Date post: | 08-Mar-2016 |
Category: |
Documents |
Upload: | luca-giocoli |
View: | 218 times |
Download: | 2 times |
INDICE
Abstract p. 5
Abstract (English version) p. 7
INTRODUZIONE p. 9
1. Sul Labirinto p. 15
1.1. Una forma, una metafora, una danza o più semplicemente: labirinti p. 15
1.2. Dalla danza alla figura, in entrambi casi: labirinto p. 161.2.1. Dalla danza alla metafora: comunque labirinto p.18
1.3. Il mito classico p. 20
1.4. Simbologie p. 22
1.5. Un po’ di coordinate p. 24
2. Del labirinto, paura di forma p. 29
2.1. Idea intimidatoria p. 29
2.2. Il labirinto e la maschera p. 31
2.3. Il labirinto e il suo lato passionale: un’ignoranza che spaventa p. 33
2.4. Strategie labirintiche p. 382.4.1. Muovere, esperire, progettare, orientare, trovare, seguire p. 392.4.2. Memorizzare p. 412.4.3. Di distanze e di tensioni p. 432.4.4. Punti di vista p. 452.4.5. Voler vedere, poter capire p. 46
3. Arte e labirinti p. 49
3.1. Che la diritta via era smarrita p. 503.1.1. Novità ed esperimenti a New York,
1942: Art of this century e Prime carte del Surrealismo p. 50
3.1.2. This is [was] Tomorrow, 1956:
1
un’esperienza totale di mediazione e organizzazione del POPolare non distante dal reale p. 55
3.1.3. Andare! Andare! Andare! “Ubi Fluxus ibi motus” p. 573.1.4. C’è un tempo, in cui le attitudini diventano forma p. 623.1.5. LAB(irinto) p. 65
3.2. La pratica del Labirinto p. 683.2.1. Una pratica iniziatoria: Dan Graham p. 683.2.2. (Ri)Trovare il corpo: Studio Azzurro p. 723.2.3. Un filo di luce che da dentro ci riporta fuori: Olafur Eliasson p. 80
3.3. Labirinticità p. 84
4. Un’ipotesi di percorso: un labirinto critico p. 89
4.1. Un Labirinto p. 894.1.2. Concept: una semplice libertà di scelta, un quadrato e un rettangolo p. 90
4.2. Una “Zona d’Urgenza” p. 91
4.3. Tra i riflettori e dentro il labirinto p. 96
4.4. Dalla vista al tatto (RW), con le mani e gli occhi p. 994.4.1. Aernout Mik: Scapegoats p. 1004.4.2. A tentoni: Carsten Höller e Studio Azzurro p. 1014.4.3. Più che barriere meccanismi di visione e focalizzazione p. 103
4.5. Un fare fisico oscillante, per meglio vedere, capire, trovare, esperire: una soluzione? p. 105
BIBLIOGRAFIA RAGIONATA p. 109
BIBLIOGRAFIA GENERALE p. 111
SITI WEB p. 119
APPARATI ICONOGRAFICI
2
3
4
Abstract
L'intrigo di uno spazio: il labirinto come modello di spazio espositivo
L’intento di questo lavoro è sviluppare un dispositivo comunicativo a partire dallo
studio e dall’analisi del tema del labirinto. La nostra idea è di mettere a punto una
mostra che sia caratterizzata da una costante attività di negoziazione del sapere,
utile per coinvolgere il fruitore all’interno di un’esperienza “vertiginosa”, che serva
poi a incentivare la libertà di scelta e un potere decisionale.
Per introdurre il concetto di labirinto, abbiamo innanzitutto guardato alla sua storia
all’interno della cultura occidentale e ci siamo soffermati sulle definizioni e sulle
forme di valorizzazione che diversi popoli e società hanno dato nel corso dei
secoli. È emerso così quanto sia difficile giungere a concepire un’idea unica e
precisa di “labirinto”, identificato spesso come una danza, una figura o una
metafora letteraria.
Più avanti, studiando le modalità di interazione del visitatore nello spazio-oggetto
di nostro interesse, abbiamo focalizzato l’attenzione sulle pratiche labirintiche: si è
trattato allora di descrivere una serie di situazioni in cui l’utente fa l’esperienza di
smarrire la via. È il tema principale del secondo capitolo: mostrare pratiche di
disorientamento, circostanze che intimoriscono, ma che allo stesso tempo
sollecitano una risposta attiva. Il bisogno di conoscere, di esperire, è l’unico modo
per riuscire a trovare la via d’uscita. Nella prima parte abbiamo esaminato ciò che
accade dentro un labirinto, nella seconda abbiamo tentato di capire da cosa
dipende il senso di disorientamento. Ci siamo preoccupati di vedere come sono
strutturate e che cosa implicano le strategie labirintiche.
Col terzo capitolo passiamo all’azione, cercando di valutare chi, come e quando
5
ha provato a cimentarsi con strategie che spiazzano, confondono e intimoriscono.
È stato utile documentare e cogliere i funzionamenti e gli sviluppi che questo tipo
di azioni dispiegano. Nel trattare la relazione arte/labirinto, abbiamo diviso il
capitolo in due parti, una prima legata soprattutto agli eventi e alle mostre e una
seconda orientata, più da vicino, sugli artisti. L’indagine, nella sua interezza,
prepara il capitolo progettuale, che tenta di fare buon uso di tutte quelle che sono
state le analisi, gli studi e le proposte sul tema.
Nella nostra tesi, infatti, il livello teorico passa il testimone al livello pratico: con
molta umiltà si è tentato, nell’ultimo capitolo, di dar corpo alle ricerche trattate,
progettando una mostra “labirintica”. Abbiamo individuato un particolare legame
tra le opere e lo spazio, utile a predisporre un dispositivo comunicativo “ragionato”,
che ponga al centro del percorso l’incedere e le scommesse del fruitore, spronate
da un sistema a sensi unici, doppi, vietati, alternati...
6
Abstract (English version)
The intrigue of a space: the labyrinth as a model of exhibition space
The goal of this work is to develop a communication device from the study and
analysis of the theme of the labyrinth. Our purpose is to create an exhibition that is
characterized by a constant negotiation of knowledge, useful to engage the user in
a "dizzy experience", in order to promote freedom of choice and power of decision-
making.
To introduce the concept of the labyrinth, we first looked at its history within
Western culture focusing on definitions and forms of exploitation that different
people and societies have made over centuries. We found that it is difficult to
conceive a unique and precise idea of "labyrinth", which is often identified as a
dance, a figure or a literary metaphor.
Afterwards, studying methods of visitor interaction in space-object of our interest,
we have focused our attention on the Labyrinth practices: we described a number
of situations where the user loses the way. The second chapter investigates
practical disorientations, intimidating circumstances, which aim to stimulate an
active response. The need of knowing, and experiencing, is the only way to
succeed in finding the way out. In the first part of the chapter we examined what
happens inside a labyrinth, in the second, we tried to understand what derives
from the sense of disorientation. We studied how they are structured and which
kind of strategies are involved in the labyrinth.
In the third chapter, we tried to determine who, how and when, tried to experiment
with strategies that displace, intimidate and confuse. It was useful to document
and understand the works and developments that such actions deployed. In
7
dealing with the relation art/maze, we divided the chapter into two parts, the first
mainly focused on events and exhibitions and the second more closely related to
artists. The survey, as a whole, prepares the planning chapter, which tries to make
good use of all the analysis, studies and proposals on the subject.
Moving from theory to a more practical level, in the last chapter, we have tried to
give body to the research content, designing a "labyrinthic" exhibition. We have
identified a connection between works and space, which is useful to prepare a
reasoned communication device, which encourages gaits and bets of the user, by
a system of single, double, prohibited, alternate ways.
8
INTRODUZIONE
L’intento di questo lavoro è quello di sviluppare un dispositivo comunicativo a
partire dallo studio e dall’analisi del tema del labirinto. La nostra idea è di mettere
a punto una mostra che sia caratterizzata da una costante attività di negoziazione
del sapere, utile per coinvolgere il fruitore all’interno di un’esperienza vertiginosa,
che serva a incentivare la libertà di scelta e che possa condurre ad una maggior
consapevolezza ad agire.
La nascita di un simile obiettivo scaturisce dal bisogno di reagire alle condizioni
affabulatorie, sempre più forti e tese, che i media attuali mettono in campo.
Sistemi discorsivi così ampi e così pericolosamente manipolatori che il tema del
labirinto diventa il pretesto per cercare di acquisire l’utilizzo di nuove pratiche e
strumenti di ricerca, nel e attraverso l’ambito artistico contemporaneo. In fondo ci
stiamo già abituando a fare questo grazie ad internet. «L’utente internettiano crea
il proprio sito, la propria homepage, manipolando le informazioni ottenute, inventa
percorsi che potrà annotare tra i suoi bookmark e riprodurre quando vuole [...]
L’internauta immagina luoghi e relazioni possibili tra i siti più disparati.»1
A voler essere più precisi, più che sul labirinto, ci concentreremo sulle pratiche
labirintiche: una serie di situazioni in cui, chi interagisce col modello, si trova nella
condizione di smarrire la via certa.
Direttamente connesso a questa condizione è lo stato passionale, in cui si
trova il viandante sperduto nei meandri labirintici. Privato della possibilità di
orientarsi, di poter prevedere e di agire, si troverà confuso e colto dallo sgomento.
Nonostante tutto però, è proprio questa condizione che riesce a motivare una
risposta attiva e consapevole, che consenta lo sviluppo di una contro-strategia
utile a portare il visitatore in salvo, lontano dalle grinfie del Minotauro.
1 N. BOURRIAUD, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, Milano, Postmedia Srl, 2004, p. 14.
9
Anche Baxandall a proposito delle esposizioni, che per lui erano per lo più
intese come esposizione di oggetti, più che vere e proprie situazioni, ritiene
importante che si debba instaurare un rapporto attivo tra l’evento mostra e il
pubblico che la sta leggendo:
riconosciuta la voglia dell’osservatore di essere attivo [...] condizione che il
curatore può favorire non già cercando di controllare o di orientare la mente
dell’osservatore bensì, magari, ampliando... Presentare un fatto culturale
pregnante e lasciare che l’osservatore vi si confronti è sicuramente un percorso
assai più rispettoso e stimolante di un’interpretazione esplicita.2
Impellente diventa il recupero di una propria soggettività: si tratta di una
parzialità certamente, ma sempre legata ad una scelta consapevole, ad un
esercizio della capacità di discernimento.
Anche le opere inserite nel progetto di mostra sono in linea con le caratteristiche
del nostro tema princeps.
Siamo sempre più immersi in un sistema tecnologico che da una parte ci aiuta, ci
consente di raggiungere i nostri obiettivi, e dall’altra ci impone dei limiti, ci rende
servomeccanismi di una condizione molto più vasta di noi [...] oramai, nell’era del
“tutto connesso”, del “tutto in relazione con tutto”, l’individualità si attenua, si
diventa parte di un organismo che segue le proprie regole: un mondo parallelo che
la registrazione video ci consente di guardare con apparente distacco.3
Il testo appena citato si riferisce a Scapegoats di Aernout Mik, una delle opere
selezionate per il percorso mostra, proposto nell’ultimo capitolo. Attraverso queste
brevi considerazioni, espunte da un articolo del curatore che ha portato per primo
in Italia questo lavoro, è semplice notare come anche nello sforzo per lo sviluppo
dell’esposizione ci siamo comunque mossi tenendo conto dell’organizzazione
spaziale del percorso, sempre, però, in stretto legame con le opere.2 M. BAXANDALL, Intento espositivo, in Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, I. KARP, S.D. LAVINE (a cura di), Bologna, CLUEB, 1995, p.253 F. CAVALLUCCI, Normali disastri quotidiani, in “Work. ART IN PROGRESS”, Autunno-Inverno 2006-2007 – Periodico trimestrale della Galleria Civica di Arte Contemporanea Trento, n° 17, p. 11.
10
Modificare lo statuto di spettatore trasformandolo in un utente attivo è una pratica
importante e costruttiva.
