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Città dei ricchi e città dei poveri, dall’Europa al mondo ... · Thus, as Bernardo Secchi...

Date post: 30-Dec-2019
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Città dei ricchi e città dei poveri, dall’Europa al mondo, dal XIX al XXI secolo: distruzione, conservazione, rigenerazione Cities of the Rich and Cities of the Po or, from Europe to the World, from the 19th to the 21st Century: Destruction, Conservation, Regeneration ANDREA PANE, GUIDO ZUCCONI A partire dal XIX secolo, la città europea ha subito dinamiche di trasformazione urbana che hanno comportato il rinnovamento delle aree centrali e più pregiate a discapito dei loro originari abitanti, costretti a esodi forzati in zone di margine. Per le aree centrali, quasi sempre coincidenti con i nuclei storici della città, si è dunque verificato un fenomeno che oggi viene definito gentrification, che ha spesso prodotto anche la perdita dell’identità originaria dei luoghi. Per converso, ai margini dell’originaria compagine urbana, sono sorti quartieri e borgate destinate alle classi più povere, spesso privi di servizi e infrastrutture e caratterizzati da condizioni di vita disagevoli, che hanno favorito il senso di esclusione sociale. Questi fenomeni, avviati nella città europea tra XIX e XX secolo, sono ormai diffusi in quasi tutte le aree urbane del pianeta, e generano situazioni di conflitto e violenza che balzano sempre più spesso agli onori delle cronache. Si determina quindi, come ha scritto Bernardo Secchi, un divario sempre più incolmabile tra “la città dei ricchi e la città dei poveri”, che rende ormai difficile e inappropriato identificare la città come un unicum. Ne deriva un processo vizioso, che intensifica gli investimenti nelle aree centrali – considerate strategiche per le politiche di riconoscimento internazionale (WHL Unesco) e di branding – lasciando quelle periferiche in condizioni di marginalità. Ciò produce, nelle aree centrali, dinamiche di repentina trasformazione (più o meno controllate alle latitudini dove la conservazione urbana è più consolidata, decisamente incontrollate in altri contesti geografici) e fenomeni di degrado e abbandono in quelle periferiche, che quantomeno ne preservano un certo grado di autenticità. Questo stato di cose tocca tanto le grandi città europee (Londra, Parigi, Milano) che quelle mondiali, tra cui spiccano le aree metropolitane del medio e dell’estremo Oriente (da Dubai a Shanghai, per fare solo degli esempi), le cui dinamiche sono in gran parte ancora da indagare. Con queste premesse, la sessione intende stimolare proposte che attengano sia alla storia che al futuro di luoghi segnati da queste dinamiche urbane. Ci si attende proposte che focalizzino tanto il contesto europeo che quello mondiale, anche ponendoli in relazione reciproca ed evidenziando le attuali questioni di conservazione e rigenerazione. Since the 19th century, the European city has undergone dynamics of urban transformation that has led to the renovation of the most valuable and central areas at the expense of their original inhabitants, forced to exodus in m arginal areas. For central areas, almost alway s coinciding with the city's historical cores, there has been a phenomenon that today is called gentrification, which has often also resulted in t he loss of the original identity of the sites. Conversely, at the margins of the original urban compartment, neighborhoods and boroughs have been set up for the poorest classes, often la cking in services and infrastructures and characterized by unpleasant liv ing conditions that have favored the sense of social exclusion.
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Città dei ricchi e città dei poveri, dall’Europa al mondo, dal XIX al XXI secolo: distruzione, conservazione, rigenerazione

Cities of the Rich and Cities of the Poor, from Europe to the World, from the 19th to the 21st Century: Destruction, Conservation, Regeneration ANDREA PANE, GUIDO ZUCCONI

A partire dal XIX secolo, la città europea ha subito dinamiche di trasformazione urbana che hanno comportato il rinnovamento delle aree centrali e più pregiate a discapito dei loro originari abitanti, costretti a esodi forzati in zone di margine. Per le aree centrali, quasi sempre coincidenti con i nuclei storici della città, si è dunque verificato un fenomeno che oggi viene definito gentrification, che ha spesso prodotto anche la perdita dell’identità originaria dei luoghi. Per converso, ai margini dell’originaria compagine urbana, sono sorti quartieri e borgate destinate alle classi più povere, spesso privi di servizi e infrastrutture e caratterizzati da condizioni di vita disagevoli, che hanno favorito il senso di esclusione sociale. Questi fenomeni, avviati nella città europea tra XIX e XX secolo, sono ormai diffusi in quasi tutte le aree urbane del pianeta, e generano situazioni di conflitto e violenza che balzano sempre più spesso agli onori delle cronache. Si determina quindi, come ha scritto Bernardo Secchi, un divario sempre più incolmabile tra “la città dei ricchi e la città dei poveri”, che rende ormai difficile e inappropriato identificare la città come un unicum. Ne deriva un processo vizioso, che intensifica gli investimenti nelle aree centrali – considerate strategiche per le politiche di riconoscimento internazionale (WHL Unesco) e di branding – lasciando quelle periferiche in condizioni di marginalità. Ciò produce, nelle aree centrali, dinamiche di repentina trasformazione (più o meno controllate alle latitudini dove la conservazione urbana è più consolidata, decisamente incontrollate in altri contesti geografici) e fenomeni di degrado e abbandono in quelle periferiche, che quantomeno ne preservano un certo grado di autenticità. Questo stato di cose tocca tanto le grandi città europee (Londra, Parigi, Milano) che quelle mondiali, tra cui spiccano le aree metropolitane del medio e dell’estremo Oriente (da Dubai a Shanghai, per fare solo degli esempi), le cui dinamiche sono in gran parte ancora da indagare. Con queste premesse, la sessione intende stimolare proposte che attengano sia alla storia che al futuro di luoghi segnati da queste dinamiche urbane. Ci si attende proposte che focalizzino tanto il contesto europeo che quello mondiale, anche ponendoli in relazione reciproca ed evidenziando le attuali questioni di conservazione e rigenerazione.

Since the 19th century, the European city has undergone dynamics of urban transformation that has led to the renovation of the most valuable and central areas at the expense of their original inhabitants, forced to exodus in m arginal areas. For central areas, almost alway s coinciding with the city's historical cores, there has been a phenomenon that today is called gentrification, which has often also resulted in t he loss of the original identity of the sites. Conversely, at the margins of the original urban compartment, neighborhoods and boroughs have been set up for the poorest classes, often la cking in services and infrastructures and characterized by unpleasant liv ing conditions that have favored the sense of social exclusion.

These phenomena, starting in the European city between 19t h and 20th century, hav e spread in almost all the urban areas of the planet, and generate situations of conflict an d violence that increasingly show up in crim e news journalis m. Thus, as Bernardo Sec chi wrote, there is a gro wing gap between "the city of the rich and the city of the poor", which makes it difficult and inappropriat e to identify the city as a whole. This results in a vicious process that intensifies investm ent in central areas - consider ed strategic for international recognition policies (WHL Unesco) and branding - leaving the peripheral o nes in marginal conditions. This produces, in the central areas, dynamics of sudden transformation - more or less controlled at latitudes where urban conservation is m ore consolidated, definitely uncontrolled in other geographic contexts - and phenom ena of degradation and abandonment in peripheral ones, which at least maintain some degree of authenticity. This is so much the case of the big European cities (London, Paris, Mil an) and those of the rest of the world, including the m etropolitan areas of the Middle and Far East (from Dubai to Shanghai to cite some examples), whose dynamics are still largely to be investigated. With these premises, the session intends to stimulate proposals that respect both the history and the future of places marked by these urban dynamics. Proposals are welcomed focusing on both the European and the globa l context, also by linking them together, highlighting current conservation and regeneration issues.

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Storia e immagine della diversità urbana: luoghi e paesaggi dei privilegi e del benessere, dell’isolamento, del disagio, della multiculturalità

Città dei ricchi e città dei poveri, dall’Europa al mondo, dal XIX al XXI secolo: distruzione, conservazione, rigenerazione City of rich and city of poor, from Europe to the world, from the 19th to the 21st century: destruction, conservation, regeneration ANDREA PANE Università degli Studi di Napoli Federico II

GUIDO ZUCCONI Università IUAV di Venezia Abstract A partire dal XIX secolo, la città europea ha subito dinamiche di trasformazione urbana che hanno comportato il rinnovamento delle aree centrali e più pregiate a discapito dei loro originari abitanti, costretti a esodi forzati in zone di margine. Per le aree centrali, quasi sempre coincidenti con i nuclei storici della città, si è dunque verificato un fenomeno che oggi viene definito gentrification, che ha spesso prodotto anche la perdita dell’identità originaria dei luoghi. Per converso, ai margini dell’originaria compagine urbana, sono sorti quartieri e borgate destinate alle classi più povere, spesso privi di servizi e infrastrutture e caratterizzati da condizioni di vita disagevoli, che hanno favorito il senso di esclusione sociale. Questi fenomeni, avviati nella città europea tra XIX e XX secolo, sono ormai diffusi in quasi tutte le aree urbane del pianeta, e generano situazioni di conflitto e violenza che balzano sempre più spesso agli onori delle cronache. Si determina quindi, come ha scritto Bernardo Secchi, un divario sempre più incolmabile tra “la città dei ricchi e la città dei poveri”, che rende ormai difficile e inappropriato identificare la città come un unicum. Ne deriva un processo vizioso, che intensifica gli investimenti nelle aree centrali – considerate strategiche per le politiche di riconoscimento internazionale (WHL Unesco) e di branding – lasciando quelle periferiche in condizioni di marginalità. Ciò produce, nelle aree centrali, dinamiche di repentina trasformazione (più o meno controllate alle latitudini dove la conservazione urbana è più consolidata, decisamente incontrollate in altri contesti geografici) e fenomeni di degrado e abbandono in quelle periferiche, che quantomeno ne preservano un certo grado di autenticità. Questo stato di cose tocca tanto le grandi città europee (Londra, Parigi, Milano) che quelle mondiali, tra cui spiccano le aree metropolitane del medio e dell’estremo Oriente (da Dubai a Shanghai, per fare solo degli esempi), le cui dinamiche sono in gran parte ancora da indagare. Con queste premesse, la sessione intende stimolare proposte che attengano sia alla storia che al futuro di luoghi segnati da queste dinamiche urbane. Ci si attende proposte che focalizzino tanto il contesto europeo che quello mondiale, anche ponendoli in relazione reciproca ed evidenziando le attuali questioni di conservazione e rigenerazione. Since the 19th century, the European city has undergone dynamics of urban transformation that has led to the renovation of the most valuable and central areas at the expense of their original inhabitants, forced to exodus in marginal areas. For central areas, almost always coinciding with the city's historical cores, there has been a phenomenon that today is called gentrification, which has often also resulted in the loss of the original identity of the sites. Conversely, at the margins of the original urban compartment, neighborhoods and boroughs have been set up for the poorest classes, often lacking in services and infrastructures and

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characterized by unpleasant living conditions that have favored the sense of social exclusion. These phenomena, starting in the European city between 19th and 20th century, have spread in almost all the urban areas of the planet, and generate situations of conflict and violence that increasingly show up in crime news journalism. Thus, as Bernardo Secchi wrote, there is a growing gap between "the city of the rich and the city of the poor", which makes it difficult and inappropriate to identify the city as a whole. This results in a vicious process that intensifies investment in central areas - considered strategic for international recognition policies (WHL Unesco) and branding - leaving the peripheral ones in marginal conditions. This produces, in the central areas, dynamics of sudden transformation - more or less controlled at latitudes where urban conservation is more consolidated, definitely uncontrolled in other geographic contexts - and phenomena of degradation and abandonment in peripheral ones, which at least maintain some degree of authenticity. This is so much the case of the big European cities (London, Paris, Milan) and those of the rest of the world, including the metropolitan areas of the Middle and Far East (from Dubai to Shanghai to cite some examples), whose dynamics are still largely to be investigated. With these premises, the session intends to stimulate proposals that respect both the history and the future of places marked by these urban dynamics. Proposals are welcomed focusing on both the European and the global context, also by linking them together, highlighting current conservation and regeneration issues. Keywords Città dei ricchi e città dei poveri, conservazione, rigenerazione. City of rich and city of poor, conservation, regeneration. A partire dalla seconda metà del XIX secolo, la città europea ha subito dinamiche di trasformazione urbana che hanno comportato il rinnovamento delle aree centrali e più pregiate a discapito dei loro originari abitanti, costretti a esodi forzati in zone di margine. Per le aree centrali, quasi sempre coincidenti con i nuclei storici della città, si è dunque verificato un fenomeno che oggi viene definito gentrification [Smith, Williams 1986; Semi, 2015], che ha spesso prodotto anche la perdita dell’identità originaria dei luoghi. Per converso, ai margini dell’originaria compagine urbana, sono sorti quartieri e borgate destinati alle classi più povere, spesso privi di servizi e infrastrutture e caratterizzati da condizioni di vita disagevoli, che hanno favorito il senso di esclusione sociale, benché tali insediamenti siano stati spesso promossi da società filantropiche che si proponevano proprio il contrario [Zucconi 2001; Calabi 2005, 78-81]. Questo fenomeno di espulsione delle classi più povere dal centro delle città è stato preceduto – o talvolta accompagnato, a seconda dei contesti – anche dal suo esatto opposto: ovvero la spinta alla suburbanizzazione dei ceti più ricchi, con realizzazione di quartieri periferici a bassa densità caratterizzati da tipologie abitative monofamiliari immerse nel verde, destinati alle classi medie e medio-alte. Peculiare in alcune realtà urbane europee come Londra, e più in generale negli Stati Uniti, questo fenomeno ha costituito un’ulteriore leva per le successive trasformazioni delle zone centrali occorse nel XX secolo, in coincidenza con il ritorno delle classi medie verso il centro delle città [Calabi 2005, 85-86]. In un processo non semplice da dipanare, si può dunque individuare, nell’arco di poco meno di due secoli, una alternanza pendolare tra movimenti centrifughi e centripeti dei ceti più ricchi all’interno delle città. Ciò ha prodotto, alle diverse latitudini del mondo, scenari differenziati e spesso opposti, ma tutti accomunati da una tendenza che emerge ormai chiaramente al termine del secondo decennio del XXI secolo, ovvero la netta distinzione –

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marcata da una più o meno palese separazione fisica, fondata su «dispositivi di natura spaziale» – tra diverse “città” all’interno della stessa compagina urbana, ovvero a comparti ben definiti destinati a diversi gruppi sociali. È quella «nuova questione urbana» di cui ha parlato recentemente Bernardo Secchi in uno dei suoi ultimi libri, dall’inequivocabile ed efficace titolo La città dei ricchi e la città dei poveri, sottolineando come il tema delle crescenti disuguaglianze stia minando uno dei pilastri fondamentali su cui si è fondata la città moderna e contemporanea, ovvero quello di uno spazio per l’integrazione sociale e culturale [Secchi 2013, 3-9]. Ciò appare ancora più allarmante se si riflette sul fatto che questi processi di distinzione e separazione – che si chiamino slums e favelas, o, ai loro opposti, gated communities o barrios fechados – stanno ormai demolendo uno degli assi portanti sui quali si erano sviluppate le città nel corso del XX secolo, ovvero quello della riduzione delle disuguaglianze sociali almeno sul piano spaziale, attraverso una dotazione di standard e servizi – come il trasporto pubblico, ad esempio – che fossero indistintamente rivolti verso tutti gli abitanti della città [Secchi 2013, 66; Pasqui 2017, 47-49]. Questi processi di natura spaziale, coincidenti con il progressivo smantellamento del welfare state, appaiono ormai più che consolidati in Nord America, presentando un picco nelle aree del sud-est asiatico e in America Latina [Davis 2006], ma non sono estranei nemmeno in alcune aree dell’Europa, dove sono certamente destinati a crescere, in misura proporzionale con l’impennata migratoria degli ultimi due decenni. Ne consegue oggi un divario sempre più incolmabile tra «la città dei ricchi» e «la città dei poveri», per citare ancora Secchi, che rende ormai difficile e inappropriato identificare la città come un unicum. Si assiste dunque ad un processo vizioso, che intensifica gli investimenti nelle aree centrali – considerate strategiche per le politiche di riconoscimento internazionale (WHL UNESCO) e di branding – lasciando quelle periferiche in condizioni di marginalità. Ciò produce, nelle aree centrali, dinamiche di repentina trasformazione (più o meno controllate alle latitudini dove la conservazione urbana è più consolidata, decisamente incontrollate in altri contesti geografici) e fenomeni di degrado e abbandono in quelle periferiche, che quantomeno ne preservano un certo grado di autenticità. Questo stato di cose tocca tanto le grandi città europee (Londra, Parigi, Milano) che quelle mondiali, tra cui spiccano le aree metropolitane del medio e dell’estremo Oriente (da Dubai a Shanghai, per fare solo degli esempi), le cui dinamiche sono in gran parte ancora da indagare. Con queste premesse si vuole qui proporre una prima riflessione sui fenomeni citati che, diffusi in quasi tutte le aree urbane del pianeta, stanno generando situazioni di scottante attualità sociale e politica. L’occasione fornita dal convegno del Centro Interdipartimentale di Ricerca sull’Iconografia della Città Europea dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, dedicato a La città altra. Storia e immagine della diversità urbana: luoghi e paesaggi dei privilegi, del benessere, dell’isolamento, del disagio, della multiculturalità, ha infatti consentito di raccogliere alcuni approfondimenti che spaziano sul tema sia in senso geografico che temporale, muovendosi dall’America all’Europa e dal XIX al XXI secolo. Gli approcci proposti dagli autori dei nove scritti che seguono non sono omogenei e presentano notevoli differenze, sia sul piano metodologico che nei contenuti, a partire da chi si limita all’analisi a chi prospetta soluzioni. Tra questi ultimi, poi, si distingue chi si basa sulla logica dei numeri e chi punta alla capacità emancipatrice dell’architettura. E ancora, da una parte un approccio qualitativo e dall’altro uno quantitativo, che si appoggia all’analisi sociologica; sul lato opposto, coloro che credono ad una rigenerazione fondata sul progetto (spesso letto in chiave mitica). Così, nei tre casi americani si distingue tanto un taglio

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storiografico (il caso del Plan directeur di Le Corbusier per Bogotà, 1949-51) quanto uno sguardo all’attualità, quest’ultimo condotto sia con metodiche qualitative (Buenos Aires) che quantitative (il Bronx). Analogamente, nei due casi spagnoli, si confrontano un approccio più tradizionale – fondato sulla lettura delle trasformazioni urbane attraverso la cartografia (Burgos) – con un’analisi più puntuale, basata su dati quantitativi relativi a due quartieri scelti come casi studio (Salamanca). Infine, nella variegata galassia degli approfondimenti dedicati alla Campania si individuano ancora una volta approcci di tipo storiografico nei tre casi napoletani, ma opportunamente volti a evidenziare la continuità di alcuni processi fino ai nostri giorni (l’illuminazione pubblica; i rioni popolari dell’area orientale; le “salite dimenticate”), insieme a lucide analisi delle contraddizioni attuali (il “volto doppio” di Salerno). Emerge comunque, in modo evidente, una “geografia variabile” dei luoghi della marginalità (e di converso delle aree più favorite). Ciò conduce a chiarire che non è possibile generalizzare un fenomeno tipicamente italiano (e in parte europeo), ovvero il rinnovamento delle aree centrali, a discapito delle zone di margine ove gli abitanti originari sono spinti a ricollocarsi. Ad esempio nella città americana (nord e sud insieme, per una volta), si assiste ad un fenomeno opposto: la corsa verso i sobborghi residenziali, che ha lasciato dietro di sé ampie “zone grigie” spesso in aree centrali, a ridosso dei business district o downtown areas. Qui vivono le classi più povere in condizioni di disagio materiale, spesso in assenza di servizi e di infrastrutture elementari. Gli stessi casi di Londra e di Napoli stanno a dimostrare che non si tratta di una semplice contrapposizione tra centro e periferia: in entrambe le circostanze, il contrasto è semmai tra West ed East End. Per non parlare della città africana, spesso affogata in un oceano di marginalità: qui viene ritagliata (e spesso circondata da filo spinato) un’area di privilegio, come il quartiere del “Tiro a Volo” ad Asmara che noi italiani tendiamo a far coincidere con la città interna a fronte di cospicui esempi di architettura coloniale (riconosciuti dall’UNESCO). O, in altri casi, come nella più grande Nairobi, i distretti più favoriti si moltiplicano (Karen, Runda, Kitsuru Falls) ma sempre all’insegna dello stesso principio: enucleare aree di maggior pregio dal magma indistinto delle metropoli. Si tratta quindi di una serie di “città dei poveri”, ove galleggiano alcune isole riservate ai ricchi. Spostandoci infine verso l’Asia, più che Dubai o Shanghai, sembra rilevante citare il caso di Singapore: una città-stato di circa cinque milioni e mezzo di abitanti che occupa un’isola di soli 650 km quadrati. Qui, accanto a valori immobiliari in continua crescita, una politica fiscale selettiva sta di fatto allontanando dall’insula tutti coloro che non dispongono di un reddito medio-alto. Gli altri saranno invitati a ricollocarsi sulla vicina sponda malese dalla quale, già oggi, proviene un gran numero di pendolari. Interviene qui anche la componente razziale perché, a differenza di quelli che se ne vanno, coloro che restano sono prevalentemente di etnia cinese. Non è dunque agevole individuare un unico denominatore, o almeno degli elementi in comune, tra casi così diversi tra loro. Di certo le assonanze sono soprattutto negli esiti più che nei processi, ovvero nelle disuguaglianze spaziali e sociali – per ritornare ai temi citati in premessa – che si rilevano con tratti comuni in aree così distanti del pianeta, benché i fenomeni urbani che le hanno prodotte siano profondamente diversi. Bibliografia CALABI, D. (2005). Storia della città. L’età contemporanea, Marsilio, Venezia. DAVIS, M. (2006). Planet of Slums, Verso, London-New York. PASQUI, G. (2017). Urbanistica oggi. Piccolo lessico critico, Donzelli, Roma. SECCHI, B. (2013). La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza, Roma-Bari.

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SEMI, G. (2015). Gentrification: tutte le città come Disneyland?, Il Mulino, Bologna. SICA, P. (1977). Storia dell’urbanistica. L’Ottocento, Laterza, Roma-Bari. SICA, P. (1978). Storia dell’urbanistica. Il Novecento, Laterza, Roma-Bari. SMITH, N., WILLIAMS, P. (1986). Gentrification of the city, Allen&Unwin, Boston. ZUCCONI, G. (2001). La città dell’Ottocento, Laterza, Roma-Bari.

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Le Corbusier e il piano urbanistico di Bogotá (1949-1951) Le Corbusier and the Planning of Bogotá (1949-1951) ADELE FIADINO Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti e Pescara Abstract Nel 1949 l’autorità municipale di Bogotá al fine di riorganizzare lo sviluppo urbano dell’abitato affidò a Le Corbusier e agli architetti Josep Lluís Sert e Paul Lester Wiener l’incarico di redigere, rispettivamente, il Plan Directeur o Plan Pilote (studio preliminare) e il Piano Regolatore della città. I due progetti non furono realizzati, ma il primo per l’autore rappresentò un’esperienza fondamentale per il piano di Chandigarh. La lettura della relazione tecnico-illustrativa scritta da Le Corbusier consente di approfondire le conoscenze sull’attività e il pensiero del grande architetto offrendo l’opportunità di intraprendere nuovi studi e ricerche. In 1949, the municipality of Bogotá had the objective to reorganize the development of the urban area. It gave full power to Le Corbusier and to Architects Josep Lluís Sert and Paul Lester Wiener, respectively, to draw-up the ‘Plan Pilote or Directeur’ (a preliminary study) as well as the Development Plan of the city. However, the project was never realized, but for the designer, the project represented a fundamental experience for the planning of Chandigarh. The Technical and illustrative report, written by Le Corbusier, consents to further understand in more detail, the activities and the ideas of the Great Architect, offering an opportunity to undertake new studies and research. Keyword Bogotá, Le Corbusier, Città Contemporanea. Bogotá, Le Corbusier, Contemporary City. Introduzione Nel 1949 l’autorità municipale di Bogotá affidò a Le Corbusier e agli architetti Josep Lluís Sert e Paul Lester Wiener, associati nello studio di pianificazione urbana di New York (Town Planning Associates), l’incarico di redigere, rispettivamente, il Plan Directeur (o Plan Pilote, Piloto) e il Piano Regolatore della città. Le Corbusier, allora già abbastanza noto, aveva conosciuto il sindaco della città, Fernando Mazuera, in occasione del primo viaggio che fece a Bogotá (dal 16 al 24 luglio 1947) su invito dalle autorità locali mentre Sert e Weiner stavano lavorando in Colombia ai piani urbanistici di Tumaco e di Medellín. Sert aveva anche collaborato con Le Corbusier nel suo studio parigino, affiancandolo dal 1929 nella fondazione e sviluppo dei CIAM. Il Sindaco mise in contatto il Maestro e Sert con l’obiettivo di affidare al primo il progetto preliminare di carattere generale (Plan Pilote) e al secondo l’incarico di elaborarlo sul piano esecutivo (Piano Regolatore). Il contratto per l’affidamento dell’incarico fu firmato da Le Corbusier il 30 marzo 1949 e il progetto venne realizzato in accordo con la stessa autorità municipale e con i colleghi Sert e Wiener che si avvalsero del supporto tecnico dell’Ufficio del piano regolatore di Bogotá (OPRB), istituito appositamente per l’occasione. Sotto la direzione di Le Corbusier gli elaborati grafici furono sviluppati e messi in pulito da tre architetti colombiani che in quel periodo lavoravano nel suo studio parigino:

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Germán Samper, Rogelio Salmona e Reinaldo Valencia [Le Corbusier 1950, 1-2; O’Byrne 2010a, 2-4]. Il Plan Directeur venne consegnato nel settembre del 1950 e fu approvato dalle autorità il 5 aprile 1951. La fase successiva passò, quindi, sotto la direzione di Sert e Wiener con la consulenza di Le Corbusier. Dopo un intenso anno di lavoro e nonostante l’interesse iniziale dell’autorità municipale di Bogotá il progetto di Le Corbusier (come pure il Piano regolatore che seguì) non venne realizzato. Ciò fu determinato anche dalla mancanza di risposte da parte delle autorità cittadine, dalla contrarietà manifestata da alcuni media e, secondo Le Corbusier, dalla realizzazione di costruzioni da parte di alcuni proprietari terrieri dopo che si era diffusa la notizia dell’esecuzione di nuove strade [O’Byrne 2010a, 3-4]. Allo stato attuale delle ricerche sono state rinvenute solo due copie della Relazione tecnico-illustrativa di Le Corbusier, o Rapport come lo chiama l’autore: una conservata all’Archivio Sert (Frances Loeb Library, Graduate School of Design, Harvard University), l’altra all'archivio privato di Germán Samper che, come accennato, aveva lavorato all'Atelier parigino di Le Corbusier, dal 1949 al 1953. Sono conservate, inoltre, le diapositive che il Maestro aveva portato a Bogotá nel 1951 per la presentazione del Piano, custodite da Francisco Pizano che aveva lavorato nell'OPRB come responsabile della zonizzazione, e molti disegni e documenti, soprattutto presso la Fondation Le Corbusier di Parigi. La Relazione conservata da Samper è un testo dattiloscritto (un facsimile dell’originale) che reca il titolo Elaboration du Plan Regulateur de Bogotá. Etablissement du Plan Directeur, par Le Corbusier à Paris 1949-1950, corredata di 48 disegni schematici datati 30 giugno 1950. La Relazione è stata pubblicata integralmente solo nel 2010 (con alcune aggiunte riprese dalla copia originale di Sert) insieme a due volumi contenenti una serie di saggi molto interessanti su Le Corbusier e sul tema della capitale colombiana intitolati LC BOG. Le Corbusier en Bogotá 1947-1951. Questo materiale, curato da un gruppo di docenti universitari, è interamente consultabile sul sito http://www.lecorbusierenbogota.com e consente di studiare una documentazione inedita sull’architetto e di approfondire le conoscenze sulla sua attività e sul suo pensiero. Dall’esemplare conservato da Samper prende spunto questo articolo che ha lo scopo di delineare i contenuti del Piano seguendo prevalentemente le indicazioni fornite da Le Corbusier nella sua Relazione mentre per gli approfondimenti si rimanda alla lettura dei volumi citati. 1. Il Piano Directeur Il Piano Directeur nacque con la finalità di riorganizzare la città di Bogotá, che allora contava oltre 600.000 abitanti, e per accrescere l’area urbana in vista di un probabile aumento della popolazione fino a 1.500.000 di abitanti. Il progetto, come si legge nella stessa Relazione, venne elaborato su quattro scale di intervento: regionale, metropolitano, urbano e di settore (quest’ultimo riguarda il quartiere del Centro Civico e residenziale). La metodologia espositiva usata da Le Corbusier segue la “griglia di urbanistica” adottata dal consiglio dei CIAM nel marzo del 1948, ordinata secondo le quattro funzioni fondamentali della pianificazione moderna come definite nella Carta di Atene (1933): abitare, lavorare, coltivare il corpo e lo spirito e circolare [Le Corbusier 1950, 3-4; Le Corbusier 2003, 341 e 463; Salcedo Ortiz, Weiss Salas, Samper 2010, 188-197]. I disegni che corredano la Relazione e che riproducono in maniera schematica le planimetrie originali contengono le informazioni di carattere territoriale su Bogotá e gli interventi urbanistici e architettonici proposti dall’architetto.

