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LA QUARTA ESTATE -...

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LA QUARTA ESTATE
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PAoLo CASAdio

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Realizzazione editoriale: Elàstico, Milano

iSBN 978-88-566-3788-5

i Edizione 2015

© 2015 - EdiZioNi PiEMME Spa, Milano www.edizpiemme.it

Anno 2015-2016-2017 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

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Dov’è il motore di tutto, dove sarà mai il cuore che dà energia a tutte le cose?

Claudio Piersanti, Luisa e il silenzio

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CoMUNiCAZioNi FEdERALiFASCio di RAVENNA

PRoVVEdiMENTo diSCiPLiNAREHo sospeso dal Pnf, a tempo indeterminato,il fascista Frega davide, fu Giuseppe, iscritto

al partito dal 1933 (Fascio di Ravenna), perché,affetto da inguaribile mania oratoria, tenevaun pubblico discorso non autorizzato dalle

gerarchie responsabili.

iL SEGRETARio PRoViNCiALERavenna, 1° aprile 1943

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Restò a lungo

Restò a lungo sulla porta, con la maniglia stretta tra le dita e quel pensiero.

L’odore dell’ambulatorio rinnovava un ricordo inde-cifrabile.

Era la prima volta che vi metteva piede, eppure la sen-sazione s’affacciò, intransigente. Alle sensazioni credeva in maniera, per dirla con la retorica del momento, gra-nitica. i ricordi, considerava, sono sfuggenti mormorii e occorre silenzio per ascoltarli: sicché stette in silenzio. il quarto silenzio della giornata. Un silenzio inutile.

Respirò profondamente, cercando di capire se l’odore provenisse dai vestiti intrisi di treno.

il viaggio era stato lungo e non facile. Niente era facile nel 1943. dal paesino sul Garda, riva bresciana, sino a Verona, tutto bene. Verso Bologna il chiacchiericcio del vagone centoporte all’improvviso s’era zittito, e la gente allungava occhiate ansiose al cielo. Poi il gemito dei freni, gli sportelli aprirsi, la fuga disordinata verso la campagna e l’aereo lucido che scende, tanto veloce da essere invisi-bile, e le raffiche perdersi in schegge vetrose, scoppiare in colonnette regolari di terra umida allato della massic-

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ciata, perforare il tetto di legno delle carrozze salendo via con ruggito rabbioso.

A volte gli aerei ripassavano, e nessuno dei viaggia-tori aveva pensato di abbandonare i profondi solchi del campo. E anche lì stette in silenzio, il primo silenzio, faccia bocconi come tutti, aspettando la fine.

Non c’erano stati morti e neppure feriti. L’aereo era scomparso, soddisfatto nella sua voglia di terrore. Le donne avevano ringraziato la Madonna e un numero imprecisato di santi, gli uomini si erano sfogati in be-stemmie livide mettendo sulla graticola persino il capo supremo, ma sottovoce, parecchio sottovoce, perché le orecchie erano dappertutto.

A Bologna, mentre cercava i bagni pubblici, la sua valigia era scomparsa. il seniore della milizia ferroviaria fu gentile e perentorio: «Non la vedrete più».

S’informò per quale motivo viaggiava, la sua desti-nazione, il nuovo lavoro: e se ne stupì. Poi accese una sigaretta, dimenticando di offrirne all’ospite. L’avrebbe presa volentieri.

«Non sono tempi per viaggiare» concluse l’ufficiale senza aspettare risposta.

il treno per Ravenna partì con un ritardo di quasi due ore, e il viaggio divenne il secondo silenzio della giornata. A ogni stazione dai nomi nuovi e singolari – Bagnaca-vallo, Russi, Godo – salivano passeggeri che non poteva far a meno di osservare: per via degli abiti frusti, certo, ma anche per le epidermidi bruciate dal sole, le denta-ture finestrate e un parlare fitto e diabolico, incompren-sibile alle sue orecchie lombarde. Un intercalare fluido, aguzzo, di vocali sbalargate e parole nasali, tronche, che ne monopolizzò l’attenzione quasi fosse in terra straniera.