Vivremo in un prossimo futuro, che è già realtà viva e pulsante, una sorta di
inversione concettuale dell’edificio museale per cui non è il pubblico a muoversi
all’interno di istituzioni e installazioni fisse e immodificabili, ma come una sorta di
colossale rete, un network appunto, del mondo dell’arte, del suo consumo e della
sua conoscenza, il museo, come opera sarà riconosciuto e visitato come il
frammento di un puzzle planetario che rappresenta il processo di diffusione della
conoscenza, una porta d’accesso a un sistema dell’informazione e dell’immagine
che sembra aprire, come in matrix, infiniti sguardi su un universo virtuale e in
continua mutazione. 4
Molto di questa rivoluzione avviene soprattutto grazie ad un potenziamento
costante della tecnologia. Pensiamo, per esempio, alle condizioni che hanno fatto
maturare il web 2.0, livello successivo del world wide web, caratterizzato dall’alto
grado di partecipazione e interazione tra utente e utente. A differenza del web 1.0,
che metteva a disposizione della fruizione pagine con un contenuto statico, il web
2.0 supera la classica idea della consultazione, a favore di uno scambio di
contenuti a partire dagli utenti, che diventano così, dei veri e propri realizzatori.5
Il rapido sviluppo delle nuove tecnologie, rappresentate da internet e dai mezzi per
creare immagini digitali, sta ulteriormente incoraggiando l’affermazione della
strategia del fai da te. Un’intera rete d’iniziative fai da te sta ora diffondendosi nel
mondo, mentre sempre più artisti stanno lavorando a progetti multi-trans-culturali
utilizzando i nuovi media.6
4 M. CASAMONTI, L’Architettura è un’arte: il museo contemporaneo come affermazione di una evidente tautologia in “G. CELANT (a cura di), Arti & Architettura:1968/2004. Scultura, pittura, fotografia, design, cinema e architettura: un secolo di progetti creativi” , Vol II, Ginevra-Milano, Skira, 2004, p. 464.5 Cfr. V. DI BARI, Introduzione al Web 2.0 in “DI BARI Vito (a cura di), WEB 2.0. Internet è cambiato. E voi?”, Milano, Il Sole 24 ORE S.p.A., 2007. 6 H. HANRU, Z. O. U. Zona d’urgenza in “AA. VV., 50. Esposizione internazionale d’arte: La Biennale di Venezia. Sogni e conflitti. La dittatura dello spettatore (catalogo della mostra)”, Venezia, Marsilio, 2003, p. 188.
11
Similmente è avvenuto nel design, sempre più caratterizzato da oggetti che
richiedono la partecipazione attiva da parte del destinatario, che li modifica e li
trasforma secondo una personale attitudine.
Nell’incontro terribile con l’esistenza l’uomo mette in forma la materia per creare un
senso, laddove la vita sarebbe solo caso. Oggi che lo scopo del progetto non è più
fissare lo spazio ma mantenerlo mobile, che un oggetto sia fatto bene o male
tende ad essere sempre più irrilevante: ciò che conta, è che cambi e sia di una
qualche misura diverso a se stesso e a ciò che gli sta accanto.7
Un così costante richiamo alla contemporaneità tecnologica non vuole essere
un’ansia tecnofila, ma una constatazione degli strumenti e delle nuove possibilità
che, a partire da questi, si sono dispiegate e che hanno preso piede all’interno di
tutti i settori di produzione culturale. Ovviamente non credo al fatto che tutto sia
iniziato dalla tecnica, sono convinto più che altro che la tecnica abbia permesso, e
quindi fatto evolvere, delle situazioni che già da un po’ di tempo erano presenti
nell’aria e nella cultura. Per esempio riguardo quanto detto circa il ruolo del
destinatario che diventa sempre più un partecipante attivo, proviamo a pensare
alla
idea dadaistica della “réunions”, in cui intervengono estranei coercizzati nella
teatralizzazione dell’evento, [che] costituisce il primo logico passaggio dall’idea
della mostra come luogo oggettuale in cui osservare l’oggetto reale, alla mostra
come “luogo” in cui lo spettatore interagisce al funzionamento. 8
Come precedentemente accennato, per quel che riguarda la sperimentazione
della pratica labirintica, ho coordinato con unità opere e spazio, per cercare di
sviluppare, attraverso il metodo semiotico, un percorso che fosse un dispositivo
comunicativo ad hoc, le cui caratteristiche però non siano cristallizzate e
formalizzate, ma costituiscano un modus operandi sempre pronto ad un diverso
utilizzo.7 S. CAGGIANO, design 2.0 in “Exibart.onpaper”, VII anno, numero 54, dicembre 2008, p. 60.8 D. SCUDERO, Manuale del curator, Roma, Gangemi Editore, 2004, p. 38.
12
Secondo la pragmatica emergente di creazione e comunicazione, distribuzioni
nomadi di informazioni fluttuano su un immenso piano semiotico deterritorializzato.
E’ dunque naturale che lo sforzo creativo si sposti dai messaggi ai dispositivi, i
processi, i linguaggi, le “architetture” dinamiche, gli ambienti. 9
Come accade in un labirinto, alla fine non si giunge ad una conclusione
risolutiva. Più che altro, si giunge alla fine di un’esperienza, che ovviamente non
chiude un percorso, ma dischiude nuove visioni, competenze e soprattutto
conduce sempre ad una maggior consapevolezza di sé. In fondo il labirinto, se
proprio vogliamo darne una definizione, non è altro che una pratica iniziatoria.
9 P. LÉVY, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, trad. it. M. Colò, D. Feroldi, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 129.
13
14
1. Sul Labirinto
1.1. Una forma, una metafora, una danza o più semplicemente:
labirinti
L’archetipo del labirinto è uno dei motivi più antichi che, con alterne vicende,
accompagna sin dagli albori la cultura umana. Notoriamente con il lemma labirinto,
si definisce un’idea di spazialità molto complessa e articolata, in particolare si
pensa ad una struttura architettonica in cui è facile perdersi, avventurandosi alla
ricerca di un qualcosa che non è sempre ben chiaro e che permetta sicuramente
di poterne uscire sani e salvi. Paradossalmente, si entra nel labirinto
semplicemente per poterne uscire, questo perché il problema del labirinto è il
labirinto stesso...
Un problema si deve risolvere e, una volta risolto, scompare. Il mistero invece
deve essere sperimentato, venerato; deve entrare a far parte della nostra vita. Un
mistero che possa essere chiarito, risolto con una spiegazione non è mai stato
tale. Il mistero autentico resiste alla “spiegazione”[...].10
Correggiamo da subito il tiro. Si ha, quindi, a che fare con un mistero, non con
un problema... e perciò non si potrà trovare e proporre una soluzione, ma
bisognerà sperimentare. Stabilito questo nuovo punto della situazione, possiamo
continuare.
Spesso utilizzato nell’ambito della cultura occidentale come metafora, lo si usa
per rendere meglio il senso di difficoltà che si ha nello sbrogliare una questione o
10 K. KERÉNYI, Nel labirinto, Corrado Bologna (a cura di), Torino, Boringhieri, 1983, p. 31.
15
per sottolineare una faccenda non troppo lineare. Quindi, più che di labirinti, si
tende a parlare di condizioni labirintiche. Possiamo adoperarlo per definire
qualcosa di non preciso o di cui non si riesce a venire facilmente a capo. Lo
sviluppo di questo modello è ascrivibile soprattutto alle capacità affabulatorie della
letteratura; infatti proprio questo uso ha fatto sì che si giungesse ad un vero e
proprio tropo letterario.
La stessa idea di struttura o percorso nel quale perdersi, che si riferisce ad un
vero e proprio luogo, è anch’essa una commistione di varie identità. Una forma,
che si è legata ad uno spazio. Un palazzo ad un motivo letterario. Un mito ad una
danza. Una danza ad una forma.
Confusione? Allora cerchiamo di capirci meglio.
1.2. Dalla danza alla figura, in entrambi casi: labirinto
Nei corsi e ricorsi storici, tra le culture che si affacciano sul Mediterraneo, con il
termine labirinto si è identificato più di una cosa e più precisamente ci si è potuti
riferire ad una danza, una figura ed un’idea.
Abitualmente si è portati a definire la più antica delle tre accezioni, quella della
danza e, in particolare, di un’antica danza praticata a Delo. Secondo Plutarco,
invece, la nascita di questa danza è successiva al ritorno di Teseo da Creta
eseguì insieme coi ragazzi una danza che dicono sia ancora in uso presso quelli di
Delo e che riproduce i giri, i passaggi del Labirinto: una danza consistente in
contorsioni ritmiche e movimenti circolari. Questo genere di danza quelli di Delo
chiamano «la gru», secondo quanto afferma Dicearco.11
L’affermazione di Plutarco circa la posteriorità dell’evento eroico nei confronti
della danza non è un punto che mettiamo in discussione. Infatti l’ipotesi che
stiamo qui seguendo è quella ampiamente accettata e proposta da Kern, che
11 PLUTARCO, Vite parallele, Antonio Traglia (a cura di), Torino, Utet, 2005
16
se dovesse emergere la possibilità di ricondurre la tradizione letteraria, quella
visuale e quella della danza a una concezione comune, questa potrebbe
sicuramente essere considerata il “Proto-labirinto”. Moltissimi elementi fanno
propendere per l’ipotesi che quest’idea si sia manifestata per la prima volta come
una danza di gruppo [...]. 12
Del resto, in questa fase del nostro ragionamento, siamo maggiormente
interessati a capire come le varie tradizioni si legano, quindi, almeno per ora, direi:
“chiusa parentesi!”
Alla base di questo tipo di pratica vi erano due semicori contrapposti, composti
ognuno da sette giovani donne e da sette giovani uomini. I componenti danzavano
allineati in senso orario e in senso antiorario cosi ché le file si avvicinano e si
allontanano restando allineate tra loro. In questo modo davano luogo ad un
complesso gioco di forme, il quale risultava talmente intricato che sembrerebbe si
decise, ad un certo punto, di disegnare le linee da seguire sul terreno, dando così
una prima versione alla figura di ciò che poi venne sempre più identificandosi con
il labirinto. Importante è anche la rilevanza che ha in questa pratica il filo di
Arianna. Infatti, se arrivati sino in centro i danzatori non ritornano indietro, e quindi
non raccolgono il filo, l’eroe, che in questo caso coincide con il direttore di danza
che guida il gruppo, rimane intrappolato all’interno.
Da un’azione corporea si è giunti ad un percorso. Da un percorso ad una
forma. Si ha un passaggio da una pratica ad una figura dai tratti ben definiti. Resta
comunque da notare bene, che la tradizione visuale ha conservato molti elementi
della danza, soprattutto dal punto di vista simbolico. Ha mantenuto, per esempio, il
suo legame con il genere iniziatico e ha conservato con forza i riferimenti alla
morte e alla rinascita.
1.2.1. Dalla danza alla metafora: comunque labirinto
12 H. KERN, Labirinti. Forme e interpretazioni. 5000 anni di presenza di un archetipo, Milano, Feltrinelli, 1981, p.16.
17
Sempre dalla danza sembra si sia passati all’idea letteraria di inestricabile.
Attraverso la perdita dei passi della pratica del ballo, la sola figura che ne aiutava i
movimenti ha assunto un senso criptico, sino a risultare incomprensibile. Da dove
nasca questa affermazione lo sapremo nel paragrafo conclusivo; resta il fatto che
il non riuscire a seguire le indicazioni utili a definire il come muoversi è poi stato
assunto come una metafora di complicatezza, incomprensibilità.
Figlio di questa visione di difficoltà e inestricabilità è il labirinto manieristico, che
prende consistenza a partire solo dalla metà del XVI secolo. Infatti sembrerebbe
che sino ad allora il labirinto inteso come qualcosa di ostacolante, problematico e
rischioso resti solo un concetto.
Il motivo metaforico è riconducibile ad un uso linguistico che prende piede a
partire dal IV secolo a.C. Quindi, fin dall’Antichità classica, è accertata la presenza
di questo concetto, che si sovrappone e si mescola con il cosiddetto labirinto in
senso proprio13: figura grafica lineare, molto diversa sia per forma che per
contenuto, da quella che solitamente è definita con la voce tedesca di Irrgarten.
Al labirinto in senso proprio o labirinto classico fanno riferimento la danza e la
forma, mentre l’idea che ha portato al labirinto manieristico si sviluppa a partire
dalla metafora letteraria.
Le caratteristiche formali della tipologia classica così come l’enuncia Kern sono
[Fig. 1]
assenza di crocevia, e quindi:
non offre possibilità di scelta
inverte continuamente la sua direzione a mo’ di un pendolo
riempie con un massimo di giravolte l’intero spazio interno
sbocca necessariamente al centro
dal centro conduce all’esterno con un’unica via d’uscita14.
Ora risulterà più semplice capire la distanza che separa questa tipologia di
labirinto dall’Irrgarten, sul quale le idee, forse, non appaiono ancora molto chiare,
13 Ivi, p.11.14 Ivi, p.13.
18
ma proviamo a supplire un po’ a questa mancanza.
