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FARCORO, September 2010

Date post: 30-Jan-2016
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FARCORO is the official Magazine of AERCO, the Emilia Romagna Choral Association. Editor: Andrea Angelini
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Quadrimestrale dell’AERCO Associazione Emiliano Romagnola Cori N° 3, Settembre — Dicembre 2010 Farcoro Tariffa Associazioni Senza Fini di Lucro “Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (convertito in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Bologna
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Quadrimestrale dell’AERCO

Associazione Emiliano Romagnola Cori

N° 3, Settembre — Dicembre 2010

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3 EDITORIALE

di Andrea Angelini

4 DIDATTICALa bellezza esteticaarmoniosa

di Giacomo Monica

10 DIDATTICAIl Canto corale nellascuola primaria

di Matteo Unich

13 DIDATTICALa Tecnica Vocale in Italianella seconda metà del XVI Secolo(seconda parte)

di Mauro Uberti

19 DIDATTICACorso Biennale per Direttori di Coro

a cura della Segreteria AERCO

21 COMPOSIZIONIEt asperget

di Luigi Buda

28 STORIAPalestrina e Mantova:storia di una relazione a distanza

di Paolo Bucchi

34 OPINIONIPensare il Gregoriano

di Fulvio Rampi

Farcoro - indice

4 La bellezza estetica armoniosa

13 La Tecnica Vocale in Italia..........

34 Pensare il Gregoriano

21 Composizioni: Et asperget di Luigi Buda

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FARCOROQuadrimestrale dell’AercoAssociazione Emiliano Romagnola CoriSettembre-Dicembre 2010Edizione online: www.farcoro.it

Autorizzazione del Tribunale di Bologna N° 4530 del 24/02/1977Spedizione in abbonamento postale DL 353/2003Art. 1, comma 2 DCB, Bologna

Direttore ResponsabileAndrea Angelini

Comitato di RedazioneFedele FantuzziGiacomo MonicaPuccio PucciEdo MazzoniMatteo Unich

StampaTipografia Giusti, Rimini

Sede Legalec/o Aerco – Via San Carlo 25-f40121 BolognaContatti Redazione:[email protected]+39 347 2573878

I contenuti della Rivista sono © Copyright 2009 AERCO-FARCORO, Via San Carlo 25-f, Bologna - Italia. Salvo diversamente specificato (vedi in calce ad ogni articolo o altro contenuto della Rivista), tutto il materiale pubblicato su questa Rivista è protetto da copyright, dalle leggi sulla proprietà intellettuale e dalle disposizioni dei trattati internazionali; nessuna sua parte integrale o parziale può essere riprodotta sotto alcuna forma o con alcun mezzo senza autorizzazione scritta. Per informazioni su come ottenere l’autorizzazione alla riproduzione del materiale pubblicato, inviare una e-mail all’indirizzo: [email protected].

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Quarantanni !

Farcoro - editoriale

“Ad augusta per angusta!” (Ernesto di Brandeburgo)

No, non’è un errore ortografico e neanche una licenza poetica! Mi è piaciuto scriverlo

così, senza quell’apostrofo che avrebbe interrotto un meraviglioso cammino corale e sociale nato nel

lontano 1971. Per chi non l’avesse ancora capito, oppure se ne fosse scordato, l’AERCO, la nostra Associazione, emise i primi vagiti (quasi) quarant’anni or sono. Era il 16 Maggio 1971 allorquando, sotto

l’egida del locale Ente Provinciale del Turismo di Ferrara, sei cori della nostra Regione diedero vita all’AERCIP, l’Associazione Emiliano Romagnola Cori di Ispirazione Popolare, antesignana di ciò che poi, nel 1978, divenne AERCO. Ma chi erano questi cori a cui dobbiamo giusta riconoscenza? Eccoli: Il Coro Leone XIII di Bologna, il Coro Stelutis di Bologna, il Coro Toccacielo di Porretta Terme, il Coro Val Dolo di Toano, il Coro Val Padana di Casumaro e la Corale Verdi di Argenta. Di questi, il solo Coro Val Padana, purtroppo, non è più in attività. Per la cronaca, si riporta che Giorgio Vacchi venne nominato primo Presidente e la sede fu eletta presso la dimora storica del Coro Stelutis, in Via Zamboni 52.

Bene, giusto un anticipo ai nostri lettori di quello che rappresenterà il 2011 per l’AERCO! Intanto avete visto che il logo è stato modificato: ora in bas-so trionfano le cifre “40”; non si tratta di un vezzo grafico ma di una saggia decisione assunta dal diret-

tivo allo scopo di enfatizzare la ricorrenza. Vi invito pertanto ad usare questo nuovo logo scaricabile dal nostro sito web, sino a tutto il 2011, su ogni forma pubblicitaria dei concerti che farete ed in cui l’AERCO ha una qualsiasi forma di partecipazione. Delle altre iniziative, dal convegno alla presentazio-ne stampata, ne parleremo in modo più approfondi-to nel prossimo numero di FARCORO.

All’interno della Rivista troverete tutte le infor-mazioni sull’atteso Corso Direttori. Le novità non mancano! Vi assicuro che l’incontro a scopo di-dattico con i “Piccoli Musici” di Casazza rimarrà un’esperienza davvero unica per i partecipan-ti. Ritornerà, a grande richiesta, il Dott. Fussi, uno dei massimi esperti Italiani sulla fisiologia del-la voce. Una ghiotta occa-sione sarà la possibilità di dirigere un’orchestra sotto la tutela dei Maestri Scattolin e Monica. Un plauso va senz’altro al team dei coordinatori del corso che hanno lavorato in splendida sinergia.

Vi annuncio, da ultimo, l’apertura di un nuovo sito web, www.farcoro.it, dove potrete trovare tutte le edizioni precedenti del nuovo FARCORO, con pos-sibilità di lettura offerta dai nuovi strumenti infor-matici quali sono gli “e-book reader”.

Bologna, 31 Ottobre 2010

Andrea AngeliniDirettore di FARCORO

[email protected]

Era il 16 Maggio 1971, quando, sotto l’egida dell’EPT di Ferrara, sei cori......

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voce sia dentro ad ogni cosa, dentro all’uomo così come dentro alla pietra, e sia l’anima segreta di un mistero. Non intrappolata o soffocata, al contrario resa libera, ci accompagna per dialoga-re con noi, di qualsiasi natura essa sia.

Non è da escludere che compositori contem-poranei, i cui linguaggi innovativi rivolti alla sperimentazione sono in continua evoluzione esplorativa, possano trovare soluzioni espres-sive, non solo trattando le sculture di Pinuccio Sciola come un “arredo sonoro” ma come una forma significativa di linguaggio primario che si esplicita in modo diretto e diventa esigenza di un dialogo tra l’elemento natura- pietra e l’uomo voce-canto.

Riuscire poi a unire maggiormente tra loro le arti, rompendo quelle barriere mentali che si in-terpongono con facilità impedendo il passaggio da una disciplina all’altra, significa fare un picco-lo passo in avanti nella comprensione dell’arte stessa, cioè verificando che, in questo caso, poli-fonia e litofonia (voce-pietra) sono complemen-tari e compensative tra loro, così come avviene normalmente tra recitazione e canto.

La voce tra natura e uomo, tra respiro e canto, tra materia e anima, tra tecnica e arte resta di tutto l’essenza.

Farcoro - didattica 1

La bellezza estetica armoniosa

di Giacomo Monica (*)

LA VOCE NELLA NATURA E NELL’UOMO

Viene subito spontaneo chiedersi: cosa c’en-tra parlare di una scultura su una rivista

musicale, legata soprattutto alle problematiche inerenti ai cori, alla voce, ai generi musicali, alle tecniche di sostegno attinenti e alle conseguenti interpretazioni? Se l’essenza di tutto, in con-siderazione delle molteplici argomentazioni of-ferte dalla rivista FARCORO (in senso lato) è la voce, e la voce è suono, allora ci si può anche interrogare sull’origine del suono, su come na-sce, da che materia si libera, che caratteristiche ha, quali sono le aree di risonanza, qual è il pote-re espressivo del suono e così via…

Con le sculture sonore di Pinuccio Sciola si entra in una dimensione ancestrale, magica ma con-creta nello stesso tempo, in cui si capisce molto bene il concetto, fondamentale per ogni musi-cista, che il suono nasce dal silenzio; proprio così, come per associazione di idee, la nostra mente ci riporta al titolo del manuale di tecnica corale di Fosco Corti “Il respiro è già canto”. Fin dall’epoca primordiale il suono, prima di es-sere nell’uomo (nelle sue corde vocali) già esiste-va, così come già esisteva nella pietra prima del nascere della luce… (così afferma lo scultore)

E’ meraviglioso, non utopico, pensare che la

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COME INTERPRETARE E SUONARE LE SUE SCULTURE

La composizione è già dentro la scultura!

Ecco perché con le sculture sonore di Pinuccio Sciola, secondo me, non si deve avere la pretesa di inventare una composizione (diversi musicisti in tal senso hanno cercato di scrivere e speri-mentare) ma sono sculture vive che si devono saper interpretare nel vero senso della parola; ognuna di esse parla un linguaggio diverso in rapporto alle proprietà fisiche del suono: altez-za, intensità, timbro, in rapporto alla forma, alla dimensione, al peso, agli spazi, al calibro delle corde di pietra, alla profondità o meno dei tagli e al tipo di sollecitazione. La composizione è già dentro la pietra che parla un linguaggio proprio.

Tutto ha un codice preciso in partenza e si può utilizzare a fini espressivi, e nella matrice vi è già lo scheletro prefissato che suggerisce le soluzio-ni interpretative a condizione che vi sia il desi-derio e la ricerca di un ascolto profondo, medi-tativo, per poter meglio fare emergere il suono e riproporlo. Secoli di storia ci hanno donato meravigliose sculture a 3D che ancora oggi ci incantano, poi in un passato a noi molto vicino altri artisti si sono misurati con sculture in mo-

vimento creando una 4D, altri con sculture che producono rumori meccanici rientrano nel cam-po della sperimentazione 5D, Pinuccio Sciola è andato oltre creando una 6D che incanta per-ché la pietra canta.

Le risorse sonore che offrono onde e pulviscoli di armonici sovrapposti e di suoni che si estin-guono in magiche dissolvenze, rappresentano solo una tra le possibilità espressive che la scul-tura offre, così come ascoltando questa o trat-tandola sotto l’aspetto ritmico, lascia capire che “dentro” contiene i ritmi dei lavori più impensa-ti: da quelli manuali a quelli delle macchine fino a quelli computerizzati, le pulsazioni fisiche o il ticchettio degli elementi della natura, sono la conferma che ogni cosa porta con sé la presenza dell’elemento ritmico riscontrabile nella scultura stessa.

Attraverso la celebrazione del silenzio, unico nido dal quale le vibrazioni sonore si liberano dalla pietra e si trasformano anche in suoni de-terminati, ma con significati aleatori, ci si abban-dona alla contemplazione quasi mistica del suo-no conquistati dall’energia emergente.

ACCESSORI

Gli accessori necessari per far risaltare nel mi-gliore dei modi tutte le risorse di quella scultura o quell’altra (ribadisco, ognuna ha una vitalità sonora a sé) sono lasciati all’intuito, alla fantasia, al buon gusto e al criterio di chi si assume la re-sponsabilità di interpretare questa sesta dimen-sione, ulteriore risorsa della pietra che ci viene offerta. Pinuccio Sciola, autore delle sculture, sostiene che le sue opere non vogliono essere strumenti musicali, quindi non vi è, da parte sua, voluta-mente una ricerca in anticipo pensata né sull’al-tezza dei suoni determinati, né sulla vasta gamma di timbriche coloristiche che possono scaturire dalla scultura stessa. Nonostante ciò, lui sceglie

Pinuccio Sciola suona una sua scultura

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tra milioni di pietre con un intuito speciale quel-le che reputa maggiormente idonee, le assaggia percuotendole, le sente “a tatto”, capisce che sono quelle che gli appartengono. Sono loro le pietre che, prima della mano, vengono lavorate nella mente e nel cuore.