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Prima di illustrare dettagliatamente questi documenti, Le Corbusier tenne a precisare nell’introduzione (Preambulus) che «le coté philosophique du projet apparait ainsi: l’oeuvre révolutionnaire consiste essentiellement à remettre l'ordre dans ce que l’incurie, l’impéritie, l'égoïsme, la démagogie ont perturbé, dénaturé, rendu grotesque et inefficace, hostile au bien public. C’est pour cela que souvent l’oeuvre révolutionnaire se manifeste par un caractère hautement traditionnaliste. Elle retrouve la racine des choses, elle désigne à nouveau l’axe vrai des choses» [Le Corbusier 1950, p. 3]. L’opera rivoluzionaria alla quale allude l’architetto consiste nel tornare a rispettare le stesse leggi della natura che avevano guidato i fondatori della città di Bogotá. La storia, la geografia, la topografia, l'azione del sole, le acque, i venti, ecc., scrive il Maestro, sono i principali elementi che hanno guidato il Piano Directeur: Vale a dire che alla base di tutte le proposte elaborate vi è la ricerca di un rapporto costante tra urbanistica, architettura e ambiente naturale e costruito. Il Piano, infatti, può essere letto come il tentativo di Le Corbusier di conciliare le esigenze della comunità locale con quelle di una metropoli moderna (secondo la propria visione) che vede nell’ambiente il suo principale interlocutore. 2. L’unità di quartiere, la viabilità, i luoghi di lavoro Il rapido cambiamento subito da Bogotá prima del 1949 aveva distrutto l’equilibrio preesistente tra il nucleo storico e le aree urbane limitrofe. La città, scrive Le Corbusier, si era sviluppata ai piedi della catena montuosa (il Monserrate, parte della Cordigliera delle Ande) senza ordine né ragione, assumendo un’estensione anormale: complessivamente un’area estesa lungo l’asse nord-sud e compresa tra la fascia montuosa e la ferrovia regionale Cundinamarca (oggi strada NQS) (figg. 1,2). Uno dei problemi più vistosi della città era rappresentato dall’enorme sviluppo della periferia, caratterizzata da agglomerati residenziali a bassa densità. Tutto questo per Le Corbusier si traduceva in inutili sprechi di denaro pubblico, mentre le tecniche costruttive moderne consentivano di raggiungere grandi “dimensioni di densità” pur garantendo «les conditions de nature», vale a dire un armonico equilibrio con il contesto. Ai fini della modernizzazione di una città di oltre 600.000 abitanti, che potenzialmente poteva crescere fino a 1.500.000, i dati relativi alla distribuzione della popolazione sul territorio avevano un ruolo fondamentale nell’elaborazione del progetto. Lo studio della densità aveva evidenziato che nella zona centrale di Bogotá, che comprendeva il nucleo antico e le attrezzature pubbliche più rappresentative, vi erano 300 abitanti per ettaro, mentre nella zona settentrionale della città ve ne erano 200 e in quella meridionale 100 (fig. 2). Tutto ciò rivelava che la naturale tendenza degli abitanti era quella di incontrarsi nel centro della città per svolgere attività lavorative e per risiedervi. Nel Piano Directeur questa tendenza fu conservata: la zona centrale, di circa 1860 ettari e delimitata a nord e a sud dai fiumi Arzobispo e San Cristóbal, avrebbe accolto in futuro 650.000 abitanti con una densità media di 350 abitanti per ettaro e nuovi edifici residenziali ad alta densità localizzati soprattutto ai piedi della fascia montuosa; le zone a sud e a nord avrebbero accolto circa 1.000.000 di abitanti, ma utilizzando edifici a bassa densità; i quartieri insalubri della periferia sarebbero stati sostituiti da nuove abitazioni mentre quelli distanti dalla città sarebbero stati progressivamente demoliti. Partendo da questi indirizzi l’area urbana delimitata ad ovest dall’asse ferroviario regionale Cundinamarca (di cui era prevista la trasformazione in asse viario, Avenida Cundinamarca, oggi NQS) e ad est dalle pendici della catena montuosa fu riorganizzata da Le Corbusier utilizzando, per la prima volta, il principio dei “settori urbani” (fig. 3) ottenuti con la suddivisione del terreno in rettangoli di superficie e capienza (mediamente 800 x 1200 m)

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sufficienti per ordinare e canalizzare in modo razionale il sistema circolatorio delle alte velocità [Le Corbusier 2006, 42; Tentori 1986, 137]. I “settori urbani” residenziali erano dotati di attrezzature comuni (mercato, cinema, commercio, ecc.), collocate in modo tale da consentire a un pedone di raggiungerle in 15 minuti (fig. 4). Le abitazioni previste per queste aree (esclusa la zona centrale con il suo nucleo storico) erano di quattro tipi, ma sempre di due o tre piani: “una casa un albero”, “case tipo Rochelle, “casa tipo Sert”, case “tipo Wiener/Sert”. Come si evince dalla nomenclatura, gli edifici riprendevano modelli abitativi adottati in precedenza o studiati dai tre architetti che avrebbero permesso di ottenere una densità dai 300 ai 350 abitanti per ettaro. [Le Corbusier 1950, tavv. 133-I a 134-1; Le Corbusier et Jeanneret 1934, 197-201; O’Byrne 2011, 23].

1: Piano di Bogotá del 1947. Fondation LC 616 (da O’Byrne y Daza, 2010 b, 145). 2: Le Corbusier, Studio della densità dell’abitato di Bogotá. La prima linea nera in basso raffigura l’asse ferroviario Cundinamarca, la linea rossa al centro indica l’Avenida Jimenez (da Le Corbusier, 1950, tav. 113 divers).

3: Le Corbusier, Plan Directeur, “suddivisione razionale della città in settori di abitazioni” (da Le Corbusier, 1950, tav. 112-1). 4: Id., “Unità di quartiere, attività quotidiane. Teoria” (Ivi, tav. 131-3). Strettamente connessi ai settori residenziali erano i luoghi di lavoro e la rete dei collegamenti urbani e regionali. A Bogotá la maggior parte delle attività produttive, commerciali e amministrative, si trovava lungo la strada Avenida Jimenez che attraversava da ovest ad est il territorio suburbano e proseguiva all’interno del centro antico fino a raggiungere le pendici

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della montagna. La funzione di questo asse fu ulteriormente potenziata nel Piano Directeur. Lungo di esso, infatti, trovarono posto, in sequenza, la nuova città industriale, la zona artigianale e – nei settori residenziali – le attrezzature commerciali e amministrative pubbliche e private. L’Avenida Jimenez sarebbe diventata, secondo il progetto, una delle principali strade a scorrimento veloce della città (fig. 5). Per evitare, però, che separasse nettamente l’abitato in due parti, Le Corbusier previde la realizzazione di strade, sempre a scorrimento veloce che, attraversando la citata Avenida, avrebbero collegato la zona nord a quella sud della città (fig. 3). La rete viaria, come si può notare, ebbe un ruolo fondamentale nella riorganizzazione dell’abitato. Al riguardo Le Corbusier scrive che nel Piano Directeur si trova per la prima volta l’indicazione di una maniera del tutto armoniosa di regolare in modo totale la circolazione, cominciando dalle strade nazionali e regionali, per seguire con le altre gerarchicamente minori fino a quella che conduce alla porta di casa. La gerarchia di assi viari, com’è noto, fu denominata da Le Corbusier la “Teoria delle 7 V” ovvero v1, v2, v3 strade a scorrimento veloce, v4, v5, v6 a scorrimento lento, v7 percorso pedonale immerso nel verde [Le Corbusier 1950, 26-30; Tentori 1986, 137; Denti, Toscani 2007, 63]. Tra le aree per le attività lavorative va segnalata la nuova città industriale prevista nel Piano che, secondo Le Corbusier, poteva essere realizzata tipo “fabbriche verdi” (d’usines vertes): una soluzione che comportava l’utilizzo di zone verdi nella rete dei collegamenti stradali, ferroviari e nella divisione dei suoli (fig. 5). Era questo un modo per portare «au travail industriel les ‘conditions de nature’ qui sont à la clef de toutes les propositions du présent Plan de Bogotá» [Le Corbusier 1950, 20]. 3. Le attrezzature per le attività culturali, ricreative e il Centro Civico Quanto alle attrezzature per «cultiver le corps et l’esprit», che si riferiscono rispettivamente alle aree verdi pubbliche per le attività sportive e ricreative e ai centri culturali (fisici e spirituali), Le Corbusier fornisce nel progetto indicazioni abbastanza precise. In particolare, l’intero Piano era stato concepito in modo tale che la riserva naturale di verde fosse preservata dallo sviluppo urbano e che potesse porsi a beneficio degli abitanti penetrando intelligentemente fino al cuore dei settori abitativi (o unità di quartiere). Qui, infatti, come mostra il progetto, i percorsi pedonali, che conducono ai servizi collettivi (mercati, impianti sportivi, scuole), sono completamente costeggiati di vegetazione, configurandosi nel complesso come prosecuzione di quella naturale esistente sul territorio (fig. 4). Da segnalare che, tra le aree verdi, Le Corbusier previde i "parchi culturali", vale a dire dei luoghi in cui i giovani potevano incontrarsi liberamente per svolgere sia attività fisiche che intellettuali: ne erano previsti due ubicati vicino ai fiumi Arzobispo e San Cristóbal. In questi parchi era essenziale, per Le Corbusier, mantenere le ricchezze naturali al fine di creare una riserva verde (alberi e altro) e di acqua utilizzabile dalla popolazione in luoghi come viali pedonali, piscine, aree per i giochi, in modo da assicurare così, in piena città, il legame naturale tra la savana e la montagna. Le altre attrezzature culturali erano distribuite nell’ambito del nuovo territorio urbano (città universitarie) e nel centro storico, un luogo carico di memoria e di simboli che Le Corbusier preferì chiamare Centro Civico. Questo, scrive l’architetto, «riunisce in un’armonia spirituale e materiale, l’insieme delle funzioni collettive capaci di manifestare lo spirito di un gruppo sociale, di una città, di una società. Unisce il passato al presente. Costituisce la storia della città senza rottura e senza abbandono» [Le Corbusier 1950, 32].

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Il centro storico sorgeva su un pianoro inclinato ai piedi della catena montuosa ed era tagliato trasversalmente dall’Avenida Jimenez. A sud di questa strada, intorno all’antica Plaza de Bolívar, erano sorti gli edifici di carattere religioso, governativo, amministrativo e commerciale. Secondo il progetto di Le Corbusier, qui sarebbero sorti edifici moderni concepiti in stretta relazione con il paesaggio naturale, con le architetture e con gli spazi esistenti. Accanto a questi edifici vi sarebbero stati la Cattedrale, il Teatro Colón, il Parlamento e alcune strade e case storiche di epoca spagnola di cui era prevista la conservazione. In tutte le parti, secondo Le Corbusier, «regnerà così lo spirito della città, la scala umana, la diversità e l'unità. Si svilupperà una vera sinfonia architettonica e paesaggistica. La montagna servirà da sfondo per la composizione». Le nuove architetture non avrebbero dovuto alterare la percezione del suo profilo [Le Corbusier 1950, 32-33]. In particolare, nei pressi del complesso religioso, sarebbero sorti il palazzo dei ministeri, alto 180 metri, di cui 45 piani destinati a uffici, un edificio più piccolo per gli uffici municipali, un altro per quelli dei sindacati, il palazzo del Presidente della Repubblica (alle spalle del complesso religioso), il centro culturale (teatro, museo, ecc.) e gli uffici per le ambasciate inseriti nel tessuto edilizio preesistente. Un altro gruppo di edifici, ubicati su un’area limitrofa, avrebbe formato il quartiere degli affari economici, quello del distretto bancario e delle grandi amministrazioni private (fig. 6). [Le Corbusier 1950, 34-41; Aguilera 2010; Fontana y Mayorga 2010]. In definitiva, il nuovo cuore amministrativo di Bogotá si sarebbe sviluppato attorno a quello esistente. A nord della stessa Avenida il progetto prevedeva di intensificare le attività commerciali, tradizionalmente concentrate lungo la storica Calle Real, e di incrementare le strutture per l'intrattenimento quotidiano e la vita notturna (caffè, ristoranti, cinema, ecc.). Questa strada, che si univa a quella del settore meridionale e conduceva ai monumenti sopra citati, avrebbe dovuto essere completamente pedonale mentre tutta l’area del Centro Civico sarebbe stata perimetrata da strade veicolari di due tipi, di penetrazione all’area storica (e a senso unico) e a scorrimento veloce, che avrebbero collegato il Centro al settore settentrionale e a quello meridionale della città. Questi tre tipi di viabilità (pedonale, di penetrazione al centro e a scarrimento veloce) rappresentavano per Le Corbusier la classificazione perfetta della circolazione nella loro gerarchia e nel loro valore specifico [Le Corbusier 1950, 41]. Nel complesso, il Centro Civico consolidava, incrementandole, le sue molteplici funzioni (religiose, politiche, direzionali, amministrative, culturali, commerciali, ricreative, residenziali), confermando l’antico ruolo di principale polo di aggregazione urbana. Per queste ragioni, al fine di accogliere la popolazione che già vi risiedeva (e quella futura), fu prevista nelle sue immediate vicinanze, una zona residenziale caratterizzata da edifici di “qualità” ad alta densità che avrebbero costituito, rinnovandolo, il nucleo stesso della città. Erano previsti edifici di due tipi: ‘’a spina’’, costituiti da ‘’unità’’ di abitazioni in grado di accogliere circa 2000 persone ciascuna, e a redents, della stessa qualità, ma aggregati a corte aperta e, probabilmente, con alloggi distribuiti a corridoio centrale [Tentori 1986, 178]. La densità per il primo tipo sarebbe stata di 350 abitanti per ettaro, per il secondo di 600. Tutte le ‘’unità’’, naturalmente, sarebbero state dotate di attrezzature collettive ubicate nei rispettivi settori urbani [Le Corbusier 2006, 42-46; Fontana y Mayorga 2010, 85-92].

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5: Le Corbusier, progetto delle Avenidas Jimenez e Cundinamarca (da Le Corbusier, 1950, tav. 133-4). 6: Id., progetto del Centro Civico di Bogotá. BOG 4220, 30 junio 1950, FLC 605 (da Aguilera, 2010, 207). Conclusioni Sulla base del progetto di Le Corbusier, Sert e Wiener elaborarono il Piano Regolatore, poi approvato nel 1953 con nuovi contributi riguardanti il Centro Civico e due settori abitativi a nord-ovest della città [O’Byrne 2010a, 3]. Di fatto, come accennato, i due Piani non ebbero concreta attuazione [Lapunzina 2010, 55; Schnitter Castellanos 2010, 165]. L’architetto Samper, che seguì da vicino la vicenda, dichiarò in una intervista del 2009 che «el Plan Piloto fue un documento válido realizable y que reflejaba el pensamiento de la época. Con la perspectiva que dan sesenta años de desarrollo de la ciudad, la sensación que se percibe es que el plan cayó en un momento histórico difícil y en una ciudad adolescente que apenas iba a comenzar su crecimiento. Es por lo tanto posible decir que el Plan Piloto fue entregado en mal momento para Bogotá» [O’Byrne, Daza 2010 b, 149-151]. Nel complesso il Piano rivela, nelle scelte progettuali, lo sforzo di Le Corbusier di adattare i propri principi teorici alla realtà geografica, fisica e storica di Bogotá. Il compito dell’architetto era quello di prevedere tutte le opere necessarie per la realizzazione delle quattro funzioni della pianificazione moderna (abitare, lavorare, coltivare il corpo e lo spirito e circolare) e di immaginare la città come sarebbe stata una volta costruita [Le Corbusier 1950, 32-46]. Va anche detto che il progetto non fu esente da critiche e polemiche per alcune soluzioni audaci o lasciate irrisolte [Vargas Caicedo 2010, 76-80; Niglio 2017, 181-183]. Tuttavia, Le Corbusier utilizzò gli studi effettuati per il Piano di Bogotá nel successivo progetto per la realizzazione della città di Chandigarh (in.1950). Come tutti gli altri lavori del grande architetto, è certo che anche il Piano Directeur ha fornito un indiscutibile contribuito alla storia della città contemporanea. Bibliografia AGUILERA, J.C. (2010). Palabras y trazos: las unidades de Le Corbusier en el Centro Cívico del Plan Piloto de Bogotá, 1950, in LC BOG. Le Corbusier en Bogotá 1947-1951, Bogotá, Universidad de los Andes y Pontificia Universidad Javeriana, 2010 (http://www.lecorbusierenbogota.com), Tercera parte, pp. 198-215. DENTI, G., TOSCANI, C. (2007). Le Corbusier, Santarcangelo di Romagna, Maggioli Editore. FONTANA, M.P., MAYORGA, M.Y. (2010). «Arquitectura en todo, urbanismo en todo» Le Corbusier: del Centro Cívico al centro de Bogotá, in LC BOG, cit., Segunda parte, pp. 82-101. LAPUNZINA, A., (2010). De la pampa al altiplano: los planes directores de Le Corbusier en América, in LC BOG, cit., Primera parte, pp. 50-65. LE CORBUSIER, P. JEANNERET (1934). Œuvre complète, Zurich, Gisberge.

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LE CORBUSIER (1950). Elaboration du Plan Regulateur de Bogotá. Etablissement du Plan Directeur par Le Corbusier à Paris 1949-1950 (dattiloscritto, 30 giugno 1950), Bogotá, Archivio German Samper, in LC BOG. cit. Le Corbusier, Scritti (2003), a cura di R. Tamborrino, Torino, Einaudi. LE CORBUSIER (2006). Œeuvre complète de 1946-1952, Basel-Boston-Berlin, W. Boesiger (ed.), vol. V. NIGLIO, O. (2017). Proposte di piano per la città di Bogotá in Colombia. Utopia di una modernità tra XIX e XX secolo, in Piani Regolatori comunali: legislazioni, regolamenti e modelli nel secondo dopoguerra (1945-2000), ASUP, «Annali di Storia dell’Urbanistica e del Paesaggio», n. 5, 2017, pp. 173-188. O’BYRNE, M.C. (2010 a). Le Corbusier en Bogotá, 1947-1951, in LC BOG, cit., s.p. O’BYRNE, M.C., DAZA, R. (2010 b). El Plan Piloto visto por Germán Samper, entrevista por 1 de agosto de 2009, in LC BOG, cit., Tercera parte, pp.138-159. O’BYRNE, M.C. (2011). 35 Rue de Sèvres, in Germán Samper, Bogotá, Diego Samper Ediciones, pp. 16-33. SALCEDO ORTIZ, J., WEISS SALAS, P., SAMPER, M.Á. (2010). Las grillas CIAM y MARS en el Plan Piloto de Bogotá, 1950-1951, in LC BOG, cit., Tercera parte, pp. 138-159. SCHNITTER CASTELLANOS, P. (2010). Le Corbusier, Sert y Wiener: vicisitudes del Plan Regulador para Bogotá, in LC BOG, cit., Tercera parte, pp. 160-170. TENTORI, F. (1986). Vita e opere di Le Corbusier, Bari, Laterza, p.137. VARGAS CAICEDO, H. (1950). Notas para un contexto sobre el Plan Piloto y el Plan Regulador de Bogotá, in LC BOG, cit., Segunda parte, pp. 72-81.

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Buenos Aires, urbanizzazione delle contraddizioni: dai “barrios cerrados” alle “villas miseria” Buenos Aires, urban development and contraddictions: from the “barrios cerrados” to the “villas miseria” SILVANA DANIELA BASILE Politecnico di Milano Abstract In Buenos Aires “renovación urbana” e “puesta en valor” sono azioni che nascondono fenomeni di gentrificazione, con specifiche proprie alla genesi e alla matrice dello sviluppo socio-spaziale della città. Se le classi privilegiate possono optare se vivere nei “barrios cerrados” delle aree suburbane o in condomini protetti nelle zone centrali, i meno abbienti formano parte di quel meccanismo di espulsione che accumula ‘popolazione precaria’ confinandola in aree di estrema povertà, conseguenza delle politiche urbane neoliberali che hanno favorito l’espansione di “villas miseria”. In Buenos Aires “renovación urbana” and “puesta en valor” are actions that hide gentrification phenomena, with specific characteristics typical of the genesis and matrix of the socio-spatial development of the city. The privileged classes can live in the “barrios cerrados” in suburban areas or in protected condominiums in the central areas of the city. The less well off are part of the expulsion mechanism towards the periphery, that accumulates “precarious population”. This is a consequence of the neoliberal urban policies favored the expansion of “villas miseria”. Keywords Buenos Aires, gentrificazione, renovación urbana. Buenos Aires, gentrification, renovación urbana. Introduzione La Repubblica Argentina si è caratterizzata per essere una delle società più “egalitarie” del Sudamerica contando su una forte classe media dall’elevato livello educativo e con buona mobilità sociale ascendente. Nelle ultime decadi, con l’applicazione delle politiche neoliberali, ha subito un processo di “latinoamericanizzazione” con una classe media che perde sempre di più peso relativo, conseguenza del suo impoverimento, accentuando il divario sociale tra ricchi e poveri, con l’aumento dei meno abbienti che hanno sempre più difficoltà nell’uscire da situazioni di povertà. L’obiettivo di questo intervento è quello di tratteggiare brevemente alcuni aspetti significativi delle peculiarità che hanno contraddistinto, e ancora oggi caratterizzano, i processi di urbanizzazione e trasformazione della città di Buenos Aires, tali da generare particolari sinergie in cui si nascondono fenomeni assimilabili al concetto di gentrificazione. Sono dinamiche urbane, chiamate in loco renovación urbana, puesta en valor, reciclaje o rescate del patrimonio storico architettonico, che hanno portato al rinnovamento di aree centrali (Palermo viejo, El Abasto, ecc.), come pure alla realizzazione di grandi progetti urbani che hanno trasformato l’immagine della città (Puerto Madero), generando, con

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frequenza, problematiche insolute in termini di impatto sulla conservazione e gestione del patrimonio architettonico esistente. Interventi gestiti come un prodotto di “marketing urbano” con l’obiettivo di creare spazi tali da incentivare l’investimento straniero e il turismo. 1. Le premesse I primi “sintomi” di azioni gentrificatrici, nel senso più ampio del termine, si riscontrano durante la dittatura militare negli anni 1976-1983, quando furono intraprese politiche urbanistiche per migliorare la salubrità, l’estetica e la ricerca dell’ordine nella Capitale. Buenos Aires doveva trasformarsi in una città per pochi eletti poiché, come affermava il sindaco Cacciatore, “vivir en Buenos Aires no es para cualquiera sino para el que lo merezca, para el que acepte las pautas de una vida comunitaria, agradable y eficiente. Debemos tener una ciudad mejor para la mejor gente” [citato in Novick 2012, 93]. Questo è avvenuto attraverso “l’espulsione”, oltre i confini urbani, di tutto quanto contrastava con questo ideale: gruppi sociali poveri o marginali, spazzatura, industrie pesanti, ecc. Politiche che se da un lato perseguivano la modernizzazione, dall’altro ebbero effetti contrari, favorendo il processo di stagnazione della città. Un caso emblematico è stato lo smantellamento quasi completo delle villas miseria (insediamenti abusivi a trama irregolare con infrastrutture precarie) da cui fu allontanata, spesso a forza, la quasi totalità dei loro abitanti (ca. 200.000 persone). Questo avvenne soprattutto nei ricchi quartieri nord di Buenos Aires (Belgrano, Colegiales), mentre nelle aree sud, più povere, piccoli nuclei riuscirono a resistere. In Argentina il gusto per la vita a contatto con la natura ha origini ottocentesche. L’introduzione di abitudini anglosassoni, quale elemento di modernizzazione della vita sociale dell’aristocrazia locale, fece nascere in aree vicine alla città estancias, quintas, casas de veraniego e casas de weekend dove, oltre all’uso abitativo, si svolgevano attività ricreative e sociali a contatto con la natura [Ballent 2014, 631]. Questo portò negli anni Trenta, su iniziativa dell’élite, alla nascita dei primi country clubs. Nel 1977 l’emanazione della Ley Provincial n° 8912 di ordinamiento urbano y territorial de la provincia de Buenos Aires (in cui venne codificato il club de campo) e l’estensione della rete viaria veloce (che incoraggiò l’uso del mezzo privato a scapito del trasporto pubblico), favorì questa forma di urbanizzazione suburbana destinata ai settori benestanti. Una tipologia residenziale che, evoluta nel barrio cerrado degli anni Novanta, divenne un fenomeno di tendenza ancora in voga. Dopo la caduta, nel 1983, del regime militare e delle sue controverse azioni di controllo e d’intervento, il nuovo governo democratico, in un momento di profonde trasformazioni nei modi di teorizzare e attuare sul tessuto urbano, propose per la città di Buenos Aires nuove politiche tendenti all’equità sociale, alla ristrutturazione dell’area metropolitana e alla valorizzazione del suo patrimonio architettonico. L’arrivo di capitali stranieri, ma soprattutto l’aggravarsi dei problemi di violenza e di sicurezza urbana, hanno provocato significative modifiche nella configurazione di Buenos Aires, portando alla preminenza del modello americano di città chiusa, quasi una “American way of life”. Le prime avvisaglie del nuovo immaginario collettivo, che perseguiva un ideale di sicurezza, si palesarono con la creazione, su iniziativa privata, di “isole protette”: le garitas de vigilancia privada agli incroci dei quartieri residenziali benestanti nei sotto-centri metropolitani e lo shopping mall, spazi commerciali controllati alternativi al caos e all’insicurezza della strada tradizionale. Lo sviluppo del shopping mall iniziò nel 1988: in centro ristrutturando e restaurando (spesso con risultati discutibili) vecchi edifici commerciali ottocenteschi (“Patio Bullrich”, zona Recoleta, e “Spinetto Shopping”, zona Balvanera) e in periferia con

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l’edificazione ex novo, presso l’autostrada a 17 km dalla capitale, del primo centro commerciale regionale “Unicenter Shopping Center” di 239.000 mq. In questo modo si evidenzia un cambio nelle pratiche sociali urbane, dove le classi medie scelgono i luoghi d’incontro semi-pubblici controllati, lasciando gli spazi pubblici aperti alle classi popolari. Negli anni Novanta la città di Buenos Aires ha adottato, quale politica di sviluppo urbano, la promozione dell’attività edilizia, volano per una crescita economica che, con l’implementazione di politiche economiche neoliberali, ha cercato di cambiare il volto della città. La realizzazione di grandi edifici su iniziativa privata ha trovato nella nuova legge1 che introduceva la figura del fideicomiso (trust) una garanzia giuridica a tutela degli interessi delle parti, soprattutto straniere.

1: In alto, Unicenter Shopping Center con l’autostrada Panamericana; in basso, “garitas de vigilancia” nei quartieri di Olivos e Villa Ballester, Buenos Aires. La politica di valorizzazione del parco immobiliare ha provocato conseguenze evidenti sul valore di rendita dei terreni e sulla struttura economica della città, innescando processi di rinnovamento urbano che consentirono all’iniziativa privata l'appropriazione dei differenziali di 1 Ley n° 24.441 del 1995: Financiamiento de la vivienda y la construcción.

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reddito generati, senza che lo Stato ottenesse contropartita alcuna. Gli effetti in termini di sviluppo economico, sociale e urbano per il resto della popolazione furono scarsi, addirittura subirono processi contrari quali l’aumento degli affitti e del costo della vita. Una politica che, per aumentare la propria competitività, si avvalse di strategie di “marketing urbano” utilizzando edifici simbolici quale strumento per attirare investimenti stranieri. Un esempio emblematico lo troviamo nel quartiere Balvanera, dove, con la chiusura nel 1984 del vecchio “Mercado de Abasto Proveedor” (principale mercato all’ingrosso di frutta e verdura della città), si innescò un importante processo di deterioramento fisico e funzionale delle aree circostanti, con molte case abbandonate e in disuso che vennero occupate. L’edificio, acquistato e trasformato da un gruppo imprenditoriale multinazionale (IRSA), venne riaperto nel 1998 come “Abasto Shopping Center”, uno dei più importanti centri commerciali dell’Argentina. Nei dintorni furono comprati numerosi immobili e terreni con l’obiettivo di attivare quel processo di rigenerazione urbana che riqualificasse il quartiere e ne favorisse l’animazione. Sorsero torri residenziali di classe medio alta (torres-jardín), supermercati, alberghi, uffici, ristoranti, teatri e centri culturali che allontanarono sempre più la popolazione “indesiderata”, marginale o con scarso potere d’acquisto. 2. Barrio cerrado Negli anni Novanta lo spostamento in periferia di sedi aziendali, la nascita di grandi centri commerciali e di servizio, le nuove autostrade di accesso a Buenos Aires, ma soprattutto l’aggravarsi dei problemi di violenza urbana (sentimento esteso tra le classi medie e alte, spesso al di là della realtà) hanno provocato la diffusione dell’idea che il centro cittadino potesse perdere la sua funzione di luogo di residenza permanente. Iniziò a svilupparsi una nuova forma di vita domestica, esterna al tradizionale tessuto urbano, che rispondesse a canoni di sicurezza e di ricerca di quegli spazi esclusivi dominati dalla omogeneità sociale dove si potesse condividere modi di vita, gusti culturali e sportivi. Si tratta di urbanizzazioni programmatiche, iniziative destinate alla “clase media de ingresos razonables” [Ballent 2014, 647] che trasformarono il tradizionale modello del country club in residenze permanenti. Allontanandosi dal paesaggio rurale, si crea ex novo una tipologia residenziale di alto standing, basata su uno schema di “habitat” autosufficiente, il barrio cerrado: “emprendimiento urbanístico destinado a uso residencial predominante con equipamiento comunitario cuyo perímetro podrá materializarse mediante cerramiento”2. Ovvero una forma di urbanizzazione privata basata sul controllo degli spazi pubblici per conferire quel senso di sicurezza e protezione ricercato dai suoi abitanti. Si tratta di “frammenti” di città che generano “isolamento” poiché danno origine alla segregazione sociale con limitazioni alla vita privata e alle libertà individuali. La periferia non viene più intesa come luogo per lo sfogo del conflitto socio-abitazionale, ma nuova frontiera dove i settori più abbienti cercano sicurezza e privacy costruendo “condomini orizzontali” sull’idea di “città fortificata”. Per poter favorire questo nuovo modello di urbanizzazione, lo Stato privatizzò i servizi pubblici e incentivò la realizzazione di infrastrutture metropolitane compatibili e di nuove vie di collegamento tra centro e periferia [Gorelik 2011, 286-288]. Riducendo la dicotomia tra centro e periferia, questo modello insediativo venne riprodotto in città, dando origine nelle zone centrali alla tipologia delle torres-country o countries en altura, fenomeno ancora oggi di tendenza. Grandi torri residenziali che, a modo di fortificazione,

2 Art. 1 Decreto n° 27 del 1998: Barrios Cerrados.

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vengono isolate dal mondo esterno con muri e vigilanti, diventando veri e propri rifugi urbani di un’élite in cerca di sicurezza fisica e sociale.