Con il termine Irrgarten Umberto Eco dice di riferirsi al cosiddetto labirinto ad
albero, perché «se srotolato assume la forma di un albero, è una struttura a vicoli
ciechi»15. Quindi si tratta della tipologia ampiamente conosciuta, anzi essa
rappresenta proprio la contemporanea idea di labirinto, quella in cui una sola
strada porta dall’ingresso all’uscita, ma un numero imprecisato di strade, che
come rami s’interrompono e si biforcano, infastidiscono la via certa del suo
viandante. Per meglio intenderci non resta che da dire una cosa, dunque: le
caratteristiche della voce Irrgarten e quelle del labirinto manieristico
corrispondono.
Anche in epoca romana, dal punto di vista letterario, si fa solitamente riferimento a
questo ultimo modello, pensiamo ad Ovidio per esempio quando tratta del labirinto
di Minosse:
Questa costruzione fu opera di Dedalo, famosissimo per il suo genio d’architetto.
Egli l’attuò togliendo in essa ogni elemento che servisse ad orientarsi e
ingannando l’occhio con l’avvilupparsi misterioso di molte strade.[...] Proprio come
in Frigia il Meandro scherza con le sue acque limpide serpeggiando in flussi e
riflessi e quando torna su se stesso contempla l’acqua in arrivo, e così rivolgendosi
ora alla sorgente ora al mare aperto mette a dura prova la sua corrente, priva di
una precisa direzione; così Dedalo ingarbugliò innumerevoli strade e a stento
ritrovò egli stesso la via d’uscita: tanto era difficile orientarsi in quella costruzione.16
A dispetto della distinzione netta tra Irrgarten e labirinto classico, seguiremo
comunque lo sviluppo di ciò che è ampiamente attestato con il termine labirinto,
quindi della figura, della danza e dei vari incontri e sovrapposizioni con l’idea
letteraria, soprattutto perché l’uso dello stesso termine ha agevolato scambi e
incomprensioni. Infatti sembrerebbe che proprio a causa di ciò, i tre diversi modi,
restino concettualmente legati per secoli e secoli. La forma varia, si complica e
così il suo percorso, ma alcune idee che sono dietro alla forma e alla danza,
entrano nel concetto letterario e si prestano ad una nuova vita anche all’interno di 15 U. ECO, Sugli specchi e altri saggi, Bologna, Tascabili Bompiani, 2001, p.35816 P. N. OVIDIO, Le Metamorfosi, 1994, op. cit., pp. 459, 461.
19
uno spazio in cui smarrirsi e avventurarsi. Non si può quindi evitare di trattare le
commistioni che sono alla base di questo sviluppo. Non si può parlare del concetto
contemporaneo di labirinto senza tener conto delle simbologie e dei riferimenti che
la figura grafica portava con sé e ha messo in gioco nei diversi passaggi culturali.
1.3. Il mito classico
Preoccupati di definire lo sviluppo o una strada più o meno certa per il labirinto,
non abbiamo ancora citato quella che potrebbe e dovrebbe essere una delle idee
più forti: che si tratti, cioè, di un vero e proprio spazio fisico, conosciuto e temuto
per le sue caratteristiche e per un suo bestiale e pericoloso abitante.
I più antichi riferimenti descrivono il labirinto come uno spazio sacro o quanto
meno portatore di valori. La figura centrale in una visione positiva dello spazio
labirintico è Arianna, doppia benevola del fratellastro Minotauro, unica conoscitrice
dei suoi segreti e l’unica capace di salvare l’eroe ateniese, che fu condotto al suo
interno.
Per il mito classico il Labirinto era l’intricato luogo che Dedalo costruì per
Minosse, re di Creta, per confinare e nascondere il frutto del tradimento disumano
che la moglie Pasifae aveva perpetuato con un toro inviato, apposta, da
Poseidone al re stesso.
In questa tipologia di labirinto abbiamo un mostro per metà uomo e meta toro,
rinchiuso dentro uno spazio/percorso per nascondere la sua deformità e contenere
l’onta del suo concepimento. Poi abbiamo un tributo che la città di Atene deve
pagare al re Minosse. Ogni nove anni, infatti, erano estratti a sorte sette giovani
uomini e sette giovani donne ateniesi, da inviare nel Labirinto. La terza volta, tra
gli estratti vi è Teseo, figlio di Egeo re di Atene, per il quale il Minotauro diventa lo
scoglio da superare per poter accedere al suo destino di eroe, condottiero e re.
Teseo è aiutato ad uscire dal labirinto dalla vergine Arianna, figlia del re di Creta,
innamoratasi del giovane ateniese. Grazie al gomitolo regalatogli dalla principessa
cretese, l’eroe riesce, dopo aver ucciso il deforme abitante, a ritrovare la strada
20
dell’uscita.
Il simbolo della città di Creta è la forma del labirinto in senso proprio, ma la
tradizione letteraria che si tramanda di questo labirinto non è la medesima. Infatti
lo stesso Ovidio – lo ribadiamo – pensa a un Irrgarten, non a un labirinto classico.
Se queste, appunto, non fossero state le caratteristiche del labirinto del palazzo di
Cnosso (cioè quelle di un Irrgarten), il filo di Arianna non avrebbe avuto senso,
vista l’impossibilità di smarrire la certa via. Allo stesso modo, però, non si
spiegherebbe neanche l’ampia diffusione, avutasi proprio a partire dalla civiltà
minoica, di monete col labirinto classico impresso sul rovescio, se questo non
fosse collegato con il labirinto di Creta. Per quanto riguarda Ovidio, la sua
conoscenza del labirinto non è di prima mano; dipende già da una diffusione
letteraria del termine.
Rispetto al filo di Arianna, per apprezzarne il senso bisognerebbe provare a
valutarlo diversamente. Più che un modo per salvarsi, il filo di Arianna è la
salvezza. Ugualmente, non si può parlare di percorso complesso o intricato da
sbrogliare e da risolvere. Al fondo di questa tesi, infatti, sta una sostanziale
incomprensione della danza.
Riannodiamo il filo! Abbiamo un’idea di intrigo e di complesso, un principe che
ha da dimostrare il proprio valore, una principessa vergine invaghita di un giovane
straniero, un fratellastro geloso e non troppo acuto rinchiuso tra le mura
“domestiche” per non permettere che ci sia un contatto tra lui e il mondo esterno.
Risolto in questo modo, il mito del labirinto classico perde alcuni dei sui tratti, ma
conserva intatti i segni di un mito d’iniziazione. -Alt! Perfetto! Per ora non andiamo
oltre. Abbiamo formulato un prima ipotesi. Da una parte una danza complessa, ma
anche un rituale, una pratica in cui degli adolescenti iniziano a sperimentare la loro
età e con essa le loro capacità, dall’altra un vero e proprio racconto iniziatico. -
Detto questo, ora possiamo continuare.
1.4. Simbologie
21
Nonostante non vi fosse difficoltà ad accedere al suo interno e allo stesso
modo ad uscirne, la semplice linea curva continua permetteva di tenerne rinchiuso
il Minotauro. A risolvere questa specie di paradosso è una strana credenza
presente in molti popoli, secondo cui gli spiriti maligni potevano muoversi solo in
linea retta17. Se teniamo a mente questa tradizione possiamo acquisire un altro
elemento importante che caratterizza un labirinto: le sue qualità apotropaiche.
Risulta presente in molte culture occidentali, disegnato sulle mura delle città e
a volte persino in prossimità degli ingressi, come simbolo, appunto, apotropaico.
Spesso è usato per rafforzare la distinzione del dentro dal fuori e proteggerne il
primo. A confermare questa teoria vi è persino un riferimento classico e di grande
effetto. Sembrerebbe, infatti, che sullo scudo di Achille fosse stato applicato da
Efesto un labirinto18. Teniamo presente che spesso sugli scudi era applicata, per lo
stesso scopo, la testa di Medusa [Cfr. 2.2]. Questa sorta di intercambiabilità,
quindi, non fa che confermare i poteri salvifici del nostro modello guida.
Non finisce qui. Il labirinto è anche un vero è proprio simbolo d’iniziazione.
Avventurarsi all’interno di una forma così complessa richiede una certa
consapevolezza, e soprattutto padronanza di movimenti. In altre parole, per poter
risolvere il suo percorso è richiesto il raggiungimento di un certo grado di maturità.
Legato all’iniziazione è il tema del passaggio tra vita, morte e rinascita.
Effettivamente, le più antiche tracce della figura del labirinto ci conducono
all’interno di tombe dell’età del bronzo, sulle cui pareti era stato inciso. Questa
idea di movimento tra morte e vita è espressa anche dal lento oscillare del
percorso. Un continuo pendolare tra est e ovest, tra alba e tramonto, tra morte e
rinascita. Un graduale movimento d’innalzamento della propria interiorità. Il
Minotauro, in quanto ostacolo fisico, perde consistenza e quindi utilità poiché la
barriera da superare e il groviglio da risolvere è più ché altro interiore.
Vicino al discorso della morte appare anche il Troiae Lusus romano, una danza
del labirinto eseguita da cavalieri e praticata in due occasioni: onoranze funebri o
fondazione e quindi nascita di città.19
17 Cfr. H. KERN e K. KERÉNYI, op. cit.18 Cfr. OMERO, Iliade, trad. It. di Viincenzo Monti, Milano, Universale Rizzoli, 1990, libro XVIII. 19 Cfr. Virgilio M. P., Eneide, trad. It. Annibal Caro, Milano, Ulrico Hoepli Editors S. p. A., 1991, libro V.
22
Essendo collegato, come si è detto, ai rituali di passaggio, il labirinto è presente
anche all’interno delle nozze. È anzi uno degli aspetti principali delle Trojaburg
nordiche. Queste erano dei grandi labirinti di forma classica tracciati su terra
mediante l’allineamento di pietre e sassi. L’azione del danzatore consisteva nel
raggiungere, ballando, la fanciulla che si trovava al centro del labirinto. Prossimo
al mito dell’iniziazione e delle nozze è la “Danza Maro”, in Polinesia, ballata da
nove uomini in spirali intrecciate a nove volute per nove giorni e nove notti;
secondo la leggenda al centro delle danze sta “Mulua Satene” che simboleggia
una porta d’accesso; gli uomini che non riescono a varcare la porta vengono
trasformati in animali, coloro che la superano affronteranno un faticoso viaggio
iniziatico.20
Presente anche nel Medioevo, il labirinto entra a far parte della simbologia
cristiana. Famosi sono i grandi labirinti visibili sui pavimenti di sontuose cattedrali
gotiche, indicati dagli autori antichi come chemins de Jerusalem. In questo caso
l’orante era invitato a percorrere le linee in ginocchio. Così prostrato, pregava e
ripercorreva la salita al Calvario di Cristo. Rinnovava e attualizzava in questo
modo i dolori e le sofferenze attraverso un’esperienza che l’avrebbe portato alla
purificazione e alla salvezza, in un percorso interiore che si rispecchiava in una
gestualità fisica esteriore.
Anche in questo caso ci troviamo all’interno di un fare fisico e spirituale che
esamina, e allo stesso tempo mostra, il grado di crescita, di contemplazione.
Siamo ancora in odore d’iniziazione. I parallelismi con questi tipi di sistemi non si
fermano solo in Occidente. Anche nelle culture e religioni Orientali troviamo
qualcosa che per alcune vicende è possibile collegare al labirinto, soprattutto se
ancora una volta risaliamo all’idea che stiamo cercando di definire: quella di
scoperta, di ricerca e innalzamento. All’interno della meditazione Buddhista vi è un
sistema, il mandala, che aiuta l’asceta passo dopo passo per la «penetrazione
della mente nella conoscenza più pura»21. Le sue figure «vogliono essere lo
specchio del progressivo risvegliarsi della coscienza dell’Illuminato»22.
20 K. KERÉNYI, 1983, op. cit. 21 M. RAVERI, Il Corpo e il Paradiso. Esperienze ascetiche in Asia Orientale, Venezia, Marsilio Editore, 1992, p. 115.22 Ibidem.
23
1.5. Un po’ di coordinate
Sino ad ora abbiamo parlato in modo molto ampio del concetto del labirinto,
soprattutto perché il senso di questo lavoro non è quello di fare un’analisi storica.
Riteniamo opportuno, tuttavia, fornire un po’ di coordinate sull’oggetto di analisi,
quindi a noi le fonti.