È l’interprete che deve sapere costruire qualsiasi accessorio che ritiene valido a leggere le sfuma-ture espressive sonore che la pietra contiene. La tradizione secolare, anzi millenaria e tribale, in tutti i continenti terrestri sull’uso degli strumen-ti a percussione, è ricca d’innumerevoli esempi; c’è da dire però, che molti possono risultare non sempre appropriati in riferimento alle sculture di Sciola, dovendo queste essere trattate in modo acutamente personalizzato. Ecco perché per questa ragione è indispensa-bile ascoltare e studiare a fondo, con verifiche

sempre maggiormente approfondite, la scultura. Ogni materiale d’uso: legno, osso, avorio, ferro, parallelepipedi di calcare o basalto, crine, a se-conda della dimensione, della forma, dell’ade-renza, della velocità o lentezza dei movimenti sulla scultura, dà risposte diverse che possono cambiare la sonorità in modo quasi impercetti-bile o netto. Tutti i materiali sono rigorosamente naturali, niente sintetico, niente amplificato.

Dopo aver costruito gli accessori necessari, il piacere è lasciato tutto a quelle persone che con la scultura desiderano dialogare: giocando, par-lando, suonando, guardando, e perché no, ascol-tando… che dal silenzio nasce il suono. Tutto per il piacere di essere a contatto con una cosa viva, viva come una persona con una voce e un’anima che ci racconta tante cose che noi an-cora non sappiamo.

Le mani poi assumono un ruolo importantissimo, attraverso il personale senso tattile, la scultura viene di continuo accarezzata, sfiorata con gesti rotatori, quasi a simboleggiare i movimenti co-smici perpetui.

Cucchiaino di osso

• Si ottengono sonorità particolarmente delicate, sottili lucci-chii, piccoli bagliori di suono quasi invisibili come scintille.

• Utilizzabile per una dinamica che va dal PPPP al PPP.• Sul fianco della scultura con movimenti rotatori.

Tastiera

Lato

Fian

co

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Percussore con sfera di legno

• Si ottengono sonorità che bene suggeriscono movimenti di onde sonore, fruscii, vento, aria leggera.

• Utilizzabile per una dinamica di crescendo e diminuendo che non vada oltre il “M F”.

• Sul fianco della scultura con movimenti a “8”.

Tubetto di legno

• Si ottengono sonorità piuttosto decise e tendenti al forte, molto nette nell’articolazione.

• Utilizzabile per le dinamiche decise che esprimono grinta, tut-te piuttosto rivolte al “F”.

• Sopra alla tastiera (in senso longitudinale) con movimenti ver-so l’esterno.

Sollecitatori in basalto

• Si ottengono sonorità molto marcate, con effetti di spiccata articolazione.

• Utilizzabile per le dinamiche piuttosto “F”.• Sopra la tastiera, con movimenti delle due mani alternate

come fossero scale ascendenti.

Grappolo di sollecitatori in avorio

• Si ottengono scampanii bucolici, trilli, effetti di tremolio par-ticolarmente festosi. Fremiti plurimi per l’insieme e la con-temporaneità nel movimento dei battagli.

• Utilizzabile per una dinamica di media intensità.• Sopra la tastiera per poter sollecitare contemporaneamente i

due lati della scultura.

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Foglia di metallo

• Si ottengono effetti di mormorii molto flebili ma determinati, come microscopiche luci stellari.

• Utilizzabile per una dinamica PPPP e poco più.• Sul fianco della scultura, con movimenti ondulatori elastici

per non frenare l’accessorio contro le tacche della scultura (M. S.)

Martelletto percussore di legno

• Si ottengono effetti ritmici molto belli sul lato e sul fianco del-la scultura percuotendo, ed effetti di gocciolii passando sulla tastiera.

• Utilizzabile per dinamiche varie.• Sul lato, stando con la mano molto vicino alla superficie della

scultura e sopra la tastiera, con movimenti liberi.

Profilo di foglia in ferro

• Si ottengono effetti molto decisi e graffianti, o raggi luminosi abbaglianti.

• Utilizzabile per una dinamica più sul F che sul P.• Sopra la tastiera della scultura con movimenti lenti e ripetuti.

Archetto per violoncello

• Si ottengono (per il mazzo di crini di maggiore larghezza ri-spetto all’arco per violino) risultati polifonici toccando con i crini due lame sonore simultaneamente.

• Questo procedimento esteso a 4 mani (2 suonatori) può am-pliare il bicordo in accordo entrando, in base alla gamma so-nora della scultura, in una conduzione polifonica o armonica per (consonanze, dissonanze, cluster).

• Utilizzabile per dinamiche di media intensità.• Come con l’arco del violino.

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ASPETTI DIDATTICI E FORMATIVI

Per qualsiasi bambino scoprire che il suono è dentro a tutti gli elementi della natura e dunque anche dentro alla pietra (che per definizione vie-ne classificata tra gli elementi freddi, statici, iner-ti e spenti) è una gioia immensa che lascia nella stupefazione più assoluta; resta muto di fronte ad una pietra che invece parla, che canta e che racconta … che vuole dialogare con lui.

Quanto è importante per un bambino capire che il suono nasce dal silenzio?E che non è facile ascoltare il silenzio? …Ma le pietre suggeriscono anche questo. Qualsiasi bambino con le proprie mani acutiz-zando il proprio tatto può accarezzare, sfrega-re, percuotere e suonare le sculture di Pinuccio Sciola e subito entrare in sintonia, e giocando con le pietre trovare così molte risposte valide per la sua sensibilità e curiosità, curiosità molto significativa in quanto indice di crescita dell’in-telletto.

Qualsiasi bambino scopre anche la bellezza este-tica e armoniosa, raffinata e delicata, si avvicina così concretamente all’arte scoprendone le ca-ratteristiche intrinseche ed intuendo che tra loro le arti sono legate.

La danza, ad esempio, è legata al suono e al mo-vimento, così come al movimento sono legate le sculture di foglie leggere e sospese di Calder, oppure le sculture di Tinguely o Munari, volu-tamente incentrate sul rumore causato dal mo-

vimento; facendo poi un percorso di ulteriore avvicinamento cronologico, arriviamo alle scul-ture di Bertoia che, mosse, scatenano grappoli di suoni frastornanti.

Con le sculture sonore di Sciola, invece, il bam-bino intuisce che non si tratta di un oggetto or-dinario, ma di una cosa viva che gli appartiene e che contiene un’anima sonora custodita all’in-terno della pietra. Suonare una scultura è così anche una magnifica opportunità per avvicinarsi al mondo magico della musica. Il bambino co-mincia a conoscere, a vedere e sentire la mate-ria con occhi diversi, orecchio attento e mente predisposta ad un apprendimento attivo ma di-vertente, così divertente che la scultura si può trasformare in gioco.

Per avere un’idea delle risorse sonore della scultura si può visionare su You Tube il video dal titolo “La bellezza estetica armoniosa” di Giacomo Monica (durata 7 50’) http://www.youtube.com/watch?v=VGZzlgFtyXg

(*) Violinista in complessi cameristici, docente di

violino al Conservatorio di Parma, ricercatore ed

elaboratore di canti popolari, direttore del Coro

Montecastello di Parma, vicepresidente AERCO e

direttore della sua Commissione artistica.

Ragazze ascoltano la scultura

Pinuccio Sciola e i suoni della pietra......

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Farcoro - didattica 2

Il Canto corale nella scuola primaria

di Matteo Unich (*)

Di recente si assiste, nella scuola primaria e secondaria di primo grado, a un rifiorire

di iniziative volte a riscoprire il valore educati-vo e formativo del canto corale. Sono sorti, o si sono riaffermati, concorsi per cori scolastici e per complessi vocali giovanili, vi sono iniziati-ve ministeriali e concerti di cori di voci bianche, spesso sorti in ambito scolastico, sono in cartel-lone quasi ovunque.

In questa situazione sorge l’esigenza di trovare, nell’ambito scolastico, persone in grado di oc-cuparsi consapevolmente delle giovani voci dei

bambini e ragazzi coinvol-ti in queste iniziative. Se la direzione di un coro di adulti comporta la padro-nanza di tutta una serie di competenze – tecniche, psicologiche, perfino or-ganizzative – a maggior

ragione la direzione di un coro di voci bianche richiede esperienze e competenze non facilmen-te reperibili, anche quando ad occuparsene siano insegnanti diplomati. Per fare un esempio, è logi-co che un pianista, per bravo e consapevole che sia, non possiede dalla sua formazione conser-vatoriale le esperienze e le conoscenze tecnico-pratiche necessarie alla conduzione di un coro di bambini o di giovani della scuola secondaria di primo grado.

Il primo requisito indispensabile all’insegnante

è una conoscenza perfetta (non solo teori-ca) della vocalità nel suo insieme: anatomia dell’apparato vocale e respiratorio, funziona-mento della fonazione, respirazione diaframma-tica (e gli altri tipi: clavicolare e toracico-costale), emissione vocale, risonanze di petto e di testa e tutto quel che attiene all’aspetto vocale. E’ im-possibile pensare che l’insegnante-istruttore di un coro di bambini abbia solo vaghe conoscenze teoriche o addirittura che sia convinto che “can-tare è la cosa più naturale del mondo” e quindi non occorrano ai bambini tecnica e consapevo-lezza. La voce è delicata ad ogni età, figuriamoci all’epoca della formazione definitiva del fisico della persona. Al contrario, è indispensabile non solo che conosca alla perfezione tutto l’aspetto teorico della vocalità, ma anche che sappia met-terla in pratica, almeno fino al punto di poter esemplificare su sé stesso le cose che chiede ai suoi coristi. Un direttore di coro che non canti è come un istruttore di guida che non guidi.

La selezione dei coristi è un altro punto dolen-te. Se l’obbiettivo è quello di creare un coro sco-lastico per esibizioni (poco importa se interne o esterne, se destinate ai soli genitori o ad un pubblico più vasto) una selezione è indispensa-bile. Se invece si vuole dare ai ragazzi una co-noscenza della coralità come aspetto formativo, allora è indispensabile non selezionare. A questo punto, devo dare una tirata d’orecchi a molti in-segnanti del passato, che attribuivano (ma molti lo fanno ancora) con troppa facilità il marchio

La selezione dei co-risti è un altro punto dolente. Se l’obbiet-tivo è quello di crea-

re un coro..........

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di “stonato” ai loro alunni, spesso lasciando in loro una specie di marchio d’infamia per la vita. Molto spesso – ma potrei dire sempre – si tratta di bambini con la voce insolitamente spinta nella zona acuta o (più frequentemente) in quella gra-ve dell’estensione.

Questi soggetti cantano una quarta o una quinta sopra o sotto la nota giusta e quanto migliore sarà il loro orecchio, tanto più stonati sembreranno, perché la loro percezione interna li farà cercare l’intonazione corretta anche durante l’esecuzio-ne, andando a cozzare contro la loro vocalità. L’operazione di recupero, che è fattibilissima ma richiede un po’ di tempo da dedicare individual-mente al soggetto, è la seguente: si fa intonare al ragazzo una nota a sua scelta, la si trova con uno strumento a tastiera e la si fa ripetere con lo strumento parecchie volte, fino a dare al ragazzo la sicurezza di quella nota. Poi si sale e si scende con intervalli di tono intero partendo dalla nota data, e insistendo fino a corretta esecuzione, e allargando progressivamente l’estensione. Dopo poche lezioni il ragazzo è in grado di aggregarsi al gruppo con facilità.

Tornando alla selezione è bene ricordare che un errore comune è quello di mettere gli elemen-ti molto bravi tutti nella prima voce lasciando la seconda un po’ al suo destino. E’ invece utile fare il contrario: la difficoltà della prima voce, di solito quella della melodia, è nell’estensione, mentre quella della seconda, generalmente inca-ricata di compiti di carattere armonico, è nell’in-tonazione. Quindi è indispensabile che gli ele-menti che hanno nell’intonazione il loro punto di forza facciano parte della seconda voce, non della prima, lasciando invece in questa i bambini che abbiano particolare facilità nella zona acuta. Nel caso del coro senza selezione di elementi, il mio suggerimento è di scegliere per la seconda voce i ragazzi particolarmente indipendenti e au-tonomi, che possano cantare senza farsi influen-zare dalla facile melodia della prima voce.

Un altro punto importante: cantare la secon-

da o la terza voce non è una punizione, ma un premio. La prima voce, la melodia, è sempre relativamente semplice da imparare e da ritene-re, le altre – e quanto più sono “compresse” tra altre parti tanto più questo sarà evidente – sono difficili, poco orecchiabili, complesse da ricorda-re. Queste richiedono doti musicali e caratteria-li spiccate, a differenza della relativa anonimità della voce melodica.

