' ..... pensiero kantiano. Tanto più gli antagonismi si svilupperanno quanto più saranno eliminati gli ostacoli non naturali posti all'azione umana dagli stati. Illuminismo « è l'uscita dello

27 Scritti, p. 128.

1 6 1

1 1 . N . Bomllo - D cr Hobbcs a Marx.

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uomo dallo stato di minorità » . Ma per uscire dallo stato di minorità l 'uomo deve romper catene secolari, acquistar mag­gior libertà di movimento spirituale e materiale, ottenere che venga diminuita la sfera delle azioni costrette e aumen­tata quella delle azioni permesse. « A misura - egli scrive - che le limitazioni all'attività personale saranno tolte, e che a tutti sarà riconosciuta la libertà religiosa, si produrrà l'illuminismo » 28 • Kant osserva con soddisfazione e orgo­glio questo moto di emancipazione svolgersi sotto i suoi occhi. E là dove osserva che la libertà va estendendosi, in­tende chiaramente la libertà individuale, quella che avrebbe condotto Constant a esaltare la società dei moderni in con­fronto a quella degli antichi, non solo la libertà spirituale ma anche, conformemente alle idee più avanzate del tempo, quella economica. « Se si impedisce al cittadino - egli com­menta - di cercare il suo benessere con tutti i mezzi che a lui sembrano migliori, purché possano coesistere con la libertà degli altri, ne viene ostacolata l 'alacrità del lavoro comune e ne vengono nuovamente diminuite le energie del tutto » 29 • L'ideale di pace a cui Kant mira, da raggiungere attraverso l'estensione della costituzione legale dei rapporti fra individui ai rapporti tra gli stati, coincide con l'ideale dell'estendersi e del rafforzarsi della libertà civile, cioè della libertà garantita dal diritto in contrapposizione alla libertà brutale e selvaggia dello stato di natura. La meta cui tende la storia umana è una costituzione legale universale, ovvero la pace nella libertà.

Giunti al vertice della concezione della storia di Kant, ci si rende conto quanta importanza abbia nel suo pensiero la teoria del diritto, ispirata alla dottrina liberale: la storia umana può essere interpretata kantianamente come storia dello sviluppo del diritto, dal diritto naturale meramente provvisorio alla costituzione legale di tutti gli stati che

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28 Scritti, p. 1 35. 29 Scritti, p . 1 35 .

rende perentoria ogni forma di « mio e tuo » esterni, inteso il diritto come la garanzia della massima libertà di ogni indi­viduo compatibile colla massima libertà di tutti gli altri.

Concludendo, per quanto Kant dia una definizione di libertà politica in termini rousseauiani, la libertà a cui si ispira la sua concezione del diritto, dello stato e della storia, non è quella democratica ma quella liberale. Questa con­clusione ha anche lo scopo di confermare, attraverso l'analisi di un celebre testo, l 'esistenza e la coesistenza delle due nozioni fondamentali di libertà, e di mostrare la necessità di tenerle ben distinte. Da un lato, l'opera di Kant è una prova della validità di quella distinzione; dall'altro, la distin­zione si rivela, nell'esame del pensiero di Kant, utile come criterio di comprensione storica e di valutazione critica.

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..

VI. Studi hegeliani

l. Rinascita hegeliana? - La bibliografia hegeliana si è arricchita, in questi ultimi anni dopo la guerra, di alcune im­portanti opere in lingua francese, tedesca ed italiana, quasi tutte eccezionalmente voluminose che qui elenchiamo in ordine cronologico: Henri Niel, De la médiation dans la philosophie de Hegel, nella collezione « Philosophie de l 'Esprit », Paris, Aubier, 1 945, pp. 376; Ivan Iljin, Die Philosophie Hegels als kontemplative Gotteslehre, Bern, A . Francke, pp. 432 ; Jean Hyppolite, Génèse e t structure de la Phénoménologie de l'Esprit de Hegel, nella collezione « Phi­losophie de l'Esprit », Parigi, Aubier, 1946, pp. 592 (dello stesso autore, successivamente è apparso un breve volumetto intitolato Introduction à la philosophie de l'histoire de Re­gel, Paris, Rivière, 1 948, pp. 98) ; Alexandre Kojève, Intro­duction à la lecture de Hegel (Leçons sur la Phénoménologie de l'Esprit, professées de 1 933 à 1 93 9 à l'Ecole des Hautes Etudes, réunies et publiées par Raymond Queneau), Paris Gallimard, 1 947, pp . 595 1 ; Guido De Ruggiero, Storia della filosofia. Parte IV: La filosofia moderna. Vol. 5°:

" G. G. F. Hegel, Bari, Laterza, 1 948, pp. 306; Georg Lu­kacs, Der funge Hegel. Ueber die Beziehungen von Dia-

1 Di quest'opera è stata tradotta in italiano una parte importante nella « Biblioteca di cultura filosofica » dell 'editore Einaudi, col titolo La dialettica e l'idea della morte in H e gel (traduzione di P. Serini, 1948, pp. 204)' .

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lektik und Oeconomie, Ziirich-Wien, Europa Verlag, 1 948, pp. 720 .

Se s i pensa che i l De Negri nel suo volume hegeliano del 1 943 (Interpretazione di Hegel, Firenze, Sansoni) notava, e notava a ragione, che « negli ultimi tempi l 'interesse per la filosofia dello Hegel si era andata affievolendo » (p. 5), non si può negare che cotesto rifiorire di studi hegeliani costituisca un fenomeno nuovo che merita di essere atten­tamente studiato, come quello che può offrire la base per qualche osservazione sull'orientamento della filosofia nel do­poguerra. Tanto più che quelle sei monografie, di cui inten­diamo occuparci in questa rassegna, sono, di questo feno­meno, la manifestazione più macroscopica, e si presentano, alla loro volta, accompagnate da un fitto corteggio di scritti minori, sparsi qua e là in riviste di tutti i paesi 2, e da

2 Tra gli scritti in cui mi è accaduto di imbattermi sfogliando riviste filosofiche e non filosofiche, e bollettini bibliografici (e quindi non col proposito di adunare una bibliografia completa sull'argomento), ricordo i seguenti che dispongo in ordine di data: C. LuPORINI, Un frammento politico giovanile di Hegel, in « Società », n. 3, 1945, pp. 60-1 14 ; A. MASSOLO, L'essere e la qualità in Hegel, in « Società », n. 1-2, pp. 1 00-128; e La hegeliana dialettica della qualità, « ivi », n. 4, 1945, pp. 148-170; M. MERLEAU-PONTY, L'existentialisme chez Hegel, in « Les temps modernes », I, 1946, pp. 1 3 1 1 - 1319 ; W. H. WALSH, Hegel and Intellectual Intuition, in « Mind », LIV, 1946, pp. 49-63; F. GRÉGOIRE, H e gel et l'universelle contradiction, in « Revue philosophique de Louvain », XLIV, 1946, pp. 36-73 ; H. MouGIN, Hegel et le Neveu de Rameau, in « Europe », XXIV, 1 946, pp. 1-1 1 ; O. K . FLECHTHEIM, Hegel and the Problem of Punishment, in « Re­view of History of Ideas », VIII, 1 947, pp. 293-308; J. HYPPOLITE,

Situation de l'homme dans la Phénoménologie hegelienne, in « Les temps modernes », II, 1947, pp. 1276-1289; A. KOJÈVE, Hegel, Marx et le Christianisme, in « Critique », I, 1946, pp. 339-366 ; H. NIEL , L'interprétation de Hegel, in « Critique », III, 1 946, pp. 326-387 (su Hyppolite e Kojève); P. WEi s s , Existenz and Hegel, in « Philo­sophy and phenomenological Research », VIII, 1947, pp. 206-216; A. FoREST, Études sur Hegel, in « Revue thomiste », 97, 1 947, pp. 260-265 (su Hyppolite e Niel) ; J. WrLLEMIN, La mort dans la philosophie de Hegel, in « Revue philosophique », LXXII, 1 947, pp. 1 94-202 (su Kojève) ; R. Hms s , Hegel und Marx, in « Symposium. Jahrbuch fur Philosophie », I, 1948, pp. 173-206 ; M. DE GANDILLAC, Ambiguité

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qualche scritto maggiore che tocca l 'argomento senza farne oggetto diretto o completo del proprio esame 3; piccoli e grandi scritti che rendono una testimonianza, magari più esigua ma non meno preziosa, del ravvivarsi e dell'allargarsi dell'interesse per gli studi hegeliani nella cultura contempo­ranea.

Peraltro, parlare di una vera e propria « rinascita » di Hegel mi parrebbe fuor di proposito . L'interesse per la filo­sofia di Hegel, dopo il tramonto del positivismo, in realtà non si era mai spento, per quanto fosse stato variamente vivo nei diversi paesi e avesse ubbidito a motivi culturali e teoretici disparati (e non sempre a motivi puramente culturali e teo­retici) . Pur prescindendo dalle correnti che si ispirarono di­rettamente alla filosofia di Hegel in Italia, in Inghilterra e in Germania, non bisogna dimenticare che la pubblicazione degli scritti giovanili inediti, iniziata già sin dal 1 907 col fortunato volume delle Theologische Jugendschriften, a cura di H. Nohl, e la pubblicazione, si può dire anno per anno, sino alla scoppio della guerra, dei volumi delle Samtliche W erke del Meiner di Lipsia, a cura del Lasson prima e dello Hoffmeister poi ( ove apparirono anche opere giovanili poco note o inedite, e pure di grande importanza, come la Jenenser Logik, Metaphysik und Naturphilosophie, Lasson

heaelienne, in « Dieu vivant », XI, 1 948, pp. 125-144 (su Kojève e Hippolite) ; P. KwssowsKr, Hegel et le Mage du Nord, in « Lcs temps modernes », III, 1948, pp. 234-264; C. MARcoux, Génèse et stmcture de la Phénom. de Hegel, in « Études philosophiques », III, 1948, pp. 49-62 (su Hyppolite).

3 Tra questi sono da segnalare : C. ANTONI, Considerazioni su Hegel e Marx, Napoli , Ricciardi, 1945; M. CrARDO, Le quattro epoche deilo storicismo, Bari , Laterza 1947. Si veda anche: F. GRÉGOIRE, Aux sources de la pensée de Marx, Hegel, Feuerbach, Louvain, Inst. Sup. de Phil., 1947 (è un primo volume che contiene quasi esclusi­vamente l 'esposizione e la critica del pensiero di Hegel) . Non mi è riuscito di leggere G. DuLKEIT, Die Idee Gottes im Geiste der Phil. Hegels, Miinchen, H. Ripp, 1947. Ha carattere di volgarizzazionc il

·volumetto di A. CRESSON, Hegel. Sa vie. San (J!Uvre, seguìto da

estratti delle opere filosofiche, nella collana « Philosophes », Paris, P.U.F., 1949, pp. 134.

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1 92 3 ; la Jenenser Realphilosophie, 2 voli., Hoffmeister 1 9 3 1 -3 2 ; e l e Nurnberger Schriften, Hoffmeister 1 937-38), conti­nuarono a tener vivo l 'interesse per la filosofia hegeliana e a promuovere sui nuovi materiali nuovi studi e addirittura nuovi orientamenti di critica. Ci limitiamo qui a ricordare che nel solo anno 1929 uscirono cinque importanti mano­grafie hegeliane: ] . Wahl, Le malheur de la conscience dans la philosophie de Hegel, Paris; G. Della Volpe, Le origini e la formazione della dialettica hegeliana. I : Hegel, romantico e mistico, Firenze, Le Monnier; Th. Haering, Hegel. Sein Wollen und sein W erk, Leipzig, Teubner, vol. I (il secondo volume uscirà nel 1 938) ; G. Glockner, Hegel, Stuttgart, vol. I ( il secondo volume uscirà nel 1 940); N. Hartmann, Die Philosophie des deutschen Idealismus, vol. II : Hegel, Berlin und Leipzig, W. de Gruyter; e che nel ventennio fra le due guerre e ancora in questi ultimi anni, un po' in tutti i paesi, furono intraprese - compito non certo di poco peso né di piccola responsabilità - traduzioni di opere hegeliane . Fra le quali son da ricordare le traduzioni italiane della Fenomenologia dello Spirito (a cura di E. De Negri, Firenze, La Nuova Italia, 2 volumi, 1 933-36), delle Lezioni sulla storia della filosofia ( a cura di E. Codignola e G. Sanna, Firenze, La Nuova Italia, 3 volumi, 1930-32-34 ) : delle Le­zioni sulla filosofia della storia (a cura di G. Calogero e C . Fatta; sinora sono usciti due volumi, 1947-48) ; la recen­tissima traduzione antologica di opere e frammenti di opere giovanili a cura di E. De Negri, I principi di Hegel (La Nuova Italia, 1949); le traduzioni francesi della giovanile Vita di Gesù (a cura di D. D. Rosea, Paris, 1 928) ; della Fenomenologia ( a cura di J. Hyppolite, Paris, Aubier, 2 voli ., 1 939-4 1 ) ; della Filosofia della storia (a cura di Gibelin, 2 voli ., Paris, Aubier, 1939-4 1 ) ; dell'Estetica (a cura di W. Jankélévitch, Paris, Aubier, 4 voli . , 1 945) ; dello Spirito del cristianesimo e il suo destino (Paris, Vrin, 1948 ) ; della Filosofia del diritto (a cura di A . Kaan, Paris, Gallimard, 1949) ; la traduzione inglese della Filosofia del diritto (a

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cura di T. M. Knox, Oxford Univ. Press, 1942) e, recen­tissima, quella degli Scritti teologici giovanili (pure a cura di T . · M. Knox, Chicago Univ. Press, 1 948 ) .

Così che, anche a non voler usare parole grosse, come « rinascita hegeliana » o simili, non ci par dubbio che i su ricordati sei tomi, che son capitati uno dietro l'altro in breve spazio di tempo sul nostro tavolo di lavoro, pongono per lo meno il problema di vedere se questo fervore di studi hegeliani abbia tm qualche significato nella svolta della filosofia contemporanea e, posto che questo significato ci sia, in qual modo e con quale chiave lo si debba intendere.

Naturalmente sarà bene, prima di anticipar giudizi o anche semplici constatazioni, presentare nelle loro idee es­senziali le opere in questione e fissare brevemente l'indirizzo interpretativo da ciascuna rappresentato.

2 . Un'interpretazione eclettica. - La monografia sullo Be­gel del De Ruggiero è l'ultimo volume della grande Storia della filosofia, ed è pure l 'ultimo scritto suo apparso prima della morte. Da qualche anno il De Ruggiero andava in cerca di una soluzione teoretica ad una inquietudine filosofica che lo aveva portato passo passo fuori dell'idealismo asso­luto e dello storicismo. C'è qualche ragione di credere che anche il De Ruggiero, che era stato nei suoi anni giovanili un neofita entusiasta, un divulgatore ed apologeta dell'idea­lismo immanentistico, avesse fatto un po' di strada - non tutta, forse, e comunque una strada propria - nella dire­zione che aveva condotto molti ex-idealisti, e avrebbe con­dotto lui pure, alla crisi dell'immanentismo. Di questa nuova posizione, o per meglio dire inclinazione spirituale, aveva offerto le prime linee, né compiute, né sistematiche, ma abbastanza nette, nella inttoduzione a Il ritorno della ra­gione del 1946.

L'opera sullo Hegel, scritta in questo periodo di crisi e di ricerca, presenta manifestamente qua e là i segni delle preoccupazioni teoretiche che assillavano l 'autore; e

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può darsi che lo studio cnttco del grande padre dello sto­deismo avesse contribuito pure a rafforzarle e ad approfon­dirle. Uno dei rimproveri, che nella introduzione del '46 egli aveva mosso allo storicismo, era di condurre la mente ad una valutazione puramente retrospettiva dei fatti, e quindi di non preparare la via al futuro. Qui, in questa sua ultima opera, di fronte al concetto hegeliano di storia della filoso­fia e di storia in genere, lamenta che alla « alta e degna attivi­tà » della storiografia, « tarpò le ali appunto quel compito retrospettivo che Hegel le affida e la fa rassomigliare al lavoro autobiografico » (p. 256); e conclude, con una delle rarissime dichiarazioni personali che si trovino nel libro (segno evidente che la questione è per lui, in quel particolare momento della sua formazione filosofica, scottante) : « Non è questa per noi la funzione della storia della filosofia e della storia in genere; e non vi spenderemmo le energie migliori per soddisfare una curiosità oziosa piuttosto che, come fermamente crediamo, per gettare un ponte fra il passato e il futuro, per preparar le riserve spirituali da bruciare nell'azione che si prepara >>

(p . 256 ). Poi, in una nota, rigetta la negazione hegeliana della storia come magistra vitae; e là dove osserva che « c'è nella historia magistra vitae una verità più profonda di quella che Hegel e gli hegeliani immaginano » (p. 257, in nota), la polemica si allarga, evidentemente, dallo Hegel al Croce.

Nell'opera del '46 egli muoveva allo storicismo anche un altro rimprovero, più radicale del primo : lo storicismo, tutto immerso nella corrente del divenire, svaluta ed annulla tutto ciò che tende ad emergere da esso con un'esigenza tra­scendente, come i valori, le norme e gli ideali, mentre la storia appare ormai al nostro idealista pentito come attra­versata da un'attività metastorica che ne compendia in sé le essenziali ragioni. Nel saggio sullo Hegel questa stessa critica fa la sua apparizione a proposito dell'interpretazione della formula « ciò che è razionale ecc. » ; e si presenta come critica non tanto dello spirito più profondo della con­cezione hegeliana quanto dell'uomo Hegel, il quale, rimasto

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infedele e quindi inferiore alla sua dialettica, si lascia pren­der la mano dal teologismo, dall'astratto razionalismo enci­clopedico, dallo spirito di sistema, e « converte la formula in una statica equazione, ricadendo nella vecchia interpretazione tautologica dell'identità » (p. 265 ) . La famosa formula, in­vece, deve essere interpretata, secondo il De Ruggiero, con­formemente allo spirito del sistema, in questo modo : « Tutto ciò che è razionale si fa reale, tutto ciò che è reale si fa razionale ». Solo questa interpretazione permette lo svolgi­mento di una dialettica aperta e non chiusa, in cui « la storia fatta si schiude alla storia che si fa e le trasmette i problemi non risolti e i momenti d'irrazionalità non assor­biti »; cioè permette di includere nel processo della storia anche l 'irrazionale che, nello svolgimento effettivo che Be­gel dà alla propria formula, finisce per restar fuori « dalla morsa che si stringe a vuoto », e per riapparire al margine del sistema « come l'ombra di un corpo che non ha avuto sepoltura » (p. 276 ) .

Nella dialettica i l De Ruggiero ritiene, se ben comprendo, di poter includere il concetto di una « emergenza » del razionale sul reale, in base alla quale soltanto il razionale può riprendere la sua funzione dinamica, pel tramite del dover essere che è il principio animatore del reale. Per non aver tenuto sempre presente questo principio della emergenza, Hegel va a finire nel panlogismo, cioè in un sistema in cui la ragione « tutto commisura a sé; e coarta e mutila quel che eccede la misura » (p. 266 ) . È chiaro che il De Rug­giero vuoi liberarsi a tutti i costi dalle maglie del panlo­gismo che lo avevano tenuto avvinto nei suoi lavori giova­nili. Ma non per questo egli intende abbandonare Hegel, che pure è il maestro della sua generazione ed è ancora un punto fermo contro le deviazioni teistiche e materialistiche, non meno fermamente respinte. Perciò è costretto a distinguere un Hegel ideale da un Hegel reale e ad applicare alla stessa interpretazione dello Hegel il suo principio di emergenza, nèl senso che vi sarebbe un Hegel reale che non si adegua

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mai del tutto a quello ideale. Ed è al secondo, non al primo, che egli intende ispirarsi. Lo Hegel reale è una figura com­plessa e quindi anche equivoca: l 'immagine che ne riporta il lettore è di un « Hegel bifronte », che giustifica per ciò stesso le diverse interpretazioni dei seguaci e l'opposto at­teggiamento dei fedeli entusiasti e degli irriducibili oppo­sitori. Gli opposti moti del suo tempo egli accoglie in sé e presenta or l'una or l'altra faccia, o tutte e due insieme. Così si muove tra teologismo e dialettismo critico, tra intel­lettualismo e antintellettualismo, tra illuminismo e romanti­cismo, conservatorismo e spirito rivoluzionario. Quelle oppo­sizioni che egli vede nel reale sono anzitutto in lui stesso. Non le supera, come non le supera nella realtà, se non mor­tificandole in un chiuso sistema (panlogismo) o !asciandole aperte come ferite non rimarginate (pantragismo ) .

L'interpretazione hegeliana di De Ruggiero non vuoi es­sere di proposito una interpretazione di tendenza. Scartando la destra teologica e la sinistra materialistica, si tiene in mezzo alla strada e pecca, se mai, di eclettismo, di quell'eclet­tismo accademico che misura tutti i filosofi, e non soltanto Hegel, con lo stesso metodo, consistente nel vederne l'aspetto volto al passato e quello volto all'avvenire, le luci e le om­b�e, insomma, il volto bifronte . Hegel, forse, si adatta par­ticolarmente bene a questo tipo di misura. E non c'è da stupirsi che un libro, nato, non bisogna dimenticarlo, dalla scuola, collocato in una storia della filosofia destinata in primo luogo agli studenti universitari, indulga alla conven­zione didatticamente comoda della bipolarità.

Al di là della interpretazione bipolare di Hegel è inte­ressante vedere che �cosa il De Ruggiero voglia salvare della costruzione hegeliana. Certamente l'istanza della dialetticità del reale, ma senza la chiusura finale del sistema (dialettica aperta contro dialettica chiusa). In secondo luogo l'idealità del reale, ma senza la identificazione di razionalità e realtà c�e appiattisce la realtà in una necessità senza ombre e giu�

sttfica soltanto la storia fatta, non quella da fare : una idea-

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lità del reale, insomma, in cui l'ideale emerga continuamente sul re.ale, non si riduca mai tutto al reale, e sia perciò prin­cipio animatore della storia che si fa, e non soltanto principio esplicativo della storia già fatta. Emergenza, si badi, che non è più immanenza, e non è ancora trascendenza ( e non è nep­pure un dover essere formale, che sarebbe del tutto estraneo allo spirito dello hegelismo) : emergenza, quindi, che pre­sentata soltanto come esigenza (più etico-politica che teo­retica), non ancora formulata con tutte le sue implicazioni, riconferma, anche in sede di esame critico della posizione filosofica del De Ruggiero, il giudizio, o il sospetto, di eclet­tismo.

3 . Il filosofo della mediazione. - Anche per il Niel, He­gel è un pensatore dalle molte facce : ne vedi una e ti sfugge l'altra. Se si cerca di vedcrle tutte insieme ne viene un'im­magine confusa. La caratteristica della filosofia hegeliana è l'ambiguità. Ma il Niel, più che il De Ruggiero, cerca al di là di questa ambiguità l'ispirazione fondamentale .

Tale ispirazione è per il Niel di carattere religioso, anzi mistico. Il problema profondo, da cui i singoli problemi delfa filosofia hegeliana si sviluppano, è un problema teo­logico. Al centro della problematica hegeliana sta il proble­ma della unità di finito e infinito: è quella unità di cui l 'espe­rienza mistica ci offre una visione immediata. Ma Hegel, attraverso la riflessione, vuoi giungere ad una presa di co­scienza mediata di questa unità. Vista in questa prospettiva - dalla immediatezza mistica alla mediazione riflessiva -la filosofia hegeliana, dai primi tentativi giovanili sino alle opere della maturità, si può raffigurare come un laborioso, ostinato, sempre ricorrente sforzo di riflessione sopra un'ori­ginaria intuizione mistica.

Hegel ci appare, secondo il Niel, sin dai primi anni, come un appassionato (e tormentato) di assoluto, intima­mente penetrato - come il suo amico Holderlin - di un Sehnen nach den T agen der Urwelt, wo jeder die Erde streif-

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te wie ein Gott. Il mondo è certo la manifestazione di uno spirito infinito, ma questa rivelazione è oscura e incompleta. Il problema della filosofia hegeliana è di prender coscienza chiara e completa di questo compenetrarsi del finito con l'in­finito, di risolvere ogni oppositizione, ogni lacerazione che impedisce al finito e all'infinito di compenetrarsi, di tra­sferire in questo mondo la riconciliazione dell'infinito e del finito, di Dio e del mondo, quella riconciliazione che neP.pute al cristianesimo è riuscito di condurre a compi­mento. Riconciliazione vuoi dire ritorno alla totalità perduta, riconquista dell'uomo integro, dell'uomo totale. E quando questa totalità sarà raggiunta, per opera dell'uomo, il finito avrà acquistato un valore infinito, sarà avvenuta la riconci­liazione. « Nell'insieme - commenta il Niel - l'hegelismo è un tentativo di ritrovare l'unità originale dell'universo che è stata rotta dal peccato » (p. 60 ). Al fondo del pensiero di Hegel vi è un problema di salvezza. La filosofia hegeliana è, in ultima istanza, una dottrina escatologica. Come tale si inserisce nella civiltà cristiana come un proseguimento e un inveramento del cristianesimo.

Lo strumento logico costruito e continuamente adope­rato da Hegel per risolvere il proprio problema fondamen­tale, cioè per pensare e comprendere l'immanenza dell'in­finito e del finito, è, secondo il Niel, la categoria della me­dia:done. « Vi è mediazione - dice Hegel - quando vi è ·

cominciamento e passaggio ad un secondo termine, in modo tale che questo è solo in quanto vi si arriva partendo da un altro termine » (Enc., § 12 ) . La mediazione "sprime la vita dello spirito che è divenire, passaggio di sé ad altro da sé per ritornare a sé. L'idea che l'attività spirituale sia media­zione con se stessa è l'intuizione fondamentale che sta alla base della filosofia hegeliana, e serve allo Hegel per superare sia il razionalismo sia il romanticismo, per riconciliare il sentimento e l'idea, l 'interno e l'esterno, il soggettivo e l'og­gettivo, il finito e l 'infinito (pp. 1 13-1 14 ) . 1

Quest'idea della mediazione è il filo conduttore della

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riesposizione minuta e completa dell'opera di Hegel, in cui consiste il volume del Niel. Non ci si lasci ingannare dal titolo che fa pensare ad uno studio analitico su un concetto particolare della filosofia hegeliana. Il Niel, sotto l'etichetta della mediazione, presenta al lettore francese una paziente e diligente esposizione di tutte le opere di Hegel. Il con­cetto di mediazione, più che costituire l 'oggetto della ri­cerca, scandisce, per così dire, il ritmo della ricerca stessa, la quale procede seguendo il movimento di ascesa e di deca­denza dell'idea di mediazione; ed è divisa ( forse troppo meccanicamente) in tante tappe, quanti sono i momenti di questo movimento, i quali corrispondono su per giù alle varie opere o gruppi di opere. Così i primi anni di Berna e di Francoforte rappresentano la genesi e gli anni di Jena l'elaborazione dell'idea di mediazione. Con la Fenomenolo­gia l'idea di mediazione viene utilizzata, con la Logica cade in crisi, con l'Enciclopedia giunge al fallimento. Ma poi nella Filosofia del diritto si ha la mediazione effettiva, nella Fi­losofia della storia, nella Estetica e nella Filosofia della re­ligione, la mediazione concreta. E infine la Storia della filoso­fia attua la conciliazione tra la mediazione storica e la media­zione logica.