Le più antiche fonti letterarie definiscono il labirinto come un edificio (di pietra)
degno di ammirazione - mi riferisco alla tavoletta micenea rinvenuta
dall’archeologo Arthur Evans all’inizio del secolo scorso, a Cnosso e data 1400
a.C. circa. Questa tavoletta è famosa, in primis, perché contiene un testo nella
scrittura lineare B molto interessante per chi si occupa di labirinti. Decifrata nel
1953 da John Chadwick e Michael Ventris, suona all’incirca così:
«Un vaso di miele per tutti gli dei, un vaso di miele per la signora del Labirinto»23
Abbiamo un luogo di culto per tutti gli dei e poi un luogo di culto a parte, per la
signora del labirinto. Due luoghi distinti, quindi, e persino due misure diverse, visto
che per tutti gli dei è posto in sacrificio un vaso di miele e per la signora del
labirinto un altro. Valutata quindi di enorme importanza sia lei, che il luogo di culto
a lei legato.
Tra il VI e il V secolo ci sono altri riferimenti, uno di Teodoro di Samo, il quale
chiama labirinto il tempio che costruisce per Era a Samo, e uno di Erodoto, che
descrive una costruzione egiziana tutta in pietra. In nessuna di queste descrizioni
si fa riferimento a vicoli ciechi o a corridoi che sviano.
Il problema dello studio di queste fonti sta nel fatto che sono greche e fanno
uso di un termine che invece s’irradia a partire dalla cultura minoica. Per evitare
questo problema e superare questo blocco bisognerebbe tentare altrove la via
giusta, svoltare e provare un’altra direzione, imboccando un nuovo vicolo aperto.
Abbandonando i riferimenti letterari potremo riferirci ad altri tipi di fonti, legate
soprattutto alla danza e alla figura. Troveremo qui, forse, un terreno più stabile e
23 Cfr. J. CHADWICK, Lineare B: l’enigma della scrittura micenea, Torino, Einaudi, 1959, pp. 174-178.
24
agevole.
Sia la danza sia la figura, e di questo vi sono prove certe, sono riferibili al
labirinto, resta però da trovare una traccia che dimostri il loro reciproco legame.
Nei più antichi ritrovamenti, che risalgono all’età del Bronzo, sono stati
rinvenuti, sulle pareti delle caverne, disegni della forma del labirinto. Secondo
alcuni studiosi queste incisioni sono delle indicazioni per una danza. Un
interessante supporto a questa tesi e che quindi mette in relazione la forma ad
una possibile danza non è molto antico. Si tratta di una brocca etrusca del 620
a.C. circa rinvenuta a Tragliatella. Sulla brocca sono raffigurati dei guerrieri che
danzano uscendo appunto da un labirinto. Ci troviamo innanzi ad una prova, che,
per quanto tarda, certifica la relazione tra danza e figura. Il rapporto è
interessante, visto che proprio questo determina la complicanza del concetto,
l’idea del labirinto come qualcosa d’incomprensibile e di difficile da sbrogliare.
Sembrerebbe, appunto, che gli agili e svelti passi che i danzatori compivano nel
praticarla vennero pian piano dimenticati e, interrotta la pratica, non si riuscì più a
recuperarla. In questo modo ciò che rimase fu una figura non più interpretabile e
l’impressione di qualcosa di complicato e di non facile realizzazione. Se si
sovrappone questa idea a quella che le fonti letterarie tramandavano, vale a dire
di edificio complesso e degno di ammirazione, il passo all’idea del labirinto
contemporaneo è breve.
In ogni caso si può considerare pressoché certo che verso la fine del periodo
ellenistico con la parola labirinto si intendesse prevalentemente un Irrgarten e che,
oltre a designare questo concetto, la parola labirinto venisse usata anche per
indicare la figura grafica perfettamente trasparente che abbiamo descritto sopra. 24
Il concetto di labirinto ha come centro di propulsione la Creta minoica e dal
punto di vista cronologico i riferimenti si attestano al II, massimo III secolo a.C.
Irradiato da questa area, verso varie zone soprattutto durante l’età del bronzo,
sembrerebbe, appunto, che, proprio in questa epoca, si sia affermato nelle regioni
scandinave in cui è stato possibile rintracciare le Trojaborg.
24 H. KERN, 1981, op. cit. p. 17.
25
Se osserviamo le linee e lo sviluppo di queste tracce, si giunge a credere non a
delle figure sviluppatesi indipendentemente, ma alla possibilità di transiti di
modelli: ascrivibili, si presume, al trasferimento di minatori micenei durante l’epoca
del bronzo, in cerca di minerali.
Il modello del labirinto ebbe fortuna anche presso i Romani, sia come danza
che come figura. Appare in questo modo nuovamente avvalorata l’idea di un
rapporto diretto tra questi due tipi. Virgilio parla dei Lusus Troiani celebrati all’atto
di fondazione delle nuove città25. E la stessa figura del labirinto complicata è
spesso presente all’interno delle mura di cinta. Nella cultura romana il labirinto
classico viene formalmente un po’ complicato ed è spesso usato nei mosaici come
una metafora di città, con le sue mura fortificate, nel caso particolare, della città di
Troia. Molto vicino a questa concezione è l’uso che ne fa la cultura ebraica. Anche
in questo caso definisce una città, quella archetipica di Gerico26.
Si è già detto che il labirinto entra nella cultura cristiana medievale. Qui la sua
presenza è distinguibile in tre diverse tipologie: labirinti a mosaico di dimensioni
piuttosto modeste, labirinti pavimentali percorribili fisicamente dai fedeli e poi
raffigurazioni di labirinti. Stando alle ricerche portate avanti su questo argomento,
troviamo qui solo quelli pavimentali percorribili, che venivano usati e praticati per
assolvere ad alcune funzioni e per pregare. Venivano attraversati in ginocchio.
Interessante però è anche la pratica delle Danza Pasquale di cui non abbiamo
parlato, in uso solo in Francia. Si tende a collegarla con le pratiche pagane
normanne della Trojaborg ed è diffusa soprattutto nell’area scandinava. Prossimo
a questo è anche l’usanza del labirinto da prato inglese.
Dal modello classico, evoluto e cristianizzato si passa, a partire dalla fine del
Quattrocento, alla tipologia del “gioco di corte”.
Con il Rinascimento italiano comincia ad avere fortuna, nell’ambito dell’arredo
delle case nobiliari, una tipologia di giardino caratterizzata sempre di più dalla
disposizione architettonica di piante, arbusti e alberi27. Un esempio celebre fra i
25 Cfr. nota 10 di questo capitolo. 26 Antico Testamento, libro di Giosuè.
27 Cfr. la voce “Labirinto” in Grande Dizionario Della Lingua Italiana, BATTAGLIA Salvatore (a cura di), Torino, Utet, p. 658.
26
tanti è rappresentato dal Cortile del Belvedere progettato da Donato Bramante per
papa Giulio II.
La moda che prende piede è costituita da un impianto degli spazi dei giardini
che segue uno schema prospettico in cui giochi di quinte composte da siepi e
alberi danno origine ad un continuo dialogo tra artificiale e naturale. Si tratta di uno
spettacolo di meraviglia, la cui quinta essenza è espressa attraverso il giardino
segreto detto anche labirinto.
Nuove complicazioni e vezzi si hanno col giardino alla francese del periodo
barocco, dove effetti illusionistici accordati con un uso sapiente dei dislivelli del
terreno, concorrono ad un effetto fiabesco e sognante. Casi tra i più importanti
sono stati i giardini di André Le Nôtre, giardiniere ufficiale di corte di Luigi XIV di
Francia. Suo è il piccolo labirinto, oggi distrutto, del parco della Reggia di
Versailles, il cui percorso incantato, non era fatto di siepi accostate, bensì di
corridoi che apparivano come dei varchi aperti direttamente nella massa vegetale.28
Un successivo Irrgarten in Italia, tra i più storici e noti, è quello ideato da
Gerolamo Frigimelica, per Villa Pisani a Strà (VE) [Fig. 2], intorno agli anni venti
del Settecento. Si tratta di un labirinto di siepi a pianta circolare, al centro del
quale si erge una scalinata elicoidale che consente di vedere e risolvere tutto il
labirinto. Divenuto famoso grazie soprattutto a Gabriele D’Annunzio che ne Il
fuoco vi ambienta una breve sequenza d’ossessione amorosa. Così facendo il
Vate segue da una parte la tradizione dei giochi leggeri e d’amore, dall’altra però
sconvolge la tradizione frivola settecentesca a favore di un’atmosfera pesante e
tesa. Una stessa forma e ambientazione, ma una differente esperienza. Un
labirinto sempre più ricondotto a modulazioni passionali vigorose, sintomo di una
nuova concezione dell’Io, continuamente in balia di una sensibilità forte, vivace e
capricciosa, in cui il naufragare voluttuoso e decadente diventava un nuovo
modello di vita.
Fermiamoci qui con questa ricognizione, visto che stiamo già toccando dei
punti e delle tematiche che sconfinano dal senso di questo primo capitolo, che
vuole essere un agile discorso sulla storia del nostro modello guida in Occidente.
28 Cfr. F. COLONNESE, Il labirinto e l’architetto, Roma, Edizioni Kappa, 2006,
27
Per quel che riguarda l’ambito patemico, avremo modo di parlarne nel prossimo
capitolo.
28
2. Del labirinto, paura di forma
“Non sapeva dov’era né cosa volevano
quegli esseri accovacciati tutt’attorno,
forse sognava soltanto, anche se non
sapeva cosa fosse sogno e cosa realtà.”
(F.DÜRRENMATT, Il minotauro, 1985)
2.1. Idea intimidatoria
Proporre un’immagine interessante, fascinosa e accattivante non è un semplice
atto del mostrare e del concedere. Per riuscire a costruire un’idea che risulti
interessante non si deve semplicemente esporla, ma si dovrà cercare di rivelarla
piano pian attraverso una serie di costruzioni discorsive che nel loro svilupparsi,
condurranno man mano il percorso verso un’idea. Il gioco del far vedere è in
continuo conflitto col gioco del nascondere29. Bisognerà quindi analizzare
strategicamente le possibili mosse e reagire a riguardo. Fin qui credo di non aver
parlato di niente di nuovo. In fondo l’idea del mistero e le ormai famose armi di
seduzione, lavorano attraverso delle operazioni che servono ad incuriosire e
affascinare.
Detto questo cerchiamo di capire perché invece qui siamo interessati ad
intimidire.
Occuparsi di intimidazione non è così fuori dalla norma o lontano dai normali
schemi di relazione quotidiani. Proviamo a pensare semplicemente alla nostra
29 Cfr. G. SIMMEL, Il segreto e la società segreta, in Sociologia, Milano, Edizioni di Comunità, 1989, p. 292.
29
andatura. C’è chi cammina con passi corti e rapidi, c’è chi cammina ricurvo e
pensieroso, ma c’è soprattutto chi cammina rigonfio, possente ed energico. Chi
decide di compiere questa tipologia d’azione è ben consapevole del suo stato.
Sa cosa una tale gestualità provochi negli altri e che tipo d’azioni a sua volta
possa incentivare. Non è semplicemente un dire - Statemi alla larga oggi mordo!
Un atto intimidatorio non si conclude semplicemente con un sentimento di paura,
che allontana chi sta intorno. In fondo anche chi sembra nascondersi, spesso non
lo fa per essere non-notato. Esemplare a tale riguardo è il famoso Michele
protagonista di Ecce Bombo30, che durante una conversazione a telefono nella
quale viene invitato ad andare ad una festa, si domanda se per essere notato è
meglio non andare o andare e mettersi in disparte sottraendosi persino all’invito a
ballare, che egli stesso, poi, suggerisce all’interlocutore/amico, per rimanere in
disparte nell’angolino. Dissimula così la voglia di essere lasciato in pace per
ottenere, in concreto, un effetto opposto. Ecco, dunque, intimidire non è
semplicemente un gesto per allontanare. Chi intimidisce, spesso, è interessato ad
instaurare con i differenti interlocutori diversi discorsi per ottenere diverse passioni
e altrettanto diversi scopi.
Si ha a che fare con delle vere e proprie costruzioni di simulacri, di metodi per
rappresentare l’identità personale, ciò «comporta l’esprimersi di intensità da
intendersi come sistemi di singolarità molteplici»31.
Si potrebbe dire che la persona che intimorisce viene percepita come sicura,
forte e decisa da alcuni. Da altri potrà essere valutata come insicura e falsa. In
questo modo il gioco di seduzione permette lo sviluppo di differenti schemi
narrativi che si possono instaurare tra i vari soggetti costruiti e percepiti, dando
origini ad un gioco di rimandi, di strategie che consentono di giungere a scopi
voluti o non voluti, ad effetti di fascinazione e/o di rifiuto.