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Poi i campi divennero sempre più larghi, uguali e uguali nella loro precisione geometrica, e le case costruite nella stessa maniera, un corpo principale e due laterali più bassi. Merito del giorno assolato, i dettagli risaltavano esatti come panorami da cartolina, e a un certo punto la campagna cominciò a riempirsi di macchie immobili che parevano burro: bovini con corna distese e appuntite, paciosi nel loro ordinato ruminare.

L’acqua, be’, d’acqua ne vide poca, ubbidiente in ca-nali stretti e diritti, e pensò al cristallo levigato del suo lago. Senz’acqua non poteva vivere, ed era uno dei mo-tivi per cui aveva chiesto quell’incarico a piè di marina.

Alla stazione di Ravenna scoprì che il mare s’insinuava nel centro cittadino con un chilometrico porto-canale. Terminava proprio al confine dei binari, in una confu-sione sulfurea di bragozzi, trabaccoli, vele sgargianti e affumicati camini di piroscafi.

il bagaglio s’era ridotto alla borsa professionale di cuoio nero. dall’ufficio postelegrafonico telefonò a casa, per informare sua madre dell’arrivo. Ebbe la linea subito, e la risposta fu immediata, quasi aspettasse la chiamata affianco al telefono. Non disse nulla del mitragliamento e del furto. Conosceva l’ansia della genitrice e non desi-derava farla stare in pensiero. davanti alla stazione trovò in attesa, deformata dalla gobba del gassogeno, un’auto di piazza color lucertola, e chiese al conducente quanto voleva per una corsa fino a Marina di Ravenna.

«Marina o Abissinia?» s’informò quello.«Marina di Ravenna. L’Abissinia mi pare un po’ lon-

tana.»L’autista spense la sigaretta sul selciato, schiacciandola

con la suola, e non sorrise.

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«Così chiamano le case oltre il Candiano. Per i fore-stieri non fa differenza, ma sono posti diversi.»

«Che cos’è il Candiano?»«il nome del porto-canale. E dove, di preciso, vorre-

ste andare a Marina?»«Al sanatorio comunale per i tubercolosi.»L’altro arretrò di un passo, allarmato.«Avete la tisi? Non vi carico. Non ci penso neppure.»«Ma no. Ci lavorerò.»«E che lavoro fate?»«Medico.»La sorpresa profonda subentrò all’allarme, e il condu-

cente non si diede alcuna pena di dissimularla. Pareva che la professione in sé gli fosse di difficile ingestione, costringendolo ad aprir bocca in un suono muto da pe-sce. Poi ci pensò bene, arrivò alla conclusione che non erano affari suoi e aprì lo sportello della Millecento. Per i ravegnani la tariffa valeva cinquanta lire, andata e ri-torno, comprensiva di due ore di sosta. Per i forestieri le cose cambiavano. «Sessanta lire.»

da Ravenna al mare andarono per una strada a maca-dam diritta e tangente al canale. L’autista procedeva ad andatura moderata, quasi si trattasse di una gita turistica sebbene, oltre al cimitero monumentale, si mostrassero solo quattro fabbriche dalle ciminiere affusolate e di una sporca tinta cenere. Poi il paesaggio divenne una mera-viglia, perché i tratti industriali si stemperavano sempre più in vaste lagune e pinete, e l’aria balsamica di resina inebriava.

«È la prima volta che vedete il mare?» chiese il vet-turale.

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«Sì. Perché?»«Vi farà impressione. Tutta quell’acqua che si muove

per non andare da nessuna parte...»Ricordò il lago. Nei giorni di bufera il comandante,

che poi era Gabriele d’Annunzio, ma tutti lo chiama-vano così, prendeva il largo a bordo del suo motoscafo silurante. diceva che quand’era agitato il Garda gli ricor-dava il mare. E quindi al paese pensavano al mare come qualcosa di eternamente arrabbiato, e tanto s’aspettava di vedere. Quelle acque, che il progressivo moto della vettura scopriva in alternanza a lingue boscose, ripo-savano ferme e tranquille, e solo il librarsi improvviso delle garzette conferiva un attimo di vita. il conducente s’accorse dell’attenzione e sentì il dovere di precisare, orgoglioso: «Queste che vedete sono le nostre valli».