B interessante osservare che il ritmo di questa spiega­zione storica (idealizzata) del pensiero di Hegel, compiuta attraverso la chiave dell'idea di mediazione, ha il caratte­ristico movimento del ritmo dialettico. Sembra quasi che il Niel, sedotto dalla metodologia hegeliana, voglia applicare alla comprensione della storia di questo pensiero lo stesso metodo che Hegel ha applicato alla comprensione della sto­ria universale, e che avrebbe applicato a se stesso, se mai si fosse proposto di ripensare il corso della sua evoluzione spirituale. Si osservi bene: secondo il Niel, Hegel negli anni giovanili trova ed elabora lo strumento della mediazione pri­ma çome Amore (periodo di Francoforte), poi come Ragione (Je!Ja) e lo applica nella Fenomenologia al mondo della storia. Ma in un secondo momento l 'idea della riconcilia-

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zione del finito coll'infinito, la concezione escatologica della storia, per la cui comprensione Hegel ha eleborato il con­cetto stesso di mediazione, si impoverisce nella struttura­zione intellettualistica della Logica e va perduta nella Enci­clopedia, ove Hegel, nello sforzo di adeguare la conoscenza alla totalità del reale, si induce a integrare la natura nell'in­terno dell'idea; ma la natura introduce immediatamente il momento della contingenza e non può essere rigidamente rinchiusa nella trama di una necessità rijSorosa. Soltanto nel terzo momento, nella Filosofia del diritto e nelle opere storiche, Hegel ritorna al punto di partenza, cioè allo Spi­rito, ma per ritrovarne la realizzazione nell'opera collettiva dell'uomo e nella storia umana : la mediazione (che è poi il movimento dello Spirito con se stesso), che aveva minacciato di fare fallimento nella elaborazione della filosofia della na­tura, diventa effettiva e concreta . La mediazione opera esclu­sivamente nella storia, anzi la storia stessa è mediazione. La riconciliazione di infinito e finito, che assillava il giovane Hegel, trova nella storia dell'uomo le sue tappe successive e la sua soluzione. Cosl la filosofia della storia diventa una teodicea, la giustificazione di Dio nella storia del mondo.

Per questa via siamo giunti anche a confermare il so­spetto che ci ha accompagnato sin qua, che la mediazione, di cui parla il Niel, non sia nulla di diverso dalla dialettica di cui parlano tutti gli altri interpreti . In realtà, per quanto egli eviti, sin quando è possibile, di parlare del metodo dia­lettico, sembra che si possa sostituire alla parola « media­zione » la parola « dialettica », senza che il senso dèl di­scorso abbia a mutare. Quando egli descrive l'origine del­l'idea di mediazione presente nel Sistema del 1 802, in realtà ci presenta ciò che gli altri interpreti di Hegel chiamano l'origine della dialettica. Quando insiste sulla definizione dello Spirito come mediazione di sé con se stesso, afferma in altre parole la dialetticità dello Spirito. Inoltre, l'idea di mediazione implica il concetto della positività del negativo, cioè l 'elemento costitutivo del rapporto dialettico. Ha ob-

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,

bedito forse il Niel, nell'insistere sull'idea di mediazione anziché su quella di dialettica, all'ambizione di uscir fuori dai binari comuni o al desiderio di non confondersi con la ster­minata folla degli interpreti della « dialettica » hegeliana, scoprendo una nuova chiave che però finisce per aprire le stesse porte?

Per scagionare l'autore da questa accusa si possono fare due osservazioni : anzitutto, non bisogna dimenticare che egli è partito dalla convinzione che il pensiero di Hegel sia un pensiero derivato da un'originaria intuizione mistica, che Hegel sia « assai più un teologo che riflette sopra una dot­trina di salvezza che un filosofo preoccupato esclusivamente della conoscenza razionale del mondo » (p. 252 ), che il sistema hegeliano sia non già una teologia rovesciata, ma addirittura una teologia mascherata e quasi sempre masche­rata male. Seguendo questo criterio interpretativo, di ognuno dei concetti della filosofia hegeliana il Niel cerca il conte­nuto o l'origine religiosa: ad esempio, a proposito della filosofia della natura (p. 230), o della filosofia politica (p. 225 ), o del concetto di stato, la cui funzione sarebbe di permettere all'uomo di liberarsi dall'alienazione per giun­gere ad un perfetto possesso di sé (p. 295 ). Orbene, il met­tere l'accento sull'idea della mediazione anziché sul processo dialettico, serve, se non andiamo errati, al Niel per ribadire la sua tesi fondamentale dell'origine religiosa della filosofia di Hegel : l'idea di mediazione, infatti, là dove appare per la prima volta nel corso del pensiero hegeliano (nella Differenz del 1 801 ) , mostra chiaramente di derivare dalla idea reli­giosa del Mediatore. E, siccome il mediatore tipico è Cristo, che è Dio e Uomo, l 'idea di mediazione designa un processo col quale un essere rinuncia a rinchiudersi in se stesso e consente a divenire l 'altro da sé. Si tratta veramente, se­condo un motto evangelico accolto da Hegel, di « perdere la propria anima » ( p. 7 1 ) . In secondo luogo, l 'insistenza sulla mediazione ha per l 'autore, per quanto non sia facile scoprirne le più segrete intenzioni, un significato polemico.

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12. N. BoBBIO - Da Hobbes a Marx.

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La riduzione del pensiero hegeliano all'idea della mediazione gli permette infatti di indicare la ragione fondamentale dello scacco di questa filosofia. Essa, infatti, fallisce per aver ri­solto totalmente in termini di mediazione ciò che è assolu­tamente irriducibile a mediazione, l'Assoluto. In quanto assoluta immediatezza, l 'Assoluto trascende continuamente ogni mediazione, e la ragione, appunto per questo, è impo­tente a comprenderlo. Riducendo l'assoluto in termini di mediazione, Hegel da un lato lo ha racchiuso nei limiti della ragione e della storia, dall'altro ha chiuso una volta per sempre la storia su se stessa, togliendole la dimensione del futuro. Al di là di ogni mediazione, sembra suggerire l'autore in un breve passo (p . 3 1 5 ) , bisogna porre un im­mediato non mediatizzabile, l'Amore.

Ma la posizione filosofica personale dell'autore sta nel­l 'ombra; e quelle poche luci che trapelano qua e là non per­mettono di ricomporre una intera visione del mondo. Ed è quindi ozioso parlarne. Nettissima, invece, come abbiamo detto, è la posizione che il Niel ha tra gli interpreti di Hegel. Tra interpreti di sinistra e interpreti di . destra egli appar­tiene senza pentimenti alla schiera dei secondi, a quella schiera che è indubbiamente cresciuta e s 'è rafforzata in questo secolo dopo la pubblicazione delle opere giovanili di argomento religioso. Anzi, se si volesse dare una defini­zione riassuntiva del significato di quest'opera, si potrebbe dire che essa rappresenta un tentativo di trapiantare in Fran­cia - dove gli studi hegeliani non sono stati mai fiorenti -i maggiori risultati della critica hegeliana di questo secolo. Ma non è giunta questa fatica del Niel un po' troppo tardi? Non assistiamo oggi ad un completo rovesciamento delle posizioni in cui gli interpreti di sinistra sono di nuovo all'at­tacco? È quello che vedremo, esaminando nel corso di questa rassegna, le interpretazioni radicali di Lukacs e di Kojève.

4. Hegel intuizionista. - Veramente l 'opera dello scrit­tore russo I van Iljin, come rivela il titolo stesso, « la filo-

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sofia di Hegel come dottrina contemplativa di Dio », appar­tiene ancora alle interpretazioni mistico-religiose di Hegel. Anzi, di queste interpretazioni appare, anche per l 'ampiezza dell'apparato filologico, una delle più intransigenti. Già nelle prime pagine della prefazione l'autore mette, sulla questione della destra e della sinistra, i punti sulle i: « Gli hegeliani di sinistra non hanno davvero capito nulla di Hegel e svi­sano ogni cosa e non possono assolutamente esser conside­rati come hegeliani. Ciò vale in particolar modo per Carlo Marx, i cui giochetti empirico-dialettici non arrivano nep­pure all'anticamera della filosofia della storia di Hegel e non hanno nulla a che vedere con le idee fondamentali del sistema » ( p . 1 1 ) . Ma non è un'opera recente: scritta in una stesura assai più ampia fra il 1908 e il 19 16, pubbli­cata in russo nel 1 9 1 8, la presente edizione è una riprodu­duzione abbreviata della prima. E certamente risente del­l 'interesse suscitato nel primo decennio del secolo dalla pub­blicazione degli scritti teologici giovanili, di cui l'autore si vale in alcuni punti salienti e a cui attribuisce nel corso dell'opera un'importanza risolutiva. Con i nuovi interpreti di destra lo Iljin ha in comune una caratteristica significa­tiva : di non professarsi hegeliano, ma solo indagatore obbiet­tivo della filosofia di Hegel. Il suo scopo è quello di inten­dere Hegel; e per intenderlo vuoi mettersi nella condizione di vedere quello che Hegel ha visto. Si tratta di trovare gli « occhiali » con cui Hegel ha visto il mondo. « Non serve a nulla voler nuotare nella corrente della terminologia di Hegel senza aver trovato i suoi " occhiali " spirituali e senza averli usati rettamente. Non vale la pena di discorrere e sottilizzare in stile hegeliano, escogitare nuove opposizioni dialettiche e anche costruire intere serie di antitesi ad ef­fetto : da ciò non può venir nulla di creativo, ma solo morte " hegelerie " che lo stesso Hegel avrebbe condannato e ri­fiutato. Hegel, infatti, non fu un costruttore per gioco o per capriccio, ma un contemplatore pieno di serietà e di im­pegno » ( p. 8 ) .

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Iljin parla di Hegel come di un contemplatore in un senso ben definito. Che la filosofia di Hegel sia �a �o�ofi� contemplativa e non costruttiva, è una delle test prmctp� del libro che ha pure un'intenzione polemica diretta nel confronti della raffigurazione di Hegel scopritore d�l meto�o dialettico. Non è una tesi nuova ed è stata ora r1messa m circolazione, con vigore e accento di novità, dal Kojève. �a già in quest'opera dello Jljin è espressa �on la .massi�a chia­rezza. Esaminando attentamente l'atto di pensiero dt Hegel� Iljin osserva che il pensiero speculativo di Hegel, cioè l'atto � pensiero proprio della filosofia che ha già messo da pa�te Il mondo empirico concreto come irriducibile al concetto e s1 vale dell'astrazione formale propria dell'intelletto, ma senza esau­rirsi in essa, è un pensiero intuitivo, uno schaue�des Denken, « un pensiero che è unito con l'intuizione ed è m :erto qual modo identico con essa » (p. 51 ). Dunque Hegel e letteral­mente un filosofo intuizionista. Che l'atto di pensare proprio del pensiero speculativo sia un pe.nsie�� in:U�tivo significa: nel senso proprio di ogni filosofia mtulZiorustlca,

. che nell atto

conoscitivo della filosofia, che solo permette di accedere alla essenza oggettiva del tutto e a cui si rivela una nuova. �g­gettività interna ( assai più oggettiva della realtà sensibile esterna ) , la vera oggettività, vi è unità immediata di s�g­getto e oggetto al posto della duplicazione e della med�tt; zione propria del pensiero formale astratto. In questa uruta immediata del pensiero con l'oggetto, il pensiero si risolve nell'oggetto da cui è come assorbito: la coscienza deve obliar­si nell'oggetto tanto da obliare se stessa. Non man�a�o nu­merose frasi hegeliane per documentare questa test, il che permette allo Iljin di affermare: « Questa immediata �usione del pensiero intuitivo con l'oggetto fu per la filosofia dt Hegel decisiva e ricca di conseguenze: diventò la fonte di tutto il suo sistema che sta o cade con questo atto di pensiero » ( pp. 51-52 ) . La sfera ideale dell'oggettività pensata,

.. :he è

infatti la più vera realtà, rappresenta l'accesso alla realtà assoluta. L'essere per Hegel è l'essere assoluto. egli non

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pensa neppur lontanamente che la filosofia possa occuparsi dell 'essere empirico. Questa realtà assoluta è il concetto spe­culativo, il « concetto » semplicemente, il quale ha queste tre caratteristiche: da esso ogni cosa riceve la forma della universalità, si muove in ritmo dialettico, si leva allo stato di concretezza.

È a proposito della seconda caratteristica del concetto speculativo, la dialettica, che si vede l'intenzione polemica della interpretazione intuizionistica. Si è creduto e si crede, osserva l'autore, che la dialettica sia la più importante sco­perta di Hegel : « Bisogna ben stabilire al contrario che la dialettica non costituisce né il contenuto principale, né il vertice più alto della filosofia hegeliana; e che il ritrovamento e il culto delle contraddizioni logiche non dovrà mai diven­tare l'occupazione di un hegeliano intelligente » ( p . 123 ) . La dialettica non è un metodo ma una caratteristica del­l ' oggetto. Hegel non ha fatto altro che cogliere intuitiva­mente questo ritmo immanente nell'oggetto stesso. Quindi per il suo metodo filosofico Hegel non è un dialettico ma un intuizionista che ha colto il ritmo dialettico dell'essere assoluto. E la dialettica non deve intendersi come un me­todo del soggetto umano, ma come un modo oggettivo di vivere dell'oggetto speculativo. L'uomo pensa dialettica­mente perché l'oggetto ( il concetto speculativo ) vivè esso stesso dialetticamente. Del resto, il ritmo dialettico non esaurisce l 'essenza del concetto, perché termina in una sin­tesi concreta che è l 'ultima e più alta parola della vita del concetto. Questa idea della concretezza speculativa del con­cetto ( ''etamente l'idea centrale della filosofia di Hegel. La concretezza è la forza motrice dell'intero processo e lo scopo supremo di ogni essere e di ogni divenire. « La concretezza spe­culativa determina il punto di partenza e di arrivo, il principio e la conclusione del processo divino. Ogni cosa respira e vive per realizzarla, per diventare il suo inno vivente » ( p. 148 ) . Qui nella cnrwretezza. è l'anima della filosofia hegeliana. Può dirsi hegeliallo soltanto colui che abbia accolto questa

l

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tesi : « L'essenza di ogni essere e di ogni perfezione consiste nella realizzazione dialettica della concretezza speculativa nell'ambito del pensiero reale » ( p. 149 ) .

Ora questo concetto speculativo, universale, dialettico e concreto, che si rivela al pensiero intuitivo della filosofia, è la divinità stessa. Questa realtà assoluta, questa realtà unica che costituisce il concetto speculativo, è Dio. « Tale idea sta alla base di tutta la sua filosofia, della sua fede e della sua conoscenza; costituisce l 'ultimo e più pro­fondo senso di tutte le sue affermazioni e di tutti i suoi insegnamenti » (p . 1 8 1 ) . Il concetto è l'essere, la sostanza; è oggetto; è lo spirito. Il concetto è divino perché costitui­sce nella sua essenza la realtà assoluta che è assoluta perfe­zione; è in sé e per sé infinito e assoluto Tutta la filosofia di Hegel è tesa verso questa verità: « che fuori di Dio nulla esiste ». Dunque la filosofia vera, per Hegel, si rivela come panteismo. Ma c'è un panteismo che parte dal mondo, iden­tificato senz'altro con Dio; non è quello di Hegel. Il pan­teismo di Hegel, al contrario, parte da Dio come unica realtà1 e la realtà del mondo è riconosciuta soltanto in quanto Dio è presente nel mondo. Ciò implica il non essere del mondo come esistenza particolare e autonoma. Il panteismo di Hegel è al tempo stesso acosmismo. E ancora: siccome la realtà divina è il concetto, panteismo per Hegel significa pure panepistemismo. La scienza non è soltanto la rivelazione di Dio, è la presenza di Dio: Dio è la scienza. Ogni categoria della scienza è un modus essendi di Dio; e l'intero sistem.a della filosofia scientifica o della scienza speculativa sviluppa la storia vivente della lotta, della passione e della risurre­zione di Dio. Dio è il Logos vivente, e la scienza è il sistema di questo Logos vivente. Al di fuori della filosofia non c'è nessuna realtà, perché Dio, la realtà assoluta, è la stessa filosofia: ecco qual'è la formula esatta, secondo lo Iljin, del supremo ardimento metafisica di Hegel .

Ma fu l 'ardimento metafisica dei primi anni: una gran­diosa concezione filosofica creata al di fuori di ogni contatto

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con le scienze empiriche e col mondo. Ma Hegel avrebbe potuto restarvi fedele? Come per ogni sistema di teologia speculativa, il problema fondamentale di Hegel fu quello del passaggio dall'assoluto al relativo, da Dio al mondo. Vi sono due soluzioni estreme: o il mondo empirico rimane fuori questione, o viene accettato in tutta la sua caotica malva­gità, come antidivino. È anche possibile una soluzione in­termedia di compromesso. Hegel nel corso della sua vita filo­sofica le toccò volta a volta tutte e tre, ma la sua conce­zione fondamentale ( panteismo acosmistico ) fu la prima: il sogno, proprio del visionario intuizionista, della divinità totale del mondo. Per dare forma e sistema a questa visione metafisica, egli non accetta il mondo irrazionale dell'empiria, rifiuta di prendere in considerazione il veleno della relati­vità e del male; senonché, questo mondo del relativo, non accettato né superato ma messo da parte, finisce per ven­dicarsi e condurre a fallimento l 'intero sistema.

Per uscire dalla difficoltà Hegel tenta in un secondo tempo una soluzione di compromesso: la conciliazione tra lo speculativo e l'empirico avviene col concetto di Wirklichkeit (da distinguersi da Realitat), che è l'unità di essenza e di esi­stenza. La tesi della razionalità della Wirklichkeit e della Wir­klichkeit del razionale fu formulata da Hegel quando aveva ormai riconosciuto il veleno della relatività, e fu una tesi tipicamente conciliante che riposava sulla possibilità di una simbiosi speculativa tra il concetto e l'elemento empirico­concreto. L'idea viene depotenziata in modo da adattarla al mondo del peccato; e il mondo emprico viene potenziato per elevarlo all'idea. Il razionale viene scoperto e affermato anche nell'irrazionale. O, in altre parole, la dottrina della Wirklichkeit) come conciliazione tra l 'idea e il mondo em­pirico, include l'elemento irrazionale nella trama vivente di Dio. Ma sino ad un certo punto ed entro certi limiti: il potenziamento dell'empirico avviene pur sempre nel mondo e non 'nella scienza, nel senso che le singole figure ( Weltge­stalten ) della descrizione empirico-speculativa del mondo,

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come l'organismo naturale, l'uomo, lo stato, l'arte, la reli­gione, ecc. rimangono fuori dalla scienza speculativa, co­struite, come sono, schematicamente ma non inserite nel paradiso della filosofia. Ciò non significa che tali figure siano escluse dalla trama divina; ma il cammino di Dio si scinde in due: nella scienza e nel mondo. Sono due strade divine, quella della scienza e quella del mondo, che non coincidono, anzi si escludono. La prima via presenta una serie sistema­tico-scientifica di categorie e rimane sempre nell'ambito del concetto speculativo ( la logica ) ; la seconda è una corrente di eventi cosmici e storici ( la filosofia della natura e dello spi­rito ) in cui non è più rintracciabile nessuna serie speculativa.

Hegel cercò, dunque, in un secondo momento, di acco­gliere il mondo nella sua concezione originariamente aco­smistica. Ma questo mondo è irriducibile alla scienza; per quanti sforzi egli abbia fatto di razionalizzarlo ( e il falli­mento di questi sforzi è palese soprattutto nella filosofia del diritto e della storia, sulle quali lo Iljin si sofferma in modo particolare ) , il mondo sfugge alla scienza e la scienza non abbraccia il mondo. Ma dò significa che la concezione originaria e fondamentale del panepistemismo è costretta a naufragare definitivamente. Perché il programma iniziale del panteismo panlogistico fosse realizzato, si sarebbe dovuto o negare il mondo empirico ( ma era poi una pura e semplice soluzione di rinvio ) o trasformarlo in un sistema di in­dividualità speculative: programma, questo, che Hegel sol­tanto sognò romanticamente ma non realizzò, perché gli mancarono l'evidenza religiosa e la fiducia filosofica che ogni essere e ogni esistenza sono veramente e completamente un dono di Dio. Così Hegel diede al mondo empirico una giu­stificazione soltanto parziale. La sua teodicea perdette il carattere monistico e panlogistico, ed oscillò tra le due so­luzioni intermedie del panteismo parziale e del dualismo mascherato. In generale si può dire che, invece del panteismo iniziale ( tutto è concetto ) , Hegel sviluppò a contatto con le scienze del mondo una forma di panteleologismo ( tutto

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è organicamente conforme allo scopo ) . La sua parola ini­ziale è concetto; ma la sua parola ultima è organismo. Il suo Logos si trasforma in un Telos organico. Ed egli invece di essere un panlogista si presenta alla fine come un visionario romantico.

Ma quel che è più grave, se l'uomo ha dei limiti, nello stato e nella storia, dal momento che la storia è il cammino di Dio nel mondo, i limiti dell'uomo sono i limiti stessi di Dio. Il cammino di Dio nel mondo è la storia della sua passione. Così, quello che doveva essere il poema eroico della lotta divina per la vittoria, diventa l'infinita tragedia della passione divina. A questo punto si rivela, conclude lo Iljin, la crisi della teodicea: un assoluto che soffre non è un asso­luto. Il Dio di Hegel non è un Dio, ma un creatore di se­cond'ordine, un demiurgo. Eppure Hegel aveva ben preso le mosse negli scritti giovanili da una ispirazione cristiana. La dottrina cristiana gli aveva dischuiso la conoscenza reli­giosa, e gli aveva offerto quel concetto di amore che fu cer­tamente la prima componente del suo pensiero intuitivo. Ma ormai, giunto al compimento della sua vita speculativa, il cristianesimo è lasciato alle spalle. Egli imparò dal cristia­nesimo; ma insegnò qualche cosa che non era più cristiano.

Così senz'accorgersi lo Iljin, partito con baldanza contro gli interpreti di sinistra, finisce per giustificare più la loro posizione che non quella dei fedeli della destra. Che diffe­renza c'è tra questo panteismo irrazionalistico e l'ateismo? Che differenza, ancora, tra il demiurgo in cui si risolverebbe il Dio di Hegel, e l'umanità di Feuerbach e degli altri Giovani hegeliani? Come si può parlare di dottrina religiosa, di fi­losofia teologica, se l'ultima parola di questa cosiddetta teo­logia speculativa è la crisi della teodicea, cioè il riconosci­mento dell'impossibilità di giustificare Dio attraverso il mondo dell'esperienza e della storia? Come si può conci­liare la premessa iniziale che la filosofia di Hegel è una dot­trina contemplativa di Dio con la conclusione finale che il Dio di Hegel non è un Dio, che la contemplazione di Dio

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e m realtà una contemplazione della tragedia senza uscita della storia? Al di là della polemica fra destra e sinistra, la posizione dello Iljin è già di per se stessa una testimonianza abbastanza eloquente delle difficoltà e dei pericoli a cui va incontro una interpretazione teologico-mistica che non voglia far concessioni agli avversari. Sono le difficoltà e i pericoli che hanno posto in crisi nei più recenti studi ( che vedremo tra poco) questa prospettiva, la cui validità ci appare già pregiudicata dallo sviluppo stesso dell'opera dello Iljin, che proclama la filosofia di Hegel « dottrina contemplativa di Dio », e giunge alla fine, dopo una esplorazione obbiettiva e spregiudicata, a presentarcela come « un poema tragico della passione nel mondo di un eroico non-Dio » ( p. 12 ) . Ma questo non-Dio non è forse il punto nodale della inter­pretazione ateistica ?

5 . Verso un'interpretazione umanistica. - Più che di una interpretazione totale dello hegelismo ( queste interpreta­zioni, come abbiamo visto, se non si arrestano alla fine sulla ambiguità e bipolarità hegeliana, costituiscono dei tentativi unilaterali di reductio ad unum), Jean Hyppolite sembra preoccupato di comprendere con scrupolosa esattezza i testi hegeliani, soprattutto quelli giovanili, e di far conoscere in Francia i risultati della critica più recente che ha contri­buito, lavorando appunto sulle opere giovanili, a sfatare al­cuni miti hegeliani . Nel 1935 egli esordiva con un saggio pubblicato a due puntate sulla « Revue de metaphysique et morale » : Travaux de Jeunesse de Hegel d'après !es ouvrages recents (pp. 399-426; 549-577 ), in cui, partendo dalla dis­soluzione del mito del panlogismo hegeliano (Kroner, Hart­mann, Wahl), esaminava, sulla scorta del primo volume dello Haering, le opere hegeliane dei periodi di Tubinga, Berna e Francoforte, e accettando quasi sempre le correzioni dello Haering all'interpretazione del Dilthey, insisteva sull'origi­nalità e sull'autonomia del pensiero di Hegel durante gli anni della sua formazione, e soprattutto sulla sua indipen-

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denza rispetto allo Schelling. Ma la notorietà di Hyppolite nel campo degli studi hegeliani fu dovuta alla traduzione francese della Fenomenologia ( 1939-4 1 ) \ che uscì qualche anno dopo quella italiana del De Negri. Evidentemente, il nuovo volume, citato in testa a questa rassegna, è il frutto del continuo, vigile, intelligente contatto del traduttore con un'opera, come la Fenomenologia, che si apre solo a chi non ha fretta di entrarvi. La lunga consuetudine del traduttore col testo fa scoprire certi legami meno evidenti, che sfuggono al lettore comune, e anche allo studioso; soprattutto mette in mano al traduttore alcuni segreti della terminologia. Chiun­que abbia fatto in piccolo o in grande questa esperienza, sa che il miglior modo di intendere Hegel ( e in genere i filosofi che parlano una lingua chiusa ) è di tradurlo.

Il massiccio volume di cui stiamo per occuparci, è una minutissima esposizione, che sta fra la parafrasi e il com­mento, della Fenomenologia, seguita libro per libro, capi­tolo per capitolo, paragrafo per paragrafo, con una parti­colare attenzione rivolta al libro VI (Lo Spirito) , la cui analisi occupa da sola 200 pagine. Più volte i commenta­tori di Hegel e gli storici della filosofia si sono avventurati nella tremenda impresa di esporre la Fenomenologia. Ma si­nora nessuno aveva condotto a termine simile fatica con tanta larghezza di mezzi e con cosi ferma volontà di non tralasciare nessuno dei passi importanti. Se mai un rim­provero si può muovere a Hyppolite è di aver peccato per eccesso. Il libro non è facile né attraente. L'autore ha espo­sto il pensiero di Hegel cercandone i nessi interni che sono, com'è noto, moltissimi e non chiari, richiamando l'atten­zione sulle opere giovanili che servono da precedente ri­schiaratore, spiegando il significato delle parole, interpre-

4 Scrisse pure nel fratten:po alt�i d�e �rticoli: Vie e� prise de conscience de la vie dans la phzlosophte hegelzenne de Jena, �n �< Re":ue de métaphysique et de morale », XLV, 193�, pp. �5-61 ;

_ e La szgmficatz�n

de la Révolution française dans la Phenomenologze de Hegel, m « Revue philosophique », CXXVIII ( 1939), pp. 321-352 .

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tanto i riferimenti storici, di cui tutta l'opera è intessuta. Ma non ha compiuto una disarticolazione dell'opera, come invece ha fatto con successo (e lo vedremo prossimamente) il Kojève, il quale ha smontato pezzo per pezzo la Fenome­nologia, ha numerato i singoli pezzi e poi li ha rimontati dopo averli ordinati. Hyppolite, per il desiderio di essere completo, il più completo dei commentatori della Fenome­nologia, si è messo troppo vicino alla sua opera, tanto da non riuscire ad emergere di sotto all'impalcatura sistema­tica, entro la quale si muove sì con perizia e con sicurezza, ma di cui non vede (o per lo meno non riesce a far vedere al lettore anch'esso rinchiuso nel sistema) il movimento in­terno e segreto. La differenza tra Kojève e Hyppolite rispetto all'atteggiamento assunto di fronte alla Fenomenologia (non parlo qui dell'interpretazione) si può riassumere in questi termini : il primo ha preso francamente e decisamente la Fenomenologia come un libro esoterico, e ne ha cercato una chiave: buona o cattiva che sia, è pur sempre una chiave che dà l'impressione al lettore di aver in mano uno stru­mento che gli permette finalmente di aprire qualche cosa

�he sinora era stato chiuso a sette sigilli. Per Hyppolite, mvece, la Fenomenologia è semplicemente un'opera astrusa, da commentare spiegandone la terminologia, i nessi oscuri e i riferimenti storici poco scoperti. Così egli ripercorre il cammino già percorso da Hegel, ma non squarcia il velame. E il lettore si trova dentro all'opera dello Hyppolite come un fanciullo bendato e portato per mano. Kojève non porta per mano: toglie le bende. Questi illumina e poi il lettore cammina per conto suo; l'altro guida, ma arrivato alla :fine il lettore è stanco per aver troppo camminato e non sa nep­pure con precisione dove sia arrivato.