Una volta stabilite le sezioni, inizia il lavoro vero e proprio. Nei primi incontri è indispensabile dare ai giovani una base tecnica il più possibile corretta, tramite spiegazioni, esempi, vocalizzi e quanto occorre. Iniziare dalle spiegazioni sui vari tipi di respirazione, mostrandone le diffe-renze, motivandoli a cercare la respirazione cor-retta (cosa utile non solo per il canto, ma per la vita intera), facendo loro svolgere esercizi fisici che permettano il formarsi di questa consapevo-lezza. In questa fase è utile, quando possibile, la collaborazione di un medico, meglio se foniatra, o almeno di un insegnante di scienze motorie. Allo stesso tempo, si cercherà di dare ai discenti le capacità fonatorie corrette. Un metodo sem-plice per rendere consapevoli i ragazzi del canto in maschera è quello di far toccare la parte ossea del naso mentre si emette la consonante N o M. La leggera vibrazione che si avverte è quella che va cercata durante l’esecuzione, e si può trasfe-rire alle vocali (che sono il vero oggetto del can-

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to) con esercizi graduali di apertura della bocca partendo dalle consonanti citate verso le vocali I, O, E, A. La U richiede un’emissione particolare, truccando una O in modo opportuno. A pro-posito dell’apertura della bocca, è indispensabile richiedere ai ragazzi un’apertura il più possibile “alta”, nella A e nella O in tutta l’estensione, nel-la I e nella E almeno nella zona acuta. Un siste-ma utilizzabile per dare la misura della corretta apertura della bocca è quello delle “tre dita”: in-dice, medio e anulare tenuti dritti e uniti devono entrare verticalmente nella bocca aperta.

Si distribuisca ai ragazzi lo spartito (corretto, leg-gibile… a volte si vedono spartiti indecenti) e non il solo testo. E’ un’occasione preziosissima per iniziare i ragazzi alla lettura e alla consapevo-lezza anche grafica della notazione musicale. Si insegnano – per imitazione, sperando e cercan-do di avere poi la possibilità di dare ai coristi la consapevolezza canora necessaria per la lettura – le varie voci, frase per frase, partendo da quel-la più grave. Quando la sezione ha un discreto controllo della frase appresa, si passa alla voce immediatamente superiore, confrontandola e rapportandola sempre a quella appena termi-nata. Prima possibile si facciano sovrapporre le due sezioni, fino ad ottenere la polifonia previ-sta. Quando la frase è appresa con sicurezza, si proceda con quella successiva.

A mio parere è meglio, per il formarsi di una consapevolezza corale, fare le prove con tutto il coro e non con le sezioni separate. E’ vero che questo lascia spesso i ragazzi inoperosi (mentre una delle sezioni apprende la propria parte, le altre devono tacere), però permette agli alunni di rendersi conto della complessità della polifo-nia e del necessario relazionarsi tra di loro delle singole parti.

Alcuni direttori suggeriscono di far apprendere tutte le parti a tutto il coro, e scinderle successi-vamente; in determinate condizioni potrebbe es-sere un metodo fruttuoso. Non è assolutamen-te indispensabile partire dall’inizio del brano, e

spesso neppure consigliabile. E’ molto meglio iniziare dalla parte più difficile, oppure da quel-la più accattivante, onde gratificare i ragazzi che cantano. Il “montaggio” del brano può avveni-re in un secondo tempo, quando tutte le parti siano state apprese con sicurezza. Durante tutto il percorso di apprendimento dei brani, biso-gna sorvegliare il corretto svolgimento tecnico del canto: respirazione, immascheramento della voce, esattezza delle note nella polifonia. Fon-damentale anche convincere i ragazzi all’ascol-to reciproco: il coro richiede assoluta sincronia ritmica e sintonia vocale, impossibili da ottenere senza il lavoro costante delle orecchie.

Il momento dell’esibizione pubblica va curato anche dal punto di vista estetico: abbigliamento, ordine di ingresso e di uscita, correttezza della postura, tutto contribuisce ad una buona riusci-ta, senza però arrivare ad esagerazioni paramili-tari. L’importante è che i ragazzi vedano questo momento come il coronamento di un lavoro piacevole e gioioso, compiuto insieme all’inse-gnante e agli amici. Molto importante cercare di dare al coro un’identità globale: è un gioco di squadra, si vince e si perde insieme, il “tutto” al di sopra del singolo.

L’ultima raccomandazione: niente esaltazione per le buone o ottime esibizioni, niente drammi per gli errori. Un comportamento diverso sareb-be sbagliato coralmente e poco formativo per la persona. Sovraccaricare di aspettative un’esibi-zione di un coro di voci bianche è assolutamen-te deleterio, e può portare i bambini – e, spiace dirlo, anche i genitori – a una tensione eccessiva che alla lunga potrebbe giungere a disgustare dal canto e a portare il coro al disfacimento. Usia-mo buon senso,e anche spirito olimpico: anche ai concorsi di canto corale, l’importante non è vincere, ma partecipare.

(*) Diplomato in Trombone; dal 1982 Direttore del

Gruppo Corale “Pratella-Martuzzi” di Ravenna;

membro della Commissione Artistica dell’AERCO.

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Farcoro - didattica 3

lasciarci ingannare dall’espressione «moltitudi-ne di cantanti»: è semplicemente un modo del Vicentino per distinguere il canto in coro dalla normale pratica, per i madrigali, di un solo can-tore per parte. Le risorse musicali delle basiliche romane non andavano oltre i 16 o 18 cantori, inclusi i tre o quattro fanciulli che sostenevano la parte di cantus.8 Questi cantori erano pagati e ovviamente un piccolo coro era più economico di uno grosso. Nel capitolo 29 Vicentino osserva inoltre che: «... nelle parti più basse il Cantante a uoce piena non possi accomodarsi a proferir correndo». La sola spiegazione fisiologicamente ragionevole per questa osservazione è che il can-tante di coro dovesse compensare lo squilibrio esistente fra il piccolo numero dei componenti lo stesso e la necessità di riempire la chiesa di suono, con una tecnica vocale che induceva una contrazione attiva delle corde vocali (e probabil-mente anche dei muscoli estrinseci della laringe) tale da ostacolare la loro agilità nella tessitura bassa. Una delle fonti più importanti sulla vo-calità rinascimentale è la lettera sul canto indi-rizzata da Camillo Maffei al conte di Alta Villa e pubblicata a Napoli nel 1562.9 Alcune delle spie-gazioni scientifiche del Maffei sono alquanto ab-borracciate - se non addirittura fantasiose - se le si considera in rapporto alle nostre attuali cono-scenze, tuttavia in qualche punto esse riescono ad essere, magari fortunamente, abbastanza vici-ne alla realtà. Ad un certo punto Maffei dice, per

Il più antico dai quattro teorici che io vorrei considerare, Nicola Vicentino, è quello la

cui informazione è forse la più obliqua. Nella sua Antica musica, la discussione dei vari aspetti dell’esecuzione (come il fraseggio, l’accentuazio-ne, la pronuncia e l’espressività) toccano occa-sionalmente qualche aspetto della tecnica vocale. Nel libro 4, cap. 17, il Vicentino prescrive che: «per commodità dei cantanti, & acciò che ogni uoce commune possi cantare la sua parte com-modamcnte ... mai si deve aggiognere righa al-cuna, alle cinque righe, ne di sotto ne di sopra, in nissuna parte, ne ancho mutar chiavi». Que-sta limitazione ad un ambito molto moderato per ciascuna delle voci mostra che il Vicentino non prevede affatto il passaggio della voce nella tessitura acuta. Più avanti egli specifica inoltre: «questa commodita sara communa, si alle uoci buone, come a quelle non troppo gagliarde e potenti». Il Vicentino sottintende che le «uoci buone» (quelle dei cantanti professionisti, presu-mibilmente) fossero capaci di grandi estensioni; ma il limite che egli stabiliva garantiva tuttavia nello stesso tempo facilità di emissione e com-prensibilità delle parole. Alcune pagine dopo, nel capitolo 29, egli ricorda che: «nelle chiese ... si canterà con le uoci piene, et con moltitudi-ne di cantanti». Qui possiamo vedere che viene adombrata quella distinzione fra canto da cap-pella e da camera che lo Zarlino (e più tardi lo Zacconi) fanno esplicitamente. Non dobbiamo

La Tecnica Vocale in Italianella seconda metà del XVI Secolo

di Mauro Uberti (*) - seconda parte

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esempio, che «il posto dove si formano i passag-gi è lo stesso nel quale si forma la voce»;10 infatti, l’agilità vocale dipende dall’attitudine dei musco-li intrinseci della laringe a modificare rapidamen-te la tensione delle corde vocali (la sensazione

è ben conosciuta da chi ha esperienza di can-to). Anche uno scettico, però, deve ammettere il valore delle regole alquanto precise del Maffei per quanto riguarda l’articolazione. Due di que-ste spiccano fra le altre sul canto di agilità: «La sesta è che [il cantore] distenda la lingua dimodo che la punta arrivi e tocchi le radici dei denti di sotto».11 La costanza di questo comportamento articolatorio nella pronuncia di tutte le vocali è infatti indispensabile ad ogni cantore che voglia tenere ben differenziate le formanti buccali dalla parola (in modo che le parole siano ben chiare) senza sacrificare molto della costanza delle for-manti della gola (al fine di ottenere un timbro omogeneo). Questa è una regola di canto parti-

colarmente importante in quella che da Monte-verdi era chiamata «seconda prattica», cioè canto nel quale la poesia è di primaria importanza.12 «La settima è, che tenga la bocca aperta, e giusta non più di quello che si tiene quando si ragiona con gli amici». 13 Di nuovo, questo precetto si ri-ferisce al canto da camera, che è relativamente sommesso e aiuta il cantore a produrre nel can-to vocali simili a quelle della loquela. Il cantore raffigurato dal Giorgione nel dipinto intitolato Il cantore appassionato illustra questo atteggiamento in modo preciso e dagli esempi musicali del Maf-fei possiamo constatare che l’estensione richie-sta alla voce è piuttosto limitata, secondo quanto prescriveva appunto il Vicentino, cosi come una maggiore apertura della bocca (necessaria per l’emissione dei suoni acuti) sarebbe apparsa pu-ramente goffa. In un’altra serie di regole, Maffei include la disamina di alcune vocali italiane: «La

quarta è, che più voluntieri si faccia il passaggio nella parola, o sillaba dove si porta la lettera, o, in bocca col passaggio, che nell’altre; et accioche questa regola sia meglio intesa, hora dichiaro, le

Ritratto di Camillo Maffei

Giorgione: Il cantore appssionato (1510)

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15

vocali (com’ogniun sa) sono cinque, delle quali alcuna come e lo, U, porta uno spaventevole tuo-no all’orrecchia ... Et alcuna, si come è lo, i, por-tando co’l passaggio, rappresenta un’animaletto che si vada lagnando per haver ismarrita la sua madre; pure si può concedere ch’al soprano istia manco brutto il passagiare per lo, i, ch’all’altre voci. L’altre vocali che rimangono, si ponno sen-za scrupolo portare; pure fando fra loro com-paratione, dico che l’o è la migliore, percioche con essa si rende la voce più tonda, e con l’altre, oltre che non così bene s’unisce il fiato, perche si formino passaggi, sembianti al ridere, pure non istringendo, tanto questa regola; mi rimet-to al buon giudicio del cantante».14 Si potrebbe rigettare coma una curiosità la scelta della /o/ come migliore vocale per i passaggi invece della /a/, e le sue descrizioni dei suoni dalla /u/ e della /i/. Ma una più coerente interpretazione è che, essendo napoletano, egli dia per scontata questa posizione in avanti della mandibola che favorisce la /o/, e sfuma il suono della /i/ in modo tipicamente napoletano - così da rendere credibile la sua pittoresca descrizione. Chiunque legga l’intera lettera può confermare che vi si tratta del canto da camera. In un’altra lettera il Maffei mostra di essere ben conscio che il canto da cappella era diverso, là dove sottolinea: «Un altro non vorebbe sentir se non passaggi di gar-ganta, un lodar il cantar dolce e soave, un altro il cantar nella cappella».15

La parte III, cap. 46, delle Istituzioni harmoniche (Venezia, 1558) di Gioseffo Zarlino include una discussione sul canto. Zarlino è esplicito sulle due tecniche vocali: «Ad altro modo si canta nel-le Chiese & nelle Capelle pubbliche, & ad altro modo nelle private Camere: perche ivi si canta a piena uoce: non però se non nel modo detto di sopra cantare & mandar fuori la voce con im-peto & con furore di bestia & nelle Camere si canta con voce più sommessa & soave, & senza far alcun strepito. Le osservazioni dello Zarlino circa la conservazione della chiarezza del testo completano quelle del Maffei: «Se ... udimo alle volte alcuni sgridacchiare (non dirò cantare) con

voci molto sgarbate, & con atti & modi tanto contrafatti, che veramente parino Simie, alcu-na Canzone & dire come sarebbe; Aspra cara, e salvaggia e croda vaglia; quando doverebbero dire: Aspro core, e selvaggio, e cruda voglia; chi non riderebbe?» In questo modo l’osservazione

dello Zarlino sul canto del disgraziato madriga-le, quando la si metta in relazione con le nostre descrizioni di un modo esemplare di canto (con la mandibola in avanti) a con la sesta regola del Maffei (che la lingua rimanga in contatto con le radici dagli incisivi inferiori), ci dà una coerente e alquanto precisa indicazione della tecnica da camera.

