+ All Categories
Home > Documents > Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a...

Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a...

Date post: 07-Nov-2020
Category:
Upload: others
View: 1 times
Download: 0 times
Share this document with a friend
30
Gianluca De Sanctis La religione a Roma Luoghi, culti, sacerdoti, dèi Carocci editore Quality Paperbacks
Transcript
Page 1: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

Gianluca De Sanctis

La religione a RomaLuoghi, culti, sacerdoti, dèi

Carocci editore Quality Paperbacks

Page 2: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

There are more things in heaven and earth, Horatio,than are dreamt of in your philosophy.

Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5

1a edizione, novembre 2012 © copyright 2012 by Carocci editore S.p.A., Roma

Finito di stampare nel novembre 2012 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino

isbn 978-88-430-6639-1

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Page 3: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

Indice

Introduzione. Una prospettiva “emica” 9

1. Che cos’è la “religione romana” 17

Religione, religio, religiones 17 Pervasività religiosa 23 Una religione politica 29 Un mondo di segni: presagi e prodigi 33

2. Luoghi 41

Il grande teatro della religione romana 41 Anatomia del lucus e presupposti teologici della città 43 Luoghi nevralgici: focolare e crocicchio 48 Sulla nozione di templum 50 Segni celesti e luoghi “augusti” 54 Urbs, pomerium e imperium 57 Cippi terminali e divinità del confine 61

3. Culti 67

La pratica rituale come sistema di comunicazione 67 Sacra publica e sacra privata 71 “Ingrassare” gli dèi 77

Page 4: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

Sinossi del sacrificio pubblico 79 Hostia e victima 84 Evocatio e devotio: due forme particolari di votum 88 Sacrifici umani, forse che sì, forse che no 98 Il caso degli Argei

e il modello interpretativo ovidiano 103

4. Sacerdoti 109

L’ordo sacerdotum e il rex sacrorum 109 I flamini e i castus del flamen Dialis 112 I pontefici, ovvero i signori del sacro 115 Il calendario romano di età repubblicana 118 La qualità giuridica dei giorni 121 Dies religiosi, dies atri e altri giorni speciali 124 Vestali, onori e tristi lutti 126 I feziali, il “patto colpito” e il problema della guerra giusta 129

5. Dèi 135

Politeismi e monoteismi 135 Rappresentazioni e tassonomie divine 139 Dii certi e indigitamenta 144 Nomina sunt consequentia rebus 149 Dèi come strumenti epistemici 153

Conclusioni. Il problema della credenza 159

Bibliografia 167

Indice dei nomi 185

Page 5: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

L’ordo sacerdotum e il rex sacrorum

A Roma anche i magistrati sono dei sacerdoti, quando celebrano atti cultuali a nome della comunità. Il termine sacerdos è un termine com-posto (*sakro-dhōt-s) e indica «colui che compie l’atto sacro». Qualun-que magistrato, investito della necessaria autorità sacrale, che gestisca il cultus deorum, ad esempio celebrando un sacrificio o prendendo gli auspici, è dunque evidentemente anche un sacerdote (Scheid, 1989). La distinzione tra magistratura e sacerdozio fu un portato dell’età repubbli-cana. Inizialmente i sacerdoti, in particolare il rex sacrorum, i flamini e gli auguri, erano dei veri e propri “creatori del sacro”, più che dei ministri di culto. L’era dei pontefici venne soltanto in un secondo momento, con l’avvento della repubblica e per influsso della cultura e della storia politi-ca greca. Fu in virtù di questo influsso che andò sviluppandosi l’esigenza di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista, dell’esperto che conosce e ordina l’esperienza sacrale, che la interpreta, ma non è più in grado di crearla.

Come accade in molte altre culture tradizionali, i re a Roma detene-vano, oltre al potere militare e giuridico, anche quello religioso. Nell’or-do sacerdotum conservatoci da Festo, il rex occupa infatti il primo posto, mentre il pontifex maximus, che assumerà il controllo e la gestione dei sacra solo in età repubblicana, è relegato in quinta posizione dopo i tre flamini maggiori:

L’ordine gerarchico dei sacerdoti è stabilito sulla base dell’ordine gerarchico degli dèi, secondo il grado di importanza di ciascuno. Il più importante sembra

4Sacerdoti

La religione romana continuava ad annoverare dei fan-tasmi, ormai soltanto ombre di dei e di culti importanti al tempo delle origini: era il prezzo che Roma pagava al suo conservatorismo. La religione cattolica aggiorna il calendario e le feste dei santi. Nell’antica Roma questo modo di procedere sarebbe stato inconcepibile.

J. Champeaux, La religione romana

Page 6: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

110 la religione a roma

essere il rex, poi il (flamen) Dialis, dopo di quello il (flamen) Martialis, al quar-to posto il (flamen) Quirinalis, al quinto il pontifex maximus. Infatti [durante il banchetto] il rex occupa tra i seggi il posto più alto, il Dialis si trova sopra il Martialis e il Quirinalis; il Martialis sopra il Quirinalis; e tutti si trovano sopra il pontifex maximus. Il rex perché è il più potente, il Dialis perché è sacerdote del mondo intero, che è chiamato Dium; il Martialis perché Marte è il padre del fondatore della nostra città; Quirinalis, poiché Quirino chiamato da Curi divenne socio dell’impero; il pontifex perché è considerato giudice ed arbitro delle cose divine e umane (Festo, De verborum significatu, pp. 198-200 Lindsay).

Questo ordo risale evidentemente ad un’epoca in cui l’autorità del pon-tefice non ha avuto ancora il sopravvento su quelle degli altri sacerdoti, quando gli antichi re erano ancora nel pieno delle loro funzioni. Con la cacciata dei Tarquini e l’avvento della repubblica la figura del rex non scomparve completamente, ma sopravvisse per così dire relegata all’am-bito sacrale:

Dal momento che alcuni sacrifici pubblici erano officiati dagli stessi re, per scongiurare il rischio che la monarchia fosse rimpianta (necubi regum deside-rium esset), creano un re dei sacrifici (regem sacrificulum creant). Sottomisero questo sacerdozio all’autorità del pontefice, affinché l’onore aggiunto al nome non pregiudicasse la libertà che a quel tempo era ritenuta la cosa più importante (Livio, Ab Urbe condita libri ii, 2, 1-2).

Simili rivolgimenti si verificarono più o meno contemporaneamente in altre città del Lazio arcaico e dell’Etruria, né furono ignoti al mondo greco (Momigliano, 1989, pp. 166-7). La carica del rex sacrificulus o rex sacrorum, che restò sempre appannaggio del patriziato, era vitalizia come quella del pontificato e dell’augurato, ma a differenza di queste non po-teva essere cumulata con altre magistrature, il che la rendeva politica-mente poco appetibile. Plutarco, dovendo spiegare la ragione per cui al rex sacrorum era proibito esercitare una magistratura e parlare al popolo, afferma: «I Romani dopo aver cacciato i re, stabilirono al loro posto un re dei sacrifici, non permettendogli di ricoprire una carica pubblica, né di parlare al popolo, in modo tale da apparire governati da un re soltan-to nelle cose sacre e mantenere una monarchia per riguardo agli dèi» (Quaestiones Romanae 63). Quando compare nella nostra documenta-zione i suoi poteri ci appaiono fortemente ridotti a scapito di quelli del pontefice massimo, al quale di fatto risulta subordinato. Come i flamini e gli auguri, il rex sacrorum deve essere «inaugurato». Il suo matrimo-

Page 7: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

sacerdoti 111

nio, come quello del flamen Dialis, non può che essere «confarreato», cioè celebrato secondo il rito solenne della confarreatio (Fayer, 2005, pp. 223-45), in cui i due sposi, alla presenza delle massime autorità religiose e di dieci testimoni, dividono e mangiano una focaccia di farro (panis farreus), offrendone una parte in sacrificio a Giove Farreo (Iuppiter Far-reus). Molto probabilmente agli albori della repubblica egli risiedeva nella Regia, che potrebbe aver derivato il nome da quello del suo primo inquilino (Momigliano, 1989, p. 165). Poi, in seguito alla rivoluzione pontificale, avvenuta tra la fine del vi e l’inizio del v secolo, insieme al primo posto nell’ordo sacerdotum, egli dovette perdere anche l’anti-ca dimora. Quando questa divenne lo “studio” e l’archivio del collegio pontificale, fu costretto a traslocare in una casa pubblica, sulla via sacra, chiamata domus regis sacrificuli. Alle calende, cioè il primo giorno del mese, egli insieme ad un pontefice, convoca i comitia calata, una delle più antiche assemblee romane (Gellio, Noctes Atticae xv, 27), per annunciare al popolo il giorno in cui sarebbero cadute le none (il 7 o il 9 a seconda dei mesi); quello stesso giorno sua moglie, la regina sacrorum, sacrifica nella Regia una scrofa o un’agnella a Giunone, alla quale sono consacra-te le calende di ogni mese, come a Giove le idi (Macrobio, Saturnalia i, 15, 19). Poi, il giorno delle none il rex sacrorum, questa volta da solo, annuncia alla stessa assemblea le feste che si sarebbero svolte nella secon-da parte del mese. Egli dunque cooperava con il collegio dei pontefici almeno per quel che riguarda l’ordinamento del tempo. Tuttavia, il rex sacrorum entrava in gioco anche in altre occasioni. Il 24 febbraio, giorno del Regifugium, dopo aver sacrificato nel Comizio, ancora una volta in presenza dei comitia calata, si dava improvvisamente alla fuga. Sebbene gli antichi credessero che il rito fosse una sorta di commemorazione della fuga dell’ultimo re, Tarquinio il Superbo (Ovidio, Fasti ii, 685; Plutarco, Quaestiones Romanae 63), più probabilmente la fuga del rex sacrorum va messa in relazione con la fine dell’anno, che si concludeva il giorno precedente, il 23 febbraio, e la cessazione delle attività di Giano, di cui forse il rex faceva le funzioni (Sabbatucci, 1988, p. 95). Sempre in feb-braio i pontefici andavano a chiedere a lui e al flamen Dialis la lana, il farro tostato e il sale che avrebbero utilizzato quali strumenti purificatori (februa) durante le celebrazioni di quello stesso mese (Ovidio, Fasti ii, 20-24). Il significato di altre cerimonie, alle quali il rex prendeva parte, era probabilmente già divenuto oscuro per gli stessi antiquari romani. Continuiamo a chiederci ad esempio la ragione per cui il 24 marzo e il 24 maggio, giorni contrassegnati nei calendari dall’acrostico qrcf (Quan-