Nell'intenzione di capire e far capire il pensiero di Hegel prima di imporre l'una o l'altra interpretazione, Hyppolite non sopraffà mai il testo: questo costituisce indubbiamente il particolare valore dell'opera, che rivela prima di tutto uno sforzo di fedeltà e di lealtà, coraggioso sforzo dinanzi

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a un'autore come Hegel e a un'opera come la Fenomeno­logia, di fronte a cui si è attratti continuamente dalla ten­tazione di risolvere obscurum per obscurius, o di prendere i fìlosofemi per miti e mitologizzarli a nostra volta bizzar­ramente. Direi che le caratteristiche (e anche l'insegnamento) di questo commento, là ove affronta problemi d'interpre­tazione, sono la cautela critica, la prudenza ermeneutica, la visione aperta al problema e non chiusa sulla soluzione. Per esempio, sin dall'inizio l'autore si pone il problema della struttura della Fenomenologia e si domanda se sia una storia dell'umanità o una fìlosofia della storia, prefe­risce rispondere attenendosi quanto più è possibile dl testn hegeliano; e pertanto la definisce come l'elevazione della coscienza empirica al sapere assoluto, da un lato, e l'eleva­zione dall'io empirico all'io umano, alla coscienza dello spi­rito del suo tempo, dall'altro. Indi aggiunge, a guisa di an­notazione psicologica, che essa è pure da considerare come l'itinerario attraverso cui Hegel descrive la propria forma­zione spirituale. Né mostra preferenza per le tesi radicali, come quando afferma ( contrariamente, come vedremo, al paradossale Kojève ) che non si debba ritenere abbia Hegel voluto considerar terminata la storia col proprio sistema ( p. 49 ) . Soprattutto poi, quando giunge all'alternativa fon­damentale della critica hegeliana - interpretazione teolo­gico-mistica o interpretazione ateo-umanistica - appare assai chiaro che il suo atteggiamento è quello di non forzare la soluzione. Forse che Hegel è mistico nel senso di un Eck­hardt e di un Bohme? No. Forse che è umanista nel senso di Feuerbach? Neppure. Per quanto l'autore mostri maggiore simpatia per una interpretazione umanistica e si lasci andare ad affermare in una nota, quasi di sfuggita, che « il pensiero hegeliano - ad onta di certe forme - ci sembra molto lontano dalla religione » ( p. 525 ) , pure a conclusione della discussione su cotesta alternativa si limita a dire, con pa­role che non potrebbero essere meno avventate: « Nell'in­sieme la lettura delle pagine che Hegel consacra alla reli-

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gione nella Fenomenologia [ . . . ] suggerisce più un'interpreta­zione umana della religione che non un assorbimento della vita umana nella vita divina » (p . 525 ) .

Le simpatie per un'interpretazione umanistica, qui sol­tanto suggerite, per la raffigurazione di un Hegel etico-poli­tico più che teologico-mistico, il nostro autore, se mai, le confessa e professa apertamente nel più recente e breve sag­gio, già prima citato: Indroduction à la philosophie de l'histoire de Hegel. Anche qui egli ritorna sulle opere giovanili, le quali sono ormai da quarant'anni il cavallo di battaglia della critica hegeliana. Proprio in queste opere, la cui sco­perta è stata l'origine della fortunata interpretazione teolo­gico-mistica di Hegel, di un Hegel « romantico e mistico », contro la più corrente e convenzionale interpretazione pan­logistica, e ha messo in circolazione per opera del Glockner la tesi del « pantragismo hegeliano » in antitesi e in lotta col panlogismo, proprio in queste opere Hyppolite mette in rilievo un nucleo èentrale di concetti che dimostrano in-' vece, nel giovane pensatore, un acutissimo interesse per i problemi politici e sociali. Secondo Hyppolite, infatti, l 'espe­rienza fondamentale di Hegel nei suoi primi anni di appas­sionamento per i problemi della cultura e della storia, gra­viterebbe intorno all'idea della « totalità storica », intesa come la realtà super-individuale che muove la storia, i\1 una parola, intorno all'idea del Volksgeist. Partendo da un atteggiamento anti-individualistico in reazione all'illumini­smo, già nei primi scritti di Tubinga Hegel affermerebbe una concezione organica del popolo che si contrappone alla concezione atomistica degli illuministi. Nel periodo di Berna, attraverso il concetto di « religione positiva », Hegel affronta · il problema dell'unità di ragione e storia, e superando il con­cetto astratto dell'uomo, proprio del secolo XVIII, si eleva ad una concezione più profonda della libertà, intesa non più come libertà negativa, ma come libertà vivente, che rende possibile la riconciliazione dell'uomo con la sua storia. An­che nel periodo di Francoforte, che per la maggior parte

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dei critici rappresenta una rottura con le idee ancora imma­ture degli anni precedenti e l 'inizio di una crisi spirituale da cui deriverebbe l'orientamento irrazionalistico ( soprat­tutto in funzione del concetto di « destino » che compare in quegli anni per la prima volta e su cui Hegel accentra la sua attenzione nello scritto Lo spirito del cristianesimo e il suo destino ) , Hyppolite si rifiuta di vedere una frattura o una involuzione; e parla piuttosto col Glockner di una evoluzione in cui viene in primo piano il problema dell'irrazionale nella storia, ma di un irrazionale che porta in sé il germe della propria opposizione e del proprio superamento. Appunto per ciò, secondo Hyppolite, « il futuro autore della Logica non si abbandona ad un misticismo e a un panteismo irra­zionale, ma si sforza di allargare la ragione per renderla capace di comprendere questa vita, e l'idea del destino è precisamente questo concetto razionale-irrazionale col quale Hegel elabora la propria dialettica della vita e della storia » ( p . 40 ) . Il destino è lo spirito originario di un popolo: e ancora una volta, attraverso il concetto di destino, Hegel dimostra di considerare il popolo come una totalità vivente, il soggetto della storia, l 'incarnazione dell'idea, l 'universale concreto. Quando poi nel periodo di Jena Hegel inizierà una riflessione più sistematica, e, convinto di aver raggiunto una piena maturità, darà alla luce le sue prime opere, si varrà della intuizione primitiva degli scritti giovanili per formulare una vera e propria teoria del diritto, dello stato e della mo­rale. Questa apparirà, infatti, già compiuta e fissata, ad esempio, nel saggio sul diritto naturale del 1802, che Hyp­polite considera come una delle opere più notevoli dello Hegel, tanto per la originalità quanto per la densità di pen­siero. Qui per la prima volta Hegel oppone la propria con­cezione organica del diritto alla concezione egualitaria e astrattamente universalistica del giusnaturalismo, e afferma l'organicità del diritto come espressione della totalità orga­nicà del popolo. Certamente, Hegel è rimasto sino a questo punto sotto l 'ispirazione diretta della costituzione della città

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antica. Solo più tardi, nei corsi di Jena del 1 805-6, pren­derà coscienza dello stato moderno e dei suoi problemi. Ma rimarrà vivente e operante nella sua riflessione, sino alla Filosofia del diritto del 1 82 1 , la concezione organica degli anni giovanili, si che il nostro autore può ripetere col Ro­senkranz che se nell'opera più matura Hegel ha saputo dare al suo pensiero un'espressione più precisa e più siste­matica, è in queste prime opere di Jena che l 'originalità della sua concezione si manifesta nella forma più pura e più viva.

Sembra superfluo sottolineare l'importanza di questa breve indagine che tende a spostare l'interesse della critica da un Hegel romantico e mistico ad un Hegel romantico e poli­tico, e dà l'avvio ad una interpretazione storicistica e umani­stica del pensiero hegeliano, cioè a quella interpretazione che proprio le opere giovanili avevano contribuito a fare ormai ritenere insostenibile. Ma nello stesso tempo si può prevedere che questo saggio di Hyppolite, che ha già susci­tato qualche eco in Francia, sia destinato a passare d:ora innanzi in secondo piano, perché viene, per cosi dire, stroz­zato in sul nascere dalle ricerche più complesse e analitica­mente più ricche venute alla luce quasi contemporaneamente ad opera dello scrittore marxista Georg Luckàcs. Il quale, nella opera citata in testa a questa rassegna e che ora ci occorrerà esaminare particolareggiatamente, affronta con una analisi minutissima e filologicamente agguerrita, con una vasta conoscenza dell'ambiente e dei precedenti storici, e con un'impostazione metodologicamente originale, lo stesso tema già affrontato dallo Hyppolite nel breve saggio di cui si è discorso, al fine di abbattere radicalmente e aggressivamente, senza mezzi termini e senza riguardo per gli avversari, la figura di un Hegel irrazionalista e mistico, e di porre �osi le basi di un'intepretazione storicistica che permetta di ap­profondire il problema dei rapporti fra lo scopritore del metodo dialettico e il fondatore del materialismo storico, tra H e gel e Marx.

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6 . Hegel, precursore di Marx. - Sin dall'Introduzione il Lukks espone esattamente i termini della propria pole­mica, la quale è diretta sostanzialmente contro due fonda­mentali e persistenti interpretazioni di Hegel : l'interpreta­zione idealistica che, applicando all'intendimento di Hegel la stessa concezione idealistica della storia della filosofia ( se­condo cui i vari sistemi filosofici si sviluppano l 'uno dal­l 'altro per vie puramente teoretiche ) , ha visto in Hegcl esclu­sivamente l 'ultimo e più rigoroso rappresentante dell'idea­lismo classico tedesco, secondo la ormai nota linea Kant, Fichte ( idealismo soggettivo ) , Schelling ( idealismo ogget­tivo ) ; Hegel ( idealismo assoluto ) ; e l'interpretazione irra­zionalistica inaugurata dal Dilthey ( 1905 ) , che puntando gli occhi soprattutto sugli scritti giovanili pubblicati, appunto, da un suo allievo, H. No hl ( T eologische ] ugendschriften, Ti.ibingen, 1907 ) , ha creduto di aver scoperto l 'inesauribile romanticismo, il misticismo profondo sempre sottostante all'architettura razionale del sistema, e insime anche lo spi­rito teologico-cristiano di Hegel. Di queste due interpreta­zioni il Lukics mette in chiaro le radici ideologiche, che sarebbero da trovare, più visibilmente per la seconda, nel tentativo reazionario di sfruttare uno Hegel camuffato da genuino spirito tedesco, radicato nella tradizione mistico­irrazionalistica della Germania, a servizio dello stato nazio­nalista borghese nell'epoca dell'imperialismo.

Per confutare queste interpretazioni, il Lukics esamina minutamente per più di 700 pagine, opera per opera, direi quasi passo per passo, la produzione giovanile di Hegel, da­gli scritti del periodo di Tubinga sino alla Fenomenologia inclusa, e dunque un periodo di circa quindici anni ( dal 1792 al 1 806 ) , con lo scopo di mettere in rilievo la componente storico-sociale dello sviluppo intellettuale di Hegel, di illu­strare contro coloro che hanno accentuato l 'importanza dei motivi teologici e religiosi, gli interessi storici, politici, so­ciali ed economici ( soprattutto economici ) del futuro autore della Filosofia del diritto . Percorrendo questo nuovo itine-

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13. N. BoBBIO - Da Hobbes a Mar:>t.

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rario hegeliano, il Lukacs ritiene di poter svelare lo Hegel genuino, e illuminare così di nuova luce i rapporti tra Hegel e i suoi predecessori, Kant, Fichte e Schelling; di

. s.fatare l�

leggenda della connessione di Hegel col romant1c1smq; d1 avviare la critica futura ad una migliore comprensione dello Hegel maturo. Ma si propone anche un altro scopo, colle­gato del resto direttamente col primo: mos�rand� quan�o grande sia stato l'influsso, esercitato dalla d1scuss1one ( m cui Hegel si impegnò negli anni giovanili ) intorno ai pro­blemi della società capitalistica, sull'intera costruzione del sistema e sulle caratteristiche della dialettica, ìntende far vedere « quale influsso lo studio dei problemi economici ab­bia avuto per il sorgere del pensiero coscientemente dialet­tico del giovane Hegel » ( p. 22 ) . Questo secondo fine del libro spiega le ragioni del sottotitolo: « Sopra i rapporti della dialettica con l'economia ».

Prima di iniziare l'esposizione del volume, che è di gran­dissimo interesse, non si può fare a meno di richiamare l'attenzione sul modo con cui il Lukacs tratta gli avversari : non si accontenta di criticarli, ma li respinge con sdegno e, quel ch'è più, li disprezza. Chiama le loro teorie costan­temente « falsificazioni », o peggio « menzogne storiche fa­sciste » ( p. 14 ) , o « leggenda storica degli apologeti reazio­nari dell'imperialismo » ( p. 45 ) ; attribuisce continuamente al Dilthey e seguaci non so quali diaboliche e sinistre inten­zioni. Chiunque abbia sostenuto l'interpretazione irraziona­listica di Hegel diventa un borghese imperialista e fascista. Interpretazione mistica e interpretazione fascista di Hegel sono per il Lukacs sinonimi. Per quanto ci siamo abituati in questi ultimi anni a siffatto modo di critica o di « liqui­dazione » delle idee degli altri, che è ormai diventato una caratteristica deformazione professionale del marxista mili­tante, tuttavia, ogniqualvolta ci accade di trovarcene innanzi un nuovo esempio, non possiamo fare a meno di provarne sorpresa; ma poi alla sorpresa segue il fastidio e anche il dispetto quando vediamo, come in questo caso, tanta vasta

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cultura, tanto spirito di penetrazione e tanto vigore di me­todo quasi frustato o per lo meno messo in sospetto, sin dall'inizio, da quella velenosità che schizza fuori ad ogni riga sin dall'introduzione, da quel furor da teologp che trasforma continuamente l'errore storico in colpa morale o peggio po­litica, per gettare sull'avversario il disprezzo che si conviene non al mediocre storico della filosofia, ma all'uomo malva­gio o al politico infame. S 'intende che questo modo di cri­tica non si ripete nei marxisti a caso: ha una sua ragione teorica, a cui il marxista mal si sottrae dato che quel modo di critica altro non è che una manifestazione di quella con­vinzione generale che l'ha condotto ad accettare il marxismo piuttosto che un'altra filosofia. Partendo dalla convinzione che la filosofia sia una sovrastruttura ideologica, in quanto è la concezione del mondo che corrisponde in ogni tempo ad una determinata situazione ed azi'one di classe, si deduce che essa non è una forma autonoma di sapere che abbia le proprie leggi di formazione e di sviluppo, ma nasce e si svolge in relazione al costituirsi di determinati rapporti di classe e in funzione di essi. Durante il dominio della classe borghese, il filosofo borghese, come lo statista, come il prete,

· ciascuno -nella propria sfera, è uno strumento del dominio della classe dominante. Perciò partecipa e collabora per la sua parte - che è quella di fornire ai dominatori una conce­zione del mondo che permetta di giustificare il loro domi­nio - alla politica della classe borghese, e ne divide le re­sponsabilità. San così poste le premesse per la trasformazione dell'avversario filosofico in avversario politico, con tutte le conseguenze pratiche che si sanno, e che il Lukacs, certa­mente, non ignora. Ma non pare al Lukacs che in questo modo siano poste pure le premesse per una facile ritorsione dei suoi argomenti polemici ed anche delle sue contumelie? Se ogni filosofia è una sovrastruttura ideologica - e quindi ogni filosofia è l'espressione di una determinata politica -non si vede perché non debba essere una sovrastruttura ideologica anche la filosofia che il Lukacs accetta, e quindi

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non si vede perché anche la sua filosofia non debba essere espressione di una determinata politica ( rimarrebbe poi sem­pre a vedere se sia ideologica anche la tesi che ogni @oso­fìa è ideologia, ma questo il Lukacs evidentemente rifiuta ) . Più precisamente: se si accetta che l 'interpretazione irrazio­nalistica di Hegel sia un'interpretazione fascista, non si vede perché non si debba chiamare l 'interpretazione storicistica, sostenuta dal Lukacs, con qualche nome tratto da ideologie politiche, per esempio col nome di interpretazione comuni­stica. Ma allora non ritiene il Lukacs che chi non accetta l'ideologia .comunistica ( e perché tutti, posto che si tratta di un'ideologia, dovrebbero accettarla? ) avrebbe ugual di­ritto di ricambiarlo con lo stesso sdegno e con lo stesso di­sprezzo di cui egli è così largamento prodigo nei confronti dei suoi avversari? Ma allora il campo della critica storica non sarebbe ridotto ad un campo di battaglia in cui non lot­terebbe più se non furore contro furore? Non sarebbe con ciò stesso rotta ogni possibilità di dialogo tra uomini di cultura e il pensiero non verrebbe rinchiuso in tanti intermi­nabili e orgogliosi e inconcludenti soliloqui? Non sarebbe, ancora una volta, questa riduzione dell'avversario filosofico ad avversario politico, il trionfo dell'intolleranza, il segno cioè che si è ripercorso ancora una volta a ritroso il cammino che aveva condotto faticosamente - grazie al principio di tol­leranza - a considerare anche l'avversario politico come un avversario filosofico?

L'analisi del Lukacs divide lo sviluppo mentale del gio­vane Hegel in tre periodi che corrispondono agli anni di Tubinga e Berna ( sino al 1796 ) , di Francoforte ( 1797-1 800 ) , e di Jena ( 1 801 -1807 ) . Le opere principali del primo periodo sono Volksreligion und Christentum, Leben . ]esu e Positivitat der christlichen Religion ; del secondo, Geist des Christentums ttnd sein Schicksal, i frammenti di due opu­scoli sulle discussioni alla dieta del Wiirttemberg e sulla costi­tuzione tedesca, e il cosiddetto System-fragment; del terzo, il saggio sulla Differenz des fichteschen und schellingschen

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Systems der Philosophie, gli articoli pubblicati sul « Kriti­sches Journal der Philosophie », la Fenomenologia, oltre ai Sistemi, cosiddetti, di Jena.

Per il primo periodo il Lukacs dimostra che il pensiero di Hegel si radica nell'illuminismo tedesco. Occorre però non confondere l 'illuminismo tedesco con l 'illuminismo francese: in Germania, per le condizioni più arretrate della vita so­ciale, la filosofia dei lumi è meno progressiva che in Francia· . ' non gmngerà mai al materialismo, ma si arresterà nella parte

?iù avanzata ad una specie di panteismo spinoziano, onde 1l problema religioso sarà la preoccupazione costante degli ill��inisti ted�schi . Si badi però, osserva il Luldcs, che per gh mtellettuah tedeschi, nelle condizioni ancora semifeudali in cui si trova il loro paese, occuparsi di religione è l 'unico modo di occuparsi di politica. Non deve quindi trarre in in­gann� l'interessamento di Hegel per i problemi religiosi ; non s1 tratta affatto di un interesse teologico ( come potrebbe lasciar intendere il fuorviante titolo dato dal Nohl alla sua raccolta di scritti giovanili hegeliani ) , ma di un interesse prevalentemente etico-politico. Del resto, appartiene all'es­senza della filosofia idealistica la sopravalutazione della reli­gione ( il Lukacs si richiama al noto giudizio di Lenin: « Idealismus bedeutet Pfaffentum » ) e Hegel non è mai uscito fuori dall'idealismo. Il suo interesse etico-politico per la religione dipende dal fatto che, legato alle condizioni reali della Germania del suo tempo, che non permettevano lo sviluppo di una rivoluzione politica, considera la riforma del la s�cietà non già negli schemi di una rivoluzione politica, ma umcamente sotto l 'aspetto di una riforma religiosa. Il problema della riforma religiosa, da attuarsi dopo la fine del cristianesimo ( e qui il Lukacs avanza l 'ipotesi che Hegel abbia subìto l 'influsso dei culti rivoluzionari del tempo di Robespierre ) , è il problema politico di Hegel, l 'unico pro­blema politico che poteva essere posto da chi aveva assor­bito lo spirito dell'illuminismo tedesco.

L'atteggiamento politico-religioso di Hegel in quegli anni

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è caratterizzato da una nettissima e costante polemica contro il cristianesimo ( e questo è ancora illuminismo ) , e da un' am­mirazione entusiastica e giovanilmente ingenua per la società antica, per la civiltà religiosa e politica della polis, a cui egli riallaccia i suoi primi ideali repubblicani, democratici ed egualitari ( si veda lo sviluppo dato al motivo giacobino dell'eguaglianza dei patrimoni ) , ispirati dalla rivoluzione francese. Nei termini della critica religiosa, in cui Hegel trasporta ogni problema, questa contrapposizione tra l 'anti­chità vagheggiata e il cristianesimo respinto diventa contra­sto tra religione pubblica e religione privata, tra religione soggettiva ( in cui l 'uomo è libero ) e religione positiva ( in cui domina il conformismo e l'asservimento ) . Il concetto di positività, come morta oggettività, è, secondo il Lukacs, il concetto fondamentale elaborato da Hegel in questo pe­riodo; in esso si può intravvedere il germe del concetto di alienazione, nel quale sarà risolto in seguito l 'intero problema dell'oggettività nel pensiero, nella natura, nella storia. La religione cristiana, in quanto rappresenta il momento della positività, è l 'espressione della società decadente borghese­cristiana, in cui, dissolta l'unità della comunità antica, si riproduce il dissidio tra l 'uomo privato e l 'uomo pubblico; come tale, deve essere eliminata e superata in nome di un ritorno all'antica libertà della comunità in cui l 'uomo è cit­tadino. Già si può parlare in questo primo saggio dell'idea di un ritmo nella storia (precedente ancora informe e rozzo della futura concezione dialettica della storia ) : è il ritmo che procede dalla libertà originaria ( Grecia antica ) , trapassa nella perdita della libertà ( cristianesimo ) , per tendere alla riconquista della libertà, cioè al momento finale in cui av­verrà la riconciliazione dell'individuo con la realtà, negata dal cristianesimo. Per il Luklks l 'importante è che in tutti -questi motivi nulla vi è che possa far pensare ad un Hegel romantico e tanto meno mistico e irrazionalista. Hegel sin qui è figlio dell'illuminismo tedesco. I suoi ideali religiosi, che sarebbero poi ideali politici -rivestiti di un forma reli- ·

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giosa, sono gli ideali del ritardato e quindi utopistico illu­minismo dei dotti tedeschi.

Più difficile e spinoso si presenta il commento per gli anni di Francoforte, che sono stati sinora il campo preferito degli interpreti irrazionalisti. In questi anni, infatti, appaiono come centrali i concetti di « vita », di « amore » e di « de­stino », che suggeriscono immediatamente la tesi di un natu­rale inserimento del giovane Hegel nel movimento roman­tico, e haimo fatto parlare del senso tragico della vita di un'anima religiosa in dissidio col tempo e in cerca di una riconciliazione definitiva con se stessa e con la sua epoca. In più si assiste, in questo periodo, ad un intiepidimento degli « eroici furori » repubblicani e ad un avvicinamento dell'idealista rivoluzionario, deluso dal corso degli avveni­menti in Francia, al cristianesimo. Il modo con cui il Lukacs affronta le difficoltà dell'interpretazione è estremamente in­teressante, per quanto non sempre convincente. Egli parte, anzitutto, dall'affermazione che il periodo di Francoforte rap­presenta per Hegel un- periodo di crisi e quindi di transizione; pertanto esso non deve essere sopravvalutato per un giudizio complessivo sulla sua opera. Che sia un periodo di crisi ba­sterebbero a dimostrarlo due segni assai chiari : in primo luogo, nessuna delle opere intraprese in questo periodo viene condotta a termine; anzi, generalmente ogni opera termina proprio quando l'autore dovrebbe trame le conclusioni teori­che; in secondo luogo, gli argomenti trattati sono dispara­tissimi e Hegel passa dall'uno all'altro con l'irrequietezza di chi cerca un orientamento ed è continuamente insoddi­sfatto della via prescelta. La crisi, del resto, ha le sue cause ben determinabili. S 'intende che per determinarle bisogna ab­bandonare il metodo psicologico o puramente filosofico ( le idee si sviluppano dalle idee ) , ma bisogna, secondo il Lukacs, adottare i canoni metodologici del materialismo storico, ed esaminare quali sono le mutate condizioni reali in cui si svolge il dramma spirituale, la crisi del giovane Hegel. Il periodo eroico della rivoluzione è finito ed è cominciato il

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periodo del Direttorio, che rappresenta la sistemazione dello stato borghese lontano da tutti gli estremismi. Questa nuova situazione è sentita in Germania assai più profondamente che non lo stadio eroico della rivoluzione. Ma nello stesso tempo cominciano le guerre di conquista e si ridesta in conseguenza di esse lo spirito nazionale tedesco. Ne nasce una contraddizione nella società borghese tedesca tra l'am­mirazione per le conquiste borghesi della rivoluzione giunta a pacifica sistemazione nella politica del Direttorio e la rea­zione contro il sorgere del sentimento nazionale francese. Questa contraddizione è vissuta intensamente da Hegel, il quale, non essendo ancora in grado di superarla, si lascia da essa permeare e sconvolgere. Rispetto al periodo prece­dente, il mutamento più radicale consiste nel fatto che ora egli non rigetta più il presente per rifugiarsi nel vagheggia­mento di ideali antichi, ma lo accetta nel suo assestamento che sembra iniziare una nuova era, e vuole riconciliarsi con esso ( il che prelude all'accettazione totale dello stato napo­leonico nella Fenomenologia ) . Il problema di Hegel è iden­tico a quello dei più grandi spiriti della Germania del tempo ( Goethe, Schiller ) : è il problema della conciliazione con la società borghese nonostante tutto ciò che essa contiene di repugnante. Di questa conciliazione è elemento essenziale la riconciliazione col cristianesimo.

Dunque Hegel rispecchia con la sua crisi le contraddizioni del tempo. Ma il Lukacs, dopo aver preso atto di questa crisi, indugia a dimostrare, con una critica che diventa sempre più penetrante, appoggiata da un abile e dotto argomentare, che Hegel non è, neppure in questo periodo di crisi, come vogliono i suoi critici reazionari, un romantico, un mistico, o un cristiano convertito. Ahzitutto, l'amore di cui parla Hegel non è l'amore romantico, contrapposto antinomica­mente alla riflessione, ma è il superamento dialettico del grado della riflessione, e quindi la contiene in sé. In secondo luogo, il rilievo che Hegel dà al concetto della vita non lo deve far confondere coi « filosofi della vita » del suo tempo :

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dai quali lo distacca in modo fondamentale la ripugnanza dimostrata anche in questi anni ad accettare l'idea-base della filosofia della vita, cioè l'idea del sapere immediato (si pensi alla critica che muoverà di lì a poco al J acobi ) . Attraverso il concetto di vita e di amore Hegel combatte, sì, la filosofia intellettualistica dell'illuminismo ( e per lo meno nella parte critica si affianca ai romantici ) , ma non accetta in nessun modo la soluzione del sapere immediato. , La filosofia della riflessione astratta non è respinta come errore ( ciò che fa l 'irrazionalismo ) , ma è ridotta ad un momento necessario dello svìluppo dialettico . La categoria della mediazione ( molla della dialettica ) è e rimane nel pensiero di Hegel fondamentale : anche l'amore è mediazione. Perciò questo pensiero è. sempre dialettico anche quando può apparire mistico. Infine, l'avvicinarsi di Hegel al cristianesimo deve essere considerato come qualcosa di ben diverso da una con­versione. Lo scritto fondamentale su questo tema, Lo spi­rito del cristianesimo e il suo destino, è uno scritto contrad­dittorio e oscillante : il problema in esso posto, se la riso­luzione delle antitesi recata da Gesù e dalla sua Chiesa sia valida in generale e sia valida ancor oggi, non trova una risposta decisiva. Nonostante le apparenze, la risposta ultima però non è favorevole al cristianesimo, nel senso che esso vi appare come incapace di superare la positività, ossia ciò che è morto nella vita, e quindi rappresenta in definitiva un atteggiamento puramente soggettivo di fronte al morto mondo oggettiyo.

