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La stella di Strindberg · 2018-04-12 · A. Strindberg, Inferno, Leggende, Giacobbe lotta, a cura...

Date post: 24-Feb-2020
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FARFALLE

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Marsilio

Jan Wallentin

La stella di Strindbergtraduzione di Katia De Marco

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Titolo originale: Strindbergs stjärna© Jan Wallentin, 2010First published by Albert Bonniers Förlag, Stockholm, SwedenPublished in the Italian languageby arrangement with Bonnier Group Agency, Stockholm, Sweden

© 2011 by Marsilio Editori® s.p.a. in VeneziaPrima edizione digitale 2011 da edizione Marsilio gennaio 2011ISBN 978-88-317-3209-3www.marsilioeditori.it In copertina: illustrazione di ALE+ALE Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata

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a Samuel, Lydia e Henry

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LA STELLA DI STRINDBERG

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Estratto dal mio diario, 189613 maggio. Una lettera di mia moglie. Ha letto sui giornali che un certo signor S. sta per parti-re in pallone per il polo nord, getta un grido d’angoscia, mi confessa il suo amore immutato, e mi supplica di rinunciare a un progetto che equivale a un suicidio. Le chiarisco il suo errore, e l’informo che si tratta del figlio di un mio cugino, il quale rischia la vita per una grande scoperta scientifica.A. Strindberg, Inferno, Leggende, Giacobbe lotta,

a cura di L. Codignola, Adelphi

Ciò che è stato è lontano e profondo, profondo: chi lo può raggiungere?

Qoèlet, 7,24

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L’invito

Il suo viso era davvero avvizzito, nemmeno la cura della truccatrice poteva nasconderlo. E dire che la pove-rina si era data da fare per almeno quindici minuti con spugnetta, pennello e fondotinta color pesca. Una volta rimessi a posto i Ray-Ban, le guance grigiastre sfoggiava-no una lucentezza innaturale. Alla fine la truccatrice gli diede un leggero colpetto sulla spalla: «Ecco fatto, Don. Tra un po’ verrà qualcuno a prenderla.»

Poi gli rivolse un sorriso nello specchio cercando di apparire soddisfatta, ma lui sapeva bene cosa stava pen-sando. A farshlepte krenk, una malattia cronica, ecco cos’era la vecchiaia.

Aveva appoggiato la borsa a tracolla al piede della sedia girevole. Non appena la truccatrice fu uscita, si chinò a rovistare tra i flaconi, le fiale e i blister che con-teneva, scelse due compresse tonde, venti milligrammi di diazepam, poi si raddrizzò, se le posò sulla lingua e le mandò giù.

Nella luce al neon dello specchio, la lancetta dell’oro-logio a parete avanzò di uno scatto: le sei e trentaquattro minuti. Sul monitor a circuito chiuso ronzavano le noti-zie del mattino: ancora undici minuti e sarebbe partito il primo talk-show della giornata.

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Don sentì un colpetto alla porta e intravide un’ombra sulla soglia.

«È qui che bisogna venire per il trucco?»Don annuì verso la sagoma alta e massiccia.«Dopo devo andare anche a Tv4» disse l’uomo. «Per-

ciò tanto vale che le ragazze facciano un lavoretto che duri.»

Avanzò di qualche passo sul linoleum picchiettato di blu e si sedette accanto a Don.

«Siamo nello stesso programma, eh?»«Così pare» rispose Don.L’uomo si chinò verso di lui con un cigolio della sedia

girevole.«Ho letto di lei sui giornali. È l’esperto?»«Non è esattamente il mio campo» disse Don. «Ma

farò del mio meglio.»Si alzò e prese la giacca dallo schienale della sedia.«I giornali dicono che se ne intende» insistette l’uomo.«Se lo dicono loro...»Don si infilò la giacca di velluto, ma mentre si siste-

mava la borsa sulla spalla l’uomo lo afferrò per la tra-colla.

«Non si dia tutte queste arie, sono stato io a fare la scoperta là sotto, no? E a proposito...»

Sembrò esitare.«Ho un favore da chiederle.»«Sì?»«Ho...»Diede una rapida occhiata alla porta, ma non c’era

nessuno.«Ho trovato una cosa, laggiù. Un segreto, potremmo

dire.»«Un segreto?»

