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inserto 1 numero 3

Date post: 06-Mar-2016
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inserto al numero 3
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The jOURnalVarious

NakiirikoGaldo81

Kazekage-SamaBoy Knaves

Kado92Yoru

el_maxoHalfheart

Nihil MorariMr. T

PalmeseEssemc

GunLegendAldosanf

Manuelina888

Special Thanks

Josephine

Inserto numero 01AnimeDB jOURnal - The J. numero 03

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Ho il piacere di presentarvi il primo in-serto speciale del jOURnal. Pensando che io la tv non la guardo da mesi è strano, no? Non sono sicuro che la televisione fac-cia male, sia chiaro. Sicuramente fa male a chi ne abusa - come il cioccolato - e sicuramente ha un enorme potere di controllo sulle masse. Detto ciò, può anche fare bene, è evidente. Può fare bene se intrattiene, se informa, se - per-ché no - educa. La nostra tv fa questo?

La risposta è libera, io dico solo che la mia è spenta da mesi. Vi lascio alla lettu-ra del pezzo di Nihil che vi guiderà nei meandri della Tv in tutte le sue forme.

Mauro

TV : meglio spenta ?

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L’editoriale - AnimeDBjOURnalA Cura di Various

L’editoriale - AnimeDB jOURnal - A Cura di Various

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Televisione:Tra senso comune emedia studies.

Quando si parla di televisione è facile, anzi abituale, guardarla con sufficienza e dare giudizi sommari. Ma come fun-ziona realmente, e quali implicazioni ha avuto il suo così largo utilizzo?

DA MEDIUM “DOMESTICO” A MEDIUM “ADDOMESTICATO”: OLTRE IL SENSO DEL LUOGO.

“La TV è un elettrodomestico”. Quante volte diciamo o abbiamo sentito frasi come questa? In realtà, guardando un po’ più da vicino, si scopre che le cose non stanno esattamente in questo modo.

I primi programmi televisivi sono iniziati nel novembre del 1936 in Inghilterra, per poi diffondersi negli USA nel decennio successivo e, in tutto il mondo occidentale, tra gli anni ’50 e ’60. Natu-ralmente erano ben pochi coloro i quali potevano permettersi di comprare il nuovo apparecchio, per cui questo fece il suo ingresso sulla scena pubblica: strade, piazze, vetrine dei negozi di elettrodomestici, bar, cir-coli: è in questi luoghi che la

A cura di Nihil Morari

televisione si insediò inizialmente. Tutto questo ebbe forti ripercussioni, su cui di rado riflettiamo. . Pensiamo, ad esempio, alla funzione di integrazione sociale: : per-sone, magari anche sconosciute, che us-civano di casa e si riunivano in un circolo, ammassati ed organizzati alla meglio, per vedere una “scatola magica” trasmettente immagini in bianco e nero, mosse e di pes-

sima risoluzione; persone che, magari, iniziavano a discutere di ciò che ve-devano e poi si scoprivano grandi amici. O ancora: l’emancipazione fem-minile. Intere famiglie che si spostavano – in alcuni casi per diversi chilometri -, mogli comprese: per la

prima volta le donne avevano accesso ad un luogo pubblico come il circolo, poteva-

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no vivere una serie di esperienze sem-plicemente impossibile prima; potevano confrontarsi fra loro, vedere come fun-zionava il mondo (interi volumi di so-ciologia della cultura analizzano quanto di vero ci sia nella brutale affermazione: : “Sta zitta donna, che ne sai tu del mon-do?”), uscire dalle mura domestiche e, in questo modo, prendere consapev-olezza dei propri diritti. Con il tempo le famiglie più benestanti iniziarono ad acquistarla e, in questo modo, prendereconsapevolezza dei propri diritti.Con il tempo le famiglie più benestanti iniziarono ad acquistarla e, quindi, a ve-derla a casa. Si viene a creare una strana interdipendenza fra pubblico e privato: la famiglia, simbolo del privato, si apre a parenti, vicini, amici, sconosciuti che passano in quel momento per strada. La casa diventa un vero e proprio “tea-tro domestico”. Questa seconda fase coincide con l’avvento delle prime se-rie preoccupazioni sugli effetti del me-dium: le donne ora temono un ritorno alla segregazione domestica, dato che non è più necessario uscire per vederlo; l’invasione del privato e i danni alla pri-vacy legati all’ingresso del mondo ester-no nel salotto; addirittura si teme che la TV possa manipolare le persone o cata-pultarle nei luoghi della trasmissione; alcune di queste insicurezze non sono ancora state eliminate. In altre parole: la televisione non è un medium domestico, non ha delle caratteristiche intrinseche che la rendono domestica; è invece un medium addomesticato, cioè portato dentro le abitazioni. D’altronde ancora