Inoltre, per una valutazione complessiva e non unilate­rale del periodo di Francoforte, sarà bene non dimenticare che proprio in quegli anni Hegel ha incominciato ad occuparsi largamente di problemi sociali e politici concreti . Il Lukacs si sofferma con particolare insistenza, oltre che sugli scritti già citati intorno alla dieta del Wi.irttemberg e alla costitu­zione tedesca, anche sullo scritto in difesa dei diritti del Cantone di Waadt e contro l 'oligarchia di Berna ( che è il primo scritto pubblicato dallo Hegel, anonimo, e rimasto

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per lungo tempo ignorato ) . Parimenti in quel periodo ha inizio l 'interesse di Hegel per i problemi economici ( com­mento alla traduzione tedesca dell'economia politica di Steuart, e lettura, secondo una congettura di Lukacs, di Adam Smith ) . Mentre i suoi antichi commentatori non ave­vano avuto alcun sentore di tali studi, anche perché non davano ad essi nessuna importanza, su questi il Lukacs richiama con energia l 'attenzione: anzi, proprio attraverso gli studi economici, secondo il Lukacs, Hegel arriva alla consapevolezza della dialettica che lo staccherà definitiva­mente dalla filosofia dei suoi contemporanei. E ancora: nel­l'irrequietezza spirituale che contrassegna quel periodo, tra gli studi politici ed economici ed i problemi religiosi, Hegel si misura con Kant e con Fichte, soprattutto nel problema morale. Ne risultano la critica del formalismo e dell'astrat­tezza, la storicizzazione della morale, in quanto la vuota formula viene riempita dalla totalità delle determinazioni della società borghese; insomma una prima e significativa fase dello sviluppo della dialettica, la quale giunge alla piena consapevolezza di sé alla fine del periodo di Francoforte, nel Frammento di sistema) ove Hegel scopre nella contraddi­zione il principio profondo di tutte le cose, onde la relati­vizzazione della rigida unilateralità dei concetti, l'ottundi­mento dei loro limiti reciproci, la risoluzione della loro asso­lutezza metafisica nel passaggio dall'uno all'altro. Con la acquistata consapevolezza della dialettica, il travaglio degli anni di crisi giunge al termine.

Nel periodo di Jena, l'interpretazione romantica di Be­gel si difende sopra una nuova posizione: la derivazione di Hegel da Schelling. Il periodo di Jena, secondo l'interpre­tazione ormai diventata convenzionale, è almeno per i primi anni, il cosiddetto periodo schellinghiano di Hegel. La cri­tica di Lukacs ha dunque di fronte a sé un nuovo bersaglio e deve sviluppare nuovi argomenti : ammette che Hegel ac­cetta in un primo tempo l'idealismo oggettivo come critica e superamento dell'idealismo soggettivo, ma aggiunge che

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ci sono due strade per giungere alla stessa meta: l 'una che conduce a postulare una soprarealtà, indipendente dalla co­scienza, di natura mistica, ed è la strada di Schelling; l'altra che conduce a concepire il mondo come autoproduzione e autoconoscenza dello spirito, ed è la strada di Hegel. La via che percorre il primo è regressiva; la via del secondo, pro­gressiva. Cosi si può dire che il primo periodo di Jena rap­presenta tutt'al più un punto d)incrocio delle due strade che poi, dopo la partenza di Schelling da Jena ( 1 803 ) , sono destinate a divergere sino all'aperta rottura della Fenome­nologia. Anche quando le due strade s'incrociano nell'accet­tazione dell'idealismo oggettivo, Hegel ha già raggiunto con la scoperta della dialettica un punto più elevato rispetto al suo preteso maestro ed amico. E se egli non ritiene ancora di dover manifestare il proprio dissenso, ciò non dipende da tattica o da astuzia ( tesi dello Stirling), ma dal fatto che la sua scoperta è ancora nebulosa, per cui poteva ritenere di essere più vicino a Schelling di quanto in realtà non fosse. La sco­perta della dialettica implica, rispetto a Schelling, una diversa considerazione della contraddizione e del suo superamento. Per Schelling ogni opposizione è negata nell'assoluto; per Be­gel l'opposizione stessa appartiene all'essenza dell'assoluto, che è l 'identità della identità e della non identità. E ancora: en­trambi respingono la filosofia della riflessione; ma mentre il primo va al polo opposto e sfocia nel sapere immediato, il se­condo riconosce la necessità della riflessione filosofica, purché sia integrata dal metodo dialettico. E sarà proprio la concezio­ne schellinghiana del sapere immediato che determinerà il de­finitivo distacco di Hegel dal suo vecchio maestro ed amico, nella Fenomenologia. Se il contrasto con Schelling è meno scoperto, manifesta e dichiarata è la contrapposizione a Fichte e a J acobi. Del primo combatte sia l 'idealismo sog­gettivo sia il formalismo morale; del secondo, tra l'altro, l 'in­dividualismo morale. Nella critica di entrambi Hegel mostra sin troppo chiaramente di rifiutare ogni compromesso col pensiero romantico. Per una confusione di Hegel coi ro-

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mantici può forse ancora trarre in inganno il suo storicismo. Ma lo storicismo di Hegel e quello romantico sono, secondo il Lukacs, profondamente diversi. Il romanticismo conce­pisce il processo come un processo organico senza salti

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rivoluzioni (concezione controrivoluzionaria della stona ) ; per Hegel la storia è una linea interrotta da salti qualitativi, onde risulta assolutamente falsa l'interpretazione reazionaria che mette Hegel sulla stessa linea di Ranke, Bismarck, ecc.

Di qui innanzi l'analisi del Lukacs, sgombrato il terren? dalle false interpretazioni, cerca di chiarire e di penetrare tl senso dello storicismo hegeliano. A differenza degli altri fi­losofi del suo tempo, Hegel approfondisce la comprensione della società borghese moderna. Abbandonata l'utopia gio­vanile del ritorno all'antico, si addentra nello studio e nella comprensione del presente. E a questo scopo si giova degli studi economici, i quali gli permettono di raggiungere una straordinaria acutezza nella conoscenza della società capi­talistica� le cui cohtraddizioni sono contraddizioni econo­miche. Non si insisterà mai abbastanza, secondo il Lukacs, sul fatto che per la prima volta con Hegel vengono intro-

. dotti nella filosofia concetti economici. Infatti, a cominciare dal System der Sittlichkeit, passando al saggio sul diritto naturale, per finire con le lezioni del 1 805-6, non si può disconoscere l'importanza che ha per la comprensione dello sviluppo storico del sistema hegeliano il concetto di lavoro, sul quale lo stesso Marx richiamerà l'attenzione in un noto passo dei Manoscritti del 1 844. Ed è ancora la scienza eco­nomica che offre allo Hegel il concetto di « alienazione », che viene a sostituire e a correggere il concetto di positività degli anni precedenti.

Alla straordinaria chiarezza con cui Hegel penetra attra­verso l'economia nella comprensione del processo di for­mazione e di sviluppo della società capitalistica, si contrap­pone un'altrettanto straordinaria ingenuità nel proporre i rimedi contro le contraddizioni borghesi. Egli trasforma tutta la storia dell'uomo in una grande utopia e sostituisce alla

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risoluzione reale delle contraddizioni il sogno filosofico della revoca dell'alienazione attraverso la trasformazione della so­stanza in soggetto. Questo permanente utopismo rappresenta per così dire il rovescio della medaglia della figura teoretica di Hegel, cioè il suo idealismo. C'è una lotta costante nel pensiero di Hegel tra la scoperta della dialettica e la confi­gurazione idealistica del suo pensiero, che è poi la lotta fra il metodo e il sistema, del resto notata già da altri critici. Si tratta di due vere e proprie tendenze : l'una sta alla base della nuova dialettica logica che conquista l'universale parten­do dall'auto-movimento del particolare; l'altra, che conduce alla fissazione idealistica delle universalità fittiziamente conqui­state, è costretta, secondo il modo della vecchia logica me­tafisica, a sussumere il particolare nell'universale. La tendenza idealistica, peraltro, finisce poi sempre di prendere il soprav­vento e costituisce il limite di Hegel nonostante la sua aper­tura verso il futuro. Ed è anche un limite invalicabile. Sono le condizioni stesse della società borghese in cui egli vive che non gli permettono di superarlo. La contraddizione in cui si dibatte è dunque il rispecchiamento delle contraddi­zioni della società tedesca del suo tempo.

Questa delineazione della figura teoretica di Hegel, che vien fuori dalla confutazione delle interpretazioni roma,n­tiche e mistiche, serve evidentemente al Lukacs per rag­giungere anche un altro scopo assai più ampio che non sia quello della retta interpretazione di un grande evento della storia del pensiero, lo scopo cioè di spiegare, con maggior chiarezza di quanto sia stato fatto finora, i rapporti fra Be­gel e Marx. Come Lukacs dice chiaramente nella conclusione, per capire questi rapporti bisogna anzitutto sgombrare il terreno dalle falsificazioni reazionarie del pensiero di Hegel e mettere in rilievo lo Hegel reale che lo stesso Marx aveva ben compreso. Lo Hegel reale è colui che ha scoperto nella vita storica dell'uomo il momento della alienazione e ne ha fatto un concetto centrale della sua filosofia. Ora, siccome questo concetto di alienazione è stato suggerito allo Hegel

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dai suoi studi economico-sociali, per intendere lo Hegel reale bisogna prima di tutto rendersi conto della portata di questi studi nella formazione del suo pensiero. Ed è pro­prio ciò che i critici borghesi non hanno mai fatto, deviati dal pregiudizio di un Hegel teologo, romantico, ecc. Ma quello che questi critici borghesi non hanno capito, l'aveva ben capito, invece, il giovane Marx, il quale appuntò il proprio sguardo, e anche le proprie critiche, precisamente sul concetto dell'alienazione considerandolo il tema centrale della dialettica hegeliana. Solo che Marx non si ferma ad Hegel. Ma anche il progresso che egli compie oltre Hegel non si com­prenderebbe se non si capisse qual è lo Hegel che il Marx intende capovolgere per superare. Lo Hegel superato da Marx è quello che ha scoperto si l 'alienazione, ma ne ha poi fatto cattivo uso adoperandola esclusivamente nella dialettica idealistica. Il progresso di Marx rispetto ad Hegel consiste dunque, secondo il Lukacs, nel fatto che egli, avendo colto l'importanza dell'alienazione, l 'ha ripor­tata alla sua origine economica, a quella origine che Hegel, idealista impenitente, aveva trovato e subito perduto: Marx, avendo tenuto ferma l'origine economica dell'alienazione, ha potuto liberare la dialettica da ogni manifestazione ideali­stica e sviluppare una dialettica reale. « La scoperta della dialettica reale del lavoro nel capitalismo è il fondamento di una critica materialistica di quella fìlosofìa, che ha fatto di una comprensione unilaterale del lavoro la base della com­prensione fìlosofìca dello sviluppo del genere umano » ( p. 697 ) . Con ciò stesso Marx è andato anche oltre Feuerbach, il quale dimostrò di non avere alcun sentore della connes­sione profonda - se pure contraddittoriamente sviluppata -che la fìlosofìa di Hegel presentava tra fìlosofìa ed economia. In tal modo Marx si ricollega immediatamente ad Hegel senza bisogno di passare per quello che sembrò il naturale intermediario, anzi scavalcandolo e criticandolo per quelle stesse ragioni per cui scopre il germe di verità della dia­lettica hegeliana nella origine economica di questa. La filo-

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sòfia di H�gel è « la più alta forma della dialettica idealistica, e quindi della filosofia borghese in generale, il termine di mediazione a cui poteva collegarsi immediatamente il ma­terialismo dialettico » (p . 712 , il corsivo è dell'autore) .

Non occorre sottolineare che uno dei lati più interessanti della ricerca del Lukacs sta appunto in questo tentativo di trovare una via di ravvicinamento tra Marx ed Hegel. Sarà bene, invece, sottolineare - perché la cosa non è rilevabile a prima vista -. - che questo tentativo è non soltanto il più rigoroso sinora compiuto, ma anche il più temerario. La questione si può porre nei termini più semplici in questo modo: la via più naturale per operare il ravvicinamento è sembrata sinora quella di « hegelianizzare » Marx. Lukacs segue il cammino inverso: « marxifica » Hegel. Si potevano trovare residui hegeliani in Marx (era la via più facile) . Lu­kacs trova invece germi marxisti in Hegel. In ciò appunto sta la novità dell'interpretazione. Sinora il rapporto tra Be­gel e Marx era visto come un rapporto di capovolgimento. Con Lukacs si dovrebbe parlare più appropriatamente di « realizzazione » del vero Hegel da parte di Marx o più bre­vemente di inveramento. Marx sarebbe colui che ha inve­rato Hegel. In una parola Marx sarebbe il vero Hegel. Se qualcuno può aver creduto che Marx sia un epigono di Hegel, Lukacs gli oppone che, al contrario, Hegel è il Bat­tista di Marx. Si osservi che con questa interpretazione la posizione di Hegel nella storia della filosofia muta radical� mente: Hegel non è più l 'ultimo metafìsico o l 'ultimo teo­logo come era apparso al Feuerbach, ma colui che ha aperto la via alla « fìlosofìa dell'avvenire » . Non è neppure la punta estrema della filosofia classica tedesca, secondo l'interpreta­zione' più convenzionale, ma è colui che ha dato avvio e im­pulso alla scienza reale e dialettica della società. Non è colui che ha aperto la crisi della filosofia classica nella cultura occidentale (Lowith), ma anzi il primo affossatore della fi­losofia teologica.

Da tutto quel che si è detto risulta abbastanza evidente

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che l'interpretazione hegeliana di Lukacs è una interpretazione polemica, e lo scritto suo presenta tutte le caratteristiche dell'opera a tesi. Come tale, per l'accentuazione forzata di alcuni motivi a preferenza di altri, per l 'ingrandimento arti­ficioso di certi temi a danno di certi altri, non può essere accolta senza riserve. Ma qui non potendo rifare il cammino percorso dal Luhics, che richiederebbe per lo meno uno studio altrettanto ampio, mi limito ad accennare alle obie­zioni più gravi e che sono per cosl dire interne al discorso stesso del nostro autore.

Anzitutto, l 'argomentazione. principale di Lukacs non si libera mai da una contraddizione fondamentale : da un lato, Hegel non sarebbe uno spirito religioso; dall'altro, però, è ostinatamente per tutta la vita idealista. Ma idealismo e spi­rito religioso sono, per il Lukacs, tutt'uno (Idealismus be­deutet Pfaffentum ) . E allora vien subito il dubbio che l'in­terpretazione religiosa di Hegel cacciata dalla porta del suo dimostrato storicismo rientri dalla finestra del suo idealismo riconfermato. A questo proposito c'è da osservare che una interpretazione antireligiosa di Hegel può essere sostenuta assai più coerentemente dai neo-idealisti, per i quali la filo­sofia idealistica è il superamento definitivo della religione (per esempio, i neo-hegeliani italiani, da Spaventa a Croce a Gentile, hanno insistito sullo Hegel dialettico e non hanno mai neppure sfiorato la questione del misticismo di Hegel), che non da un anti-idealista, come il Lukacs, che riduce l 'idea­lismo a una manifestazione (mascherata) dell'atteggiamento religioso.

In secondo luogo, Lukacs riconosce che nel periodo fran­cofortese entrano nel pensiero di Hegel alcuni elementi ca­ratteristici di una visione religiosa della realtà (i concetti di vita, di destino, di amore, ecc . ) ; ma riesce a liberarsi dal ricchissimo e imbarazzante materiale che questo periodo offre all'interpretazione mistica, affermando che si tratta di un periodo di crisi. Una risposta di questo genere è estre­mamente ambigua. Infatti, che cosa significa crisi? Se crisi,

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riferita allo Hegel di quegli anni, significa periodo di smar­rimento totale, in cui affiorano temi di meditazione e di ricerca che saranno tutti sistematicamente sconfessati nei periodi successivi, ha ragione il Lukacs . Ma se crisi signi­fica periodo di transizione, di ricerca, di scoperta di temi che, pur modificati, permangono nella speculazione succes­siva, la risposta di Lukacs è manifestamente elusiva e quindi insoddisfacente. In questo caso si potrà anche accettare l'af­fermazione che il periodo francofortese sia un periodo di crisi, purché si sia disposti a riconoscere immediatamente che il problema non è risolto ma soltanto rinviato. Si tratterrà infatti di sapere qual è la portata di questa crisi, quale il suo significato per lo sviluppo del futuro pensiero di Hegel. Ma impostata la ricerca in questa direzione, s 'impone subito l'osservazione che uno dei temi principali di questo periodo, a cui lo stesso Lukacs dà particolare rilievo è il tema della riconciliazione (Versohnung), che si presenta sotto forma di accettazione della società borghese e delle sue contraddizioni, e di rappacificazione dell'individuo con la società: Ora, una volta che ci siamo imbattuti in questo tema della riconci­liazione, non si possono non notare almeno due cose: primo, che esso è un tema d'origine religiosa derivante dalla consi­derazione della storia umana come un dramma teologico (la riconciliazione presuppone la rottura dopo la caduta, l'av­vento del novello Adamo che espelle il vecchio, uno stato di opposizione tra l 'uomo ideale e l 'uomo reale) ; e ha ra­gione il Niel nell'aver messo in rilievo l'origine religiosa del concetto di mediazione (la riconciliazione si opera attraverso la mediazione); secondo, che questo tema francofortese di­venta uno dei temi fondamentali del pensiero di Hegel oltre il periodo di Francoforte, sl da costituire una delle chiavi essenziali di spiegazione (alla quale neppure il Lukacs ri­nuncia) per intendere tutto quanto il pensiero di Hegel nella sua integrità e complessità. Dunque : se uno dei temi cen­trali del periodo francofortese diventa tema fondamentale di tutta la speculazione hegeliana, sarà difficile sostenere ancora

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14. N. BoBBIO - Da Hobbes a Marx.

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che il periodo di Francoforte sia stato un periodo di crisi; se poi questo tema che si ripercuote sul pensiero futuro è manifestamente - nel periodo che lo stesso Lukacs rico­nosce più mistico di Hegel (e perciò appunto lo vuoi far passare come periodo di crisi) - teologico, sarà altrettanto difficile cancellare ogni vestigio di pensiero teologico nella filosofia non solo giovanile, ma anche matura di Hegel. Per­ché l 'interpretazione antimistica fosse pienamente valida, bi­sognerebbe : o che il tema della riconciliazione non fosse un tema teologico, ma ciò lo stesso Lukacs non può ammettere; o che il pensiero di Francoforte fosse stato un periodo di crisi totale senza alcun significato per lo sviluppo successivo, ma ciò il Lukacs non sarebbe disposto ad accettare.

La tesi secondo cui dalla concezione della storia di Hegel è ineliminabile una visione religiosa del dramma storico dell'uomo, può essere esaurientemente confermata, secondo noi,· dal fatto che questa iniziale ma fondamentale visione religiosa della storia permane visibilissima nell'opera gio­vanile di Marx. S'intende che Lukacs rifiuterà, magari anche sdegnosamente, questa affermazione; ma l 'affermazione non è per questo meno fondata e degna di una più ampia discus­sione di quel che si possa fare in questa sede, dato che tal discussione per sua natura non si può svolgere se non coi testi alla mano, e tanto per cominciare proprio con quei Manoscritti economico-filosofici, a cui lo stesso Lukacs si richiama di preferenza. Qui basterà accennare al punto che mi sembra capitale : in queste pagine giovanili - che sono pagine « di proposito » filosofiche - Marx accogliè quella che certamente egli considera la grande scoperta di Hegel, vale a dire il principio che la storia umana si muove secondo un certo ritmo (che è, tanto per intenderei, il ritmo dialet­tico, per quanto Marx non sia su questo punto esplicito) . Questo ritmo che s i risolve in due movimenti fondamentali, nella estraniazione dell'uomo da se stesso, e nella appropria­zione dell'uomo a se stesso, è proprio lo schema caratteri­stico di una storia teologica : è inutile soffermarsi sull'evi-

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dente analogia tra il ritmo di caduta e redenzione e quello di alienazione e appropriazione. La storia, per Marx, è la storia della estraniazione dell'uomo, cioè è storia dell'uomo estraniato : solo l'uomo estraniato ha storia, e solo l 'estrania­zione, sino a che dura e in quanto dura, rende possibile la storia. La storia per il cristiano è la storia della caduta del­l'uomo, cioè dell'uomo caduto, e quindi solo l'uomo caduto ha storia; prima della caduta l'uomo non ha avuto storia e la storia finirà col riscatto totale che cancellerà gli effetti della càduta. Il che rende manifesto che quando finisce l'estrania­zione (o caduta) finisce anche la storia. La teoria del ritmo della storia è costruita in vista di un fine ben preciso e che non è certo il fine di una storia positiva dell'uomo, bensi di una storia teologica e metafisica: dare un senso alla storia. Ma dare un senso alla storia non si può se non uscendo fuori della storia, cioè giudicando la storia da un punto di vista metastorico, cioè da un punto di vista che essendo fuori della storia, chiude, quando fosse pienamente raggiunto, la storia. Dare un senso alla storia significa non soltanto pro­porre un fine alla storia, ma imporle anche una fine. Ora, questo senso della fine, della chiusura, della conclusione della storia, si trova in modo evidentissimo tanto in Hegel ( il sapere assoluto della Fenomenologia), quanto in Marx ( il comunismo dei Manoscritti) . Con Hegel che limita la sua visione della storia all'uomo teoretico (ed è questa l'angustia hegeliana contro cui si batte vittoriosamente Marx), la fine della storia consiste nel sapere assoluto, cioè nella presa di possesso da parte dell'uomo della teoreticità totale, nella fondazione dell'uomo teoretico totale. In Marx che consi­dera la storia non in funzione dell'uomo teoretico, ma in funzione dell'uomo pratico, la storia finisce col raggiungi­mento della società assoluta (il comunismo), cioè con la presa di possesso totale da parte dell'uomo della sua attività (ap­propriazione del lavoro estraniato), con la fondazione del­l'uomo pratico totale. Certamente, Marx muta il campo visivo rispetto allo Hegel : l 'oggetto della sua ricerca

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non è più l'uomo teoretico, l 'uomo soggettivo che pone sol­tanto oggetti ideali ( l'oggetto della conoscenza è sempre un oggetto ideale), ma l'uomo pratico, l'uomo oggettivo che è posto da oggetti e pone egli stesso oggetti reali (solo l 'og­getto dell'attività dell'uomo è un oggetto reale) . Ma il modo della visione rimane identico: l'uomo viene in questione come essere estraniato da se stesso (e perciò storico), e quin­di la soluzione del problema dell'uomo è la fine dell'estra­niazione ( che è anche la fine della storia ) . Certamente, Marx ha fatto fare un passo avanti alla scoperta di Hegel, in quanto ha compreso che la radice dell'alienazione teoretica, a cui sol­tanto si limita la visione storica di Hegel, è l'alienazione prati­ca. Ma la concezione, attraverso cui Marx guarda l 'uomo pra­tico, è la stessa di quella attraverso cui Hegel guarda l'uomo teoretico: è la concezione secondo cui la storia è uno scandalo e la liberazione dallo scandalo è anche la liberazione dalla storia. C'è in questi Manoscritti una frase estremamente si­gnificativa che dovrebbe essere meditata da tutti coloro che parlano anche per il Marx giovanile, e non soltanto per quello più maturo del Capitale, di galileismo scientifico o di sociologia sperimentale : il comunismo - dice Marx - è « la soluzione dell'enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione » 5 • Dunque la storia è un enigma (le vie della provvidenza in tutte le concezioni teologiche della storia sono misteriose) ; e questo enigma ha un'unica e definitiva soluzione nella raggiunta appropriazione dell'uomo a se stesso attraverso la costituzione della comunità degli uomini integri o totali (il regno di Dio è di questo mondo) . I l comunismo, come fase finale della storia, dà senso a tutta la storia dell'uomo in quanto la storia dell'uomo è la storia della graduale lenta faticosa e dolorosa creazione del comu­nismo. « L'intero movimento della storia è quindi l'atto reale di generazione del comunismo » 6 •

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5 Cito dalla traduzione italiana, Torino, Einaudi, 1949, p 122. 6 Ed. cit. , p. 122.

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Si dirà che Marx giunge alla sua visione della storia attra­verso lo studio concreto dell'economia. È vero : ma l'eco­nomia offre il contenuto della visione, non trasforma lo schema entro cui questo contenuto viene elaborato e por­tato ad avere un senso: anzi ne viene essa stessa trasformata. L'economia rende reale la dialettica idealistica o mistificata di Hegel; ma nello stesso tempo il quadro dialettico di estra­niazione ed appropriazione, in cui la realtà economica viene assunta, teologizza l 'economia. L'economia del primo Marx è un 'economia mistificata, cioè è un'economia i cui risultati vengono eretti a spiegazione e a giustificazione della storia universale. Tanto poco, dunque, Marx libera Hegel dalla mistificazione, che anzi quella scienza economica, che do­veva produrre tale miracolo, viene essa stessa avviluppata e corrotta dalla mistificazione. Tanto poco Marx, economista, steologizza la filosofia in Hegel, ché anzi Hegel, filosofo, teo­logizza l'economia in Marx. Tanto poco insomma la visione teologica del mondo e della storia è scomparsa in Hegel, ché anzi lo stesso discepolo di Hegel non è riuscito a liberarsene, proprio colui che era partito col proposito di svelare e di­struggere la mistificazione di Hegel. In realtà, ciò che Marx combatte in Hegel è l 'intellettualismo, in base al quale la storia dell'uomo si risolve nella storia dell'uomo teoretico, e contro Hegel scopre che l'uomo teoretico è un riflesso del­l'uomo pratico, e il movimento originario della storia è il movimento dell'attività produttiva dell'uomo, dell'uomo pro­duttore e lavoratore, cioè dell'uomo che è fatto oggetto di ricerca appunto dalla scienza economica. Ma non combatte a fondo, e quindi non riesce ad eliminare, ciò che veramente si può chiamare il « misticismo » di Hegel, cioè la visione escatologica della storia, per cui la storia, avendo un destino ultimo, ha anche un senso, e il compito della sapienza del­l 'uomo è di rivelarlo. Il proposito di Marx in questi scritti giovanili è indubbiamente quello di scoprire la legge uni­versale di sviluppo e il destino ultimo della storia dell'uomo: che egli trovi questa legge col sussidio della scienza econo-

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mica e quindi risolva il fine ultimo della storia nel verificarsi di un fatto economico, cioè nell'abolizione della proprietà privata, che viene pertanto ad assumere un valore di riscatto palingenetico dell'umanità (eliminazione dell'estraniazione, dato che l'estraniazione dell'uomo deriva dall'estraniazione del lavoro; e liberazione dell'uomo totale), non toglie che l'intento del Marx in questi scritti sia quello di dare un senso e di prescrivere un destino ultimo alla storia.

S'intende che Marx non è tutto in queste opere giova­nili filosofiche : ma pur san queste opere che, essendo più vicine allo Hegel, rivelano quale fosse l'ambiente filosofico in Germania subito dopo Hegel, e soprattutto quale fosse la natura e il significato della sua enorme influenza e la direzione che la sua presenza quasi ossessiva imprimeva alle ricerche filosofiche, come se il compito della filosofia fosse - nella proclamata maturità dei tempi per i grandi rivolgi­menti - quello di essere illuminatrice e direttrice della imminente catastrofe. Molti anni più tardi Marx in un altro celebre passo dirà di aver civettato nella teoria del valore contenuta nel Capitale con le espressioni di Hegel, lasciando intendere che egli si considerava ormai come uno scienziato nel senso proprio della parola ( secondo la concezione della scienza del tempo suo), per il quale l'uso di un linguaggio filosofico non rigorosamente richiesto dalla ricerca poteva sembrare una « civetteria ». Ma nei Manoscritti le cose stan­no ben altrimenti : Marx è un filosofo (nel senso hegeliano della filosofia) che civetta con l'economia politica. Il rapporto tra il « ricercare secondo il metodo scientifico » e il « civet­tare » è invertito. Nel Capitale la filosofia hegeliana è una civetteria per l'economista, cosl come nei Manoscritti l'eco­nomia è una civetteria per il filosofo hegeliano. Chi non valuta in tutta la sua importanza questa inversione di ter­mini, non si rende conto che la storia dello sviluppo intel­lettuale di Marx è in gran parte la storia della sua libera­zione da Hegel. In un primo tempo, quasi d'impeto, si svincola dall'intellettualismo di Hegel (critica della dialet-

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tica idealistica); solo assai più tardi e non mai del tutto si libererà dal misticismo, ovvero dalla visione escatologica della storia . Ma rispetto allo Hegel, che qui soltanto ci inte­ressa, ciò dimostra che l 'influsso di Hegel su Marx si fece sentire non tanto per quel che vi era di « economico » quanto per quello che vi era di persistentemente « teolo­gico » nella filosofia di Hegel. Il che in definitiva è per noi una riprova dell'ineliminabile teologismo di Hegel e del fondo di verità che permane nelle interpretazioni tradizionali .