Le valli? il sostantivo suonò strano. Al suo paese sì, c’erano le valli: altipiani sospesi che precipitavano nel Garda tra forre rocciose e torrenti. Stentò a capire. Come poteva chiamarsi valle una specie di palude, una pocia d’acqua crespa che s’intuiva profonda poco più d’una pozzanghera? il volto tradì la perplessità della domanda.

«Si chiamano anche piallasse, ci si va a pesca, a cac-cia...» spiegò ancora l’autista, sguardo allo specchietto retrovisore. E poi, dopo un ponte di recente fattura, in-dicando a destra: «Questa è la “Fabbrica Vecchia”» e si videro due edifici di nobiltà dimenticata: e viticci d’edera, polli razzolanti e ortiche ne consolidavano l’abbandono.

«Fabbrica di che?»«Mo... non lo so.»La notizia del suo trasferimento in Romagna aveva

unificato le opinioni dei parenti, assecondandone in-consciamente le varie tendenze politiche. il commento

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ufficiale considerava una fortuna lavorare nella terra del Capo, e quindi terra progredita e moderna, la più moderna d’italia, d’Europa e quasi sicuramente del mondo. Una frangia minoritaria, al momento clande-stina, s’ispirava a idee socialiste, e vedeva nella mede-sima terra la culla del movimento proletario e la patria di Pietro Nenni. La parte clericale, piuttosto radicata nelle femmine di famiglia, ricordava con orgoglio due don Giovanni: Verità e Minzoni. insomma, da qualsiasi parte si guardava, la Romagna faceva una superba figura.

Soltanto suo padre non s’era espresso. Per due giorni silenzio e poi, quando furono soli, asciutto, più asciutto del solito: «Andrea, pensaci bene. Non è stagione per muoversi». E si guardò dall’aggiunger altro: il carattere era di poche parole e poi, a proposito di carattere, cono-sceva fin troppo bene quello della progenie.

Sì, lo capiva. Ma il lago, a volte, era troppo stretto nella sua rassicurante continuità. Pareva coincidere con il mondo. E invece c’era altro da conoscere. Ecco uno dei motivi per cui aveva domandato quell’incarico. Al resto pensava la sua testardaggine naturale.

Sin lì, però, non vedeva quanto aveva immaginato. Una terra povera, case abbandonate e strade sconnesse, e quel dialetto colorito sì, ma incomprensibile, che si tra-duceva in un italiano grasso: l’autista in verità non diceva “piallasse” ma “piallas-sce”, “impres-scione”, “acqva”, “sces-santa”, e le frasi divenivano lubrificate cantilene.

il canale s’aprì in ampie diramazioni a ventaglio per risolversi poi nella decisione di una larga curva, e le sponde poggiate su fitte palificate si popolarono d’una foresta d’alberi da cui pendevano vele rugginose. La Millecento passò affianco ai barconi, svelandone i ponti

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di smeraldo, il pezzame irregolare dei velami, gli occhi bizantini riportati sulle prue. dal finestrino abbassato entrò una zaffata agra di salsedine e aceto. Sedute sul molo vide donne, vestite di scuro, intente a ricucire reti. Alzarono gli sguardi curiosi sulla vettura per seguirla, avanti e avanti, fino all’edificio isolato del fanale.

La Millecento ha uno scarto imprevisto e frena ge-mendo, sbatacchiando i due occupanti. il guidatore non trattiene un’imprecazione blasfema e cerca d’inserire la retromarcia, cavandone un guaito lamentoso.

«Che succede?»«È passato un gatto nero. di qui non si va. Torno in-

dietro. Avete da scusarmi, sono superstizioso.»