Page 8: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

112 la religione a roma

do rex comitiavit fas), egli convocasse i comitia calata nel Comizio; o il senso da dare alla formula rituale Vigilasne rex? Vigila che le vestali gli rivolgevano una volta l’anno (Servio, Ad Aeneidem x, 228). Ancora una volta frammenti (o fossili, come si dice spesso), che ci lasciano solo intra-vedere l’esistenza di rapporti più complessi (cfr. Dumézil, 20012, p. 110).

I flamini e i castus del flamen Dialis

Sebbene nell’ordo sacerdotum siano nominati soltanto tre flamines, il Dialis, il Martialis, e il Quirinalis, vale a dire i flamines maggiori, il loro numero ammonta complessivamente a 15. Il termine flamen, che Dumézil accosta al sanscrito brahman, deriverebbe secondo gli antichi dalla benda di lana bianca, il filum o filamen, che scendeva giù dal loro caratteristico copricapo (apex). Si tratta di sacerdoti specializzati nel cul-to di una divinità: Divisque aliis alii sacerdotes, omnibus pontifices, singu-lis flamines sunto «Per alcune divinità ci siano alcuni sacerdoti, per tutte i pontefici, soltanto per alcune i flamini» (Cicerone, De legibus ii, 8). Il legame tra il flamen e il suo dio è tale che ogni flamen è identificato da un cognomen, così lo chiama Varrone, desunto dal nome della divinità alla quale egli è preposto.

I flamines maiores, istituiti secondo la tradizione da Numa, proven-gono dalle file delle genti patrizie, devono essere figli di genitori uniti in matrimonio dal sacro vincolo della confarreatio ed essere a loro volta confarreati. Inoltre, come altri sacerdoti, devono essere inaugurati, vale a dire sottoposti all’approvazione della divinità. Tutti e tre hanno il privi-legio di avere al loro servizio dei calatores, ma il Dialis è l’unico a posse-dere il diritto di partecipare alle riunioni del senato e l’unico a disporre di un littore e di un carro curule.

Degli altri dodici, i cosiddetti flamines minores, scelti tra i membri del-le gentes plebee (Paolo Diacono, Festi epitome, p. 137 Lindsay), sappiamo molto poco, come poco sappiamo delle divinità di cui amministravano il culto. In un distico di Ennio, citato da Varrone, ne troviamo nominati sei: [Numa] Volturnalem, Palatualem, Furinalem, / Floralemque, Fala-crem et Pomonalem fecit «[Numa] creò il flamen di Volturno, quello di Palatua, quello di Furrina, quello di Flora, quello di Falacer, quello di Pomona» (De lingua Latina vii, 44). Alcuni dei nomi che compaiono in questo elenco sono attestati anche in altre fonti (Pasqualini, 2006, pp. 223-4). Per quanto riguarda l’identità degli altri sei, almeno quat-

Page 9: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

sacerdoti 113

tro sembrano sicure. Sappiamo che un flamen Volcanalis alle calende di maggio sacrificava a Maia, moglie di Vulcano (Macrobio, Saturnalia i, 12, 18). Festo cita un flamen Portunalis, che con il persillum, un mestoli-no spalmato di pece, aveva cura di ungere le armi di Quirino, vale a dire gli attrezzi agricoli (De verborum significatu, p. 238 Lindsay). Cicerone fa addirittura il nome di un flamen Carmentalis, Marco Popilio Lenate, che nel 359 a.C. riuscì grazie alla propria autorità ed eloquenza, assistito evidentemente dalla dea Carmenta, a scongiurare il pericolo di una se-dizione della plebe (Brutus 14, 56); un altro sacerdote di Carmenta, un certo Tiberio Claudio Pollione, compare come dedicatario di un testo epigrafico del i-ii secolo d.C. rivolto al dio Sole, alla Luna, ad Apollo e a Diana (cil vi, 31032 = ils, 1418). Anche per il flamen Cerialis abbiamo due attestazioni, una letteraria in cui compare impegnato in un sacrificio a Cerere e Tellus che avremo modo di vedere in dettaglio più avanti (Ser-vio, Ad Georgica i, 21) e una epigrafica, anch’essa di età imperiale (cil ix, 5028 = ils, 1447). Per gli ultimi due si sono fatti i nomi di diversi candidati: il Neptunalis, il Fontinalis, il Virbialis, persino un Lucularis, ossia il flamen di un lucus, tutti sacerdozi attestati da epigrafi di ambito municipale o provinciale, ma che potrebbero ricalcare i due flaminati urbani per noi ancora ignoti (Pasqualini, 2006, p. 225, n. 24).

Al di là delle lacune e delle inevitabili incertezze che esse producono, sembra che le divinità dei flamines minores siano accomunate dal fatto di essere divinità rurali – alcune particolarmente “forti” a livello locale (Pa-latua sul Palatino, Furrina sul Gianicolo?) – e comunque legate al ciclo produttivo e alla sussistenza alimentare, mentre quelle dei flamines ma-iores avrebbero a che vedere con la vita associativa e l’organizzazione po-litica del popolo romano. Secondo la famosa interpretazione di George Dumézil (20012, pp. 143-65) Giove, Marte e Quirino, la più antica triade capitolina, costituirebbero l’incarnazione teologica del trifunzionali-smo caratteristico della società indoeuropea: se Giove, il dio supremo, rappresenta la funzione sovrana e religiosa (prima funzione), e Marte la forza guerriera e il valore militare (seconda funzione), Quirino, dio dei Quirites, cioè dei «cittadini di Roma», in quanto patrono della fecon-dità e della prosperità, presiede a tutte le attività umane connesse al ciclo cerealicolo e più in generale alla sussistenza alimentare dei cittadini.

A dire il vero anche del flamen Martialis e del flamen Quirinalis non sappiamo molto, se non che il primo officiava (forse) all’equus october, uno dei più antichi e misteriosi riti di Roma, e il secondo era ritualmente impegnato nella celebrazione dei Consualia (21 agosto), dei Robigalia

Page 10: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

114 la religione a roma

(25 aprile) e dei Larentalia (23 dicembre); e che entrambi, insieme al flamen Dialis, ogni anno dovevano recarsi su una biga coperta presso il sacrario della dea Fides sul Campidoglio, dove sacrificavano con le mani coperte fino alle dita (Livio, Ab Urbe condita i, 21, 4).

Quello che conosciamo meglio è certamente il flamen Dialis, soprat-tutto per via dei numerosi castus «obblighi religiosi» ai quali lui e sua moglie erano tenuti. Il passo di Gellio in cui sono minuziosamente elen-cati costituisce uno dei documenti più interessanti della religione roma-na arcaica che vale la pena di leggere per intero:

Le cerimonie imposte al flamen Dialis sono molte, così come molteplici sono le interdizioni (castus) alle quali è soggetto che ho trovato scritte nei libri che trattano dei sacerdoti pubblici e nel primo libro di Fabio Pittore. Quelle che presso a poco ricordo sono queste: è proibito (religio est) al flamen Dialis mon-tare a cavallo; e ugualmente vedere, fuori dal pomerio, una classis procincta, ossia l’esercito in armi. E infatti difficilmente il flamen Dialis è eletto console, poiché è ai consoli che sono assegnate le guerre; inoltre non è lecito (numquam est fas) che egli presti giuramento; non può indossare anelli, a meno che non siano aperti e cavi. Non è permesso (ius non est) che il fuoco sia portato fuori dalla flaminia, ossia la casa del flamen Dialis, se non per celebrare dei sacrifici. Se un prigioniero riesce a penetrare nella sua dimora, è necessario (necessum est) che questo sia liberato e che le catene siano fatte uscire dall’impluvio per il tetto e abbandonate in strada. Egli non porta indosso alcun nodo, né sul berretto, né alla cintura, né in alcun’altra parte. Se uno che viene condotto per essere fustigato, si getta ai suoi piedi come supplice, per quel giorno non può (piacu-lum est) essere fustigato. Soltanto un uomo di condizione libera può tagliare i capelli del flamen Dialis. È costume (mos est) che egli non tocchi, né nomini la capra, la carne cruda, l’edera e la fava. Non cammina sotto un pergolato di viti. I piedi del letto nel quale dorme, devono essere spalmati con del fango sottile e da quel letto non può assentarsi per un intervallo di tre notti consecutive, né è permesso che qualcun altro vi dorma. È necessario che alla base del suo letto ci sia una cassetta con focacce sacrificali (cum strue atque ferto). Le unghie e i capelli del flamen Dialis, una volta tagliati, sono sepolti sotto un albero di buon augurio (subter arbore felice). Egli non lavorava mai (cotidie feriatus est). Non gli è permesso andare in giro sotto la volta celeste senza il suo berretto (sine apice); Masurio Sabino ha scritto che soltanto di recente egli ha ricevuto dai pontefici il permesso di non indossarlo in casa e che molte altre proibizioni sono state rimosse; si dice inoltre che egli sia stato dispensato anche da un certo numero di cerimonie. Non gli è permesso toccare la farina contenente del lievito. Non si toglie la sottoveste (tunica intima) se non in luoghi chiusi, per non rimanere nudo a cielo aperto sotto gli occhi di Giove. Nel banchetto nessuno può sedere prima di lui tranne il rex sacrificulus. Se perde la moglie deve abbandonare il fla-

Page 11: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

sacerdoti 115

monio. Non è lecito (ius non est) sciogliere il matrimonio del flamen se non con la morte. Egli non può entrare in un luogo nel quale si bruciano i morti, né mai tocca un cadavere. Tuttavia non gli è proibito seguire una cerimonia funebre (Gellio, Noctes Atticae x, 15, 1-25).