Ritornando al Lukacs, ci sembra di poter concludere che il capovolgimento da lui tentato del rapporto, comunemente stabilito, tra Hegel e Marx, è per lo meno unilaterale. Egli fa di Hegel un precursore di Marx; e cosi trascura comple­tamente gli aspetti in base ai quali è ancor valida la tesi tradizionale secondo cui Marx è un successore di Hegel. In altre parole : egli steologizza Hegel per dimostrarne la vici­nanza al realismo marxista; noi abbiamo visto al contrario che una delle ragioni per cui Marx dipende da Hegel è il residuo teologico che permane nella concezione marxistica della storia. Insomma, Lukacs sbaraglia tutti gli interpreti teologiçi di Hegel . per sgombrare la strada ad un Marx realista e storicista: ci sono invece delle buone ragioni per ritenere che un argomento in favore dell'interpretazione teo­logica di Hegel stia proprio nel fatto che Marx, per lo meno sino a che ed ogniqualvolta è hegeliano, non è realista com­pleto né storicista conseguente, ma, afferrato anch'egli dalla magica seduzione del sapere totale, cerca instancabilmente la chiave universale per risolvere una volta per sempre il mistero della storia.

Le osservazioni critiche sin qui fatte non vogliono affatto annullare l'importanza del contributo dato dal Lukacs al pro­gresso degli studi hegeliani : le note sull'importanza degli studi economici per la formazione del giovane Hegel sono preziosissime e in gran parte inattese. Né pretendono di escludere che la prospettiva degli studi economici di Hegel e dell'importanza filosofica data da Hegel ad alcuni concetti

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propri dell'economia politica, quali quelli di « lavoro », « bi­sogno » e simili, possa gettare nuova luce sull'origine e sulla direzione iniziale del pensiero di Marx. Peraltro, anche su questo punto, sarebbe raccomandabile di non spingere troppo oltre le relazioni di successione e di dipendenza. Certamente Marx ammirò in Hegel il primo filosofo che « si è posto dal punto di vista dell'economia politica » 7 e ha compreso l'essenza del lavoro; ma sarebbe falso dedurre da ciò che Marx si fosse iniziato agli studi economici attraverso Hegel. Ripetiamo che, più che i concetti economici, egli prende da Hegel il principio della estraniazione che poi applica ai con­cetti economici e da cui ricava la propria concezione della storia umana considerata dall'angolo visuale non più del­l'uomo teorico (che sa), ma dell'uomo pratico (che lavora). E là soltanto dove la fenomenologia storica di Hegel ha per oggetto non il movimento delle ideologie (cristianesimo, romanticismo ed illuminismo ) , ma il movimento della azione umana, come, ad esempio, nella raffigurazione del rapporto tra servo e padrone, la derivazione di Marx da Hegel non è più soltanto per cosl dire metodologica ma anche sostanziale, e la pa�entela tra il giovane Marx e il giovane Hegel è immediatamente evidente, di un'evidenza cosl luminosa che fa stupire che sino ad oggi ci siano stati cosl pochi occhi per vederla. Ed è certamente alla raffigura­zione del servo-padrone che Marx si riferisce quando esprime il giudizio su riportato intorno al valore del lavoro nella filosofia di Hegel.

Chi voglia convincersi di quanto forte sia il sapore marxistico delle figure hegeliane del servo e del padrone e del loro rapporto, legga la suggestiva ricostruzione che ne fa il Kojève nell'opera citata all'inizio di questa rassegna

7 Manoscritti, ediz. cit., p. 173.

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(e che sarà esaminata nel paragrafo seguente) 8 • Nello stadio del suo nascimento l'uomo non è semplicemente uomo: o è padrone o è servo, perché la storia dell'uomo comincia dalla lotta per il riconoscimento reciproco e questa lotta mette capo alla sottomissione dell'uomo all'altro uomo. La dialet­tica storica è la dialettica del servo e del signore, cioè di colui che lavora e non gode, e di colui che gode del lavoro altrui senza lavorare. Tra i due, contrariamente a quel che può apparire ad uno sguardo superficiale, superiore è il servo, perché, mentre il signore non può essere altro di quello che è, e quindi la sua condizione è statica senza svol­gimento né progresso, il servo aspira a trasformare la pro­pria condizione, a liberarsi dalla sua condizione di servo e proprio attraverso il lavoro, che gli permette di rendersi padrone della natura, che umanizza la natura, che libera dall'angoscia, appresta le condizioni della propria libertà. Il lavoro ha una funzione liberatrice dell'uomo. E la storia, in quanto storia della liberazione del servo, è la storia del lavoro umano. L'avvenire appartiene non al signore guer­riero, ma al servo lavoratore; e il vero uomo, l 'uomo totale, non sarà il signore, immobile nella sua fruizione non creativa, ma il servo quando avrà soppresso dialetticamente (rivo­luzionariamente) la sua servitù, e si sarà trasformato nel libero cittadino dello stato universale . .

Come non vedere in questo « mito hegeliano » la matrice della filosofia della storia di Marx? Marx approfondirà l'a­nalisi del lavoro umano: il lavoro del servo è un lavoro estraniato e quindi egli non si appropria della natura, ma diventa una cosa di cui si appropria, insieme col prodotto del suo stesso lavoro, il padrone. La causa dell'estraniazione è la proprietà privata. Quindi proporrà altri rimedi; il riscatto del servo lavoratore può avvenire soltanto mediante l'aboli­zione della proprietà privata. Ma il senso e la direzione

8 Introduction à la lecture de Hegel, cit., p. 1 1 e ss.; traduzione italiana, p. 3 e ss.

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che egli imprime alla storia è già tracciata nel « mito » hegeliano : la storia è la storia della lotta tra servo e padrone (la lotta di classe); la lotta tra servo e padrone ha termine con la liberazione del servo (il comunismo); il servo libe­rato elimina definitivamente il rapporto di subordinazione, cioè costituisce la società degli uomini liberi ed eguali ( l'uomo totale) . Insomma, ancora una volta appare evidente che quel che Marx deriva da Hegel è la concezione del movi­mento della storia, e che questa concezione, con la descri­zione a grandi epoche del dramma storico dell'uomo e della sua soluzione finale, è una completa filosofia della storia .

7 . H e gel, precursore di Heidegger. - Si potrà pensare che la raffigurazione hegeliana del servo-padrone presenti così forti suggestioni marxistiche, perché Alexandre Kojève, ricostruendola, leggeva Hegel ma pensava a Marx. Non si può escludere che ciò sia in parte accaduto. Effettivamente, i riferimenti a Marx sono nel corso del libro del Kojève frequenti; e qua e là egli si sofferma a indicare la relazione tra le due filosofie (per esempio, a p . 1 9 1 e a p . 435) . Il Kojève ha continuamente presente gli sviluppi dati da Marx ad alcuni temi hegeliani ; ma bisogna anche osservare che questi richiami marxistici sono tanto più persuasivi in quanto l 'autore non è per nulla un marxista, e la sua inter- -pretazione hegeliana non vuole essere affatto un'interpre­tazione marxistica (e neppure, del resto, idealistica) . Si potrebbe dire, con un po' di forzatura globale, ma senza travisare l'intima intenzione dell'opera nel suo complesso, che il Kojève ha dato della filosofia di Hegel una interpreta­zione esistenzialistica ( secondo l'esistenzialismo cosiddetto di sinistra) o più esattamente heideggeriana, nel senso che la filosofia di Heidegger, e soltanto essa, sarebbe capace di rivelare il senso profondo ed essenziale di Hegel, in parti­colare della Fenomenologia dello Spirito . C'è nella vasta opera del Kojève una frase quasi nascosta (cacciata in una nota e per di più tra parentesi ) che è estremamente indicativa

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di questa singolare disposizione cnt1ca. La Fenomenologia - egli dice - « probabilmente non sarebbe mai stata capita se Heidegger non avesse pubblicato il suo libro [Sein und Zeit ] » ( trad. it., p. 140, nota) . Un'affermazione di questo genere può significare all'incirca che sino alla pubbli­cazione di Sein und Zeit, la Fenomenologia è rimasta un libro ermetico, e che la chiave per aprirla è l'opera di Hei­degger; in altre parole, che la filosofia di Heidegger dà un senso a quella di Hegel, per il fatto che la chiarisce a se stessa e ai posteri, e chiarendola la pone come quella filosofia che doveva trovare in Heidegger (e non in Marx, non nell'i­dealismo, ecc . ) il proprio naturale compimento. Il senso heideggeriano di Hegel è, per il Kojève, l'ateismo. Heidegger è stato ai nostri giorni colui che ha tentato di costruire una filosofia totalmente atea : anche la filosofia di Hegel è una filosofia radicalmente atea. Ma l'ateismo coperto di Hegel aveva bisogno di una filosofia apertamente atea per essere rivelato . Dunque l 'ateismo di Heidegger svela l 'ateismo di Hegel . Questa è in breve la tesi principale della ricerca del Kojève.

Tale ricerca è straordinariamente ricca di novità inter­pretative, di accostamenti illuminanti, di sondaggi profondi, brillante ed esatta ad un tempo, filologicamente pedante e filosoficamente originale, paradossale sì per l 'unilateralità dell'angolo visuale, ma convincente per il rigore dimostra­tivo, stimolante e persuasiva, tanto che c'è da stupire che qui in Italia se ne sia così poco parlato e sia quasi passata inosservata la traduzione parziale uscita da un anno. Il ti­tolo non poteva essere più appropriato: Introduzione alla let­tura di Hegel. Le varie parti del grosso volume, pur nella loro disuguaglianza di ampiezza e di struttura, sono un'ec­cellente introduzione alla lettura della Fenomenologia, e costituiscono, alla loro volta, una lettura che vorremmo rac­comandare a tutti coloro che desiderano accostarsi a questa opera o che, essendosi già ad essa accostati e non avendola capita, l'hanno abbandonata assai prima di giungere alla

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fine. Si tratta di una raccolta di lezioni (di vere e proprie « letture » della Fenomenologia), tenute dal 19.33 al '.39 alla École pratique des Hautes Études de Paris. Solo alcune lezioni relative agli ultimi due capitoli, sono riprodotte nel testo integrale, tratto da appunti stenografici ; le altre, ri­guardanti i primi sei capitoli, sono riprodotte in un testo abbreviato, sì che il commento del settimo e dell'ottavo capitolo occupa da solo più di metà del volume. Oltre que­sti appunti di lezioni, il volume comprende brevi riassunti dei corsi, anno per anno, e alcuni saggi a sé stanti : a guisa di introduzione, la traduzione commentata del cap. VI, sez. A ( sul padrone e sul servo), e a guisa d'appendice uno studio sulla dialettica del reale e il metodo fenomenologico e un altro sull'idea della morte ( sono i tre saggi riprodotti dalla traduzione italiana). Chiude il libro una tavola, assai impor­tante, che espone sinteticamente lo schema, ordinato dialet­ticamente, della Fenomenologia. Questa tavola è il miglior documento della sapiente e paziente « disarticolazione » che il Kojève ha compiuto dell'opera hegeliana; ed (:_uno s.tru­mento utilissimo di lavoro per qualsiasi studioso, già iniziato o meno.

Si è detto che per il Kojève la filosofia di Hegel è una affermazione radicale di ateismo: questa affermazione si fonda sopra la concezione dell'uomo come essere finito, mortale. Perciò nella interpretazione del Kojève assume un'im­portanza decisiva uno dei temi hegeliani sinora meno con­siderati : il tema della morte, che è poi il tema per eccel­lenza della prima forma della fìlosofìa heideggeriana. C'è un rapporto evidente e assai istruttivo tra interpretazione marxi­stica di Hegel e centralità del tema del lavoro (Lukacs ), da un lato, e interpretazione esistenzialistica e centralità .del tema della morte (Kojève) dall'altro. Il Kojève definisce la filoso­fia di Hegel come una antropologia che dalla tradizione giu­daico-cristiana deriva i tratti essenziali della struttura del­l'uomo ad eccezione dell'immortalità . In quanto antropolo­gia dell'uomo come essere storico, finito, mortale, si può

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definire una teologia cristiana laicizzata (è superfluo far no­tare che questa stessa espressione è stata sovente usata per definire pure la filosofia di Heidegger) . Ciò che trasforma la teologia (giudaico-cristiana) in antropologia (hegeliana) è appunto l'idea della morte. Hegel trae dall'antropologia giu­daico-cristiana i tre tratti caratteristici dell'uomo, e quindi adotta queste tre scoperte fondamentali : a) l'uomo è essen­zialmente diverso dalla natura perché ha una storia; b) la storia è il regno della libertà umana, che si rivela come negatività (è il tema sartriano della libertà nullificante, del­l'uomo come il nulla introdotto nell'essere), in quanto la libertà si esplica nell'azione trasformatrice della natura ( la­voro); c) l'uomo storico e libero è, a differenza degli ani­mali, una individualità unica e irriducibile alla specie, e questa individualità si realizza nel riconoscimento della per­sona che segue alla lotta originaria. Dunque l'uomo è, per Hegel, come per la tradizione giudaico-cristiana, un indivi­duo libero storico . Le tre categorie della individualità, della libertà e della staticità sono storicamente connesse tra loro ed interdipendenti: « L'uomo non può apparire come indi­viduo senza "manifestarsi" come l'agente libero della Storia; non può " rivelarsi " come libero se non apparendo come un individuo storico; e può " manifestarsi " storicamente solo a patto di " apparire " nella sua libertà individuale e nella sua individualità libera » ( trad. i t . , p. 1 16 ). La diffe­renza rispetto all'antropologia cristiana si rivela nel fatto che tutte e tre le suddette categorie in Hegel sono stretta­mente connesse con l'idea della morte ( s'intende la morte umana che si differenzia - vedi Heidegger - dalla semplice fine degli animali) : « Dire che l'uomo si rivela come indi­viduo libero storico (o come " Persona ") e che " appare " come essenzialmente mortale nel senso proprio e pieno del termine, significa esprimere in maniere diverse una sola e

. medesima cosa : un individuo libero storico è necessariamente mortale, e un essere veramente mortale è sempre un indi­viduo libero e storico » (trad. it . , p. 1 2 1 ) .

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Anzitutto, morte e libertà non sono che due aspetti di una sola e medesima sostanza. Qui Kojève cita un passo del Diritto naturale ( 1802 ) : « Questo Assoluto negativo - o -negatore, la libertà pura, è nella sua apparizione la morte; e per la facoltà della morte il Soggetto si dimostra come libero e assolutamente elevato al disopra di qualsiasi costrizione » 9 •

In secondo luogo, la morte è un necessario complemento della individualità : solo l'essere mortale può essere una indi­vidualità, sintesi di universale e di particolare. Un essere che duri eternamente nel tempo, sinché dura il tempo, ha un'essenza immutabile, predeterminata, in quanto è desti­nato a realizzare tutte le proprie possibilità e a non realiz­zare nessuna delle proprie impossibilità. Come tale, non è libero e quindi non è una individualità nel senso rigoroso della parola. Infìne, la storia non avrebbe nessun senso, nes­suna ragione o possibilità di essere, se l'uomo non fosse mor­tale. Infatti, se l'uomo vivesse eternamente, non potrebbe far altro che sviluppare una natura determinata eterna .. e la sua evoluzione non sarebbe che un dramma storico di cui già si conoscerebbe l'esito. Una certa situazione esistenziale data diventa storia, in quanto l'uomo può fallire definitiva­mente il proprio destino umano, il che è possibile soltanto se l'uomo è mortale. Così la storia ha una sua intima se­rietà, ed è qualcosa di diverso da una tragedia o da una commedia recitata dagli uomini per lo svago degli dèi che, essendone gli autori e conoscendone l'esito; non potrebbero prenderla sul serio, come del resto gli stessi attori qualora si accorgano di recitare una parte a loro assegnata. Insom­ma « la morte umana si presenta come una " manifestazione " della libertà, della individualità, della staticità dell'uomo, ossia del carattere totale o dialettico del suo essere e della sua esistenza » ( trad. i t . , p . 134 ) . Inversamente Dio e l'im­mortalità sono incompatibili con l'individualità, con la liber­tà, con la storicità, cioè con l'uomo. L'uomo che crede in

9 S. W., VII, p. 370.

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Dio, e che s'illude di essere immortale, non giunge mai alla piena soddisfazione di sé: è una coscienza infelice e vive nello sdoppiamento. Pertanto l'uomo trova il pieno soddi­sfacimento di sé soltanto quando ha raggiunto la piena com­prensione della sua natura di essere finito e storico, cioè della sua morte. A dare all'uomo questa consapevolezza ten­de, secondo Kojève, tutta la Fenomenologia di Hegel. Il sapere assoluto, in cui la Fenomenologia culmina, è la scienza della finitezza dell'uomo, e quindi della verace umanità del­l'uomo. E posto che la filosofia di Hegel si sviluppa, come ritiene il Kojève, sopra tre piani diversi, cioè sopra un piano fenomenologico, di pura descrizione delle apparizioni dello Spirito, sopra un piano metafisica, in cui vien posto il pro­blema dell'essenza della realtà che appare come fenomeno, e sopra un piano antologico (la Logica), ove il filosofo ri­sponde al problema di come debba essere lo stesso Essere perché possa realizzarsi o esistere come quel mondo natu­rale e umano descritto nella metafisica e le cui apparizioni sono descritte nella Fenomenologia, posti questi tre piani, dire che la scienza hegeliana è la scienza dell'uomo ( antro­pologia) significa dire, dal punto di vista fenomenologico, che l'uomo appare a se stesso come mortale; dal punto di vista metafisica, che egli esiste necessariamente in un mondo naturale privo di un al di là, nel quale non c'è posto per Dio; dal punto di vista antologico, che l'uomo è temporale nel suo essere, cioè è libertà creatrice e negatrice, in una parola azione.

Ci troviamo, col Kojève, agli antipodi delle interpreta­zioni teistiche di Hegel. Nel commento ad un celebre passo sulla religione (nella prima parte della Introduzione al cap. VII della Fenomenologia), si svolge una polemica contro l'identificazione dello Spirito con Dio. « Se la Fenomenologia ha un senso, lo Spirito, di cui si tratta, altro non è che lo

. spirito umano: non vi è Spirito al di fuori del mondo, e lo Spirito nel mondo è l'uomo, l'umanità, la storia universale » (p . 198) . La piena conferma dell'interpretazione ateistica si

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trova, secondo il Kojève, nel cap. VII (sulla religione), dove Hegel cerca di mostrare che la base di ogni religione è il rifiuto, d'origine servile, di accettare il mondo reale, donde viene il dualismo, caratteristico di ogni esperienza religiosa, tra l'ideale e il reale; e che l'evoluzione delle religioni eli­mina a poco a poco questo dualismo e sfocia nell'ateismo finale che pareggia l 'ideale col reale. A questo punto lo spi­rito umano diventa lo spirito semplicemente, Dio cessa di essere un essere sopraumano, e l 'uomo diventa egli stesso Dio. Questa trasformazione avviene, in Hegel, per opera della scienza. La scienza, dunque, rappresenta la soppressione della religione e la realizzazione piena dell'uomo come essere to­tale ; e lo sbocco stesso della evoluzione della religione, sop­pressa dalla scienza assoluta, è la filosofia atea, nella quale e per la quale lo Spirito si contempla qual è in realtà : « er sich anschaue wie er ist » .

Ancora una volta nella storia del pensiero occidantale Hegel ci propone il problema: o teologia o filosofia. Non ci può essere dubbio, per il Kojève, quale sia la risposta della Fenomenologia. La religione è un momento transitorio della storia. Solo la filosofia, come conquista da parte dell'uomo della coscienza di sé, perdura e si salva, e conduce l 'uomo al raggiungimento della saggezza. Chi opta per la religione non può pervenire alla saggezza, almeno in questo mondo. Solo chi opta per la filosofia raggiunge la saggezza nella sua esistenza empirica. E, quel che è meraviglioso, Hegel ha avuto l'inaudita audacia di affermare che la saggezza è stata finalmente realizzata nella propria persona, che il saggio, che sorge quando i tempi sono compiuti e contempla dall'alto della sua piena e perfetta autocoscienza l 'enigma della storia ormai risolto, è lui stesso Georg Wilhelm Friedrich Hegel, l'autore della Fenomenologia, che è il libro (Bibbia) della saggezza. Il sapere assoluto, di cui Hegel si occupa nell'ul­timo capitolo, è per il Kojève non la filosofia, ma la saggezza, anzi il saggio stesso con la sua concreta individualità che ' viene dopo la filosofia, e che, soltanto ove venga dopo la

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filosofia ( e non dopo la religione), può essere realizzata in questo mondo. Tra il saggio e il filosofo c'è questo rapporto: il filosofo è colui che tende a diventare saggio; il saggio è il filosofo giunto al suo pieno compimento. Questa differenza è articolata dal Kojève in tre momenti : a) il filosofo si pone sempre questioni a cui non può in definitiva rispondere; il saggio è colui che giunto al punto culminante della sua fi­losofia, risponde a tutte le questioni; b ) il filosofo è essen­zialmente un malcontento; il saggio è l'uomo soddisfatto di sé; c) il filosofo è soltanto un modello negativo (mostra che non bisogna esser come lui); il saggio serve di modello a sé e agli altri . « Ogni filosofia è una dialettica pedagogica o una pedagogia dialettica, che parte dalla prima domanda re­lativa all'esistenza di colui che la pone e sbocca finalmente, almeno in principio, nella saggezza, cioè nella risposta (an­che se soltanto virtuale) a tutte le questioni possibili » (pp. 28 1-82 ) . L'importante è sapere se l'ideale della saggezza (che è poi l 'ideale del filosofo) possa o non possa essere realizzato pienamente. Platone ha risposto di no; Hegel ha risposto di sì, e tale risposta è ancora una prova, se ce ne fosse bisogno, del suo radicale ateismo.

Si capisce che la contemplazione del saggio è possibile soltanto quando la storia è finita, cioè quando tutti i pro­blemi sono posti e il gioco è fatto . Ma appunto Hegel rite­neva di essere giunto, quando scriveva la Fenomenologia, ad una crisi risolutiva della storia. Napoleone rappresentava il compimento della storia reale. Hegel ne avrebbe rappresen­tato la contemplazione finale, che è poi il fine vero della storia, perché l'uomo crea un mondo storico per conoscere che cosa è questo mondo e per conoscersi in esso. La meta finale dell'uomo è la conoscenza, ma siccome l'uomo non arriva alla conoscenza che attraverso la storia, e la storia è la storia della libertà dell'uomo in contrapposto alla natura, dell'azione negatrice dell'uomo nei confronti della natura ( si pensi a L'Etre et le Néant di Sartre che ha per tema principale l'antitesi tra la libertà negatrice dell'uomo e l'essere assoluto

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15 . N. BoBBIO - Da Hobbes a Marx.

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e immobile della natura), la conoscenza assoluta presuppone l'azione rivoluzionaria che trasforma l'alienazione della na­tura rispetto all'uomo nella conciliazione dell'uomo con la natura. Ma l'accordo dell'uomo con la natura è la fìne della storia (si pensi al Marx dei Manoscritti) . Dunque la con­templazione assoluta non può avvenire che quando l'azione rivoluzionaria decisiva abbia posto fine alla tragedia della storia e abbia posto le condizioni perché ne sia rivelato l'enig­ma. Che poi questa azione rivoluzionaria ( la Rivoluzione francese e Napoleone ) fosse o non fosse avvenuta all'epoca di Begel, è questione che non interessa.

L'importante per noi è il capire che Begel, con i pro­blemi del rapporto fra azione rivoluzionaria e filosofia, tra storia e fìne della storia, tra storia dell'uomo e natura, tra libertà come negazione e positività della natura, tra essere e tempo, tra la storia e la filosofia come fenomenologia della storia - problemi tutti quanti svelati con peritissima tecnica esegetica dal Kojève -, aveva già proposto i temi principali di discussione della filosofia successiva sino ai giorni nostri. Nel leggere le pagine del suo attuale commentatore, infatti, non si può fare a meno di pensare ad ogni istante ora a Marx e al marxismo, ora all'esistenzialismo, soprattutto di Beidegger e di Sartre. L'introduzione alla lettura di Begel diventa così pure un'introduzione alla comprensione dellà problematica filosofica di questo tempo, che ad Begel non può rinunciare, e quanto più acquista coscienza di sé tanto più ritrova in Begel le proprie sorgenti. Il Kojève stesso precisa in una breve nota, esemplarmente incisiva, quel che vorrebbe essere il significato rivelatore della sua interpreta­zione : « Beidegger ha ripreso il tema hegeliano della Morte; ma trascura i temi complementari della Lotta e del Lavoro; così la sua filosofia non riesce a rendere conto della storia. Marx conserva i temi della Lotta e del Lavoro, e la sua filosofia perciò è essenzialmente storicistica; ma trascura il tema della Morte [ . . . ] . Perciò non vede [ . . . ] che la rivo­luzione è non solo di fatto, ma anche essenzialmente e ne-

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cessariamente cruenta (teoria hegeliana del Terrore) » ( trad. it., p. 203 ).

L'esistenzialismo e il marxismo sarebbero così interpre­tazioni unilaterali e continuazioni parziali della filosofia di Begel : continuazioni, perché rappresentano le due odierne filosofie dell'ateismo, che si ispirano all'ateismo radicale dello Begel; parziali, perché non sviluppano tutti i motivi che permettono ad Begel di costituire, almeno in potenza, la più comprensiva filosofia dell'ateismo che sia mai stata con­cepita. Comunque, le filosofie ateistiche del nostro tempo avrebbero la loro matrice in Begel. E perciò Begel, in quanto filosofo dell'ateismo radicale, sarebbe il grande pensatore con cui il nostro tempo deve fare i conti per acquistare piena consapevolezza del proprio destino.

8. Osservazioni conclusive. - A voler trarre una prima conclusione dall'esposizione sin qui fatta, si deve dire che da qualsiasi parte si guardi alla filosofia contemporanea, Be­gel, il macigno Begel, sta sempre in mezzo, e sembra, con la sua gigantesca mole, quasi precludere la vista di ciò che sta al di là. Begel è l'inizio, oltre il quale si può anche non andare; ed è l'inizio proprio perché è insieme la conclusione di tutto quello che lo precede. Tutte le strade conducono ad Begel; o, che è lo stesso, tutte le strade partono da Begel. Anche quelle che sembravano più lontane come l'esistenzia­lismo: vuoi dire che il giro sarà più lungo, più tortuoso, meno facile. Ma ad Begel alla fine ci si arriva lo stesso. Marx ed Begel . Ma anche Kierkegaard ed Begel; Beidegger ed Begel; Jaspers (soprattutto lo Jaspers della Logica) ed Be­gel; Sartre (soprattutto L'Etre et le Néant) ed Begel. In fondo ad ogni prospettiva storica che parta dal nostro tempo in direzione del passato, c'è Begel.

Ma si presenta immediatamente una seconda conclusione: il modo di guardare ad Begel, oggi, è assai diverso dal modo con cui si guardava a lui durante gli anni della « rinascita » hegeliana o del cosiddetto neo-hegelismo. Oggi, infatti, nono-

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stante tutto questo discorrere di Hegel, non si potrebbe parlare, se non con evi�ente for�at�ra -.- come �i è già detto all'inizio di queste pagme - di nnasClta hegehana, e t�nto meno di neo-hegelismo. Perché mai? Questa constataziOne richiede qualche spiegazione, che tratteggeremo brevemente a guisa di conclusione della presente rassegna. . .

Anzitutto, una considerazione generale : ogm sistema fi­losofico presenta un aspetto e quindi un

_interesse meto�olo­

gico e un aspetto e quindi un interesse m largo senso zdeo­

logico. Per quanto vi siano sistemi in eu� ?rev�le l'int_eresse

metodologico su quello ideologico, e altn m cm vale. il rap� porto inverso, si può, in linea di principio, dire che m ogm filosofia, in quanto tale, i due aspetti s'intrecciano, ed è com­pito dell'interprete di scinderli e metterli in evidenza. Una grande filosofia è insieme un nuovo modo di conoscere ( e con ciò apre la strada ad una nuova ricerca), e una nuova concezione del mondo ( in quanto tale costituisce un sistema tipico di valori che determina un'etica, un indiriz�o pratico, ecc . ) . Non c'è, forse, filosofia in cui questo duplice aspetto sia evidente più della filosofia di Hegel. Dal punto. di v�sta metodologico essa rappresenta la scoperta della dialettica; dal punto di vista ideologico essa è, a second

_a d�lle due

interpretazioni antitetiche, o l'ultima grande smtesi teolo­gico-cristiana, o la prima grande presentazione di �na co�­cezione immanentistica e storicistica del mondo, m posi­zione nettamente antiteologica e anticristiana.

