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L’ASSESSMENT TERAPEUTICO - Cloud Object Storage · collaborativo, Fischer (2002) sottolinea come...

Date post: 22-Feb-2019
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L’ASSESSMENT TERAPEUTICO Come l’utilizzo collaborativo dei test psicologici favorisce il cambiamento dei clienti Filippo Aschieri Centro Europeo per l’Assessment Terapeutico, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Alessandro Crisi Istituto Italiano Wartegg, “Sapienza” Università, Roma Patrizia Bevilacqua Centro Europeo per l’Assessment Terapeutico, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
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L’ASSESSMENT TERAPEUTICOCome l’utilizzo collaborativo dei test psicologici favorisce il cambiamento dei clienti

Filippo AschieriCentro Europeo per l’Assessment Terapeutico, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano

Alessandro CrisiIstituto Italiano Wartegg, “Sapienza” Università, Roma

Patrizia BevilacquaCentro Europeo per l’Assessment Terapeutico, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano

Indice

1. L’Assessment Terapeutico.....................................................3

La ricerca sull’Assessment Terapeutico ...................................4

I passaggi o step dell’AT con clienti adulti ...............................5

2. Il caso di Marcella ............................................................. 10

La raccolta delle domande di assessment ............................. 11

Somministrazione dell’MMPI-2 e analisi dei risultati ............... 15

Preparazione della seduta di discussione e riepilogo ............... 22

Seduta di discussione e riepilogo ........................................ 25

Follow-up ........................................................................ 31

3. Conclusioni ...................................................................... 33

4.Bibliografia ...................................................................... 34

3 gli ebook di Hogrefe Editore

www.hogrefe.it

Con la collaborazione diPsicologi @ Lavoro, Soluzioni per il Marketing dello PsicologoSito web: http://www.psicologialavoro.itFacebook: https://www.facebook.com/marketing.psicologo.psicoterapeuta

1. L’Assessment Terapeutico

L’Assessment Terapeutico (AT) è un percorso clinico semi-strutturato di

conoscenzaediinterventoadattoadapprofondireemodificareiproblemi

di adulti (Finn, 1994, 1996), coppie (Finn, 2005) famiglie con bambini

e/o adolescenti (Smith, Handler e Nash, 2010; Tharinger et al., 2009).

Originatosi in un contesto teorico di riferimento umanistico e

collaborativo, Fischer (2002) sottolinea come esso miri a rendere i

punteggi dei test rilevanti per la vita dei clienti, utilizzandoli per fare

luce sulle loro attuali preoccupazioni, paure, debolezze, punti di forza

e blocchi. Nell’assessment collaborativo i clienti sono coinvolti come

co-investigatori e co-partecipanti nelle valutazioni, e il clinico mira a

supportare il loro coinvolgimento invitandoli quanto più possibile a porre

domande su cosa desiderino esplorare durante il lavoro di assessment.

L’Assessment Terapeutico rappresenta una particolare modalità di

valutazione psicologica collaborativa che, attraverso una ricostruzione

della storia personale del cliente, ne prende in considerazione i punti di

forza,leproblematiche,lerelazionieleesperienzesignificativemettendo

al centro sia ciò che emerge nella relazione con il clinico sia quanto

emerso dai dati dei test. Questi ultimi possono essere utilizzati non solo

perclassificareofarediagnosiinsensotradizionale,opervalutaregli

effetti di un trattamento, quanto a scopo terapeutico con la convinzione

che i test rappresentino uno strumento adatto per sostenere l’“insight”

4 gli ebook di Hogrefe Editore

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dapartedelpaziente,perprovocareunariflessioneecrearelecondizioni

per un cambiamento e una ricostruzione del suo vissuto. Nel caso di

clienti adulti, l’assessment assume una valenza terapeutica in quanto

sostiene un diverso modo di vedere sé, gli altri e le proprie relazioni,

mira all’integrazione di emozioni dissociate e quindi alla riscrittura della

narrazione di sé in senso più armonico, coerente e compassionevole.

La ricerca sull’Assessment Terapeutico

Negli ultimi anni un numero crescente di studi conferma l’efficacia

dell’approccio collaborativo all’assessment e dell’Assessment Terapeutico

inteso come intervento a sé stante con clienti adulti (Finn e Tonsager,

1992; Newman e Greenway, 1997; Ackerman, Hilsenroth, Baity e

Blagys, 2000), con coppie (Durham-Fowler, 2010), famiglie con bambini

(Tharinger et al., 2009), con famiglie con adolescenti (Smith, Handler e

Nash, 2010) e nei confronti di problematiche che vanno da comportamenti

autolesionistici (Ougrin, Ng e Low, 2008) a sintomi internalizzanti

(Aschieri e Smith, 2012), a sintomi esternalizzanti (Smith et al., 2010),

all’attaccamento disorganizzato (Smith e George, 2012), al grave trauma

evolutivo (Tarocchi, Aschieri, Fantini e Smith, 2013).

I protocolli di soggetti che sono accompagnati a sviluppare

collaborativamente obiettivi personali per l’assessment mostrano

MMPI-2 più aperti e validi (Gazale, Aschieri, Finn e Chudzik, 2011). In

sede di feedback la discussione collaborativa dell’MMPI-2, rispetto al

suo utilizzo tradizionale, porta ad un miglioramento maggiore sia della

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sintomatologia, sia del livello di sofferenza e dell’autostima nei clienti

(Finn e Tonsager, 1992; Newman e Greenway, 1997). Le informazioni

della valutazione sono incorporate ed elaborate più facilmente quando

sono comunicate in accordo con la visione che i clienti hanno di loro

stessi e quando essi sono coinvolti attivamente come collaboratori

nell’interpretazione dei risultati (Schroeder, Hahn, Finn e Swann,

1993; Hanson, Claiborn e Kerr, 1997). Inoltre, la partecipazione ad

un assessment condotto secondo principi collaborativi favorisce una

migliore relazione con l’assessor e una maggiore alleanza terapeutica

nell’eventuale presa in carico successiva all’assessment (Ackerman et

al., 2000; Hilsenroth, Ackerman, Clemence e Strassle, 2002; Hilsenroth,

Peters e Ackerman, 2004). Infine, sulla base di una estensiva rassegna

della letteratura, la meta analisi di Poston e Hanson (2010) conferma

che l’assessment, inteso come intervento terapeutico, ha un effetto

significativo e positivo sui clienti (Cohen’s d = .423).