Anche Plutarco era stato incuriosito dalla complessità delle interdizio-ni a cui era sottoposto questo sacerdote e dal loro oscuro simbolismo. Prova ne è il fatto che il flamen Dialis è un protagonista indiscusso delle sue Quaestiones Romanae. Le otto quaestiones che gli sono dedicate non fanno che ribadire lo stato di alterità in cui egli sembra imprigionato. In quella relativa alla proibizione di tenere in casa un cane, Plutarco lo de-finisce «statua vivente e sacra» (émpsuchon kái hierón ágalma) di Giove (111). Il flamen Dialis dunque è più che un interprete della divinità, è una specie di suo simulacro vivente, un suo doppio terreno. Si potrebbe definirlo un avatar o avatāra, termine sanscrito con il quale si indica la «discesa» e dunque l’incarnazione della divinità in un corpo uma-no allo scopo di svolgere determinate funzioni. Tuttavia, la sacralità del flamen non risiede nella sua persona, quanto piuttosto nei suoi gesti, percepiti come segni tangibili (signa) della presenza della divinità, che, in quanto tali, stimolano un’incessante reazione rituale da parte dei suoi concittadini (Scheid, 1988, p. 75).

Ciononostante nel corso dell’età repubblicana il flamen Dialis, come pure i suoi colleghi, perse progressivamente d’importanza nella vita re-ligiosa romana, fino a divenire un vero e proprio fossile sacrale. Nel i secolo a.C. per più di settant’anni la carica rimase vacante: dall’87, anno della morte del suo ultimo titolare di età repubblicana, Lucio Cornelio Merula, fino all’11 a.C., quando Augusto decise di “risuscitarla”, in sinto-nia con il suo programma di rilancio della religione tradizionale, segno che a quei tempi un flamen Dialis non era più indispensabile.

I pontefici, ovvero i signori del sacro

Quando si parla dei pontefici romani e del pontefice massimo in partico-lare, non si può che partire dall’etimologia, che era oggetto di dibattito già tra gli eruditi antichi e lo è divenuta anche tra i moderni. Secondo l’o-pinione del pontefice massimo Quinto Muzio Scevola, una vera e propria autorità in fatto di storia della religione romana, «i pontefici derivavano il loro nome da posse e facere, come se fossero chiamati potifices (capaci cioè

Page 12: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

116 la religione a roma

di eseguire atti sacri)» (Varrone, De lingua Latina v, 83). Ma l’ipotesi più accreditata, sostenuta tra gli altri da Varrone (De lingua Latina v, 83) e Dionigi di Alicarnasso (Antiquitates Romanae ii, 73, 1; iii, 45, 2), è che pontifex derivi da pons («ponte») e facere («costruire»), perché sareb-bero stati i pontifices ad edificare, e a restaurare ogni qual volta fosse stato necessario, il ponte Sublicio, il primo ponte di Roma, interamente costru-ito in legno, dove si svolgevano alcune tra le più antiche e sacre cerimonie romane. Sebbene Plutarco la giudichi l’etimologia più ridicola (tó málista gelómenon), essa è sembrata la più logica anche ai moderni che hanno cercato semmai di precisare il significato del primo termine. Se infatti non c’è dubbio che in età classica il significato di pons sia «ponte», meno chiaro e più discusso è il valore originario che questa voce aveva nell’an-tica lingua latina. L’area semantica a cui rimanda il tema radicale di pons, tema attestato in molte lingue indoeuropee (si pensi solo per fare qualche esempio al sanscrito pánthas, al greco póntos, al tedesco Pfad, all’inglese path), è quella di «luogo di passaggio», di «via», di «sentiero». Ma dal momento che si tratta di una nozione piuttosto generica si sono potute attribuire alla primitiva attività del pontefice diverse accezioni: «colui che apre la strada» per una comunità migrante, cioè che indica il cam-mino da seguire (Bayet, 1992, p. 110); «colui che religiosamente apre il cammino alle spedizioni di guerra» (Latte, 1960, p. 196)»; «colui che costruisce il ponte» in riferimento ad un contesto di tipo palafitticolo, dove i ponti, le passerelle e i pontili, che mettevano le diverse abitazio-ni in comunicazione tra loro e l’intero villaggio in comunicazione con la terra ferma, dovevano essere, così come i loro costruttori, circondati da un’aura mistico-sacrale sconosciuta in altri contesti ambientali (Bon-fante, 1937-38); «colui che traccia il sentiero sicuro attraverso l’ignoto» (Bleeker, 1963, pp. 180-9); «colui che costruisce il ponte (nel senso ma-teriale del termine) capace di garantire la salvezza della comunità sia dai pericoli concreti che da quelli di natura sovrannaturale» (Hallett, 1970). È sufficiente questo breve elenco per farsi un’idea della complessità della questione, ma anche dell’interesse e del fascino che continuano a suscitare nei moderni le nebbie della cultura romana arcaica.

Secondo la tradizione sarebbe stato Numa Pompilio ad inventare il pontificato:

Poi scelse tra i senatori Numa Marcio, figlio di Marcio [suo genero e padre del futuro re Anco Marcio] come pontefice, e a lui affidò tutti i sacra, descritti e an-notati nei minimi dettagli (exscripta exsignataque), con quali vittime sacrificali

Page 13: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

sacerdoti 117

(quibus hostiis), in quali giorni (quibus diebus), in quali templi (ad quae templa) dovessero celebrarsi, e da dove prelevare il denaro per pagare le spese (unde in eos sumptus pecunia erogaretur). Sottopose ai decreti del pontefice anche tutti gli altri sacra, pubblici e privati, in modo tale che ci fosse qualcuno a cui il popo-lo potesse chiedere consiglio, affinché nulla del diritto sacro fosse turbato dalla trascuratezza dei riti patri, né dall’introduzione di culti stranieri. Stabilì inoltre che il pontefice non si occupasse solo del culto degli dei celesti (caelestes ceri-monias), ma anche delle cerimonie funebri (iusta funebria), e mostrasse in che modo placare i Mani e quali prodigi inviati attraverso i fulmini, o sotto qualche altra forma, dovessero essere accolti ed espiati (Livio, Ab Urbe condita i, 20, 5-7).

Le competenze dei pontefici, dunque, erano molto ampie e riguarda-vano ogni singolo elemento del sistema religioso romano. Essi erano in sostanza i signori del sacro. Sapevano tutto ciò che c’era da sapere in fatto di sacra: che tipo di hostiae si dovessero utilizzare, in che giorni si dovessero svolgere i sacrifici, in quali luoghi, dove trovare il denaro necessario e molto altro ancora. La loro autorità si fonda su un sape-re molto particolare, che si manifesta nella capacità di analizzare ed interpretare sia le res humanae che le res divinae, ossia il mondo sen-sibile e quello sovrasensibile, o, secondo la concezione più antica dei Romani, la dimensione dello ius e quella del fas (Schiavone, 2005, p. 60). «Nei decreti dei pontefici», dice infatti Macrobio (Saturnalia iii, 3, 1), «si cerca di capire soprattutto (hoc maxime quaeritur) che cosa è sacro (quid sacrum), cosa è profano (quid profanum), cosa è santo (quid sanctum), cosa è religioso (quid religiosum)». «Sacro», «profano», «santo», «religioso» sono le quattro categorie fondamentali del siste-ma giuridico-religioso romano. Tutta la realtà, ogni cosa (tempi, luo-ghi, oggetti, uomini, animali) è riassorbita e smistata secondo questa griglia interpretativa.

I pontefici inoltre conoscono anche le formule necessarie alla realiz-zazione dei riti. Per la devotio di un comandante dell’esercito è necessaria la presenza del pontefice (è lui che detta a Publio Decio Mure il carmen della devotio). Sono i pontefici che conoscono le formule per consacrare gli edifici di culto e ogni altra cosa. E sono sempre loro a custodire e ad utilizzare gli indigitamenta, i libri in cui sono stati raccolti i nomi degli dèi, le loro etimologie e le procedure rituali necessarie per evocarli in determinate circostanze (cfr. infra).