2: Gran Buenos Aires, esempi di “barrios cerrados”: in alto a sinistra nel Nordelta; in alto a destra nell’area di Ezeiza; in basso pianta del Barrio Castaños nel Nordelta. 3. Palermo Un altro particolare fenomeno di trasformazione urbana, iniziato negli anni Novanta e intensificatosi nel periodo successivo alla crisi economica del 2001, ha avuto luogo nel quartiere di Palermo, che ha sofferto di una forma di “gentrificazione larvata” con l’invasione di giovani professionisti dal maggior potere d’acquisto rispetto alla tradizionale popolazione operaia del barrio, avviando un processo di sostituzione sociale accompagnato da una riqualificazione edilizia e commerciale. Questi soggetti “gentrificatori”, chiamati localmente jóvenes creativos, iniziarono a occupare le storiche casas chorizo di Palermo Viejo (oggi

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Palermo Soho) con la loro cultura alternativa, il loro gusto per il design e la buona cucina, trasformandolo in luogo del commercio e dell’industria tessile. Gradualmente il quartiere, con l’apertura di locali “alla moda” (ristoranti chic, negozi di design, ecc.) subì un ricambio del tessuto commerciale funzionale ai nuovi fruitori, generando frequenti dissapori fra vecchi e nuovi residenti, caratterizzati da stili e tempi di vita diversi. I vecchi abitanti, con minori risorse economiche, stanchi dall’alienazione e dal caos del nuovo quartiere alla moda iniziarono ad allontanarsi spostandosi nei quartieri vicini. Conseguenza di questo stravolgimento economico, anche Palermo Nuevo (oggi Palermo Hollywood) è diventata un’area della città dall’elevato valore del suolo con promotori che investono in nuove torri destinate alle classi benestanti, densificando il tessuto urbano con i conseguenti problemi di infrastrutture dovuti al forte aumento di popolazione, ma anche modificando il profilo e l’ambiente del quartiere, che passò da tranquillo e suburbano a ibrido senza identità.

3: (Michele Christen), esempio di “country en altura”, lussuose torri residenziali nel quartiere Palermo.

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4. Puerto Madero Puerto Madero, grande vuoto urbano situato nell’area centrale di maggior pregio della città (ca. 180 ettari di darsena con vecchi edifici e depositi portuali (docks) di proprietà pubblica rimasti in disuso e abbandonati per quasi un secolo dopo lo spostamento delle infrastrutture portuali nella prima metà del Novecento), è stato oggetto, a fine del XX secolo, di un progetto di recupero e riuso con ingenti investimenti pubblici. Esempio di reciclaje (riqualificazione) e renovación urbana, rappresenta uno degli interventi di maggior respiro delle politiche neoliberali, trasformandolo in uno dei quartieri più aristocratici della Capitale.

4: (Silvana Basile), Puerto Madero, in primo piano i docks restaurati, il Puente de la Mujer di Santiago Calatrava e in secondo piano le lussuose torri-country. Nel 1989 il Governo Nazionale cedette, su richiesta del Municipio di Buenos Aires, questi terreni a una società pubblica (Corporación Antiguo Puerto Madero SA) per sviluppare un progetto urbanistico a scala metropolitana che generasse nuovi spazi residenziali, commerciali e di servizio. Caldeggiato dalla Sociedad Central de Arquitectos che mirava a salvaguardare e ripristinare il forte carattere a potere evocativo dell’area, dopo lunghi dibattiti, venne indetto un concorso di idee che sfociò nel 1992 nel Plan Maestro de Desarrollo Urbano in cui si tracciarono le linee guida dell’intervento. Si iniziò con il restauro dei docks, elemento identitario del luogo dichiarato área de protección patrimonial antiguo Puerto Madero, che trasformati offrirono spazi per uffici con al piano terra ristoranti, bar e discoteche. In seguito l’area centrale fu oggetto di un boom immobiliare dove rinomati architetti argentini progettarono lussuose torri-giardino o countries en altura (con servizi comuni di sicurezza privata, campi da tennis, palestra, sale multiuso, piscina, etc.). Infine un terzo intervento riguardò la riqualificazione dello spazio pubblico, con progetti di professionisti anche stranieri (per es. il Puente de la Mujer di Santiago Calatrava) e la valorizzazione

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dell’area della reserva ecológica, uno degli spazi verdi più importanti di Buenos Aires, il tutto completato da grandi alberghi di note catene internazionali. Le caratteristiche del nuovo quartiere (difficoltà d’accesso con i trasporti pubblici, prezzi alti dell’offerta gastronomica e culturale, residenze di lusso, assenza di scuole pubbliche, ecc.) a cui si aggiunge un sistema integrale di sicurezza coadiuvato dalla presenza della Prefectura Naval, denotano un’urbanizzazione che poco vuole interagire con la città. Elemento chiuso in se stesso, il nuovo quartiere ha portato al predominio della vita privata su quella sociale, identificando nella città globale e capitalista l’idea di progresso legato all’esito economico.

5: Villa 31 con sullo sfondo gli edifici dell’aristocratico quartiere di Retiro-Recoleta. Attualmente il quartiere, nei suoi ca. 2.500.000 mq costruiti, ospita 17.000 abitanti residenti e 40.000 posti di lavoro, ma a pochi metri, seguendo la sponda del fiume, lo scenario cambia: tetti di lamiera, strade di fango, acque stagnate, ecc. Così si vive nella villa miseria Rodrigo Bueno, la bidonville di Puerto Madero (sviluppatasi insieme al quartiere e dove la maggior parte vi lavora), e poco più lontano nella Villa 31, nata negli anni Trenta tra le infrastrutture ferroviarie e del porto sormontata dall’autostrada Illia, accesso principale al centro urbano. Eccezionale singolarità della marginalità urbana, è il più antico ed emblematico insediamento informale di case illegali in Buenos Aires, dove nei suoi ca. 40 ettari oltre 38.000 persone vivono senza fognature e reti ufficiali di elettricità, gas e acqua potabile, il tutto a pochi isolati da zone residenziali e commerciali di alto valore immobiliare (Recoleta e Puerto Madero). In diverse occasioni si cercò di sradicare, senza mai ottenere risultati concreti, l’illegalità di questo insediamento in continua crescita e con sempre maggiori problemi di convivenza con il tracciato stradale (vandalismi, furti, ecc. nei confronti delle auto di passaggio). Nel 2016, con la decisione di spostare il tracciato autostradale, è incominciato un progetto di riqualificazione della Villa 31 prevedendo l’allacciamento delle infrastrutture (operativo al 20%), la costruzione di edifici pubblici e la realizzazione di piazze. Completa il progetto la trasformazione del vecchio viadotto autostradale Illia in parco in altezza (ispirandosi a quanto realizzato a New York sul sedime di tracciati ferroviari dismessi). In futuro si vorrebbe sostituire gran parte delle abitazioni, riassegnandole agli abitanti a condizioni agevolate.

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Conclusioni Se la Buenos Aires di inizio XX secolo era una giovane città in espansione, aperta alla convivenza sociale e all’integrazione (caratterizzata dalla mezcla e con un senso di appartenenza al barrio fortemente radicato nei suoi abitanti), sviluppata secondo uno schema territoriale focalizzato sulla valorizzazione dello spazio pubblico dove i settori della popolazione medio o medio-alto vivevano nelle aree centrali mentre quelli popolari occupavano gli anelli periferici, quella di fine Novecento si è generata in modo inverso, dalla periferia verso il centro. Conseguenza della riduzione dei flussi migratori e delle politiche urbane iniziate con il regime militare (impegnato a costruire una città per pochi eletti) e portate avanti dai democratici neoliberali, sono state promosse nuove forme di suburbanizzazione per i settori benestanti: la “città fortificata” del barrio cerrado che, riproposta nell’area centrale della capitale, diventa lussuose torri-country. Queste ultime insieme a Puerto Madero conformano la nuova skyline urbana: un paesaggio di abitazioni, uffici, hotel e infrastrutture di lusso. Alle soglie del nuovo millennio, sotto l’influsso della “privatizzazione” dello spazio urbano, Buenos Aires si è modificata in maniera significativa con una struttura urbana caratterizzata da segregazione, differenze socio-spaziali e dominata dal capitale privato. Il grande sviluppo immobiliare dell’ultima decade del secolo scorso si concentrò prevalentemente nell’area centrale di Buenos Aires, sul Río de la Plata e lungo i principali assi autostradali. In questo contesto l’eterogeneità della “città pubblica” e la stratificazione storica dei suoi quartieri risulta sempre più assente, rimpiazzata dal grande sviluppo immobiliare supportato da importanti flussi di capitale. Si scatenano processi di trasformazione e frammentazione urbana, conseguenza della globalizzazione imperante, in cui ritroviamo evidenti fenomeni di gentrificazione: i grandi progetti di “urbanizzazione privata” dei gruppi d’investimento, ma anche la sommatoria di piccoli interventi privati nel contesto dei quartieri storici, a cui si aggiunge la fuga dalla città dei settori medio e alti che si “auto segregano” nei barrios cerrados in cerca di sicurezza, omogeneità sociale e del “pubblicizzato” contatto con la natura, quasi una forma di gentrificazione al contrario. La ricerca di uno spazio totalmente controllato genera effetti collaterali negativi, con un contagio che si espande alla città aperta, dove telecamere di sorveglianza, vigilanza privata di negozi e di edifici, parchi e piazze pattugliate da poliziotti stanno cambiando l’aspetto “amabile” della città, ricordando costantemente che il pericolo è dietro l’angolo. Una pressione che conta sul consenso degli abitanti della città tradizionale, che non vogliono condividere lo spazio con coloro che simboleggiano il lato oscuro e negativo della vita urbana. All’interno delle politiche di sviluppo urbano si parla di renovación urbana o di puesta en valor, spesso accompagnate da investimenti pubblici in infrastrutture nell’area specifica, dove tutto si svolge come se queste azioni fossero l’obiettivo da raggiungere in se stesso, senza preoccuparsi di chi possa beneficiarne e senza nemmeno implementare strumenti adeguati che permettano di valutare sul lungo termine questa politica (indicatori sociali o economici). La semplice evoluzione del valore del terreno e degli immobili esprimerebbe l’indice positivo della puesta en valor, con l’assunto tacito che lo sviluppo urbano così inteso possa favorire e promuovere lo sviluppo economico e sociale dell’area in questione [Gorelik 2004]. Oggi Buenos Aires si trova confrontata con due tipi di “habitat” problematici: gli insediamenti precari illegali (ca. 260 ettari di villas miseria nel perimetro urbano) e i nuovi prodotti immobiliari (le urbanizzazioni chiuse delle torri-country e dei barrios cerrados suburbani, oltre

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400 km2 due volte la superficie della città capitale destinati ai gruppi più facoltosi) contrapposti, ma con un comune denominatore: la chiusura in se stessi quale protezione dai “pericoli” del contesto urbano. L’aumento degli spazi controllati sta creando barriere che condizionano, se non addirittura alterano, la crescita e l’espansione della città storicamente aperta, prospettando un futuro incerto nell’ambito dello sviluppo urbanistico territoriale, che va contro l’essenza stessa dell’agglomerato urbano, ovvero l’usufrutto, ma soprattutto il libero accesso allo spazio pubblico. Una città neoliberale che privilegia l’individuo sulla collettività urbana, generando polarizzazioni e aumentando sempre più segregazione sociale e frammentazione spaziale. In questo contesto, il tessuto storico dei quartieri, che ha sempre favorito le relazioni sociali di prossimità, risulta disgregato se confrontato alla nascita di aree elitarie omogenee, dal rigido tessuto sociale. Quindi in Buenos Aires gentrificazione e insediamenti precari possono considerarsi le due facce di una stessa medaglia, con uno Stato protagonista determinante nel generare queste disuguaglianze socio-spaziali. Una caratteristica dal forte differenziale che la espone al fenomeno dei conflitti sociali e di classe in modo sempre più acuto, rispetto ai paesi europei o nord Americani. Bibliografia Decreto n° 9404. 1986. Clubes de Campo. Provincia de Buenos Aires. Decreto n° 27. 1998. Barrios Cerrados. Provincia de Buenos Aires. Shopping Unicenter/Hipermercado Jumbo, in «Summa Temática», 29, pp. 14-19. BALLENT, A., LIERNUR, J. (2014). La casa y la multitud. Vivienda, política y cultura en la Argentina moderna, Buenos Aires, Fondo de Cultura Económica de Argentina, S.A. BASILE, S. (2013). Politiche di tutela e conservazione dei beni architettonici nella Repubblica Argentina. La città di Buenos Aires, Sant’Arcangelo di Romagna, Maggioli Editore. CICCOLELLA, P. (1999). Globalización y dualización en la Región Metropolitana de Buenos Aires. Grandes inversiones y reestructuración socioterritorial en los años noventa, in «Eure», 25, 76, pp. 1-17. GORELIK, A. (1998). La grilla y el parque. Espacio público y cultura urbana en Buenos Aires, 1887-1936, Buenos Aires, Universidad Nacional de Quilmes. GORELIK, A. (2004). Miradas sobre Buenos Aires: historia cultural y crítica urbana, Buenos Aires, Siglo XXI. GORELIK, A. (2011). Correspondencias: arquitectura, ciudad, cultura, Buenos Aires, Nobuko. GUEVARA, T. (2013). La renovación como estrategia de desarrollo urbano en Buenos Aires, in «Apuntes», 26, 2, pp. 68-79. KHALIL, E. (2014). Control social y producción de seguridad en espacios urbanos. Un análisis de las formas de vigilancia, la organización del espacio y la vida cotidiana en Puerto Madero (Buenos Aires, Argentina), in «Scripta Nova», XVIII, 493 (21), pp. 1-21. MENAZZI CANESE, L. (2013). Ciudad en dictadura. Procesos urbanos en la ciudad de Buenos Aires durante la última dictadura militar (1976-1983), in «Scripta Nova», XVII, 429, pp. 1-15. NOVICK, A. (2012). Proyectos urbanos y otras historias, Buenos Aires, Nobuko. PRÉVÔT SCHAPIRA, M.F. (2002). Buenos Aires en los años 90: metropolización y desigualdades, in «Eure», 28, 85, pp. 1-16. SNITCOFSKY, V. (2012). Clase, territorio e historia en las villas de Buenos Aires (1976-1983), in «QUID 16», 2, pp. 46-62. TORRES, H. (2001). Cambios socioterritoriales en Buenos Aires durante la década de 1990, in «Eure», 27, 80, pp. 1-19. VERBITSKY, B. (1966). Villa Miseria también es América, Buenos Aires, Editorial Universitaria de Buenos Aires. VIDAL-KOPPMANN, S. (2014). Diseño urbano y control del espacio. De la ciudad privada a la ciudad blindada, in «Scripta Nova», XVIII, 493 (18), pp. 1-13.

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La matrice di vulnerabilità del sistema insediativo contro la gentrificazione delle grandi città: il caso del Bronx The matrix of vulnerabilities of the settlement system against the gentrification of the big cities: the case of the Bronx FRANCESCA CIAMPA University of Naples Federico II

Abstract Il fenomeno della gentrificazione si concretizza nella compagine urbana del Sud Bronx. L’oggetto del contributo è stato svolto in collaborazione con la Columbia University e le associazioni di NYC. L’approccio metodologico combina interviste ad interlocutori privilegiati con l’analisi prestazionale dei processi insediativi. I risultati consistono in una matrice che integra all’unità ambientale i pareri del sapere esperto e le visioni della comunità per la prefigurazione delle prestazioni attese. The gentrification phenomenon is solidified in the urban structure of the South Bronx district. This effort has been carried out in partnership with Columbia University and the associations of NYC. The methodological approach combines interviews from privileged interlocutors with the performance analysis of the urban settlement processes. The results consist of a planning support matrix, which integrates the opinions and knowledge of experts from the environmental unit with community visions for the prefiguration of expected performances. Keywords Comunità, Approccio metodologico, Gentrificazione. Community, Methodological Approach, Gentrification.

Introduction The historical premise is at the base of the analytical attitude of the site: the identification of the origins and evolutionary processes of the Bronx reinforces the operational need for the recovery of the district and defines the importance of the participatory planning approach. The Bronx district is considered a place of historical wealth, but at the same time a place of economic poverty and social degradation. Through an excursus tempore it is possible to trace and retrieve the most important stages of the evolution of the territory in question. Starting in 1492, the area was inhabited by the natives of America, identified with the Lenape population whose name means "the people". In fact, in the western world, the birth of the Bronx is traced back to 1639, the year of the acquisition of the site by the European landowner, Jonas Bronck. From the latter derives the name of the American neighborhood, which over the course of history has assumed the current pronunciation of "Bronx". The site is considered the fulcrum of the most important political dynamics of the eighteenth century having been governed by the Morris clan, which counts between its ranks two signers of the Declaration of Independence – Lewis and Robert – also so-called "Penman of the Constitution". During the early years of the 1800s, the site took on great urban importance for the adaptation of the road layout: the nineteenth-century transformations led to the continuation of the Manhattan road grid extending to the Bronx, which is still visible along the first Bronx Road (extension of 132nd Street East of Manhattan). Finally, on January 1, 1914,

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the official legislature decreed the birth of the Bronx as the 62nd borough of the State of New York.

1: Francesca Ciampa, South Bronx’s abandoned framework, May 2017. 1. The four historical phases of the Bronx in the 20th Century The history of the Bronx can be divided into four main phases: the "boom" era (1900-29), the "economic depression" era (1929-50), the "crime" era (1950-85) and the “rebirth" era (1980-today). The historical period of the "boom" includes thirty years during which the population of the Bronx increased from 200,000 to 1.3 million. This period of prosperity was interrupted by the advent of the great depression, which led to the decline of the neighborhood's economy. The situation of poverty and delinquency earned the Bronx the title of "the most disreputable area in the whole country". The high crime rate experienced in the Bronx during the 70’s was embodied by the expression of the famous commentator, Howard Cosell, "The Bronx is burning". This exclamation indicated the economic collapse of the area, with a clear reference to the arson that destroyed entire blocks and killed 300,000 residents [Bandarin,

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Van Oers 2012]. At the time, the Bronx presented itself as an abandoned or homeless and toxic place. Given the state of latent degradation, the landowners, who had unsuccessfully tried to sell their now devalued buildings, began to perform specialized phenomena of insurance fraud. The practice provided for the purchase of the depreciated property, sold several times to increase its incremental value, and the subsequent building fire in order to collect the insurance premium. This practice determined the depletion of about two thirds of the structural fabric and the destruction of 40% of the buildings in the district. Only since the 80’s, has the Bronx begun a redevelopment campaign for the area; thanks to these new investments in the construction of new residential facilities. In the 1990s, in order to rid itself of the label of a "ghetto", the State invested about a billion dollars for the reconstruction of apartments and public housing for a population of 26,500 people to re-enter into the local context. The Bronx can be defined, from 2004, as an area in decisive economic growth: currently, the market value of a typical local residential home exceeding $500,0001.

2: Francesca Ciampa, Carmela Conte, South Bronx’s realistic framework. 2. The environmental context The advent of the industrial revolution has led to an abuse of natural resources and a global environmental imbalance: the set of human actions that followed over time has produced adverse global effects, such as the warming of the earth's atmosphere, the increase in ocean water temperatures and the creation of extreme weather phenomena, such as hurricanes. Starting from this field of investigation, the proposal for the formation of a matrix of the vulnerabilities of settlement systems that act as a guide to planning guidelines was considered. This is how new compositional approaches are investigated that determine innovative methods in the design of the site, destroyed because of Hurricane Sandy. In particular, the research is based on the adaptability of innovative construction elements and 1 New York, Butler Library. Urban Planning. B 1102, N4592.

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on the resilience of new design projects [Beauregard 2015]. The case study focuses on the methodological approach of participatory planning in order to propose new solutions to social problems present in-situ. In this hypothesis, the project aims to promote site adaptability by channeling social and technological vulnerability through a participatory planning approach [Beauregard, Lieto 2016]. The plan can be considered in terms of the capacity for recovery in future growth: protective measures becoming an attraction for the city while providing an upgrade to the area from a social perspective. The need to redevelop the Bronx, with specific attention to the waterfront, emerges from the idea of protecting the community from physical damage caused by climatic events and the social consequences that the resident population would experience. Through the drafting of a gentrification-based investigation matrix, the redevelopment of the site, upgraded through urban transformations, would offer the citizens new job opportunities and above all an active involvement through self-management processes of the main spaces. In this way, the area would benefit from taking care of its prominent identifiable sites, while also reducing management costs. Land use is based on the needs of the community, which have interacted and influenced the project in its most significant phases. WaterBronx, [Ciampa, Conte 2017] is the neologism that identifies the case study: a park designed to protect the multi-ethnic enclave through a process of urban redevelopment of an area, overlooking the Manhattan skyline and falling into a residential place with high economic potential. The main purpose is to protect citizens, from the physical and social point of view, from the negative effects of environmental disasters and gentrification, respectively. In the following analysis, we will examine in detail how the population and the privileged interlocutors have influenced the design choices in relation to the environmental system. The latter is divided into three different environmental units: the waterfront, the pre-existing building fabric and East 134th Street. This classification was essential for research related to users, services, processes in progress and building quality. The adoption of systemic decomposition refers to the articulation of the relations between the set of spaces and the complex functions. The demanding-performance approach is based on the analysis of the various functions connected to the different spaces, in order to meet the needs of the users involved and to guide the choices that make up the decision-making process. 3. The socio-economic vulnerability According to the results obtained from field research, sample interviews with community users, and the analysis of data obtained from the Butler and Avery Library of Columbia University in New York, it was possible to reconstruct a picture of the social suffering in the South Bronx. The ethnic / racial composition typical of the "borough" of the American metropolis presents a strong contrast between the residential experience of the white population group and that of each minority group. The former are in fact living in highly isolated neighborhoods with low representation of minorities, while the latter live in more integrated areas. If we wanted to divide the population into typical Caucasians, African Americans, Hispanics and Asians, we would have the following picture: the typical Caucasians live, in fact, in neighborhoods that are formed for the most part by “whites” (83%). The experience of minorities is very different: the typical African American, Hispanic or Asian individual live in ethnically mixed neighborhoods so we can deduce that all the ethnic groups, excluding the Caucasian ones, live in a multi-cultural environment. They reject the isolation of the classic American suburbia but try to reproduce a form of life associated with other minority ethnic groups, therefore, with specific reference to our area of interest, the

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local population lives grouped in smaller communities or neighborhoods with high social mix [Bang Shin, Lees, Morales 2016]. In the early 1990s, most of the immigrants from the Dominican Republic settled in the northern part of Manhattan and South Bronx. In general terms, within this area of New York City, the Dominicans are therefore largely concentrated in Harlem and the Bronx, diverse areas which up to a few years ago would typically include a multi-racial population. From the results of the first studies, we can deduce a high social and economic suffering within the site of interest, and at the same time, the presence of a system of aggregation among the most disadvantaged social groups. This part of the population is undoubtedly also the poorest and most suffering, which seeks to obtain an economic and social redemption through the active help of local associations2.

3: Francesca Ciampa, South Bronx Borough, May 2017.

2 New York, Avery Library. Architecture and Design. B 9127, N42445.

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4. The methodology The involvement of the community in the design of the promenade has come about through the expression of their needs, the history of the site, the need for new jobs and open spaces. Most of the information collected constituted the basis of regeneration of the site. The methodological data gathering approach is based on two systems of interviews: the first with privileged interlocutors through direct operations and the second, on a larger scale, towards the local community. 4.1 Collaboration with privileged interlocutors In this section, we will deal with the first interview system, the one with the privileged interlocutors. From the academic point of view, this research phase was conducted under the supervision of Robert Beauregard, Professor of Urban Planning at the Columbia University Graduate School of Architecture, Planning and Preservation (GSAPP). This collaboration has ensured the careful study of the accessibility of the area including the elaboration phase. In this step, the design of a permeable natural system was determined, composed of tree-lined avenues of reconnection to the existing urban fabric. From a social point of view, video interviews with the CEO of Nos Quedamos, Anthony Winn and his architect and designer, Peter Standt, were essential to understanding the actual living conditions of the neighborhood and the local income levels, both of which are connected to the respective predominant ethnicity in the area. From a design point of view, meetings with Roland Lewis, president and chief operating officer of the Waterfront Alliance, and Micheal Marrella, director of the city's waterfront and open space at the New York City Department, have made it possible to identify climate risks afflicting the subject area and the destructive consequences it would suffer. Finally, the technological point of view was deduced from the interviews with James Rausse, director of planning and development of the Bronx Borough President Office district, and with Raj Chinthamani, structural engineer and technical consultant of the Chelsea Piers team. Their significant contribution has allowed the experimentation of new innovative currents in the field of measures to protect climate change (anti-flood). 4.2 Collaboration with the community The role of the community within the design was fundamental as the active relationship with the population was developed through workshops and sample interviews. This new participatory approach has determined new scenarios for the redevelopment of the site and the new land use. The close collaboration with the main associations of the place has allowed interaction with the resident community and the identification of the real needs of the population in a state of social suffering. The interaction method, which lasted for the entire training course, was conducted through actual survey methods of data collection. These methods included the distribution of over 500 open-ended questionnaires (in two languages – English and Spanish – due to the low level of school attendance) within the local public school, PS 43 Jonas Bronck, located adjacent to our project site in the Mott Haven section and the distribution of an additional 500 multiple choice questionnaires at major social associations present in the South Bronx, including the main We Stay / Well Nos Quedamos. The Bronx is the most active New York district from the association point of view in the social branch. The communities present grouped together under the name of the South Bronx River Watershed Alliance. The following are the associations, and the related objectives, with which the activity of interaction on the field was carried out:

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- We Stay / Well Nos Quedamos, a non-profit community organization dedicated to economic and social development for the South Bronx population. It consists of residents and members of the local community business council. Their goal is to promote, support and implement project ideas aimed at implementing health, environmental and economic growth of the place. - MOM (Mothers on the Move), an organization composed of single mothers residing in the South Bronx, whose goal is to improve the urban context in order to turn these places into safe areas where children can play. - YMP (Youth Ministries for Peace and Justice), an association that aims to reconstruct the building fabrics of the South Bronx promenade by integrating courses in civics, art, community and work organization. - The Point CDC, a non-profit organization dedicated entirely to the cultural and economic revitalization of the Hunts Point area. - Tri-State Transportation Campaign, a non-profit organization that aims at the functional and equitable management of transit of the transport system between the states of: New York, New Jersey and Connecticut. - The Pratt Center, an association that aims to implement environmental, economic and social justice through the strengthening of communities in the area.

5. Results: the array of vulnerabilities of the settlement system The result of this type of design approach determines the identification of a matrix that simultaneously faces the social and urban planning themes. The work is not defined by quantitative indicators, but in a broader framework, relating the different units of the environmental system with the institutional and social dynamics of the site. The different design intentions coming from the various areas discovered while researching the existing reality (institutions, environment and community) which can influence the different choices of spatial configuration in future planning. The drafting of an interpretative matrix of the different aspects of knowledge allows the harmonious coexistence between the "identity" recognized for this area and the establishment of new urban technologies. This type of contribution triggers a positive attitude in the citizens: the heritage, designed through the study of their needs, reinforces the sense of community and shared identity value. This favors the consequent attachment to the site and takes into account the same by virtue of a feeling of belonging that leads to the management and maintenance of the district through a superior social approach. The proposal is based on the idea of rethinking the public space as a place influenced by the population in every phase of its life, not only in its use but also in its design. WaterBronx lays the foundations of its design according to a holistic approach that connects urban, technological and community aspects. In this scenario, technological innovation would prevent flooding, and in the absence of extreme weather events, would simultaneously offer new structures for use by the community. In this way, territorial protection is transformed into a large public attraction where the management of space is left to the community. This type of approach enhances the aspects of design and reinvigorates the concept of resilience by applying it to all the elements considered. The vision would involve the contribution of new

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sources of income through the consequent increase in jobs. The South Bronx, could change its perspectives, considering the transformations necessary for the protection of the residents as a resource: the vulnerability would become in this sense a potential for profit. The economic impetus provided by the planned investments will activate long-term smart solutions so that most of the population can continue to live in flood-prone areas using the defensive technology established as an economic and social resource.

4: Francesca Ciampa, Matrix of vulnerability of the settlement system against the gentrification of large cities.