oggi è rimasto il suo utilizzo pubblico: è la cosiddetta “televisione ambientale”. Tel-evisione significa “vedere lontano”, ma ciò che fa è molto più significativo: la TV per-mette di viaggiare, di spostarsi, di entrare in nuovi contesti spazio-temporali; è un mol-tiplicatore di mobilità. Seduti sul divano a fare zapping stiamo esperendo viaggi: un momento siamo in una tribù africana; su-bito dopo siamo negli USA; poco più tardi siamo in Giappone o nella Terra di Mezzo. L’esperienza mediata ci apre, letteralmente, il mondo davanti: il che ha sicuramente degli effetti positivi in termini cognitivi, ma ha anche effetti negativi se pensiamo al sovraccarico simbolico cui siamo esposti – in altre parole, abbiamo una miriade di al-ternative tra cui scegliere e questo aumenta la difficoltà di scelta.Sono altre due le cose da considerare a tal proposito: da un lato la TV da vita a nuove relazioni, creando “media friends”: amici mediali, personaggi e volti familiari, noti, cui ci sentiamo legati e sui quali ci formi-amo giudizi – questo tipo di relazione ha implicazioni di varia natura e grado, dal semplice provare simpatia per un volto noto all’innamorarsi del personaggio della fiction di turno -; dall’altro contrasta il sequestro dell’esperienza operato dalla società moderna: temi quali la morte, la malattia, il sesso, il crimine escono dal mondo dell’esperienza vissuta e ci vengono riproposti in quello dell’esperienza mediata.

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Ma la vera considerazione da fare sulla mobilità televisiva è un’altra. Meyrow-itz sostiene che la TV, permettendoci di entrare in diversi contesti e luoghi, ab-bia effetti distorcenti sul senso del luogo: “Quando siamo ovunque, non siamo in nessun posto in particolare”. Questa è però un’affermazione forse eccessiva: a ben guardare noi non andiamo oltre il senso del luogo, ma conciliamo due luoghi: quello della ricezione e quello della pro-duzione (della trasmissione). Quindi si-amo in due posti contemporaneamente.

IL CONCETTO DI “FLUSSO”.

Con il concetto di flusso televisivo s’intende che “la programmazione televi-siva – sebbene regolata e cadenzata dallo strumento ordinatore del palinsesto – non si offre alla percezi-one e all’esperienza degli spettatori come una successione di programmi distinti e separati, dotati di precisi e identificabili contorni. Si presenta invece come una se-quenza di materiali et-erogenei, che si river-sano dallo schermo al modo di una corrente ininterrotta”. Tradotto: il flusso indica un incessante susseguirsi di programmi che ci travolge, impedendoci di cogliere le dif-ferenze fra l’uno e l’altro; è come se il pub-blico fosse investito da un’ondata di cui

non si riesce a distinguere le singole parti, ma tutto ci pare identico. Molti studiosi lo hanno utilizzato da quando Williams l’ha introdotto negli anni ’70, e rimane ancora oggi un’idea fortemente ancorata nel sen-so comune. Gli studi sono però proseguiti e hanno rivelato che, per più aspetti, ques-to concetto è ormai superato.Come abbi-amo visto, una delle sue caratteristiche è l’incapacità da parte del ricevente di dis-cernere i contenuti propostigli e, quindi, di capire se si trova di fronte uno spot pubblicitario o un talk show.Molti studiosi lo hanno utilizzato da quan-do Williams l’ha introdotto negli anni ’70, e rimane ancora oggi un’idea fortemente ancorata nel senso comune. Gli studi sono però proseguiti e hanno rivelato che, per più aspetti, questo concetto è ormai su-