La Prattica di Musica di Ludovico Zacconi, pub-blicata a Venezia nel 1592, è l’ultimo documento sulla tecnica vocale, che noi vorremmo esamina-re qui. Come lo Zarlino una generazione prima, lo Zacconi distingue esplicitamente fra un canto da camera «sommesso» ad uno da cappella «for-te». «Chi dice che col gridar forte voci si fanno, s’inganna ... perché molti imparano di cantare piano & nelle Camere, ove si aborrisce il can-

Frontespizio delle Istituzioni Harmoniche di G. Zarlino (1558)

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tare forte, & non sono dalla necessità astretti a cantar nelle chiese e nelle Capelle ove canta-no i Cantori stipendiati».16 Egli critica il cantar troppo piano così come il cantar troppo forte, ma è particolarmente sensibile al timbro aspro prodotto in quest’ultimo caso: «Gli si insegni il modo di raffrenare la voce: per non superare gli altri: ne pero si permetta che si canti piano, che una Musica ove egli e introdotto a cantare paia vota, ò senza quella parte; perche l’uno & l’altro sono difetti insupportabili. Si guardi anche, di non seguitare quel si (da buoni) biasmato stile, di cantare si forte, che più forte cantar non si possa .... molti hanno voce detta di testa; la quale è da cantanti produtta con un certo suono frangibile, e il frangente è una certa cosa che per ogni poco si sente, e pero si avertiscano di moderargliela, si perché non abbiano a superare gli altri; si anco perché la detta voce di testa il più delle volte of-fende ... Et quelli che si ritrovano in luoco ove convengano gridar forte, avertino di intonare le figure giuste, allegre, la voce ne forzata ma non lenta; ma con tanto la natura li concede perche la forzata voce essendo dif fettuosa sempre offen-de ... Similmente nel cantar piano nelle alte non si debbono sforzare et comodamente non via ri-vano; perche meglio è di fingerle o di taccerle».17

Lo Zacconi era uno scrittore notevolmente pre-ciso a la sua disamina include le seguenti infor-mazioni sulla tecnica del respiro: «Due cose si ricercano à chi vuol far questa professione petto & gola; petto, per poter ... un tanto numero di figure a giusto termine condurre; gola poi per poter agevolmente somministrare; perché molti non havendo petto ne fiancho, in quattro over sei figure convengono i suoi disegni interrompe-re».18 Qui il termine «petto» mostra chiaramente di riferirsi alla capacità respiratoria (cioè quanto più fiato si può prendere). Ma lo Zacconi usa inoltre un altro termine: «fiancho» e qui io pen-so che egli faccia riferimento alla sensazione di lavoro che si prova a livello delle ultime paia di costole quando i muscoli del ventre danno un efficiente contributo al controllo del respiro nel canto (nel qual caso si ha pure aumento della

quantità di fiato). Per ragioni troppo lunghe da spiegare in questa sede,19 l’uso effettivo di que-sti muscoli è una tecnica indispensabile per pa-droneggiare l’arte rinascimentale di far «gorghe e passaggi».

Riassumendo: in ambedue le tecniche, da came-ra e da cappella, la posizione della laringe appare essere stata alquanto libera mentre c’è da notare che il timbro scuro e drammatico delle tecniche romantiche è ottenuto spingendo in basso la la-ringe e ostacolando alquanto la capacità della lin-gua di differenziare le vocali. Un certo grado di arrotondamento delle vocali era ottenuto spin-gendo la mandibola alquanto in avanti (e d’ac-cordo col Maffei, la lingua era sempre in contat-to con gli incisivi inferiori). Questo contribuisce all’omogeneità del timbro senza limitare l’abilità del cantore a differenziare i suoni delle vocali. Nel canto da camera la chiarezza delle vocali era favorita dal non aprire la bocca molto più che nella loquela. Nel canto a cappella era più aperta per ottonere un suono più forte, ma la piccola perdita di chiarezza nelle vocali era senza dub-bio meno dannosa nella musica liturgica dove l’ascoltatore conosceva già le parole e quindi aveva bisogno soltanto di riconoscerle di quanto non accadesse nei madrigali e nella musica dram-matica, dove la poesia era, a questo punto della storia della musica italiana, di suprema impor-tanza e di straordinaria qualità. Nello stesso tem-po, probabilmente, il timbro del canto da cappel-la suonava meno omogeneo di quello del canto da camera perché era sufficientemente forte ed energico da includere in sé un poco dello smalto o degli armonici aspri della frequenza attorno ai 3.000 Hz, dove l’orecchio è particolarmente sen-sibile. Il canto da cappella era fondamentalmen-te a più voci e forte come carattere (benché mai stentoreo) e la nostra concezione della musica da cappella potrebbe essere in armonia con questo fatto. La dinamica del canto da camera oscillava liberamente dal pianissimo al forte (o, in termi-ni moderni, al mezzo forte) e la sua espressività era spesso così intimamente connessa coi valori timbrici e affettivi della poesia italiana che l’ef-

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17

Pagina che descrive i muscoli della laringe dal Trattato di Medicina di Andrea Veselio (1543)

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fetto sarebbe stato quasi perduto nell’acustica di una grande chiesa. Le risorse espressive della musica da cappella, d’altro lato, erano fatte più di caratteri compositivi come eleganti cadenze, linee finemente costruite, posizioni sofisticate delle entrate imitative, cambiamenti del tessuto musicale e il compito principale dei cantori era

quello di evidenziare questi caratteri per mezzo dell’agogica, del buon fraseggio, di sottili licenze ritmiche e relative sfumature di volume o di tim-bro (non è un caso che la Chiesa abbia esaltato lo stile personale di Palestrina più di quello del Da Vittoria, la cui musica era più caldamente espres-siva). Noi spesso associamo la forza drammatica con il volume di suono, mentre per il cantore rinascimentale l’equazione era rovesciata. Il can-to da camera era più drammatico di quello da cappella perché i cantori, che non erano obbli-gati ad usare una contrazione attiva delle corde vocali, le conservavano morbide anche quando salivano nella parte superiore della loro tessitura e potevano plasmare le loro voci con più flessi-bilità ed agilità negli abbellimenti melodici (che erano uno dei principali mezzi di espressione nel canto profano, ma sgraditi nella musica liturgica) e inoltre con drammatiche sfumature di timbro, vibrato e dinamica.

Note:

8 Cfr. A. Damerini, Coro, in «La musica» a cura di A. Basso, Torino, 1966-71, ii, p. 133. Cfr anche gli elenchi di cantori della Cappella Giulia negli anni 1571-89, pubblicati da G. Rostirolla nel suo studio La Cappella Giulia in San Pietro negli anni palestriniani, Atti del Convegno di studi palestriniani - 1975, Palestrina, 1977, pp. 172-202, dal quale appare che il numero dei cantori variava da un minimo di 13 fino a un massimo, di 19.

9 Un’edizione moderna del testo si trova in N. Bridgman, Giovanni Camillo Maffei et sa lettre sur le chant, «Revue de musicologie», 38, 1956, pp. 10-34.

10 Ibid. p. 19. 11 Ibid. p. 20. 12 Cito con piacere F. Razzi, Polyphony of the seconda prattica, «Early

Music», 8/3, July 1980, pp. 290-311, articolo la cui gestazione si è svolta durante i tre anni in cui Fausto Razzi ha insegnato presso l’Istituto Musi-cale Comunale di Pamparato.

13 N. Bridgman, op. cit. p. 20. 14 Ibid. p. 23. 15 Ibid. p. 9. Dallo stesso passo H. M. Brown inferisce giustamente

(op. cit., p. 64) che «non tutti potevano o volevano improvvisare passaggi». 16 C. 52v. 17 C. 52v-55v. È ragionevole pensare che la «voce di testa» dello Zacco-

ni fosse una voce forte, ma in ogni caso merita di essere qui citata la critica di Caccini alla voce di falsetto (Le nuove musiche, Firenze, 1601/2, prefa-zione): «dalle voci finte non può nascere nobiltà di buon canto: che nascerà da una voce naturale comoda per tutte le corde».

18 58v

. 19

Ho trattato questo argomento in La tecnica vocale. Dispense di anato-mia, fisiologia e fonetica, Parma, 1960.

(*) Già Docente ai Conservatori di Musica di Pesa-ro, Parma e Torino; Ricercatore e Direttore di Coro.

Gioseffo Zarlino (1517 - 1590)

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1919

usuali per i paesi più avanzati, nei quali musica e voce sono elementi che godono la massima attenzione da parte delle istituzioni.

TIPOLOGIA DEL CORSO

• Il Corso ha durata biennale; sono in pro-gramma 12 incontri suddivisi, sei nell’anno solare 2011 e sei nel 2012.

• I periodi e/o generi corali trattati sono:fonazione, canto gregoriano, polifonia antica,rinascimentale e moderna, voci bianche, canto popolare, coro con or-chestra. Ogni sezione sarà seguita da un docente musicista e specialista nel settore musicale trattato dalla lezione.

• Gli allievi dovranno intervenire agli incontri con gli spartiti suggeriti dal docente per ogni sezione, che saranno loro inviati per e mail dalla segreteria del corso.

• Il periodo di effettuazione del corso per l’anno 2011 è previsto dal 15 gennaio al 31 marzo. Gli incontri si svolgeranno nella giornata di domenica nella sede del Coro Stelutis di Bologna, via Pallavicini 21 - zona San Vitale-Croce del Biacco, con orario 10-12,30 per gli aspetti teorici e 14-17 per la parte pratica e i cori laboratorio.

Il costo del corso è di € 80 per i corsisti che siano componenti o direttori di un coro affiliato AERCO e di € 100 per i non affiliati. Il termine previsto per le iscrizioni è il 15 dicembre 2010. L’iscrizione si ef-fettua presso la segreteria AERCO, via S. Carlo 25F

Farcoro - didattica 4

FINALITA’ DEL CORSO

Lo scopo del corso che l’AERCO intende organiz-zare per gli anni 2011 e 2012 è quello di mettere il direttore di Coro, sia egli aspirante o già in attività, nella condizione di ricevere quelle informazioni basi-lari legate ai vari generi corali, sia sulla teoria che nella pratica, attraverso la concertazione e cioè usufruen-do di un coro laboratorio a disposizione.

L’allievo direttore di Coro, seguito dal docente spe-cialista nel genere musicale oggetto della lezione, potrà ricevere preziose informazioni che, pur non potendo comunque essere esaustive, forniranno un sicuro mezzo di crescita musicale e culturale a colui che si accinge ad assume la direzione di un comples-so corale.

Di fronte al vasto panorama corale, ovviamente non tutte le tipologie possono essere trattate dal corso; l’allievo potrà con maggior chiarezza individuarne le caratteri-stiche stilistiche ed interpretative, per meg-lio insegnare ed arrivare a risultati musicali il meno approssimativi possibili. Per il giovane maestro poi, poter concertare direttamente con un docente quali-ficato ed un coro laboratorio assai preparato, signifi-ca acquisire opportunità professionali a largo raggio formativo. In aggiunta alle lezioni che si terranno nella ormai tradizionale sede di Bologna, saranno di grande valore alcune visite-lezioni, quale quella che nel primo anno proponiamo nella sede del Coro I Piccoli Musici di Casazza BG. Sarà una preziosa es-perienza nel constatare de visu di come ci si organizza coralmente, di come ci si misura con una realtà riv-olta a risultati di eccellenza, sperimentando situazioni

Corso Biennale per Direttori di Coro

dalla Segreteria AERCO

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Bologna, negli orari di segreteria reperibili sul sito www.aerco.it oppure direttamente sul sito stesso.