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L’uomo tirò Don più vicino tenendolo per la tracolla.«Ce l’ho a casa mia, a Falun, e mi piacerebbe che

facesse un salto a...»La voce dell’uomo si spense. Don seguì il suo sguardo

verso la porta, dov’era comparsa la conduttrice, in giac-ca marrone chiaro e gonna da vecchia zitella.

«Vedo che avete già fatto conoscenza.»Poi aggiunse con un sorriso stressato: «Potete conti-

nuare più tardi?»Indicò il corridoio in cui una scritta luminosa rossa

annunciava: IN ONDA.«Da questa parte, signor Titelman.»

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Parte prima

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Niflheimr

A ogni passo gli stivali di gomma di Erik Hall spro-fondavano sempre di più. Aveva le gambe indolenzite da un pezzo, ma ormai non poteva mancare molto.

Grosso e pesante come un culturista, con tre borsoni da sub, non c’era niente di strano che il muschio imbe-vuto d’acqua che copriva il terreno gli cedesse sotto i piedi. Quello che era strano era che il buio fosse sceso così in fretta, da quando aveva richiuso il cofano della macchina sulla piazzola. Allora, guardando oltre la cu-netta, il limitare della foresta gli era sembrato chiaro e invitante. Adesso invece, dopo una camminata di un’ora, una nebbia densa come latte fluttuava tra i cespugli. Ma non si era pentito.

Quando intravide la radura oltre gli ultimi tronchi si fermò, indeciso per un attimo. Ma poi vide i resti del vecchio recinto, monconi mezzi marci che spuntavano co-me dita ammonitrici a circondare la bocca del pozzo. At-traverso i veli bianchi della foschia percorse gli ultimi me-tri sull’erba e si lasciò scivolare lungo il pendio che porta-va all’imbocco della miniera. Raggiunta la meta, spense il navigatore gps, si liberò dei borsoni con l’attrezzatura e stiracchiò la schiena.

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Faceva un freddo cane, proprio come il giorno prece-dente, quando era arrivato una prima volta fino alla mi-niera abbandonata. Il pesante gruppo ARA con il GAV era ancora dove l’aveva lasciato, e anche l’odore sgrade-vole era lo stesso. Inspirò a fondo – probabilmente c’era qualcosa che marciva nelle vicinanze. Forse un animale selvatico in putrefazione, coperto di larve e vermi.

La nebbia smorzava la luce in una sorta di crepuscolo anticipato e quando si sporse non vide granché. Ma non appena gli occhi si abituarono riuscì a distinguere le travi che puntellavano le pareti a partire da una profon-dità di circa trenta metri. Gli ricordarono dei denti radi e anneriti nella bocca di un vecchio.

Erik fece un paio di passi indietro e inspirò con atten-zione. L’odore si faceva meno intenso a mano a mano che ci si allontanava dall’apertura.

In ogni caso, doveva essere soddisfatto di se stesso. Addentrarsi nella foresta con quella poca luce e ritrovare il punto esatto non era cosa da tutti. Chiunque era in grado di usare un gps per andare da Falun a un indirizzo di Sundborn, Sågmyra o qualsiasi altro paesino del circon-dario, ma arrivare esattamente a destinazione dopo più di cinque chilometri nella foresta era tutta un’altra cosa.

La maggior parte delle miniere abbandonate, per non dire tutte, erano accuratamente segnate sulle carte, grazie al lavoro dei topografi dell’Istituto nazionale di geologia. Ma quel pozzo evidentemente era sfuggito alla loro at-tenzione, e lui aveva portato fin lì tutto il necessario per esplorarlo.

Mentre apriva la cerniera del primo borsone, Erik Hall si accorse del silenzio che c’era.

Quando era arrivato si sentiva il brusio delle macchine.

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Non particolarmente forte, è ovvio, ma abbastanza per non avere la sensazione di essere del tutto solo. Ricor-dava di aver ascoltato il tamburellare di un picchio e il fruscio di qualche piccolo animale o di qualche uccello che saltellava da un ramo all’altro, quando la foresta era ancora piena di luce. Ma poi, dopo che era calata la nebbia, non aveva più sentito altro che il suo respiro, o lo scricchiolio dei rami che si spezzavano mentre si fa-ceva strada tra i cespugli.