I passaggi o step dell’AT con clienti adulti

L’AT di clienti adulti prevede che il clinico sviluppi due processi paralleli.

Il primo è connesso con la cura delle relazioni con l’inviante e con il

contesto in cui si sviluppa l’AT. Il secondo è connesso all’AT vero e proprio

che conta 6 passaggi, o step, descritti nel dettaglio da Finn (2009).

Per quanto riguarda il contesto dell’AT, infatti, elementi quali la corretta

preparazione del cliente, la cura della relazione con l’eventuale inviante,

l’esplorazione delle tematiche connesse alla privacy e agli aspetti di

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conflittodiinteressedelclienteedelsistemaincuiilclinicoèchiamato

ad operare sono di estrema importanza sull’esito dell’assessment

stesso. L’ampiezza e la complessità di tali aspetti non possono essere

trattate in questa sede e si rimanda a Aschieri (2012) e a Finn (2009)

per un approfondimento di come le aspettative legate al setting, alla

relazione con il terapeuta inviante e alla motivazione del cliente possano

essere riconosciute e trattate negli assessment di clienti adulti.

Rispetto invece alla struttura dell’AT, ciascuno degli step può essere

svolto in una o più sedute in base alle esigenze cliniche del caso.

Inoltre, in molte occasioni, è possibile che non siano necessari tutti

i passaggi previsti dalla sua forma completa (si veda, ad esempio,

Aschieri e Smith, 2012).

L’AT prevede i seguenti step:

1) seduta iniziale per la raccolta delle domande di assessment;

2) somministrazione dei test standardizzati selezionati in funzione

delle domande di assessment;

3) seduta intervento;

4) seduta di discussione e riepilogo;

5) invio al cliente di una lettera scritta che riassume i principali

riscontri dell’assessment e le risposte alle domande;

6) una seduta di follow-up a due/sei mesi dalla seduta di discussione

e riepilogo.

In ragione della tipologia delle domande e della quantità di test

necessari, il percorso può durare da 2 a 9/10 sedute. Nei casi più

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brevi il cliente formula le proprie domande, risponde a un test self-

report autosomministrato e incontra nella seconda seduta il clinico per

rispondere alle proprie domande di assessment. Nei casi più lunghi è

possibile somministrare differenti strumenti di indagine psicologica,

affiancando ad essi sedute di psicoterapia di sostegno.

Nella prima seduta, attraverso la formulazione di domande di

assessment da parte del cliente, vengono messi in luce gli obiettivi

che egli stesso desidera raggiungere attraverso l’assessment, e gli

viene attribuito un ruolo di attivo osservatore degli eventi esterni

ed interni alle sedute che possono aiutarlo a rispondere ai propri

obiettivi assieme al clinico. Tipicamente, l’assessment può affrontare

domande che riguardano il mondo interno del cliente (“come mai non

riesco a prendere delle decisioni importanti?”), il suo funzionamento

cognitivo (“come mai non riesco a concentrarmi e a svolgere bene

il mio lavoro?”), le sue preoccupazioni (“come mai nessun medico

riesce a trovare una causa per il mio mal di stomaco? potrebbe essere

un fattore psicologico?”) e i suoi vissuti nei rapporti con i familiari

(“perché quando mia mamma mi chiede di aiutarla io le rispondo

male?”) o con altre persone significative (“come mai ogni volta che

incontro qualcuno poi non riesco ad avere una relazione stabile?”).

I test standardizzati, introdotti nella seconda fase e scelti di volta in volta

in funzione delle esigenze e delle domande presentate, hanno un ruolo

centrale: sono valorizzati in quanto permettono al clinico di comprendere

emotivamente, empaticamente, i dilemmi del cambiamento (Papp,

1983) e i conflitti che, di volta in volta, impediscono al soggetto o

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al sistema di evolversi in modo più soddisfacente. L’integrazione di

aspetti nomotetici e risvolti ideosincratici dei dati (Aronow, Reznikoff

e Moreland, 1995; Aschieri, 2012) permette al clinico di ottenere dei

riscontri solidi e validi circa gli aspetti del funzionamento del soggetto,

declinati di volta in volta attraverso le sue parole ed esperienze nella

realtà della sua vita relazionale e affettiva.

Unavoltacheilclinicohasufficientielementiadisposizione,nellaterza

fase delle sedute-intervento vengono predisposte delle condizioni

esperienziali che permettono di esplorare, in seduta e insieme al

cliente, alcuni dei punti problematici e dei nodi del suo funzionamento.

Le tecniche utilizzate a tal scopo sono come detto molteplici (cfr., ad

esempio, Fisher, 1994) e questa fase risulta essere tra le più complesse

e utili dell’intera valutazione. Il clinico può approfondire le ipotesi

costruite sulla base dei test standardizzati e dei colloqui precedenti

e supportare la presa di coscienza di risultati e di dinamiche che

altrimentisarebberodifficilmenteintegratedalcliente.Quest’ultimo

può d’altro canto utilizzare le sedute-intervento per comprendere il

significato dei risultati dei test e per sviluppare connessioni tra le

dinamiche emerse in seduta e le proprie esperienze di vita, e iniziare

ad esplorare con il clinico soluzioni nuove e più adattative ai problemi

cheloaffliggono.