Per l’ammissione al corso è indispensabile una si-cura lettura della notazione musicale anche cantata, la disponibilità di tempo necessaria e l’impegno a giungere preparati alle lezioni con lo studio attento delle partiture oggetto degli incontri.

Saranno possibili anche lezioni svolte presso sedi di complessi corali particolarmente interessanti.

Il Conservatorio di musica “Bruno Maderna” di Ce-sena riconoscerà ai propri allievi che frequenteranno il corso alcuni crediti formativi utili al proseguimento dei loro studi.

L’organico dell’orchestra sarà così composto: 4 vio-lini primi, 4 violini secondi, 2 viole, 2 violoncelli, 1 contrabbasso.

CALENDARIO LEZIONI

16 GENNAIO 2011FONAZIONE

Docente: Franco Fussi

30 GENNAIO 2011CANTO GREGORIANO

Docente: Ugo Rolli Coro laboratorio AERCO: F. Päer di Colorno

6 FEBBRAIO 2011CANTO POPOLAREDocente: Mauro Pedrotti

Coro laboratorio AERCO: Monte Cusna di Reggio Emilia

13 FEBBRAIO 2011POLIFONIA ANTICA

Docente: Giorgio Larcher

Coro laboratorio AERCO: I Ragazzi Cantori di San Giovanni in Persiceto BO

13 MARZO 2011VOCI BIANCHE

Docente: Mario MoraCoro laboratorio: I Piccoli Musici di Casazza, BGLa lezione si svolgerà presso la loro sede sociale.

27 MARZO 2011CORO CON ORCHESTRADocente: Pier Paolo Scattolin

Docente orchestra: Giacomo MonicaCoro laboratorio AERCO: Euridice

per info:

[email protected]

0541-232943

La Tiz, sede del Corso e, sotto, come arrivare

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Et asperget

di Luigi Buda

Il testo è tratto dal cap. 21 dell’Apocalisse, la visione della Nuova Gerusalemme. E’ la descrizione della realtà defi-nitiva che ci aspetta alla fine del mondo, quando “tutte le cose di prima” saranno “passate”, ed il dolore dell’uomo sarà consolato da Dio stesso. La composizione si può dividere in due parti principali:

- la prima, che comprende la frase iniziale “Et asperget Deus omnes lacrimam ab oculis eorum” e culmina nel grido delle parole “Et mors” (batt. 1 – 33), è ancora dominata dall’ esperienza del dolore terreno;- la seconda, da batt. 34 alla fine, tenta di descrivere la dissoluzione di ogni sofferenza.

La prima parte può essere a sua volta suddivisa in quattro sotto-sezioni:a) “Et asperget Deus” (batt. 1 – 14);b) “omnes lacrimam” (batt. 15 – 17);c) “ab oculis eorum” (batt. 18 – 25);d) “Et mors” (batt. 26 – 33).

“Et asperget” (batt. 1 – 14): l’inizio è un rigoroso canone a quattro voci. L’impianto è atonale, ma costruito con un incipit che potrebbe essere benissimo una melodia in modo minore, e con sovrap-posizioni intervallari preferibilmente consonanti. Il crescendo di registro, dinamico e agogico conduce al primo punto culminante (“omnes lacrimam”, batt.15); il canone termina e su un andamento accordale si conclude la frase. Alle batt. 18 – 25, una seconda breve frase (“ab oculis eorum”) inizia in imitazione libera e conduce ad un secondo punto culminante (meno forte del primo, per armonia e registro), in cui le voci ancora una volta si ricompattano armonicamente. Una serie di pause coronate incorniciano le due esclamazioni sulle parole “Et mors”, che sono l’una il punto di massima espressione drammatica della prima parte, e l’altra di fatto l’inizio di quel dissolvimento delle tensioni che è caratteristico della seconda parte che inizia subito dopo.

La seconda parte, di durata maggiore della prima per l’utilizzo di metronomi più lenti e di molte pause coronate, può essere suddivisa in tre sottosezioni:

a) “Et mors ultra non erit” (batt. 34 – 53);b) “neque luctus, neque clamor, neque dolor erit ultra” (batt. 54 – 64);c) “quia prima abierunt” (batt. 65 – 72).

“Et mors ultra non erit” (batt. 34 – 53): dopo la corona di batt. 33 (che funge da vero spartiacque formale), riprenden-do senza soluzione di continuità il testo proprio dalla parola “mors”, comincia una lunga fascia armonica. Da un punto culminante raggiunto rapidamente alle batt.36 – 37 si degrada lentamente fino al Largo delle batt. 50 – 53; la tensione intervallare si stempera lentamente, l’andamento si fa sempre più accordale, fino a spegnersi su un valore lungo alla sola voce dei Soprani. Una ulteriore pausa introduce alla conclusione del brano. Volendo riprendere la dimensione sacra dell’inizio, le tre frasi successive (“neque luctus..” , batt.54 – 64) sono in andamento di corale; si ritrovano alcuni stilemi melodici e ritmici del canone iniziale, le armonie sono sempre più consonanti (molte di loro contengono una triade tonale). Questo materiale letteralmente si dissolve nell’ ultima fascia armonica (“quia prima abierunt”, batt. 65 – 72), che arriva a toccare un accordo finale quasi maggiore, mentre l’omoritmia lentamente si sfalda in attacchi diversificati, a simboleggiare la dissoluzione della precedente realtà terrena.

E’ la descrizione della realtà definitiva che ci aspetta alla fine del mondo, quando “tutte le cose di prima”.....

Farcoro - composizioni

Page 24: FARCORO, September 2010

22

Et asperget

Et asperget Deusomnes lacrimam ab oculis eorum

Et mors ultra non eritNeque luctus, neque clamor,

neque dolor erit ultra,quia prima abierunt.

(Apocalisse 21,4)

E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi;non ci sarà più la morte,

né lutto, né lamento, né affanno,perché le cose di prima sono passate.

Page 25: FARCORO, September 2010

Soprani

Contralti

Tenori

Bassi

Andante solenne ( q = 90) poco a poco animando

Et

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nes- la cry- mam,-

ET ASPERGETper coro a 4 voci miste

Luigi Buda

Il brano può essere gratuitamente fotocopiato dai lettori di FARCORO, fermo restando che ogni diritto relativo all’esecuzione ed alla registra-zione rimangono di proprietà dell’autore.

Page 26: FARCORO, September 2010

la cry- mam- ab

p

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Meno17

om nes- la cry- mam- ab

p

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nes- la cry- mam- ab

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21

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(quasi urlato)

(quasi urlato)

(quasi urlato)

(quasi urlato)

ppp

Luigi Buda - Et asperget2

Page 27: FARCORO, September 2010

et mors

accel. e cresc. molto (h = 70)Andante36

et mors ul

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Largo 48

tra non e rit,- non

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Luigi Buda - Et asperget 3

Page 28: FARCORO, September 2010

Ne

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54

Ne

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Luigi Buda - Et asperget4

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27

Studia Composizione con Gilberto Cappelli ed Alessandro Solbiati, diplomandosi nel

1993 presso il Conservatorio di Bologna. Da sempre appassionato alla direzione corale,

frequenta molti stage sulla polifonia rinascimentale diretti da Davide Gualtieri, e succes-

sivamente si diploma in Musica corale e Direzio-

ne di coro sotto la guida di Tito Gotti nel 1994.

Contemporaneamente studia Direzione d’orche-

stra con Maurizio Benini e Giancarlo Andretta e

consegue il Diploma nel 1997; segue corsi di per-

fezionamento con Piero Bellugi e con Sandro Gorli (sul repertorio cameristico del ‘900).

Per una decina di anni è direttore dell’ Ensemble “I Musici della Città” di Savignano sul

Rubicone, e collabora a diverse realtà corali della zona. Attualmente è docente di Teoria,

Solfeggio e Dettato musicale presso il Conservatorio “G.B. Martini” di Bologna.

LUIGI BUDAe-mail: [email protected]

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Giovanni Pierluigi da Palestrina, come molti sa-pranno, svolse la sua attività quasi esclusiva-

mente a Roma; forse meno diffusamente noti sono i suoi rapporti con Guglielmo Gonzaga, Duca di Mantova, che – fra l’altro - gli commissionò almeno dieci Messe polifoniche nel corso degli anni che van-no dal 1568 al 1579.

L’esistenza di queste Messe, testimoniata dalla pre-ziosa corrispondenza fra Palestrina e Guglielmo (si tratta probabilmente delle uniche lettere autografe di Palestrina pervenuteci1) rimase fino a pochi decenni fa avvolta nel mistero poiché, a causa della disper-sione dell’archivio della Basilica Palatina mantovana di Santa Barbara, se ne erano perse completamente le tracce. Già nel 1947 Oliver Strunk2, sulla base di questo carteggio, ne aveva ipotizzata l’esistenza in-dividuando con grande acume quelle che dovevano esserne le caratteristiche musicali e formali, ma sola-mente nel 1950 il musicologo danese Knud Jeppe-sen – ricostruendo le complesse vicende dell’archivio barbarino - potè annunciarne il ritrovamento presso la Biblioteca del Conservatorio “G. Verdi” di Milano e successivamente pubblicarle.3

1 Iain Fenlon, Music and Patronage in Sixteenth-century Mantua, Cambridge, Cambridge University Press, 1980; trad. ita-liana: Musicisti e mecenati a Mantova nel ‘500, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 125

2 Oliver Strunk, Guglielmo Gonzaga and Palestrina's Mis-sa Dominicalis, in «The Musical Quarterly», XXXIII, (1947), pp. 228-239; trad. italiana in La musica e il mondo : mecenatismo e com-mitenza musicale in Italia tra Quattro e Settecento, a cura di Claudio Annibaldi, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 73-84.

3 Le opere complete di Giovanni Pierluigi da Palestrina, a cura di Knud Jeppesen, voll. 18-19, Roma, Scalera, 1954.

Per comprendere correttamente la funzione di que-ste messe è necessario inquadrarne la commissione nel contesto dell’operazione che maggiormente ca-ratterizzò la politica culturale di Guglielmo Gonzaga: l’istituzione della Basilica Palatina di Santa Barbara. Divenuto Duca di Mantova ancora minorenne nel 1550 a causa della morte del fratello diciassettenne Francesco III, Guglielmo (1538-1587) ebbe ben pre-sto l’occasione di dar prova del suo carattere deciso e volitivo; destinato dalla famiglia alla carriera ecclesiasti-ca a causa della sua deformità (soffriva, come già prima di lui altri membri del-la famiglia, di gravi problemi alla colon-na vertebrale), non rinunciò per questo – nonostante le forte pressioni subite – al suo ruolo di governo; dopo alcuni anni di reggenza da parte della madre e dello zio, il cardinale Ercole Gonzaga, si trovò a do-ver gestire i delicati equilibri di un ducato che godeva di una posizione strategica al centro della pianura pa-dana e sul quale la recente annessione di Casale Mon-ferrato (1536) aveva ulteriormente attirato le mire dei potentati limitrofi; sposato ad Eleonora d’Austria, nei 37 anni del suo governo Guglielmo curò dun-que con grande attenzione i rapporti con i potenziali alleati, anche attraverso una accorta politica matri-moniale che lo portò a consolidare le alleanze con Ferrara, Firenze e l’Impero attraverso i matrimoni

Palestrina e Mantova:storia di una relazione a distanza

di Paolo Bucchi (*)

Divenuto Duca di Mantova ancora mino-renne nel 1550 a causa della morte del fratello diciassettenne.......