Conclusions The role of the community, its desires and its needs are the crucial points of design. The methodological approach adopted concerned the transcription of the needs of the resident community in terms of spatiality, in the new use of the territory [Fusco Girard 2013]. Based on this participatory planning aspect, a way has been presented to rethink the site in terms of distributions and functions. The historical premise is at the base of the analytical attitude of the site, as the identification of the origins and evolutionary processes of the South Bronx

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strengthened. The contribution is a process of opposition to the gentrification process through an approach that places the social system at the center of the design. WaterBronx is a project designed for communities by the community: a public park, a place of social gathering. In this vision, the close collaboration between the privileges and the purposes is fundamental for the purposes of the vulnerability of settlement systems [Pinto, Viola 2015]. The purpose of research is the way in which the tool for knowledge and style of the base is conceived. The space system is simulated according to the different impacts that it would undergo with the project: direct individuals, direct community, direct and indirectly on the built environment and on the historical landscape. Starting from the various environmental units, the examination traced the pivots of the participant differences in purpose: in an unquestionable relationship, the designers immediately determined the processes of influence and hybridization to ultimately merge them into the design of the future planning. Finally, in this interpretation, the resulting matrix is the only instrument through which the contained identities and methods of settlement approaches are a direct interpretation of the population, mitigating the experimentation of gentrification phenomena.

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The vulnerabilities of the settlement system matrices against the gentrification of big cities

FRANCESCA CIAMPA

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Il cambio di secolo e il rinnovamento della città di Burgos (Spagna) attraverso la sua cartografia: il Novecento come modernità The change of century and the renovation of the city of Burgos (Spain) through its cartography: the 20th as modernity BÁRBARA POLO MARTÍN Universitat de Barcelona Abstract L'estensione delle città in Spagna sembra necessaria da quando è stata promulgata la legge sull’ampliamento e la riforma interna del XIX secolo. I diversi modelli che favorivano l’integrazione di nuove aree sono stati proposti dalla costante crescita della popolazione e dalla diversificazione delle attività nei centri urbani. Tra le città che si distinguono per il conflitto interno tra espansione e protezione delle aree rilevanti del patrimonio, rileviamo il caso di Burgos. Questa città, il cui centro storico diventa significativo per l'intera configurazione urbana, ha riscontrato persistenti problemi dalla metà del diciannovesimo secolo, come la canalizzazione dei fiumi, la crescita della popolazione, la distruzione o l'aumento del patrimonio storico. Attraverso questo articolo ci adentriamo nelle diverse soluzioni cartografiche fornite dalla città di Burgos fino al 1956, soluzioni che cercavano di conciliare la legislazione imposta dallo Stato. Analogamente, i diversi programmi preparati per la città ci permettono di riflettere sulle difficoltà, come l'isolamento di alcune aree, la dispersione della popolazione e il conflitto tra il patrimonio architettonico e il patrimonio industriale. The extension of the cities seems like an imperative since the enactment of the Enlargement and Interior Reform Act in the 19th century. The constant growth of the population and the diversification of activities in the urban centers, led to propose different models in order to help the integration of new areas. Among the cities that stand out for the internal conflict between expansion and protection of relevant heritage areas, we can highlight Burgos (Spain). This city, whose historical center becomes relevant for the whole of the urban configuration, has experienced constant problems since the mid-nineteenth century, such as channeling of rivers, population growth, destruction or increase of historical heritage. Through this article, we pretend to deep into the different cartographic solutions provided by the city of Burgos until 1956, solutions that have tried to reconcile with the legislation imposed by the State. Likewise, the different plans prepared for the city allow us to reflect about the difficulties, such as the isolation of certain areas, the dispersion of the population and the conflict between the architectural heritage and the industrial heritage. Keywords Burgos, riforma, cartografia. Burgos, reform, cartography. Introduction In the mid 19th century, the relation between the growth of cities and the spread of disease led to some countries [Hamlin 1992] to adopt a new perspective on health risks and structure of cities. Starting at that time, different by-laws concerning health were passed in many cities.

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Those by-laws affected areas as diverse as drains and sewers, street lighting, the regulation of accommodation, slaughterhouse activity and markets [Rodríguez Ocaña 1994]. However, concern regarding healthcare spread slowly in most countries [Wohl 1983], including Spain. By the end of the 19th century, Spain was clearly a backward nation in economic, political and social terms. This resulted in the proposal to adopt measures and develop infrastructure already in place in other European countries [Arnould 1902; Sussman 1997; Pogliano 1984; Hildreth 1987]. The modernisations recommended resulted in laws as Enlargement Act of 1892 and Interior Reform Act of 1895 [Real Consejo de Sanidad 1901]. Among the cities that attempted to solve these problems, we find Burgos. However, in this case, the origin of the sanitisation and urban reorganisation was more closely related to the floods that the city had suffered during the last quarter of the 19th century than with the propagation of infectious diseases [Rodríguez Santillana 2002; Archivo Municipal de Burgos 18-924]. 1. Burgos at the end of the 19th century In order to tackle these problems, restructuring schemes such as the canalisation of water in 1888 and the installation of street lighting had been undertaken. A civil honour was requested for this work [Archivo Municipal de Burgos 2-505]. However, the absence of a drainage system to evacuate waste did not allow the objectives of the sanitation and reorganisation of the city to be completely met. Those objectives were seen as particularly important since it had been suggested that Burgos would soon reach a population of 40,000. Therefore, if urban reorganisation and sanitation were not undertaken, the city would face problems associated with both floods and poor health conditions. For this reason, on 28th July 1890, the council called for a general map of the town to be drawn up together with another map of the drains, as the starting point for the improvements that were to be made. The person who was to be in charge of executing both projects was the municipal architect, Saturnino Fernández. However, his workload made it impossible to carry out the tasks. The alternative put forward was the civil engineer Ramón Aguinaga Arrachea [Coronas Vidas 2008], who, in August 1890, proposed a work plan to be executed in two years [Archivo de Burgos 18-1583, September 20th]. The Works Commission also thought it wise to seek the opinion of the civil engineers who resided in the city and ask for their collaboration in the project: Mariano Martín Campos and Eduardo Lostau. The details concerning the drawing up of the topographic map presented by the civil engineers Martín Campos and Lostau included a proposal, an economic report and a series of special guidelines. The most notable changes with respect to the details provided by Aguinaga were the 1:1,000 scale for the map of the whole area and the 1:200 scale for the detailed sections. This latter change was the result of studying the details of maps of cities of corresponding importance, such as Valladolid [Virgili Blanquet 1979] and Zaragoza [Villanova 2011; Archivo de Burgos, 18-1583, September, 20th 1890, and January, 16th 1891]. After Aguinaga withdrew his proposal, only the one presented by these two civil engineers remained. The City Council accepted the conditions proposed for the drawing up of the map and study of a general drain and sewer network, together with the budget. The Council did, however, request that they present the details necessary to draft the project for the drain network; this was done on 12th June [Archivo Municipal de Burgos 18-1583, May 22nd, 1891]. In August 1891, the City Council granted the engineers permission to start work. It was agreed that the deadline to complete the project would be 20 months. In June 1892, after justifying a delay with respect to what had been agreed upon due to the high workload, the

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impossibility of collecting data in the field during winter and the shortage of auxiliary personnel, the progress of the work was considered satisfactory [Archivo Municipal de Burgos 18-1583, September 4th, 1891]. The scale used for the detailed maps was 1:200, which offered more detail than the maps of any other similar city in Spain; and the territory covered was so large that together the sheets of the detailed map took up a space of 13 m x 9 m. The precision that resulted from the use of such a scale meant that no detail of the general bulk of constructions and buildings was left out of the maps. However, after discussion with the Municipal Corporation, the Works Commission and the municipal architect were informed of changes in the execution of the general map. It was argued that, due to the degree of precision of the detailed maps, there was nothing to be lost by reducing the scale of the general map to 1:2,000. In addition to this modification, it was considered that, due to the vast volume of data collected up until 1892 with great detail and precision, it was possible to appreciate the big picture containing the conditions of each of the different elements that constituted the city of Burgos. This was of great significance when it came to establishing a plan for restructuring and implementing improvements. It was suggested that modest, practical and feasible solutions should be sought to perfect what already existed constantly and progressively, from the double perspective of ornamentation and hygiene. The result of the work carried out between 1891 and 1894 to draw up the topographic map of Burgos and the project for the general drain and sewer network was a 1:2,000 scale map, consisting of a total drawn surface area of almost three square metres, and several more detailed sheets at a scale of 1:200 [Archivo Municipal de Burgos 18-1583, August, 2nd, 1892]. The map drawn up by the two civil engineers reflects Burgos very precisely. It incorporates the names of the public streets and offers a complete image of the city in which we can appreciate in considerable detail the demarcation between the public and the private. All the city blocks are represented and the built-up areas within each one are clearly shown. The separation between each plot is indicated, with the private buildings being coloured light grey, while buildings of a public nature (including religious and military buildings) are highlighted through the use of dark grey and their internal distribution is also shown. In addition, this map constitutes an advancement with respect to the previous cartography. This was represented through the use of equidistant two-meter contour curves, as the aim was to offer an image that reflected as exactly as possible the relief of the city, so that the map could be used in the installation of a system of drains and sewers in the city, and to precisely retrace the streets. The proposal to align and straighten streets included numerous indications such as: the construction of new access routes into the city; providing access to the railway station; extending areas in the south of the city, where religious buildings predominated; straightening the streets in the historical centre of the city; restructuring the watercourses, etc. The municipal architect objected to these proposals, indicating the density of the population, the economic costs that would be incurred through expropriation of dwellings, and the impossibility of rehousing the displaced people in areas mostly dominated by the bourgeois middle class as the main obstacles. Therefore, the City Council continued with the system of partial alignment and straightening of streets. Besides, the economic situation made impossible to install a sewer system in the whole city, being the South part the most affected because of its isolation.

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1: Map of Burgos made up by Mariano Martín Campos y Eduardo Lostau in 1894. Source: Archivo Municipal de Burgos, Burgos, signature PL-372. 2. The change of the century: a new period for the city restructuring With the change of the century, Spanish cities experimented a population growth, which made necessary to establish a legislation to prevent anarchic expansion. In 1924, the Municipal Statute and Regulation of Works, Goods and Services were approved. It meant that municipalities with more than 10,000 inhabitants had to elaborate an Expansion Plan. At the same time, the importance of the heritage was in the public eye. Related to this issue, the law promulgated in 1926 introduced the concept of National Artistic Treasure, recognizing public utility, conservation, protection and custody of monuments and the defense of the traditional character of cities. Besides, it forbade the transformation of any element of the monuments without the permission of the authorities, thus preventing its demolition, modification or repair. Altogether, these bills acted as instruments for the population growth management, to control the expansion of the city and to plan the uses of the soil between the traditional areas and the new ones, a fact that allowed a quantification and regulation of expropriations, planning projects, licenses, etc... [Dávila Linares 1991, 102]. These three perspectives configured the first completed plan on city planning [Bassols Coma 1996, 53-90]. Numerous projects were launched in many cities although they were not carried out until the 1940s, among them Burgos [Andrés López 1999, 416-450]. The Government recommended Burgos to have an Urbanization, Reform and Expansion Plan due to the difficulties to assess building plans and to understand the city growth. In 1943, the commission selected a civil

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engineer: José Paz Maroto [Archivo Municipal de Burgos, 4031-1; Archivo Municipal de Burgos 18-4800]. 3. The heritage and the new plan of 1944 Maroto proposed a project with two parts: Interior Reform and Expansion Project. In order to carry out both of them, he made a preliminary study about the configuration of the city, because of its location between hillsides and where the Arlanzón River runs.This natural element caused the city had many problems to make changes, such as sanitation, network of roads or channeling of rivers. Maroto considered that the only possible interior reform to gain space in the historic part and to connect it with the new ones was an axis of traffic. The problem was that this change affected the streets next to the cathedral. In spite of this, the engineer considered the necessity to get rid of some historical buildings. In the case of the second plan, he wrote several memoirs that reflected the problems that prevented the implementation of the proposals. The first one was related to the heritage, because Burgos was considered at that time the city with the greatest monumental volume. The existence of historical buildings scattered indistinctly by the area of expansion, influenced in the future plan, overall in the design of the communication routes, which allowed a logical connection of the city center with the new part, and the sewers. The plan had to be adapted in most cases due to the obligation to respect them. The map shows how these buildings imposed the tracing of roads. Likewise, the author highlighted the railway system of the city, which could not be altered either. This factor was related to the third one, the absence of a traffic system that allowed a good communication of the city.

2: Conserved sheets of the map made up by José Paz Maroto. Source: Archivo Municipal de burgos, Burgos, signature PL-358-359-360 Nor did he forget the military role. As command, the installation of more military zones seemed indisputable, both in strategic matters and in relation to the rest of the city. In addition, he considered a rectification of the existing zones to get harmony in the new area. Some military structures looked like an absurdity for the expansion plan from the strategic point of view, because they would be in a residential sector. Another factor that was taken into account was the establishment of new industries. The industrial area should be included between the North Railway and independent parts of Burgos, so the space of its surroundings should be cleaned.

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Last but not least was the problem of floods. The channelling of the Pico and Vena rivers was the main reform in the expansion of the city since the 19th century. With the work of the Hydrographic Confederation, a big avenue [Oleogordia Montaña, Rodríguez García, Navarro Hevia, Castillo Novo 2006] was envisaged, a work that was not possible due to the poor precision of the plans until 1956. But who had the last word in this plan was the Academy of Arts of San Fernando [Archivo Municipal de Burgos AD-4032-1]. The Academy emitted its resolution on June 12, 1946. They specified that the traditional elements should be conserved; the proposed changes in the Interior reform for the sake of modernity put in danger the monumental heritage, although the expansion project was adequate. In reply, the Commission of Public Works of the City ordered on July 19, to make the necessary arrangements in order to adjust the pan to the pretensions of the Academy of Arts of San Fernando. But, Paz Maroto team refused the proposal and Antonio Revenga Carbonell become the new director. To avoid the previous situation, he created a new plan until 1956, where the historic center was not touched and the transformations of the different tributaries of Arlanzón were precisely marked. This was the plan definitely executed in the city. 4. Half a century of waiting to transform the city: the plan of Revenga Carbonell Due to the problems that we have alluded to in the previous point, on June 6, 1946, the need to proceed to the redefinition of the general plan of expansion and alignments was discussed, concluding its execution with the geography engineers, astronomers and surveyors of the Geographic and Cadastral Institute. This decision would result in money savings for the Consistory, a perfect registration of alignments and avoidance of waste of time. On June 26 the plenary session of the city council agreed to contract the drawing of the population plan of Burgos and its surroundings with the group of technicians that Antonio Revenga Carbonell, Geographical Engineer, directed [Archivo Municipal de Burgos li-250]. The plan made up by Revenga Carbonell reflects exactly what the Academy of Fine Arts of San Fernando asked for: the urban parcelling, both public and private. It incorporates the gazetteer of the public road thus establishes the limits between the public and the private, the typology of public spaces (streets, squares and parks), and pointed out the main public structures, such as churches, schools, hospitals or military centers. Landscaped spaces and trees planted on public roads were also represented. On the other hand, it was done in the representation of the altimetry, made at an equidistance of two meters, in a way that allowed the City Council to carry out the relevant works with the greatest possible security. Besides, in the proposal sent by Revenga Carbonell was something never made before: a conservation plan. He explained that it was necessary to reflect the physical reality of the city, which would change with the the running of time and such a plan would be useless and worthless, thus losing the effort and money invested. Likewise, its conservation let the study of the evolution of the city, as long as the conservation did not modify the original plan. Therefore, the conservation service would be in charge of respecting the originals and making the appropriate changes in other minutes, and from the conjugation of both an annual edition of the plan should be made that reflects the real situation of the city. Although this procedure involved a great expense and work, it was the most effective. Thanks to this plan, the changing of the city was possible, after a half century trying it. The most outstanding transformation, as it can be seen, is the channeling of the various tributaries that traversed the city and were to be diverted to the Arlanzón River. We assume that this change was possible to obtain the plot of the city, since until now had not been able

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to make any transformation in the historic center, as for example this, for the alleged historical considerations and the inaccuracy of the proposed reforms for not knowing exactly the situation of the buildings.

3: Map made up by Antonio Revenga Carbonell between 1946 and 1956. Source: Archivo Municipal de Burgos, Burgos, signature PL-40.

4: Sheets of the map made up by Antonio Revenga Carbonell with all rivers. Source: Archivo Municipal de Burgos, Burgos, signature PL-40.

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5: Sheets of the map made up by Antonio Revenga Carbonell with the rivers canalized. Source: Archivo Municipal de Burgos, Burgos, signature PL-40. Conclusions In this case, the continuous socio-economic changes and the necessity to adopt the urban legislation enacted since 1856 explain why for decades Burgos lived a conflict related to urban planning. However, it was not until the 1940s when regulations issued by the Housing Prosecutor's Office and the promulgation of the Municipal Statute forced the City Council to resume the controversy over internal urban planning and expansion of Burgos. Finally, the installation of an industrial zone, the growth of population and the need to clean up the center led to look for an expert, José Paz Maroto. His plan was based on the main characteristic that governed the configuration of the city: its orography, which had led to the continued rebuilding in the historic center and the beginning of uncontrolled construction on the borders. The challenge was in the demolition of traditional buildings and the proposal of real solutions to the expansion. Nevertheless, the feeling towards the heritage prevailed, having the demographic and industrial areas to adapt to the historical heritage that the city possessed, an element that makes the city what it is today. Bibliography ANDRÉS LÓPEZ, G. (1999). De las ordenanzas municipales al primer plan de la democracia: origen y evolución del planeamiento urbano de la ciudad de Burgos, in «Boletín de la Institución Fernán González», 218, pp. 416-450. ANDRÉS LÓPEZ, G.( 2000). La Castellana- Ciudad-jardín en Burgos, Burgos, Dossoles. AYMONIMO, C. (1978). Orígenes y desarrollo de la ciudad moderna, Ed. Gustavo Gili, Barcelona. BASSOLS COMA, M. (1973). Génesis y evolución del Derecho Urbanístico español. 1812-1956, Madrid, Montecorvo. BASSOLS COMA, M. (1996). El derecho urbanístico de la Restauración a la II República (1876-1936): crisis de los Ensanches y las dificultades para alumbrar un nuevo modelo jurídico-urbanístico, in Ciudad y territorio: Estudios territoriales, 107, pp. 53-90. BECERRA GARCÍA, J. M. (1999). La legislación española sobre patrimonio histórico, origen y antecedentes. La ley del patrimonio histórico andaluz, in V Jornadas sobre historia de Marchena. El patrimonio y su conservación, Marchena, pp. 9-30.

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Il cambio di secolo e il rinnovamento della città di Burgos (Spagna) attraverso la sua cartografia: il Novecento come modernità

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Real decreto-ley relativo al Tesoro Artístico Arqueológico Nacional. Gaceta de Madrid núm. 227, de 15/08/1926, pages 1026-1031. Departamento: Presidencia del Consejo de Ministros. Constitución de la República Española. Gaceta de Madrid núm. 344, de 10/12/1931, pages 1578-1588. Departamento: Cortes Constituyentes. Ley relativa al Patrimonio Artístico Nacional. Gaceta de Madrid número 145, de 25 de mayo de 1933, pages 1393-1399. Departamento: Ministerio de Instrucción Pública y Bellas Artes. Decreto declarando Monumentos Históricos – Artísticos, pertenecientes al Tesoro Artístico Nacional, los que se indican. Gaceta de Madrid nº. 155, de 04/06/1931, pages 1181-1185. Departamento: Ministerio de Instrucción Pública y Bellas Artes. Archivo Municipal de Burgos, Proyecto de ejecución de las obras necesarias para evitar en la ciudad de Burgos las inundaciones; file, 18 -924. Archivo Municipal de Burgos, El capitular Sr. Quevedo propone una moción para que se acuerde alguna distinción honorífica para el Ingeniero Ramón Aguinaga como autor de la traída de aguas a esta ciudad de Burgos; file, 2 -505. Archivo Municipal de Burgos, Proyecto de levantamiento de un plano general de la ciudad y estudio de la red de alcantarillado; 18 -1583, report of 20th September 1890. Archivo Municipal de Burgos Concurso de antepoyectos de ensanche y reforma interior de Burgos. Se declaró desierto, file 18-2775. Archivo Municipal de Burgos, Aprobación de las Ordenanzas para las construcciones de la zona de contacto que define el Reglamento de obras, y proponiendo a los Arquitectos García Mercadal, y al municipal José Luis Gutiérrez Martínez, para la ejecución del anteproyecto de urbanización y se nombre la comisión de Ensanche conforme a la Ley de 26 de julio de 1892, en relación con el artículo 17 del Reglamento de Obras de 14 de julio de 1924, file 18-2777. Archivo Municipal de Burgos, Proyecto de Urbanización General y saneamiento integral de la ciudad de Burgos. Ingeniero: José Paz Maroto. (Plan Parcial dentro del Plan General de Ensanche, Urbanización y Reforma de la Ciudad y sus barrios), file18-4800. Archivo Municipal de Burgos, Plan General de Ensanche y Reforma Interior de la Ciudad. (aprobado el 31 de mayo de 1994). Pieza 3º: Reclamaciones, su informe y resolución. Informes oficiales del proyecto. Aprobación municipal del Plan. Pieza 4º Plan de urgente e inmediata ejecución, file AD-4032/1. Archivo Municipal de Burgos, Comisión de Hacienda del 6 de junio de 1946. Libro de actas de 28 de mayo de 1946 a 29 de diciembre de 1949, file LI-250. Sitography OLEAGORDIA MONTAÑA, I; RODRÍGUEZ GARCÍA, R. NAVARRO HEVIA, J; CASTILLO NOVO, V. (2006). Estudio hidrológico del río Arlanzón a su paso por el término municipal de Burgos in U.D. de Hidráulica e Hidrología. E.T.S Ingenierías Agrarias. Universidad de Valladolid. Congreso Homenaje al Duero/Douro y sus ríos: Memoria, cultura y porvenir (2005). https://www.researchgate.net/profile/Joaquin_Navarro_Hevia/publication/237742977_Estudio_Hidrologico_del_rio_Arlanzon_a_su_paso_por_el_Termino_Municipal_de_Burgos/links/0046352c82c381074a000000/Estudio-Hidrologico-del-rio-Arlanzon-a-su-paso-por-el-Termino-Municipal-de-Burgos.pdf

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Il rinnovamento del centro città di Salamanca: due quartieri come casi di studio The renewal of Salamanca City Center: two neighbourhoods taken as a case study SARA NÚÑEZ IZQUIERDO, ROMÁN ANDRÉS BONDÍA Universitá di Salamanca (Spagna) Abstract La trasformazione urbanistica e architettonica di Salamanca, iniziata nel decennio del 1940, comportò il drastico cambiamento della configurazione della città fino a quel momento definita dentro le mura. Il flusso sociale e economico vincolato alla dittatura e la posteriore democrazia determinò un’espansione irregolare della capitale, caratterizzata per il sistematico allontanamento delle posizioni delle case per lavoratori e tutti quelli con ridotte possibilità economiche. L’aggressivo rinnovamento dei centrici quartieri Conejal e San Vicente nei decenni 1950 e 1980, rispettivamente, è un significativo esempio di questa pratica sviluppata in una città patrimonio dell’Umanità. Questo produsse uno smantellamento della vecchia trama urbana, l’espulsione dei vecchi abitanti nella banlieue e la perdita irreparabile di un importante patrimonio architettonico. In questa comunicazione studieremo questa particolare trasformazione, inedita fino ad oggi, e le conseguenze di queste scelte. The urban and architectural transformations in Salamanca (Spain) began in the 1940´s and involved the reshape of a city then limited by the wall. The irregular urban expansion was determined by social and economic factors, first linked with the dictatorship regime and after with the current democracy. The humble and working-class were forced to be sistematically located outside of the downtown area. The rampant urban renewalls in neighbourhoods such as Conejal and San Vicente took place in the decades of the 1950´s and the 1980´s and it represents two interesting samples of political, social and economic performs in a city designated as World Heritage site. The urban sprawl, the loss of a valuable heritage and the population displacement to the outer limits of the city were some of the effects that we confront in this paper. Keywords Rinnovamento, Salamanca, patrimonio. Renewal, Salamanca, heritage.

Introduction Salamanca was declared as World Heritage Site in 1988 and stands out for the architectural legacy of the 16th, 17th and 18th centuries. Recently, the architecture and the urban development of the 19th and 20th centuries have been the object of new interest. However, and despite the importance of these publications, there is still a lack of interdisciplinary studies from the cultural and urban planning point of view. This is one of the goals that we achieve in this communication, that is focused on the change experienced in two central areas of the historic city during the 60s and 80s of the 20th Century (Image 1).

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. 1: Situation of the two areas taken as a case of study on the aerial view of the city of Salamanca in 1946 and 2007. Source: Own elaboration on aerial photografies of PNOA 2007 and American Flight Serie A (1945-1946). 1. Historical context Established in western part of the Iberian Peninsula, during the 19th and 20th centuries Salamanca was a town of constant growth and relative prosperity. The location of the capital of Salamanca on the border with Portugal, made the city a forced passage for Napoleon's troops during the War of Independence (1808-1814). This circumstance meant the French invasion and the consequent destruction of its monumental patrimony. During the next century, the city was almost recovered from the loss of cultural heritage, although Salamanca was one of the most significant places during the first years of the Spanish Civil War (1936-1939). From 1939 to 1975 Spain was under Franco dictatorship. These years meant a frantic constructive activity in Salamanca and in the rest of the country, which was largely controlled by the regime agencies and by an increasingly powerful private initiative. The building activity continued in the next decades, coinciding with the Spanish Transition (1975-1982) and the first years of democracy controlled by a socialist government (1982-1996). 2. Heritage protection and 20th Century architecture The demographic growth of Salamanca supposed the transformation of the urban landscape and implied the appearance of new neighbourhoods in the suburbs. Throughout the 20th Century, an attempt was made to stop the disorderly and anarchic growth of the city through the drafting of a regulation plan. The economic difficulties, the shortage of unified criteria, the invalidity of some of the proposals, as well as the lack of definition, resulted in the drafting of seven urban planning from 1925 to 2004. The current one was passed on 2007. After the Spanish Civil War, the area included within the older part of the city limited by the walls renewed a large part of this zone. The northern and central parts of the historic center were located between Zamora, Toro, Azafranal, María Auxiliadora, Sancti-Spíritus, Plaza Mayor, Bandos, Mercado, Rúa Mayor streets and Mirat avenue (last one limits “El Conejal”). These streets became inhabited by rich social class. This was manifested, in the design of buildings in rationalist style and by the erection of historic buildings that conferred great

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uniqueness to the city. From 1960, and after the modification of the municipal ordinances, new architectural typologies were foreseen in those areas. Those were characterized by the development in height and subsequently by the massive construction inside the historic residential precinct.

1: Situation of the two areas taken as a case of study on a map contening, (inside out) the delimitation of the World Heritage Site zone, the Historical Site (BIC), and the Central Area for Protección in the Managment Plan of the Old City of Salamanca (2017). Dots represents the elements included on the list of protected buildings in the RPGOU (2017). Source. Own elaboration on data from the RPGOU and Managment Plan of the Old City of Salamanca (2017).

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Most of these works were laid out by the architects: Ricardo Pérez Fernández, Genaro de No Hernández, Lorenzo González Iglesias, Buenaventura Vicente Miñambres, Fernando Población del Castillo, Antonio García Lozano, Amando Diego Vecino, Ricardo Pérez Rodríguez-Navas and José Luis Izquierdo de la Torre. These architects among others carried out an intensive work along the city from 1939 onwards. As we advance in previous paragraphs, the vast heritage of Salamanca has been goal of protection and distinction since the early 20th Century. One of the first recognitions of this age dates from the year 1935, the year in which the Plaza Mayor was declared as National Monument for being the “most decorated, proportionate and harmonious of all of its time” [Senabre 2002, 115]. Years later, on April 1951, the recognition of the Cathedral district or Barrio Viejo as an Historic-Artistic Site was made public. The declarated area was situated between the avenues of the Rector Esperabé and the San Pablo and the streets Arroyo de Santo Domingo, Caldereros, Compañía, Las Úrsulas and Libreros. It has special interest for our research because San Vicente, the second case of study, was part of it. One of the most significant actions carried out since the democratic stage of our country was the drafting in 1984 of the Special Plan of the Historical Site and the General Urban Planning of the city. With the coming years a review of the plans was needed. This work was carried out in 2007 and meant the extension of the catalogue of protected buildings, among these there were some currently preserved in the area of “El Conejal” (Image 2). Thus, the case of Salamanca is, somehow, not so different from others experiences in Spain and also out of our borders, such as Italian cities such as Bergamo, Bologna, Como o Gubbio, between others [Ciardini, Falini 1978]. 3. Introduction. Case studies. Methodology In order to carry out this work, the authors have consulted documentation guarded in the Municipal Archive of Salamanca, the Archive of the Official Association of Architects of León, the Provincial Historic Archive of Salamanca and the newspaper references, all those documents have constituted the main sources managed at the time of elaborating this text. Furthermore, for the development of our proposal we have started from the first plot map of the city designed between 1930 and 1934, and then we have contrasted with the population and economic data of the two areas from that decade to the present. 3.1 Case studio 1. “El Conejal” 3.1.1 Limits “El Conejal” is an area placed to the North and within the last walled compound. It is bounded by Mirat avenue and Zamora, Sol Oriente and Arco streets, and it measures 3.72 hectares. According to the documents, before the 60s this space was full of condominiums and single-family houses of two and three heights characterized by symmetry facade disposed with simple hollows and executed with painted mortar still existed. The municipal architect of that period, Lorenzo Gonzalez Iglesias, pointed out quite emphatically that “this was one of the areas of the interior of the city more precise of strong reform that sanitize it (...), the word “Conejal” was used to allude the high density of the inhabitants and the poverty of the constructions” [La Gaceta 1950, 4]. Thus, “it was a shady and ruinous neighbourhood, more typical of uncontrolled suburbs constructions” [El Adelanto 1956, 1]. Undoubtedly, the image of this area has to be shocking for the population, due to the fact of its strategic location within the walled compound, even if it had not been an object of interest until that moment. This situation

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contrasts vividly with the urban areas to the south of the “El Conejal”, which, between 1940 and 1947, became one of the most requested spaces to rest by the population with higher rents.