30 N. MORETTI, Ecce Bombo, italia, 1978 [Che dici vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto, così, vicino a una finestra, di profilo, in controluce. Voi mi fate "Michele vieni di là con noi, dai" ed io "andate, andate, vi raggiungo dopo".]31 U. FADINI, Trame di un “pensiero corporante”, in Simulacri e filosofia. Maschere, segni, eventi nella polis contemporanea, Milano, Millepiani, 1997, p. 49.
30
2.2. Il labirinto e la maschera
Parlare di labirinto e maschera sembra qualcosa di non semplice e potrebbe
persino essere visto come un discorso troppo audace. Credere e soprattutto
dimostrare che tra il labirinto e la maschera possa esserci una vicinanza non sarà
semplice, ma avremo modo di provarci.
Importante secondo me è sottolineare che sia la maschera che il labirinto sono
diffusissime soprattutto nella cultura greca, anzi potremmo parlare quasi di
archetipi. Se pensiamo che nella filosofia junghiana un archetipo è un tipo
d’immagine presente nell’inconscio collettivo, potremmo usare questa chiave di
lettura per entrambi. In fondo come abbiamo visto nel precedente capitolo [Cfr.
1.5], il labirinto attraversa diverse epoche e culture, e se vogliamo un parere
riguardo la maschera, proviamo a interrogare Caillois:
È un fatto che presso tutta l’umanità si porti o si sia portata la maschera. Questo
accessorio enigmatico e privo di uno scopo utile è più diffuso della leva,
dell’arpione, dell’arco, dell’aratro. Interi popoli hanno ignorato alcuni utensili tra i
più umili, oppure tra i più preziosi. Però conoscevano la maschera32.
La maschera sin da sempre è presente nelle culture più diverse, la forza di
questo oggetto spesso sta: nella possibilità della perdita d’identità di chi la porta,
nel porsi in connessione con una dimensione nuova e lontana, e persino in
rapporto con la morte. D’altro canto lo stesso labirinto è legato alla morte, al
superamento dei limiti, e al raggiungimento di una nuova vita.
Ancora più interessante però è il fatto che sia il labirinto che la maschera,
rappresentano il tentativo di dare dei nuovi tratti a qualcosa. La maschera
nasconde un volto, ne propone uno posticcio che qualifica diversamente il
portatore. Gli dona nuove capacità, e una nuova identità. Gli consente di entrare in
rapporto con le divinità. Permette di astrarsi dal tempo e dallo spazio e proiettarsi
dentro un mondo divino rituale e mistico. Il Labirinto è il luogo dello smarrimento e
della perdita della strada. Condizione di un luogo che ipnotizza il viaggiatore, e
32 R. CAILLOIS, L’occhio di Medusa, Cortina, Milano, 1998. p 108.
31
che lo porta a perdere senso e direzione. Già questo tipo di corrispondenze
scatenano interessanti legami, forse potrebbero persino bastare… ma voglio
osare di più. Il labirinto è anche il luogo che tiene lontani gli spiriti funesti. A volte,
veniva disegnato sulle mura delle città per rafforzare la distinzione del dentro col
fuori. Così da proteggere un dentro (le mura) da un fuori. Ma non finisce qui. I
punti di contatto sono davvero tanti, ma forse ancora un altro può render bene
l’idea che mi permette questo accostamento. Se la maschera, nel caso particolare
della testa terrifica della Gorgone veniva applicata agli scudi, abbiamo il caso che
un labirinto, secondo quando dice Omero33, fosse stato applicato da Efesto sullo
scudo di Achille [Cfr. 1.4]. Sembrerebbe il labirinto quasi una specie di maschera
della costruzione spaziale di un luogo. Il Labirinto modifica uno spazio. Lo articola,
lo complica e nasconde ciò che prima vi era lì.
Ma perché, poi accostare labirinto e maschera?
Al di là delle cose in comune che siamo riusciti a mostrare, il nostro interesse è
spinto dalla voglia di poter trovare in entrambi gli archetipi, la forza di intimidire e di
fascinare questo perché siamo interessati ad una comunicazione appassionata
[Cfr. note 4 e 12]. Non risulta difficile motivare un’idea di seduzione e paura, per
quello che riguarda la maschera. In fondo il solo fatto di donare una nuova identità
da scoprire, da smascherare crea timori, ma allo stesso tempo ammalia. Toglie
una conoscenza e ne fornisce una diversa, nuova lasciando però presente questa
sua doppia, contemporanea e inquietante presenza. In entrambi i casi ci troviamo
ancora in presenza di simulacri.
La proiezione dei simulacri è la caratteristica essenziale dell’enunciazione
appassionata.[...] Il soggetto elabora al suo interno oggetti che si trovano dotati di
qualità sintattiche e semantiche inedite: in tal modo l’effetto, promosso a oggetto,
tende a diventare il soggetto-compagno del soggetto appassionato. La
comunicazione si stabilisce su questo secondo piano del funzionamento
discorsivo: nello scambio passionale, ciascuno degli interlocutori rivolge i propri
simulacri ai simulacri dell’altro.34
33 Cfr. OMERO, Iliade, trad. It. di Viincenzo Monti, Milano, Universale Rizzoli, 1990, libro XVIII.34 D. BERTRAND, Basi di semiotica letteraria, Roma, Meltemi Editore, 2002, p. 239.
32
2.3. Il labirinto e il suo lato passionale: un’ignoranza che spaventa
Abbiamo già precedentemente accennato alla forza positiva che il segno del
labirinto porta con sé, al suo fascino, e alla possibilità di essere un vero e proprio
oggetto magico, al di là questo la sua forma porta, anche, una serie di differenti
valori, ma andiamo oltre.
Il motivo che è alla base della volontà di avvicinare il labirinto alla maschera,
sta nel fatto, che entrambi hanno la possibilità di impaurire e di incutere timore.
Naturalmente ci si potrebbe chiedere perché si debba porre al centro del discorso
un così impellente bisogno di paura. Non credo ovviamente che per comunicare
bene si sia obbligati ad incutere panico, però credo che nella comunicazione molto
importante sia la strategia, e intimidire è un importante modo di agire strategico,
soprattutto quando ciò con cui si ha a che fare è la perdita d’informazioni.
Vedremo piano pian cosa succede quando si entra in un labirinto e perché parlo di
perdita d’informazione, ma andiamo con ordine.
Entrare in un labirinto non è un’attività difficile, solitamente è facile trovare
l’ingresso: il problema sta nel ritrovare l’uscita. Ciò che avviene appena si entra
nel labirinto è un episodio molto semplice: all’utente “vengono sottratte” alcune
delle informazioni basilari per muoversi. Gli è tolta la possibilità di orientarsi. Il suo
timore nasce, dunque, dal ritrovarsi in assenza di punti di riferimento e quindi,
nella condizione di perdersi nelle infinite possibilità che si dispiegano. La perdita
dei riferimenti apre e modifica la prospettiva, il discorso si complica e si dilata.
Nel labirinto non appare quindi la perdita definitiva della direzione certa, del logos,
quanto piuttosto la privazione della visione prospettica, l’esatta percezione della
profondità.35
Interessante è il discorso di Vaccaro su Deleuze e Klossowski a proposito dello
sviluppo delle identità complesse
35 F. COLONNESE, Il labirinto e l’architetto, 2006, op. cit. p. 55.
33
In questo contesto ciascuna cosa, avendo perso la sua identità, si apre all’infinito
dei predicati attraverso cui passa sottraendosi all’identità del concetto e rendendo
possibile una sintesi che cessa di essere esclusiva o negativa per assumere, al
contrario, un senso affermativo poiché in essa le disgiunzioni rimangono
disgiunzioni e come tali diventano oggetti di affermazione. Ma poiché questa
sintesi trova la sua espressione nell’eterno ritorno, proprio in quanto esso non è
ritorno del medesimo ma della differenza36.
Risulta assai importante, quindi, valutare l’azione, che il labirinto compie sul
suo visitatore. Lo interpella, lo chiama in causa e gli conferisce una specie di
compito. Lo investe non dandogli però informazioni, ma sottraendone, e quindi lo
invita a compiere una ricerca: a trovare la strada e a percorrerla. Dal punto di vista
delle passioni un tale luogo concede al suo viandante delle notizie circa i rischi,
che un agire del genere contempla.
Cerchiamo ora di considerare il discorso labirintico attraverso le strutture
narrative che Greimas37 mutua ed elabora da Propp38. In questo modo, le funzioni
della fiaba del linguista russo, possono essere utilizzate per diversi generi testuali,
non solo racconti in senso stretto ma anche discorsi figurativi e quindi pure
spaziali, come è il nostro caso.
Lo schema proppiano può essere considerato, con alcuni necessari aggiustamenti,
come modello ipotetico, ma universale, dell’organizzazione dei discorsi narrativi e
figurativi.39
Attraverso lo schema narrativo di Greimas, possiamo dire che il percorso che
stiamo discutendo, esercita sul visitatore un far fare, quindi manipola il suo stato
iniziale, affinché egli, appunto, faccia ciò che il tragitto ha “previsto per lui”. Questo
primo passaggio pone il fruitore innanzi alla difficoltà di orientarsi e di capire.
36 G.B. VACCARO, Deleuze e il pensiero del molteplice, Milano, F. Angeli, 1990, pp. 36-37.37 A. J. GREIMAS, Semantica strutturale, Roma, Meltemi, 2000.38 V. PROPP, Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi, 1977.39 A. J. GREIMAS, 2000, op. cit. p. 5.
34
Come manque per dirla attraverso lo schema di Greimas, o meglio, come prima
azione narrativa che vede l’utente al centro del nostro lavoro, vi è la sottrazione
della possibilità di fare. É tolta la possibilità ai visitatori di orientarsi, di poter
ricordare e quindi di poter prevedere e per giunta di agire. Ciò ha un diretto risvolto
sulle passioni. Infatti il senso di incertezza e paura nasce proprio dal
disorientamento e dallo sgomento che coglie il visitatore.
Percorrere questo spazio dovrà essere una ricerca, quella di ritrovare e
ricostruire un suo fare. Ma dovrà essere un fare proprio del singolo personaggio
che attraversa questo luogo. Centrale quindi è la questione del rapporto tra spazio
(con il quale non intendo un contenitore e/o oggetti che dovrebbero riempirlo
perché il tutto è più inteso come luogo di una situazione40) visitatore e movimento,
infatti
lo spazio [é] legato alla questione movimento, lo spazio “in sé” altro non è che
un’astrazione, la percezione dello spazio è sempre percezione di uno spazio
‘abitato’ da qualcuno che in esso si muove. 41
Il compito del visitatore non è, perciò, sin da subito semplice e per nulla
scontato. Non gli si chiede solo di entrare e godersi il cammino, ma egli dovrà
cercare di legare e mettere in relazione il suo andare, il suo guardare, il suo agire,
e creare una propria rete di concetti, di azioni, di ritorni e rimandi.
Questo perché
passione ed effetto di senso si toccano, e così la passione può trascinare con sé
sia la competenza modale del soggetto (il suo potere, dovere, sapere, e insieme e
al di là di questi il suo volere), gli scopi, le strategie, lo stile della sua risposta
attiva, sia anche il significato complesso dell’azione patita. 42
40 Cfr M. BORTOLOTTI, Colloquio con Harald Szeemann in “Il critico come curatore”, Milano, Silvana Editoriale, 2003, p. 67.41 P. VIOLI, La spazialità in moto. Per una semiotica dei verbi di movimento, in “Versus. Quaderni di studi semiotici 73/74”, Milano, Bompiani, 1996, p. 83.42 P. FABBRI, M. SBISÀ, Appunti per una semiotica delle passioni, in Semiotica in nuce, volume II: Teoria del discorso, P. Fabbri e G Marrone (a cura di), Roma, Meltemi Editore, 2001, pp. 238-239.
35
Dovrà trovare un suo essere del fare, e quindi una sua competenza. Gli
toccherà imparare a
costruire lo Spazio del sapere [ciò] significherebbe in particolare dotarsi degli
strumenti istituzionali, tecnici e concettuali, per rendere l’informazione navigabile,
affinché ciascuno possa orientarsi e riconoscere gli altri in funzione degli interessi,
delle competenze, dei progetti, dei mezzi e delle reciproche identità all’interno del
nuovo spazio. 43
Il pubblico dovrà interagire con questo tipo di luogo, praticarlo, muoversi al suo
interno, essere quindi attivo. Dovrà cercare e affrontare il suo percorso per poi
giungere pian piano ad una nuova, diversa e soggettiva visione. La competenza
si andrà passo dopo passo costruendo. Non si dovranno valutare errori o discorsi
giusti. Nessuno sbaglio è possibile, l’unico modo per continuare e accrescere la
propria esperienza è garantire la possibilità di continuare il cammino44: proseguire
e valutare.