Una così vasta dottrina non poteva non essere messa per iscritto. Li-vio afferma che Numa consegnò al primo pontefice Numa Marcio sacra omnia exscripta exsignataque «tutti i sacra, descritti e annotati nei mi-

Page 14: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

118 la religione a roma

nimi dettagli». Né mancano nelle nostre fonti riferimenti a documenti pontificali e sacerdotali in genere (Sini, 2001).

Intorno al 123 a.C. il pontefice e giurista Publio Muzio Scevola, il-lustre rappresentante di una delle famiglie più antiche e famose della storia di Roma, pubblicò in ottanta libri l’intero contenuto degli archi-vi pontificali (i cosiddetti Annales maximi). I pontefici infatti avevano l’incarico di registrare, anno per anno, tutto ciò che di rilevante accade-va per la comunità, non solo gli eventi di carattere religioso, ma anche politico e militare, dunque prodigi, pestilenze, guerre, carestie, nomi dei magistrati ecc. Tutti questi dati venivano registrati in modo piutto-sto schematico su una tavola bianca (tabula dealbata) che il pontefice massimo esponeva fuori dalla regia, in modo tale che chiunque lo desi-derasse avesse libero accesso a questo tipo di informazioni. Allo scadere dell’anno la vecchia tabula dealbata veniva sostituita con una nuova, e archiviata insieme alle altre ancora più vecchie. Gli annales erano in so-stanza la somma delle diverse tabulae dealbatae accumulatesi nel corso degli anni.

Tra le competenze dei pontefici rientrava dunque anche la gestione e l’archiviazione della memoria pubblica, e più in generale l’organizza-zione del tempo. Essi infatti non controllavano soltanto il passato, ma in qualche modo anche il futuro. Grazie alla loro scienza, che gli per-metteva di distinguere cosa fosse «sacro, cosa profano, cosa santo, cosa è religioso», essi erano gli unici in grado di stabilire la qualità giuridica dei giorni – per i Romani i giorni non sono tutti uguali –, e quindi di costruire il calendario.

Il calendario romano di età repubblicana

Il calendario romano è, come il nostro, un calendario lunisolare. La durata dell’anno coincide cioè con la durata di una rotazione terrestre intorno al sole (secondo gli antichi di una rotazione del sole intorno alla terra), mentre la durata del mese coincide con una rotazione della luna intorno alla terra. I Romani però non contavano i giorni del mese come facciamo noi, utilizzando i numeri da 1 a 30 (o 31 a seconda dei mesi). I loro calcoli si basavano su tre punti di riferimento fondamentali: le calende (calendae), ossia il primo giorno del mese coincidente con il novilunio; le none (nonae), il 5 o il 7 quando la luna è visibile per metà, così chiamate perché cadevano nove giorni prima delle idi; e appunto le

Page 15: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

sacerdoti 119

idi (eidus), il 13 o 15, coincidenti con il giorno di luna piena. Una volta giunti alle idi, i giorni mancanti alla fine del mese si contavano a partire dalle calende del mese successivo. Ad esempio, per indicare il 18 marzo dicevano “15 giorni prima delle calende di aprile” (ante diem quintum decimum calendas Aprilis).

Il primo calendario romano, quello che la tradizione attribuisce a Romolo, era di soli 10 mesi. Molto probabilmente esso iniziava con il plenilunio di marzo (15 marzo) per finire il 30 dicembre. I giorni dell’anno erano in totale soltanto 304 (quattro mesi contavano 31 gior-ni, gli altri sei 30). Rimanevano dunque fuori dal computo calendariale i giorni di gennaio, febbraio e i primi quindici di marzo, non assegna-ti ad alcun mese. In sostanza con la fine di dicembre, che coincideva con la sospensione del lavoro agricolo, si smetteva di contare i giorni per ricominciare nuovamente il 15 marzo dell’anno successivo. Numa ovviò a questa lacuna creando un anno di dodici mesi, cioè in pratica premettendo a marzo il mese di gennaio, di 29 giorni, dedicato a Gia-no, dio degli inizi, e quello di febbraio, di 28, dedicato a Februo, dio patrono delle purificazioni (lustrationum potens). Allo stesso tempo, poiché i Romani consideravano i numeri pari poco fortunati, egli tolse un giorno da ciascuno dei mesi che nel calendario romuleo ne avevano 30, arrivando in questo modo ad un anno di 355 giorni. Febbraio, che ne aveva 28, era diviso in due parti: la prima, la più lunga, di 23 gior-ni si concludeva con la celebrazione dei Terminalia, la festa in onore di Terminus (cfr. supra); la seconda, che andava dal 24 al 28, era di appena 5 giorni. Tuttavia, dal momento che la durata dell’anno così concepito non coincideva ancora con la durata dell’anno solare, Numa aggiun-se ogni due anni un mese intercalare alternativamente di 22 o 23 gior-ni, chiamato mercedinus o mercedonius, dopo il 23 febbraio. In questo modo negli anni con il mese intercalare la seconda parte di febbraio ve-niva fatta confluire nel mercedonius, in modo tale da formare un nuovo mese di 27 o 28 giorni. Così posizionato alla fine dell’anno religioso, il mercedonius non alterava le date delle festività. Tuttavia, poiché l’anno intercalare, con l’aggiunta del mercedonio, risultava di 377 o 378 giorni, «questo suo rimedio», come scrisse Plutarco (Numa 18, 3), «richiese a sua volta rimedi maggiori». Così nel 46 a.C., a causa degli errori ac-cumulatisi nel tempo, il calendario in uso a Roma risultava indietro di circa tre mesi rispetto al ciclo stagionale. Per riportare l’equinozio di primavera al 25 marzo, Gaio Giulio Cesare, allora pontefice massimo, su indicazione dell’astronomo egizio Sosigene inserì in quello stesso

Page 16: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

120 la religione a roma

anno circa 85 giorni supplementari, in modo da creare un anno di 15 mesi (ben 455 giorni), che a buon diritto passò alla storia come l’“anno della confusione”. Inoltre, poiché Sosigene aveva da poco scoperto che l’anno solare era poco più lungo di 365 giorni, Cesare non si limitò ad eliminare il problematico mese intercalare, ma aggiunse ogni quattro anni a febbraio, già allungato a 29, un altro giorno, creando in tal modo l’anno bisestile, chiamato così perché in quegli anni era ripetuto due volte (bis) il sesto giorno prima delle calende di marzo (sexto die ante calendas Martias), ossia il 24 febbraio.

A parte le informazioni forniteci da Varrone, Macrobio e Gellio, fino a qualche tempo fa la maggior parte di ciò che sapevamo del ca-lendario romano dipendeva dai numerosi frammenti di esemplari epi-grafici, incisi su pietra o metallo, risalenti all’età augustea e imperiale (in tutto una cinquantina), e da due cronografi tardoantichi illustrati: quello del 354 d.C., redatto dal calligrafo Furio Dionisio Filocalo, e quello di Polemio Silvio del 449 d.C. Per fortuna nel 1915 gli scavi condotti presso la villa di Nerone ad Anzio riportarono alla luce un calendario pressoché integro risalente al 60 circa a.C., dunque ante-riore all’avvento della riforma giuliana: si tratta dei cosiddetti Fasti Antiates maiores che possiamo prendere a modello dei calendari di età repubblicana. Lungo dodici colonne, ciascuna per ogni mese dell’an-no, i giorni della settimana sono disposti l’uno dietro l’altro secondo la successione A, B, C, D, E, F, G, H. I giorni della settimana sono dunque otto e non hanno nomi propri, come i nostri. Accanto alle lettere del giorno (litterae nundinales), sono indicate le calende, le none, le idi e la qualità giuridica di ciascun giorno, rappresentata dal-le sigle F, N, C, EN, NP (cfr. infra); infine su una terza colonna com-paiono i giorni in cui si celebrano le feste pubbliche a cui partecipa tutto il popolo (i dies festi).

Una simile organizzazione del tempo settimanale dipende dal fat-to che ogni otto giorni a Roma si teneva un mercato, le nundinae, così chiamate perché cadevano il nono giorno (i Romani contavano in modo inclusivo, cioè inserendo nel computo sia il punto di inizio che quello di arrivo), «perché la gente del contado lavorasse per otto giorni nei cam-pi e al nono, sospesi i lavori agricoli, venisse a Roma per partecipare al mercato e prendere visione delle leggi» (Macrobio, Saturnalia i, 16, 34). Le nundinae – si può dire – costituivano la bussola della vita economica e politica della Roma arcaica. Quando infatti il giorno delle nundinae gli abitanti del suburbio venivano in città per vendere i loro prodotti

Page 17: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

sacerdoti 121

e fare provviste fino alle nundinae della settimana successiva, avevano l’opportunità di conoscere le nuove disposizioni legislative e poiché si presupponeva che tutti almeno una volta su tre, cioè una volta al mese, partecipassero ad un mercato, le leggi venivano lasciate affisse per tre nundinae di seguito in modo tale che tutti potessero esserne informati.

Poiché il primo giorno dell’anno era sempre siglato dalla lettera A, e il numero complessivo dei giorni in un anno non era divisbile per otto, come nei nostri calendari, la fine di un anno poteva non coincidere con la fine della settimana. Questo implica che la littera nundinalis, vale a dire la lettera che segnalava il giorno della settimana in cui si tenevano le nundinae, pur rimanendo invariata lungo il corso dell’anno, doveva cambiare quando cominciava l’anno successivo. Se, ad esempio, la lettera per i giorni di mercato di un dato anno era stata la “C” e l’anno era di 355 giorni, la lettera nundinale per l’anno successivo diventava la “F” e così via.