3: Different aerial views, maps and tables showing the transformation in “El Conejal” from the 1930s until today. Source: Aerial photographs of PNOA 2007 and American Flight Serie A (1945-1946). Own elaboration maps representing the urban structure, built area and heights from the first urban plot of 1930 and the cadastre data of 2015. The table summarize the numeric data reflected on the maps. Thereby, the neighbourhood in question was a barrier for the urban renewal given its closed structure in contrast with the new spaces reshaped after the Civil War. This situation provoked low permeability between North and South, presenting numerous streets without continuity. The area was also characterized, in that epoch, by lower relative incomes, judged by the cost of the urban rentals, compared to the rest of the areas in its surroundings. Nevertheless, it was only after 1966 that the appearance of this zone was definitely transformed with the opening of new streets and the raise of new buildings. This statement is

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also compatible with the existence since 1949 of previous constructions, distinguished by its four heights, the use of the Villamayor sandstone in combination with other and diverse materials such as small tiles or painted mortar, and finally the incorporation of balconies across its facades1 (Image 3). 3.1.2 Urban planning and proposals To carry out this transformation they created a series of plans that specifically affected this area. This happened in 1956, when the Council firstly proposed a specific plan for this neighbourhood. With this scope, an extensive and extraordinary budget was forseen. It included the massive incorporation of new buildings with four to seven floors, designed with distinguished traditional sandstone. It was established with the purpose of an improved formal relationship with other construction near this area. One of the proposals that was incorporated with the plan at this stage, and that finally took place, was the landscaped square of 1650 sqm known as Campillo. This first idea never went beyond a mere intention due to the economic and administrative problems. Two years later, in 1958, the Town Hall reactivated this initiative adapting the suggestion to the new situation including new approaches according the new Law on Land Regime and Urban Regulation of May 12, 1956. Once again, the will of the Council was incapable of overcoming the problems, and it was not until 1963 when it was given the green light on the application about the extraordinary budget. Having said that, starting in 1966 the plan began to have a real impact on the execution of new buildings according to the new urban frame. 3.2 Case studio 2. San Vicente 3.2.1 Limits For this study we have established the area that is indicated by the boundaries of the San Vicente, San Ambrosio, Cuesta de la Encarnación, Cruz, Vaguada de la Palma, and Empedrada streets. This means that the area is limited to the West by the hillside of San Vicente and the Tormes river, to the North by the Fonseca street, and to the East by the Vaguada de la Palma park. The area measures 4.00 hectares. 3.2.2 Initial situation The origins of the capital of Tormes are linked to an Iberian fortified settlement on the hill of San Vicente. Since then, and mainly in the 12th Century, with the increase of the inhabitants of the city, this area became attractive for the establishment of colleges, churches, and palaces, given its proximity to the historical university buildings. The attractiveness of this zone was notably damaged in the 19th Century. In this time, French troops attacked much of the religious and university buildings located in the southern part of the city, among which was included the monastery of San Vicente. The siege of the hills in 1812 and the explosion of the monastery, implied the ruin of the entire neighbourhood. The abandonment derived from this extreme situation led to the fact that it was the only part in the inner walled area of Salamanca exposed to illegal occupation. Thus, San Vicente grew as a result of the settlement of humble families, who in many cases self builte homes with poor quality materials. In fact, this gave the impression that each and every one was built where they wanted it and to the degree in which they were capable [El Lábaro 1909, 4]. The City Council,

1 Archivo Municipal Salamanca, Caja 6366 Expediente 41; Caja 6265/1 Exp. 491; Caja 6679 Exp. 829.

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conscious of the impossibility of demonstrating that it was public land, closed its eyes to a problem that lasted until the mid-eighties (Image 4).

4: Different aerial views, maps and tables showing the transformation in San vicente from the 1930s until today. Source: Aerial photografs of PNOA 2007 and American Flight Serie A (1945-1946), own elaboration maps representing the urban structure, built area and heights from the first urban plot of 1930 and the cadastre data of 2015. The own elaboration table summarize the numeric data reflected on the maps. 3.2.3 Urban planning and proposals Unlike the previous case, and for the reasons already pointed out, the first proposals for improvement in the San Vicente area refers to a later date. Indeed, in 1965 the new Plan of the University Area of Salamanca was approved. The document already contained some of the guidelines that are going to be expresed in next proposals, such as the complete renovation of the fabric in the area of San Vicente, the new public park in La Vaguada de la Palma, or the worries about the new building landscape confronting with the historical city and monuments.

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This plan never came for real, once it overlapped in time with the new general Plan of the city in 1966. Thus, the only regulations applied to this area were established and approved in 1984 in the General Plan of Urban Planning (PGOU) and in the Special Plan for the declared area as Historic Site. This plan was considered an important moment at the time and placed Salamanca at the forefront of the protection of historical sites in Spain. The local council strong will for change in the area was supported by many public administrations. This situation finally generated, through a very acclaimed pilot project, an important flow of public investment with which to provide the space with new infrastructures. However, with regard to the housing initiative, the City Council allowed the private participation. It meant again the expulsion of the original and low income residents of this area, only to be substituted by private promoters that gave way to the usual increase of the general floor area and prices. Thus, the transformation of this area has been substantial, despite the commitment to maintain urban traces. Conclusion In conclusion, this study confirms that in both studied areas there was an aggressive renewal of the urban fabric. Thus, the first proposals began with public initiatives that included social housing as a response to the relocation of the inhabitants in the affected areas. The reality points out that the private promoters carried out the main volume of construction and the housing projects. Nevertheless, this situation meant the expulsion of the social group that, at the beginning, was intended to be protected. The increase of the prices and the incorporation of new architectonic designs in those zones led to the higher rents. The transformation was also affected and reflected in different urban levels. It is well noted that while in the case of “El Conejal” the space was densified and notably increased its commercial activity, on the contrary, in San Vicente, even with a bigger density, resulted in the opposite. In summary, through these two examples it is confirmed that the transformations of the city of Salamanca in the 1960s and 1980s respond to factors that go beyond the heritage values. Bibliography Boletín Oficial del Estado, 19-IV-1951, p. 1775. CIARDINI, F. e FALINI, P. (Eds.) (1978). Centri storici - Politica urbanistica e programmi di intervento pubblico: Bergamo, Bologna, Brescia, Como, Gubbio, Pesaro, Vicenza. Milano, Mazzotta DESPONDS, D. (2010). “Les enjeux urbanistiques et sociaux autour d'une opération de rénovation urbaine en périphérie parisiennel'exemple de la Croix-Petit à Cergy”. Ciudades: Revista del Instituto Universitario de Urbanística de la Universidad de Valladolid. Universidad de Valladolid. Valladolid, nº 13, pp. 83-102. DÍEZ ELCUAZ, J. I. (2003). Arquitectura y urbanismo en Salamanca (1890-1939). Salamanca, Colegio Oficial de Arquitectos de León. FRANCHINA, L. M. (2010). La nuova questione dei centri storici in Italia. Una ricognizione: nella letteratura, nelle politiche urbanistiche, nei progetti. Milano, Politecnico di Milano. Tesi di laurea magistrale. GAGLIARDI, C.; TOURINHO, D. M.; RICCI, M. (2013). Recupero dei centri storici. Brasile e Italia, esperienza a confronto. Roma, Gangemi. GARCÍA CATALÁN, E. (2016). Una ciudad histórica frente a los retos del urbanismo modernos: Salamanca en el siglo XIX. Salamanca, Ediciones Universidad de Salamanca. El Adelanto, 5-IX-1956, “La planificación del barrio de El Conejal”, p. 1. El Lábaro, 24-II-1909, “Crónicas. Peñuelas y Milagros”, p. 4. La Gaceta Regional, 19-XI-1950, “El Conejal, el barrio más céntrico y su reforma”, p. 4. La Gaceta Regional, 21-IV-1951, “El barrio Viejo de Salamanca, conjunto histórico-artístico”, p. 3. La Gaceta Regional, 5-IX-1956, “La planificación del barrio de el Conejal”, p. 1. La Gaceta Regional, 20-VII-1958, “El proyecto del barrio de San Juan de Sahagún”, p. 3.

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La Gaceta Regional, 20-I-1980, “Salamanca de norte a sur y de este a oeste”, p. 4. La Gaceta Regional, 23-IV-1980, “Han surgido discrepancias entre el Ayuntamiento y sus habitantes”, p. 9. CASADO, P. La Gaceta Regional, 6-V-1980, “Los vecinos dijeron no al Ayuntamiento”, p. 5. La Gaceta Regional, 28-X-1983, “Orden de derribo para casas del barrio San Vicente”, p. 9. La Gaceta Regional, 29-III-1992, “En el último año se han declarado en ruina más de 60 edificios”, p. 8. MARTÍN VASALLO, J. R. (1981). Las elecciones a cortes en la ciudad de Salamanca, 1931-1936: un estudio de sociología electoral. Salamanca, Universidad de Salamanca. NÚÑEZ IZQUIERDO, S. (2014). La vivienda en el antiguo recinto amurallado de Salamanca durante el primer franquismo (1939-1953). Salamanca, Centro de Estudios Salmantinos. NÚÑEZ IZQUIERDO, S. (2015). “La conformación del estilo representativo de Salamanca durante la posguerra en base a la construcción de una de las manzanas más céntricas de esta localidad”. Cuadernos de Arte de la Universidad de Granada. Universidad de Granada. Granada, nº 46, pp. 135-152. RUPÉREZ ALMAJANO, M. N. (1992). Urbanismo de Salamanca en el siglo XVIII. Salamanca, Colegio Oficial de Arquitectos de León. SENABRE LÓPEZ, D. (2002). Desarrollo urbanístico de Salamanca en el siglo XX. Planes y proyectos en la organización de la ciudad. Valladolid, Junta de Castilla y León, Consejería de Fomento.

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La conquista della notte: l’illuminazione a gas a Napoli tra programmi urbani e logiche imprenditoriali, 1839-1893 The conquest of night: gas lighting in Naples between urban programs and entrepreneurial logics, 1839-1893 DAMIANA TRECCOZZI Politecnico di Milano Abstract A valle delle prime sperimentazioni sull’illuminazione urbana, dapprima a olio e poi a gas, condotte a Napoli sin dai primi anni dell’Ottocento, tra il 1839 e il 1893 si assistette a una significativa espansione delle canalizzazioni in alcuni luoghi della città a partire dagli stabilimenti per la produzione del gas. In particolare, la localizzazione di tali opifici – nel borgo di Chiaia prima e nella zona de “le paludi” poi – denuncia il concretizzarsi, da un lato, dei grandi programmi urbani borbonici, continuati anche dopo l’Unità, e dall’altro l’obbedienza a vincoli imprenditoriali imposti dalle società concessionarie degli appalti. Il contributo propone dunque una rilettura dell’avvento dell’illuminazione a gas a Napoli nell’ambito delle logiche di espansione e consolidamento dei poli borghese e industriale-operaio della città attraverso la scelta della localizzazione degli opifici. Since the early decades of the 19th century in Naples, early experimentations of urban enlightenment were first led with oil lights and then with gas ones. Between 1839 and 1893 a significant expansion of gas canalizations occurred. These served only some areas of the city, branching off from the central gas factories. However, the localization of those factories – at first in the borgo of Chiaia and then in the area of “the swamps” – demonstrates the achievement, on one hand, of the Bourbon’s great urban programs, brought on even after the Italian Unification, and on the other hand, the obedience to strict entrepreneurial constrains imposed by the concessionaires of the gas lighting contracts. Therefore, the current paper suggests a new interpretation of the advent of gas lighting in Naples. This in fact will be analyzed through the choice of the localization of its factories, which reveals the coherence with the urban logics regarding the expansion and creation of new bourgeois, and industrial and workers’ city poles. Keywords Illuminazione a gas, trasformazioni urbane, Napoli. Gas lighting, urban transformations, Naples. Introduzione Finora il tema della introduzione e distribuzione dell’illuminazione a gas a Napoli è stato affrontato in modo piuttosto frammentario e mirato, ritrovandosi la sua trattazione in pochi testi celebrativi [Le compagnie del gas in Napoli 1962] o amatoriali [Toma 2007]. In altri casi l’argomento è stato indagato dal punto di vista delle discipline economiche [Bartoletto 2000] le quali, benché indispensabili nell’analisi di processi che rimangono in buona parte di natura imprenditoriale, non consentono di coglierne l’inserimento in logiche urbane, e in alcuni casi regnicole, più ampie. In altre parole, manca ad oggi uno studio dell’argomento nell’ambito

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della storia delle trasformazioni urbane che, proprio nel XIX secolo, ebbero impatto e rilevanza tali da condizionare profondamente lo sviluppo di Napoli fino e oltre il Novecento. La singolarità del dispiegarsi del fenomeno dell’illuminazione a gas in ambito partenopeo va colta non tanto nella sua precocità, peraltro piuttosto mitizzata, quanto proprio nelle logiche che sottendono alle scelte che ne hanno determinato l’espansione coerentemente con le politiche urbane del tempo, integrandosi perfettamente con esse. L’obiettivo del presente contributo, dunque, lungi dal ripercorrere la storia dell’implementazione dell’illuminazione a gas a Napoli, punta a mostrare come tale vicenda, in apparenza parallela e distaccata da quella più nota delle trasformazioni urbane ottocentesche, abbia invece con quest’ultima interessanti e straordinari punti di tangenza. 1. Le trasformazioni dell’area occidentale e l’opificio di Vico Cupa a Chiaia A partire dal 1839, Ferdinando II di Borbone cominciò a dare una forte impronta trasformativa alla città di Napoli. Proprio in tale anno, infatti, questi redasse le Appuntazioni per lo abbellimento di Napoli con le quali avrebbe definito più chiaramente la visione urbana verso la quale voleva orientare la sua capitale [Buccaro 1985, 248-52]. In quegli ottantanove punti erano già racchiusi in nuce tutti i criteri di quegli interventi che, dilatandosi per decenni, sarebbero stati condotti negli anni successivi, anche in seguito all’Unità. Nell’idea di Ferdinando II Napoli doveva essere ampliata, riorganizzata ed elevata ad un grado di decoro che si confacesse all’ormai ritrovato rango di capitale e che rispondesse alle nuove esigenze della società borghese. I nuovi confini urbani, travalicando le vecchie mura, erano fissati dal muro finanziere che entro il suo perimetro già includeva, oltre il nucleo cittadino, le nuove aree di espansione a occidente ed oriente, destinate rispettivamente a nuovi quartieri residenziali e a polo industriale. La parte più antica e baricentrica della città sarebbe stata, invece, lasciata alla classe borghese: così lungo le principali strade, da rettificare e in alcuni casi ampliare, le «case cadenti» avrebbero dovuto lasciare il posto a più decorosi edifici, mentre le classi meno abbienti sarebbero state delocalizzate da Chiaia e da Santa Lucia a Posillipo e Bagnoli a ovest, nonché dalla Marinella alla zona dei Granili a est [Buccaro 1985]. Se dunque nel centro si consolidava la vocazione residenziale borghese, ai suoi margini si creavano, nelle aree di espansione, nuovi poli popolari, deputati ad ospitare marinai e, più tardi, operai, venendo in seguito votati all’industria. Mentre, lentamente, e in coerenza con quanto indicato nelle Appuntazioni si avviavano i lavori sul tessuto urbano, Ferdinando II intraprendeva altri importanti programmi di rinnovamento della città in virtù dei principi di «igiene, sicurezza e magnificenza» imposte dal modello parigino di stampo illuminista, importato dai napoleonidi qualche decennio prima [Mautone 1997, 67-74], ma i cui effetti si sarebbero protratti a lungo a Napoli. Tra questi, oltre al miglioramento del decoro e alla realizzazione dell’impianto fognario, era ricompreso quello dell’illuminazione stradale a gas. Già in precedenza si era cercato di diffondere quella a olio per le strade di Napoli, sperando di aumentarne la sicurezza pubblica, ma gli alti costi e l’opposizione di coloro i quali traevano maggiori vantaggi dall’oscurità, ne ostacolarono e ritardarono la distribuzione fino ai primi anni dell’Ottocento [Cutolo 1928]. Ancora intorno al 1839, ad illuminare le strade non vi era che qualche lanterna a olio [De La Ville Sur-Yllon 1897], il che spinse Ferdinando II a inserire, nelle stesse Appuntazioni, la disposizione secondo la quale «Le botteghe devono avere due riverberi alle loro porte, e tenerli accesi (per via Toledo, e Chiaia) fino alle ore quattro della notte» [Buccaro 1985, 251]. Di lì a poco, però, si sarebbe registrata una consistente svolta: redatto nel 1838 l’«istrumento di appalto dell’illuminazione del gas» tra il sindaco Giuseppe Caracciolo e il Cav. Giovanni

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De Frigière – autore nel 1837 dell’esperimento di illuminazione del portico di San Francesco di Paola con ventinove lanterne a gas – dal 1° gennaio 1839 sarebbe decorso l’appalto per la fornitura di quindici anni di servizio di illuminazione a gas e di sei a olio per la città di Napoli [Le compagnie del gas 1962]. Nel documento stesso, perlatro, emerge la coerenza della politica borbonica nell’imporre in tutte le nascenti industrie del tempo lo sfruttamento esclusivo delle risorse regnicole [Penta 1935, 26]. Così come per il ferro, che doveva essere prelevato e lavorato nella fonderia di Mongiana, nel processo del cracking dell’olio per la produzione del gas andava rigorosamente utilizzato olio d’oliva giacché abbondante nel Regno, venendo invece vietato l’uso del carbone fossile, da importare dall’Inghilterra.

1: Pianta della Città di Napoli delineata nel 1827 da Giosuè Russo, 1827. In rosso le strade da illuminare a gas secondo il contratto del 1838 e la localizzazione dell’opificio di via Cupa di Chiaia. Naturalmente, anche la selezione delle strade destinate alla distribuzione delle lanterne coincideva con quelle dove, coerentemente con i programmi urbani, erano stati previsti più ampi interventi di sistemazione. Cosicché, nei primi quindici giorni, si sarebbero installate lampade ad olio presso il Palazzo Reale e il primo tratto di via Toledo e, nell’arco di un anno, a gas, nelle principali vie (fig. 1). Dunque in primis sarebbero stati canalizzati i luoghi della corona e poi quegli assi viari gravitanti attorno ad essi e destinati alla nuova borghesia, ovverosia Santa Lucia, Chiatamone, Vittoria e Riviera di Chiaia.

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Proprio tali aree, infatti, erano ricomprese nei grandi progetti di espansione occidentale, avviati già negli anni ottanta del Settecento con la realizzazione della Villa Reale e la demolizione della porta di Chiaia. Inoltre, rientrava nel programma anche il collegamento di tali aree con la strada della Marina attraverso la sistemazione della salita del Gigante, della via Santa Lucia e del Chiatamone, nonché il miglioramento del flusso tra il litorale e i quartieri più interni di Chiaia tramite la nuova strada della Pace che, approvata nel 1853 su progetto di Errico Alvino, avrebbe collegato il Chiatamone con il Largo di Santa Maria a Cappella [Buccaro 1985, Buccaro, Matacena 2004, Mangone 2017]. Poco più tardi, numerosi sarebbero stati anche i progetti per la realizzazione di nuovi e ampi quartieri borghesi tra i quali vale la pena menzionare quello del 1859 previsto per l’area compresa tra la Riviera di Chiaia e il corso Maria Teresa e firmato da Errico Alvino, Luigi Cangiano, Francesco Gaudavan, Antonio Francesconi, Francesco Saponieri, che influenzerà profondamente le successive proposte fino alla sua definitiva esecuzione [Alisio 1978, 127; Mangone 2009].

2: Progetto per la illuminazione a gas della strada della Pace, 1858. Archivio Municipale di Napoli. Intanto, all’illuminazione pubblica a gas, divenuta ormai parte integrante dell’arredo urbano delle vie borghesi, si stava conferendo una importanza, anche decorativa, via via crescente. Così, negli anni cinquanta dell’Ottocento a via Toledo, nel corso dei lavori di sistemazione e liberazione dagli ultimi frammenti di murazione aragonese, oltre alla dotazione di un approvvigionamento idrico e dell’incanalamento e scarico delle acque, furono contestualmente installati, sotto la direzione dell’architetto municipale Carlo Paris, eleganti candelabri in ghisa prodotti dall’Opificio di Pietrarsa [Buccaro, Matacena 2004]. Allo stesso modo, la via della Pace (oggi via Morelli) fu ben presto dotata di elementi illuminanti, come

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testimonia un progetto approvato nel 1858 (fig. 2). Si tratta di un disegno di grande interesse, sebbene estremamente scarno nella rappresentazione dei volumi degli edifici e delle strade, come d’uso al tempo per disegni prettamente tecnici. In esso i piccoli cerchi rossi indicano il posizionamento delle lanterne, mentre leggere linee nella mezzeria delle strade forniscono la lunghezza delle canalizzazioni. Non avulsa da tali logiche programmatiche di trasformazione urbana poteva essere la localizzazione dello stabilimento atto a produrre il gas. Pertanto, nel contratto si suggeriva, per ragioni di sicurezza, di edificarlo in zona poco abitata, e possibilmente all’Arenaccia che ben presto sarebbe stata deputata alle industrie. Ciò nonostante, nel 1839 si avviò l’edificazione dello stabilimento a Chiaia, e precisamente in Vico Cupa, su un terreno dato in cessione dalla stessa municipalità, non distante dalla Chiesa di Santa Maria in Portico. Evidentemente la scelta della società appaltatrice era stata determinata da una valutazione economica dal momento che l’Arenaccia sarebbe stata troppo lontana dalle aree pattuite per l’illuminazione, e – poiché esse coincidevano anche con i quartieri più ricchi della città – altrettanto lontana da quello che poteva essere un produttivo bacino di utenza. Purtroppo, però, le ottimistiche aspettative furono ben presto disattese, mostrandosi i privati restii al cambiamento [Schivelbusch 1994] al punto che, come denunciò lo stesso De Boissieu – che intanto aveva sostituito De Frigière – taluni cominciarono a vietare l’uso di lanterne a gas nei propri locali per il timore di eventuali esplosioni e incendi, o più banalmente, per il suo insopportabile odore [Le compagnie del gas 1962]. In definitiva, il 28 maggio 1840 si concluse la costruzione dello stabilimento per la produzione di gas in vico Cupa a Chiaia, il che avrebbe reso possibile avviare la canalizzazione delle strade prestabilite. In generale, i lavori sarebbero proceduti a rilento durante tutti gli anni della durata dell’appalto, che secondo il contratto del 1838 sarebbe scaduto nel 1853. Tuttavia, nel 1841, con la costituzione per trent’anni della Compagnia di illuminazione a Gas della Città di Napoli, con nuovo amministratore Alfonso Pouchain, si sarebbe avuto un prolungamento dell’appalto per l’utenza privata al 1871. Poiché però tale estensione avrebbe comunque impedito al Municipio di cedere a terzi l’opificio e le canalizzazioni realizzate, nel 1854, pur contestando i grandi rallentamenti nella distribuzione delle lanterne, questo si trovò costretto a estendere il contratto al 1871 anche per l’illuminazione pubblica [Savarese 1861, Le compagnie del gas 1962]. 2. Dalla Società Pouchain alla Società Parent, Schaken & Co.: la delocalizzazione dell’opificio nella Napoli orientale Con l’Unità d’Italia la necessità di portare a termine l’illuminazione di Napoli divenne una questione urgente, ma la Società Pouchain, negli anni, non aveva dato prova né di puntualità né tantomeno di celerità. Sussisteva, però, ancora il contratto del 1854 che rendeva impossibile indire una nuova gara d’appalto per le stesse aree. Tuttavia, nel tentativo di trovare una soluzione all’impasse, il Sindaco Giuseppe Colonna, principe di Stigliano, decise di indire una nuova gara d’appalto per l’area esterna a quella di competenza di Pouchain, con l’accordo che una volta estinto il contratto nel 1871 tutta la città sarebbe stata appaltata dalla società vincitrice [Le compagnie del gas 1962]. Alla gara parteciparono cinque concorrenti: due si ritirarono immediatamente, rimanendo così la Compagnia Accini [Alfieri 1860], Emilio Hemery come rappresentate della Casa Parent, Schaken e compagni e, naturalmente, la Compagnia Pouchain. Quest’ultima, dovendo temere che la situazione potesse evolvere a proprio discapito – visto anche ciò di cui la si accusava e le soluzioni che si proponevano a suo danno [Savarese 1861] – il 10 febbraio

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1862 cedette alla Casa Parent, dietro compenso, gli impianti ed i diritti derivanti dal contratto di appalto del 1854. Cosicché il 24 marzo fu deliberata, nel consenso generale [Savarese 1861], l’aggiudicazione della gara da parte della Compagnia Parent, mentre il 12 maggio fu stipulato il contratto – con durata fissata in sessanta anni [Comune di Napoli 1862, 5] – con la neocostituita “Compagnia Napoletana di illuminazione e scaldamento col gas” di Parent and Co., con Hemery direttore e Parent presidente [Le compagnie del gas 1962]. Nei progetti presentati alla gara, entrambe le società – sia la Parent, vincitrice, sia la stessa Pouchain – avevano proposto una delocalizzazione dell’opificio dalla sede di vico Cupa, da utilizzarsi, invece, esclusivamente per la direzione e gli uffici fino a tutta la durata della concessione fissata per il 1880. Il motivo dovette risiedere in una possibile obsolescenza dell’impianto, o più probabilmente, nell’impossibilità, per quest’ultimo, di essere ampliato nel tempo per sopperire alla crescente richiesta delle utenze. Così, all’art. 9 del capitolato, si leggeva: «Il suolo necessario per gli opificii sarà sulle sponde del Sebeto, vicino la strada Arenaccia, o in quelli circostanti siti, scelto di accordo e consegnato ai concessionarii dal Municipio» [Comune di Napoli 1862, 7-8]. Lasciando che il vecchio stabilimento fosse usato per altri fini «non escluso quello di serbatoio di gas, restando loro solamente vietato di servirsene per la fabbricazione del detto gas» [Comune di Napoli 1862, 9], si riproponeva dunque, come nel lontano 1838, l’Arenaccia come luogo dello stabilimento, coerentemente con la sua identificazione come polo industriale nell’ambito della espansione urbana a oriente. Tali aree erano, infatti, le uniche destinabili a tali fini, essendo la città perimetralmente confinata da colline nelle altre direzioni e dotata di zone edificate già troppo densamente abitate. In più si sarebbe approfittato della contestuale volontà, a partire dagli anni sessanta dell’Ottocento, di ampliare il porto verso ovest il cui collegamento con l’area, già facilitato dalla sistemazione della strada del Piliero, sarebbe stato reso ancora più diretto dalla realizzazione di un boulevard di raccordo tra la strada del Piliero e il ponte della Maddalena. Se la proposta di tale nuovo asse di raccordo compare già nel progetto di Pasquale Janni del 1853, essa fu ulteriormente sviluppata da Domenico Cervati – nella cui proposta del 1862 addirittura il “Nuovo Grande Porto” sarebbe stato collocato di fronte alla spiaggia dei Granili – per essere poi ripresa da Giustino Fiocca nel 1863. Numerosi furono anche i progetti che inserirono lo sviluppo del porto in un più ampio quadro urbano, prevedendo lungo la costa l’insediamento di impianti industriali e quartieri operai, tra quali vale la pena menzionare quello di Luigi Giura del 1861 e le proposte di Errico Alvino e Adolfo Giambarba, in qualità di membri della Sezione di Architettura della Società degli Scienziati, Letterati e Artisti di Napoli, nel progetto per il concorso per il nuovo piano regolatore generale del 1871, terminato senza vincitori. Nonostante le numerose proposte, alcune trasformazioni nell’area portuale si avvieranno solamente nell’ultimo quarto di secolo [Menna 1994]. Tuttavia, la possibilità di sfruttare tali aree orientali come nuovo polo industriale fondava su due condizioni preliminari: la bonifica dei luoghi e la realizzazione di grandi assi stradali di collegamento. In riferimento a questi ultimi, a partire dagli anni quaranta dell’Ottocento si avviarono i lavori per la predisposizione, lungo il tracciato delle mura orientali aragonesi da proseguire fino a via Foria, della cosiddetta via dei Fossi – attuale corso Garibaldi – la cui realizzazione era stata resa ancora più urgente dalla inaugurazione della stazione di testa della prima strada ferrata italiana, la Napoli-Portici. Solo negli anni sessanta dello stesso secolo fu aperto il tratto conclusivo della strada – contestualmente all’apertura della Stazione Centrale delle Ferrovie Meridionali – definitivamente completato vent’anni dopo. Ugualmente importante era poi la strada sull’alveo dell’Arenaccia, la cui realizzazione, avviata già nel

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1836, avrebbe consentito un raccordo diretto tra città nord-orientale e fronte costiero, requisito indispensabile per la industrializzazione di tali luoghi [Buccaro 1985].