Farcoro - storia

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Giovanni Pierluigi Da Palestrina (1525 - 1594)

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dei suoi tre figli Margherita, Vincenzo e Anna Ca-terina. In una tale situazione anche il rapporto con la Chiesa romana, che proprio in quegli anni aveva portato a termine i lavori del concilio di Trento, si rivelava determinante. La posizione di Guglielmo fu volta a proporsi come immagine del perfetto prin-cipe cattolico, ma al tempo stesso ad affermare con decisione la propria indipendenza da Roma. Queste sono le motivazioni che nel 1562 lo portarono ad intraprendere la costruzione della Basilica Palatina di Santa Barbara e a chiedere al Papa che essa fosse dotata di una propria liturgia esclusiva (che rispetto a quella romana enfatizzava l’importanza delle festi-vità collegate ai Santi protettori della città, di cui i Gonzaga possedevano le reliquie, e di quella di Santa Barbara in particolare), di un proprio repertorio di canti e di un clero che rispondesse direttamente alla Santa Sede piuttosto che all’episcopato manto-vano; in sostanza il nuovo tempio avrebbe celebra-to al tempo stesso tanto l’ortodossia nei confronti della Chiesa di Roma quanto la potenza della dina-stia dei Gonzaga. La richiesta era ambiziosa, poiché il Concilio di Trento aveva recentemente sancito la soppressione di tutti i riti che non avessero una tradi-zione consolidata da almeno duecento anni; tuttavia l’insistenza e la determinazione di Guglielmo fecero sì che - dopo due decenni di intense ed estenuanti trattative - Gregorio XIII, con Bolla Cum ex insigni del 10 novembre 1583, concedesse la facoltà di uti-lizzare in modo esclusivo un proprio Messale ed un proprio Breviario.

Nel frattempo Guglielmo aveva provveduto a dotare la Basilica di un proprio repertorio di canti basa-to su quello romano ma riveduto in conformità ai dettami conciliari e a direttive locali (a partire dagli anni ’50 egli intrattenne una regolare corrispondenza con Carlo Borromeo, per il quale nutriva profonda amirazione e che probabilmente ne influenzò pro-fondamente le idee); aveva inoltre promosso la composizione di un repertorio polifonico basato su questi canti firmi, avvalendosi principalmente della collaborazione del compositore fiammingo Giaches

de Wert.4

È in questo quadro che si colloca il rapporto fra Guglielmo e Palestrina: la prima delle lettere di Pa-lestrina indirizzate a Guglielmo che ci è pervenuta porta la data del 2 febbraio 1568; essa accompagna l’invio da Roma di una prima Messa commissionata dal Duca “per mano di Virtuoso così raro come M. Giacches [de Wert]” e realizzata “così come mi ha instruito M. An-niballe Cappello”.5 In questa lettera il compositore ma-

nifesta qualche incertezza circa l’aver correttamente interpretato le richieste di Guglielmo e lo stile da praticarsi in Santa Barbara: “se li piacerà di comandarmi, come la uoglia, o, breve o longa, o che si sentan le parole, io mi

4 Iain Fenlon, Giaches de Wert and the Palatine Basilica of Santa Barbara. Music, Liturgy and Design, in Giaches de Wert (1535-1596) and His Time. Colloquium Proceedings, Antwerpen 26-27 August 1996, Leuwen - Peer, Alamire, 1999, pp. 30-31.

5 Edita in Antonio Bertolotti, Musici alla corte dei Gonza-ga in Mantova dal secolo XV al XVIII. Notizie e documenti raccolti negli

archivi mantovani, Milano, 1890, pp. 47-48.

Guglielmo Gonzaga, Duca di Mantova (1538 - 1587)

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prouarò servirla secondo il mio potere …”.6

Non abbiamo notizie certe di questa Messa ma pos-siamo supporre che si tratti della Missa in Duplicibus majoribus [‘Doppio maggiore’], non pervenutaci, cui si al-lude nella minuta di una lettera inviata da un ufficiale di corte mantovano ad Annibale Capello il 23 otto-bre 1578 in occasione della più corposa commissione di Messe di cui si parlerà più avanti.

Nel decennio successivo al 1568 lo scambio episto-lare testimonia essenzialmente l’invio di alcune com-posizioni palestriniane a Mantova, a volte su testi forniti dal Duca stesso; l’evento più significativo è comunque l’inoltro – tramite il solito Annibale Ca-pello – di una copia fresca di stampa del Mottettorum … liber secundus, dedicato a Guglielmo7; questo libro contiene, fra gli altri, due mottetti collegati alla nuova liturgia di Santa Barbara: Gaude Barbara beata a 5 vv. e Beata Barbara a 6 vv.8

Un altro aspetto importante dei rapporti fra Pale-strina e Guglielmo è rappresentato dalla frequente

6 ibidem

7 Lettera di Annibale Capello al Duca di Mantova, da Roma il 24 settembre 1572, in Bertolotti, cit., p. 49.

8 Cfr. Paola Besutti, Quante erano le messe mantovane? Nuovi elementi su Palestrina e il repertorio musicale per S. Barbara, in Palestrina e l’Europa. Atti del 3° Convegno internazionale di studi (Palestrina, 6-9 ottobre 1994), a cura di G. Rostirolla, S. Soldati, E. Zomparelli, Palestrina, Fondazione Giovanni Pierluigi da Pa-lestrina, 2006, pp. 712 ss.

richiesta di pareri professionali e di revisioni di pro-prie opere musicali da parte del Duca, che praticava attivamente e con particolare competenza la compo-sizione, tanto da disporne in più occasioni la pub-blicazione (sebbene generalmente in forma anoni-ma, come era frequente nel caso di personaggi di tale rilevanza)9. Gli interventi di Palestrina, che spesso dichiara di aver trascritto le composizioni in partitura per meglio esaminarle, sono ossequiosi ma schietti, e non mancano di rilevare i passaggi particolarmente deboli per i quali giunge a suggerire un totale rifaci-mento: “il ‘pleni’ [del Sanctus] non l’ho tocco perché spero che un giorno V. Ecc.a hauendo un poco d’otio si pigliara piacere di rinouare quel terzetto …”.10

Le osservazioni di Palestrina ci illuminano anche sul-le preferenze stilistiche del Duca, che – come avremo modo di verificare – costituivano altresì delle preci-se prescrizioni per i musicisti che componevano per Santa Barbara. Scrive Palestrina, commentando un Mottetto di Guglielmo: “mi par che quando si può far di meno soni meglio l’Harmonia”,11 e: “mi pare ancora che per la stretta tessitura delle fughe, si occupino le parole agli ascoltanti, che non le godono come nella musica commune”.12 Apprendiamo dunque come il gusto di Guglielmo – decisamente conservatore e vicino alla tradizione fiamminga - inclinasse verso un fitto ed onnipresen-te tessuto imitativo, spinto fino al punto di oscurare l’intelligibilità del testo; giova qui ricordare come una simile posizione si scostasse significativamente dalla prassi romana e dalle raccomandazioni conciliari che avevano determinato, solo pochi anni prima, il suc-cesso della Missa Papae Marcelli. Semplici questioni di gusto o, ancora una volta, una sottintesa dichiarazio-ne di indipendenza da parte del Duca di Mantova?

9 Cfr. Richard Sherr, The Publications of Guglielmo Gonza-ga, in «Journal of the American Musicological Society», XXXI, (1978), pp. 118-125.

10 Lettera di Palestrina al Duca di Mantova, da Roma il 17 aprile 1574, in Bertolotti, cit., p. 50.

11 Lettera di Palestrina al Duca di Mantova, da Roma il 3 marzo 1576, in Bertolotti, cit., p. 49.

12 Ibidem.

Mantova nel Rinascimento, (Domenico Morone, 1494)

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La corrispondenza si infittisce fra il novembre 1578 e la primavera 1579 in occasione dei successivi in-vii delle nove Messe commissionate a Palestrina e destinate a Santa Barbara. Si tratta delle cosiddette ‘Messe mantovane’ riscoperte da Jeppesen (2 in Du-plicibus minoribus, 3 in Festis Beatae Mariae Virgini, 2 in Festis Apostolorum e 2 in Semiduplicibus majoribus). Con le altre Messe polifoniche composte espressamente per Santa Barbara da diversi autori (fra cui Giaches de Wert, Gian Giacomo Gastoldi, Giovanni Conti-no, Francesco Rovigo e lo stesso Guglielmo), queste composizioni condividono alcune particolarità stili-stiche evidentemente imposte dal Duca.

In primo luogo sono tutte Messe ‘corali’ costruite sulle melodie del Kyriale ad usum ecclesie Sante Barbare; le melodie di questo Kyriale erano a loro volta il frut-to dell’opera di riorganizzazione del canto monodico sacro promossa dal Duca (alla quale con ogni pro-babilità egli stesso partecipò attivamente) secondo principi di semplificazione e razionalizzazione in sin-tonia con quelli caldeggiati dal Concilio tridentino: “[Palestrina] afferma che nel uero V.A. ha purgati quei canti fermi di tutti i barberismi e di tutte le imperfettione che ui erano …”.13 Le Messe di Santa Barbara si presenta-no quindi come raccolte di brani estratti da differenti Messe del Kyriale romano (spesso ritoccati modifi-cando sillabazione e melismi secondo criteri più ‘ri-nascimentali’ e in funzione di una maggiore chiarez-za modale) integrate da melodie originali e riunite in base al criterio dell’appartenenza al medesimo modo ecclesiastico.

Una seconda caratteristica comune alle Messe poli-foniche in questione è la sistematica applicazione del principio dell’alternatim, in cui sezioni polifoniche si alternano ad altre in cantus planus secondo una prassi che più comunemente portava ad alternare sezioni cantate a sezioni affidate all’organo; a questo propo-sito sappiamo che Palestrina, almeno inizialmente, ricevette dal Duca solamente le melodie dei versetti

13 Lettera di Annibale Capello al Duca di Mantova, da Roma il 18 ottobre 1578, in Bertolotti, cit., p.52.

da rielaborare polifonicamente, e che più volte rin-novò la richiesta di poter avere anche le melodie dei versetti monodici, tanto per servirsene - previa au-torizzazione del Duca - nelle celebrazioni romane in S.Pietro, quanto in vista di una pubblicazione a stam-pa che avrebbe potuto rientrare nell’ambito dell’inca-rico di rivedere il Graduale romano affidatogli proprio nel 1578 da Gregorio XIII (“… se l’Altezza V.a si con-tentara si mandaranno in stampa con il graduale che nostro signore mi ha comandato che io emendi …”14).

Ulteriore tratto condiviso dall’intero corpus delle Mes-se di Santa Barbara – in linea con le già citate prefe-renze stilistiche di Guglielmo – è l’utilizzo sistema-tico di una texture fittamente imitativa; nel carteggio riguardante la composizione delle Messe mantovane di Palestrina questa richiesta compare insistentemen-te. Fra i vari documenti vale la pena di citare una lettera contenente varie disposizioni del Duca, la cui minuta è stata modificata di propria mano dallo stes-so Guglielmo, che invita Palestrina a non affrettarsi a comporre sul liuto le Messe richieste, ma a curare

14 Lettera di Palestrina al Duca di Mantova, da Roma il 1° (o, più probabilmente, il 5) novembre 1578, in Bertolotti, cit., p. 52.

Vincenzo I e Guglielmo Gonzaga, (Pieter Paul Rubens)

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h’esse siano fugate continouamente et sopra soggetto […]”15.

Nella medesima lettera non si perde l’occasione per sottolineare – con una punta di orgoglio - la mag-giore complessità polifonica delle musiche in uso a Mantova rispetto alla tradizione romana di S. Pietro. Palestrina recepisce la richiesta realizzando una se-rie di composizioni in cui l’equilibrato avvicendarsi di sezioni imitative ed omoritmiche cede pressoché completamente il posto ad una continua elaborazio-ne imitativa dei soggetti, tanto da spingere Jeppesen a definire queste Messe una sorta di Arte della Fuga palestriniana ed a considerarle un oggetto di studio indispensabile per la conoscenza del contrappunto cinquecentesco, ma anche a sottolinearne l’elevata e severa bellezza mai degradata a puro tour de force.

Le 9 Messe palestriniane degli anni 1578-79 ci sono pervenute in due magnifici manoscritti, opera magi-strale del celebre calligrafo Francesco Sforza, i MSS 164 e 166 del Fondo S. Barbara della Biblioteca del Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano ritrovato e studiato da Jeppesen; quattro di esse compaiono anche nel MS 14 del medesimo fondo assieme ad una Missa Dominicalis adespota che pure potrebbe essere attribuita a Palestrina;16 una ulteriore Messa palestriniana Sine nomine a 4 voci, quasi certamente non scritta per Mantova in quanto non presenta le caratteristiche distintive del repertorio mantovano, si trova nel MS 109. Una Missa Dominicalis a 5 voci alternatim appare inoltre, unica edita a stampa, in una raccolta milanese del 1592 curata da Giulio Pellini, che contiene altre 5 Messe della Domenica di autori mantovani.17

Dopo il 1579 le lettere si fanno più rade; nella pri-

15 Lettera di un funzionario della corte mantovana ad Annibale Capello, da Rizolo il 23 ottobre 1578, edita in Knud Jeppesen, Pierluigi da Palestrina, Herzog Guglielmo Gonzaga und die neugefundenen Mantovaner-Messen Palestrina's. Ein ergänzender Bericht, in «Acta Musicologica», XXV, (1953), pp. 132-179; p. 162.