La differenza tra i due tempi della fortuna di Hegel in questo secolo, cioè tra il vero e proprio neo-hegelismo, come prosperò, ad esempio, in Italia, e l'odierno

_riferime�to al

sistema hegeliano come ideologia, sta propno nel diverso accento posto sull'una o sull'altra delle due facce di questo pensiero. La corrente neo-hegeliana aveva rivolto la propria attenzione al metodo dialettico dichiarandosi continuatrice e riformatrice della dialettica hegeliana; oggi si guarda con maggior interesse alla sintesi ideologica rappresentata dal sistema dell'autore della Fenomenologia, e si cerca di rein-

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terpretare le principali ideologie contemporanee alla luce della concezione hegeliana del mondo, reinterpretata a sua volta in funzione delle ideologie contemporanee.

Si prenda, come esempio caratteristico del primo atteg­giamento, la posizione assunta costantemente e continua­mente dal Croce verso la filosofia hegeliana, con la quale non ha cessato, dopo il celebre saggio del 1 906, di mettersi a raffronto (e ancora, recentemente, in un colloquio imma­ginario col grande filosofo, pubblicato sui « Quaderni della Critica », del marzo 1949 : Un a pagina sconosciuta degli ul­timi mesi della vita di Hegel) . Per il Croce sin dal primo saggio, lo sforzo maggiore di Hegel è consistito nella elabo­razione di una logica della filosofia (logica nel senso di meto­do). Questo è stato il grande problema di Hegel, il problema centrale della Fenomenologia e delle nuove forme in cui que­sto primo libro si presentò nella Logica e nella Enciclopedia. « Nella sua dottrina logica - egli scrive - e nel suo effet­tivo pensare in conformità di essa, è, dunque, il vigore indo­mabile, la perpetua giovinezza della filosofia hegeliana » 1 0 •

E come la logica è il problema di Hegel, così nella logica bisogna cercare la fonte del suo errore, che sarebbe in tal caso un errore di teoria logica, ovvero lo scambio, com'è ben noto, tra teoria dei distinti e teoria degli opposti. Per il Croce, continuare Hegel significa riprendere la logica di Hegel, purificandola dai gravi errori (logici ) che la viziano, in modo che non sia più possibile l'equivoco delle due inter­pretazioni antitetiche: quella teistica e quella materialistica, che si fondavano, entrambe, su dottrine hegeliane ed erano a loro modo entrambe fedeli allo spirito unilateralmente inteso, dello Hegel . Si vede così come l 'interesse per il problema metodologico scacci l'interesse per quello ideologico: non solo al Croce non interesse lo Hegel teista o materialista, ma anzi egli cerca di interpretare Hegel in siffatta guisa che non sia più possibile l'equivoco di un'interpretazione cosl

1 0 Saggio sullo Hegel, }'l ediz. , 1927, p. 48.

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marcatamente ideologica. Egli tiene visibilmente a far notare che la sua interpretazione metodologica non coincide né con la destra né con la sinistra ( e neppure in un certo senso col centro, cioè con l 'ortodossia dei ripetitori ) . Anzi, si man­tiene accuratamente equidistante dalle interpretazioni aper­tamente ideologiche, e si mette su una linea che senza essere una pedissequa ripetizione non vuole neppure essere una deviazione. È la linea della revisione critica della dialettica hegeliana, da cui ci si ripromette la soluzione dei principali problemi rimasti insoluti in quel sistema. Non già che la interpretazione crociana non contenga a sua volta degli ele­menti ideologici. E come sarebbe possibile se ogni filosofia implica e non può non implicare ( è la stessa logica dello storicismo, professato dal Croce, che ce lo insegna ) una presa di posizione ideologica? Lo Hegel di Croce non è teista né materialista, ma è bensì idealista, è colui che con­duce il pensiero moderno « non solo all'assoluto immanen­tismo, ma più propriamente allo storicismo assoluto; e poi­ché staticità è dialettica e spiritualità, allo spiritualismo asso­luto » 11 • Ma la posizione ideologica di Hegel è vista dal Croce in funzione della dottrina metodologica, coerentemente del re­sto allo stesso concetto che il Croce ha della filosofia come metodologia della storia. Hegel fu pur sempre, per il Croce, il genio filosofico che indovinò il segreto bisogno del mondo moderno e gli fornì il mezzo logico che chiedeva 12, cioè il nuovo concetto del concetto, come unità dell'universale e dell'individuale, ecc. 1 3• Tanto vivo interesse per l 'aspetto formale della fiosofia di Hegel va di pari passo con la scarsa attenzione che il Croce e in genere la corrente idealistica italiana hanno prestato al contenuto della filosofia hegeliana,

1 1 Il carattere della filosofia moderna, 1941, p. 45. 12 Op. cit., p. 42. 13 Segue questo indirizzo interpretativo, che implica la discendenza

di Hegel da Kant, Fichte e Schelling, un crociano di stretta osservanza come M. CIARDO, in un libro recente: Le quattro epoche dello sto­ricismo, Bari, Laterza, 1947.

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cioè ai concetti particolari svolti dallo Hegel in questo o in quella parte della sua filosofia, e che rivelano la sua conce­zione del mondo o meglio gli aspetti ambigui di questa con­cezione. Basta per un momento richiamare alla mente i due temi del lavoro e della morte, illustrati rispettivamente dal Luk:ks e dal Kojève, per far toccare con mano la differenza tra il neo-hegelismo metodologico e formale dei primi de­cenni e l 'hegelismo ideologico e contenutistico dei giorni nostri. E se non s'intende questa differenza essenziale di atteggiamento, si rischia di cadere in gravi equivoci e di sovrapporre l'una sull'altra le diverse fasi della fortuna di Hegel che vanno tenute accuratamente distinte, perché cor­rispondono a diverse epoche culturali, come sono, da un lato, quella dell'idealismo ottimistico e, dall'altro, quella della odierna filosofia della crisi.

L'idealismo ottimistico ha cercato in Hegel l'inizio e il fondamento della propria orgogliosa sicurezza: la filosofia di Hegel, debellata definitivamente la metafisica della tra­scendenza, offre al pensiero umano, attraverso il nuovo stru­mento della logica dialettica, le basi per una concezione nuova della storia e del mondo, che permette all'uomo di conqui­stare, insieme col dominio del proprio mondo umano ( il mondo della storia ) , una più piena consapevolezza di sé. La filosofia dello Hegel è un cominciamento. La filosofia della crisi cerca, invece, in Hegel, l'origine e la spiegazione della crisi stessa: la filosofia di Hegel è l 'ultimo e più grandioso tentativo di conciliare speculativamente le grandi antitesi della storia moderna, di trovare i termini della perfetta ade­guazione tra reale e razionale, e come tale è anche l 'ultimo e più conseguente rampollo del razionallismo greco-cristiano. La filosofia di Hegel non è un cominciamento, ma un termine. Non è il primo anello di una tradizione in fieri, ma l 'ultimo anello di una traduzione esaurita . Dopo di essa, infatti, co­mincia lo smarrimento, la dissoluzione, la crisi. È la crisi del razionalismo, che significa il fallimento di ogni tentativo di adeguazione totale tra la ragione del soggetto umano e la ra-

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gione oggettiva delle cose mediante il comune riferimento della ragione soggettiva e oggettiva alla Ragione universale. Ed è anche la crisi della filosofia nel senso tradizionale della parol-a, cioè come sapere totale. Dopo di che non sembrano più possibili al pensiero umano che due alternative: o la @o­sofia, diciamo così, della inadeguazione o i1'razionalismo ( li­nea Kierkegaard, Nietzsche, esistenzialismo ) ; oppure la ne­gazione della filosofia o positivismo ( linea che giunge visibil­mente sino alle odierne correnti neo-positivistiche ) .

Chi voglia farsi un'idea concreta di questo secondo tipo di interpretazione della filosofia hegeliana, secondo cui questa filosofia non è un cominciamento ma un episodio finale, e si voglia così render conto del significato dell'antitesi, sin qui rilevata, tra l'interpretazione metodologica dell'idealismo e quella ideologica della filosofia della crisi, legga la ricca e densa opera del LOwith, Von Hegel bis Nietzsche. Ziirich, Europa Verlag, 1 94 1 ( tradotta recentemente in italiano, Torino, Einaudi, 1 949 ) , la quale rappresenta in maniera esemplare il contraltare della interpretazione neo-idealistica. Per il LOwith l'opera di Hegel costituisce, proprio come Hegel stesso la intendeva, l 'ultimo grande e disperato ten­tativo di conciliare la filosofia con la realtà tanto sul terreno politico quanto su quello religioso. In questo senso è anche l'ultima grande e ambiziosa manifestazione dello spirito bor­ghese-cristiano. Di conseguenza, la rottura del sistema, ope­rata sia dai Giovani hegeliani nella direzione soprattutto della filosofia politica ( ma anche, per un aspetto tutt'altro che trascurabile, nella direzione della filosofia religiosa ) , sia dal Kierkegaard nell'ambito del cristianesimo, rappresenta, da un lato, una irrimediabile scissione tra filosofia e cristianesimo e quindi l'inizio di quella scristianizzazione e disumanizzazio­ne della filosofia che conduce attraverso i Giovani hegeliani a Nietzsche, dall'altro, ;la dissoluzione di quel mondo bor­ghese-cristiano, in cui si rispecchiava la tradizione politica e religiosa di una cultura ormai millenaria, e che dopo la disintegrazione del pensiero del grande mediatore sfocia

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nella cntlca sociale e religiosa di un'epoca rivoluzionaria ancora non esaurita. I maggiori esponenti di questa disin­tegrazione sono: Feuerbach e Ruge, che trasformano la fi­losofia di Hegel secondo lo spirito di un tempo nuovo; Bauer e Stirner, che fanno morire la filosofia, l'uno in un criticismo radicale, l 'altro nel nichilismo; e principalmente Marx e Kierkegaard, che traggono da questa dissoluzione le estreme conseguenze, ponendosi il primo come il distruttore del mondo borghese e capitalistico, il secondo del mondo borghese e cristiano, lontanissimi l'uno dall'altro per tradi­zione, ambiente e modo di pensare, ma vicini per il rove­sciamento da essi operato, se pure per diverse vie e in di­versi campi, della conciliazione tentata da Hegel tra filosofia e realtà terrena dello stato ( Marx ) e tra filosofia e realtà divina del cristianesimo ( Kierkegaard ) .

È chiaro, dunque, che per il Lowith l 'umanità dopo Re­gel ha smarrito la propria strada proprio perché Hegel per­corse eg_li stesso l 'ultimo tratto di una strada che non aveva più sbocco. Da quel che si può arguire sarà dunque impossi­bile, secondo il Lowith, un ritorno ad Hegel, come fu già quello operato dal neo-hegelismo. Il quale si era posto il proprio problema su per giù in questi termini : come è possibile @osofare, oggi, senza Hegel? Dalla posizione del LOwith, che mi pare sia condivisa dalla maggior parte di coloro che oggi stanno facendo i propri conti con Hegel, si desume la posizione di una diversa domanda: come è possi­bile filosofare, oggi, dopo Hegel? Per gli uni, il successo di Hegel rende possibile la prosecuzione del lavoro filoso­fico dell'umanità; per gli altri, il suo fallimento rende im­possibile la prosecuzione di ogni lavoro filosofico, senza che una profonda revisione critica del significato e del metodo stesso della filosofia sia compiuta . Come si vede, il punto di partenza delle due interpretazioni non potrebbe essere più lontano. Si tratta infatti di decidere se la crisi della filosofia post-hegeliana ( irrazionalismo e positivismo ) sia stata una crisi periodica o una crisi più profonda, in altre

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parole una crisi di una particolare filosofia o della filosofia in quanto tale. A seconda che si accetti la prima o la seconda alternativa, mutano le ragioni del nostro riferimento ad Hegel. O si ritorna a lui per continuare la filosofia; o si ritorna a lui per spiegare la impossibilità di continuare una qualsiasi filosofia nei termini lasciati da Hegel. E muta an­che l 'esito filosofico a cui le due posizioni, rispettivamente, mettono capo: nel primo caso l'idealismo e lo storicismo as­soluto; nel secondo, una nuova forma di agnosticismo meta­fisico, che lascia il campo libero al progresso indefinito della scienza ( col rischio della caduta in un nuovo scientismo ) , o al ritrovamento dell'esperienza religiosa ( col pericolo di un nuovo misticismo ) .

Concludendo: centralità di Hegel nella odierna vita della filosofia, ma non rinascita dello hegelismo nel senso di un nuovo hegelismo. Centralità che indica il riconoscimento del posto decisivo che Hegel occupa nella nostra cultura, in quanto questa si dibatte in mezzo ai problemi lasciati aperti dalla dissoluzione del sistema hegeliano e si travaglia a causa delle soluzioni da Hegel non poste. Ma nel tempo stesso che riconosce la centralità di Hegel, la nostra cultura si rifiuta di ritornare a lui, e di continuare la sua strada. E quindi Hegel non è tanto un punto d'appoggio, su cui si possa po­sare per andar oltre, quanto un masso che pesa sulle spalle e impedisce la speditezza del cammino. Si ha l 'impressione che molti di questi nuovi hegeliani lo considerino come -un incubo di cui ci si debba liberare. Certo, Hegel è Il in mezzo, con la sua solida presenza, con le sue ingombranti dimen­sioni, a ricordarci quanto incerto e disperato sia stato l 'erra­mento fùosofico dell'ultimo secolo, quanto vano sia ogni passo tentato senza la consapevolezza di questo erramento. Per andare oltre Hegel, il cammino è lungo: lo dimostra ap­punto questo rifiorire di studi hegeliani che è come una esplorazione del cammino. E dopo che cosa ci sarà? Chi crede di poter abbreviare questo cammino e prendere una decisione metafisica frettolosa, al di fuori di tali preoccupa-

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zioni, con la disinvoltura del dilettante o con la passione passeggera del romantico o peggio ancora con la protervia del dogmatico, proponendo facili ritorni o riprese o ricolle­gamenti, ha già il destino segnato. La sua filosofia sarà una retorica di poca durata, fiammella di vanità dottorale nell'in­cendio di una crisi storica.

Infine, per quel che riguarda il contenuto di queste in­terpretazioni ideologiche, che caratterizzano gli studi hege­liani di oggi, si osservi ancor questo. Come abbiamo visto, sono presenti le due interpretazioni tipiche opposte: quella che considera la filosofia di Hegel· come una teologia specu­lativa ( Niel e Iljin ) e quella che la considera come un primo tentativo di costruzione ateistica della storia ( Lukacs, Kojève e in parte Hyppolite ) 11• Per quanto le due interpretazioni, nel loro radicalismo estremistico, tendano ad escludersi po­lemicamente a vicenda ( Iljin contro la sinistra hegeliana, Lukacs contro i falsificatori mistici e romantici ) , pure en­trambe sono a rigore giustificate dalla lettera e dallo spirito del sistema hegeliano, e qualche volta, malgrado i loro au­tori, si toccano. Kojève, da un lato, riconosce la derivazione teologica e cristiana dei principali concetti della Fenomenolo­gia; d'altra parte, Iljin ammette il fallimento del sogno pan­teistico del giovane Hegel. La interpretazione ateistica è costretta a raggiungere, per trovare il proprio fondamento, quella teologica; e questa, a sua volta, sfocia, per afferrare il suo punto d'arrivo, in quella ateistica. La verità è che il sistema di Hegel, nella sua complessità, le comprende tutte e due: la filosofia di Hegel è una teologia mondana. Il suo tema fondamentale è la nascita, lo sviluppo e il compimento di Dio in questo mondo. Tutto l 'interesse di Hegel è con­centrato su questo mondo, sul mondo della natura e della

14 Per F. GRÉGOIRE, Aux sources de la pensée de Marx, Hegel, Feuerbach, cit., che giudica lo Hegel dal punto di vista dell'orto­dossia cattolica e lo definisce panteista evoluzionista, Hegel potrebbe dirsi, paradossalmente, hegeliano di sinistra in religione e in filosofia, di destra in politica.

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.l storia : e in ciò hanno ragione Lukacs e Kojève. Ma le categorie con cui questa storia viene compresa sono categorie teologiche ed è teologico lo spirito con cui il corso di questa storia viene compreso e determinato: e in ciò hanno ragione Niel e Iljin 1 5 • L'idea, propria di una concezione teologica, di una storia compiuta che ha un principio ed una fine, è l'idea motrice della visione di Hegel. Solo che questo prin­cipio e questo fine non sono al di fuori del mondo, ma nel mondo stesso, si compiono in questo mondo. La storia ha un senso ed uno sviluppo, non per una forza che viene di là dalla storia, ma per forza propria. La storia è, per Begel, come per una concezione teologica e trascendente, il dramma dell'uomo alienato. Ma, a differenza dalle concezioni teolo­giche, l 'appropriazione, che restituisce l 'uomo a se stesso e segna la fine del dramma storico, è di questo mondo. E colui che è chiamato a realizzare questa appropriazione e a chiudere la storia è Hegel in persona.

Ecco perché non è possibile scindere gli elementi teolo­gici da quelli storicistici nella interpretazione complessiva di Hegel : la filosofia di Hegel è insieme una teologia e una storia, è una storia teologica o una teologia della storia. Ecco perché la strada di Hegel è una strada che non si po­teva continuare, ed era piuttosto una chiusura del passato che un'apertura verso l 'avvenire: il concetto di un compi­mento della storia, di un'appropriazione in questo mondo, è contraddittorio (ed è la stessa contraddizione in cui si di­batte il marxismo, e che il revisionismo aveva cercato per più vie di evitare ) . Proprio per sciogliere questa contraddi­zione, si percorrono, oggi, due diverse, anzi opposte, stra�e :

1 5 .Nella Prefazione ad una antologia d i scritti giovanili hegeliani tradotti, I principi di Hegel, cit. , il De Negri presenta alcune interes­sa�ti an?otaz�oni linguis�iche per confermare quello che egli stesso chram� d restduo teologtco della filosofia di Hegel. II Grégoire, ad esempw, a�mette che l'attaccamento di Hegel al dogma cristiano delia redenzwne, contribuì a suggerirgli l'idea del processo dialettico come legge fondamentale della realtà (op. cit. , p. 77).

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da un lato, il ritorno alla distinzione tradizionale tra mondo e sopramondo ( filosofie neo-cristiane), dall'altro la prosecu­zione dell'eliminazione di ogni residuo teologico dalla con­cezione del mondo verso una sempre più completa laicizza­zione della storia ( correnti socio logiche ) . Entrambe evitano la più grave contraddizione di una storia che è insieme rela­tiva ed assoluta, umana e divina; ma aprono alla loro volta vecchi problemi, ovvero il problema, ereditato da tutta la tradizione cristiana, del rapporto tra infinito e finito, tra eternità e tempo, tra Dio e mondo, la prima; il problema della giustificazione dell'evento storico, di per se stesso con­siderato, la seconda.

Per questo Hegel ritorna ancora tra noi oggi con la sug­gestione di una soluzione definitiva, apparentemente acquie­tante, di questi due opposti problemi. E solo lo studio della soluzione di Hegel, senza che questo studio implichi adesione ( è caratteristico il fatto che la maggior parte di questi autori tengano a dichiararsi non hegeliani), sembra possa dare la consapevolezza piena di una crisi filosofica che appare senza precedenti : vale a dire la coscienza che tutte le strade filoso­fiche dopo Hegel sono bloccate. Anche nel medioevo le strade filosofiche erano bloccate. Ma erano bloccate a ragion veduta, perché la filosofia non era la sola strada, anzi non era la strada maestra . Oggi la crisi appare assai più grave, perché le strade filosofiche si sono rivelate bloccate dopo che la filosofia aveva preteso, appunto con Hegel, di essere l 'unica strada, la strada maestra, dopo che la filosofia, avendo dimostrato la insufficienza della religione e l 'inconcludenza della scienza, aveva creduto di porsi come sapere totale. L'aver scoperto che le strade filosofiche sono bloccate si­gnifica, oggi, che l 'uomo non ha più strade: la filosofia, dopo aver fatto concludere tutte le altre strade in se stessa, non ha avuto una conclusione; dopo aver fatto smarrire le altre vie, ha smarrito se stessa. È possibile tornare indietro? In queste condizioni oltre la filosofia che ha accettato il falli­mento ( esistenzialismo ) , il ritorno sui propri passi sembra

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a taluni l'unica via d'uscita. Ma quando il terreno nell'avan­zata è stato bruciato ( e la filosofia moderna ha bruciato tutto quello che ha trovato sul suo cammino ) , la ritirata assume l 'aspetto e la portata di una sconfitta 16•

1 6 Nel periodo intercorso tra la prima e la seconda puntata di questa rassegna, mi giunse un breve saggio del Croce che, a propo­sito di un'analoga rassegna di studi hegeliani apparsa su una rivista argentina (« Cuadernos de Filosofia », 1949, n. 2), tocca il medesimo problema da me discusso in queste pagine intorno all'odierna rinascita hegeliana, come appare immediatamente dal titolo, L'odierno « rina­scimento esistenzialistico » di Hegel (in appendice a Una pagina sco­nosciuta degli ultimi mesi della vita di Hegel, Bari, 1950, pp. 58-67). Il Croce conclude giustamente che di rinascita del pensiero hegeliano non si possa parlare; e con tal giudizio concorda esattamente quello da me espresso nelle pagine precedenti. Ma egli ritiene pure che l'odierna fortuna di Hegel sia dovuta a motivi non filosofici - per quel che riguarda la fortuna di Hegel come padre spirituale di Marx -o a motivi filosofici, sì, ma legati a pensieri dallo stesso Hegel corretti o superati nell'età ma.tura - per quel che riguarda la fortuna di Hegel come precursore dell'esistenzialismo. E su questo punto che le osservazioni da me raccolte nella conclusione divergono dal giudizio del Croce. Io avevo cercato infatti di mostrare come l'odierno fervore di studi hegeliani non potesse dirsi dovuto a motivi pratici o a inter­pretazioni fallaci, ma fosse connesso strettamente ai problemi sorti nel­l'orizzonte culturale degli ultimi anni che non è - e non c'è ragione che sia - quello del primo decennio del secolo. Quindi, a mio avviso, non si può dire che il modo di guardare oggi allo Hegel sia grossola­namente prammatico o dilettantescamente erroneo. Direi semplice­mente che è diverso: ed è diverso perché oggi si guarda allo Hegel dal punto di vista dei problemi che oggi son vivi e non, ovviamente, da quelli che eran vivi al tempo della rinascita hegeliana che fa capo al Croce. Il fatto poi che questi problemi siano tali da far vedere nello Hegel piuttosto l'ultimo rappresentante della metafisica tradi­zionale che non il seminatore della filosofia dell'avvenire, e come tali rendano impossibile una rinascita vera e propria, non toglie che l'interesse per Hegel non sia dovuto soltanto ad opportunità politica o a una casuale e mal diretta curiosità.

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VII. La dialettica in Marx

l . L'uso del termine « dialettica » nella @osofia contem­poranea è diventato ormai un contrassegno della @osofia marxistica. Le correnti idealistiche neo-hegeliane, che ave­vano posto ripetutamente in discussione il problema della dialettica, vanno a poco a poco estinguendosi. Lo stesso rinato interesse per Hegel, in questi ultimi anni, - da un Hyppolite, a un Kojève, a un Lukacs - è avvenuto in occa­sione della rinascita del marxismo, in Francia, in Italia, in Germania. A un Marx successore di Hegel, quale si era ve­nuto designando negli scrittori idealisti, si è venuta sosti­tuendo la figura di un Hegel precursore di Marx. Il metodo dialettico sembra ormai esclusivo appannaggio dei marxisti 1• Nella Unione Sovietica la dialettica è tuttora al centro delle discussioni e viene considerata come il segno distintivo - e insieme il titolo di primato - della filosofia marxistica ri­spetto alle filosofie occidentali 2 • Se esiste oggi un problema di chiarimento del concetto di dialettica, esso esiste soprat­tutto in relazione al rinnovato interesse per il marxismo, e all'uso e abuso del termine che si è venuto allargando in

1 Per un'esposizione delle più recenti discussioni tra filosofi mar­xisti sul problema della dialettica si vedano G. CHERUBINI, Logica formale e dialettica in un dibattito sovietico, in « Società », IX, 1953, pp. 136-155; e N. MERKER, Una discussione sulla dialettica, in « So­cietà », XII, 1956, pp. 819-848.

2 Si vedano, da ultimo, i vari articoli pubblicati sotto il titolo generale Problemi della contraddizione, in « Rassegna sovietica », VIII, 1957, pp. 1-35.

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questi anni dagli scritti filosofici agli scritti di cultura poli­tica e di pubblicistica, e al suo conseguente impiego come ultimatum per respingere gli attacchi dell'avversario ( allo stesso uso servirono, in altro clima filosofico, i termini « tra­scendentale » o « sintesi a priori » ) . Una discussione intorno al concetto di dialettica non può pertanto prescindere dal­l'esame del pensiero di Karl Marx, anche se in verità l'esame del pensiero di Marx non dovrebbe restare isolato e do­vrebbe essere seguito dall'esame del pensiero di Engels, di Lenin, di Lukacs, e di altri teorici del marxismo.

Qui raccolgo le mie osservazioni intorno a due punti: l ) quale importanza abbia avuto la dialettica nel pensiero� di Marx, o, con altre parole, se Marx sia stato e in quale misura e in quali circostanze un pensatore dialettico ( § § 2, 3 , 4, 5 ) ; 2 ) se il termine dialettica abbia nel pensiero di Marx un significato univoco, e quali siano i principali signi­ficati del termine, il chiarimento dei quali ci permetta di comprendere non soltanto se, ma anche in qual senso, Marx sia stato un pensato re dialettico ( § § 6, 7, 8 ) 3 •

2 . Per quanto la filosofia di Marx venga ormai chiamata abitualmente « materialismo dialettico », questa espressione, com'è noto, non è di Marx ma di Engels . La raffigurazione abi­tuale di un Marx che rifiuta di Hegel l'idealismo, cioè la conce­zione metafisica, ma accetta il metodo, cioè la dialettica, o, con altro gioco di concetti, accetta dagli illuministi sette-

3 Non tratto qui, se non di sfuggita, il problema del rovescia­mento della dialettica di Hegel, operato da Marx. Il problema è stato ampiamente trattato in Italia da G. DELLA VoLPE, ancora da ultimo nel saggio Per una metodologia materialistica dell'economia, in « Società », XVI, 1957, pp. 36-72 (ora compreso nel volume Rousseau e Marx, Roma, Editori riuniti, 1957, pp. 79-129); e nella relazione Il marxismo e la dialettica di Hegel, in « Rinascita », XIV, n. 1 0-1 1 , ottobre-novembre 1957, pp. 538-541 . Pure al problema del rovesciamento sono quasi esclusivamente dedicati i capitoli su�la dialettica nell'opera di J. Y. CALVEZ, La pensée de Karl Marx, Parts, aux éditions du Seuil, 1956, p. 335 e ss.

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centeschi la concezione materialistica del reale ma ne rifiuta il metodo meccanicistico, è opera di Engels, il quale attri­buisce a Marx e a se stesso, ma in primo luogo a Marx, il merito di aver criticato Hegel attraverso Feuerbach e Feuer­bach attraverso Hegel. Il primo tentativo, da parte di En­gels, di ricostruire il pensiero di Marx come congiunzione o sintesi di materialismo e di dialettica si legge nella recen­sione, che egli pubblicò sul giornale Das V olk di Londra ( 6 e 20 agosto 1 859 ) , dell'opera di Marx Per la critica dell'eco­nomia politica. Egli cosl scrive: « Marx era ed è il solo che si poteva accingere al lavoro di estrarre dalla logica hegeliana il nocciolo che racchiude le vere scoperte fatte da Hegel in questo campo, e di stabilire il metodo dialettico spogliato dai suoi veli idealistici, nella forma semplice in cui esso è la sola forma giusta dello sviluppo del pensiero. Noi pen­siamo che questa elaborazione del metodo che è la base della critica dell'economia politica di Marx, costituisce un risultato quasi altrettanto importante quanto la concezione materialistica fondamentale » 4 •

Molti anni più tardi, Engels sostenne con veemenza la difesa della dialettica di Marx nell'Antidiihring ( 1878) e prese occasione proprio da questa difesa del metodo marxiano per esporre la prima - più nota e più discussa - teoria della dialettica. Il « signor Di.ihring » si era divertito a mettere in ridicolo il metodo dialettico con espressioni di questo genere: « Questo schizzo storico [ la storia dell'accumula­zione del capitale] [ . . . ] è ancora relativamente la cosa migliore del libro di Marx e sarebbe ancora migliore se non si fosse puntellato per andare avanti, oltre che sulle grucce della dottrina, su quelle della dialettica. Cioè, in mancanza di qualche mezzo migliore e più chiaro, qui la hegeliana negazione della negazione deve far da levatrice ed estrarre l'avvenire dal grembo del passato [ . . . ] L'ibrida forma ne-

4 Vedila pubblicata in appendice a Per la critica dell'economia politica, trad. ital., ed. Rinascita, 1957, p . 205. Il corsivo è mio.