La qualità giuridica dei giorni

Ogni giorno ha una sua natura giuridico-politica particolare, che solo i pontefici sono in grado di individuare. Il collegio dunque si occupava ogni anno di redigere il calendario, segnalando per ogni mese quali fos-sero i dies festi, vale a dire i «giorni di festa» interamente dedicati alle divinità e al loro culto, i dies profesti, i «giorni prima dei giorni di festa» corrispondenti ai nostri giorni feriali riservati agli uomini per sbrigare gli affari pubblici e privati, e i dies intercisi o endotercisi, i «giorni tagliati nel mezzo», di cui abbiamo già parlato, in comune agli uni e agli altri (Ma-crobio, Saturnalia i, 16, 2). Come è facile comprendere, questa distinzio-ne riguarda la proprietà del giorno: ci sono giorni di cui sono proprietari gli dèi, giorni di cui sono proprietari gli uomini, e giorni in comproprietà.

Le attività religiose che si svolgono durante i dies festi possono essere diverse: sacrifici (sacrificia), banchetti sacri (epulae), giochi in onore del-la divinità (ludi), ma soprattutto feste (feriae). Ora, anche se il termine feriae può designare le feste “private” (propriae) di una famiglia o quelle di un singolo individuo, le feriae per eccellenza sono le feriae publicae, le feste in onore degli dèi celebrate dall’intera collettività, in cui vengono sospese le normali attività lavorative, soprattutto agricole e giudiziarie. Almeno in linea di principio erano ammessi soltanto i lavori ritenuti di vitale importanza o che sarebbe stato nocivo tralasciare, come liberare il bestiame che fosse caduto in un fosso o riparare una trave del tetto per

Page 18: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

122 la religione a roma

evitare il crollo dell’intera abitazione. Non sappiamo invece se il divieto riguardasse anche le attività commerciali e artigianali; ma è molto pro-babile visto che il rex sacrorum, i flamines e i pontifices durante le feriae si spostavano attraverso la città, preannunciati da araldi che proclamavano la sospensione del lavoro al momento del loro passaggio, poiché, come testimonia Macrobio (Saturnalia i, 16, 9), era loro proibito nei giorni di festa posare lo sguardo su una qualche attività lavorativa (non licebat videre feriis opus fieri).

Da un punto di vista tipologico le feriae publicae si distinguono in sta-tivae, conceptivae ed impetrativae. Le prime sono le grandi feste coman-date, stabilite (stativae o statae) in giorni fissi, che costituiscono il feriale dei calendari; le feriae conceptivae sono festività mobili, per lo più di am-bito rurale, fissate di anno in anno dai magistrati e dai sacerdoti (Compi-talia, Feriae Latinae, feriae sementivae); le feriae impetrativae sono inve-ce straordinarie, del tutto impreviste, ma rese necessarie dall’avvento di un prodigium e dalla sua espiazione (le feriae novendiales).

Le feriae stativae sono ovviamente le più numerose. Il calendario di età repubblicana annoverava tra queste, oltre alle calende di marzo (ori-ginariamente il primo giorno dell’anno) e a tutte le idi, dedicate a Giove (feriae Iovis), altri 45 giorni ripartiti su un totale di 35 festività:

1. Agonalia (9 gennaio; 17 marzo; 21 maggio; 11 dicembre)2. Carmentalia (11 gennaio e 15 gennaio)3. Lupercalia (15 febbraio)4. Quirinalia (17 febbraio)5. Feralia (21 febbraio)6. Terminalia (23 febbraio)7. Regifugium (24 febbraio)8. Equirria (27 febbraio; 14 marzo)9. Liberalia (17 marzo)10. Quinquatrus (19 marzo)11. Tubilustrium (23 marzo; 23 maggio)12. Fordicidia (15 aprile)13. Cerialia (19 aprile)14. Parilia (21 aprile)15. Vinalia (priora 23 aprile; rustica 19 agosto)16. Robigalia (25 aprile)17. Lemuria (9, 11, 13 maggio)18. Vestalia (9 giugno)19. Matralia (11 giugno)20. Poplifugia (5 luglio)

Page 19: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

sacerdoti 123

21. Lucaria (19 e 21 luglio)22. Neptunalia (23 luglio)23. Furrinalia (25 luglio)24. Portunalia (17 agosto)25. Consualia (21 agosto; 15 dicembre)26. Volcanalia (23 agosto)27. Opeconsiva (25 agosto)28. Volturnalia (27 agosto)29. Meditrinalia (11 ottobre)30. Fontanalia (13 ottobre)31. Armilustrium (19 ottobre)32. Saturnalia (17 dicembre)33. Opalia (19 dicembre)34. Divalia (21 dicembre)35. Larentalia (23 dicembre)

Nei calendari di età repubblicana, dipinti o incisi su pietra, tutte queste festività erano scritte con lettere maiuscole e in forma abbreviata. Le ce-rimonie minori che interessavano solo alcuni sacerdoti e/o magistrati, le feste mobili, che come detto venivano fissate ogni anno in date diver-se, seppure entro certi limiti cronologici (feriae conceptivae), quelle che riguardavano soltanto alcune parti della città (Paganalia, Fornacalia, Septimontium, Sacra Argeorum) o gruppi di cittadini (sacra gentilicia), insomma tutte le cerimonie che non concernevano la res publica nel suo insieme, non erano registrate nei calendari pubblici che avevano lo scopo di organizzare e scandire il tempo sociale (Fowler, 1899, pp. 15-6; Rüpke, 2011).

Ora, mentre i dies festi, in quanto interamente dedicati agli dèi, sono per loro natura tutti in termini giuridici nefasti, tant’è che accanto alla maggior parte di loro compare la sigla NP ad indicare il loro carattere n(efastus) e al tempo stesso pubblico p(ublicus), i dies profesti, possono essere fasti (F) o nefasti (N), ossia buoni o non buoni per svolgere attività di carattere profano. Inoltre i dies fasti si distinguono tra quelli in cui è lecito svolgere soltanto l’attività giuridica (lege agere) e quelli in cui invece è possibile riunire il popolo in assemblea, i dies comitiales (C). La definizione varroniana di fastus e nefastus, fondata sulla convinzione che entrambi gli aggettivi (e dunque anche fas e nefas) derivino dalla stessa radice del verbo fari, porta in primo piano la possibilità o meno da par-te del pretore di pronunciare in quei giorni una delle tre parole chiave dell’attività giudiziaria (do, dico, addico):

Page 20: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

124 la religione a roma

I giorni leciti (fasti) sono quelli nei quali i pretori possono pronunciare (fari) tutte le parole (omnia verba) senza commettere un’empietà (sine pia-culo); i giorni comiziali sono chiamati in questo modo perché in quei giorni è stabilito che il popolo si raduni nel Comizio per partecipare alle votazioni (ad suffragium ferundum), tranne nei casi in cui vi sia coincidenza con delle feste mobili (feriae conceptae), perché in questi casi non è lecito, come ad esempio durante i Compitalia o le Feriae Latinae; i giorni opposti a que-sti sono chiamati nefasti, poiché in essi non è lecito (nefas) per il pretore dire: «do (do), giudico (dico), aggiudico (addico)»; per cui non può essere intrapresa alcuna azione legale, dal momento che, quando si amministra la giustizia, è necessario utilizzare una di queste parole (Varrone, De lingua Latina vi, 29-30).

Dies religiosi, dies atri e altri giorni speciali

In realtà non tutti i giorni fasti, pur essendo giuridicamente tali, sono ritenuti favorevoli all’attività politica, giudiziaria, militare ecc. Esiste in-fatti un’altra categoria di giorni, i cosiddetti dies religiosi, non segnalati sui calendari – ufficialmente essi sono contrassegnati dalla sigla F, cioè fastus – ma oggetto della superstizione popolare, simili, quanto a proi-bizioni, ai dies festi, vale a dire praticamente inutilizzabili. I dies religiosi, scrive Festo, sono quelli quibus, nisi quod necesse est, nefas habetur facere «in cui è ritenuto nefas fare qualunque cosa non sia strettamente neces-sario» (De verborum significatu, p. 348 Lindsay). La nozione di nefas ha fatto sì che presso gli stessi Romani i dies religiosi potessere essere confusi con i dies nefasti. Aulo Gellio, trattando del carattere specifico del termi-ne religiosus, precisa:

Sono detti dies religiosi i giorni che godono di cattiva fama (infames) per via di un triste augurio (tristi omine) e sono carichi di divieti (impediti), nei quali non si possono celebrare sacrifici, né intraprendere nuove attività, e che il popolo ignorante erroneamente e stoltamente (prave et perperam) chiama nefasti. Marco Cicerone nel nono libro delle Lettere ad Attico scrive: «I no-stri antenati vollero che fosse considerato più funesto (funestiorem) il giorno della battaglia dell’Allia [18 luglio del 390 a.C., quando l’esercito romano venne sconfitto dai Galli Senoni guidati da Brenno, presso l’Allia, un picco-lo affluente del Tevere], piuttosto che quello in cui Roma venne occupata, poiché questa disgrazia discendeva da quella. Perciò il primo dei due giorni ancora oggi è un dies religiosus, l’altro invece è ignorato dal popolo» (Gellio, Noctes Atticae iv, 9, 5).