Perdere ogni riferimento fomenta la paura di non poter più trovare una via
d’uscita. Si è bloccati nel punto zero. Si ha la sensazione di dover agire di
spontanea volontà e di dover contare sulle proprie forze. Si sente il bisogno di
smascherare e conoscere. Di percorrere lo spazio. Di esplorarlo e di
appropriarsene. Si passa dal momento della passione negativa, quella del timore
a quella della raccolta delle forze, si sceglie che si vuole trovare una strada, si
vuole sapere. Nel mezzo la visione miope deve far si che si prenda coscienza
poco alla volta di ciò che accade. Lavorare passo passo. Comprendere di essere
giunti ad un determinato punto, ma avere difficoltà a compiere una previsione
certa. Continuare a pensare a ciò che si è visto, e integrarlo continuamente con
ciò che di nuovo si scopre. Si pone la questione della «progettualità motoria»45 ed
entra in questo tipo di discorso la faccenda dell’intenzionalità46. Un rapporto di
43 P. LÉVY, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, trad. it. M. Colò, D. Feroldi, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 30.44 Cfr. affermare l’irrazionale e non la finalità da G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia e altri testi, F. Polidori (a cura di), Torino, Einaudi, 2002, pp. 41-42.45 P. VIOLI, 1996, op. cit. p. 85.46 Cfr. la voce “Intenzione” su A. J. GREIMAS., J. COURTÉS, Semiotica. Dizionario ragionato della
36
tensione che si crea tra il luogo e il punto di vista di chi lo percorre e lo esperisce.
Dalla competenza si passa senza discontinuità ad un altro fare pratico. Si fa, si
performa e da un essere del fare si passa ad un fare essere. Ovviamente un
percorso labirintico non deve per forza essere riconosciuto come labirintico. L’idea
del labirinto deve essere sottesa al nostro discorso. Non si è nemmeno obbligati
ad esplicitarla.
Il tipo di azione che si fa sul visitatore lo mette direttamente in connessione e in
gioco con ciò che dovrà fare. Infatti, affinché il suo agire acquisti un valore
aggiunto, alla fine del percorso, il viaggio iniziatico dovrà concludersi con una vera
e propria investitura. Fondamentale, quindi, appare l’idea di sanzionare l’operato
del fruitore. Fare in modo che il suo percorso sia, nonostante la singolarità e la
soggettività, definibile come “giusto”. Ovviamente per giungere a tanto, la
soluzione non potrà essere unica e definitiva. Dovrà soprattutto emergere come
una manifestazione sviluppata e condotta, per esempio, attraverso la tensività
spaziale [Cfr. 2.4.3]. Messa in atto già a partire dal momento dell’azione, quello
che tecnicamente si definisce di performanza. Infatti, proprio attraverso questa
tensione e questo dondolare tra le situazioni, potrebbe accadere di trovare un
modo per decifrare e/o far rimare l’inizio e la fine percorso.
2.4. Strategie labirintiche
Il labirinto è il luogo della pluralità non del caso, esso instaura verso chi lo
percorre una strategia del segreto, dell’essere e del non apparire. In lui il gioco si
compie attraverso la dissimulazione e la perdita di conoscenza. Queste si
pongono tra il soggetto che vi partecipa e lo scopo che egli deve raggiungere. Da
qui si giunge alla sensazione di non-certezza e alla paura e al senso di vertigine,
fondamentale perché «la passione si rivela presupposto, ingrediente, effetto
ineliminabile di “razionali” comportamenti strategici.»47
Tutto questo che cerchiamo di fare e che passo dopo passo stiamo valutando
teoria del linguaggio, Paolo Fabbri (a cura di), Milano, Bruno Mondadori, 200747 P. FABBRI, M. SBISÀ, 2001, op. cit. p. 239.
37
fa parte quindi del modo in cui si organizza e si struttura l’idea labirintica. Alla base
di ciò vi è una serie di relazioni che mettono in opposizione degli attanti, che
costruiscono e fondano il percorso labirintico stesso. Abbiamo il soggetto e nel
caso particolare il curatore che struttura un luogo, un oggetto e delle attitudini.
Compie un’azione su degli oggetti affinché questi producano a loro volta delle
azione sui vari soggetti che vi entreranno in contatto. Potremmo dire che egli
manovra delle cose per poter poi manipolare degli uomini.48 Ciò non solo ha una
diretta influenza sul piano narrativo di cui abbiamo discusso nel precedente
paragrafo [Cfr 2.3], ma anzi il piano narrativo si articolerà proprio in base al
progetto strategico. Il primo passo, ricordiamolo, è la sottrazione di informazioni:
queste non vengono offerte o date per scontate, ma saranno parte di un processo
di negoziazione. Il fruitore deve quindi mettere in campo le sue qualità e suoi
interessi.
La questione labirinto è intesa come una pratica di comunicazione rischiosa. Il
pericolo di smarrire la strada è parte del discorso concettuale. Questa difficoltà
serve a stimolare il fruitore, far sì che prenda in mano il suo percorso e sia
padrone della sua esperienza. Deautomatizzare così i processi cognitivi e
comportamentali. In questo modo il percorso sotteso dal labirinto assume ancora
una volta i tratti di un viaggio iniziatico, di un’esplorazione che porti all’acquisizione
di una piena e fondante competenza.
Il naturale impulso all’idealizzazione e la naturale timorosità dell’uomo tendono, di
fronte all’ignoto, allo stesso fine di accrescerlo con la fantasia e di rivolgergli
un’attenzione più accentuata, che nella maggior parte dei casi la realtà manifesta
non avrebbe acquistato.49
Sembra giunto il momento di capire come poter lavorare su questo tipo di
concetto: prima di tutto credo sia giusto dilungarsi un poco sulla questione spazio,
visto che in ogni modo è anche, e soprattutto, di questo che stiamo cercando di
occuparci.
48 E. LANDOWSKI, Esplorazioni strategiche, in Semiotica in nuce, volume I: I fondamenti e l’epistemologia strutturale, P. Fabbri e G Marrone (a cura di), Roma, Meltemi Editore, 2001, p. 254.49 G. SIMMEL, 1989, op. cit. p. 311.
38
2.4.1. Muovere, esperire, progettare, orientare, trovare, seguire
Come prima cosa, c’è da dire che lo spazio non è neutro. Persino una stanza
interamente bianca non è asettica. La sola presenza della forza di gravità è
un’importante indicazione. Il semplice fatto che essa ci sia, implica che si proietti
una specie di griglia significativa. Orienta lo spazio dinamicamente. Differenzia il
sopra dal sotto. Solamente questo già complica le relazioni spaziali, che si
potrebbero stabilire e produrre all’interno di uno schema organizzativo, quale, per
esempio potrebbe essere, quello di una parete. Il luogo fisico, poi, si lega alla
percezione che un soggetto ha di questi. Abbiamo quindi un alto, un basso, una
destra e una sinistra, un avanti un dietro, riferimenti questi tutti fortemente
valorizzati. Andare avanti nella maggior parte dei casi, vuol dire riuscire a portare,
appunto, avanti una propria idea e a perseguire un obiettivo. Il basso è il luogo di
partenza, della staticità, del grado minimo, invece l’alto è considerato già portatore
di accezioni positive. Ciò accade anche perché
il corpo non è più considerato proprietà dell’io, bensì luogo degli impulsi e del loro
incontro, prodotto degli impulsi, il corpo diventa fortuito, è tanto reversibile quanto
irreversibile perché la sua storia si identifica con quella degli impulsi. Questi infatti
vanno e vengono, e il moto circolare da esse descritto si significa sia negli spazi
dell’umore che nel pensiero, sia nelle totalità dell’animo che nelle depressioni
corporali, le quali sono morali soltanto nella misura in cui le dichiarazioni e i giudizi
dell’io ricreano nel linguaggio una proprietà in se stessa inconsistente e quindi
vacante. Ma non per questo Nietzsche abbandona la coesione; egli lotta a un
tempo con gli impulsi che vanno e vengono, per una coesione nuova del pensiero
con il corpo in quanto pensiero corporante. A questo fine egli segue quello che
chiama più volte il filo conduttore del corpo, cercando di tenere questo filo
d’Arianna nel labirinto tracciato dagli impulsi secondo il susseguirsi dei suoi stati
valetudinari.50
50 P. KLOSSOWSKI, Nietzsche e il circolo vizioso, trad it. E. Turolla, Milano, Adelphi, 1981, pp. 60-61.
39
Attraverso il legame di pensiero e corpo, questa coesione definita pensiero
corporante valorizza le azioni nello spazio. Crea dei tracciati e dei legami che
s’inscrivono sul soggetto e dal soggetto su ciò che gli sta attorno. Da notare bene
che
La spazialità del nostro corpo non sarebbe una spazialità di posizione, come
quella degli oggetti bensì una spazialità di situazione. In altre parole quando
facciamo corrispondere il nostro corpo a un qui, non stiamo tracciando una mappa
di posizioni, un reticolo geometrico rispetto a cui situarci, quanto rimandiamo
all’ancoraggio del corpo attivo in un oggetto, alla situazione del corpo di fronte ai
suoi fini. 51
Si tratta proprio dell’intenzionalità di cui abbiamo già fatto cenno e che pone il
soggetto davanti ai suoi scopi. Resta da dire però che è
Solo nel momento in cui lo spazio è valorizzato in virtù dei fini del soggetto che
esso gli diventa anche agibile. Nel mondo fenomenico dunque, le coordinate
spaziali si definiscono in funzione di un campo d’azione; è la logica dell’azione
sottesa al raggiungimento di uno scopo che permette il controllo della motilità
corporea e dell’intorno spaziale. 52
Trovandoci a parlare di azioni nello spazio non possiamo non considerare la
questione distanza.
2.4.2. Memorizzare
Stando a come la chiusa del precedente paragrafo rilancia la questione delle
distanze, sarebbe stato ovvio a questo punto trovare il paragrafo relativo, e invece
così non è. In prosecuzione e/o anche in replica al precedente paragrafo nasce
questa riflessione e obbligata precisazione.
Replica e/o prosecuzione?
51 S. CAVICCHIOLI, I sensi, lo spazio, gli umori e altri saggi, Milano, Bompiani, 2002, p. 166.52 Ivi. p. 167.
40
Certo, replica poiché come in una risposta di disappunto mi viene da dire,
come si può pretendere di parlare riguardo le strategie del labirinto se non si parla
anche di memoria, di difficoltà a memorizzare. Infatti, la questione della memoria è
centrale nel gioco dei labirinti. Precisamente, il labirinto lavora mediante strategie
che complicano il tentativo di ricordo. Operano ponendosi proprio nella possibilità
di non permetterne l’accumulo.
Prosecuzione perché all’interno delle azioni messe a titolo del precedente
paragrafo, la memoria è ovviamente presente. Quindi stiamo continuando a
sviluppare qualcosa che lì abbiamo, in fondo, solo abbozzato.
Differenziare un sopra da un sotto grazie alla forza di gravità vuol dire già fare
ricorso alla memoria. Organizzare i pensieri, distinguere un alto e un basso,
segnare quindi una differenza e segnalare una distanza. Sembra poco?
Be’ se non ci fosse memoria ci si potrebbe trovare nella condizione estrema di
non riconoscere nemmeno se stessi. Come riuscire a muoversi, esperire,
progettare, orientare, trovare, seguire?
Paolo Fabbri sostiene che «un labirinto si attraversa senza accumulazione di
memoria.»53 Proviamo a dire diversamente, forse il dunque è che una chiave della
strategia labirintica, è proprio quella di non consentire il ricordo. Il modo più
semplice per fare questo, è quello di organizzare un luogo in modo che nessun
segno ne distingua uno da un altro.
In risposta ad una tale situazione Eco ne “Il nome della Rosa” fa pronunziare
all’ingegnoso Guglielmo da Baskerville una regola per uscire dai labirinti attraverso
l’uso di segnare i vari passaggi
Per trovare la via d’uscita da un labirinto, non vi è che un mezzo. Ad ogni nodo
nuovo, ossia mai visto prima, il percorso di arrivo sarà contraddistinto con tre
segni. Se, a causa di segni precedenti su qualcuno dei cammini del nodo si vedrà
che quel nodo è già stato visitato, si porrà un solo segno sul percorso di arrivo. Se
tutti i varchi sono già stati segnati allora bisognerà rifare la strada tornando
indietro. Ma se uno o due varchi del nodo sono ancora senza segni, se ne
sceglierà uno qualsiasi, apponendovi due segni. Incamminandosi per un varco che
53 P. FABBRI, Perdersi: un gioco con la vertigine, in R. ARAGONA (a cura di), Le vertigini del labirinto, Napoli, Ed. Scientifiche Italiane, 2000, p. 76.