La fase successiva, di discussione e riepilogo, ha come obiettivo una

revisione e una risignificazione dei dati, dei temi, e delle esperienze

fin lì raccolte condivise con il cliente, che ne sostenga un aumento

dell’autostima e del senso di efficacia personale (Finn, 2009). Il

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momento del feedback è infatti molto importante sia in relazione alla

soddisfazione degli utenti della valutazione, sia rispetto all’utilità che

essi traggono dalle nuove informazioni su di sé (Finn e Bunner, 1993;

Shroeder et al., 1993; Finn, 1996). La presentazione dei riscontri è

seguita da una attenta riflessione in cui viene valutata la facilità con

cui essi possono essere integrati, elaborati, discussi e messi in pratica

dal cliente. Grazie alle domande poste inizialmente e all’ambiente

di contenimento e attaccamento sicuro offerto dalla relazione con il

clinico, possono essere affrontati sia temi relativamente noti al cliente

sia aspetti di sé nuovi o del tutto sconosciuti.

Le considerazioni e gli elementi discussi sono raccolti in una lettera

scritta (quinta fase) che nuovamente risponde alle domande iniziali

in modo riassuntivo ed esplicito in modo da rendere più stabili le

rielaborazioni e le soluzioni nuove identificate nell’assessment (Finn e

Tonsager, 1992).

Nel finale incontro di follow-up (sesta fase) sono, infine, affrontati

in genere temi legati ai cambiamenti acquisiti, sviluppati o perduti

nell’interazione con l’ambiente al termine dell’assessment.

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2. Il caso di Marcella

Il modello dell’AT viene di seguito illustrato attraverso il caso di

Marcella1.

Marcella, 21 anni, è una studentessa universitaria che decide di

chiedere una consultazione al Centro Europeo per l’Assessment

Terapeutico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore su indicazione

del suo medico di base.

Quando ricevo la telefonata di Marcella concordiamo che l’assessment

si comporrà di due sole sedute: una in cui raccogliere le domande

di assessment e una per discutere i risultati dell’MMPI-2, il test che

abbiamo concordato per rispondere ai suoi quesiti.

Marcella ed io abbiamo anche stabilito telefonicamente che ci

sarebbero stati anche altri cambiamenti rispetto al modello completo

presentato nella prima parte del capitolo: non era prevista la lettera

di resoconto scritto dell’assessment, mentre abbiamo concordato un

incontro gratuito di follow-up, a due mesi dalla seduta di discussione

e riepilogo dei risultati.

1 Il nome e tutti i dettagli non indispensabili alla comprensione del caso sono statimodificatiperproteggerelaprivacydellacliente.

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La raccolta delle domande di assessment

Durante la seduta iniziale di un AT, clinico e cliente definiscono le

domande a cui il cliente vorrebbe trovare risposta durante il percorso.

Le domande individualizzate di assessment identificano gli obiettivi

del cliente e supportano il coinvolgimento del suo io osservante (Finn,

2009) fornendo al clinico un’indicazione su quali aspetti di sé e delle

relazioni il cliente è più predisposto a mettere in discussione.

La raccolta delle domande di assessment tende a ridurre

l’atteggiamento difensivo del cliente, poiché comunica che il

raggiungimento dei propri obiettivi dipende dall’apertura con cui

risponde ai test e comunica anche, implicitamente, che il campo

di indagine del clinico è circoscritto alle informazioni rilevanti per

rispondere a ciò che maggiormente sta a cuore al cliente.

Le domande di assessment rappresentano così la base del contratto

terapeutico e assumono un valore particolare, in quanto possono

essere impiegate come “porte aperte” (Finn, 2009) attraverso cui

introdurre e problematizzare caratteristiche del funzionamento del

cliente altrimenti difficilmente comunicabili.

Nella seduta di raccolta delle domande di assessment, l’attività del

clinico è volta a raccogliere informazioni sul contesto in cui si sviluppano i

problemi identificati dalle domande. Vengono regolarmente approfonditi

i temi legati allo sviluppo dei problemi nel tempo (es.: “da quando le

succede che…?”), quali situazioni li esacerbano o moderano (es.: “in

quali contesti è peggio…?”; “in quali situazioni sente che il problema

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è meno…?”), quali sono gli episodi, se ce ne sono, in cui il cliente si

aspettava di incontrare problemi mentre non si sono presentati, quali

tentativi di risoluzione ha adottato nel tempo e che esito hanno avuto.

Inoltre vengono indagate le idee e le credenze dei clienti sulla natura

dellepropriedifficoltà,peresempioinvitandoliarisponderedal loro

punto di vista alle proprie domande di assessment.

Per Marcella il problema centrale che aveva motivato la richiesta di

consulenza era legato ai suoi ultimi risultati universitari. Negli ultimi

due semestri non era riuscita a superare un esame curriculare sebbene

lo avesse preparato, a suo dire, con molta attenzione. Affranta e

visibilmente delusa di se stessa, quando le chiesi rispetto a quali

domande avrebbe voluto un aiuto attraverso l’assessment, disse che

voleva capire meglio cosa ci fosse che la bloccasse e se ci fosse

qualche cosa che lei poteva fare per superare il suo blocco.

Decisi quindi di raccogliere ulteriori informazioni sul “contesto” in cui si

era sviluppato il blocco con l’esame che l’aveva portata in consultazione.

Prima di questo esame, nelle precedenti prove sia universitarie sia

al liceo, riferì di non aver mai avuto problemi particolari. Sebbene

non avesse mai conseguito risultati eclatanti (“non sono mai stata la

prima della classe”) le insegnanti – prima – e i professori universitari

in seguito, avevano sempre riconosciuto e premiato il suo impegno e

la sua dedizione allo studio. Quando le chiesi in che cosa differivano

questo esame e le altre prove, mi disse che, probabilmente, la

differenza maggiore tra le esperienze precedenti e quella dell’esame

era connessa all’atteggiamento del professore. Durante le lezioni

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era stata più volte interpellata e si era sentita spesso in difetto per

non sapere come rispondere davanti alla classe. Nei tre appelli in cui

aveva provato a sostenere l’esame, la parte peggiore era stata sempre

l’orale con il professore: specie nell’ultimo esame, di poco precedente

al colloquio, si era sentita incapace di parlare, con la bocca secca, e di

non essere riuscita ad evitare di sudare e arrossire. Nelle settimane

precedenti agli ultimi due esami, aveva iniziato a sviluppare sintomi

fisici sempre più frequentemente anche a casa, mentre ripeteva gli

argomenti studiati, addirittura con capogiri alla sola idea di dover

rifare l’esame.