La nuova strada – poco più di un viottolo serpeg-giante – s’intrufolava tra secche e lunghe casupole dagli intonaci corrosi. infiorescenze di salnitro schiarivano la calce, in una rassegnata gara alla maggior decadenza possibile. Però, nell’arco breve di una sassata, tutto cambiò. Viali ciottolati larghi e luminosi dividevano villini faccia-vista dei quali s’intuiva la solidità, la cura esecutiva, le pretese di eleganza, circondati da giardini che sfoggiavano panche marmoree, pozzi e fontane. Poi le ordinate dimore cedettero il posto ai pini domestici, l’aria divenne carica di salsedine e sembrò d’udire il re-spiro confuso del mare. due curve, appena due curve, e proprio davanti al muso di lucertola della Millecento si materializzarono, con toni d’ambra, due fabbricati paralleli dall’aspetto inconfondibile di caserme.

«Siamo al sanatorio.»Si fermarono impetto al primo edificio, e l’autista

spense motore e gassogeno, sistemandosi bene il cappello

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a cencio. La polvere sabbiosa sollevata dagli pneumatici avvolse la vettura per qualche secondo e poi fu dispersa dalla brezza marina.

Per tre mesi sarebbe diventato il suo luogo di lavoro. osservò con insistenza gli intonaci dorati, le finestre di perla, il pennone portabandiera posto affianco l’ingresso e la nicchia che custodiva una madonnina gessosa e do-lente. Sembrava tutto falso, o almeno ebbe questa veloce sensazione.

il tassista scese, aprì la portiera posteriore con genti-lezza. Una suora giovanile e piacente, in tunica panna e cuffietta quadrata a nascondere i capelli, uscì dal portone semiaperto e avanzò verso la Millecento.

«Cercate qualcuno?» s’informò, cortese.«Andrea dalvina Zanardelli. Sono il nuovo medico

pediatra.»Fu il terzo silenzio della giornata. Un silenzio reso

impreciso dalle onde che si rovesciavano sulla spiaggia. Un silenzio sottolineato dall’incredula perplessità della suora.

«Voi sareste il medico pediatra?»«Esatto» e avanzò per porgere la mano.«Non è possibile» concluse, assumendo una cert’aria

sicura. «Non è proprio possibile.»«Volete vedere la mia lettera d’incarico?» replicò il

medico.«Ma voi...»«io?»«Voi siete una donna. Mai viste donne medico...»«Mi sono laureata in medicina nel 1942.»Pausa e un lieve sorriso.«Con il massimo dei voti.»

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La suora piacente

La suora piacente si chiamava oliva. Le fu simpatica per via di un’aria solida, un atteggiamento che si con-cretò nella più logica delle domande: «il vostro baga-glio dov’è?».

«Rubato alla stazione di Bologna.»«Emisignor.»L’esclamazione le rammentò casa. Sul lago s’usava

qualcosa di assai simile: “ossignùr”.«in paese ci sarà un negozio di stoffe, una sarta, no?»il tassista s’intromise, arretrando il cappello con la

mano per grattarsi la fronte.«in paese ci sono soltanto due drogherie e una far-

macia. Bisogna andare in città, ma ora è tardi. il vapo-retto è già partito. Se volete, vi porto e riporto a buon prezzo.»

Suor oliva principiò a scuoter la cuffietta.«Vediamo se la provvidenza ci dà una sorella.»«Non capisco.»«Non occorre. Pagate l’uomo e venite con me.»«Si voleva essere utili...» lamentò l’autista, offeso.

Contò le banconote, riavviò il bruciatore a gassogeno

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della Millecento e diede a partire, salvo frenare per un ripensamento brusco neanche tre metri dopo.

«dottore!» e attaccò a sbracciare dal finestrino.Andrea Zanardelli lo raggiunse.«State attenta: le suore e la nebbia non si muovono

per niente.»Pigiò gas con forza esagerata, slittò sul fondo sab-

bioso e s’allontanò in una caligine di fumo puzzolente.

oliva la condusse per i larghi e vuoti corridoi del sanatorio, intrisi dell’odore pungente che lascia il per-manganato disinfettante.