E adesso, niente.O forse sì, invece: un fievole ronzio, alcune mosche

che iniziavano a girargli attorno per vedere se c’era qual-cosa da mangiare. Ma nel primo borsone c’erano solo verricelli, cavi, moschettoni, spit, il coltello in titanio a doppio taglio con un lato concavo e uno seghettato, un trapano a batteria, un’imbragatura e la lampada che avrebbe fissato al polso destro.

Dopo aver rovesciato tutto sull’erba ingiallita, Erik aprì la tasca laterale del borsone, dove conservava la custodia rigida con gli strumenti di precisione finlandesi. Tirò fuori un profondimetro, per controllare quanto sa-rebbe sceso sotto la superficie dell’acqua nel pozzo alla-gato, e un clinometro, per controllare l’inclinazione del-le gallerie una volta che fosse tornato all’asciutto.

Le mosche erano sempre di più, e gli volteggiavano attorno come una nube di polvere. Allontanò irritato gli insetti mentre tirava fuori dal secondo borsone gli ero-gatori e i lunghi tubi che l’avrebbero mantenuto in vita. Montò il primo stadio e controllò la pressione delle bom-bole. Poi fece qualche passo indietro, ma le mosche lo seguirono.

Si tolse gli stivali di gomma verde, i pantaloni mime-tici e la giacca a vento. Con gli insetti che gli cammina-

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vano sul viso e sul collo, aprì la cerniera dell’ultimo borsone. Sotto il computer da immersione e la lampada frontale c’erano la voluminosa sottomuta e la pelle gom-mosa della tuta da sub: sette millimetri di trilaminato nero e lucido, sviluppato appositamente per le immer-sioni fino a quattro gradi di temperatura.

Dopo aver indossato la parte inferiore della muta, si piegò in avanti e calzò a fatica le scarpette di gomma rinforzata. Tornato in posizione eretta con una smorfia, infilò prima il braccio destro e poi il sinistro nelle maniche di lattice. Si aggiustò la muta, e per ultimo si infilò il cappuccio coprente di neoprene. Adesso le mosche ave-vano accesso solo agli occhi e a una parte delle guance.

Prese la sacca che conteneva le pinne e la maschera. Quando si affacciò alla bocca del pozzo l’acre fetore di uova marce gli fece quasi cambiare idea, ma poi fissò la sacca a un cavo di nylon e iniziò a calarla. Quaranta, cinquanta metri – per il momento riusciva ancora a se-guirne la discesa sobbalzante –, e il cavo continuava a filare. Solo dopo qualche minuto la sacca raggiunse la superficie dell’acqua.

Assicurò il cavo facendogli fare un paio di giri attor-no a un masso e andò a prendere l’attrezzatura da ar-rampicata e i moschettoni. Una volta tornato al pozzo, si mise goffamente in ginocchio. Lo stridulo ululato del trapano ruppe finalmente il silenzio, e ben presto poté fissare il primo spit. Lo provò con uno strattone: avreb-be tenuto. Poi di nuovo l’ululato del trapano per il se-condo fissaggio.

Quando ebbe finito si mise in spalla i cinquanta chili del gruppo ARA con bombole, GAV e tubi. Aveva le gambe forti per le tante ore di allenamento, eppure il peso lo fece barcollare. Alla fine allacciò l’imbragatura e

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Grazie a Therese Uddenfeldt: senza di te niente sarebbe stato possibile.

Voglio ringraziare anche:

Stephen Farran-Lee e Karin Lundwall

Michael Kucera, Anna-Karin Ivarsson, Daniel Öhman, Sara Hallgren Öhman, Lars Pahlman, Judit Ek, Niklas Möller, Pier Franceschi e Margit Silberstein

Anna Hedin, Katarina Wallentin, Lars Wallentin, Mikael Uddenfeldt e Astrid Uddenfeldt

Peter Giesecke, Ricardo Gonzalez, Elias Hedberg, Olov Hyllienmark, Roger Jansson, Håkan Jorikson, Olle Josephson, Daniel Karlsson, Johanna Mo, Margareta Regebro, Lotta Riad, Thomas Roth, Salomon Schulman e Katja Östling.

Nelle poche occasioni in cui il romanzo si discosta dalla realtà, è la realtà che dovrebbe essere diversa.

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