Page 21: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

sacerdoti 125

Da altre fonti apprendiamo che oltre al 18 luglio, anniversario della terri-bile disfatta nei pressi dell’Allia, tra i dies religiosi figuravano anche quei giorni in cui il mondo dei vivi e quello dei morti entravano in comuni-cazione, dunque i Lemuria a maggio (9, 11 e 13), i Parentalia a febbraio (dal 13 al 21) e i tre giorni in cui veniva aperto il mundus (24 agosto, 5 ottobre, 8 novembre). A questi devono aggiungersi i giorni, dal 7 al 15 giugno, in cui l’aedes Vestae veniva aperto, e le due ricorrenze in marzo ed ottobre in cui i Salii portavano fuori gli ancilia e sfilavano con loro per le strade di Roma.

Una sottocategoria di dies religiosi erano poi i dies atri, i «giorni neri», successivi alle calende, alle none e alle idi. Anche in questa circo-stanza era vietato compiere sacrifici e fortemente sconsigliato intrapren-dere una nuova attività (quod per eos dies nihil novi inciperent). Macro-bio precisa infatti che i dies atri, oltre a non essere puri, cioè buoni per il culto, non erano né proeliares «adatti a far la guerra», né comitiales «adatti alle riunioni del popolo» (Macrobio, Saturnalia i, 16, 24). Cu-riosamente anche l’origine di questa credenza ha a che vedere con il di-sastro dell’Allia. Scrive infatti Gellio:

Verrio Flacco nel quarto libro del Sul significato delle parole afferma che i giorni che vengono dopo le idi, le none e le calende, che il popolo impropriamente chiama nefasti, sono detti e ritenuti atri per questo motivo: «Dopo che la città venne riconquistata ai Galli Senoni» scrive «Lucio Atilio disse in senato che il tribuno militare Quinto Sulpicio il giorno dopo le idi fece un sacrificio per ingraziarsi gli dèi in vista della battaglia contro i Galli, quella che si sarebbe poi svolta presso l’Allia; e che in seguito l’esercito del popolo romano venne di-strutto e tre giorni dopo tutta la città conquistata eccetto il Campidoglio. Mol-tissimi altri senatori dissero di ricordarsi che, ogni qualvolta un magistrato del popolo romano avesse fatto un sacrifcio propiziatorio in vista di una guerra il giorno dopo le calende, le none e le idi, poi le cose erano andate storte per la res publica nella battaglia immediatamente successiva di quella stessa guerra. Allora il senato riferì la cosa ai pontefici, affinché questi stabilissero ciò che sembrava opportuno stabilire. E i pontefici decretarono che in quei giorni nessun sacrifi-cio si sarebbe fatto nel modo corretto (recte)» (Gellio, Noctes Atticae v, 17, 1-3).

La notizia riferita da Gellio, e confermata da Macrobio (Saturnalia i, 16, 21-24), non solo prova il ruolo del collegio pontificale nella costruzione del tempo calendariale, ma in fondo ci spiega come i Romani venivano a conoscenza della natura dei giorni: quelli che avevano dato cattiva prova di sé, che si erano dimostrati pericolosi e ostili al popolo romano, come

Page 22: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

126 la religione a roma

l’anniversario di sconfitte militari, venivano bollati come giorni sfortu-nati e giudicati inservibili almeno per quel che riguardava l’ambito reli-gioso, politico e militare. Poiché non si trattava di divieti e proibizioni rigide, come quelle che caratterizzavano i dies nefasti, ma piuttosto di credenze religiose, di superstizione popolare, paragonabile a quella che circonda il nostro «venerdì 13», i dies atri, come i dies religiosi, non era-no ufficialmente riconosciuti e pertanto non comparivano nei calendari. Ogni cittadino romano sapeva che i giorni dopo le calende, le idi e le none erano giorni sfortunati, ma ovviamente cosa fare o non fare restava a sua discrezione.

Ci sono poi dei giorni speciali: il 24 marzo e il 24 maggio sono acco-munati dalla sigla qrcf (= Quando rex comitiavit fas) cioè «Quando il rex (sacrificulus) va a Comizio (il giorno) è fausto», anche se, come già detto, non sappiamo che tipo di attività fosse svolta dal rex sacrorum in quella circostanza. Più chiaro invece è il significato della sigla che ac-compagna il 15 giugno: qstdf (= Quando stercum delatum fas), «quan-do lo sterco è portato via (il giorno) è fasto», perché in quel giorno gli escrementi accumulatisi durante l’anno nel santuario di Vesta venivano spazzati via e scaricati altrove. La sigla, molto probabilmente, fa riferi-mento ad una cerimonia molto antica, in uso quando Roma doveva esse-re poco più di un villaggio rurale ed era inevitabile che lo sterco animale si accumulasse nel centro storico e persino sul pavimento di un tempio.

Vestali, onori e tristi lutti

Anche l’istituzione delle vestali risale secondo la tradizione a Numa Pompilio. Ma il sacerdozio doveva essere diffuso in diversi centri del La-zio arcaico ancora prima della fondazione di Roma se prestiamo fede alla tradizione secondo cui Rea Silvia, la madre di Romolo e Remo, sarebbe stata una vestale di Albalonga. Il loro nome deriva da quello della dea Ve-sta, al cui culto erano legate. Esse venivano scelte, originariamente dal re, poi in età repubblicana dal pontefice massimo, tra le bambine comprese tra i sei e i dieci anni appartenenti alle casate più nobili di Roma, i cui genitori fossero ancora in vita. La formula di consacrazione pronunciata dal pontefice nel momento in cui egli prendeva la ragazza dalle mani del padre, quasi fosse una preda di guerra (veluti bello capta), ci è nota da Gellio: Sacerdotem vestalem, quae sacra faciat, quae ius siet sacerdo-tem Vestalem facere pro populo Romano Quiritibus, uti quae optima lege

Page 23: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

sacerdoti 127

fuit, ita te, Amata, capio «Così, ti prendo Amata, come prescrive l’antica legge, perché tu compia le sacre cerimonie che deve compiere una sacer-dotessa di Vesta per il popolo romano dei Quiriti» (Noctes Atticae i, 12). L’apostrofe «Amata», che tanto ha fatto discutere i moderni, si spiega secondo Gellio con il fatto che la prima vestale ad essere presa aveva que-sto nome. Qualunque fosse la ragione, da quel giorno in poi le vestali restavano legate al servizio di Vesta per trent’anni, periodo durante il quale erano soggette, come molte altre figure sacerdotali romane, ad una serie di interdizioni di carattere religioso, la più importante delle quali era senza dubbio il mantenimento dello stato virginale. Il primo decen-nio era dedicato all’apprendimento, il secondo all’esercizio del culto vero e proprio, il terzo all’educazione delle novizie. Per tutta la durata del servizio esse vivevano nell’atrium Vestae, le abitazioni riservate loro che sorgevano nei pressi della regia, la residenza del pontefice massimo, accanto all’aedes della dea, l’unico dei templi romani a pianta circolare.

Oltre ad assistere il pontefice nella celebrazione di alcuni sacra (sacra Argeorum, Palilia, Fordicidia, Consualia), ad officiare insieme con le ma-trone il culto della Bona Dea e a preparare la mola salsa che serviva ad im-molare le vittime dei sacrifici, il loro compito principale era custodire il sacro fuoco di Vesta, che bruciava ininterrottamente all’interno del tem-pio della dea e che stava a simboleggiare il focolare comune della città. Plutarco afferma che se questo fuoco si spegne «per un qualche acciden-te» (upó túches tinós) esse devono provvedere ad accenderne uno nuo-vo, suscitandolo direttamente dalla fiamma del sole, considerata «pura e incontaminata», attraverso l’utilizzo di appositi specchi di forma cava in grado di catturare la luce solare e convergerla verso un unico punto (Numa 9, 10-15). Altrove lo stesso Plutarco afferma che oltre al sacro fuo-co di Vesta esse avevano in cuostodia altri sacra, tra cui il famoso Palladio di Troia portato in Italia da Enea (Camillus 20, 6-8), la cui incolumità, agli occhi dei Romani, era garanzia della stessa incolumità di Roma.

Le rinunce a cui erano tenute le sacerdotesse di Vesta erano tuttavia compensate da una libertà sconosciuta alle altre donne romane, e da una serie di privilegi che dovevano destare l’invidia di molti uomini. Entrare a far parte del collegio infatti significava uscire dalla patria potestas, a cui invece rimanevano soggetti gli altri individui fino alla morte del padre. Le vestali potevano fare testamento, prestare testimonianza in tribunale senza dover giurare; disponevano di un proprio littore, e di una vettura (come il rex e i flamines maiores) che le conduceva nel luogo di una cerimonia pubblica che richiedesse la loro presenza. Se un condannato a morte aveva

Page 24: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

128 la religione a roma

la fortuna di incrociare una vestale durante il tragitto che lo conduceva al luogo del supplizio e riusciva a raggiungerla, abbracciandole le caviglie, aveva salva la vita. Dato il prestigio e il potere di cui esse godevano non stupisce che chi avesse attentato alla loro vita fosse punito con la morte.