«imparerete a conoscere i romagnoli...» e il dottore non capì dal tono se doveva temere o no la futura esperienza. Scelse ancora il silenzio, perché tutto quel nuovo doveva essere compreso e ci voleva tempo. La suora s’arrestò impetto una porta a vetri opachi impri-gionati dall’ossatura metallica.

«La nostra sartoria.»Altre due sorelle. Carnagioni sbiadite che parevano

ricotta, mani indaffarate con ago, filo e ditale d’ottone. Alzarono insieme lo sguardo dai vestitini candidi che andavano cucendo.

«Suor Canzia! Suor Viliana! Vi presento il nuovo dottore...»

«oh, oh, oh...» chiocciolò la più anziana, e sembrava davvero il canticchiare fiero dell’ovaiola fertile. «oliva, ma vi pare? Questa graziosa signorina un dottore? Mo no, mo no, mo no...»

il locale, non ampio, pareva un nido lindo e pinto e piuttosto caldo. Forse per via delle finestre chiuse. Ar-redo quanto bastava: una macchina per cucire Necchi,

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un tavolo rettangolare rivestito di faesite, un armadio a giorno che custodiva pile di asciugamani. ogni sin-golo oggetto rispettava meticoloso il posto assegnato, e anche le due religiose rimandavano il senso di una collocazione eterna. Una sicurezza che ricordò ad An-drea Zanardelli sua madre, le origini meridionali di cui vantava con orgoglio le tradizioni e, insieme, una nor-dica mania per l’ordine.

La suora più giovane, per contrappeso, non pronun-ciò sillaba, affidando al sorriso – un sorriso aperto e gentile – il suo benvenuto. Si limitò a esaminarla con assoluta normalità, continuando abile l’imbastitura delle asole.

«Viliana...» le diede voce suor oliva. «Voi e il dot-tore siete di costituzione molto simile. Procuratemi una veste da notte e una sottoveste di ricambio, e magari anche un paio di calzettine. Presto vi ritorna tutto.»

«Be’, be’, be’: il dottore non ha bagaglio?»«Rubato in stazione, cara Canzia. Che tempi tristi.

domani si va in città col Gradenigo, a trovar tessuti. Poi si affiderà tutto all’abilità delle vostre mani. A pro-posito...» e volse verso Andrea. «Avete la carta anno-naria?»

«L’ho salvata.»«Ah, la provvidenza. Che vista.»

«Chi è Gradenigo?» chiese a suor oliva appena la-sciate le due sorelle. S’era già abituata ai nomi strani dei romagnoli e pensò trattarsi di un factotum.

«il vaporetto, dottor Andrea.»«Chiamatemi solo dalvina» la corresse. «Lo prefe-

risco.»

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«Come volete. Questa è la vostra stanza, e di fianco c’è l’ambulatorio. Non è tanto grande. Ma, sinché c’era, il dottor Frega se lo faceva bastare.»

«Come mai se n’è andato?»oliva lasciò fuggire un sospiro doloroso.«Veramente l’han portato via.»«Perché?»La suora esitò, imbarazzata.«Credeva d’esser Mussolini» rispose, lanciando lo

sguardo al vuoto.«Spiegatevi meglio.»«Vestire... be’, ha sempre vestito la divisa del par-

tito. Se devo dire d’essermi accorta di qualcosa, pro-prio no. oddio, era un fascista fatto e quadrato, e un bravo medico. Un bel giorno arriva in divisa estiva che pareva un zucarino, e persino con il berretto da co-mandante. Tal quale il duce. Mi ricordo perfettamente. L’aspettava la direttrice del comitato e va per dargli la mano. Sapete, qui in Romagna non s’usa tanto il saluto romano, mo figuriamoci, nessuno ci sta a guardare. il dottore spalanca gli occhi, arrabbiato, spinge il bar-betto in fuori, proprio come il duce, e poi comincia a redarguirla: “Anche le strette di mano sono finite presso di noi. il saluto romano è più igienico, più este-tico e più breve!”.»