Chiesi quindi a Marcella cosa aveva fatto per provare a superare la

paura dell’esame e mi disse che aveva cercato il professore, andandogli

a parlare negli orari di ricevimento, per farsi conoscere “per quella che

è” e dimostrargli la sua buona volontà e le sue capacità, formulando

osservazioni, commenti e richieste di spiegazioni specifiche. L’esito

di questa strategia, messa in atto in particolar modo tra la prima

bocciatura e la seconda, non ha soddisfatto Marcella, che in realtà

si era sentita ulteriormente squalificata dalle risposte del professore.

Quest’ultimo l’aveva rimandata ad una sua assistente per le domande

tecniche e si era mostrato particolarmente sbrigativo e poco disposto

ad ascoltarla.

Così, anche per capire se ci fosse nel proprio modo di studiare qualche

cosa di sbagliato, Marcella aveva iniziato a prepararsi studiando con

due sue compagne di corso, che ospitava a casa propria, per ripetere

e confrontarsi sugli argomenti dell’esame. Al momento dell’orale,

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benché le sue colleghe avessero una media inferiore, e riconoscessero

che lei era quella che sapeva meglio gli argomenti d’esame, entrambe

erano state promosse. Marcella mi disse che da quel momento si

era sentita ancora più bloccata e confusa, come sbagliata in qualche

parte di sé, senza capire bene cosa poter fare e in che direzione

cercare di cambiare.

Marcella riferì però di sentirsi a proprio agio con se stessa in molte cose,

e di essere una persona tendenzialmente “generosa”: era animatrice

di un gruppo di bambini in oratorio e aveva frequentato un gruppo

scoutfinoall’iniziodell’università(“poinoncelafacevoconitempie

dopo essere rimasta indietro con i primi esami, adesso partecipo solo

alle iniziativeenonneorganizzopiù”).Riflettendosullerelazioni in

tali contesti distingue i rapporti tra pari, in cui spesso si era sentita

sfruttata da altri che, o per incapacità o per pigrizia, facevano fare

a lei la loro parte del lavoro, dai rapporti con i superiori o con i suoi

“ragazzi”, in cui era sempre stata apprezzata per l’energia e la forza di

volontà.

L’origine più frequente della delusione era, a suo dire, il non vedersi

restituire lo stesso impegno e dedizione che lei metteva nelle relazioni

e nelle attività comuni. Riportava più occasioni in cui il suo entusiasmo

iniziale era stato disilluso da comportamenti “cinici ed egoisti” delle

persone che avevano condiviso con lei l’idea iniziale.

Per evitare il ripetersi di queste delusioni una delle strategie messe in

campo era stata quella di pensare sin da subito che, in realtà, i suoi

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sogni e i suoi progetti con gli altri non sarebbero davvero andati in

porto, ma comunque di apparire sempre più energica e motivata per

favorire l’ingaggio e il coinvolgimento degli altri. Tra le situazioni in cui

si sarebbe aspettata di essere delusa, e ciò non è avvenuto, riferisce di

un esame dai contenuti molto difficili, in cui si era aspettata il peggio

fino a quando il docente l’aveva fatta accomodare e, con poche battute,

le aveva permesso di sentirsi a proprio agio ed esprimersi al meglio.

Somministrazione dell’MMPI-2 e analisi dei risultati

I test standardizzati sono scelti, di volta in volta, come si è già detto,

in funzione delle domande di assessment e mirano a mettere il

clinico in condizioni di comprendere emotivamente, empaticamente,

i dilemmi del cambiamento (Papp, 1983) e i conflitti che impediscono

al soggetto, o al sistema, di esprimersi o evolversi in modo più

soddisfacente. Nella maggior parte dei casi, un assessment con un

cliente adulto include sia un test di personalità self-report sia uno o

più test proiettivi, anche se il tipo o il numero di test dipende – come

già detto – dalla tipologia delle domande formulate dal cliente e dagli

accordi presi inizialmente rispetto ai tempi e ai costi del percorso.

Nell’AT con l’MMPI-2 è opportuno seguire alcune procedure specifiche

di presentazione del test (Finn, 1996; Levak, Siegel e Nichols, 2011).

Introdotto a conclusione della seduta di raccolta delle domande, viene

generalmente enfatizzato che:

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1) il valore dell’MMPI-2 risiede nella vastità di ricerche che permettono

di conoscere dettagliatamente moltissime caratteristiche di chi lo

compila;

2) il test contiene una varietà di affermazioni che potrebbero non

essere coerenti con il motivo per cui il soggetto è in consultazione,

ma l’eterogeneità è connessa alla variabilità di scopi per cui il test

viene impiegato;

3) lo scopo per cui viene impiegato nella specifica occasione è

rispondere alle domande di assessment del cliente;

4) è importante che il soggetto si mantenga attento e vigile nel

rispondere, e quindi può fare delle brevi pause se lo desidera;

5) la sincerità e l’onestà nel rispondere a ciascuna affermazione

sono indispensabili per comprenderlo correttamente;

6) in molti casi alcune affermazioni possono avere risposte dubbie e

occorre pensare a come è “generalmente” per il soggetto;

7) èmoltodifficilechel’esitodiunasingolasceltainfluenziinmodo

drammatico l’esito del test ed è importante rispondere a tutte le

affermazioni,segnandosemmaiquelleacuièstatopiùdifficile

rispondere, per poterne discutere insieme nella successiva

discussione dei risultati;

8) il “vero” valore dei risultati dei test sta nella discussione, al

termine,conilsoggetto,eilsuoapportonelrifiutare,modificare,

o confermare i risultati è indispensabile per produrre una

conoscenza accurata del suo funzionamento;

9) i risultati dell’MMPI-2 ci permettono di avere una sorta di “mappa”,

il cui vantaggio è ridurre il tempo necessario a capire chi è la

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persona che risponde al test, ma ogni contributo che il soggetto

vorrà dare alla sua interpretazione sarà della massima importanza

per capirlo davvero nella sua individualità e soggettività.