41
porta un solo segno, ve ne apporremo altri due in modo che ora quel varco ne porti
tre.54
Ovviamente non è solo una questione di assenza di segni, il gioco risiede anche
nella qualità e nella quantità di questi segni. Il labirinto sfida l’utente eroe a
scoprire/creare i segni caratteristici, ad individuare le sequenze di ancoraggio
come fa un arrampicatore su una nuova parete.
Prendiamo il caso di una città per antonomasia labirintica: Venezia. Non credo
che tutte le strade siano uguali e senza alcun segno che le distingua. Più che altro
è la qualità e la quantità dei segni che non ne permette l’accumulo, che disorienta
e provoca una vertigine. Quindi più che una questione di assenza di segni, il
problema è nell’assenza delle competenze ad individuare i “segni caratteristici”. La
soluzione consisterebbe nello sviluppare una “coscienza critica” per determinare i
punti salienti nel loro farsi discorso, e quindi organizzare la lettura in maniera
coerente. Ovvio, sarebbe più semplice avere la possibilità di tracciare delle croci
sulle pareti durante il percorso che sforzarsi di ricordarsi la strada esplorata, e le
scelte effettuate. C’è da aggiungere, però, che nel nostro caso l’esperienza che
l’utente deve compiere, visto che si parla di un’esposizione labirintica, sta proprio
nello scegliere un personale cammino così da costruire, attraverso un continuo
lavoro di memoria, una propria e fondante consapevolezza. Questo è direttamente
legato al fatto che, nello specifico, operare sulla difficoltà ad accumulare memoria,
stimola la risposta dell’utente e lo incita a sviluppare il ricordo. Lo coglie sul lato
passionale, e sulla paura di perdersi.
A questa situazione si aggiunge la condizione della possibile scelta, legata
all’obbligo di dubitare. Ciò vuol dire che l’utente nelle sue valutazioni e azioni è
consapevole che esse sono parte integrante del gioco anzi a dire il vero sono
espressamente richieste da esso. In altro modo dubitare è un modo di entrare in
relazione con la specificità del progetto. La reazione dell’utente dovrà essere,
quindi, una contro-strategia [Cfr. 4.5] che lavorerà proprio sulla costruzione della
memoria attraverso la consapevolezza della non unicità del percorso.
54 U. ECO, Il nome della rosa, Bompiani, Milano, 1980.
42
2.4.3. Di Distanze e di tensioni
Ecco che dopo la parentesi e l’obbligata precisazione sulla memoria, siamo
giunti al momento di trattare la questione delle distanze. Valutare il sistema delle
distanze è molto importante, visto che si lega al lavoro che si dovrà compiere per
poterla superare e colmare55. Le distanze da percorrere, sia fisiche che concettuali
devono essere valutate in base allo sforzo che il fruitore dovrà compiere. Si dovrà
evitare di stancare troppo l’utente, è vero che si tratta di una “lotta”, ma è pur vero
che lui dovrà essere il vincitore. Si dovranno proprio in base a questo fissare
momenti di riposo, di recupero, e ci tengo ancora una volta a precisare, situazioni
che non siano solo fisiche, ma anche concettuali. Per quanto riguarda il primo
basterà spezzare la passeggiata. Dal punto di vista del secondo, mi viene in
mente il bisogno di sospendere brevemente il discorso. Come interessante punto
di riferimento, che però non lascia cadere la tensione [Cfr. più avanti], si potrebbe
prendere quello musicale, in cui per creare una piccola pausa, ci si ferma sulla
nota dominante56 e non sulla tonica57, questo perché quest’ultima chiude
nell’ambito della musica classica un componimento, mentre il poggiarsi sulla
dominante crea un breve rilassamento. L’impressione che ne scaturisce è quella di
poter prendere fiato. Concettualmente ciò potrebbe accadere creando un
rilassamento che non rimi con l’inizio (il quale come avviene col gioco della tonica,
posta alla fine è all’inizio di un brano, ne sanziona la fine), ma qualcosa che
rassicuri, come un lavoro conosciuto e importante per il periodo o il tema
affrontato. Recepito, quindi, come qualcosa di familiare e rassicurante.
La distanza poi si relaziona alla tensione58. Mantenere una distanza è proprio
un’attività di tensione. Se una distanza deve essere mantenuta è anche perché c’è
qualcuno o qualcosa che cerca di colmarla. Esiste quindi un modo di operare che
tiene in bramosia chi vuole avvicinarsi e quindi congiungersi con l’oggetto di
55 P. FLORENSKIJ, L’interpretazione gnoseologica dello spazio, in Lo spazio e il tempo nell’arte, Milano, Adelphi, 1993 pp. 24-25.56 Nota attorno alla quale si sviluppa la composizione, tra la tonica e la dominante c’è un intervallo di quinta.57 Prima e ultima nota di una scala musicale.58 Cfr. la voce “Tensività” su A. J. GREIMAS., J. COURTÉS, Paolo Fabbri (a cura di), 2007, op cit. p. 355.
43
valore. Si crea una situazione peculiare che ci consente di poter operare sulle
scelte e sulle azioni del soggetto, mediante, soprattutto in questo caso specifico, il
controllo del flusso delle informazioni (intese come oggetto di valore59) dato il
legame che esiste tra la modulazione degli stati d’animo e la trasformazione degli
stati di cose60.
Gli stessi verbi che si accompagnano alla condizione di tensione ne
evidenziano una componente altrettanto importante che l’accompagna e che è la
questione della duratività. Il gioco della tensione mette in campo l’elemento tempo,
come parte del processo contrassegnato da un inizio e da una fine. Fondamentale
presenza la sua, inietta, infatti, nella struttura narrativa organizzata il fare, attiva il
processo che dispiega l’attività concettuale tra il pubblico e la mostra61. In
conclusione, l’aspetto tensivo opera attraverso il mantenimento o/e il controllo
della distanza di un soggetto da un qualsivoglia oggetto di valore, per un certo
periodo.
2.4.4. Punti di vista
Ho deciso di trattare il punto di vista dopo aver parlato della distanza e della
tensione poiché credo che discutendone possiamo riunire e chiarificare lo sviluppo
e il discorso fatti sin qui a proposito della nostra strategia.
Quando parliamo di punto di vista ci viene subito in mente il problema del
rapporto con la figura dell’osservatore, questione importante soprattutto per quel
che riguarda la circolazione del sapere. Abbiamo parlato di distanza proprio a tal
proposito. Del punto di vista c’è da dire che «non è un problema affatto che
concerne il solo soggetto osservatore ma si situa nel rapporto fra l’oggetto e il
soggetto»62. Si lega alle strategie di strutturazione del nostro progetto, in modo da
selezionarne e orientarne i contenuti. La distanza diventa un modo importante per
59 [è sufficiente che la conoscenza di due personaggi su di un medesimo oggetto non coincida perché tale sapere divenga esso stesso oggetto di valore e meccanismo narrativo] D. BERTRAND, 2002, op. cit. p.151.60 Cfr. D. BERTRAND, 2002, op. cit. p. 43.61 Cfr. la voce “Aspettualizzazione” su A. J. GREIMAS., J. COURTÉS, Paolo Fabbri (a cura di), 2007, op cit. p. 12.62 D. BERTRAND, 2002, op. cit., p. 75.
44
gestire il rapporto tra il soggetto e l’oggetto. Attraverso diversi tipi di focalizzazione,
«questione in cui l’enunciato organizza la figura dell’osservatore»63[Cfr. 4.3], il
soggetto viene messo in condizione di vedere o non vedere e quindi di dover
adattare la sua posizione, per consentire un incremento delle sue conoscenze64
[Cfr. 4.5]. Cambia in altri termini il suo punto di vista (aspetto regolato
all’osservatore e dalla sua modalità di presenza), accordandosi con quello
strutturato dal discorso, anzi a voler essere precisi, dal percorso.
Riprendiamo la questione della perdita di conoscenza e informazioni. Ciò che
accade in questo tipo di sottrazione è legato soprattutto al controllo del flusso
comunicativo. Si crea smarrimento, si nasconde la strada, si lavora attraverso la
segretezza e una continua modulazione di momenti di attese e di soluzioni. Si
sviluppa un percorso che non appare, che non risulta leggibile anzi intelligibile con
molta facilità.
Operando con la distanza, per esempio ponendo una situazione in cui un’opera o
parte di un lavoro è messo in condizione di essere visto, non proprio in maniera
ottimale, per esempio limitandone in un certo modo la sua fruizione, si crea nello
spettatore la voglia di poter vedere meglio, di capire e per seguire questa
inclinazione si muoverà e questo movimento gi permetterà di afferrare meglio, di
aumentare le informazioni in suo possesso [Cfr. 4.4.3]. La tensività spaziale è
connessa al modo in cui il dispositivo65 labirinto entra in relazione con il soggetto
che lo percorre. Solo in questo modo la sua azione e la sua forza assumono
rilevanza66. Lo spazio è dinamico. Il tutto si concretizza in un possibile oggetto
costruito che si definisce però solo attraverso la sua funzione, e la sua messa in
pratica. Si passa da un voler far ad un poter fare, ad un far essere
2.4.5. Voler vedere, poter capire
Prima di chiudere vorrei spendere ancora poche parole sulla questione del
63 Ibidem.64 Cfr. S. CAVICCHIOLI, 2002, op. cit., p. 181.65 G. AGAMBEN, Che cos’è un dipositivo?, Roma, I Sassi Nottetempo, 2006.66 E. LANDOWSKI, Stati di luoghi, in Versus. Quaderni di studi semiotici 73/74, Milano, Bompiani, 1996.
45
controllo di ciò che è mostrato, di come è esposto e di cosa si vede, ovviamente
tutto inteso in un’accezione positiva.
Se lavoriamo come stiamo facendo, sul nascondere e mostrare, e
modalizziamo67 il rapporto che si instaura tra i due termini, potremmo comprendere
meglio il senso di questo lavoro. Poniamo la questione per esempio attraverso il
vedere. Mostrare (vedere), nascondere (non vedere). Se accompagniamo la
nostra attività con un modale, nel caso specifico potere, la sua sola presenza ne
modifica lo stato. Non si tratta semplicemente di vedere, ma di poter vedere.
Questo implica che lo svolgimento dell’azione risulta essere legato ad una
condizione. Di conseguenza il semplice poter vedere è un atto, di per se stesso,
già limitato. Sul non poter vedere non penso ci sia molto d’aggiungere essendo
negata la possibilità di visione.
Dal poter vedere una delle cose più importanti è passare al suo contrario: poter
non vedere. Questa condizione è molto importante, risulta essere uno degli snodi
essenziali dell’evoluzione del nostro percorso di congiunzione. Il poter non vedere
è il riuscire a prendere coscienza dell’ostruzione che limita e allontana il visitatore
dalla possibilità di una comoda e piena fruizione.
67 Cfr. la voce “Modalità” su A. J. GREIMAS., J. COURTÉS, Paolo Fabbri (a cura di), 2007, op cit. pp 202-204.
46
NON POTER NON VEDERE
(completa esposizione
dell’oggetto informatore)
POTER NON VEDERE
(relazione di ostruzione)
POTER VEDERE
(limitazione della visione)
NON POTER VEDERE
(completa sottrazione)
Accortosi dell’ostruzione lo spettatore dovrà cambiare la sua posizione,
regolare nuovamente il suo punto di vista, non inteso
più solo in senso pragmatico come luogo delle condizioni di visibilità di un angolo
di mondo, ma come dispositivo che rende conto di relazioni di tipo cognitivo e
passionale che possono manifestarsi anche attraverso la messa in spazio 68
cosicché la questione, è posta sotto l’aspetto di una vera e propria trattativa. Ma
non è tutto. Questo punto presuppone soprattutto l’intenzionalità. Con questo cosa
voglio dire? L’accento dal poter non vedere si sposta sul voler vedere. C’è una
certa consequenzialità, e ancora una volta tensione. Potendo non vedere, si vuole
vedere.