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16. N. BoBBIO - Da Hobbes a Marx.

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bulosa delle idee di Marx non sorprenderà, del resto, chi sappia che cosa si può combinare o piuttosto che strava­ganze devono venir fuori prendendo come base scientifica la dialettica di Hegel » . In questa forma scherzosa, del resto, Di.ihring diceva cose serie e niente affatto campate in aria, là dove, continuando, asseriva : « Per chi sia ignaro di questi artifici bisogna notare espressamente che la prima negazione hegeliana è il concetto catechistico del peccato originale, e la seconda è quella di una superiore unità che porta alla redenzione » . Onde traeva la conseguenza che non fosse possibile « fondare la logica dei fatti » - come aveva pre­teso Marx - « su questo giochetto analogico preso a pre­stito dal campo della religione » 5 • Il celebre passo della negazione della negazione, a cui il Di.ihring si riferiva, era alla fine del primo volume del Capitale. Era l'unico passo, del resto, in cui Marx avesse scoperto il proprio metodo usando il linguaggio della dialettica hegeliana: « Il modo di appropriazione capitalistico che nasce dal modo di pro­duzione capitalistico, e quindi la proprietà privata capitali­stica, sono la prima negazione della proprietà privata indi­viduale, fondata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con l'ineluttabilità di un pro­cesso naturale, la propria negazione. È la negazione della negazione » 6 • Nella difesa del metodo marxiano, Engels per la prima volta, come si è detto, cercò di fissare i prin­cipi di una teoria della dialettica : ora, proprio fra gli esempi di sviluppo dialettico, tratti dalla natura, dalla matematica e dalla storia, egli indicò lo stesso materialismo dialettico, come il risultato di un movimento della storia del pensiero,

5 Antiduhring, trad. ital., ed. Rinascita, 1950, p. 142. Il corsivo è miO.

6 Il capitale, trad. ital., ed. Rinascita, 1952, III, p. 223. Nel cap. IX aveva ricordato « la legge scoperta da Hegel nella sua logica, che mutamenti puramente quantitativi si risolvono in certo punto in distinzioni qualitative » (I , p. 337), legge che da Engels sarà consi­derata come una delle tre leggi fondamentali della dialettica.

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che dalla tesi del materialismo primitivo (greco) era passato all'antitesi dell'idealismo cristiano-borghese, per sboccare alla fine nel materialismo dialettico, negazione della negazione.

Marx era morto da alcuni anni quando Engels diede il quadro più completo delle origini e dello sviluppo della filosofia marxiana, e ne presentò ancora una volta nella forma più ampia e storicamente più articolata la concezione mate­rialistica e dialettica, nel saggio Ludwig Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia classica tedesca ( 1888), uno dei testi fondamentali del marxismo teorico. Dopo aver messo in rilievo i pregi e i difetti di Feuerbach, del quale viene accolto il materialismo che faceva fare alla filosofia un passo oltre Hegel, ma respinta l 'assenza di metodo dialettico che la riportava indietro al materialismo settecentesco, egli chia­risce i rapporti di Marx e suoi con Hegel in questo modo: « Non ci si accontentò di mettere Hegel semplicemente in disparte; al contrario, ci si ricollegò a quel suo lato rivolu­zionario, [ . . . ] al metodo dialettico. Ma nella forma che Hegel gli aveva dato, questo metodo era inservibile. Per Hegel la dialettica è l'autoelevazione del concetto [ . . . ] Era questa inversione ideologica che si doveva eliminare. Noi concepimmo di nuovo i concetti del nostro cervello in modo materialistico come riflessi delle cose reali, invece di concepire le cose reali come riflessi di questo o quel grado del con· cetto assoluto [ . . . ] . Ma in questo modo la stessa dialettica del concetto non era più altro che il riflesso cosciente del movimento dialettico del mondo reale, e così la dialettica hegeliana veniva raddrizzata, o, per dirla più esattamente, mentre prima si reggeva sulla testa, veniva rimessa a reg­gersi sui piedi » 7 •

3 . I l fatto che una compiuta e ordinata teoria del mate­rialismo dialettico sia stata esposta da Engels per lo più in

7 Ludovico Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia classica tedesca, trad. ital., ed. Rinascita, 1950, pp. 50-52. Il corsivo è mio.

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scritti tardi, a guisa di esame retrospettivo o di tentativo postumo di presentare il pensiero di Marx come un sistema filosofico o come una concezione totale della realtà, fu cet;: tamente una delle ragioni che contribuirono a far trascu­rare o a far sottovalutare i motivi dialettici degli scritti di Marx, in un'età in cui, dominante il positivismo, diffonden­dosi una concezione evolutiva e deterministica della realtà, si scolorl la visione dell'origine del pensiero marxiano dalla matrice hegeliana, e, come è stato ripetutamente osservato, fu considerato sforzo meritevole ogni tentativo di staccare Marx da Hegel. Si aggiunga che Marx trascurò di esporre al pubblico i suoi canoni metodologici, e preferì esercitare un metodo che parlarne : i suoi due principali frammenti metodologici, Critica della dialettica e in genere della filo­sofia di H e gel e Introduzione alla critica dell'economia poli­tica, uscirono postumi 8• Di quest'ultima egli stesso scrisse nella prefazione a Per la critica dell'economia politica: « Sop­primo una introduzione generale che avevo abbozzato per­ché, dopo aver ben riflettuto, mi pare che ogni anticipazione di risultati ancora da dimostrarsi disturbi, e il lettore che avrà deciso di seguirmi dovrà decidersi a salire dal parti­colare al generale » 9• Nel passo più famoso in cui volle mostrare il suo debito di riconoscenza verso Hegel ( nel Po­scritto alla 2"' ediz . del Capitale) e disse, tra l 'altro, che aveva « perfino civettato qua e là, nel capitolo sulla teoria del valore, col modo di esprimersi che era peculiare ad Hegel »10,

lo fece, almeno parzialmente, in una forma che aggravò i dubbi anziché eliminarli . Da questa frase si trasse argo­mento per ribadire che lo hegelismo, e cioè la dialettica, era

. 8 Il p�imo �a parte dei Manoscritti economico-filosofici del 1 844, T�nno, Emaudr, 1949, pp. 164-191 ; il secondo, pubblicato per la pnma volta nella « Neue Zeit » del 1903, è tradotto in Per la critica dell'economia politica, cit., pp. 171-199.

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9 Per la critica dell'economia Politica, cit., p. 9. 10 Il capitale, cit., I, p. 28.

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in Marx un mero involucro, una specie di rem1ruscenza di scuola, a cui non si sarebbe dovuto dare troppa importanza.

Dell'immagine di un Marx staccato da Hegel, pensatore non dialettico, è stata fatta da tempo giustizia. Basterà ri­cordare, per restar sul terreno della critica filosofica, la vec­chia polemica di Lukacs contro i revisionisti, i quali, avendo messo da parte il metodo dialettico di Marx, ne avevano appiattito, svigorito il pensiero. Nella introduzione a Storia e coscienza di classe spiegò che ciò che era comune ai saggi che veniva pubblicando riuniti in volume era la riafferma­zione dell'importanza della dialettica in Marx, e dei suoi rap­porti con Hegel, e la critica di tutti coloro che avevano cre­duto di sbarazzarsi della dialettica come di una superfeta­zione 11 •

Oggi noi siamo convinti che gli argomenti addotti dagli antidialettici erano mal fondati . Anche prescindendo per ora dalla più completa conoscenza che abbiamo del pensiero di Marx attraverso gli scritti postumi, il passo del « civettare »

letto per intero e senza pregiudizi antihegeliani, dimostrava non già un superficiale contatto di Marx con Hegel, ma un le­game, almeno in quella dichiarazione, profondo. Marx in realtà ci vuoi far sapere anzitutto di aver voluto reagire con­tro i molesti, presuntuosi e mediocri epigoni che si compia­cevano di trattare Hegel come Mendelssohn trattava Spinoza, cioè come un cane morto. Hegel non era un cane morto, ma « un grande pensatore » ; e Marx se ne professava aper­tamente discepolo. Il passo è del 1873, ma ora sappiamo che già nel '68 (cioè subito dopo l'apparizione del Capitale), in una lettera ad Engels aveva espresso lo stesso concetto, e dun­que non era un concetto occasionale: « Al Museum [ . . . ] ho poi anche visto che Dlihring è un grande filosofo, giacché ha scritto una Dialettica naturale contro la dialettica "non na-

11 G. LUKAcS, Geschichte und Klassenbewusstsein. Studien uber marx_istische Dialektik, Berlin, Der Malik Verlag, 1923, Introduzione, passrm.

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turale" di Hegel . Hinc illae lacrimae. Quei signori in Ger­mania credono (ad eccezione dei reazionari teologici) che la dialettica di Hegel sia un cane morto. A questo riguardo Feuerbach ha molte colpe sulla coscienza » 12 • Nel passo del Poscritto, poi, continuava con una dichiarazione di principio, che è in sintesi il programma del materialismo dialettico, teorizzato, commentato e volgarizzato da Engels : « La mi­stifìcazione alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampiamente e consapevolmente le forme generali del movimento della dialettica stessa. In lui essa è capovolta. Bisogna rovesciar/a per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico » 13

Sulla convinzione che Marx si era venuto formando della bontà del metodo dialettico, proprio durante il lavoro per il Capitale, vi sono testimonianze nell'Epistolario, che non possono essere trascurate. Ne citiamo qualcuna. A Engels che leggendo le bozze di stampa gli scrive di non capire certi « nessi dialettici », Marx risponde (22 giugno 1867 ) : « Per quanto concerne lo sviluppo della forma di valore, ho se­guito e non seguito il tuo consiglio, per mantenere anche a questo riguardo una linea dialettica » 14, e si vanta di aver applicato, a proposito della trasformazione del maestro arti­giano in capitalista, la legge scoperta da Hegel della trasfor­mazione della quantità in qualità . Un mese dopo (27 luglio 1867) scrive: « Qui [ nel terzo libro ] si mostrerà di dove origina il modo di veder le cose dei borghesucci e degli eco­nomisti volgari, e cioè del fatto che nei loro cervelli sempre soltanto si riflette la immediata forma di manifestazione dei rapporti, non la loro intima correlazione. Del resto, se cosl fosse, che ragione ci sarebbe poi d'una scienza? Ora, se io volessi in precedenza toglier di mezzo simili dubbi, rovine-

12 Carteggio Marx-Engels, trad. ital., ed. Rinascita, V, p. 137. Il corsivo è mio.

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'3 Carteggio, cit., V, p. 28. Il corsivo è mio. 14 Carteggio, cit., V, p. 35-36. Il corsivo è mio.

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rei tutto il metodo dialettico di sviluppo » 1 5 • Il passo più importante, peraltro, si trova in una lettera a Engels del 7 novembre 1 86 7, in cui Marx dice di aver mandato una copia del Capitale ad una rivista cattolica inglese Chronicle, pre­sentandolo - per attrarre l'attenzione su di esso - come « il primo tentativo di applicare il metodo dialettico all'eco­nomia politica » 16• Torto o ragione ch'egli avesse, Marx dunque era convinto di aver compiuto un'opera di rottura e di rinnovamento nel campo dell'economia politica sosti­tuendo, nell'indagine dei concetti economici, il metodo natu­ralistico tradizionale col metodo dialettico appreso da Hegel; di conseguenza, se la sua era una scienza nuova, ciò era dovuto al fatto che egli non aveva dimenticato di essere stato discepolo di Hegel. Il passo testé citato riceve luce da un brano di alcuni anni prima ( l 0 febbraio 1 858 ) , in cui, annunciando ad Engels la pretesa di Lassalle di esporre la economia politica alla maniera di Hegel commenta: « Im­parerà a sue spese che ben altra cosa è arrivare a portare per mezzo della critica una scienza al punto da poterla esporre dialetticamente, ed altra applicare un sistema di logica astratto e bell'e pronto a presentimento per l 'appunto di un tale sistema » 17 • Quel che non poteva riuscire a Las­salle, cioè di esporre una scienza dialetticamente, avrebbe egli stesso tentato, e gli studi di economia politica che già in quegli anni andava compiendo dovevano essere il primo abbozzo dell'opera maggiore.

4 . Che gli scritti economici dell'età matura siano impre­gnati di spirito dialettico e alimentati da una continua sug­gestione hegeliana, non elimina l 'obiezione, sollevata di re­cente, che Marx sia giunto alla comprensione della dialettica tardi, e pertanto sia un pensatore dialettico, si, ma solo in

'5 Carteggio, cit., V, p. 45-46. Il corsivo è mio. 16 Carteggio, cit., V, p. 95. 17 Carteggio, cit ., III, p. 1 66. Il corsivo è mio.

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una parte, seppure quella storicamente più importante, della sua opera, il cui corso si potrebbe rappresentare come uno sviluppo dal materialismo storico al materialismo dialettico. Questa tesi è stata sostenuta da Henri Lefèbvre 18• Gli argo­menti che egli adduce sono due: l ) in genere nelle opere giovanili e in particolare nella Miseria della filosofia, Marx condanna in modo particolarmente severo il metodo hege­liano; 2 ) solo nel 1858 si troverebbe una menzione non ne­gativa della dialettica hegeliana in una lettera, in cui Marx racconta ad Engels di aver ritratto gran beneficio per il suo lavoro dalla rilettura della Logica di Hegel, mandatagli in dono insieme con altri volumi hegeliani da Freiligrath 19, e commenta: « Se tornerà mai il tempo per lavori del genere, avrei una gran voglia di render accessibile all'intelletto del­l 'uomo comune in poche pagine, quanto vi è di razionale nel metodo che Hegel ha scoperto ma nello stesso tempo mistificato » .

Né l 'uno né l 'altro argomento sono molto convincenti . Nella Miseria della filosofia, è vero, vi sono alcune pagine dedicate alla critica della dottrina hegeliana, e Proudhon è messo alla berlina per essersi lasciato attrarre dalle spire di Hegel, cioè in una pura dialettica delle idee che non riu­scirà mai a comprendere il movimento delle cose. Ma pagine siffatte possono sorprendere soltanto chi non abbia appreso dalle opere giovanili quanto complesso, complicato, ambi­guo sia stato l'atteggiamento di Marx nei confronti di He­gel, di rivolta e insieme di riverenza, di critica aspra, bef­farda e insieme di ammirazione per la grandezza. Ciò che Marx critica in Hegel, a leggere attentamente, anche nelle pagine tanto discusse della Miseria della filosofia, non è la dialettica come tale, ma pur sempre l 'uso speculativo della dialettica, a cui contrappone, sin da ora, la dialettica scien-

18 Il materialismo dialettico, trad. ital., Torino, Einaudi, 1947, p. 62 e ss.

19 Carteggio, cit., III, p. 155.

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tifica. Anzi, non c'è pagina forse, in tutta l 'opera di Marx, in cui vi sia una spiegazione più chiara e più genuina della dialettica ( almeno in uno dei suoi significati principali ) . Di fronte a Proudhon, che non ha capito nulla della dialettica perché dei due lati di ogni categoria economica, quello buono e quello cattivo, vuoi conservare il primo ed eliminare il secondo, Marx spiega: « Ciò che costituisce il movimento dialettico è la coesistenza dei due lati contraddittori, la loro lotta e la loro fusione in una nuova categoria. Basta in realtà porsi il problema di eliminare il lato cattivo, per liqui­dare di colpo il movimento dialettico . Al posto della cate­goria, che si pone e si oppone a se stessa per la sua natura contraddittoria, sta il signor Proudhon che si infervora, si dibatte, si dimena fra i due lati della categoria » 20 • Poco più oltre, a proposito della critica di Proudhon al feudalesimo, esce in una affermazione veramente decisiva che coglie e fissa il nucleo centrale del metodo dialettico: « È il lato cat­tivo a produrre il movimento che fa la storia, determinando la lotta » . Eliminate il lato cattivo del feudalesimo e che cosa avrete? « Sarebbero stati annullati tutti gli elementi che costituivano la lotta e si sarebbe soffocato in germe lo sviluppo della borghesia. Insomma, si sarebbe posto l'assurdo problema di eliminare la storia » 21 • Del resto, tornando molti anni dopo sul Proudhon in una lettera a Schweitzer ( 1 865), Marx ci dà per così dire l 'interpretazion� autentica della sua posizione nei confronti di Hegel, proprio al tempo in cui era entrato in polemica con Proudhon: « Durante la mia permanenza a Parigi nel 1 844 - egli scrive - entrai personalmente in relazione con Proudhon. Ricordo questa circostanza perché fino ad un certo punto io sono respon­sabile della sua sophistication, parola usata dagli inglesi per designare la contraffazione di una merce. In lunghe discus-

20 Miseria della filosofia, trad. ital., ed. Rinascita, 1950, pp. 91-92. Il corsivo è mio.

21 Op. cit., p. 99. Il corsivo è mio.

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sioni, che si protraevano spesso per tutta la notte, io l'infe­

stavo di hegelismo con suo grave pregiudizio, poiché, non conoscendo egli il tedesco, non poteva studiare la cosa a fondo » 22• E spiega che Proudhon riuscì, sì, a comprendere che alla antinomia kantiana, che' è insolubile, doveva sosti­tuire la contraddizione hegeliana, ma non sino al punto di penetrare il mistero della dialettica scientifica, onde aveva continuato ad elevare le categorie economiche, che sono espressioni teoriche di rapporti di produzione storici, a idee eterne. Da tutto ciò risulta che Marx sin d'allora condannava non la dialettica ma l'uso cattivo o speculativo della mede­sima, e il fraintendimento di essa compiuto da Proudhon con la sua storia del lato buono da conservare e del lato cattivo da respingere, e inoltre che aveva già un'idea assai chiara di ciò che costituisce il nerbo della dialettica, mwero la forza --dgllq UP'iJ!fiVità.

Quanto al secondo argomento, addotto dal Lefèbvre, la tarda rilettura fatta da Marx della Logica di Hegel e il be­neficio ritrattone per le sue ricerche, non prova che Marx abbia scoperto Hegel solo nel 1 858, ma se mai conferma il vivo interesse ch'egli aveva sempre avuto per la filosofia hegeliana sì da tornarci su in vari momenti della sua vita. Se non bastassero le testimonianze già citate, vorremmo ri­cordare l'ispirazione hegeliana del frammento metodologico, già ricordato, la Introduzione alla critica dell'economia poli­

tica, che è del 1 857, nel quale tuttavia, ancora una volta, pur esponendo canoni di ricerca che erano tratti dalla diu­turna meditazione di Hegel, non tralasciava di mettere in guardia il suo lettore contro l'illusione di Hegel, « di conce­pire il reale come il risultato del pensiero automoventesi », in ultima analisi contro l'idealismo per il quale la coscienza crea la realtà, e il mondo appare reale solo dopo che è stato pensato 23 , rivelando ancora una volta la complessità del

"2 Op. ci t . , p. 179. Il corsivo è mio. 23 In appendice a Per la critica dell'economia politica, cit., p. 188.

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suo atteggiamento verso Hegel, che era di attrazione per il

t metodo e di ripudio della metafisica, di accettazione della scoperta metodologica e di rifiuto del modo con cui la sco­perta era stata dal suo stesso autore applicata.

5. L'argomento decisivo, del resto, contro la tesi limita­tiva del Lefèbvre è costituito pur sempre dalle opere filoso­fiche giovanili, dalle quali ormai non si può più prescindere per una valutazione complessiva della personalità di Marx. In queste opere, come è noto, il problema centrale è proprio il rapporto con Hegel, la liberazione dichiarata da Hegel e i limiti, da scoprirsi criticamente, di questa liberazione.

Certamente, la prima di queste opere, la Critica della filosofia del diritto pubblico di Hegel ( 1843 ) , ha l'aspetto di un libello antihegeliano. I commenti ai passi della filosofia del diritto sono intessuti di critiche dure, aspre, senza troppi riguardi per il maestro: la teoria dello stato di Hegel è una « mistificazione »; Hegel è chiamato « sofi­sta » ; si parla, quasi ad ogni pagina, di « confusione », di « acrisia », di « sciocchezza », di « trivialità » . Si vede sin da questa prima prova che Marx non è abituato a far troppi complimenti con gli avversari : « Qui l 'inconseguenza spen­sierata di Hegel e il suo senso dell'autorità diventano real­mente nauseanti » . Poco più oltre: « Hegel rasenta qui la servilità. Lo si vede contagiato nelle midolla dalla misere­vale mutria del mondo burocratico prussiano » 24 • Questo atteggiamento critico nasce, oltre che da divergenze di na­tura politica, dal dispetto di dover assistere continuamente allo scambio delle astrazioni con la realtà. Marx attacca decisamente, sin da questo primo scritto, il metodo specu­lativo di Hegel, che consiste nel foggiare la realtà a immagine e somiglianza di quello che egli, Hegel, è andato costruendo nel proprio cervello : « La logica non serve a provare lo stato,

21 Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in Opere filosofiche giovanili, trad. ital., ed. Rinascita, 1 950, p . 166.

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ma lo stato serve a provare la logica ».25 In questo modo Marx descrive il processo di mistificazione della realtà, che consiste nel capovolgere una proposizione empirica in una proposi­zione metafisica. Il volgo dice : « Il monarca ha il potere sovrano ». Hegel capovolge : « La sovranità dello stato è il monarca ». E Marx commenta: « La prima frase è empirica, la seconda stravolge il fatto empirico in un assioma metafi­sico ».26

Ma a ben guardare, questa critica, che è un aspetto perma­nente e costante della critica scientifica a ogni metafisica che pretenda di sostituire la deduzione da principi al controllo dell'esperienza, colpisce la metafisica di Hegel, il suo metodo speculativo, ma non riguarda la dialettica. Anzi, in uno dei pochi passi dell'opera in discorso in cui egli si volge ad Hegel con elogio, è proprio la dialettica che, apparentemente igno­rata, balza in primo piano. A proposito del rapporto tra potere legislativo e costituzionale, Marx scrive: « E tuttavia ricono­sciamo in lui della profondità, in questo suo cominciare con l'opposizione delle determinazioni [ . . . ] e porvi l'accento ». �7

Il cominciare dall'opposizione è l'essenza della dialettica. Dun­que Marx riconosce, pur nel bel mezzo del suo sfogo polemico, che c'è qualche cosa di profondo in Hegel, e questo qualche cosa è appunto il metodo dialettico.

Al problema della dialettica di Hegel è dedicato espres­samente un frammento dei Manoscritti del '44 . È un fram­mento oscuro, quasi esoterico, destinato a esser tormentato dagli interpreti. La difficoltà deriva dal fatto che l 'accusa mossa ad Hegel è una sola - ed è sempre la stessa accusa di spirito speculativo -, ma è condotta su diversi piani che si accavallano e si confondono. Se ne possono distinguere tre principali : l ) Hegel ha trasferito il movimento della storia reale nella coscienza, onde la Fenomenologia descrive

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25 Op. cit., p. 29. 26 Op. cit., p. 39. 27 Op. cit ., p. 77.

un movimento storico che non è quello dell'uomo reale, na della coscienza con se stessa; 2 ) questo errore di prospet­tiva deriva dalla falsa concezione dell'uomo come autoco­scienza ( e non come attività sensibile ) , come essere spiri­tuale ( e non naturale ) , infine come uomo teorico ( e non pratico ) , onde viene eliminata ogni possibilità di raggiungere l'oggettività : la filosofia di Hegel è una filosofia del soggetto ( e non dell'oggetto ) , cioè è idealismo; 3 ) la forma più alta della coscienza per Hegel è il sapere, onde nasce la defor­mazione più grave, consistente nella risoluzione dei problemi reali che richiedono soluzione reali in problemi teoretici, la cui soluzione è puramente teoretica: ciò che Hegel riesce a sopprimere e superare non è l 'esistenza reale, ma l 'oggetto del sapere, cioè la dogmatica e non la religione, la teoria dello stato e non lo stato, e via dicendo. Ma ancora una volta il bersaglio di Marx è la speculazione di Hegel, non la dia­lettica. O più esattamente, quando scrive questo saggio, Marx è sotto l 'influsso di Feuerbach: e là dove afferma che Feuer­bach è l'unico degli hegeliani che si sia posto in modo serio il problema della critica di Hegel, e fra gli altri meriti gli riconosce pure quello di aver opposto alla negazione della negazione la positività che riposa solo su se stessa, sembra che ripudi anche la dialettica di Hegel. In realtà egli ne rifiuta il risultato, non il movimento.

A parte il fatto che Marx non doveva ancora essere giunto alla piena chiarezza di se stesso ( e l 'oscurità del testo, d'al­tronde, ne è un indizio ) , c'è anche in questo saggio un passo in cui vengono colti esattamente il significato e la portata della dialettica : « L'importante nella Fenomenologia di Hegel e nel suo risultato finale - la dialettica della negatività come principio motore e generatore - sta dunque nel fatto che Hegel concepisce l'autogenerazione dell'uomo come un pro­cesso, l 'oggettivazione come una contrapposizione, come alie­nazione e soppressione di questa alienazione ».28 Anche qui,

28 Manoscritti, cit., p. 172. Il corsivo è mio.

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si noti, come nello scritto precedente, là dove è questione dei meriti di Hegel ( esaurita la critica degli errori ) , riemerge, come nucleo irrecusabile di quel pensiero, il movimento dia­lettico. Questo passo mostra, a mio avviso, tre cose: l ) che Marx accetta da Hegel l 'idea che la molla della storia è la negatività ; 2 ) che la storia, ovvero l'autogenerazione dell'uo­mo dal fondo di un mondo naturale senza storia, è un pro­cesso; 3 ) che questo processo ha un ritmo, e questo ritmo, scoperto da Hegel, è il passaggio dall'alienazione alla sop­pressione dell'alienazione, cioè è il ritmo dialettico. Del resto, la parte più viva e forte di questi scritti economico­filosofici è un tentativo di descrivere questo processo, non più da un punto di vista speculativo o mistificato, ma reale, di presentare drammaticamente la storia dell'umanità come la storia dell'alienazione umana attraverso l'alienazione del lavoro operata dalla società borghese e della soppressione di questa alienazione per opera del comunismo. Quale che sia l 'idea che Marx si è fatta della dialettica, è certo che la conce­zione che egli ha della storia è una concezione dialettica, e i suoi primi scritti filosofici sono un tentativo di dialettica in atto.29

6. Dalle rapide annotazioni fatte fin qui appare che il problema della dialettica fu per Marx un problema sempre vivo, e se oggi è completamente abbandonata la considera­zione di un Marx pensatore non dialettico, ha poche propa­bilità di essere accolta anche la tesi che egli sia giunto alla piena comprensione della dialettica solo negli anni della matu­rità. Il problema critico, nuovo, o per lo meno non discusso come meriterebbe, è un altro: è il problema se si dia un signi-

29 Recentemente M. Rossi ha creduto di poter individuare nella c�tegoria. dell'alienazione il contributo che Marx accoglie da Hegel. St veda t1 saggio Lo storicismo mistificato della fenomenologia hege­liana, in « Società », XIII, 1957, pp. 639-685; 841-894. Dello stesso autore Rovesciamento e nucleo umano nella dialettica hegeliana se­condo Marx, in « Opinione », n. 4-6, ott. 1956-marzo 1957, pp. 17-42.