In sede interpretativa, posta la variabilità di approcci nell’analizzare

e nel trarre inferenze dall’MMPI-2, occorre sottolineare l’importanza

di impiegare i riscontri empirici del test per tratteggiare una o più

ipotesi complessive sui principali dilemmi di cambiamento o blocchi

evolutivi che impediscono al soggetto di esprimersi o evolversi in

modo soddisfacente. Le formulazioni complessive, una sorta di

concettualizzazione del caso, permetteranno di ipotizzare le risposte

alle domande di assessment, che verranno discusse e approfondite

nell’ultima parte dell’assessment, la seduta di discussione e riepilogo.

Il protocollo di Marcella mostrava un innalzamento delle scale di

coerenza VRIN (punteggio grezzo = 9) e TRIN (punteggio grezzo =

10). Alla luce delle sue difficoltà, è possibile ipotizzare che Marcella

non riuscisse o non sapesse come mantenersi sufficientemente

coerente nel rispondere alle richieste dell’esterno, specie quando

non aveva ben chiaro cosa gli altri si aspettassero da lei. Le scale di

validità sembravano suggerire che Marcella fosse poco in contatto

con se stessa per via della differenza tra la sua scala F (T = 59)

e la scala Fb (T = 47). Se la prima indicava un moderato livello di

distress, la seconda suggeriva che consapevolmente Marcella tendeva

a sottostimare, o sotto riportare (underreporting), il peso o l’impatto

delle sue problematiche. Questo atteggiamento non sembrava

però deliberatamente addotto per ben figurare o impressionare

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positivamenteilclinico(K=51;L=42),quantopiuttostolegatoalle

suecaratteristichedipersonalità(cfr.fig.1).

Figura 1: Protocollo di Marcella all’MMPI-2: scale di validità

La propensione a negare l’esistenza di problemi psicologici era

l’indicazione più forte che emergeva dall’analisi delle scale cliniche (code-

type3-7;3=72T;7=70T).SecondoLevaketal.(2011),lepersone

con code type 3-7 tendono ad avere alti standard e ad impegnarsi

quanto più possibile per evitare di essere criticate. Alla base dei loro

problemi sono presenti solitamente bisogni di dipendenza inappagati

e sentimenti di inadeguatezza. Cercano approvazione e conforto

nel giudizio degli altri e possono sviluppare relazioni di dipendenza,

in cui sono vissute come eccessivamente richiedenti e bisognose.

120

110

100

90

80

70

60

50

40

30VRIN TRIN F Fb K L

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Tendono a denegare le emozioni negative e l’aggressività, risultando

poco assertive e ottenendo quindi meno di quanto potrebbero dalle

proprie performance. Sono particolarmente vulnerabili alle critiche e al

giudizio negativo, ma soprattutto, temono il potenziale abbandono da

parte dell’altro. La ricerca costante di approvazione e rassicurazione

è accompagnata infatti dalla paura che l’espressione di rabbia o di

desideri “egoistici” possa essere punita con l’abbandono.

Pensando che l’abbandono sia connesso alle proprie espressioni

aggressive e sessuali, queste persone limitano il proprio ventaglio

comportamentale inibendone la comparsa e spesso convertono

somaticamente le emozioni che non possono esprimere altrimenti.

Levak e colleghi ipotizzano che alla base di questi comportamenti

delle persone che mostrano un code-type 3-7 ci siano delle esperienze

infantili con caregiver potenzialmente violenti o aggressivi, rispetto a

cui per proteggersi venivano messi in atto comportamenti di ricerca

spasmodica di approvazione.

Il secondo risultato più rilevante del MMPI-2 di Marcella era il valore

estremamente basso della Scala 5 (Mf-f; T = 35) (cfr. fig. 2). Friedman,

Lewak, Nichols e Webb (2001) suggeriscono che donne con valori così

bassi tendono a essere legate al ruolo e agli interessi tradizionalmente

connessi al genere femminile quali solidarietà, dedizione al prossimo,

lealtà e sensibilità, e aggiungono che tale orientamento valoriale

può rendere difficile porre freni alle persone che si pongono in una

posizione di dominanza e controllo su di loro.

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Figura 2: Protocollo di Marcella all’MMPI-2: scale cliniche

Pensai quindi che Marcella, di fronte all’esame universitario con

un docente vissuto come aggressivo e spaventante, sentisse

particolarmentedifficileesprimerelepropriecapacità.Eradifrontea

un interlocutore in una posizione di potere, che non riconosceva il suo

valore e forse viveva come fastidiose le sue richieste di accettazione

e apprezzamento. Era possibile che nel cercare di superare l’esame

le strategie abituali di coping di Marcella, centrate sul mantenere

relazioni armoniche con gli altri ponendosi in una relazione di

inoffensiva dipendenza da loro, enfatizzando i propri sforzi volti alla

lorogratificazione,eminimizzandol’espressionedeipropridesideri

personali a cui sono anteposti quelli altrui, andavano a discapito del

raggiungimento dei propri obiettivi. Per Marcella sarebbe forse stato

120

110

100

90

80

70

60

50

40

30 Hs D Hy Pd Mf-f Pa Pt Sc Ma Si

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necessario percorrere altre modalità di reazione a una situazione così

spaventante per lei come l’esame con quel docente. Per farlo, però,

avrebbe dovuto reintegrare l’aggressività che molto probabilmente

era stato necessario dissociare durante lo sviluppo. Quello che era

probabilmente stato adattativo nel suo contesto familiare di crescita

era di fronte all’esame un fattore che la limitava. La narrazione nucleare

che aveva dato senso ed organizzato le sue percezioni e relazioni

sociali sembrava suonare come “se sarò remissiva e generosa gli

altri mi gratificheranno con il loro apprezzamento ed accettazione,

e se qualcuno si arrabbia con me il modo migliore per risolvere

la cosa è non reagire ma cercare di ristabilire un buon clima”. Di

fronte all’esame tale narrazione si scontrava con un contesto in cui,

viceversa, era necessario stabilire un rapporto più assertivo con il

professore, al limite utilitaristico, proprio come avevano fatto le sue

due compagne di studio.