Prese fiato e colorito, e anche un’aria sconsolata. Ab-bassò lo sguardo al pavimento e scossò la testa.

«da allora è stata una buonanotte.»

«Cartelle sanitarie? Non ne ha mai scritto una. Ri-cordava perfettamente ogni bambino. Sapeva tutti i discorsi del duce a memoria. Perché la memoria, a

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dirla giusta, l’aveva eccezionale. Un’enciclopedia. dai discorsi prendeva la parte che gli serviva al momento. Cominciò persino a dormire in uniforme, e poi smise anche di dormire perché doveva sorvegliare il bagna-sciuga... via, parliamo d’altro.»

«i bambini quando arrivano?» chiese ancora dalvina.«Quest’altra settimana. Presto avrete il vostro bel

daffare... via, entrate. Più tardi vi porto i vestiti. La cena è alle sette, verrò a chiamarvi. Conoscerete le altre sorelle...»

«Adesso dov’è?»Suor oliva aggrottò la fronte in una sincera perplessità.«dov’è cosa?»«il dottor Frega.»«Ah, il dottore... all’ospedale di Ravenna. Non al

manicomio, no. i medici non hanno voluto. d’altra parte è inoffensivo, figuratevi: discute di problemi mi-litari con i degenti... se volete acqua calda ditelo, e farò provvedere, cara dalvina.»

il pensiero di un bagno ebbe successo immediato.«Se non è disturbo.»La religiosa l’osservò attenta, esitante, pensierosa.

Annuì.«Nessun disturbo. Saranno altri i disturbi...» e prese

per il corridoio, lasciando dietro di sé l’enigma del plu-rale.

il sobrio conforto della cameretta piacque a dalvina Zanardelli, e non pareva neppure che un uomo l’avesse vissuta: perché il maschio lascia tracce evidenti all’oc-chio femminile. Nessuna pregnanza di fumo, oppure bruciature di sigaretta. il letto alto, con la testiera

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metallica verniciata a legno e ornata di putti grassocci, s’imponeva austero nella sua centralità. Un piccolo se-crétaire di pino riposava appartato, lambendo le tende dell’unica finestra: significava poter scrivere o leggere guardando fuori.

E guardò fuori.La linea orizzontale della marina si distingueva alla

perfezione. Non c’era alcun ostacolo e decise, con pia-cere infantile, che spesso avrebbe dormito con le ante spalancate, in modo da poter ascoltare l’inquietudine irrisolta delle onde. Amava la trasparenza liquida della massa, la libertà del perenne movimento. Quel mormo-rio regolare, si disse, le avrebbe conciliato il riposo, e non sapeva ancora cosa fossero le zanzare.

Seguendo la curiosità uscì nuovamente in corridoio, sospinse la porta dell’ambulatorio e restò a lungo nel quarto silenzio, con la maniglia stretta tra le dita.

L’odore non era tabacco e non apparteneva alle medicine. Più particolare. Un ricordo indistinto che riemergeva dall’infanzia, quasi una vecchia fotografia resa illeggibile dal tempo. Una sensazione che giudicò sgradevole.

Le dispiaceva non dar risposte alle sensazioni, per-ché ci credeva. Una sensazione, pensava, è il frutto d’elaborazioni superiori e complesse che, al momento, non decifriamo se non in termini d’allerta. Un allerta generico, subliminale.

«Potete entrare, se volete.»Fu sorpresa dalla voce e probabilmente diede un

lieve soprassalto. Suor Viliana, diritta come un soldato, reggeva con gli avambracci piegati alcuni capi di vestia-rio in perfetto ordine.

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Si guardarono per una scheggia di secondo. Uno scambio d’informazioni fra due caratteri probabil-mente simili, com’era simile la tonalità autunnale delle rispettive iridi. E forse uno sguardo tradì la curiosità, un interesse istintivamente dissimulato.