Poiché le vestali sono sotto il controllo e l’autorità del pontefice mas-simo, nel caso ci sia da infliggere loro una punizione, è a lui che spetta questo onere. Quando una di esse viene sospettata o accusata di essere venuta meno al voto di castità, e dunque di aver macchiato il sacerdozio di Vesta, è il pontefice massimo che deve condurre l’istruttoria. Nel caso in cui l’accusa di incestum venga comprovata il castigo che le è riservato è davvero terribile. La vestale condannata viene fatta salire su una lettiga coperta e tenuta ben stretta da cinghie, una specie di feretro, in modo tale che non possa essere né vista, né udita dall’esterno. Quindi viene scortata attraverso il foro fino al luogo del supplizio, nel campus scelera-tus, nei pressi di Porta Collina, dove alla presenza del popolo romano il pontefice officierà il suo funerale. Una volta giunta qui, infatti, ella viene liberata e fatta scendere, ma appare agli astanti silenziosa e coperta di veli, come si addice ai cadaveri. Allora il pontefice pronuncia preghiere oscure (una formula di consacrazione?) e leva le mani agli dèi, infine scorta la malcapitata fino alla scala di una camera sotterranea (katágeios óikos), che ha tutta l’aria di essere un sepolcro: «Vi è un letto con delle coperte, ed una fiaccola accesa, e una piccola scorta alimentare, ad esempio pane, un recipiente d’acqua, latte, olio, come se in questo modo [i Romani] voles-sero difendersi dall’accusa di far morire di fame un corpo consacrato con i riti più solenni» (Plutarco, Numa 10, 8-13). Subito dopo che la vestale è entrata, infatti, l’ingresso della cella viene sigillato così da seppellire viva la prigioniera all’interno. L’ambiguità di questa rappresentazione in cui la vestale ancora viva viene trattata come fosse già morta è stata spiegata con la necessità da parte della città di omologarne morte sociale e morte reale. Come prigioniera di un corpo irrimediabilmente corrotto, e ritenuto capace, se non eliminato, di contaminare a sua volta l’intera comunità, la vestale incesta è già morta agli occhi dei suoi concittadini e trattata come tale. Come si è visto, tutta la cerimonia è descritta nei termini di un funus. Al passaggio della lettiga «tutti si ritraggono in silenzio», scrive Plutarco, «e l’accompagnano muti con una terribile co-sternazione. Non c’è spettacolo più terribile, né giorno più triste per la città» (Plutarco, Numa 10, 11). La discesa lungo la scala che conduce nel-la stanza sotterranea si configura allora come una vera e propria discesa nel mondo dei morti, o meglio come una consegna al mondo dei morti,

Page 25: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

sacerdoti 129

al quale di fatto la vestale ormai appartiene. È chiaro a questo punto che persino gli oggetti che sono ad attenderla nell’ipogeo hanno una valenza funeraria. Non a caso Dionigi di Alicarnasso (Antiquitates Romanae ii, 67, 4) li definisce entáphioi kósmoi, «arredi sepolcrali». Tuttavia neppu-re la morte sembra capace di obliterare la sacralità del loro corpo. Servio (Ad Aeneidem xi, 206) ricorda infatti che era prerogativa delle vestali, anche se colpevoli, essere sepolte intra urbem, vale a dire all’interno del pomerium, come più tardi sarà concesso agli imperatori. Si tratta, come sappiamo, di un privilegio straordinario, evidentemente connesso con il loro statuto giuridico: esse infatti appartengono a Vesta, la dea del foco-lare cittadino, e pertanto il loro sepolcro non può collocarsi al di fuori della città, al di là del pomerium. Tuttavia, a causa dell’empietà commes-sa, esso deve essere come sospinto ai limiti dello spazio urbano, in una zona marginale, come è per l’appunto quella del campo Scellerato, che visualizzi simbolicamente la gravità della colpa, senza per questo violare una prerogativa del loro status (Fraschetti, 1984, p. 124).

I feziali, il “patto colpito” e il problema della guerra giusta

I sacerdoti di cui abbiamo parlato fin qui, rex sacrorum, flamini, pontefici e vestali, sono i membri del più importante dei collegia sacerdotali romani, quello pontificale, presieduto dal pontifex maximus. Accanto a questo vi era il collegio degli auguri, quello dei decemviri/quindecimviri sacris faciun-dis, e infine quello dei triumviri/septemviri epulones che si occupavano di organizzare i banchetti in onore degli dèi (epulae), primo fra tutti l’epulum Iovis celebrato il 13 settembre in occasione dei Ludi Romani.

Le altre figure sacerdotali sono raggruppate in sodalitates, ossia in confraternite preposte alla celebrazione di singole cerimonie religiose: i Salii, che a marzo e ad ottobre con danze e canti portavano in pro-cessione per la città, attraverso un itinerario ben preciso, gli ancilia di Marte; gli Arvali incaricati del culto della dea Dia; e i Luperci che il 15 febbraio correvano, divisi in due squadre, lungo le pendici del Palatino per celebrare un antico rituale di fecondazione; ma soprattutto i feziali, i “sacerdoti della guerra” (anche se Plutarco li definisce eirenophúlakes «guardiani della pace»), il cui compito era «mettere fine alle contro-versie con la parola» – oggi diremmo con la diplomazia – «non per-

Page 26: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

130 la religione a roma

mettendo di combattere se prima non fosse stata recisa ogni speranza di ottenere giustizia». La loro autorità era tale che «se essi lo vietavano o non davano la loro approvazione, né un soldato, né un re potevano legittimamente prendere le armi; anzi era necessario che il comandante provvedesse al da farsi, soltanto dopo aver ricevuto da loro il permesso di cominciare la guerra, se era stata giudicata giusta» (Numa 12, 5). Le procedure dello ius fetiale, di cui ci occuperemo in quest’ultimo paraga-fo dedicato agli attori rituali, mostrano quale fosse il peso della “forma” nell’antropologia politica romana.

Ancora una volta è a Numa che la tradizione attribuisce l’istituzione di questo sacerdozio, sebbene, come le vestali, anch’essi si siano rivelati non un’esclusiva dei Romani ma piuttosto un prodotto comune della cultura italico-latina. La loro prima apparizione nelle nostre fonti risale però all’età di Tullo Ostilio, e più precisamente alla vigilia dello scontro fra Romani e Albani, quando i comandanti dei rispettivi eserciti, il re Tullio appunto e il dittatore Mezio Fufezio, decidono di comune accor-do di non consumare le energie dei due popoli in una guerra fratricida e sanguinosa, ma di affidare le sorti del conflitto ad un duello fra “cam-pioni” scelti dalle rispettive comunità. Ma perché l’accordo sia ritenuto valido è necessario stipulare un trattato (foedus). A detta di Livio, che per nostra fortuna racconta tutta la procedura nei dettagli, questo è il trattato più antico di cui i Romani avevano memoria:

Il feziale interroga così il re Tullo: «Tu mi ordini, o re, di stabilire un accordo (foedus ferire) con il pater patratus del popolo albano?» Avendoglielo il re ordi-nato dice: «Ti chiedo, o re, i sagmina» E il re dice: «prendili pure». Il feziale prende dalla rocca dell’erba pura. Poi chiede al re con queste parole: «Re, mi nomini nunzio regio del popolo romano dei Quiriti insieme all’equipaggia-mento e ai miei compagni?» Il re risponde: «Ti nomino, che questo avvenga senza inganno da parte mia e del popolo romano dei Quiriti». Il feziale nel caso specifico era Marco Valerio; costui nomina pater patratus Spurio Fusio, toccan-dogli la testa e i capelli con la verbena. Il pater patratus viene creato per realizza-re il giuramento (ad ius iurandum patrandum), vale a dire per sancire l’accordo. Lo fa con molte parole che, pronunciate attraverso una lunga formula, non è necessario in questa sede riferire. Poi, lette le condizioni, dice: «Ascolta Giove, ascolta, pater patratus del popolo albano; ascolta tu popolo albano. Come que-ste condizioni sono state recitate dalla prima all’ultima senza inganno, davanti agli occhi di tutti, da quelle tavolette di cera, e come sono state comprese per-fettamente qui ed ora, da suddette condizioni il popolo romano non si allonta-nerà per primo. Se mai per primo con l’inganno il popolo romano sarà venuto meno per pubblica deliberazione [al patto], allora tu in quel giorno, o Giove,

Page 27: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

sacerdoti 131

colpisci il popolo romano come io qui ed ora colpisco questo porco (sic ferito ut ego hunc porcum hic hodie feriam), anzi colpiscilo con tanta maggiore forza quanto maggiore è il tuo potere e la tua potenza». E dopo aver pronunciato queste parole colpì il maiale con una pietra di selce. Allo stesso modo gli Albani pronunciarono le loro formule e il loro giuramento per mezzo del dittatore e dei loro sacerdoti (Livio, Ab Urbe condita libri i, 24, 4-9).

Dobbiamo presumere che le procedure, le formule e i comportamenti rituali qui descritti fossero ripetuti ogni qual volta il collegio dei feziali fosse incaricato di stipulare un patto. La sequenza è ben delineata: 1. Il feziale veniva incaricato dal re di stipulare il patto con il pater patra-tus del popolo con cui Roma era in guerra. 2. A questo scopo il feziale (verbenarius) si recava sul Campidoglio, più precisamente sull’arx, la parte più alta e meglio difendibile della città (non a caso identificata con il suo caput), per strappare i sagmina, vale a dire dei ciuffi di erba sacra, probabilmente del rosmarino, con cui egli poi lambiva la testa di un altro feziale, nominandolo così pater patratus del popolo romano. 3. Il pater patratus, così nominato, incontra in un luogo e in un tem-po prestabiliti il pater patratus dell’altro popolo e dopo aver recitato ad alta voce le clausole (leges) del patto registrate su delle apposite tavolette pronuncia il giuramento che ha lo scopo di subordinare la condotta del popolo romano al giudizio imparziale di Giove.4. Ciò detto, colpisce un porco con una pietra di selce. 5. I magistrati e i sacerdoti dell’altro popolo fanno lo stesso.