perato.Come abbi-amo visto, una delle sue caratteristiche è l’incapacità da parte del ricevente di dis-cernere i contenuti propostigli e, quin-di, di capire se si trova di fronte uno spot pubblicitario o un talk show. Il che probabilmente era vero negli anni ’50, quando nes-suno aveva grande

conoscenza del mezzo televisivo; ma oggi, quando la TV ha fatto il suo ingresso da ormai più di sessant’anni, è impensabile che questo sia possibile. Anzi, il fatto stesso che si faccia zapping dimostra il contrario:

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DALL’IMPERIALISMO CULTURALE ALL’INDIGENIZZAZIONE.

Entriamo ora nel vivo della questione: gli effetti della televisione sul pubblico. L’idea più diffusa ancora oggi è quella della TV come strumento ipnotico capace di nar-cotizzare il ricevente che, come una spugna, si riempie di tutti i messaggi che vengono trasmessi. Questa visione, tributaria di

il pubblico è in cerca di “qualcos’altro” e questo postula una capacità di distinzione. Ancora: perché si parli di flusso ci deve es-sere una miscellanea di contenuti eteroge-nei in sequenza, cosa che invece non accade negli odierni canali tematici e di narrow-casting – cioè specifici, rivolti a target ris-tretti e riguardanti determinati contenuti: ne sono esempi Italia 1, rivolto ai giovani, o Discovery Channel. Si può allora concepire il flusso come l’insieme dei programmi di tutti i canali, considerandolo quindi come frutto dello zapping: : il che però contrad-dice l’elemento della sequenzialità inin-terrotta, implicando un pubblico attivo capace di scegliere. Insomma, nonostante sia un termine utilizzato ancora frequente-mente, tutti gli studi dimostrano che ormai dovrebbe essere abbandonato, , tanto più dopo l’introduzione del digitale che, offren-doci nuove possibilità di fruizione – DVD, Video on demand – ci consente di vedere il nostro programma preferito quando e come vogliamo, svincolandoci completa-mente dalla programmazione televisiva: ciò che è alla base della definizione della televi-sione come biblioteca moderna.

un modello unilineare e trasmissivo in cui il ricevente è del tutto passivo e pri-vato di ogni capacità di risposta, è stata elaborata dalla Scuola di Francoforte – fra i principali esponenti si ricordano Horkheimer, Adorno e Marcuse – che si è distinta, fra gli anni ’20 e ’30, per aver modificato il pensiero marxista concen-trandosi soprattutto sulle implicazioni culturali: la cultura dominante è quella della classe dominante, con una sua conseguente svalorizzazione. Tutte le analisi dimostrano però una sostituzi-one del modello trasmissivo da parte di quello dialogico: : il ricevente non è così passivo come si pensa, bensì attivo. Quando ci sediamo di fronte alla TV in realtà non assorbiamo quello che ci viene proposto, lo rielaboriamo. Diamo vita ad un processo ermeneutico con il quale riceviamo il contenuto, lo decodi-fichiamo, gli attribuiamo un significato e lo facciamo nostro utilizzando le nostre risorse e competenze. Possiamo guardare uno stesso programma e interpretarlo in manieradiversa, dargli diversi significati e giudizi; il che mostra come in realtà il pubblico sia attivo ed impegnato, e non semplicemente una “patata da divano”. Il modello unilineare è stato però ripreso da Schiller negli anni ’60 e utilizzato come base per il paradigma dell’imperialismo mediale, che può essere così indicato: con la diffusione della TV aumenta la domanda di programmazione; in molti Paesi però le risorse non sono sufficienti ad avviare la produzione e, di conseguen-za, questa viene importata. Il principale esportatore sono gli USA, i quali espor-