«Certo» convenne dalvina.«il dottor Frega ha lasciato un ordine perfetto.»«Vedo.»Pareva, l’ambulatorio, un riuscito esercizio di arredo

sanitario, con le vetrinette lustre, le superfici polite dello scarso mobilio, gli strumenti ben conservati, i te-sti di medicina precisamente allineati, il lenzuolo fresco di bucato del lettino. Un’efficienza corroborante per i malati, il tipo d’efficienza che fa star meglio solo alla vista del medico.

Ma quel sentore la disturbava, e ancor più il non identificarlo tra i ricordi del suo passato.

Tornò con lo sguardo alla religiosa e non riuscì a parlare: un nitrito vicino e imperioso occupò l’aria. La finestra dell’ambulatorio mostrò il mantello storno di un equino in veloce transito.

«Non vi spaventate: è la cavalla dei Cavalli. Verso sera esce dalla pineta per correre sulla spiaggia. È un po’ matta, ma non pericolosa. Poi, si sa, gli animali non si sono mai confessati... voglio dire, sono imprevedibili, occorre prudenza...»

dovette accorgersi dell’espressione perplessa di dal-vina Zanardelli: la cavalla dei cavalli?

«dei marchesi Cavalli, i proprietari della pineta. Non preoccupatevi, ci farete l’abitudine. Prendete questi ve-stiti, sennò mi cascano le braccia.»

E fu un altro sguardo di tradita curiosità.

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doveva fare l’abitudine a parecchie cose, e pensò ch’era normale. Adattarsi al nuovo dipende dal nuovo, ed è facile – continuò a pensare – se il nuovo piace.

Era facile. Le piaceva quel sanatorio sulla marina, la solarità assoluta del luogo, il frangersi continuo delle onde, il sapore di salsedine che s’incollava al corpo. Le piaceva la semplicità ordinata degli ambienti e la tranquilla operosità delle suore, ed ebbe l’impressione di un luogo solido e immutabile nel proprio equilibrio, salvo l’improvvisa pazzia di un medico che si credeva Mussolini.

Non aveva bagaglio da disfare, e si dedicò a sé. Suor Viliana, oltre ai vestiti d’emergenza, s’era incaricata di procurarle sapone e acqua calda, pettine e frizione per capelli. il sapone non era di tipo unico – come tutti i saponi razionati – ma profumato Supersapol Bertelli, e la frizione Lepit pensava non fosse più in vendita per via delle leggi autarchiche. Sorprese piacevoli, quindi.

Prima di cena volle prendere confidenza con il mare, comunicò a suor oliva l’intenzione e si avviò alla spiag-gia.

La brezza scompiglia dispettosa i capelli. dalvina, arrivata alla prima sabbia, si toglie le scarpe per sentire bene il contatto soffice e così diverso dai ciottoli del Garda. La spiaggia è levigata dal vento: infinite crestine parallele disegnano arabeschi in continuo mutare. Lon-tano, tutto è lontano. La guerra che oramai lambisce le porte dell’italia, le difficoltà dei tempi, la fine delle illusioni imperiali.

Siede, allungando le gambe e puntellandosi con le braccia arretrate rispetto al corpo. La gonna si gonfia a vela, scoprendo i polpacci, e si osserva.

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Non le dispiaceva il suo corpo. Riuniva la bellezza si-ciliana della madre con la robustezza quasi tedesca del padre. da lui aveva preso le caviglie forti da montanara, e avrebbe desiderato invece caviglie fusiformi come quelle che Boccasile disegnava alle signorine Grandi Firme.

La brezza marina l’attraversò, inaspettata, facendola rabbrividire.

Sulla battigia umida la cavalla dei marchesi Cavalli aveva disperso tracce profonde e serpeggianti. La vide, lontana anch’essa, trottare verso sud, dove la pineta s’infoltiva dietro alle dune.

Si sentì sola. Neppure questo le dispiaceva, per via di un certo carattere tagliato a modo suo. Però avrebbe desiderato essere carezzata, dare un senso a quel corpo, e si meravigliò del pensiero che, in maniera remota, s’intrecciava con il misterioso sentore dell’ambulatorio.

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