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ficato univoco di dialettica, e se quando si parla di dialettica in Marx, si intenda parlare, in diversi periodi della sua atti­vità e in diverse opere, sempre della stessa cosa. Nasce il sospetto, tra l'altro, che alcune delle discussioni sulla mag­giore o minore dialetticità del pensiero marxiano nei diversi periodi siano unicamente il frutto di diversi modi di intendere la dialettica, e quindi di mettere l'accento su questo o quel significato considerato come esclusivo. Non contribui certo a dissipare i dubbi lo Engels quando credette di poter riassu­mere il significato del metodo dialettico in tre leggi, che costituivano una estrapolazione di tre momenti o caratteri della logica hegeliana, e che sembra non abbiano altra ragione comune che quella di costituire insieme le leggi dello sviluppo della natura e della società: la legge della conversione della quantità in qualità e viceversa; la legge della compenetrazione degli opposti ( azione reciproca ) ; la legge della negazione della negazione. 30

Il punto comune di riferimento del termine « dialettica »

nelle sue diverse accezioni è pur sempre dato da una situa­zione di opposizione, di contraddizione, di antitesi, di anti­nomia, di contrasto, che deve essere risolta. Per quel che riguarda la prima delle tre leggi, essa non si riferisce ad un'op­posizione da mediare o risolvere, non indica il metodo per la risoluzione di un' opposizione, e pertanto il farla rientrare in una teoria generale della dialettica è semplicemente fuor­viante. Quanto alle altre due, si riferiscono, sl, a una situa­zione di opposizione, ma concepiscono l'opposizione e il modo di risolverla in maniera diversa, tanto che l'applicazione del­l'una o dell'altra allo stesso problema conduce a soluzioni diverse. Oggi diremo che esse formulano due tecniche di ricerca diverse, e che in una logica della ricerca, qual'è quella che intende elaborare Engels nella Dialettica della natura, dovrebbero esser meglio distinte per non ingenerare confu­sioni. Di fronte a due enti in contrasto, il metodo della com-

30 Dialettica della natura, trad. ital., ed. Rinascita, 1959, p. 32.

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penetrazione degli opposti, o meglio dell'azione reciproca, conduce a mantenere entrambi i termini del contrasto e a considerarli come condizionantisi a vicenda; al contrario, il metodo della negazione della negazione conduce a conside­rare il primo eliminato in un primo tempo dal secondo, e il secondo eliminato in un secondo momento da un terzo ter­mine. Il primo metodo viene applicato a eventi simultanei, il secondo, a eventi che si dispiegano nel tempo: perciò quest'ul­timo è un metodo per la comprensione della storia ( vuoi della storia della natura, vuoi della storia dell'uomo ) . La diversità dei due metodi risulta ancor più chiaramente se consideriamo la loro intenzionalità polemica: il metodo della compenetra­zione degli opposti si contrappone ad una concezione mecca­nidstica della natura nella quale tutto l'universo è spiegato attraverso una serie a catena di cause ed effetti in una sola direzione ( cominciando dalla causa prima ) ; il metodo della negazione della negazione, invece, si contrappone ad una conce­zione razionalistica ed astratta della storia, secondo cui o il male non esiste o esiste soltanto come male da eliminare una volta per sempre. Per fissare il contrasto, nulla val meglio che un esempio, tratto dal campo stesso di esperienza carat­teristico della filosofia hegeliano-marxistica: società naturale e stato rappresentano nella storia delle idee ( si pensi al gius­naturalismo) una tipica situazione di contrasto. Applicando alla soluzione di questo contrasto il metodo dell'azione reciproca, si afferma non già che la società naturale condi­ziona lo stato, e neppure che lo stato condiziona la società naturale, ma che società naturale e stato si condizionano a vicenda; applicandovi invece il metodo della negazione della negazione, si costruisce una bella linea del processo storico in cui ad un certo punto lo stato nega la società naturale, per essere alla fine da questa nuovamente superato e risolto ( l'estinzione dello stato ) .

Ho già avuto occasione di dire altrove che il primo signi­ficato di dialettica viene in questione quando l'aggettivo « dia­lettico » è unito a « rapporto », « relazione », « nesso » ; il

256

secondo quando è unito a « svolgimento », « movimento », « processo » :n . Altro dunque è parlare di nesso dialettico di società e stato, altro di movimento dialettico tra società e stato. Un esempio caratteristico di problema posto nella dottrina marxistica in termini di nesso dialettico è quello del rapporto tra struttura e soprastruttura; un problema tipico posto in termini di movimento dialettico è quello del passaggio tra la proprietà collettiva originaria alla pro­prietà individuale e al comunismo finale. La soprastruttura non è la negazione della struttura, mentre la proprietà indi­viduale è la negazione della proprietà comune originaria . Viceversa, la soprastruttura è un termine che ritorna sul suo opposto; la proprietà individuale non ritorna sul suo opposto, ma è da questo, a sua volta, negata ( la negazione della negazione ) . Infine, la dialettica della reciprocità è una relazione fra due termini che non generano un terzo termine; la dialettica del movimento è una relazione triadica, cioè è una relazione tra due termini che ne generano un terzo dai primi due. Se si vuoi rendere con un'immagine la differenza, il primo moto può essere raffigurato in un pen­dolo, il secondo in una spirale .

7 . Mi son soffermato su questa ambiguità del concetto di dialettica, qual'è stato tramandato in seno al marxismo teorico da Engels, perché il problema della dialettica in Marx non è tanto se Marx sia stato un pensatore dialettico, ma in qual senso lo sia stato, se in uno o più sensi. Ora io credo che nelle opere di Marx siano presenti, anzi abbiano una parte importante, entrambi i modi di intendere la dia­lettica sopra illustrati, e ciò forse non è ultima ragione delle difficoltà di interpretazione.

La dialettica di cui Marx si appassionò e intorno a cui si travagliò negli anni della maturità, via via che s'inoltrava

:n Nota sulla dialettica in Gramsci, in « Società », XIV, 1 958, pp. 24-25.

2 5 7

1 7 . N . BoBBIO - D a Hobb.:s a Marx.

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nelle ricerche di economia politica, sino a parlare di una nuova scienza economica elaborata con metodo dialettico, non è la stessa che egli scopri negli anni giovanili, quando designò le grandi linee di una fìlosofia della storia non più dal punto di vista dell'uomo teoretico ma dell'uomo pratico ( una specie di fenomenologia con la testa in su, o se si vuole, non una fenomenologia dello Spirito, ma dell'uomo storico) . La prima è un metodo di ricerca scientifico (o che egli ritiene tale), un canone o una serie di canoni per una più adeguata comprensione delle categorie dell'econo­mia, che sono categorie storiche e non naturalistiche o me­tafisiche; la seconda è un metodo d'interpretazione della storia nella totalità del suo processo. Marx fu, tra l'altro, un filosofo della storia e uno studioso di economia politica. Per quanto i vari aspetti della sua personalità non siano disgiun­gibili, ed egli in ognuna delle concezioni o teorie o ricerche che elaborò, sia partito sempre da una visione drammatica della vita, cioè dall'opposizione, dall'antagonismo, dalla lotta, dalla contraddizione ( di qui l'importanza che egli diede alla dialettica hegeliana ) , pure le opposizioni di fronte a cui si trovò come fìlosofo della storia, ossia le opposizioni tra i grandi movimenti storici, non erano dello stesso tipo di quelle tra concetti della scienza economica tradizionale, di fronte a cui si trovò come economista.

Come fìlosofo della storia, fu colpito, nel pensiero di Hegel, dalla « dialettica della negatività come principio mo­tore e generatore », ciò che nella Miseria della filosofia espresse dicendo che « è il lato cattivo a produrre il movi­mento che fa la storia, determinando la lotta ». Questo principio della forza del negativo è il nucleo originario di una concezione dialettica della storia: il negativo non vien considerato come un'aberrazione né come un male, ma come un momento necessario dello sviluppo storico. Ogni movi­mento storico deve giungere alla sua degenerazione perché si sviluppino le forze destinate ad eliminarlo e a crearne uno nuovo. Al principio della forza della negatività son

258

connesse due diverse formulazioni della necessità delle op­posizioni : l ) ogni momento storico genera nel suo seno delle contraddizioni, le quali sono la molla dello svolgimento storico: a un certo punto, quasi fatalmente, una situazione storica entra in contraddizione con un'altra situazione sto­rica, e il divenire è il risultato dell'aprirsi della contraddi­zione; 2 ) le contraddizioni storiche danno origine ad anta­gonismi, cioè alla lotta tra i rappresentanti della classe dal cui seno queste contraddizioni si sprigionano e coloro che di queste contraddizioni sono le vittime e insieme i prede­stinati superatori, e a questa lotta è affidata la creazione della nuova società. Sin qui la concezione marxistica della storia si contrappone a ogni forma di utopismo o di intellettualismo astratto che vorrebbe eliminare il male della storia ( e con ciò le contraddizioni e la lotta ) e sostiturgli una volta per sem­pre ciò che reputa bene, ma ciò facendo si pone « l'assurdo problema di eliminare la storia ».

La dialettica come concezione globale della storia non si arrestava al principio della forza del negativo, cioè al momento della negazione, ma proprio in quanto concezione della storia come perpetuo divenire, procedeva al momento ulteriore della negazione della negazione. Ora la dialettica di Marx, filosofo della storia, è orientata, come quella hege­liana, verso una teoria della storia come continuo divenire, il cui carattere è di svolgersi per successive negazioni. Se la negazione, come abbiamo detto, è la molla del progresso, la negazione della negazione, in quanto risoluzione della con­traddizione, costituisce il progresso medesimo. Qui diventa chiara la contrapposizione alla tradizionale concezione sto­rica del giusnaturalismo, per il quale il corso storico si muove tra una negazione iniziale (lo stato di natura) e un'affermazione successiva e definitiva ( la società civile ) , cioè attraverso lo sviluppo diadico che in quanto tale ferma e fissa il corso storico; e parimenti alle varie concezioni evo­luzionistiche che, a differenza del giusnaturalismo, non fis­sano il corso storico, ma, pur concependolo come uno svi-

259

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luppo, lo concepiscono come uno sviluppo a gradi e non a salti, di successive affermazioni, non di successive nega­zioni. Che poi il movimento dialettico avesse per molla le forze spirituali o le condizioni materiali, la religione o i bi­sogni economici, le ideologie o le forme di produzione, que­sto è un discorso che non tocca propriamente la dialettica, ma riguarda, se mai, l'altro aspetto della filosofia di Marx, il materialismo storico, che qui non viene in considerazione. Altro problema estraneo all'interpretazione della dialettica è quello, che pur fece versare fiumi d'inchiostro, relativo alla maggiore o minore fatalità del corso storico e all'efficacia dell'intervento attivo degli uomini, o delle masse e delle loro avanguardie . Anche questo problema non riguarda la formulazione della legge, ma il modo della sua realizzazione.

8. Ciò che invece tocca la teoria stessa della dialettica come struttura formale della realtà, è il metodo della ri­cerca scientifica che Marx discusse ed applicò quando si pose innanzi il compito di elaborare una teoria economica diversa da quella degli economisti borghesi, e in gene­rale quando passò dalla considerazione storica del corso del­l 'umanità al tentativo di costruire una scienza dell'uomo in società. Come filosofo della storia, egli si era trovato di fronte a categorie storiche, denotanti tipi di civiltà o di so­cietà, come feudalesimo, borghesia, classi, lotta di classe; come scienziato della società, le categorie a cui si trovò dinanzi denotavano tipi di azione o di comportamento, come produzione, distribuzione, consumo, capitale, profitto, la­voro intellettuale e lavoro manuale, che si potevano studiare, seppure in diverse forme e in diverse relazioni tra loro, in ogni tipo di società. Il meglio, che egli aveva ereditato da Hegel, era il rifiuto di ogni considerazione intellettualistica che astrae dal reale i concetti e poi li separa e non riesce più a costruire l'unità, e la tendenza, di fronte alla moltepli­cità e complessità del reale, a ricercare una unità con­creta. Lo strumento di questa comprensione unitaria era la

260 '

dialettica come rilevazione delle opposizioni e loro risolu­zione. Solo che la unità concreta nello studio dello svolgi­mento storico gli era apparsa come il risultato della sintesi degli opposti (negazione della negazione), donde la catego­ria del corso storico dell'umanità è il divenire; nello studio scientifico della realtà, l'unità concreta gli apparve come il risultato di una interrelazione degli enti che l'intelletto astratto ha erroneamente isolati gli uni dagli altri ( azione reciproca ) , donde la categoria unitaria della totalità organica. Come il divenire è composto di diversi momenti in oppo­sizione, così la totalità organica è composta di diversi enti in opposizione. La dialettica, come metodo di risoluzione delle opposizioni, si presenta là come sintesi degli opposti, qua come azione reciproca. Il divenire, in altre parole, è il risultato di successive negazioni, o se si vuole di un continuo superamento ( il terzo termine ) ; la totalità organica è il risultato di un intrecciarsi delle reciproche relazioni degli enti, o, se si vuole, di una integrazione ( che non risolve i due termini in un terzo ) .

Sin dalla Ideologia tedesca Marx ebbe a porsi i termini della dialettica della totalità organica, che si fonda sul prin­cipio dell'azione reciproca. Spiegando i punti fondamentali della concezione materialistica della storia, concludeva che essa permetteva di « rappresentare la cosa [ il processo reale della produzione] nella sua totalità e quindi anche la reci­proca influenza di questi lati diversi [ la società civile, lo stato, le forme della coscienza ] l'uno sull'altro » 32 • Ma l 'esposizione più completa del principio dell'azione reciproca è quello che accompagna la riflessione sui problemi economici, e si trova infatti nella già ricordata Introduzione alla critica dell'economia politica. Si tratta qui per Marx di prendere posizione contro la scienza economica borghese, che, da un lato, idealizza categorie storiche trasformandole in categorie assolute, e dall'altro, procedendo alla formulazione di con-

32 Ideologia tedesca, trad. ital., ed. Rinascita, 1958, p. 34.

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cetti astratti, che è procedimento legittimo, li immobilizza nella loro astrattezza, gioca con essi come se fossero enti senza relazione oppure a relazione univoca, e non riesce più a- tornare al concreto. « Il risultato al quale perveniamo - spiega Marx - non è che produzione, distribuzione, scambio, consumo siano identici, ma che essi rappresentano tutti dei membri di una totalità, differenze nell'ambito di una unità ». Che cosa significa essere « membri di una tota­lità »? Significa che ciascuno di essi determina tutti gli altri, ed è a sua volta determinato da tutti gli altri. Certamente la produzione è il momento iniziale; ma sarebbe un errore con­siderare tutti gli altri momenti dipendenti da esso. « Una produzione determinata determina quindi un consumo, una distribuzione, uno scambio determinati, nonché i determinati rapporti tra questi diversi momenti. Indubbiamente, anche la produzione, nella sua forma unilaterale, è da parte sua determinata dagli altri momenti ». La conclusione è espressa con queste parole : « Tra i diversi momenti si esercita una azione reciproca. E questo avviene in ogni insieme organi­co » 33• Per quanto in questo contesto non usi la parola « dialettica », Marx parla poco più oltre di « dialettica dei concetti di forza produttiva (mezzi di produzione ) e di rap­porti di produzione » 34, e non c'è dubbio che qui « dialet­tica » significhi « azione reciproca ». Quando egli dirà di voler applicare il metodo dialettico all'economia, è all'intro­duzione del '57 che bisogna guardare come alla principale chiave di spiegazione: i concetti della scienza economica sono concetti della realtà storica ed essi stessi storicamente deter­minati, e formano non un sistema meccanico, ma un tutto articolato e organico, una totalità concreta. Lo stesso En­gels, recensendo l'opera di Marx, dopo aver affermato che l'uso del metodo dialettico era UR aspetto del pensiero di

·33 In appendice a Per la critica dell'economia politica, cit . , pp. 186-1 87. Il corsivo è mio.

" ' Op. cit., p. 196.

262

Marx quasi altrettanto importante del materialismo, spiega il metodo marxiano, cioè il metodo dialettico, in questo modo: « Seguendo questo metodo prendiamo come punto di partenza il primo e più semplice rapporto che ci si pre­senta storicamente, di fatto, cioè, in questo caso, il primo rapporto economico che troviamo davanti a noi . Questo rapporto lo scomponiamo. Per il fatto che è un rapporto, ne deriva già che esso ha due lati che sono in relazione l'uno con l'altro. Ognuno di questi lati viene esaminato a sé; da questo esame risulta il modo del loro reciproco rapporto, la loro azione e reazione reciproca » 35 •

9 . Mi son posto all'inizio due domande: l ) se Marx sia un pensatore dialettico; 2 ) in qual senso lo sia. Alla prima domanda ho risposto affermativamente senza limitazioni. Alla seconda ho risposto esaminando due significati diversi di « dialettica » e mostrando il loro diverso uso in diversi do­mìni di ricerca. Qui mi preme aggiungere che l'aver distinto due accezioni principali, non vuoi dire che siano soltanto due. Mi son limitato a riscontrare, per così dire, le due

'prin­

cipali accezioni già accolte e teorizzate da Engels. Due ulteriori problemi, se mai, potrebbero essere i se­

guenti . La risposta alla prima domanda rinvia al problema se l'importanza di Marx nella storia del pensiero stia nel­l'essere stato un pensatore dialettico. Risponderei che, a mio avviso, ciò che conta del marxismo nella storia del pen­siero è piuttosto la teoria materialistica della storia, nella sua accezione generale di teoria sul rapporto tra struttura economica e sovrastruttura, e nella sua accezione più speci­fica di teoria realistica della storia, secondo cui per compren­dere la storia umana bisogna partire dai rapporti reali e non dalle idee che di questi rapporti si san fatti gli uomini. La risposta alla seconda domanda rinvia al problema quale dei

35 In appendice a Per la critica dell'economia politica, cit. , p. 206. Il corsivo è anche mio.

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due significati di « dialettica » sia storicamente più rilevante, vale a dire quale dei due possa caratterizzare meglio un indirizzo di pensiero. Non esito a rispondere che il signi­ficato storicamente più rilevante è quello che abbiamo esa­minato per primo, cioè il metodo della negazione della negazione. Il principio dell'azione reciproca è comune a vari tipi di ricerche scientifiche e non è in grado da solo di carat­terizzare una metodologia e tanto meno una concezione ge­nerale della realtà. Oltre tutto, la forma storicamente più genuina della dialettica, voglio dire quella che è stata tra­mandata come « dialettica hegeliana », è pur sempre la prima e non la seconda : la sintesi degli opposti e non la compe­netrazione degli opposti. La negazione della negazione è per Hegel la categoria generale di comprensione di tutto il movimento storico, mentre la teoria dell'azione reciproca non è che un capitolo della logica. L'assolutizzazione, com­piuta da Engels, di un capitolo della logica ( qui « logica » intesa nel senso di teoria dell'indagine), getta un'ombra oscura sul materialismo dialettico, che può essere dissipata solo distinguendo il lato forte dal lato debole della dialet­tica.

264

N O T A

Legge naturale e legge civile nella filosofia politica di Hobbes è stato inserito nella miscellanea intitolata Studi in memoria di Gioele Solari, « Pubblicazioni dell'Istituto di Scienze politiche dell'Università di Torino » (Torino, 1954, pp. 61-101 ) .

Hobbes e il giusnaturalismo è apparso in « Rivista critica di storia della filosofia », XVII, 1962, pp. 471-486.

Studi lockiani è stato pubblicato in « Rivista storica italiana », LXXVII, 1965, pp. 96-130.

Leibniz e Pufendorf è stato pubblicato in « Rivista di filosofia », XXXVIII, 1947, pp. 1 1 8-129.

Kant e le due libertà, originariamente col titolo Due concetti di libertà nel pensiero politico di Kant, è comparso negli Studi in onore di Emilio Crosa (Milano, 1960), vol. I , pp. 221-235.

Studi hegeliani è stato pubblicato in « Belfagor », V, 1950, pp. 67-80; 201-222.

La dialettica in Marx, è apparso in « Rivista di filosofia », XLIX, 1958, pp. 334-354.

265

Page 134: Bobbio Da Hobbes a Marx Clearscan

IN DICE DEI NOM I

Aaron R . L , 76, 77. Ambrosetti G., 51 . Antoni C., 167. Aristotele, 54. Austin J., 1 1 , 57. Ayrmann Fr., 133.

Barbeyrac J., 51, 130, 131 , 132, 133, 134, 139, 140, 141 .

Battaglia F., 80. Bauer B., 233. Beccaria C., 40. Bentham J., 57. Beonio Brocchieri V., 1 16. Berkeley G., 81 . Berlin 1 . , 147. Bianca G., 23. Bierling F. W., 137. Bismarck (von) 0., 204. Bohme J., 189. Boehmer J. Cb., 129, 130, 132. Boehmer J. H., 129. Boineburg (von) J. Chr., 136. Bonno G., 76, 77. Bono G. B., 139. Bossuet }.-B., 130. Bourne H. R. F., 77 , 79.

Bourguet L., 1 39. Bowers F., 83. Boyle R., 120. Branchu B., 133. Burnet Th., 138.

Calogero G., 168. Calvez J. Y., 240. Carlini A., 78, 80, 1 17, 1 18 . Carlo Ludovico (elettore palati-

no), 140. Carmichael G., 133. Cartesio R., 1 18, 120, 123. Cattaneo C., 78. Cattaneo M., 57, 58, 60, 64,

68, 7 1 . Cherubini G., 239. Ciardo M., 167, 230. Cicerone M. T., 96. Codignola E., 168. Conring H., 136. Constant B., 151, 156, 160, 161 . Cordié G . , 151 . Coste P. , 77 , 1 16. Couturat L., 137. Cox R. H., 78, 81 , 100-107,

108.

267

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Cranston M., 77. Cresson A., 167. Crippa R., 78. Croce B., 5, 170, 208, 229,

230, 238. Crousaz (de) J.-P., 1 34, 139.

De Gandillac M., 166. Del la Volpe G., 168, 240. De Marchi E., 75, 76, 79, 80,

1 17. De Negri E., 166, 168, 187,

236. De Ruggiero G., 165, 169-173. Dewhurst K., 75. Dilthey W., 186, 193, 194. Du Bos (abbé), 76. Diihring K. E., 242, 245. Du Lignon, 139. Dulkeit G., 167.

Engels Fr., 240, 241 , 243, 245, 246, 247, 248, 255, 257, 262, 264.

Erasmo, 1 18.

Passò G., 55. Fatta C., 168. Ferrari F. A., 1 16. Ferrari G., 78. Feuerbach L., 167, 185, 189,

207, 233, 241 , 243, 253. Fichte J. G., 193, 194, 202,

203, 230. Figgis ]. N., 24. Filmer R., 21 , 81 , 83, 84, 85,

86, 87, 89, 90, 91, 92, 101 , 1 17, 121 .

Firpo L. , 6, 1 1 , 1 17. Flechtheim O. K., 166. Forest A., 166. Formigari L., 80.

268

Fornaca R., 1 18. Freiligrath F., 248.

Galluppi P., 78. Gentile G., 78, 208. Gera-Varisco J. Ch. L., 131 . . Gerritsen J., 83. Giacomo I, 85. Giacomo II, 85. Gibb J., 77. Gibelin, 168. Gioberti V., 78. Glockner G., 168, 191 . Goethe W., 200. Gough J. W., 84. Gramsci A., 5, 6, 257 . Grandi M., 133. Grégoire F. , 166, 167, 235, 236. Grotius H., 11, 12, 51 , 52,

53, 54, 55, 56, 88, 129, 132, 144.

Haering Th., 168, 186. Harrington J., 108. Hartmann N., 168, 186. Hegel G. W. F., 6, 8 , 78, 125,

126, 165-238, 239, 240, 241 , 242, 243, 244, 245, 246, 247, 248, 250, 251 , 252, 253, 254, 258, 259, 264.

Heidegger M., 5, 218, 2 19, 221 , 226, 227.

Heiss R., 166. Hobbes Th., 7, 8, 9, 1 1-49,

51 -74, 78, 8 1 , 82, 83, 86, 87, 89, 90, 91, 92, 97, 98, 100, 101, 103, 105, 106, 108, 1 12, 1 14, 1 15, 1 16, 125, 127, 140, 143.

Hoffmeister ]., 167, 168. Holderlin Fr., 173. Hooker R., 85, 96. Hume D., 81 .

l;

Hyppolite J., 165, 166, 167, 168, 186-192, 235, 239.

Jacobi F. H. , 20 1 , 203. Jankélévitch W., 168. Jaspers K., 227. Jljin J., 165, 178-186, 235, 236.

Kaan A., 168. Kant I., 6, 78, 79, 1 18 , 147-

163, 193, 194, 202, 230. Kelsen H., 5, 30, 4 1 , 45. Kestner H., 142. Kierkegaard S. , 227, 232, 233. King (Lord) P., 77. Klibansky R., 80. Klossowski P., 167. Kojève A., 165, 166, 167, 178,

180, 187' 188, 2 16, 218-227' 231, 235, 236, 239.

Kortholt S., 130, 1 3 1 , 1 32 . Knox T. M., 169. Kroner R., 186.

Laslett P. , 77, 8 1 , 83-92, 99 , 123.

Laviosa A., 78. Lamanna E. P., 5. Lasson G., 167. Le Clerc ]., 77. Lefèbvre H., 248, 250, 251 . Leibniz G . W., 129-145. Lenin N., 1 97, 240. Leyden (von) W., 76, 79, 86. Locke J., 5, 7, 8, 74, 75- 128,

148. Lough ]., 76. Lowith K., 207, 232, 233. Lukacs G., 165, 178, 192, 193-

218, 220, 231 , 235, 236, 239, 240, 245.

Luporini C., 166.

Mably (de) G. B., 151 . Macpherson C. B . , 80, 81 , 108-

1 16. Marcoux C., 167. Marx K., 6, 7, 8 , 9, 167, 179,

192, 204, 205, 206, 207, 210, 2 1 1 ' 2 12, 213, 214, 215, 216, 217 ' 218 , 219 , 226, 227' 239-264.

Masson S., 133. Massolo A., 166. �,1cndelssohn M., 245. Merkcr N., 239. Merleau-Ponty M., 166. Meylan P., 1 32 , 1 34, 1 39 . Molanus G. , 1 30, 133. Mollat G., 142. Mondolfo R., 78, 109. Montesquieu (de) Ch.-1., 1 50 . Mougin H., 166.

Napoleone, 225 , 226. Newton I. , 1 1 8, 120. Niel H., 165, 166, 1 73-178, 209,

235, 236. No hl H., 167, 1 93 .

Oakeshott M., 1 1 , 62, 90.

Pala A., 1 17. Pagenstecherus A., 1 3 1 . Pareto V., 5 . Pareyson L . , 8 3 , 1 16, 148. Passerin d'Entrèves A., 56. Pellizzi C., 1 17. Petty W., 1 17 . Pietranera G . , 1 17 . Piovani P., 5 , 58. Placcius V. P., 138. Polin R. , 16 , 23, 78, 81 , 92-100,

1 12 . Prasch ]. L., 143 .

269

Page 136: Bobbio Da Hobbes a Marx Clearscan

Proudhon P.-}., 248, 249, 250. Pufendorf (von) S., 1 1 , 12, 51 ,

86; 102, 1 27, 129-145.

Queneau R., 165.

Ranke (von) L., 204. Ravier E., 130, 13 1 . Ricci Garotti L . , 78. Rommen H., 52. Rosea D. D., 168. Rosenkranz K., 192. Rosmini A., 78. Rossi M., 254. Rousseau J. J., 7, 8, 40, 150,

151, 153, 154, 160, 240. Ruge A., 233.

Sainati V., 1 17. Saitta G., 78. Sanna G., 168. Sartre J.-P., 5, 225, 226, 227. Schelling F. W. J., 193, 194,

202, 203, 230. Scherzer J. A., 144. Schiller J. Chr. Fr. , 200. Schweitzer (von) J. B., 249. Serini P., 165 . Shaftesbury (First Earl), 83, 85,

1 18, 1 19. Smith A . . 202.

270

Solari G., 6, 60, 78, 1 1 1 , 158. Spaventa B., 208. Spener Ph., 136. Spinoza B., 1 1 , 245. Steuart }., 202. Stirling J. H., 203. Stirner M., 233. Strauss L., 56.

Tarantino G., 20. Thomasius Chr., 12, 51, 136,

142, 143. Thomasius ]., 135. Tommaso (San), 54, 59, 66. Tonnies F., 1 1 . Turrettini J.-A., 139. Tyrrell J. , 86.

Vattel (de) E., 134. Veltheim V., 144. Viano C. A., 77, 78, 79, 80,

81 ' 82, 92, 1 16-128.

Wahl J., 168, 186. Walsh W. H., 166. W arrender H., 58, 60, 61 , 62. Weigel E., 135, 140. Weiss P., 166. Willemin J., 166. Wolf Ch. , 129, 134.

) .

I.

Prefazione

Legge naturale e legge civile nella filosofia politica

di Hobbes . . . . .

II. Hobbes e il giusnaturalismo .

III. Studi lockiani

IV. Leibniz e Pufendorf

v. Kant e le due libertà .

VI. Studi hegeliani .

VII. La dialettica in Marx .

Nota

Indice dei nomi

PAG.

5

1 1

5 1

75

129

147

165

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