16 Cfr. Besutti, cit., pp. 730-734.

17 Questa Messa compare in edizione moderna in: Pier-luigi da Palestrina’s Werke, ausgearbeitet von Franz Xaver Haberl, Tomus XXXIII, Leipzig, Breitkopf & Hartel, 1907, pp. 1-33.

mavera del 1583 il compositore, per tramite del fun-zionario mantovano Aurelio Zibramonte, propone per il posto di Maestro di Cappella del Duca – tem-poraneamente disponibile a causa della malattia di Giaches de Wert – Annibale Zoilo e il suo allievo Francesco Soriano, sconsigliando invece l’assunzio-ne di Luca Marenzio, che a suo parere non sarebbe “maggior huomo del Soriano, né in scienza né in attitudine di governar musici”. Successivamente si avvia anche una trattativa per il trasferimento a Mantova dello stesso Palestrina, le cui richieste economiche appaiono però eccessive e che di conseguenza si conclude senza al-cun esito.

L’ultima lettera di Palestrina a Guglielmo, datata 6 luglio 1587, accompagna l’invio di “pochi canti” e pre-cede solamente di pochi giorni la morte di quella sin-golare figura di mecenate che si spegnerà a Goito il 14 agosto dello stesso anno; il ducato passerà quindi nelle mani del più brillante e prodigo figlio Vincen-zo, molto più sensibile del padre alle ultime tenden-ze della musica profana piuttosto che al repertorio sacro, e ben presto farà la sua comparsa alla corte mantovana il giovane Claudio Monteverdi.

Nota discografica: delle nove messe del 1578-1579, assieme alla citata Sine nomine, esiste una inci-sione discografica eseguita dalla Cappella Musicale di S.Petronio con la direzione di Sergio Vartolo, pub-blicata da Bongiovanni in 3 volumi per un totale di 5 CD (Vol. I: Bongiovanni 5544/45 (2 CD); Vol. II: Bon-giovanni 5556/57 (2 CD); Vol. III: Bongiovanni 5558).

(*) Docente di Storia della Musica presso il Conser-vatorio “Antonio Buzzolla” di Adria.

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Pensare il Gregoriano

di Fulvio Rampi (*)

Farcoro - opinioni

La lettera apostolica Novo Millennio Ineunte di Gio-vanni Paolo II (6 Gennaio 2001) auspicava, qua-

le frutto dell’anno giubilare, una nuova riflessione sui documenti del Concilio Vaticano II. Chi si occupa di musica per la liturgia non può non cogliere la pun-tualità di una simile sollecitazione anche in ordine a questo ambito della vita ecclesiale. Non che gli anni post-conciliari abbiano registrato scarsa attenzione in

proposito: è tuttavia mancato quell’equi-librio, indispensabile in ogni transizione, capace di orientare le nuove istanze liturgi-co-musicali alla luce di una Tradizione troppo spesso vista

più come vincolo mortificante che come fondamen-to ineludibile di ogni nuova solida proposta. Fretto-lose e fuorvianti interpretazioni del dettato conciliare hanno contribuito a creare in modo dissennato una netta frattura col passato. Con tali premesse, non sorprende che una simile sciagurata superficialità abbia di fatto generato vere e proprie mistificazioni, in taluni casi addirittura paradossali, tranquillamen-te accolte e sostenute nella prassi liturgico-musicale postconciliare.

Il prezzo più alto di un conseguente clima di deva-stanti e rigide contrapposizioni è stato pagato dal canto gregoriano, da sempre dichiarato dalla Chiesa come canto “proprio” della liturgia romana e come tale riconosciuto anche dall’ultimo Concilio. Fra i non molti articoli che la Costituzione Sacrosanctum

Concilium dedica alla musica liturgica, si legge testual-mente: “La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana: perciò, nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale”. (n.106) Ebbene, la risposta non si è fatta attendere: si è rite-nuto assolutamente normale e perfettamente “con-ciliare” far sparire il gregoriano dalla liturgia. Non solo: nel sentire comune, il canto gregoriano è asso-ciato a quanto di più anticonciliare si possa pensare. Lo si è condannato senza appello in nome di una par-ticipatio actuosa tanto sbandierata quanto mistificata. Le nuove “esigenze liturgiche” hanno azzerato, in un sol colpo, mille anni di storia. Ma mentre in ambito ecclesiale si stava consumando il sostanziale rifiuto, il mondo musicologico e musicale stava facendo vivere al canto gregoriano uno straordinario momento di riscoperta. La ricerca sulle antiche fonti manoscritte - ricerca iniziata già nella prima fase “solesmense” della restaurazione gregoriana e culminata nel Motu proprio di Pio X e nelle successive edizioni liturgiche ufficiali - è proseguita in direzione diversa ed ha aper-to la difficile strada di una comprensione più profon-da della matrice espressiva del canto gregoriano. Si è trattato di un’autentica operazione di ablatio che, an-che attraverso nuove proposte interpretative, ha con-tribuito a svelare un tesoro inestimabile. Gli antichi codici liturgico-musicali del repertorio gregoriano si sono rivelati una fonte di inesauribile ricchezza.

Ma qual è questa ricchezza? Che cosa è ri-emerso di così decisivo, di così sostanziale ? La risposta è sconfinata e semplice insieme: quegli antichi segni

nella pagina a fianco: l’Abbazia di Solesmes (Francia)

....nel sentire comune, il canto gregoriano è

associato a quanto di più anticonciliare

si possa pensare.......

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hanno ridato vita ad una linea melodica ritrovata al-cuni decenni prima. Più precisamente: quella linea melodica è divenuta “valore”, ossia veicolo sonoro della proclamazione ordinata di un testo. Ciò confi-gura una situazione nuova e di importanza assoluta: il testo viene presentato, attraverso un evento sonoro, precisamente spiegato e non semplicemente detto, pronunciato. Il canto gregoriano, pertanto, rimanen-do fatto musicale, assume vero e proprio spessore e valore esegetico. E’ l’esegesi della Chiesa, ed è questo il tesoro, è questa la perla preziosa, ciò che non pos-siamo permetterci di ridurre a semplice dato squisi-tamente musicale. Quella melodia, prodigiosamente ritrovata ma ancora incompleta di significato, è dive-nuta ciò che realmente è: la risposta della Chiesa alla Parola, dunque ciò che siamo chiamati ad assumere e a seguire, non a giudicare. Mentre gli “illuminati” interpreti del Concilio ne decretavano la fine, il canto gregoriano svelava, ma non a casa propria, la sua sfa-villante bellezza ritrovata. Il fascino del gregoriano ha coinvolto, anche se in modo non sempre ordinato, il mondo accademico, culturale, musicale, ma non i Seminari, non la Sacra Liturgia. Dopo averne riven-dicato ufficialmente la proprietà, la Chiesa ha di fatto emarginato ciò che forse ha ritenuto troppo ingom-brante o esperienza definitivamente conclusa.

E’ utile tentare una riflessione, un pensiero sul canto gregoriano, nella speranza che la rinnovata consa-pevolezza dei suoi più autentici connotati espressivi contribuisca almeno a correggere alcuni giudizi som-mari sulla sua praticabilità pastorale.

L’articolo conciliare appena ricordato invita a “ri-servargli il posto principale”: ebbene, qual è il posto che si riserva normalmente ad un ospite, certamente importante, ma per definizione non a casa sua? Lo si vuol far sedere in prima fila, magari additandolo ad inarrivabile e al tempo stesso superato esempio di canto sacro, o gli si vuol conferire una dignità di di-verso tipo? Come possiamo rispondere, oggi, se non ci chiediamo, finalmente, cos’è il canto gregoriano, o, più precisamente, come è maturata la sua compren-sione lungo un secolo e mezzo di ininterrotto cam-mino di ricerca? Se ad un approccio diffidente ve-nisse sostituita una totale “immersione” in ciò che la Chiesa, profeticamente, riconosce essere privilegiato

testimone della sua fede, non rimarremmo delusi. Gli antichi codici notati, immagine del “Grande Codice” della Parola, sono esigenti e di velata ma sconfinata bellezza: essi ci invitano a “pensare” il gregoriano, ossia richiamarlo alla memoria per coglierne i riman-di, i riflessi, le allusioni. Parlare oggi di canto grego-riano in ambito ecclesiale e non solo in qualche corso per specialisti, è segno da cogliere e speranza da nu-trire. Non va dispersa anche solo la semplice curio-sità, seppure spesso venata di diffidenza e colma di preconcetti. La storia della prodigiosa riscoperta di questo patrimonio, dai primi passi dei monaci di So-lesmes ai giorni nostri, è segnata da sentimenti forti, da dispute accese, da vere e proprie liti che, se da un lato manifestano il limite e la contraddizione uma-na, d’altro lato evidenziano un fatto fondamentale: davanti al gregoriano non è ammessa l’indifferenza.

Il canto gregoriano è innanzitutto vicinanza alla Pa-rola, una vicinanza “eccessiva”: tutto è reso semplice perché essenziale e tutto è sovrabbondante perché di una ricchezza senza fine. La Parola è portata, attra-verso artifici espressivi che attingono a piene mani all’arte retorica, ad una altissima “temperatura” ed è essa stessa la misura del tempo, nel senso di ritmo ordinato. La pronuncia del testo è la vera misura del tempo: è il cosiddetto valore sillabico, sul quale si fonda tout court il ritmo gregoriano. La sillaba, cel-lula del testo, è cellula del ritmo: il suo valore, tut-tavia, non è predeterminato da una semplice e pur assolutamente pregiudiziale corretta pronuncia, ma gli viene conferito dall’operazione retorica che viene condotta su di essa. Il canto gregoriano non agisce “dal di fuori” semplicemente musicando un testo, ma realizza la sublime operazione “dal di dentro”. La Parola, qui, è presupposto e fine: presupposto nel senso di lectio, ossia di materialità fonetica, di valore sillabico connesso ad una normale e corretta pro-nuncia lontana da ogni isocronismo; fine nel senso di contemplatio, che attraverso una ruminatio ed una oratio giunge finalmente a spiegare quel testo secondo un significato che, pur partendo da una materialità, la trascende e la trasfigura ad evento sonoro in ordine alla sua funzione liturgica.

Pensare il gregoriano è abituarsi a pensare come e con la Chiesa nel solco della sua Tradizione. Esso ci

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insegna cosa dire nella Liturgia e, soprattutto, come dirlo: è risposta intonata, elevata, meditata della Pa-rola. E’ l’esatto contrario dell’improvvisazione. E’ auspicabile che il ritorno allo studio dei documen-ti conciliari riesca a mutare una esiziale frenesia di modernità in una rinnovata e da più parti invocata urgenza di radicalità. Al di là di ogni preconcetto, il canto gregoriano potrà tornare ad essere espressione viva della Chiesa solo quando, ad ogni livello, ci si ac-corgerà del cammino percorso e ci si renderà conto di ciò che è stato ritrovato nella seconda fase della restaurazione gregoriana condotta segnatamente nei decenni post-conciliari.