3: F. Schiavoni, Stazione Centrale. 2° Esemplare, 1874 con progetto a firma di A. Giambarba del 1885. Comune di Napoli, Officina UrbaNa. Nell’area de «le paludi» è chiaramente visibile il «gazometro». Gli insediamenti nell’area proseguirono per anni senza un progetto ordinatore, benché ne fossero stati presentati alcuni nel corso degli anni, lasciando la questione aperta fino alla fine del secolo [Buccaro 1985, 154-8]. Tuttavia ad oriente cresceva la forte connotazione industriale con la costruzione dell’edificio dei Granili, su progetto di Ferdinando Fuga del 1779, destinato a contenere granai pubblici e arsenali e l’apertura nel 1840 del Real Opificio Meccanico di Pietrarsa, in prossimità della Napoli-Portici [Buccaro, Matacena, 2004]. A questi si sarebbe aggiunto, consolidandone il carattere industriale, il nuovo stabilimento della Società Parent, edificato in breve tempo su un lotto non lontano dalla foce del Sebeto (fig. 3) inaugurato il 21 novembre 1863 ed in servizio a partire dal mese dopo. In ben 55.000 metri quadrati di superficie erano presenti tutti i locali necessari alla distillazione e conservazione del gas, ma in particolare, vi si trovava anche una «tettoia per lo spegnimento del coke». Infatti, sin dal contratto del 1862, era stato finalmente deliberato l’uso del carbone fossile per l’estrazione del gas [Comune di Napoli 1862, 10], che fino ad allora era stato usato solo illegittimamente. Lì, nel tempo, l’impianto avrebbe potuto essere ampliato di pari passo con le crescenti esigenze [Le compagnie del gas 1962, 208]. Una volta raccordato il nuovo opificio dell’Arenaccia con il Palazzo Reale, fu possibile anche riprendere le operazioni di canalizzazione: entro il 1864 era stato servito il quartiere di Chiaia

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e quello di San Giuseppe; nel 1866 via Garibaldi; nel 1867 la Stazione centrale, nel 1869 la via dell’Infrascata e il corso Vittorio Emanuele; nel 1874 si installò l’impianto nel Rione Amedeo, finalmente in costruzione [Le compagnie del gas 1962]. A questi stessi anni, e precisamente al 1878, risale un disegno sulla Illuminazione a Gaz che raffigura la sezione San Ferdinando, inclusa l’area attorno a Castel Nuovo di cui si stavano conducendo le demolizioni degli antemurali (fig. 4). Per la sua cura estetica è possibile supporre che si trattasse di una proposta – piuttosto che di un rilievo – di implementazione della canalizzazione dell’area di San Ferdinando da estendersi anche nei più angusti vicoli del quartiere. Il disegno, singolare per la precisione e il dettaglio, non solo delle architetture e degli spazi verdi, ma anche per la numerazione degli elementi illuminanti, fu redatto dall’ingegnere-architetto Giovanni Malaspina. Questi compare in altri documenti coevi come Ispettore quiescente del Genio Civile, nonché come presidente della Sezione Idraulica del IV Congresso degli Ingegneri Italiani, probabilmente operante in Italia settentrionale. Incuriosisce, in particolare, la sua seconda qualifica, per la quale si potrebbe supporre che fosse stato chiamato per risolvere contestuali problemi di impianti di illuminazione e fognari.

4: G. Malaspina, Illuminazione a gaz della Città di Napoli, 1878. Archivio Municipale di Napoli.

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3. Verso le nuove frontiere della tecnica: la Società Generale di Illuminazione Dopo i rallentamenti nella conduzione dei lavori causati dalla epidemia di colera del 1884, che aveva sterminato parte della popolazione e degli impiegati della Compagnia Parent, Schaken e Co., nel 1885 il sindaco Nicola Amore volle stipulare un nuovo contratto per poter estendere l’illuminazione a gas anche nei casali confinanti con la città di Napoli, inclusi, tra gli altri, Capodimonte, Antignano, Vomero, Posillipo, Fuorigrotta, Miano e Piscinola, ma anche per iniziare a introdurre l’elettrificazione nell’impianto di illuminazione. Questi erano infatti gli obiettivi fissati per i successivi quindici anni, ma la Compagnia tentò di prender tempo procrastinando le richieste del Municipio di introdurre delle lampade ad arco nei principali teatri della città. Consapevole, però, che l’avvento dell’elettricità sarebbe stato difficile da arrestare, nel 1893 rilevò una stazione di produzione di energia elettrica a corrente continua in via Alabardieri per potervi affidare le utenze elettriche sia pubbliche che private da acquisire. Il ritorno della sede di produzione in area residenziale borghese evidenziava gli stessi criteri imprenditoriali che più di cinquant’anni prima avevano condotto alla scelta del sito di vico Cupa. Inoltre, poco dopo, la compagnia acquistò parte delle azioni di una Società industriale che, nata nel 1875 con lo scopo di distribuire gas, si era poi convertita alla produzione e distribuzione della energia elettrica. Così dal 1893 si costituì, parallelamente alla Compagnia Parent, Schaken e Co., la Società Generale di Illuminazione con stazione in via Alabardieri, fintanto che le dimensioni dell’impianto risposero alle richieste [Le compagnie del gas 1962]. Dunque, mentre procedevano i primi lavori di fornitura a energia elettrica, la rete a gas veniva distribuita nei sobborghi più periferici della città, allora ancora autonomi sul piano amministrativo. Un ulteriore tentativo di riportare il gas alla ribalta nella competizione con l’elettricità arrivò nel 1886 con l’introduzione del becco Auer con reticella, derivata concettualmente dal principio della lampadina elettrica a incandescenza, ma con costi molto più ridotti [Schivelbusch 1994, 56-57]. Ancora per qualche decennio, nuovi campi di utilizzo avrebbero offerto nuove frontiere di commercializzazione del gas: da un lato l’uso domestico di oramai avanzati dispositivi per il riscaldamento e la cottura di cibi, dall’altro quello dei nuovi mezzi di locomozione, come nel caso della funicolare del Vomero, alimentata a gas dal 1891. Conclusioni Da questo studio preliminare è già possibile intuire quanto siano strettamente intrecciate, nell’Ottocento, la storia urbana e la storia dell’illuminazione a gas nella città di Napoli. L’attività costruttiva edilizia, la politica economica e quella industriale convergevano tutte verso la visione ideale di capitale del Regno che Ferdinando II di Borbone voleva conferire alla città partenopea e che sintetizzò in quegli ottantanove semplici punti, noti con il nome di Appuntazioni che, di fatto, ne influenzarono lo sviluppo per quasi un secolo. Così anche la nascente industria dell’illuminazione a gas va riletta in tale ottica. La scelta e la provenienza delle forniture, la distribuzione delle canalizzazioni e la localizzazione degli stabilimenti per la produzione del gas sono tutti aspetti che consentono di completare una conoscenza più ampia e sistematica della Napoli ottocentesca. In particolare, poi, proprio l’insediamento degli opifici dapprima a Chiaia e poi all’Arenaccia consente di riscontrare tra gli anni 1839 e il 1893 un consolidarsi di due poli urbani, coerentemente con le direttive del tempo: da un lato la città, verso occidente, dall’altro la nascente area industriale, verso oriente, polarità che ancora oggi si riscontra nell’assetto urbano della città. A Napoli è infatti tuttora possibile riconoscere – seguendo le recenti letture di Bernardo Secchi [Secchi 2013] – una «città dei ricchi» coincidente con i quartieri Chiaia, San Ferdinando e Posillipo, e una «città dei poveri»

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nell’area orientale, luogo di nuove marginalità economiche e sociali, a dispetto dei grandi interventi urbani – in primis il Centro Direzionale – compiuti negli ultimi decenni. Bibliografia ALFIERI, A. (1860). Progetto Sull’illuminazione della città di Napoli a gaz fluente e portatile. Proposta dalla compagnia N. B. Accini. Riflessioni dell’avv. Alessandro Alfieri, Napoli, Tip. Di G. Rusconi. ALISIO, G. (1978). Lamont Young. Utopia e realtà nell’urbanistica napoletana dell’Ottocento, Roma, Officina Edizioni. AMIGUES, G., MAGNENANT, P. (1861). Note e schiarimenti relativi alla pubblica illuminazione della Città di Napoli presentati all’onorevole municipio di Signori Amigues e Magnenant, Napoli. BARTOLETTO, S. (2000). Gli esordi dell’industria del gas a Napoli 1837-1862, in Ricerche storiche, Firenze, Edizioni scientifiche italiane, pp. 569-582. BUCCARO, A. (1985). Istituzioni e trasformazioni urbane nella Napoli dell’Ottocento, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane. BUCCARO, A., MATACENA, G. (2004). Architettura e urbanistica dell’età borbonica, Napoli, Electa Napoli. COMUNE DI NAPOLI (1862). Capitolato per l’illuminazione a gas, Napoli. CUTOLO, A. (1928), L’illuminazione pubblica a Napoli alla fine del XVIII secolo, in «Bollettino del Comune di Napoli», a. 6, n. 5, Napoli, Tip. F. Giannini & Figli. DE LA VILLE SUR-YLLON, L. (1897). Padre Rocco e l’illuminazione della città di Napoli, in «Napoli Nobilissima», vol. 6, pp. 81-87. DEL CURTO, D., LANDI, A. (2008). Gas-light in Italy between 1700s & 1800s: a history of lighting, in The culture of energy, Newcastle, Cambridge Scholars Publishing, pp. 2-29. MENNA, G. (1994). Il porto di Napoli dall’Unità d’Italia alla Seconda Guerra Mondiale, in Napoli: il porto e la città storia e progetti, a cura di B. Gravagnuolo e F. Adriani, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, pp. 117-170. Le compagnie del gas in Napoli (1962), a cura della Compagnia napoletana gas, Napoli, L’arte tipografica. MAGNENANT, P. (1864). Progetto Magnenant presentato all’illustrissimo Signor Sindaco e Municipio della Città di Napoli, Napoli, Stab. Tip. del Servio Tullio. MANGONE, F. (2009). Chiaja, Monte Echia e Santa Lucia: la Napoli mancata in un secolo di progetti urbanistici 1860-1958, Napoli, Grimaldi Editori. MANGONE, F. (2017). Il quartiere borbonico di via Morelli e la Caserma della Vittoria, Napoli, Grimaldi Editori. MAUTONE, F. (1997), Le nuove tipologie per la città borghese, in Civiltà dell’Ottocento. Architettura e Urbanistica, a cura di G. Alisio, Napoli, Electa Napoli, pp. 57-66. PENTA, F. (1935), I materiali da costruzione dell’Italia meridionale, Napoli, Fond. Politecnica del Mezzogiorno. SAVARESE, R. (1861). Dell’illuminazione della città di Napoli. Memoria al Consiglio Municipale, Napoli, Tip. Di G. Cardamone. SCHIVELBUSCH, W. (1994). Luce. Storia dell'illuminazione artificiale nel secolo XIX, Torino, Pratiche editrice. SECCHI, B. (2013). La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza, Roma-Bari. Sulla illuminazione a gas della città di Napoli (1839), in Annali universali di statistica, economia pubblica, storia, viaggi e commercio, Milano, editori degli Annali universali di medicina e di statistica, fasc. 191, serie 1, vol. 64, p. 200. TOMA, P. A. (2007). Napoli e la Compagnia del Gas, due secoli insieme, Napoli, Compagnia dei Trovatori.

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Alla ricerca della vivibilità in periferia. Rioni popolari dell’area orientale di Napoli nel secondo dopoguerra Looking for livability in the suburbs. Popular neighborhoods in the eastern area of Naples after World War II CAROLINA DE FALCO Università della Campania Luigi Vanvitelli Abstract Una conoscenza più approfondita della storia della periferia nel secondo dopoguerra, riletta attraverso i progetti dei protagonisti, può contribuire al recupero dell’identità di alcune parti di città, per restituirle a un uso più consapevole da parte della collettività, anche assecondando la forte domanda di spazi pubblici. Il focus sull’area orientale di Napoli, mettendo in evidenza l’attenzione, anche per il townscape, con cui sono stati ideati i primi rioni, offre spunti di riflessione in tale direzione. A deeper knowledge of the history of the suburbs after World War II, can contribute to the recovery of the identity of some parts of the city, in an attempt to restore them to a more conscious use by of the community, even following the strong demand of collective spaces. The focus on the eastern area of Naples, highlighting the care with which the first districts were designed, in respect also of the townscape, offers food for thought in this direction. Keywords Rioni popolari, secondo dopoguerra, Storia della Città. Popular neighborhoods, post-World War II period, History of the City. Introduzione Allo stato attuale e in controtendenza, alcuni quartieri semi periferici, storicamente e socialmente connotati come popolari, stanno assumendo un nuovo ruolo nella città globale contemporanea, divenendo luoghi, forse più “autentici”, in cui si sceglie di vivere, anche assecondando la forte domanda di spazi pubblici e collettivi. Se da un lato, infatti, si assiste in tutta Europa al fenomeno della “gentrificazione” dei centri storici [Semi 2015, 237], dall’altro per contrappunto, sia per assecondare una domanda di residenze più a basso costo anche da parte del ceto medio, sia per accogliere chi desidera sfuggire all’invasione turistica del cuore cittadino, alcuni quartieri periferici stanno subendo una vera e propria rigenerazione urbana. Esemplificativi in tal senso sono i casi dei quartieri Pigneto a Roma o Bicocca a Milano. Il primo può far riflettere sull’odierna percezione di quartiere inteso come “villaggio urbano”: l’alternarsi di differenti tipologie di edifici storici accanto ad altri di edilizia popolare crea un caleidoscopico tessuto urbano che lo rende attrattivo [Cellamare 2008; Cremaschi 2008]. La rinascita del quartiere milanese è stata avviata nel 1989 riutilizzando le aree industriali dismesse degli stabilimenti Pirelli al fine di creare un polo di centralità per l’area nord della città, grazie a uno dei più importanti interventi di riqualificazione urbana a livello europeo. Ideato da Gregotti Associati con l’Università di Milano-Bicocca, il progetto fa leva sulla presenza di enti e aziende di rilievo internazionale e sulla terza missione dell’Ateneo: restituire servizi e una parte della città ai cittadini [La Bicocca 2001].

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A Napoli un interessante tentativo propulsore del nuovo sviluppo nell’area orientale – interessata contemporaneamente da progetti di riqualificazione anche del porto e del retroporto – è quello condotto dall’Università Federico II e dalla Apple nel nuovo polo di San Giovanni a Teduccio. D’altro canto, il centro storico napoletano, che conserva una singolare predisposizione alla mixité sociale, sembra resistere al fenomeno dello spopolamento, pure a fronte di un incremento delle attività turistico-culturali, dovute di recente anche al fenomeno del riuso dei siti monumentali, come le chiese defunzionalizzate, destinati a tal fine. E tuttavia fin dal Settecento, com’è noto, vengono prese in considerazione sia dalla nobiltà che dalla borghesia anche altre zone residenziali quali quelle collinari, mentre successivamente la città si accresce verso le aree più periferiche, sia a Occidente che a Oriente. Entrambe destinate allo sviluppo industriale e interessate dalla realizzazione di importanti reti di infrastrutture destinate al trasporto ferroviario, tali zone divengono sede prescelta per l’insediamento dei primi rioni a opera dell’Istituto Autonomo Case Popolari. In una città dunque che ridisegna i propri confini, dove sempre maggiori sono le differenze, etniche, religiose, linguistiche e culturali, è più che mai necessaria una rilettura storica delle architetture e dei luoghi, ripartendo in particolare proprio dalle aree periferiche: com’è stato osservato occorrono infatti «progetti con più saperi e progettisti con più preparazione e conoscenza della storia della periferia», per contribuire così al recupero dell’identità urbana di alcune zone, ciò nel tentativo di restituirle a un uso più consapevole da parte della collettività [Stenti 2017, 8]. In tale ottica, dunque, nell’intento di approfondire le ampie e imprescindibili disamine urbanistiche prodotte sull’argomento [Stenti 1993; Pagano 2012] con lo sguardo dello storico dell’architettura e alla luce di inedite acquisizioni documentarie, è stato innanzitutto affrontato il recente studio monografico sull’area occidentale di Napoli. Nel secondo dopoguerra, l’area “fuori dalla grotta”, oltre agli episodi esemplari, ma a scala urbana più circoscritta, quali quelli in via Consalvo e in Viale Augusto, si rivela infatti di particolare interesse in quanto qui vengono localizzati i rioni del I settennio INA-Casa, in particolare a Bagnoli, ad Agnano, a La Loggetta e Canzanella a Soccavo, comprendenti anche le attrezzature sociali e collettive [De Falco 2018]. Questi episodi raccontano di una felice stagione realizzativa, quando un’attenta classe professionale di architetti e ingegneri italiani sperimentò e produsse case per i senza tetto e per i meno abbienti con un impegno che è necessario sottolineare per rimarcarne la differenza rispetto all’abusivismo degli anni successivi, fino allo stato di degrado odierno, particolarmente in alcuni rioni, ma con la tenuta invece di altri. Allo stato attuale, infatti, gli esiti sono contrastanti: nei casi in cui si registra uno stato di benessere, come negli esempi citati, è possibile constatare la presenza delle strutture per la socializzazione: scuole, mercati, negozi, cinema e centri sportivi – con un incremento ancora in corso, se si pensa alla zona di Fuorigrotta – oltre all’attenzione condotta in fase di progetto per la qualità formale mirata alla ricerca del townscape. A tal proposito, l’“inclusione” di tali rioni nel contiguo contesto urbano se da un lato rende evidente il fallimento dell’ambizione alla cosiddetta e auspicata a quel tempo “autosufficienza” del quartiere autonomo, dall’altro premia l’attenzione verificatasi nell’immaginare in sede progettuale il giusto equilibrio tra case e “luoghi” urbani, che ne ha determinato una favorevole situazione di osmosi con il resto della città, piuttosto che non di “effetto ghetto”. Anzi già allora viene osservato che «queste case con le quali si ricostruisce e si ripopola l’Italia fanno paesaggio: un paesaggio nuovo appare in Italia» [Edifici Ina-Casa… 1952, 1]. Va evidenziato che tale nuovo paesaggio si mostra diversificato da nord a sud, come viene notato: mentre nel primo caso si verifica la tendenza alla casa isolata o a

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schiera, «dove non v’è composizione ma solo accostamento», e a Roma si verifica la criticata tendenza all’”agglomerato”, a Napoli invece «vedrete il paesaggio “composto”, l’architettura disposta a formare i suoi vari paesaggi» [Edifici Ina-Casa… 1952, 2]. In particolare, l’articolo si riferisce ai rioni sorti a Barra nella periferia orientale di Napoli, all’inizio degli anni Cinquanta, dei quali pertanto, in questa breve disamina, si propone l’approfondimento. 1. La stratificazione storica e il contesto ambientale: Barra da “Casale règio” a cardine dell’estensione a est Se si guarda oggi alla zona orientale ci si scontra purtroppo con aree di estremo degrado e con una periferia senza soluzione di continuità da San Giovanni a Teduccio a Ponticelli per cui è estremamente arduo il tentativo di immaginare lo spirito “sano” con cui furono costruiti i primi insediamenti popolari. L’area compresa tra via Argine e il limite dei quartieri di Poggioreale e di Ponticelli, inoltre, com’è noto, oltre che da grandi aziende (come Ansaldo e Whirpool), è interamente occupata da fabbricati industriali di diverse dimensioni e dai grandi cilindri in ferro, i depositi di carburante della ex Q8 e delle altre società petrolifere, dopo l’impulso fornito all’inizio del Novecento della Socony Vacuum, poi Mobil Oil Italiana, che insediò una tra le maggiori raffinerie create fuori dagli Stati Uniti [Carreri in Napoli Guida 1998, 214-218]. Ciononostante, inaspettatamente, poco lontano dalle industrie, il paesaggio si trasforma facendo ricordare la sua vocazione agricola, dipanandosi tra serre in cui si coltivano ortaggi e fiori e sentieri di campagna, tanto che il quartiere di Barra, in particolare, presenta una delle più basse densità abitative di Napoli, e anche una storia interessante e stratificata risalente all’epoca romana. I lavori di bonifica territoriale iniziati dagli Angioini nel tardo Duecento liberarono ampi terreni resi fertili dalla presenza del fiume Sebeto, favorendo lo sviluppo dell’originario casale, nato nel XV secolo dalla fusione di due villaggi vicini, Senno e Barra di Sopra le Torri, da cui forse deriva lo stemma con la sirena bicaudata. Inserita nel contesto del Miglio d’Oro, Barra in quest’epoca raggiunge la configurazione di “Casale règio”, disegnata nella carta topografica del duca del Noja (1775) e descritta dal Giustiniani nel suo Dizionario geografico ragionato del regno di Napoli (1797). Tra le ville nobiliari sono da ricordare almeno quelle degli Spinelli, il cui portale sormontato dallo stemma si apre lungo corso Sirena, e la residenza fatta edificare dal mecenate fiammingo Gaspare Roomer, poi acquisita nel Settecento dai principi Sanseverino di Bisignano, nel cui rinomato giardino fece le sue prime esperienze di botanica Vincenzo Petagna [Venditti 1959, 56-58; Colletta 1974, 121]. Fecero seguito l’erezione di villa Finizio, dimora dell’illustre archeologo Bernardo Quaranta e la sanfeliciana villa Pignatelli di Monteleone, dal 1866 nota come villa Giulia, moglie del duca Diego Pignatelli, una Cattaneo. Barra è stata Capoluogo del Circondario, secondo la suddivisione amministrativa del Regno delle Due Sicilie istituita da Giuseppe Bonaparte, che comprendeva a nord Ponticelli e a sud San Giovanni a Teduccio – con cui oggi forma la VI Municipalità di Napoli – ed è stata inoltre comune autonomo fino al 1925. È su questo territorio dunque che, approfittando della legge del 1904 che favoriva le provvigioni per la realizzazione di case per i meno abbienti, l’ICP Istituto Case Popolari acquista nel 1911, su terreni paludosi, i suoi primi suoli redigendo, su progetto dell’ingegner Primicerio, il Rione Luzzatti, impiantato su una precisa maglia ortogonale con isolati a corte quadrati ispirati alla tradizione, dotato di un sistema di spazi aperti destinati a verde e dotati di attrezzature comuni con asilo, lavatoi e bagni [Stenti 1993, 70-74]. Non più esistenti sono invece le realizzazioni degli anni Trenta, come il gruppo di case a schiera a San Giovanni a

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Teduccio, conosciute come “‘e ccase ‘e Musullino” (le case di Mussolini), bifamiliari su due livelli, con tetti a spiovente e un piccolo orto privato, abbattute durante la guerra e sostituite dal Rione Luigi Settembrini [Lucarella 1992, 761].

1: Rione Duca degli Abruzzi, Isolato B, prospetto laterale a destra, scala 1:100, 1935; sezione A-B, particolare, 1934 (Archivio Storico IACP Napoli, 5 Pr 5; 5 Sez 2). Interessante era anche il Rione Duca degli Abruzzi a Borgo Loreto a Sant’Erasmo, realizzato presso la foce del Sebeto con non poca difficoltà come traspare dal disegno che mostra un complesso sistema di fondazioni per uno degli edifici. L’ordinata trama del prospetto riflette il gusto dell’architettura del regime, movimentato però sia dall’aggetto dei vani scala che dal diverso trattamento delle superfici a intonaco, ma con il basamento in pietra.

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Nel secondo dopoguerra, la ricostruzione del porto e di Via Marina, l’arretramento della stazione ferroviaria, il Piano Regolatore Generale della città elaborato dalla giunta Fermariello nel ‘46 coinvolgono fortemente l’area orientale. Per ciò che attiene alle residenze, nel Piano Piccinato, che prevedeva l’estensione dei confini della città fino a Portici e San Giorgio a Cremano alle pendici del Vesuvio, uno dei due principali nuclei d’espansione è previsto proprio da Barra a San Giovanni. Anzi, secondo le intenzioni, questo nuovo tessuto urbano avrebbe dovuto accogliere in realtà un’edilizia estensiva di pregio, poi invece sviluppatasi nell’area collinare tra Posillipo e il Vomero. Risulta chiaro, pertanto, che i rioni progettati in seguito per l’edilizia popolare sono immaginati in una zona considerata in quel momento privilegiata e non di secondaria importanza. Senza contare che dal 1879 e fino al 1980 Barra era ben collegata da una diramazione della tranvia Napoli-Portici-Torre del Greco, che serviva anche San Giovanni a Teduccio. Infine, se della città si considera anche la «sua letteratura architettonica, l’espressione di una continuità ambientale nel pratico svolgimento della vita urbana con le sue peculiarità di costume e di folclore», senz’altro le tradizioni fondanti lo “spirito” di appartenenza della comunità barrese, che ne connotano il centro storico, stimolarono già allora l’impegno per la riuscita dei progetti [Pane 1959, 45-61]. Tra queste, la famosa ballata dei Gigli, strutture in legno e cartapesta alte circa 25 metri, analoga alla manifestazione di Nola, che si tiene ogni anno durante l’ultima domenica di settembre, o il sentito culto di Sant’Anna, seguito da un numero così cospicuo di devoti, che la parrocchia Ave Gratia Plena è stata elevata a Santuario diocesano nel 2010 [Marino 2010]. Attorno all’intrico di vie del centro storico di Barra, corso Sirena, corso Buozzi, corso IV Novembre, si sviluppa la zona più urbanizzata, caratterizzata da residenze a corte, di cui molte in buono stato. Qui, l’altezza delle costruzioni e l’esigua larghezza delle strade, se lasciano poco spazio al sole, creano un clima di intimità e di vicinanza per le vie, animate, tuttora, dalla fervente attività del mercato rionale tra piazza Parrocchia e piazza De Franchis. È in questo contesto ambientale, fortemente stratificato, che sorgono i rioni sperimentali di edilizia economica nel dopoguerra. 2. Rione a Barra: «il Brasile nell’architettura moderna del mondo» «Napoli ha un’estrema importanza nell’architettura moderna: è alla testa, e tutte le regioni d’Italia han da imparare da Napoli. Napoli è nell’architettura moderna italiana, quel che è il Brasile nell’architettura moderna del mondo»: con tale incredibile entusiasmo in un articolo di Domus del 1952 il rione realizzato da Carlo Cocchia per l’INA-Casa a Barra viene additato come esempio di avanguardia, citato inoltre al pari delle architetture di Ridolfi a Terni e di De Renzi e Muratori a Valco San Paolo a Roma [Edifici Ina-Casa… 1952, 6]. Non solo, rispetto alle “sequenze di paesaggi architettonici” presi in esame, mentre, come accennato, l’architettura in Piemonte appare «serena e tranquilla, statica pur essendo asimmetrica» e le opere romane si caratterizzano per i volumi e le masse, tanto da formare degli “agglomerati”, a Napoli viene sottolineato invece che «il paesaggio architettonico si distende, si spazia, si svolge in sequenze dove guardandolo da diversi punti gli aspetti delle architetture si ritrovano ricomposti in quadri diversi, assai belli» [Edifici Ina-Casa… 1952, 7]. In effetti, il rione “Parco Azzurro” di Cocchia, del 1950-52, si inserisce nelle maglie del piano Cosenza del 1945-46, nel quale la zona di Barra è indicata come uno dei luoghi cardine dell’operazione di ricostruzione. L’ampliamento del nucleo ottocentesco è previsto attraverso la disposizione “razionale” di una serie di edifici paralleli inframmezzati da verde e con una fascia centrale di attrezzature per spazi pubblici [Pagano 2012, 295].

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2: Sistemazione urbanistica a case semintensive a S. Giovanni-Barra planimetria scala 1:200 (da Cosenza, Moccia 1987); Rione D’Azeglio, Carlo Coen, Luigi Cosenza, Francesco Della Sala, prospetto a sud, scala 1:100, particolare (Archivio Cosenza). Il primo nucleo residenziale di tale sistema urbanistico, realizzato su incarico dello IACP, è il notissimo rione D’Azeglio di Cosenza, Coen e Della Sala, del 1946-48, la cui immagine delle bianche stecche di nove edifici sullo sfondo del Vesuvio e il verde fiorito in primo piano diviene una vera e propria icona del tentativo di “continuità” con i dettami del razionalismo anteguerra. Cosenza, oltretutto, negli stessi anni sostituisce un isolato del non lontano Rione Luzzatti, riprogettandolo secondo un’impronta razionalista. Alcune condizioni come le fondazioni preesistenti alla guerra di certi edifici vincolano le scelte formali del D’Azeglio per cui il fabbricato tipo, a ballatoio con 5 alloggi per piano, ha un orientamento insolitamente nord-sud. Data «la breve lunghezza dei ballatoi, la scala è prevista ad un’estremità ed è completamente aperta», inoltre la zona letto e il soggiorno si affacciano a sud, dov’è il terrazzo, «creando un ritmo costante di vuoti e di pieni al quale è affidata la unità stilistica della facciata», mentre d’altro canto si ottempera all’esigenza di soddisfare «la richiesta densità edilizia evitando i grandi edifici multipiani»1. Il progetto previsto per il Rione Cavour, vinto a seguito di concorso bandito dallo IACP sempre nel 1946 da Abenante, Di Salvo e Papale, risponde ugualmente alla necessità di completare sette edifici iniziati nel 1940 e arrestatisi alle murature dei primi piani. In particolare viene trovata una soluzione di ampliamento dei piani superiori grazie a un sistema di travi rovesce in cemento armato, tuttavia non più eseguito per la difficoltà nel reperimento di tale materia prima in fase realizzativa. Gli edifici presentano ancora un andamento a stecche, disposte ortogonalmente a quelle del Rione D’Azeglio. A rompere le fila di tale schema “ordinato” è il terzo rione, con il quale Cocchia interviene destinando alle residenze anche la parte del piano a suo tempo destinata alle infrastrutture, e

1 Archivio Cosenza https://www.archivioluigicosenza.it/it/29/case-popolari-al-rione-d-azeglio-barra-1946-1947 Courtesy di Gianni Cosenza.