Sulla base dell’MMPI-2 era però possibile ipotizzare che per Marcella

mostrarsi sicura della propria preparazione e non sentirsi in pericolo

fosse una opzione mai percorsa prima. Tale opzione probabilmente

richiamava in superficie le tensioni aggressive dissociate la cui

espressione poteva provocare una reazione ancor più traumatizzante

da parte dell’interlocutore.

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Preparazione della seduta di discussione e riepilogo

Prima di incontrare il cliente per la seduta di discussione e riepilogo,

nell’AT molta attenzione viene rivolta a cogliere dai test ciò che può

essere utile:

•per formulare ipotesi interpretative utili al cliente;

•per comunicare i riscontri immediatamente comprensibili e

praticabili dai soggetti allo scopo di affrontare le problematiche

cheliaffliggono.

I contenuti dei test impiegati per rispondere a ciascuna domanda

di assessment sono organizzati secondo la loro coerenza con la

rappresentazione che il cliente ha attualmente di sé e del problema

(Finn, 1996). Diverse ricerche, infatti, hanno raccolto evidenze

empiriche a sostegno della cosiddetta self-verification theory (Swann,

1996). La self-verification theory sostiene che la reazione di un

soggetto a informazioni che lo riguardano è tanto più aperta quanto

inizialmente presenta una conferma della visione che egli ha di sé,

e tanto più utile quanto, successivamente, presenta informazioni

moderatamente discrepanti rispetto alla visione iniziale di sé.

Nell’Assessment Terapeutico, la discussione e il riepilogo dei risultati dei

test iniziano riportando le cosiddette “informazioni di livello 1” (Finn,

2009). Si tratta di informazioni congruenti con la visione che i clienti

hanno di se stessi e che, quindi, possono facilmente venir accettate,

nel momento in cui vengono comunicate. Solitamente, partendo da

queste informazioni, per i clienti è più facile ascoltare gli altri riscontri,

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le cosiddette “informazioni di livello 2 e 3”. Le informazioni di livello 2

sono informazioni relativamente divergenti dall’idea che i clienti hanno di

loro stessi e che possono modificare e/o ampliare il loro modo usuale

di pensarsi. Incorporare tali informazioni nello schema che i clienti

hanno di sé comporta una moderata dose di ansia, ma è improbabile

che possano minacciare gli assunti su cui si fonda l’identità personale

del cliente. Nella parte conclusiva della seduta vengono introdotte, in

relazione al livello di apertura del cliente e alla sua capacità di elaborazione

cognitiva ed affettiva, le informazioni di livello 3: informazioni fortemente

discordanti da come i clienti vedono se stessi e i loro problemi.

La seduta di discussione e riepilogo mira a presentare i risultati dei

test:

• adattando il linguaggio, il tono e gli esempi su ciascun cliente;

• dialogando con il cliente, chiedendo se ritiene che i risultati siano

esatti, sollecitando esempi e invitandolo a modificare i risultati

che non ritiene esatti;

• ridefinendo i risultati, usando le metafore e simboli propri di

ciascun cliente, così come sono emersi dal colloquio e dagli

eventuali test proiettivi;

• accettando il disaccordo sull’accuratezza di un risultato da parte

del cliente;

• prevedendo, sulla base dei test, i segnali che indicano che il cliente

sta per essere sopraffatto dalle informazioni e sviluppa reazioni

difensive ai contenuti discussi (chiusura, rifiuto, dissociazione,

passaggio all’atto, ecc.).

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L’obiettivo della seduta di discussione e riepilogo con Marcella era

discutere con lei come i risultati dell’MMPI-2 potessero aiutarla a

comprendere cosa la bloccava nell’esame. L’elemento centrale della

rispostaallasuadomandaeraconnessoallasuadifficoltàadutilizzare

in modo adattativo delle risposte assertive. Affrontare in modo più

decisol’esameerainconflittocondueatteggiamentiprofondamente

radicati in lei: cercare approvazione attraverso comportamenti

affiliativiecovareunprofondoatteggiamentopessimisticosottoilsuo

atteggiamento volto invece a denegare le caratteristiche depressive e

aggressive proprie e delle relazioni.

Levak e colleghi (2011) e Finn (1996, 2009) descrivono in dettaglio la

modalità di presentazione dei riscontri dell’MMPI-2 in corrispondenza

alle differenti tipologie di risultati nell’MMPI-2.

InuncasocomequellodiMarcella,ilprofilodellescaleclinicheindicava

di utilizzare un linguaggio semplice, concreto, adatto a una persona

il cui MMPI-2 la dipingeva facilmente sopraffatta dalle emozioni, poco

propensaariflettereinterminipsicologici,mapiuttostoainnescare

reazioni difensive basate sul diniego o sul soffermarsi ossessivamente

su dettagli irrilevanti.

Per evitare le massicce reazioni difensive connesse alla facilità con

cui Marcella poteva essere sopraffatta dai sentimenti, sarebbe stato

consigliabile ordinare i riscontri partendo dalle risorse e dai punti di

forzaconnessialprofilo3-7(tracuil’ottimismo,ilvaloreattribuitoal

mantenere relazioni serene, la sensibilità rispetto alle reazioni degli altri).

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Sarebbe poi stato utile passare a discutere dell’ansia derivante dal

cercare di mantenere sempre le relazioni in tono positivo e di come

l’ansia potesse esprimersi a volte in modi indiretti (ad esempio

attraverso il corpo) e concludere inserendo i riscontri più profondi e

potenzialmente lontani dalla sua consapevolezza. Tra essi la paura

del rifiuto e dell’abbandono, la dissociazione della rabbia e come

tali caratteristiche potevano essere retaggio dell’adattamento a un

ambiente familiare in cui l’espressione di emozioni come la rabbia o la

tristezza avrebbero portato a un allontanamento e/o a una punizione

da parte delle figure di attaccamento.