Per meglio comprendere la situazione attuale è forse utile fermare ulteriormente la nostra attenzione sul decisivo frangente storico che ha visto compiersi un’impresa gigantesca che, come detto, va sotto il nome di “Restaurazione gregoriana”. La letteratura, su questo tema, è vasta e non è ora il caso di riper-correre in modo analitico le pur interessanti fasi e vicende di quel periodo. Resta comunque una grande domanda alla quale, oggi più che mai, non possiamo sottrarci: che senso ha avuto, in ambito ecclesiale,

l’enorme lavoro dei benedettini solesmensi nel XIX secolo? La domanda, si badi, non è tanto sull’esito, quanto mai evidente, ma appunto sul senso, sul si-gnificato. Senso del quale, ma questo poco importa, sfuggiva probabilmente l’intera portata persino ai protagonisti di tale avventura. La restaurazione gre-goriana, ed iniziamo così a rispondere ad un quesito tanto grande, ha tolto il canto gregoriano da una si-tuazione inaccettabile, da uno stato di degrado tal-mente profondo da pregiudicarne pesantemente il messaggio. Ma cosa hanno fatto, concretamente, i benedettini solesmensi in quegli anni? Il grande dom Gueranger, primo abate di Solesmes, rifondò l’abbazia francese con l’intento di “cercare dovunque ciò che si pensava, ciò che si faceva, ciò che si amava nella Chiesa nelle età della fede”. La volontà di recuperare in radice ciò che si era perduto coinvolse la liturgia, centro della vita monastica, e si concretizzò sul canto gregoriano, da sempre simbolo di un’unità liturgica a quel tempo compromessa. I nomi da ricordare sareb-bero molti: valgano per tutti le due enormi figure di dom Pothier e di dom Mocquereau. Essi hanno compiuto,

Graduale De Tempore, (Tipografia Medicea, Roma, 1614)

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in alcuni decenni, i primi fondamentali passi per rida-re credibilità al gregoriano: esso ha potuto tornare a “parlare” perché gli è stata innanzitutto restituita una veste melodica originale, sfigurata nel corso dei se-coli come testimonia la celebre Editio Medicea (1610), prototipo delle edizioni ufficiali di canto gregoriano fino all’inizio del XX secolo. Ciò si è reso possibile attraverso un colossale lavoro di reperimento, di stu-dio, di trascrizione, di comparazione di innumerevoli fonti manoscritte sparse in tutta Europa. La rinascita del canto gregoriano non poteva che iniziare dalle fonti, da quei codici che, a partire dal X secolo dan-no testimonianza, pur nelle diverse aree geografiche e con diverse scuole di notazione, di un repertorio comune e consolidato. Nel 1883 Pothier pubblica un nuovo Graduale (i canti della Messa), vera pie-tra miliare della ricostruzione delle originali melodie gregoriane, mentre Mocquereau, nel 1889, inaugura la monumentale pubblicazione della Paléographie Mu-sicale, un’opera tuttora in corso che conta 22 volumi

e che unisce allo studio musicologico delle antiche notazioni e dei fondamenti della composizione gre-goriana, la riproduzione fotografica di alcune fra le fonti manoscritte più significative. Pio X, nel suo Motu proprio del 1903 ha sì riaffermato la priorità assoluta del canto gregoriano nella liturgia romana, ma va detto che gli stessi pronunciamenti hanno avu-

to efficacia grazie al gigantesco lavoro di oltre mezzo secolo. Così infatti recita il Motu proprio al punto 3: “Queste qualità (musica come arte vera, santa, universa-le) si riscontrano in grado sommo nel canto gregoriano, che è per conseguenza il canto proprio della Chiesa Romana, il solo canto che essa ha ereditato dagli antichi padri, che ha custodito gelosamente durante i secoli ne’ suoi codici liturgici, che come suo direttamente propone ai fedeli, che in alcune parti della li-turgia esclusivamente prescrive e che gli studi più recenti hanno sì felicemente restituito alla sua integrità e purezza”.

La Chiesa, con questo documento, si può dire abbia ufficializzato lo sforzo solesmense, senza il quale le medesime affermazioni non avrebbero avuto la stes-sa forza. L’immagine annerita di edizioni che, come detto, ripresentavano in buona sostanza l’estrema decadenza dell’ Editio Medicea, non avrebbero mai potuto costituire un solido punto di partenza per una riqualificazione del canto gregoriano in ambito litur-gico.

Il Motu proprio fu la conclusione di un primo per-corso di restaurazione, ma fu soprattutto l’inizio di una nuova primavera gregoriana. Anche qui la lette-ratura è assai vasta perché, com’è noto, la spinta del documento papale alla realizzazione di nuove edizio-ni ufficiali di canto gregoriano generò una sorta di frenesia negli ambienti liturgico-musicali. Fu ufficial-mente nominata un’apposita Commissione Pontificia con a capo dom Pothier: gli aneddoti in proposito si sprecano, le contrapposizioni interne ed esterne alla commissione finirono per compromettere la pre-senza e il contributo di dom Mocquereau. Prevalse la linea imposta da Pothier e Mocquereau si dimise in segno di protesta. Gli studi, oggi lo possiamo dire, hanno dato ragione a Mocquereau, ma comunque si arrivò, in pochi anni, alla pubblicazione del nuo-vo Graduale Romanum (1908) per il repertorio del-la Messa e al nuovo Antiphonale Romanum (1912) per il repertorio dell’Ufficio Divino. La risposta era stata data: la Chiesa aveva posto nuovamente il suo canto gregoriano al centro della sua liturgia. Ciò che conta sottolineare è però il fatto che questo centro vitale è divenuto tale in virtù e sulla spinta di un’ope-ra di restaurazione radicale accolta e ben compresa dalla Chiesa stessa. La comparazione di centinaia di manoscritti sparsi in tutta l’Europa cristiana, aveva

Dom Joseph Pothier (1835 – 1923)

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riconsegnato alla Chiesa un patrimonio “leggibile”, nella fattispecie una versione melodica “tendente all’originale”: ciò si è rivelato ampiamente sufficien-te a ri-motivare la centralità del canto gregoriano. Ma l’opera di restaurazione, a questo punto, non po-teva certamente dirsi conclusa. Dopo il problema, per la maggior parte risolto, della linea melodica, emergeva in tutta la sua urgenza il problema del rit-mo, del valore delle note, dunque del valore del testo.

La vera questione centrale di tutto il XX secolo è ri-assumibile nel ritmo gregoriano. Ritmo nell’accezio-ne globale di ordo motus, ossia di ordine del movimen-to del testo, del suo modo di comunicarsi secondo un preciso significato. Le edizioni di inizio secolo, risolvendo sostanzialmente ed in modo brillante il problema melodico, avevano, per così dire, auto-maticamente messo il dito nella piaga, evidenziando l’enorme lacuna sul versante ritmico. E’ il problema che si pone ancora oggi a chiunque voglia cantare un brano gregoriano appartenente al fondo autentico, primitivo: quale valore assegnare alla notazione qua-drata? Quale il sistema ritmico di riferimento? Il va-lore sillabico, a queste condizioni, anche se corretta-mente applicato in ordine alla pronuncia di un testo, soddisfa un presupposto ritmico senza raggiungere il suo fine. Le domande, non è il caso di insistere, si af-

follano perché, in effetti, la notazione vaticana è una bella melodia senza ritmo, dunque, per dirla in modo chiaro, un “canto gregoriano senza senso”.

Le teorie ritmiche, e anche qui non occorre scendere nel dettaglio, si sono moltiplicate lungo tutto il cor-so del XX secolo con risultati, francamente, il più delle volte persino fuorvianti. Ne è triste esempio il cosiddetto “metodo solesmense” (per la verità mai applicato dagli stessi monaci di Solesmes nelle loro celebri interpretazioni) che ingabbiava letteralmen-te la melodia gregoriana in improbabili successioni ritmiche binarie e ternarie. Per gran parte del seco-lo, gli unici (e, ahimé, sciagurati) riferimenti ritmici delle melodie gregoriane sono stati proprio i segni solesmensi aggiunti alla notazione vaticana: puntini (mora vocis), trattini orizzontali (episemi) e verticali (ictus), legature e quant’altro hanno tentato invano di far parlare una notazione nata per non dir altro se non la melodia.

Ecco, se il cammino della restaurazione gregoriana si fosse arrestato a questo punto, vi sarebbero stati mo-tivi sufficienti per ritenere questo repertorio ormai inadeguato ad occupare un posto centrale nella litur-

Dom André Mocquereau (1849 – 1930)

Dom Prosper-Louis-Pascal Guéranger (1835 – 1875)

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gia della Chiesa. Non sembri ora eccessiva una simile affermazione; in realtà, ciò che bastava a conferire non solo dignità, ma centralità al gregoriano all’inizio del XX secolo, non può essere ritenuto oggi suffi-ciente a ri-motivarne la stessa autorità. Questo per-ché la natura del canto liturgico, esso stesso “atto” di culto, non è riducibile ad una melodia, anche se ricostruita in versione vicina all’originale. Una me-lodia, anche se venerabile, non esprime a sufficienza anche un significato: il senso di quelle movenze me-lodiche emerge in modo compiuto solo quando ne viene chiarito il ritmo. Le fragili teorie ritmiche alle quali si è fatto riferimento hanno rivelato chiaramen-te che si stava percorrendo una strada chiusa. Il canto gregoriano valutato secondo il suo pur straordinario apparato melodico e musicale in senso lato, potrebbe al massimo costituire un enorme “serbatoio” di mul-tiforme materiale musicale, un po’ come è successo, mutatis mutandis, al passaggio dalla monodia alle pri-me forme polifoniche in epoca tardo-medievale. La sensazione è che in ambito ecclesiale, anche fra gli addetti ai lavori, questa sia precisamente la convin-zione dominante. Anche la “difesa”, oggi, del grego-riano come canto per la liturgia, è debole e poco cre-dibile, per non dire superata, perché poggia troppo spesso su argomentazioni quasi esclusivamente mu-sicali. Non ci si è accorti che, invece, la restaurazione è proseguita a passi giganteschi in altra direzione e che una vera rivoluzione si stava compiendo in meri-to alla comprensione del canto gregoriano. Lo studio delle antiche scritture neumatiche ha colto con sem-pre più matura consapevolezza il senso di quei primi segni (neumi) tracciati da amanuensi preoccupati di trasferire sulla pergamena non tanto un dato musica-le quanto piuttosto il “modo sonoro” di proclamare quel preciso testo con quel preciso significato in quel preciso contesto liturgico.

Oggi, la motivazione della ritrovata centralità del gre-goriano nella liturgia sta proprio in questo sposta-mento di prospettiva, esattamente nella sua mutata comprensione da fenomeno musicale a fenomeno esegetico. Allora possiamo ben dire, tentando di completare la risposta al difficile quesito iniziale, che il progressivo cammino di restaurazione gregoriana ha finalmente trovato il suo “senso”: ristabilire il rap-

porto intimo e vitale fra il testo ed il suo significato comunicato in forma sonora.

Ma questa cos’è se non la primaria esigenza a cui deve rispondere il canto liturgico? Ecco, nel canto gregoriano si è prodigiosamente ritrovato proprio questo. E ritrovato, possiamo dire, alla massima potenza, perché il significato comunicato dal testo è quello che la Chiesa ha fatto “proprio” da secoli. Esattamente di questo non ci si è accorti. Ed è esat-tamente questo che oggi la Chiesa sta rifiutando nella prassi liturgica.

Curioso destino, quello del canto gregoriano. Se, per un attimo, tentiamo uno sguardo dall’alto per guar-dare alla Storia, ci si presenta un repertorio (chia-miamolo così) che rinasce proprio nei momenti di maggiore debolezza. La storia della sua restaurazio-ne ad opera dei monaci solesmensi fino alle edizio-ni ufficiali della Vaticana di inizio ‘900 è monito per l’oggi: è urgente che la Chiesa, ad ogni livello, sappia con certezza che nulla è più come mezzo secolo fa, che la seconda e decisiva fase della restaurazione può dirsi, se non certamente compiuta, almeno iniziata in una prospettiva che guarda all’essenza di un fe-nomeno espressivo. Questo nella Chiesa non si sa, perché se si sapesse come stanno realmente le cose, il canto gregoriano non potrebbe mai e poi mai essere emarginato nella prassi liturgica. Nulla più del canto gregoriano promuove un’autentica “partecipazione attiva” al culto divino. Certo, una partecipazione non banalizzata e ridotta alla caricatura di un attivismo li-turgico, ma segno di un radicale “essere in sintonia”.

Mi pare di poter dire che, vista la sua storia, il canto gregoriano soffre ma non teme le nostre inadegua-tezze e attende con pazienza un gesto di amore dagli attuali figli di una Chiesa che l’ha pensato da sempre come testimone ottimale della sua fede.

(*) Direttore dei Cantori Gregoriani e del Coro Sicardo di Cremona, è stato m° di Cappella della Cattedrale di Cremona fino al 2010. Autore di nu-merose pubblicazioni sul canto gregoriano, è do-cente di Prepolifonia al Conservatorio “G. Verdi” di Torino.

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