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pure la chiesa, di cui è ugualmente l’autore, viene realizzata in un diverso luogo. Altro elemento di novità del progetto è la presenza, accanto a nove edifici alti tre piani, di tre case a torre di ben otto piani, realizzate con la precisa intenzione di interrompere la serie continua di elementi paralleli. D’altra parte, tra il 1951 e il 1952, Cocchia ripropone un edificio a torre di dieci piani nel gruppo degli otto progettati in via Giulio Cesare [Pagano 2012, 168; De Falco 2018, 45-51].

3: Carlo Cocchia, Parco Azzurro a Barra, edificio a torre (da «Domus» 1952, 7). A Barra, inoltre, gli edifici alti non solo provocano uno sfalsamento che consente di ricavare degli spazi liberi, ma riescono ad animare la zona «piatta e bassa», inserendo questi tre elementi che «rappresentano una nota armonica di tono più elevato, acquistano la funzione estetica del cipresso in un giardino» [Cocchia 1951]2. A tal proposito, va sottolineato che Cocchia insiste molto sul concetto della diversificazione urbana delle architetture, pur senza rinnegare il progresso indotto dall’industrializzazione, facendo però attenzione a evitare che «le nostre case siano prodotte in serie e disposte geometricamente come il risultato di

2 Archivio Storico dell’Istituto Autonomo Case Popolari Napoli. Si ringraziano il Commissario Alberto Romeo Gentile e la dirigente dell’Area Affari Generali Claudia Labella per avermi consentito la consultazione.

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un’equazione» [Cocchia 1951]. La formula suggerita affinché l’umanità ritrovi il «proprio equilibrio spirituale» è quella di costruire case, pure se realizzate secondo la produzione industriale, ma prestando attenzione a «unirle e comporle definendole in unità architettoniche o urbanistiche». In altri termini, Carlo Cocchia da un lato si dimostra favorevole a un tipo di costruzione di tipo non tradizionale, dall’altro indica nella libertà compositiva la giusta via per uscire dal rigore razionalista, verso un organicismo sentito come più appropriato alle esigenze del cittadino. Nel commentare infine le possibili combinazioni ottenute dalle due unità abitative tipo, l’architetto sottolinea un vantaggio sia per gli alloggi negli edifici a tre piani, vista la vicinanza con il giardino che li circonda, sia per quelli posti ai piani alti delle torri, da cui si può godere un insospettato panorama «che in un unico giro di orizzonte abbraccia il Vesuvio e il mare, la collina del Vomero e Capodimonte: il più vasto e completo panorama di Napoli, visto dalla parte più bassa e schiacciata della città». Tale prerogativa costituisce ancora motivo di vanto per gli abitanti, come mi spiega un ragazzino venendomi incontro all’ingresso del parco: da casa di sua nonna si vede tutta la città.

4: Carlo Cocchia, Parco Azzurro a Barra, dietro gli alberi sullo sfondo la torre, in primo piano le case a tre piani. Da notare il particolare della parte terminale della facciata (foto De Falco). Cocchia, che due anni dopo approfondirà tali modalità nel progetto del rione a Bagnoli, dimostra attenzione alla vivibilità dell’ambiente, anticipando inoltre quella ricerca dei principi del townscape focalizzati da Gordon Cullen e segnalati dalla rivista «The Architectural Review» o da Kevin Lynch sulla visualizzazione della forma all’inizio degli anni Sessanta [De Falco 2017]. In tali studi ampio risalto, tra gli altri, è dato agli esempi virtuosi di Bernabò Brea a Genova e di La Fiorita a Cesena, fino alla più grande scala di Falchera a Torino, dell’Isolotto a Firenze e di Comasina a Milano, dando risalto, inoltre, alla scelta dei materiali, alla texture e al colore con cui sono realizzati gli edifici, per introdurre una nuova estetica funzionale nel paesaggio urbano, evitando in tal modo che l’ambiente esprima conformità. A tal proposito, va osservato che Cocchia nel rione a Barra prevede la policromia delle facciate e l’asimmetria nell’edificio a torre, ottenuta attraverso il semplice spostamento di un terrazzo e prontamente rimarcata in un articolo [Rassegna di case economiche 1951, 25]. Negli edifici bassi, poi, una parte della facciata viene prolungata oltre il cornicione per mascherare la

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copertura del vano scala sul terrazzo, diventando un motivo caratterizzante della facciata. Qui, viene introdotta infine l’innovazione tecnologica delle tapparelle avvolgibili al posto delle persiane, mentre nel soggiorno è collocato un infisso che occupa quasi l’intera parete, apribile all’occorrenza sul balcone [Stenti 1993, 117].

5: Carlo Cocchia, edificio da 25 vani a Barra, piano tipo, scala 1:50; Gerardo Mazziotti, Mario Rispoli e Alfredo Sbriziolo, Centro sociale a San Nicandro, pianta, scala 1:50 (Archivio Storico IACP Napoli, 36 Pi 9; 31 Pi 1). Tra il 1951 e il 1953, Cocchia, insieme a de Luca e a Della Sala, è impegnato nel rinomato progetto del complesso IACP Stella Polare in via Marittima, incentrato sulla concezione della macrostruttura, mentre più tardo, del 1957-58, è l’edificazione del rione INA-Casa a San Nicandro a Barra, all’incrocio di via delle Repubbliche Marinare con via Bernardo Quaranta. In quest’ultimo, che conserva l’impostazione organica nella disposizione degli edifici, Gerardo Mazziotti, Mario Rispoli e Alfredo Sbriziolo realizzano all’inizio degli anni Sessanta un centro sociale, dotato anche di biblioteca. Tra il 1952 e il 1956 inizia la costruzione promossa dal Genio Civile dell’insediamento “Nuova Villa” a San Giovanni a Teduccio, a seguito di concorso vinto dal gruppo di Carlo Aymonino, con Chiarini, Girelli, Lenci, Melograni e Vandone, ideato come collegamento attraverso l’asse storico di via Figurelle tra i l vecchio casale di Villa e i nuovi rioni di Barra, consentendo la massima attraversabilità dei quartieri e migliorandone la viabilità. Tuttavia, l’ambizione di prefigurarsi quale “quartiere autonomo”, seppure integrato all’interno di un reticolo urbano preesistente, del noto e lodato progetto fallisce causa della mancanza di rispetto del piano, consegnando all’opposto il rione all’emarginazione della periferia [Belfiore, Gravagnuolo 1994, 239]. Conclusioni All’interno della città, il quartiere è un elemento fondamentale, «caratterizzato da un certo paesaggio urbano, da un certo contenuto sociale e da una sua funzione» e inoltre dalla residenza, che ne condiziona la sua forma; l’insieme dei quartieri va in ogni caso rapportato all’intera struttura urbana tanto che lo studio di ciascuno è «condizione necessaria agli studi sulla città» [Rossi 2011, 61, 63]. L’approfondimento storico dei rioni, in particolare nel secondo dopoguerra, è dunque più che mai opportuno. Ne emerge un quadro interessante, un lavoro già avviato e da proseguire, che offre inoltre la possibilità di indagine anche di figure di primo piano, come quella di Carlo Cocchia, di cui ancora non sono state scritte le dovute pagine. Un contributo, oltretutto, dal carattere innovativo riguardo al tema dello sviluppo della periferia, terra «di contrasti e di speranze» [Moccia in Napoli Guida 1998, 210-

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213], immaginata e ideata per la risoluzione del bisogno primario di case della popolazione, in una fase ancora lontana dall’ottica speculativa, ma anzi con una visione idealistica e pratica al tempo stesso, nell’attenzione al benessere del cittadino per il benessere della città. Bibliografia BELFIORE, P., GRAVAGNUOLO, B. (1994). Napoli. Architettura e urbanistica nel Novecento, Laterza, Roma-Bari. BUCCARO, A. (1992). L’area industriale orientale nel secolo scorso: origine dei luoghi e interventi fino all’Unità, in Napoli un destino industriale, a cura di A. Vitale, CUEN, Napoli. CAPOBIANCO, M. (1989). Il mito sociologico dell’identità comunitaria. L’unità di vicinato, in «ARQ», dicembre. Carlo Cocchia, Enciclopedia dell’Architettura (2008), in «Il Sole 24 ore», vol. 1, Motta Editori, Cinisello Balsamo. Carlo Cocchia: cinquant’anni di architettura, 1937-1987 (1987), a cura di G. Caterina, M. Nunziata, SAGEP, Genova. CELLAMARE, C. (2008). Fare città. Pratiche urbane e storie di luoghi, Milano, Elèuthera. COCCHIA, C. (1951). Un quartiere residenziale dell’Ina-casa, in «Spazio», 5. COCCHIA, C. (1957). Aspetti dell’edilizia popolare a Napoli, in «Edilizia popolare», 17, pp. 19-23. COLLLETTA, T. (1974). La villa Sanseverino di Bisignano e il casale napoletano della Barra, in «Napoli Nobilissima», p. 121. CONFORTI, C. (1980). Carlo Aymonino. L’architettura non è un mito, Officina edizioni, Roma. CREMASCHI, M. (2008). Tracce di quartieri, il legame sociale nella città che cambia, Milano, Franco Angeli. CULLEN, G. (1961). Townscape, The Architectural Press., London (trad. it. 1976, Il paesaggio urbano. Morfo-logia e progettazione, Calderini, Bologna). DE FALCO, C. (2017). Immagine e sviluppo della Napoli occidentale: case pubbliche e ricostruzione, in «Eikonocity. Storia e Iconografia delle Città e dei Siti Europei», II, n.1 gennaio-giugno, 2017, pp. 85-99. DE FALCO, C. (2018). Case INA e luoghi urbani. Storie dell’espansione di occidentale di Napoli, CLEAN, Napoli. Edifici INA casa in Lombardia, Piemonte, Roma, Napoli (1952), in «Domus», 270, pp. 1-8. La Bicocca abitata (2001). Milano, Skira. LUCARELLA, C. (1992). San Giovanni a Teduccio:... storia di una borgata napoletana, Arti Grafiche Meridionali MASI, Napoli. Luigi Cosenza. L’opera completa (1987), a cura di G. Cosenza, F.D. Moccia, Electa Napoli-CLEAN. LYNCH, K. (1960). The Image of the City. Mit Press, Cambridge (trad. it. L’immagine della città, 1964 (1985 9°ed.), Marsilio, Padova. MARINO, R. (2010). Barra un Comune... dentro la città, Guida, Napoli. MIANO, P. (2006). La trasformazione urbana delle aree ex industriali di Napoli, in Santangelo M., Visconti F., La trasformazione delle aree periferiche nella dimensione metropolitana della città: il caso-studio di Napoli Est, E.S.I., Napoli. Napoli Guida. 14 itinerari di architettura moderna (1998), a cura di S. Stenti, con V. Cappiello, CLEAN, Napoli. PAGANO, L. (2012). Periferie di Napoli, Aracne, Roma. PANE, R. (1959). Città antiche edilizia nuova, E.S.I, Napoli. Rassegna di case economiche in Italia e all’estero (1951), in «Rassegna critica di architettura», 20-21, pp. 12-29. ROSSI, A. (2011), L’architettura della città, Macerata, Quodlibet. SAVARESE, L. (1983). Un’alternativa urbana per Napoli: l’area orientale, E.S.I., Napoli. SEMI, G. (2015). Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, Bologna, Il Mulino. STENTI, S. (1993). Napoli moderna, città e case popolari 1868-1980, CLEAN, Napoli. STENTI, S. (2017). Fare quartiere. Studi e progetti per le periferie, CLEAN, Napoli. VENDITTI, A. (1959). Le ville di Barra e di S. Giorgio a Cremano, in Ville vesuviane del Settecento, E.S.I., Napoli, pp. 56-58. Sitografia https://www.archivioluigicosenza.it/it/29/case-popolari-al-rione-d-azeglio-barra-1946-1947 (marzo 2018) RENZI, A. (2016), La Barra di Napoli nella storia, in «Centro Culturale e di Studi Storici Brigantino - il Portale del Sud», ottobre. http://www.ilportaledelsud.org/barra10.1.htm (marzo 2018)

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Le salite dimenticate: dalla marginalizzazione al recupero dei percorsi storici napoletani tra il centro antico e il Vomero

Forgotten ascents: from the marginalisation to the enhancement of the Neapolitan old routes between the historic centre and Vomero

GIOVANNA RUSSO KRAUSS Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio del Comune di Napoli Abstract

Tra la Napoli antica e il Vomero esiste un pezzo di città spesso dimenticato, una trama viaria che si è conservata sfuggendo alle forti dinamiche di trasformazione urbana che, a fini speculativi, dalla fine dell’Ottocento hanno sfruttato l’alto valore dei suoli. Negli ultimi dieci anni, tuttavia, nuove attenzioni si stanno indirizzando su questo storico pezzo di “città obliqua” e sulla sua rivitalizzazione, tema che il contributo affronta, affinché questi percorsi possano essere valorizzati, ma anche difesi nella loro autenticità dai pericoli di un’eccessiva gentrificazione. In Naples, between the oldest part of the city and the newest Vomero district, there is a portion of territory that is often forgotten. This is a road system that has survived through the years avoiding the results of dynamics of urban transformation which, because of estate speculation purposes, starting from the end of the Nineteenth century, have exploited the high values of the lots. In these last ten years, however, new attentions are being directed on this historic piece of “oblique city” and on its revitalisation. The paper intends to address this issue so that these routes may be enhanced, but also defended in their authenticity against the dangers of extreme gentrification. Keywords Percorsi storici, Napoli, recupero. Historic routes, Naples, revitalisation. Introduzione

Quando si parla della Napoli storica il quartiere collinare del Vomero è il più delle volte assente. Eppure quello che oggi è, al contempo, l’emblema della città borghese e della speculazione edilizia del dopoguerra è stato per molti secoli un’area verde, lussureggiante, alla quale le più nobili famiglie napoletane salivano per godere di aria fresca e di una splendida vista sul golfo, soggiornando in grandiose ville collegate da poche vie lungo le quali erano sorti piccoli e poveri insediamenti. Qui abitavano i contadini che spingevano per i campi l’aratro, che con il suo vomere ha forse dato il nome al quartiere, e le lavandaie dei nobili, ai quali, scendendo a piedi le ripide vie che collegano la collina alla città bassa, consegnavano il bucato. Queste antiche salite storiche al Vomero sono oggi lacerti di tessuti antichi in un tratto di città che ha profondamente mutato il proprio volto. Nella seconda metà dell’Ottocento, infatti, quando la città ha iniziato la sua espansione verso ovest, edificando i quartieri borghesi di Chiaia e del Vomero, le salite storiche sono divenute collegamenti obsoleti a confronto con le funicolari e le nuove strade carrabili, ma proprio il basso valore immobiliare dei lotti ha permesso loro di sfuggire agli interventi di sostituzione

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edilizia del secondo dopoguerra, conservando sia palazzine storiche che numerosi “bassi” di abitazione. 1. Il Vomero e i suoi percorsi storici Per chi giungeva a Napoli dai Campi Flegrei la collina del Vomero, al tempo Paturcium, in seguito Patruscolo, era una tappa obbligata: ancora oggi, all’interno del regolare tessuto novecentesco, si conserva il sinuoso segno della sua più antica via, quella che, passando per Antignano (Ante Agnanum), sede del daziario e della villa di Giovanni Pontano, conduceva tramite l’Infrascata (l’attuale via Salvator Rosa) alla città tra le mura, in prossimità dello Spirito Santo [Furnari 1985, 13-14]. Si tratta della Via per colles (Puteolis-Neapolim per colles) che in epoca antica, prima dello scavo nel I sec. a.C. della Crypta Neapolitana, costituiva l’unico collegamento terrestre tra gli importanti centri di Neapolis e Puteolis (Pozzuoli). Sorta in epoca greca e divenuta vera strada intorno al II sec. a.C., è stata risistemata attorno al 100 d.C. e ha poi attraversato con continuità i secoli successivi con il nome di via Antiniana. È grazie a questa antica via che, nel tempo, si è sviluppato il quartiere collinare del Vomero, dai piccoli nuclei abitati lungo il suo percorso alle nuove vie [Alisio Buccaro 2000, 206, 306]. Un confronto tra le topografie storiche restituisce ancora oggi una preziosa testimonianza delle trasformazioni cui la collina è stata progressivamente soggetta quando da terra di passaggio è divenuta essa stessa meta per i nobili di città. Già nella celebre pianta Dupérac Lafréry del 1566 [Pane, Valerio 1987, 37-45] è chiaramente individuabile il percorso che, condizionato dalla presenza del Castel Sant’Elmo e della certosa di San Martino, invece di aggirare la collina seguendo un canalone, conduce in cima a quest’ultima, per poi riscendere ripido attraverso tornanti (l’attuale Pedamentina) e giungere alle pendici del castello [Guida 2000, 19-25]. È tuttavia agli inizi del diciassettesimo secolo che prende veramente avvio l’edificazione del Vomero, come testimoniato dall’insediamento di una congrega religiosa nel 1623 e dall’apparire, nella veduta Bulifon del 1685, dei primi casali [Furnari 1985, 14-16]. Si definisce così progressivamente un sistema viario sempre più ricco, a collegamento di nuovi insediamenti o esso stesso attrattore di nuove costruzioni, chiaramente individuabile nella sua completezza nella celebre Mappa del Duca di Noja del 1775 [Pane, Valerio 1987, 269-306]. Nel diciassettesimo secolo è infatti sorto il collegamento con la collina di Posillipo, attraverso la via Santo Stefano, che, tra masserie, orti, vitigni e frutteti – ma anche accanto all’imponente villa Ricciardi dei conti di Camaldoli – congiunge l’omonima chiesa con quella di Santa Maria della Libera, ancora oggi presente su via Belvedere, la strada che deve il suo nome alla Villa de’ Carafa detti Belvedere. È questa tra le più belle e celebri ville della collina, posizionata in affaccio sul mare e preceduta da un lungo viale immerso nel verde [Fino 1989, 171-173]. Voluta dal marchese Ferdinando Vandeneynden per la figlia Elisabetta, moglie di Carlo Carafa, questa, che oggi è parte condominio, parte struttura per ricevimenti, fu molto amata dalla regina Maria Carolina, moglie di Ferdinando IV, che vi soggiornava spesso [Furnari 1985, 30-31].

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1: Vico Acitillo, Giuseppe Casciaro, collezione privata [Pavone 1987, 268].

2: Foglio 10 della Mappa Topografica Della Città di Napoli e De’ Suoi Contorni, G. Carafa duca di Noja, 1775.

Tornando alla via Belvedere, essa è intersecata a metà circa del suo percorso dalle altrettanto antiche strada di Moncibello (vico Acitillo) – con il suo prosieguo su via Case puntellate – verso l’interno, e Salita Vomero, oggi calata San Francesco, verso il mare [Guida 2000, 29-33]. È questa una suggestiva e ripida gradonata panoramica, riconoscibile già nella veduta tardo-seicentesca del Petrini e, nella mappa del Duca di Noja, chiamata semplicemente via che discende a Chiaia. A differenza di vico Acitillo, che nell’iconografia

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ottocentesca si presentava ancora come un percorso verde umilmente abitato dalle lavandaie che vi stendono il bucato e che oggi è invece interamente sede di altissimi palazzi della speculazione, calata San Francesco è riuscita a sfuggire a tali cambiamenti [Pavone 1987, 268]. Sebbene molto alterata dalla stagione speculativa del dopoguerra, su via Belvedere è ancora presente il cosiddetto Pagliarone, grosso e basso edificio a corte, tra i primi insediamenti del quartiere. Inoltrandosi su verso il castello via Belvedere si biforca e le strade, denominate entrambe del Vomero, conducono, l’una, attraverso via Doria e via Annella di Massimo, alle più antiche Cacciottoli e Antignano e l’altra al Castel Sant’Elmo. Lungo quest’ultima, a metà altezza, è la villa Floridiana, fatta costruire verso la fine del XVIII secolo dal principe di Torella e resa famosa nella veste voluta da Antonio Niccolini per il re Ferdinando IV di Borbone. Infine ultima salita al Vomero è il Petraro, attuale Petraio, chiaramente individuabile a partire dalla veduta del Petrini del 1748 [Pane, Valerio 1987, 235-236], secondo collegamento tra la città e il Castel Sant’Elmo, dopo quello della Pedamentina. Come calata San Francesco anche il Petraio, esposto a mezzogiorno, scende pressoché diretto lungo il pendio, regalando scorci panoramici di grandissimo pregio. Sono quindi cinque le antiche strade del Vomero, alcune delle quali permanenza dell’antica Via per colles: quella che dal casale di Posillipo passa per la chiesa di Santo Stefano e quindi per le vie del Vomero; quella che dall’attuale Soccavo attraverso la via Pigna e via case Puntellate giunge ad Antignano; l’Infrascata, il ripidissimo collegamento all’odierno Museo Nazionale, che ancora nel secolo scorso era servito da poste di asini ad aiuto dei passanti; le Rampe del Petraro, il cui nome suggerisce la natura sconnessa del percorso, un’imbrecciata le cui pietre rotolavano giù con la pioggia, come ricordato dal D’Ambra, che ne fa riferimento nel suo Vocabolario napolitano-toscano descrivendo al contempo la «contrada […] a mezza costa della collina del Vomero con prospetto bellissimo a mezzodì» [D’Ambra 1873, 287]; e infine la Salita del Vomero, attuale calata San Francesco. 2. Dal Risanamento al dopoguerra, la grande edificazione

Eccettuata la costruzione di questa esile trama viaria, dei portici del Pontano, delle case di Salvator Rosa e delle «ville di illustri letterati e di alti baroni di Napoli» ricordate dal Celano [Celano, Chiarini 1859, 752], il Vomero rimane per lo più inalterato nel suo carattere agreste, quale luogo di «fertilissimi giardini e vigne», fino alla fine del XIX secolo [Celano, Chiarini 1859, 749], quando diviene improvvisamente oggetto dei programmi edilizi di ampliamento della città, come ancora una volta la cartografia storica ci mostra confrontando la sopra citata mappa del Duca di Noja, con il rilievo di Federico Schiavoni del 1872-1880 e le planimetrie catastali tra fine XIX e inizi XX secolo, importante testimonianza di questo momento di transizione. Si consideri, ad esempio, il quadro d’unione catastale dell’Avvocata di inizio Novecento, laddove è mostrato un territorio che, ad esclusione delle zone di Pontecorvo, Tarsia e S. Potito, fittamente edificate, è caratterizzato solamente dai percorsi storici prima richiamati, accompagnati da modeste abitazioni e sporadici casali. La “città” ha però iniziato la sua occupazione della collina, come dimostra l’estraneo e regolare tracciato viario del nuovo Rione Vomero, che, già collegato alla città bassa dalle funicolari di Montesanto e Chiaia, a partire da piazza Vanvitelli, ridefinirà progressivamente l’identità del quartiere [Alisio Buccaro 2000, 189-230]. Proseguendo l’espansione occidentale avviata nel quartiere di Chiaia, infatti, sul finire dell’Ottocento molti investitori puntano al Vomero, sebbene meno facilmente accessibile, rendendolo oggetto di programmi edilizi che vedono quale chiave di buona riuscita la creazione di comode e veloci vie di accesso, carrabili o su rotaie. È l’inizio di un processo di

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trasformazione urbana le cui forti dinamiche speculative connotano ancora oggi il quartiere che, troppo presto, ha perso il proprio storico carattere agreste. Proprio nel 1884, anno del colera a Napoli, Adolfo Giambarba individua il Vomero quale area di espansione della città, il cui sviluppo planimetrico è pubblicato per la prima volta nel 1886 sul «Bollettino del Collegio degli Ingegneri e Architetti» [Pepe 1886, 9-13; Mangone, Belli 2012, 78-79]. Quella del Giambarba non è la sola proposta di risanamento ad avere per oggetto la collina del Vomero, che per la sua posizione privilegiata – sopraelevata ma vicina alla città consolidata – costituisce un facile attrattore per l’ampiamento borghese della città. Sempre nel 1884, infatti, gli ingegneri Leonardo Mazzella e Luigi Caselli presentano un progetto di edificazione della parte bassa della collina, corrispondente all’area di Antignano, a integrazione del «quartiere di lusso» che a breve la Banca Tiberina avrebbe costruito nella parte sommitale [Mazzella, Caselli 1885; Mangone, Belli 2012, 82-83]. L’area tra Antignano e via Belvedere, infatti, sarebbe stata interessata dall’edificazione di un quartiere residenziale di risanamento, realizzato dall’Istituto in accordo con il Municipio grazie alle agevolazioni della legge sull’esproprio del 15 gennaio 1885 [Alisio 1987, 13-49]. A collegamento del nuovo quartiere con la città consolidata le anguste salite storiche non sarebbero più state sufficienti: erano quindi necessarie nuove e sinuose strade panoramiche, così come moderne ferrovie di delizia dalle quali godere del panorama. È questo un intento coltivato fin dagli anni settanta dell’Ottocento, che porta alla redazione di numerosi progetti da parte, tra gli altri, di Gaetano Bruno ed Ernesto Ferraro, di Lamont Young, di Adolfo Avena e di Stanislao Sorrentino. Tra questi è il progetto Bruno-Ferraro di due funicolari panoramiche, collegate tra loro sui versanti della Pedamentina e di Palazzolo, ad essere approvato nel 1880 e fatto proprio dalla Banca Tiberina, che nel 1885, anno in cui è discussa la realizzazione del nuovo quartiere al Consiglio Comunale, ottiene la deliberazione di due funicolari distinte, le attuali Chiaia, inaugurata nel 1889, e Montesanto, aperta nel 1891 [Pane, Russo 2011, 78-83]. Nonostante le nuove funicolari, però, il Vomero viene ancora considerato difficilmente raggiungibile e a dare definitivo impulso all’aumento della popolazione, in lenta crescita, vi è l’inaugurazione della terza funicolare, la Centrale, nel 1928, durante l’amministrazione dell’Alto Commissariato, istituito nel 1925 dal regime fascista [Pane, Russo 2011, 83-97]. Tra il 1885 e il 1889, invece, era stata decisa la costruzione di via Aniello Falcone come collegamento viario aggiuntivo al nuovo quartiere dal lato di Chiaia, ma la strada, che ad ogni modo non risolveva da sola i problemi di collegamento tra la città di espansione e la città bassa, per difficoltà finanziarie viene portata a termine solamente nel 1926. Non più rapida è la costruzione del quartiere, poiché la Banca Tiberina incontra presto una crisi di liquidità, non riuscendo a rientrare abbastanza velocemente degli investimenti, anche perché la popolazione è inizialmente restia a trasferirsi al Vomero. Così, tanto la crisi edilizia che gli scandali bancari portano la Banca Tiberina dapprima a rinunziare all’edificazione dell’Arenella, che precedentemente era stata inclusa nel progetto del 1884-1885, e, nel 1899, in un momento in cui il quartiere è ancora fortemente incompleto, a cedere tutte le proprietà alla Banca d’Italia [Palermo 2006, 145-156]. Il passaggio di consegne tra i due istituti provoca forti trasformazioni al quartiere, giacché la Banca d’Italia decide di recuperare capitali alienando terreni e frazionando gli isolati, dando così avvio ad un tipo edilizio di piccole dimensioni, il villino, che negli anni Dieci e Venti si diffonde andando a caratterizzare il nuovo quartiere. Oggi in gran parte questi edifici sono stati demoliti per far posto a più redditizi palazzi in cemento armato, tuttavia proprio in prossimità delle salite storiche, come si vedrà

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più avanti, i villini sono sfuggiti alla speculazione, testimoniando un momento storico spesso dimenticato [Alisio 1987, 69-109]. Particolarmente interessanti per la tutela della collina e del nuovo quartiere sono i primi anni del ventesimo secolo. Viene infatti redatto dall’ingegnere Francesco de Simone un piano regolatore – in due successive edizioni del 1914 e del 1922 – che prevede per il pendio della collina che ha inizio da piazzetta Santo Stefano e termina nei pressi della Pedamentina un unico vincolo a verde, con villini e strade ad andamento est-ovest, oltre ad un ascensore a Castel Sant’Elmo alternativo alla Pedamentina stessa, già immaginato da Luigi Rodini nel 1892 [Belfiore, Gravaguolo 1994, 316-318; Mangone, Belli 2012, 91-105]. Sebbene la proposta di De Simone rimanga sulla carta, l’area è comunque oggetto di tutela grazie al lavoro del soprintendente Gino Chierici, che, applicando la legge 778 del 1922 sulla Tutela delle cose di interesse storico-artistico e del paesaggio, vincola alcune delle più belle strade panoramiche della città – Via Manzoni, via Tasso, via Aniello Falcone, via Palizzi – riuscendo a porre un freno, sebbene spesso disatteso, alla speculazione edilizia [Chierici 1925; Savorra 2001, 102-106]. Infatti nel tempo sui terreni vincolati sono comunque sorti edifici, e se nel caso di via Aniello Falcone non hanno ostruito la vista del panorama, essendo quelli a valle sottoposti al livello stradale, altrettanto non succede nella parte bassa di via Tasso dove i palazzi si ergono alti su entrambi i lati della carreggiata. Oggi tuttavia le strade panoramiche sopracitate restano tra le più celebri della città e l’area è caratterizzata da alti valori immobiliari proprio per via degli scorci sopravvissuti alla speculazione del dopoguerra grazie al vincolo paesaggistico voluto da Chierici.

3: Proposta di vincolo paesistico avanzata da Gino Chierici nel 1925 (Alisio 1987, 44).