Eventuali indicazioni terapeutiche potevano essere focalizzate sull’analisi

e sul riconoscimento degli antecedenti cognitivi negativi e pessimistici

ai comportamenti remissivi e rinunciatari, sulle distorsioni cognitive e

sulle credenze irrazionali che sostenevano le aspettative interpersonali

e sull’espressione dell’assertività.

Seduta di discussione e riepilogo

Nell’AT, specie nei casi di assessment brevi (in cui viene impiegato

solamente un test, come ad esempio l’MMPI-2), la seduta di discussione

e riepilogo può essere introdotta riprendendo gli scopi dell’assessment

(quali domande saranno oggetto della discussione), ma soprattutto

ristabilendo un clima di collaborazione e sostegno rivolto a facilitare

l’attivazione del cliente nella discussione dei risultati. In seguito,

sulla base della preparazione della seduta, è possibile procedere

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alla discussione dei risultati, con particolare attenzione alle reazioni

difensive e di sovraccarico emotivo prognosticate dai risultati dei test

(Finn, 1996).

Marcella arrivò alla seduta di discussione e riepilogo molto preoccupata

e raccontando che pochi giorni prima aveva incrociato a lezione

il docente, a cui stava pensando di chiedere la tesi di laurea. La

richiesta di diventare una sua tesista poteva essere un altro tentativo

affiliativo,equestaulterioredimostrazionedelsuodisperatobisogno

di sentirsi apprezzata mi diede un’ulteriore misura di quanto fosse

davvero disposta a fare tutto quanto le era possibile per dimostrargli il

proprio valore. Parlammo quindi della sua dedizione quasi incrollabile

nella possibilità di risolvere le cose spendendosi per l’altro, e Marcella

fu disponibile a considerare il costo che avrebbe potuto comportarle,

in termini emotivi, fare la tesi di laurea con quel docente.

Marcella mi chiese quindi se nel test ci fossero delle indicazioni che

potevano aiutarla a uscire dalla “paralisi” in cui si trovava e così

decidemmo di iniziare rispondendo alla sua domanda di assessment:

“Come mai non riesco a superare l’esame orale? Cosa mi blocca?”.

Introdussi la risposta alla sua domanda descrivendo le risorse

dellepersone il cuiprofiloMMPI-2erauncode type3-7:Marcella

si riconobbe subito, e si disse non solo estremamente attenta a

mantenere buon rapporti con gli altri, ma di avere sempre avuto una

particolare sensibilità per cogliere le loro emozioni, specie quando

negative, nei suoi confronti.

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Pensai dunque di connettere con questa sensibilità l’ansia che deriva

dall’essere sempre attenti alle reazioni ed ai desideri degli altri.

Marcella si disse d’accordo: se, da un lato, la sua sensibilità la faceva

essere apprezzata da moltissime persone (i suoi superiori nel gruppo

degli scout), dall’altro aveva il costo di tenerla sempre un po’ “sulle

spine”, incapace di rilassarsi e di sentirsi soddisfatta di quanto fatto.

Assessor: “e mi chiedo se è la stessa ansia di quando sei all’esame

orale con il professore”

Marcella: “nella vita di tutti i giorni mi avviene in piccolo… all’orale è

amplificato… sono bloccata, con un groppo alla gola, all’inizio mi capitava

anche a casa. Qualche volta nei giorni prima, mentre mi immaginavo

l’esame… ma adesso, pur con tutto il tempo che è passato, è diventato

quasi sempre così”

A: “è davvero un incubo avere un esame che porta a sentirsi così!”

M: “sì”

A: “e questo grafico [mostrando le scale cliniche], di cui parlavamo

prima, dice che le persone che hanno queste due elevazioni sono

anche incrollabilmente ottimiste… e forse adesso questo orale a cui

sembra non ci siano soluzioni rischia di essere così frustrante anche

perché ti fa sentire che l’ottimismo non funziona bene in questa

situazione”

M: “esatto! non so più come fare, perché davvero mi spendo e mi

spendo, ma con questo esame è tutto inutile”

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A: “secondo te quanto si vede, dal di fuori, che stai male?”

M: “pochissimo, voglio dire, io tendo sempre a mantenere il sorriso,

ancheconSaraeClaudia[le amiche con cui aveva preparato l’ultimo

esame] credo che ancora adesso non lo sappiano che ci sono rimasta

male per come è andata”

A: “esatto, e alcuni studi suggeriscono che le persone che hanno

queste due elevazioni qui tendono a non esprimere quando sono giù,

o stanno male, può essere così anche per te?”

M: “direi di no… quando io sto male, mi vengono i problemi a respirare,

o inizio a sudare, lo si vede da fuori!”

A: “sì, ma rispetto alle emozioni, ad esempio quando sei giù o

arrabbiata, questo lo si percepisce? Dicevi che Sara e Claudia…”

M: “beh, no, quello no… mi capita poco, e come dicevamo l’altra

volta, semmai mi rimbocco le maniche il doppio!”

A: “e hai qualche ipotesi sul perché alle persone, che come te hanno

questi risultati, succede di non sentirsi tanto di dire ‘ma cavolo, perché

mi stai facendo questo, non me lo merito!’”

M: “no, non mi sembra di dirlo spesso… non so perché”.

Parlai quindi di come, secondo alcune teorie sull’MMPI-2, le persone

che hanno un code-type 3-7 abbiano imparato a non esprimere le

proprie emozioni, temendo che queste potessero fare allontanare

gli altri. E aggiunsi che forse questo rappresentava un rischio

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particolarmente grave, per delle persone come lei per le quali era così

importante essere apprezzate e tenute in considerazione. Marcella

inizialmente fu indecisa rispetto a quanto queste teorie descrivessero

accuratamente l’esperienza che aveva di sé.