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tano anche una cultura consumistica che si impone su quelle locali, portandole alla distruzione e affermandosi come cultura egemone. Inutile dire che molti autori hanno completamente distrutto questa teoria, mostrando come gli Stati Uniti abbiano ormai da tempo perso la loro egemonia – per quanto possa sembrare strano, i programmi importati sono una percentuale del tutto minoritaria rispetto a quelli prodotti in loco e, peraltro, generalmente di scarso successo -, rivelando il superamento del modello trasmissivo e, soprattutto, che non esistono culture “pure e in-contaminate” ma in continuo contatto fra loro.Si ha a questo punto il passaggio al paradigma dell’indigenizzazione, secondo cui le forme ed espressioni di culture differenti – in questo caso i prodotti televisivi – si incontrano fra loro, vengono rielaborate, ridefinite e con-taminate.Quindi i programmi stranieri vengono reinterpretati alla luce della cultura locale, la quale a sua volta viene modificata dal contatto.Non esiste, dunque, una vera e propria contrapposizione fra “locale” e “globale”, come sottende il primo paradigma – in cui il locale è qualcosa di puro e distinto che deve essere preservato contro le ten-denze distruttrici ed espansive del globale -, ma un rapporto di interconnessione e interdipendenza: una cultura nasce dalla contaminazione con altre forme culturali e si consolida nel corso del

tempo. In definitiva: il ricevente è attivo, non si “beve” tutto quello che gli viene proposto e non esiste una vera e propria americanizzazione e omogeneizzazione della cultura.

LA FICTION: NARRAZIONE E SCUDO CONTRO LA MORTE.

Uno dei contenuti più celebri, nonché sottostimati, della televisione è la fiction – sia essa una serie o un serial. Ma cosa è la fiction? Semplicemente una storia, un racconto, una narrazione della realtà: attraverso questo strumento si crea un racconto della società e del mondo circostante; in questo modo svolge una duplice funzione: dare ordine e senso alla realtà. E’ ciò che gli antropologi definiscono una pratica interpretativaMentre il fact si riferisce ad un fatto real-mente accaduto, la fiction è un prodotto

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di fantasia, è una storia non vera ma verosimile: perché possa svolgere la sua funzione deve rappresentare il mondo al congiuntivo, come se le cose narrate fos-sero o potessero essere vere. Guardando una qualsiasi fiction noi sappiamo che la storia raccontata non è vera, ma vero-simile: sono cose che possono accadere e, in ogni caso, vengono presentate come se fossero – o potessero – succedere. Inoltre, attraverso la fiction è possibile esplorare la società, entrare in nuove situazioni, fare nuove esperienze, mettere in discussione sé stessi e confrontarsi con realtà alle quali, probabilmente, non avremo mai accesso: quando si è parlato di moltiplica-tore di mobilità lo si è fatto anche in rif-erimento a tutto questo: possiamo seguire le attività di un distretto di polizia, o di uno studio di avvocati, o ancora di un ospedale; possiamo confrontarci con determinate situazioni, mettere in discus-sione il nostro comportamento o avere dei modelli da seguire. L’esempio può sembrare banale, ma quanti insegnamenti abbiamo tratto dalle vicende di Dawson’s creek o di O.C.?Poco fa si è parlato di serie e serial; gen-eralmente facciamo una gran confusione fra questi due generi che, però, sono molto diversi l’uno dall’altro. La serie è un racconto diviso in puntate, in cui ogni av-ventura si conclude nella puntata stessa; di conseguenza presenta una visione ciclica del tempo – una sorta di eterno presente – e ogni episodio è una storia a sé stante: si ha in questo modo una neutralizzazione del tempo, poiché questo rimane fisso in un momento mai ben

specificato. Il serial è, anch’esso, diviso in puntate, ma le avventure proseguono in ognuna di esse: quindi ogni episodio è collocato in un preciso ordine che non può essere modificato senza stravolgere la narrazione; il tempo è lineare, visto che gli eventi si susseguono uno dopo l’altro, e viene dilatato prima della fine.