Non potendo discutere in dettaglio la figura e la funzione dei diversi attori del rituale (rex, sagmina, pater patratus ecc. su cui cfr. Monteleo-ne, 2007, pp. 180 ss.), ci limiteremo a considerare, seppur brevemente, soltanto l’ultima parte del cerimoniale, ossia l’atto che di fatto realizza concretamente il foedus. Si tratta a ben vedere di un’operazione piutto-sto complessa in cui la nozione di giuramento sembra confondersi con quella di sacrificio.

Ancora una volta è da una glossa del solito Servio che ricaviamo i dettagli più interessanti:

I trattati (foedera) sono chiamati in questo modo per il fatto che una scrofa viene brutalmente (foede) e crudelmente uccisa; infatti mentre anticamente [al tempo di Enea?] veniva trafitta con le spade, i feziali introdussero l’uso di col-pirla con la selce per questo motivo, perché gli antichi ritenevano che la selce fosse un “segno” di Giove (Iovis signum) (Servio, Ad Aeneidem viii, 641).

Page 28: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

132 la religione a roma

Sappiamo che questa pietra, forse una selce particolare, era custodita nel tempio di Giove Feretrio, sul Campidoglio, insieme ad altri oggetti sacri ad uso dei feziali. «Da qui», leggiamo in una voce del compendio di Paolo (Festi epitome, p. 81 Lindsay), «prendevano lo scettro per mezzo del quale giuravano e la pietra di selce con la quale “colpivano” il pat-to (quo foedus ferirent)». L’espressione foedus ferire «colpire il patto», utilizzata anche da Livio nel passo sopracitato, sta a dimostrare che il foedus viene sancito mediante un vero e proprio atto sacrificale. E in-fatti Varrone (De re rustica ii, 4, 9) afferma che nello stipulare i trattati di pace, «nel momento in cui si “colpisce” il patto, si uccide un maiale (foedus cum feritur, porcus occiditur)». Insomma, se il sintagma foedus ferire significa «stabilire un patto» ciò vuol dire che il foedus, il patto, è nella fattispecie rappresentato simbolicamente dall’animale sacrificale. Lo stesso discorso vale per la silex: se Giove si invoca come garante del giuramento (Audi Iuppiter) e la pietra di selce con cui si colpisce a morte il maiale è ritenuta un suo signum, una specie di sua emanazione, dob-biamo dedurne che nell’ottica dei celebranti Giove fosse concretamente presente sotto forma di strumento sacrificale.

C’è una terza equivalenza dettata dalla corrispondenza fra parole e azioni, fra quanto il pater patratus afferma e quanto egli concretamente fa con l’atto del ferire. La formula di giuramento, infatti, stabilisce un’a-nalogia fra la sorte del maiale che sta per essere ucciso e quella dello sper-giuro. Nel caso in cui infatti il popolo romano infrangerà il patto, allora Giove lo punirà con la stessa violenza con cui la pietra di selce colpisce il foedus/maiale. Evidentemente, il rituale aveva la capacità di condensare diversi aspetti, in modo chiaro per i Romani, un po’ meno per noi. Il sacrificio del porco, infatti, se da un lato “fonda” il patto, attraverso la mediazione di Giove, dall’altro anticipa in forma di rappresentazione drammatica la sicura punizione per una eventuale infrazione. In altre parole il maiale non “incarna” solo il foedus, ma anche il popolo romano nella condizione di spergiuro. Si tratta di uno dei tanti esempi di quella vocazione, caratteristica della cultura romana, a “reificare”, ossia a tra-durre in cose concrete che si possano vedere e toccare l’evanescenza dei simboli e dei principi sociali (Remotti, 1990, pp. 159-61).

Oltre a stipulare i patti, i feziali, in quanto preposti alla fides publica (Varrone, De lingua Latina v, 86), si occupano anche di chiedere ripara-zione al partner che fosse venuto meno al rapporto di fides (rerum repe-titio) e, nel caso in cui tali richieste non venissero soddisfatte, anche della dichiarazione di guerra (belli indictio).

Page 29: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

sacerdoti 133

Della prima procedura, che consisteva in un’azione diplomatica dal carattere fortemente intimidatorio – Arthur Eckstein (2008, p. 69) par-la in proposito di «compellence diplomacy» –, abbiamo già trattato a proposito dei confini. Se le richieste avanzate non vengono accettate entro 33 giorni, il pater patratus, con i piedi ancora in territorio nemico, chiama a testimoni gli dèi:

«Ascolta Giove, e tu Giano Quirino, e voi dèi celesti, e voi dèi terrestri e voi dèi inferi, ascoltate (tutti quanti): io vi chiamo a testimoni (ego vos testor) che questo popolo» e qui nomina il nome del popolo in questione «è ingiusto (iniustum esse) e non soddisfa le nostre richieste; ma su queste cose in patria consulteremo i più anziani per capire in che modo potremo far valere il nostro diritto» (Livio, Ab Urbe condita libri i, 32, 9-10).

Solo a questo punto egli fa ritorno a Roma per chiedere il parere del senato. Ciascun senatore è chiamato ad esprimere la propria opinione in merito all’opportunità o meno di indire la guerra. In caso di giudizio favorevole l’interpellato risponde: Puro pioque duello quaerendas censeo, itaque consentio consciscoque «Ritengo che [le cose che dovevano essere restituite, risarcite e riparate] si debbano ottenere attraverso una guerra giusta e legittima, e così delibero e decido». Se la maggioranza dei pre-senti è di questo avviso la guerra è decisa (bellum erat consensum dice Livio, Ab Urbe condita libri i, 32, 12). Allora il pater patratus riparte alla volta del territorio nemico e giunto al confine, alla presenza di tre testi-moni, recita ad alta voce la formula solenne (quaedam solemnia) nella quale vengono enunciate le ragioni che hanno indotto il popolo romano a indire la guerra (Livio, Ab Urbe condita libri i, 32, 13; Gellio, Noctes Atticae xvi, 4, 1; Servio, Ad Aeneidem ix, 52). Poi scaglia un’asta di ferro o di corniolo indurita nel fuoco (hastam ferratam aut sanguineam prae-ustam) nel territorio nemico quale segno che la guerra è stata dichiarata secondo le regole (Albanese, 2000). Si tratta di un gesto che ha un pre-ciso significato giuridico-religioso da non confondersi con quello mate-rialmente identico eseguito dal comandante romano una volta giunto con l’esercito di fronte al territorio nemico. Se infatti il lancio dell’asta compiuto da quest’ultimo ha uno scopo benaugurante (ominis causa) che simboleggia o prefigura la conquista della terra nemica (Bayet, 1935), quello del feziale costituisce l’ultimo atto della indictio belli e di fatto sancisce l’apertura delle ostilità (Turelli, 2008).

La procedura fin qui descritta doveva avvenire nei primi tempi del-

Page 30: Gianluca De Sanctis La religione a Roma Sanctis, La... · Shakespeare, Hamlet, Act i, scene 5 1a edizione, novembre 2012 ... di una nuova figura sacerdotale, quella del canonista,

134 la religione a roma

la storia romana, quando le distanze da percorrere erano relativamente brevi e i nemici di Roma erano ancora sostanzialmente i vicini di Roma. Poi, con l’espandersi del dominio romano la missione dei feziali dovette diventare sempre più difficoltosa e così, per ovviare ai problemi derivanti dall’improvvisa dilatazione degli spazi e al tempo stesso conservare l’an-tico cerimoniale, nel 280 a.C., più precisamente alla vigilia della guerra contro Pirro, re dell’Epiro, un prigioniero epirota fu costretto ad acqui-stare nei pressi del tempio di Bellona un piccolo terreno che, in quanto proprietà di un hostis, poteva essere considerato ai fini giuridici un ager quasi hostilis (Servio, Ad Aeneidem ix, 52). Che si trattasse o meno di una fictio iuris, ossia di una finzione giuridica, questo luogo venne di fatto ritenuto una sorta di piccola enclave hostilis all’interno della stessa città di Roma, e come tale sfruttata dai feziali. Vi fu eretta una colonna di legno, la cosidetta columna bellica, che da quel momento in poi fece le veci di un generico territorio nemico, e contro la quale, almeno fino al ii secolo d.C., i feziali scagliavano la lancia di corniolo per indicare l’inizio delle ostilità contro un altro popolo (De Francisci, 1951-52).

Gli schemi formali dello ius fetiale indicano che i requisiti di una “guerra giusta” presso i Romani sono piuttosto diversi da quelli che uti-lizzano gli Stati moderni. Cicerone è, come al solito, chiarissimo:

La giustizia della guerra è stata santissimamente prescritta dal diritto feziale del popolo romano. Da cui si può capire che nessuna guerra è giusta, se non quella che viene condotta dopo che il popolo romano ha avanzato le proprie richieste di soddisfazione o quella che sia stata prima denunciata e dichiarata (De officiis i, 36).

Il fatto è che per i Romani l’aggettivo iustum non ha ancora maturato quel significato morale che invece è insito e ormai imprescindibile nel nostro concetto di «giusto». Esiste per molti termini di origine latina trapiantati nelle lingue romanze una distonia tra il significante, rimasto sostanzialmente immutato nel corso dei secoli, e il significato, sottopo-sto a continue tensioni semantiche a causa delle culture e delle epoche che esse attraversano. La guerra giusta dei Romani è dunque in primo luogo una guerra conforme allo ius, una guerra dichiarata secondo le regole, formalmente ineccepibile, sebbene eticamente discutibile.


Recommended