Si può infatti dire che l’edificazione del quartiere si è conclusa nei primi decenni successivi alla seconda guerra mondiale, specialmente durante la stagione laurina, quando i lotti distrutti dai bombardamenti e le aree libere sono state progressivamente occupate e saturate dalla speculazione edilizia, libera di operare ignorando il piano del 1939 – che proprio lungo il

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pendio sul mare e sulla città antica aveva previsto due grandi aree panoramiche – e in assenza del piano del 1958, fortunatamente mai approvato. Il segno lasciato dalla stagione laurina sul Vomero è tale che Francesco Rosi, nel 1962, sceglie di far iniziare il suo film denuncia Le mani sulla città proprio con una ripresa aerea della collina, resa irriconoscibile dalla densa trama di alti palazzi dall’inesistente valore architettonico. Una scena che, nell’eloquente scelta del regista di abbandonare ogni dialogo per tre minuti e lasciar parlare il ben studiato binomio di immagini aeree e colonna sonora di Piero Piccioni, ancora oggi colpisce con forza lo spettatore [Pane 2015, 75-83]. Ulteriore testimonianza della progressiva saturazione della collina è il semplice confronto tra il numero di abitanti del 1936, 52.000 unità, e l’attuale, che arriva a circa 120.000.

4-5: Scorci di Calata San Francesco e del Petraio (Russo Krauss 2018). 3. Le salite dimenticate

Si è quindi visto come la collina del Vomero abbia subito, a partire dalla fine dell’Ottocento, sempre più forti dinamiche di trasformazione urbana che ne hanno cancellato per sempre il carattere agreste e che l’hanno trasformata prima nell’oggetto degli investimenti della Banca Tiberina, poi delle “mani sulla città” e oggi nel quartiere borghese del commercio. Indubbiamente al successo del Vomero contribuiscono tutt’oggi le tre funicolari storiche, i molteplici sbocchi della tangenziale e, negli ultimi decenni, le stazioni della metropolitana; tutti comodi e veloci collegamenti moderni della città alta con quella bassa, che hanno però condotto all’oblio le storiche strade di accesso alla collina, interminabili gradonate e ripidissimi vicoli, considerati barriere architettoniche di un sistema urbano di facile fruizione. Proprio l’improvvisa obsolescenza cui questo tessuto urbano è andato incontro ne ha tuttavia permesso la conservazione pressoché inalterata, sebbene in stato di degrado, fino ai giorni nostri. Mentre la regolare maglia ottocentesca della Banca Tiberina ha investito, ad esempio, le due vie del Vomero sopra descritte, cancellandole o snaturandole in un nuovo sistema

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viario, la ripida orografia delle salite storiche ha consentito loro di scendere dritte per il pendio senza forti alterazioni, se non il passaggio, ogni tanto, di qualche tornante di strade panoramiche come via Aniello Falcone, via Tasso o il Corso Vittorio Emanuele. Mentre i lotti in prossimità di piazza Fuga, via Morghen o via Cimarosa (sbocco delle tre funicolari) hanno visto sorgere alti palazzi densi di appartamenti, le piccole abitazioni storiche in affaccio sulle gradonate, lontane dalle funicolari e dalla rete viaria carrabile, si sono conservate senza forti trasformazioni. Laddove oggi altissimi interessi economici hanno indotto un brulicante fermento di studi professionali e attività commerciali, rumorosi attrattori di folle di acquirenti, giunti con i mezzi pubblici o con la propria auto, alimentando un traffico spesso insostenibile, nelle salite storiche regna il silenzio. Qui le attività commerciali sono pressoché assenti e i piani terra sono ancora oggi spesso adibiti a basso di abitazione, conservando, sebbene in scenari piuttosto degradati, un carattere storico della città di Napoli altrove scomparso.

6-7: Scorci del Petraio (Russo Krauss 2018). Conclusioni Se il verdeggiante Vomero è stato progressivamente solcato da strade su cui affacciano eleganti palazzi otto-novecenteschi e alti edifici della stagione laurina, frutto di un secolo di intensa attività edilizia, diverso destino hanno quindi avuto le sue salite storiche. Qui, quando il confronto con la rapidità delle funicolari e con la comodità delle nuove strade carrabili le ha improvvisamente rese un inutile retaggio del passato in un quartiere in forte crescita, il basso valore dei lotti le ha salvate dagli interventi di sostituzione edilizia dilaganti nel resto del quartiere, consentendo la conservazione di un tessuto storico caratterizzato non solo da forti valenze paesaggistiche, ma che costituisce anche un unicum nella città di Napoli proprio per

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il suo essersi saputo conservare fino ai giorni nostri nella sua autenticità, con le caratteristiche che lo riconducono a molte città storiche mediterranee. Non va infine dimenticato il ruolo di collegamento urbano che queste salite storiche rivestono quale percorso pedonale veloce tra porzioni di città spazialmente vicine, ma molto lontane dal punto di vista della viabilità carrabile. Proprio in questi anni di rivalutazione della mobilità lenta e dei collegamenti non su gomma, infatti, questi percorsi storici costituiscono una preziosa risorsa per la mobilità dei cittadini, che sempre più ne stanno prendendo coscienza. Non stupiscono quindi le attenzioni – da parte dell’amministrazione comunale, di associazioni cittadine (come l’Associazione Scale di Napoli e il Comitato Recupero Scale di Napoli) e di turisti – che ultimamente si stanno indirizzando su questo storico pezzo di città obliqua, sempre più percorsa da comitive che decidono di abbandonare i circuiti consolidati, negli ultimi anni oggetto di una gentrificazione e un turismo eccessivi, in cerca del carattere autentico della città, palese per chi scende le strette e tortuose gradonate panoramiche, così tipiche di tante città mediterranee. L’amministrazione municipale e le associazioni cittadine, attraverso il Coordinamento Recupero Scale di Napoli, che secondo il “Manifesto Recupero Scale” ha l’obiettivo di riqualificare circa 200 scale cittadine, stanno quindi giustamente volgendo la loro attenzione su questo tessuto urbano, in vista di una sua rivitalizzazione, affinché le salite storiche vengano valorizzate e fruite da più ampie fasce di cittadini e turisti. Ciò ha portato, nell’ottobre 2016, alla definizione, nel settore Ambiente e territorio del Patto per lo sviluppo della città metropolitana di Napoli, del progetto La città verticale, che riserva 10 milioni di euro alla riqualificazione dei percorsi pedonali tra la collina e il mare, di cui sono attualmente in corso le operazioni di gara per la progettazione definitiva, esecutiva e il coordinamento della sicurezza in fase di progettazione per i lavori che dovrebbero svolgersi da maggio 2019 a maggio 2021. Sono state quindi messe a bando, ad esempio, la manutenzione ordinaria e straordinaria, la connessione ad emergenze architettoniche e parchi urbani, l’inserimento di elementi informativi e la creazione di isole digitali per i collegamenti urbani storici della Pedamentina, della scala di Montesanto, del Petraio, di salita Moiariello, di Calata San Francesco e di salita Cacciottoli. Pur salutando con favore le iniziative attualmente in corso è tuttavia necessario che queste siano svolte alla luce di una maggiore conoscenza storica tenendo sempre presente l’obiettivo primario della conservazione, affinché valorizzazione non comporti gentrificazione, fruizione non implichi snaturamento, turismo non significhi massificazione, poiché i percorsi storici vanno difesi e fruiti nella loro autenticità, quali percorsi utili e “di delizia” per cittadini e turisti. Bibliografia Progetti per Napoli (1987), a cura di G. Alisio, A. Izzo, R. Amirante, Napoli, Guida. Risalire la città: Napoli e i suoi musei: dall’Archeologico a Capodimonte (1998), a cura di A. Gobbi, Premio Schindler 1997, Milano, Electa. ALISIO, G. (1978). Lamot Young. Utopia e realtà nell’urbanistica napoletana dell’Ottocento, Roma, Officina. ALISIO, G. (1987). Il Vomero, Napoli, Electa. ALISIO, G., BUCCARO, A. (2000). Napoli Millenovecento, Napoli, Electa Napoli. BELFIORE, P. GRAVAGNUOLO, B. (1994). Napoli. Architettura e urbanistica del Novecento, Roma-Bari, Laterza. CASTANÒ, F., CIRILLO, O. (2012). La Napoli alta. Vomero Antignano Arenella da villaggi a quartieri, Napoli, Edizioni scientifiche italiane. CELANO, C., CHIARINI, G.B. (1859). Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli, Napoli, Stmperia di Nicola Mencia, vol. IV.

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Il volto doppio di Salerno: centro storico e periferie nelle dinamiche urbane del terzo millennio The other side of Salerno: historic centre and suburbs in the third millennium urban dynamics VALENTINA RUSSO Architetto Abstract Nell’ultimo cinquantennio la città di Salerno ha subito una consistente espansione, che ha gradualmente delineato una forte contrapposizione tra centro storico e sistema periferico. Insieme agli abitanti originari, spinti al margine, Salerno sembra perdere oggi la propria identità urbana, storicamente legata al suo centro, divenuto oggetto di un recupero strategico che, in linea con le tendenze della gentrificazione, vuole ripensare le vocazioni di una città dal tessuto sociale sempre più spaccato. In the last fifty years Salerno has rapidly expanded so that a new urban structure has been marked by a strong contrast between historic centre and suburbs. Salerno seems to be losing both its inhabitants and its urban identity, historically related to the centre, that is now becoming the object of a strategic operating framework that is promoting renewed vocations for the city according to the modern gentrification, while an increasing social divide is being defined. Keywords Salerno, sistema urbano, gentrificazione. Salerno, urban framework, gentrification. Introduzione La città di Salerno, secondo capoluogo campano di origini romane e longobarde, è stata oggetto, nel corso dell’ultimo cinquantennio, di una forte espansione, che ha disegnato una struttura urbana connotata da un netto divario tra centro storico e periferia. Il contributo intende indagare, in primo luogo, le ragioni e le forme del graduale processo che ha spinto la popolazione verso quartieri di margine e spogliato la città della sua identità storica, incentivando uno sviluppo urbano che si caratterizza per la centralità della risorsa mare [Belfiore 2016], a sua volta legata alla promozione del turismo. Attraverso l’analisi del sistema di azioni strategiche finalizzato a spettacolarizzare e vendere spazi di città in forma di brand, lo studio vuole provare, in secondo luogo, a delineare gli scenari prospettati da quelle politiche che, in linea con le tendenze della moderna gentrification, vogliono ripensare le vocazioni urbane. 1. Salerno, il sogno di una “città europea” È il 1998: l’amministrazione comunale presieduta da Vincenzo De Luca commissiona al CENSIS uno studio allo scopo di individuare i bisogni futuri della città di Salerno e i suoi possibili scenari di sviluppo; un anno dopo Salerno diviene, nel titolo del lavoro, “città

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europea”, raccontando il concetto chiave dello studio e delle scelte che avrebbero contraddistinto le politiche di governance della città. Per la prima volta, concretamente, dopo una serie di tentativi condotti negli anni Novanta, Salerno prova a varcare i propri confini di città italiana di medie dimensioni puntando a divenire competitiva ed attraente. De Luca è al suo secondo mandato ed è ormai chiara l’intenzione politico-programmatica di fare di Salerno «una città del turismo, dell’accoglienza, della risorsa mare» [De Luca 1999, 9] avvalendosi di collaborazioni di ampio respiro internazionale, tra cui quella con lo studio catalano MBM dell’architetto Oriol Bohìgas, che avrebbe firmato la trasformazione di Salerno degli ultimi trent’anni. Già nel 1994, primo anno da primo cittadino, De Luca riprende la riflessione sulle trasformazioni urbane avviata dal predecessore Vincenzo Giordano, che, stabiliti i primi contatti con Bohìgas, ne aveva richiesto la presenza a Salerno per la redazione del nuovo PRG. L’esito della rinnovata collaborazione tra lo studio MBM e l’amministrazione è l’approvazione del Documento Programmatico (20/04/1994), che dà avvio ad una prassi metodologica capace di «produrre una trasformazione visibile e profonda della città in tempi rapidi» [ivi, 11]. La trasformazione pensata per Salerno si configura come un processo volto a rendere la città una meta turistica appetibile: l’amministrazione continua a commissionare studi sullo sviluppo turistico, l’ultimo dei quali – redatto dalla CER Programaciò S.L. di Barcellona nel 1997 – getta le basi per la stesura di un Piano Strategico, finanziato dalla Regione nel 2006. Il turismo sembra, dunque, rappresentare l’occasione di rilancio di una realtà urbana che sogna lo scenario di una “Salerno città dell’eccellenza”, in grado di acquisire competitività e sviluppare occupazione crescendo in maniera organica, come recita lo slogan del Progetto Integrato del 2001 scaturito dagli studi del CENSIS. Salerno è una città che, negli anni Novanta, presenta infatti le caratteristiche tipiche degli scenari urbani ereditati dalla speculazione edilizia dei vent’anni precedenti, caratterizzati dalla presenza di “vuoti urbani”, risultato delle dinamiche di deindustrializzazione, da un’obsolescenza infrastrutturale, da una tendenza alla terziarizzazione dell’economia e da una sconfortante perdita di popolazione nelle parti centrali della città. Mentre studi e progetti ipotizzano, quindi, un forte sviluppo in termini di economia ed immagine, lo scenario urbano racconta «un pesante degrado dei quartieri, con la ghettizzazione di intere periferie; una crisi della legalità e dello spirito pubblico; una scarsa coesione sciale; elementi di dinamismo culturale e sociale – pur presenti – dispersi in un contesto di immobilismo» [De Luca 1999, 3]. 2. L’espansione urbanistica di Salerno nel XX secolo L’amministrazione De Luca deve fare i conti con una città ferita dal disastroso sisma del 1980, che aveva sfollato gli abitanti del danneggiato centro storico in zone pensate appositamente ai margini (le aree collinari di Matierno e Cappelle), e colpita da politiche territoriali – da ascriversi al «modello predatorio e asimmetrico di accorpamento» [D’Angelo 1987, 500] degli anni Sessanta e Settanta – che, varcato il limite della città centrale, avrebbero legittimato la nascita della periferia urbana. Salerno cresce «in modo esteso, discontinuo e disordinato» [Russo 2011, 69], spesso vittima di un atteggiamento della classe dirigente privo di capacità predittiva e di progettualità nelle scelte, oltre che impreparato alle rilevanti ondate migratorie della prima metà del Novecento. Numerosi sono i tentativi – più o meno riusciti – delle amministrazioni d’inizio secolo di dotare la città, «“prigioniera” del territorio stesso sul quale si estende, racchiusa dalla cerchia di

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colline, dal fiume Irno e dal mare» [ivi, 493], di uno strumento urbanistico che ne garantisse uno sviluppo sistematico; primo tra tutti il piano Donzelli-Cavaccini (1915), che, se da un lato segna l’inizio dell’espansione della città, dall’altro delinea una prima contrapposizione tra centro storico e parte nuova, rendendo anche possibile «leggere […] i nuovi disegni ed i complessivi progetti socio-politici della nascente borghesia salernitana» [Giannattasio 1995, 52].

1: Litorale e tratto ferroviario di Salerno-Mercatello, EBAD - Fondo Gallotta. Vista di Salerno Est dal Colle Bellaria negli anni Trenta: lo scenario urbano è ancora connotato dalla coesistenza di città e campagna. All’indomani dei due eventi bellici e del Piano di Ricostruzione Scalpelli (1945), con cui Salerno abbandona definitivamente il suo disegno originario, la città si ritrova «come schiacciata dalla presenza della grande metropoli (Napoli, ndr), ne è subalterna […] ne riproduce, quasi in miniatura, i ritmi convulsi di sviluppo urbano e demografico» [D’Angelo 1987, 517], con una popolazione che cresce del 35% tra il 1951 e il 1961 in uno scenario urbano in cui la città e la campagna ancora convivono. L’alluvione del ’54 – la cui entità in termini di danni viene valutata intorno ai 35 miliardi di lire [Tesauro 2014] – contribuisce, in seguito, insieme alla tendenza inarrestabile della popolazione di migrare verso la città, a rendere ancor più necessaria un’accelerazione dello sviluppo. Salerno si prepara a diventare centro per un neonato sistema periferico quando, nel 1965, il Piano Marconi viene approvato, quattro anni prima dell’entrata in vigore del D.M. 1444/68, legittimando un’edificazione piuttosto sregolata. Nonostante «il tema dominante appare […] quello dell’integrazione armonica del centro storico che Salerno deve conservare come inalienabile patrimonio» [Menna 1989, 44], il piano, dimensionato su una non avverata previsione in vent’anni a 250.000 abitanti, realizza, infatti, ampie zone residenziali nei quartieri periferici – Fratte e Giovi – determinando una marginalizzazione del centro storico [Ruggiero, Scrofani 2011]. Tra il 1956 e il 1970, sotto l’amministrazione guidata da Alfonso Menna, «non vi fu fine settimana in cui Salerno non fosse oggetto di un sopralluogo da parte dei rappresentanti degli organi centrali» [Menna 1996, 21], interessati a quella che viene definita, all’epoca, la

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“rinascita” della città: anticipando alcuni concetti ripresi nel corso degli anni Novanta, Menna intuisce la rilevanza del turismo per lo sviluppo e parla, con lungimiranza, di una città che non può dirsi evoluta se a mancare è la valorizzazione della comunità dei cittadini.

2: Particolare veduta di Salerno, EBAD - Fondo Gallotta. Salerno, in forte espansione sul versante orientale, negli anni Sessanta. Sullo sfondo, ai piedi della collina, il rione De Gasperi in piena edificazione. Sarà la poca attenzione alla componente valoriale a consegnare, negli anni Settanta, ben 13.805 nuovi appartamenti al territorio comunale [Panico 2005] e, dunque, un paesaggio collinare completamente deturpato dall’edificazione di nuovi complessi residenziali. In un processo che sembra proseguire anche nel corso degli anni Ottanta, Salerno continua convulsamente ad espandersi al di là del fiume Irno, limite ultimo di un centro non connesso alla sua periferia, mentre gli abitanti cominciano a fuggire dal caos della vita in città. Come accade anche a Napoli, che nello stesso periodo si è «ridotta spostando […] nella cintura più vicina le quote di popolazione espulsa» [Discepolo 2012, 111], una parte consistente di cittadini viene trasformata in city users [ibidem], ossia semplici fruitori dei servizi concentrati al centro della città, lontani dai loro quartieri-dormitorio, moltiplicatisi all’indomani del sisma. 3. Salerno e la “macchina della crescita” L’atteggiamento politico basato sull’idea di «non poter sopportare che i cittadini “usino” la città e non la consumino soltanto» [La Cecla 2015, 9], si accompagna ad una trasformazione della struttura sociale della città. Come in gran parte del territorio nazionale, anche a Salerno, rivolta ormai l’attenzione ad un’economia terziaria, che richiede minore manodopera più qualificata, le migrazioni interne tendono a diradarsi, con un saldo migratorio che rimane negativo per tutto il corso degli anni Novanta e nel decennio successivo. La popolazione decresce, passando dai 157.385 abitanti del 1981 ai 138.188 del 2001, la presenza dei ceti popolari si assottiglia e la classe operaia tende a scomparire, perdendo il suo ruolo di contraltare di una classe borghese la cui crescita va, invece, consolidandosi: «in un quadro di perdita generalizzata di popolazione da parte della città centrale, chi è rimasto al suo interno sono i figli delle classi medie e superiori, che hanno progressivamente acquisito titoli di studio

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più elevati, beneficiando di occupazioni all’interno dell’economia terziaria» [Semi 2015, 145] che a Salerno ruota intorno all’idea di città “europea”. Così, mentre la politica incoraggia il ripopolamento del centro storico attraverso iniziative comunitarie legate ai fondi strutturali (progetto Urban, approvato dalla CE il 30/04/1996), contemporaneamente gli abitanti determinano l’habitus urbano, risentendo soprattutto della “corsa al mattone”, conformemente alla tendenza alla proprietà della casa che connota la gentrification di stampo italiano [Semi 2015]. La casa diventa, nella mentalità comune, un valore sicuro su cui investire: la domanda in crescita da parte di una popolazione in stasi ma segnata da una forte atomizzazione, la scarsa offerta di progetti di housing sociale e la semplificazione nelle modalità di accesso al credito alimentano il trasferimento delle risorse verso la proprietà, determinando un aumento dei prezzi medi delle abitazioni. Questo delinea, inequivocabilmente, il target di utenza per alcune porzioni di città che, acquisendo esclusività, attirano solo una certa fetta di popolazione, segnando delle «geografie molto chiare, accentuate dall’azione pubblica» [ivi, 148] e, dunque, dalle pratiche di rigenerazione urbana. Il già citato Piano Strategico (del. n.314/2006) diventa lo strumento attraverso cui Salerno propone questa rigenerazione: una di tipo “fisico”, attuata principalmente sulle ferite lasciate dalla deindustrializzazione, come l’area “ex-Salid” – in cui gli insediamenti produttivi fanno posto al grande asse della “Lungoirno” e ad un nuovo sistema di appartamenti, uffici ed aree attrezzate a verde – o l’area “MCM” – in cui viene localizzato un grande Centro Commerciale servito da un rinnovato sistema stradale; una di tipo “economico”, collegata alle azioni sul tessuto, ed una “culturale”, con la proposta di nuovi poli per la ricerca e la sperimentazione tecnologica. Il sistema di azioni strategiche, sinteticamente esposto, si configura come esito di una riflessione condotta al tavolo di un’ampia coalizione di attori – tra gli altri, il sindaco De Luca, Raimondo Pasquino, rettore dell’Università di Salerno, Guido D’Angelo, ordinario di Diritto Urbanistico all’Università di Napoli, Carlo Borgomeo, esperto di politiche del lavoro – definibile come la growth machine della città di Salerno. In linea con la diffusione di una gentrification che gli studiosi definiscono di “ancoraggio”, una fase in cui «le politiche pubbliche accompagnano, o assecondano, gli attori privati nel produrre città» [ivi, 62], alcuni attori si raggruppano temporaneamente come “macchina della crescita” urbana, appropriandosi dei benefici della trasformazione e trasferendo i costi alle aree non interessate dalla stessa. Il disegno che viene fuori è quello di una città che seleziona aree utili ai fini dello sviluppo, lasciando ai margini quelle giudicate non idonee, definendo il ricambio della popolazione salernitana degli ultimi vent’anni. Anche quando risulti chiaro che «per i cittadini la priorità non è che la loro città diventi un successo mondiale, ma che sia un luogo dove la vita quotidiana favorisca coloro che “stanno”» [La Cecla 2015, 101], le argomentazioni a sostegno di tale prassi appaiono inattaccabili, perché legate al concetto di benessere: coerentemente con un regime giustificativo squisitamente consumista [Semi 2015], De Luca dichiara, nel discorso tenuto nel 2010 per l’inaugurazione dei lavori del Polo Cantieristica Nautica, che «creare lavoro è la […] principale preoccupazione nell’ambito di questo straordinario programma di riqualificazione urbanistica» [www.comune.salerno.it]. 4. Salerno nelle dinamiche urbane del terzo millennio Il rinnovamento urbanistico di Salerno, superata la tradizionale concezione di piano, si configura come un sistema di progetti definiti «à la maniere de Bohìgas» [Russo 2011, 65] che

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anticipano l’approvazione del PUC (D.P.G.P. n.147/2006), firmato dallo stesso Bohìgas, intervenendo sul tessuto in maniera irreversibile. La parte rappresentativa della città, definita dal tessuto storico e da quello più urbanizzato tra il mare, le colline e l’Irno, è quella in cui si concentrano gli interventi, quasi tutti pensati come oggetto di concorsi internazionali indetti già nel corso degli anni Novanta: il Lungomare, con il ridisegno del fronte mare ad opera dello spagnolo Ricardo Bofill e la realizzazione della stazione marittima di Zaha Hadid; la zona dello svincolo autostradale A3, con il progetto della galleria “Porta Ovest” della città a firma dell’architetto napoletano Pica Ciamarra; la Lungoirno, con la Cittadella Giudiziaria di David Chipperfield ed il progetto dello snodo di via Vinciprova firmato da studio Gnosis di Napoli. Tra questi progetti, che proiettano Salerno in una «scatenata modernità fatta di grattacieli, […] scopiazzate disneylands, enormi centri commerciali» [Settis 2014, 116], emblematico è quello previsto per il lungomare storico, dal molo di Santa Teresa all’Irno, prima area di espansione della città, da sempre luogo elettivo della vita sociale. Se per il viale alberato e gli edifici di pregio vengono previsti interventi di tipo conservativo, una più incisiva trasformazione è pensata per l’area del vecchio molo: con un progetto che sembra ricalcare quello della “Grande Salerno” promosso dal candidato sindaco Carmine De Martino nel 1956, lo spagnolo Bofill disegna una piazza di 27.000 mq, “Piazza della Libertà”, definita da un edificio semicircolare tipo Crescent, dalle destinazioni d’uso residenziale, direzionale e commerciale. Nell’ottica di una restituzione al pubblico dell’area dopo un passato legato prima all’industria delle doghe in legno (le “chiancarelle”) e poi all’abbandono in seguito al processo di deindustrializzazione, il progetto diviene il simbolo del rilancio turistico della città, oltre che delle nascenti controversie tra l’amministrazione e parte della cittadinanza. A difesa di un’identità che sembra essere negata dal fiorire di sempre nuove e più esclusive architetture, i cittadini originari, organizzati in comitati (“No Crescent”, “Figli delle Chiancarelle”), si mobilitano in nome di quel “diritto alla città” calpestato dall’esponenziale aumento dei prezzi delle abitazioni, mossi da un «sentimento di marginalità rispetto al nuovo progetto immobiliare» [Semi 2015, 118] che sembra dimenticare il capitale simbolico accumulato nei secoli, disperdendolo in favore della standardizzazione. Con un meccanismo tipico della cosiddetta new-build gentrification, per cui «decidere di ospitare un grattacielo di Renzo Piano o un centro culturale a firma di Zaha Hadid in città significa […] ricavare oneri di urbanizzazione e sperare di attrarre turisti e abitanti» [ivi, 97], Salerno sembra adattarsi ad uno stile sempre più “globale”, attirando la nuova classe media cosmopolita, in uno spazio in cui sembra non esserci più posto per il passato e i suoi abitanti, relegati nei rioni collinari e nei quartieri residenziali a ridosso della zona industriale. È già scoppiata la crisi, innescata, intorno al 2007, dalla housing bubble della sovrapproduzione di offerta edilizia, quando Salerno si dota, infine, del PUC e sono ormai avviati tutti quei progetti riconducibili ad una gentrification divenuta, negli studi contemporanei, produzione di spazi, concentrati nella città centrale, per un’utenza sempre più ricca. All’interno di uno scenario diviso tra una città diffusa, quella collinare, ed una città compatta, il territorio urbanizzato e semi-urbanizzato, definite ben 75 zone di trasformazione urbana da realizzare insieme a soggetti privati, il PUC si ripropone di superare la dicotomia centro-periferia che proprio, in realtà, la metodologia del Piano Strategico aveva contribuito a rimarcare, auspicando un ritorno degli abitanti spinti ai margini non interessati alla trasformazione o, addirittura, nei comuni limitrofi. In questo senso appare significativo il dato del 2011, anno in cui, mentre l’amministrazione sborsa un’ingente somma per il nuovo logo della città “europea”, a firma del designer Vignelli, nell’avviata corsa al branding, la popolazione subisce una decremento del 30% dall’anno precedente, delineando un

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andamento parabolico tuttora discendente, in controtendenza con i dati relativi alla popolazione residente nei comuni limitrofi, in particolare della Valle dell’Irno, diventati il vero sistema periferico del capoluogo.

3: Valentina Russo, Stazione Marittima. Veduta della città di Salerno dalla copertura, in esecuzione, della Stazione Marittima di Zaha Hadid nell’area del porto. È visibile anche il cantiere di Piazza della Libertà sullo sfondo (2011). 4: Emanuele Carione, Luna-park. La ruota panoramica di Salerno, installata a partire dal 2017, in concomitanza con la manifestazione “Luci d’Artista”, simbolo del processo di produzione di amenities urbane (2018). È chiaro che la crescita ipotizzata per Salerno ha come grande obiettivo il rilancio di una città che punta i riflettori sui quartieri divenuti “alla moda”, in cui sono tangibili la trasformazione e il ricambio di popolazione, facendo calare il sipario su quegli spazi che poco, o nulla, hanno a che fare con le dinamiche di restyling urbano. È una città che, per quattro mesi all’anno, diviene la “Salerno Luci d’Artista”, ormai nota ai media nazionali come meta di fine settimana all’insegna di mercatini e canzoni natalizie. In un processo che ha brandizzato il bene-città facendone “la città del Natale”, lo storico capitale simbolico della città viene soppiantato da «formule passepartout, improvvisate a freddo» [Settis 2012, 105], in linea con forme di gentrificazione globale che puntano all’offerta di amenities – ristoranti, strutture ricettive, negozi che creano movida – in grado di soddisfare la domanda di adeguatezza di uno specifico quartiere [Semi 2015]. Conclusioni Prendendo, dunque, in esame il complesso scenario urbano odierno, viene da dire che Salerno «non vuole privilegi e vantaggi che non le competono ma soltanto comprensione dei suoi problemi» [Menna 1996, 23] così da chiarire l’evoluzione delle politiche in termini di sviluppo urbano e, soprattutto, sociale. Pur comprendendo la rilevanza che le trasformazioni urbane degli ultimi anni hanno avuto in termini di crescita e di benefici, ci si domanda quale sia la reale visione per il futuro di una città che continua a drenare risorse pubbliche con nuove installazioni, firme dell’architettura e quote per l’edilizia residenziale. È necessario chiedersi quale sia il destino dei cittadini espulsi da un ambiente che li ha rinnegati in favore di un “pubblico pagante” e ragionare su quel “surplus cognitivo” [Settis 2012] di cui ogni cittadino è custode, necessario per ripensare all’identità di una città che, in quanto tale, è irripetibile, pur nel suo sogno di andare oltre i propri confini.

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