L’antenato della serie può essere consid-erato il romanzo a eroe ricorrente, in cui uno o più protagonisti agiscono e con-cludono l’avventura nel corso del libro – pensiamo a Sherlock Holmes -, mentre quello del serial può essere considerato il feuilleton, racconto a puntate pubblicato sui giornali per incentivare il lettore ad acquistare il numero successivo. In queste due forme di narrazione emergono le due dimensioni del piacere e del desiderio: da un lato, tipico del romanzo, il deside-rio di arrivare alla fine del racconto, di conoscere “come va a finire”; dall’altro, tipico del feuilleton, il piacere dell’attesa derivato dalla sospensione della narrazi-one – la suspense -, ma anche la paura di arrivare alla fine della storia, il “vorrei che non finisse mai”.

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Questo discorso serve per introdurre un’ultima osservazione: il rapporto tra fiction e la morte. Come Norbert Elias ha messo in evidenza, l’angoscia della morte deriva non tanto dalla morte in quanto tale quanto piuttosto dalla consa-pevolezza della fine della vita. Per con-trastare questo sentimento la cultura ha elaborato diversi anti-doti: naturalmente il più importante è la religione che giustifica la morte e la converte nell’inizio di una nuova vita. Già con l’Illuminismo e l’avvento del processo di secolarizzazione questa spiegazione è stata ridi-mensionata per far posto ad una visione più disincantata: la morte è un fatto naturale che non può essere eliminato. Si è cercato quindi di allon-tanarla: le conquiste scientifiche sono un chiaro tentativo – peraltro riuscito – di allungare la durata della vita e allontanare il momento finale. Inoltre per Bauman la cultura ha esorcizzato la paura della morte attraverso due strategie: la decostruzione della mortalità, cioè il tentativo di allun-gare la vita e di considerare la morte come fenomeno contingente e non naturale – si muore di “malattia, violenza, incidente” e non di mortalità; la decostruzione dell’immortalità, cioè la concezione della vita come un continuo attraversamento di ponti ed esperienze, in modo tale che nes-suno sembri l’ultimo e che non esista un punto di non ritorno. L’esorcizzazione del-la morte è stato, comunque, sempre affida-

to anche alle narrazioni – basta pensare a “Mille e una notte”, esempio ante-litteram di serial ed incentrato sul tentativo di Shahrazàd di sottrarsi all’uccisione.Conseguentemente anche l’odierna fic-tion può essere riletta in tal senso: oltre ad essere caratterizzato dalla tradizionale struttura esordio-svolgimento-epilogo,

facilmente paragonabile alla vita umana – in cui l’epilogo è, come si capisce, il momento della morte -, essa contiene un ininter-rotto intrecciarsi di storie e racconti e utilizza espe-dienti come flashback ed anticipazioni: tutto questo serve proprio a ritardare il più possibile la conclu-

sione, giocando sul sentimento dicotom-ico di attesa e paura del finale visto come prefigurazione del trapasso.Ancora con Bauman, questo tentativo di sovvertire il tempo – gli antichi greci lo chiamerebbero “hybris” – viene portato avanti in due modi: nel serial attraverso la dilatazione del tempo e, quindi, la creazi-one di storie lunghe, articolate e in alcunicasi prive di finale - vi dice niente Beauti-ful? -; nella serie attraverso la neutraliz-zazione del tempo, che si ripete sempre uguale in ogni puntata creando una sorta di senso dell’immortale.La conclusione a cui diversi studiosi sono giunti è che la televisione, oltre a mol-tiplicare le esperienze che l’uomo può compiere, moltiplica anche le esperienze di eternità.

Televisione: Tra senso comune e media sTudies a cura di nihil morari

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Tutte le immagini, sono state inserite in ottemperanza all’articolo 2 della legge numero 2/08 quindi comma1-

bis dell’Art. 70 della L. 633/41

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