A: “è una cosa che fai spesso? [dire a qualcuno come ti senti quando

stai male]”

M: “Noo! [ride]”

A: “ ti ringrazio davvero molto della fiducia di averlo fatto con me!”

M: “[ride]”

A: “per chi ha questo profilo al test, con in più questa scala qui così

bassa [Scala 5] arrabbiarsi, e farlo vedere, è un’esperienza rara, e

quando capita è veramente brutta, perché poi c’è il sentirsi in colpa,

con l’idea che gli altri te la faranno pesare o peggio ti toglieranno

quello che ti avevano dato… è in qualche modo vero anche per te?”

M: “ sì, infatti io evito di litigare…”

A: “ma a volte può essere utile arrabbiarsi, non solo per litigare,

anche solo per difendersi”

M: “io faccio come nella pubblicità…. prevenire è meglio che curare!

[ride]”.

Discutemmo quindi di come in quel momento, di fronte all’esame

orale, lei si trovasse davanti ad un dilemma di cambiamento (Papp,

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1983), ossia una situazione in cui ogni sviluppo le sembrava impossibile

perché le alternative avevano dei costi che le rendevano impercorribili.

Marcella da un lato avrebbe potuto continuare a mantenersi remissiva e

dipendente dagli altri per paura di essere abbandonata, al costo di non

raggiungere molti degli obiettivi che si era posta nella vita. D’altra parte,

avrebbe potuto provare ad integrare la propria aggressività ed utilizzarla

assertivamente, ma ciò sarebbe avvenuto con il costo di rischiare di

essere vista come una persona non degna di essere amata e voluta.

Al momento, ciò che bloccava Marcella era l’impossibilità di accedere

a una modalità di “lotta” di fronte alle situazioni di pericolo,

forte della consapevolezza che la propria risposta non avrebbe

scatenato l’altro e non l’avrebbe portata ad essere ri-traumatizzata.

Parlammo quindi delle differenti reazioni che tutti gli esseri viventi

hanno automaticamente di fronte al pericolo: la lotta, la fuga e il

congelamento, e di come in molti casi quando le esperienze ci insegnano

che non è possibile lottare perché l’avversario è troppo forte, e non

si può fuggire, bloccare ogni espressione di sé è una soluzione non

solo sensata ma forse quella che garantisce l’esito migliore. Marcella

autonomamente mise in connessione che a fronte di un avversario che

si mostra congelato, un predatore perde di interesse. Marcella disse

però di sentirsi spaventata dall’idea di porsi un po’ più “a muso duro”

durante l’esame. Nel colloquio passammo quindi a esaminare cosa

poteva voler dire porsi in modo assertivo all’orale, in modo da potersi

difendere, senza che l’ampiezza della propria reazione all’aggressività

del docente facesse alzare ulteriormente il livello dello scontro.

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Marcella ed io ci concentrammo insieme per: a) esaminare i pensieri

automatici che si attivavano in lei prima di iniziare l’interrogazione;

b) identificare altri episodi in cui invece era riuscita ad anticipare

positivamente una prova pensando in modo convinto alle proprie

capacità; c) estendere tali pensieri anche alla situazione dell’esame.

Provammo infine a “mettere in scena” con un gioco di ruolo tali

acquisizioni, scambiandoci i ruoli di docente e alunno che difende la

propria posizione senza stimolare un innalzamento dell’aggressività

dell’altro.

Al termine della seduta, discutemmo anche di cos’altro poteva fare

per migliorare la capacità di difendersi in modo attivo ed essere più a

suo agio con l’espressione dei propri sentimenti. Tra le proposte che

le feci, Marcella mi disse che stava da tempo essa stessa pensando

di partecipare a delle attività teatrali organizzate da uno degli

animatori dell’oratorio e che, in caso si fosse trovata ancora bloccata

con l’esame, mi avrebbe ricontattato per iniziare una consulenza più

approfondita.

Follow-up

Nell’AT, lo scopo del follow-up è monitorare l’effetto delle indicazioni

terapeutiche fornite sui problemi inizialmente lamentati, rispondere

alle domande eventualmente sviluppate dal cliente a seguito della

consultazione, ri-utilizzare i test per costruire altre risposte alle nuove

domande.

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Marcella mi disse di aver superato l’esame e di aver scelto di fare la tesi

con quel professore. Al momento del follow-up aveva già incontrato

unavoltailprofessoreperdefinirel’argomentomanonavevasentito

disturbi fisici né prima né durante il colloquio. Non aveva ancora

seguito l’idea di frequentare gli incontri di teatro perché, benché

conoscesse le persone che vi partecipavano, pensava non facesse

per lei mostrare aspetti intimi di sé davanti a tanta gente.

Ad alcuni mesi di distanza dall’ultimo colloquio, al momento della

stesura di questo scritto, contattata per chiedere la liberatoria per

l’utilizzo dei suoi dati, Marcella mi ha detto di essere a pochi esami

dalla laurea e di sentirsi molto più a suo agio con quello che un tempo

era il temuto professore.

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3. Conclusioni

La somministrazione dell’MMPI-2 fornisce un’occasione importante per

sostenere rilevanti sviluppi nella vita dei clienti. In particolare, all’interno

dell’Assessment Terapeutico, tale potenzialità è messa a frutto grazie a

linee guida semistrutturate e tecniche che ne massimizzano l’efficacia.

L’attenzione nel favorire un’esperienza di attaccamento sicuro con

il clinico, il rispetto per il cliente come esperto della propria via, la

sensibilità nel fornire un’esperienza di scaffolding al cliente mentre

elabora nuove modalità di pensare a se stesso ed alle proprie difficoltà,

la pazienza richiesta per non traumatizzare il cliente con informazioni

potenzialmente destabilizzanti che non possono essere al momento

affrontate, e il coraggio nell’accompagnare i clienti verso l’integrazione

di emozioni dolorose che hanno dovuto dissociare, permettono a chi si

occupa di assessment psicologico di affrontare con curiosità ogni nuovo

invio, ed evitare la standardizzazione delle pratiche di valutazione e il

loro effetto potenzialmente deumanizzante sui clienti.

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