Credo di aver in questo modo toccato proprio il cardine di questo lavoro: la
sottrazione ad agire, a muoversi si gioca sul rapporto della tensione a poter non
vedere. Forse però ancora qualcosa non è chiaro... Perché giocare continuamente
con questa possibilità? La risposta potremmo trovarla se proviamo ancora ad
osservare il punto che non abbiamo ancora toccato dello schema qui sopra
proposto: il non poter non vedere, punto della completa esposizione e quindi della
massima possibilità di visione. Se non posso fare a meno di vedere, mi è tutto
mostrato. Il rischio è che questo diventi un vero e proprio abbaglio. Tutto è dato.
Tutto è concesso alla vista e alla portata del fruitore. Al contrario l’acquisizione di
una piena visione, anzi di una nuova e personale fruizione, non deve essere
semplicemente una massima esposizione, ma un conseguimento di nuove
competenze attraverso il gioco d’intimidazione, sottrazione e tensione. Il tutto è
una messa in opera di passioni che vuole modificare l’interesse e spronare il
pubblico verso la ricerca di nuove strade, esperienze e capacità di valutazione.
68 S. CAVICCHIOLI, 2002, op. cit., p. 169.
47
3. Arte e labirinti
“L’uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pietre.
Raramente l’occhio si ferma su una cosa,
ed è quando l’ha riconosciuta per il segno d’un’altra cosa:
un’impronta sulla sabbia indica il passaggio della tigre,
un pantano annuncia una vena d’acqua,
il fiore dell’ibisco la fine dell’inverno.
Tutto il resto è muto e intercambiabile;
alberi e pietre sono soltanto ciò che sono.”
(I. CALVINO, Le città invisibili, 1993)
Se col secondo capitolo abbiamo affrontato la questione da un ambito
strettamente comunicativo/critico, ora passeremo dall’esercitazione al campo di
battaglia cercando di valutare chi, come e quando ha provato a lavorare con delle
strategie che spiazzano, confondono e intimoriscono, non solo per fare una
carrellata storica, che possa dare le cosiddette “stellette” a questo lavoro e quindi
maggiore reputazione, ma anche e soprattutto, per valutare e cogliere i
funzionamenti e gli sviluppi che questo tipo di azioni dispiegano.
Il nostro intento è «precisare tuttavia la natura di queste operazioni sotto un
altro profilo, non più dal punto di vista del rapporto che intrattengono con un
sistema o un ordine, ma in quando rapporti di forze che definiscono i contesti in
cui si inscrivono e delimitano le circostanze di cui possono approfittare. Così da un
riferimento linguistico bisogna passare a un riferimento polemologico. Si tratta
infatti di conflitti o giochi fra il forte e il debole, e di azioni che siano possibili a
48
quest’ultimo.»69
Nel trattare la relazione tra arte e labirinto divideremo il capitolo in due parti:
una prima parte sarà legata soprattutto agli eventi e alle mostre e una seconda
parte riguarderà più da vicino alcuni artisti. Ciò risulterà utile per il capitolo
progettuale che cercherà nella sua proposta di mettere in campo i concetti di
allestimento e di opere prese qui in esame, nel tentativo di legare tutto in un
progetto di dispositivo/mostra in cui gli spazi, le opere e i percorsi saranno
selezionati e organizzati attraverso gli occhi e le idee di Dedalo.
3.1. Che la diritta via era smarrita
C’è da dire che mettere al centro di un allestimento del percorso di una mostra
l’idea dello spiazzamento non è poi una cosa così recente. Basti pensare
soprattutto a movimenti come il Surrealismo e il Dadaismo o nel caso specifico di
eventi, a due mostre molto importanti tenutesi a New York nel 1942. Anno in cui un
forte fermento culturale investe gli States a causa delle condizioni drammatiche
che avevano colpito il continente europeo a seguito della presa del potere dei
regimi dittatoriali.
3.1.1. Novità ed esperimenti a New York, 1942: Art of this century e
Prime carte del Surrealismo
La prima mostra è Art of this century, voluta da Peggy Guggenheim e allestita
dall’architetto Frederick Kiesler. All’interno del percorso espositivo, la mobilità, i
dispositivi meccanici, l’uso della luce in modo antifunzionale, del colore e del
suono coinvolgevano lo spettatore in un’azione sinestetica, che lo conduceva a
perdere le normali coordinate di riferimento e a dover instaurare necessariamente
un nuovo rapporto con gli oggetti. La parte più insolita dell’esposizione era la
Galleria Surrealista, dentro la quale le opere surrealiste erano sostenute da
69 M. DE CERTEAU, L’invenzione del quotidiano, Roma, Edizioni Lavoro, 2001, p. 69.
49
montanti con angolature diverse, collocati a loro volta su pareti di legno curve [Fig.
3]. In questo modo la prospettiva matematica veniva dissolta, le linee ortogonali
dei vari quadri confinate nei bordi dell’opera stessa (essendo state queste private
anche delle cornici). I margini non si allineavano idealmente con nessun’altra linea
ad angolo retto o spigolo della parete, dissolvendo il punto di vista che smetteva di
relazionarsi con un solo punto di fuga: ciò implicava che non vi fosse più un punto
o una zona privilegiata da cui la lettura potesse risultare più comoda. Doveva
essere lo stesso fruitore muovendosi a ricercare, ogni volta, una posizione per
trovare una momentanea e più adatta collocazione di lettura. Completava il tutto
un poco usuale sistema di illuminazione [Fig. 4]. Le luci si accendevano,
alternativamente e per soli tre secondi, su di un solo lato per volta della galleria,
facendo così pulsare lo spazio che, limitato dall’ombra, veniva scoperto e offerto ai
visitatori dalla luce, in un periodico gioco che poneva in relazione il poter vedere, il
non poter vedere (vera e propria sottrazione) e il poter non vedere (relazione di
ostruzione) [Cfr. 2.4.4].70 Così la stessa percezione empirica diventava parte di un
processo più ampio che legava indissolubilmente il contenitore al contenuto.
Agendo non solo sullo spazio, ma anche sul tempo, si creava maggior
inquietudine e si aggiungeva alla fruizione un altro argomento che contribuiva a
complicarne la condizione. Un luogo vicino dal punto di vista spaziale risultava
essere allontanato concettualmente mediante un velo d’ombra, che lo rendeva
inaccessibile ad una normale e confortevole visione.
Sempre all’interno della questione luce, si pone il problema dell’attesa. Il lato
lasciato in ombra non è, infatti, totalmente buio. Anche se non perfettamente
visibile non passa certo inosservato, anzi non sarà difficile notare che in quella
metà di galleria vi sono sistemati dei lavori. Questa sorta di anticipazione a luci
spente pone il visitatore in uno stato di attesa71 o per lo meno inquietudine.
- Qualcosa è lì, ma è nascosto? O forse c’è solo un problema all’illuminazione? E
s’è nascosto, perché lo è? C’è un segreto da svelare?
Queste e tante altre potrebbe essere state le prime domande che un visitatore si
70 Cfr. S. CAVICCHIOLI, I sensi, lo spazio, gli umori e altri saggi, Milano, Bompiani, 2002, p. 180. 71 Vedi J. C. COQUET, Le istanze enuncianti. Fenomenologia e semiotica, Paolo Fabbri (a cura di), Milano, Bruno Mondadori, 2008, p. 89. Cfr nota 23.
50
sarebbe potuto fare.
Interessante, poi, il gioco del velare e svelare che si accompagna ad una
relativa tensione e distensione. In effetti ogni segreto contiene una tensione la
quale trova la sua soluzione nell’attimo della rivelazione.72 Bisogna attendere che
le luci si accendano su quel lato per far sì che le opere si possano vedere.
L’insieme dell’esposizione ottiene perciò un effetto spiazzante, una sospensione
dell’abituale condizione in cui l’identità dell’oggetto è definita e conchiusa e apre a
nuovi possibili percorsi e associazioni di sensi in cui l’immaginazione si dispiega in
infinite possibilità e lo spettatore si fa creatore.[...] L’esposizione, così come
l’oggetto esposto, è concepita in questo modo come un dispositivo: sta allo
spettatore con il suo intervento – intervento concettuale ma abbiamo visto anche
fisico con l’opera – attivarne il movimento e costituirne il significato e il senso.73
Sempre a New York, durante stesso anno, è organizzata la seconda mostra
che tocca la possibilità di spiazzare lo spettatore attraverso la complicazione
spaziale e percettiva. Allestita da Marcel Duchamp alla Whitelaw Reid Mansion,
Prime carte del Surrealismo è una mostra a favore dei prigionieri di guerra,
sponsorizzata dal Council of French Relief Societes.
A chiamare Duchamp a curare l’allestimento fu la designer Elsa Schiapparelli,
la quale si fece affiancare da Breton ed Ernest per quanto riguarda la scelta delle
opere. Questo risultò molto evidente nella selezione, che difatti fu costituita per la
maggior parte da lavori della vecchia guardia surrealista, a cui si aggiunsero alcuni
nuovi membri americani.
Il titolo della mostra era strettamente legato alla situazione socio-politica che si era
costituita in questo difficile periodo storico, in cui molti degli intellettuali europei
esuli negli Stati Uniti e si sentivano un po’ emigrati e un po’ profughi. “Prime
Carte”, infatti, era il modulo per ottenere la cittadinanza Statunitense. La stessa
idea del labirinto come allestimento era strettamente connessa all’assetto
internazionale che si rifletteva sulla loro condizione. La ricerca di una nuova
72 G. SIMMEL, Il segreto e la società segreta, in Sociologia, Milano, Edizioni di Comunità, 1989, p. 311.73 D. SCUDERO, Manuale del curator, Roma, Gangemi Editore, 2004, pp. 35-36.
51
strada, l’incertezza del nuovo cammino, la difficoltà di scegliere, congiunta al
bisogno di dare maggior spessore a queste sensazioni superando la dualità arte-
vita, hanno dato luogo alla voglia di porre l’arte in un nuovo modo di connessione
alla vita, attraverso lo spazio e la fisicità riempiendo e complicando il luogo,
allontanandosi, dal a volte più morbida, diretta percezione visiva.
Per questo tipo di mostra Duchamp non solo collocò i quadri su pannelli
perpendicolari alle pareti ostruendo così una continuità visiva, ma tese per la sala
principale un groviglio di filo [Fig. 5] che oltre a disturbare la lettura delle opere
ostruiva persino l’ingresso allo stesso spazio espositivo.
In questo modo l’istallazione diventava una sorta di raffigurazione fisica delle
tensioni in negativo che percuotevano il globo.
Certamente [...] giocò sul fascino surrealista per il labirinto come figura
dell’inconscio, una figura che sembrava trasformare in allegoria della storia
contemporanea, o meglio di una breccia in questa storia segnata dalla guerra e
dall’esilio, una breccia che introduceva una distanza quasi letteralmente, dell’arte
surrealista in mostra dal presente. Sotto questo aspetto gli artisti esposti erano
come delle Arianne contemporanee con una piccola speranza di trovare la via
d’uscita dal labirinto. Se questa interpretazione allegorica può sembrare dubbia,
possiamo affermare che le corde oscuravano gli spazi pittorici e architettonici in
modo da sottolineare e contemporaneamente interrompere sia le cornici dei quadri
sia la galleria. Fu in ogni caso un gesto negativo, quasi nichilista, ma presentato
come uno scherzo[...]. 74
Non possiamo che essere concordi sulla negatività di una tale
istallazione/allestimento, che ha complicato a tal punto il percorso mostra. Un
gesto di grande effetto e di sicura provocazione che però ha mummificato anzi, ed
è proprio il caso di dirlo, legato ogni possibilità a esperirlo.
Impedendo l’accesso alla galleria si teneva lo spettatore a distanza dalle opere
che, catturate nelle trame di questo filo, si ponevano come dei rimandi ad una
cultura in difficoltà, imbavagliata. Inoltre relegando lo spettatore a stare fuori dalla
74 H. FOSTER, R. KRAUSS, Y. BOIS, B. H. D. BUCHLOH, Arte dal 1900, Elio Grazioli (a cura di), Bologna, Zanichelli, 2006, p. 301.
52
porta, e impedendogli di partecipare, lo spazio inquadrato dai montanti della soglia
si poneva come un quadro nella cornice che si “allontanava sulla parete”. Si
guardava la prospettiva oltre l’uscio, allontanando il pubblico se ne limitava lo
sguardo e la percezione. 75
Naturalmente il discorso non si conclude qui: lungo gli anni l’interesse verso
queste possibilità si è sempre maggiormente sviluppato e raffinato. Sicuramente
l’idea dello spiazzamento è già al centro del modo di lavorare di una parte delle
avanguardie storiche e dello stesso Dada, ma quello che a noi interessa quando
parliamo di spiazzamento è anche e soprattutto il rapporto strategico che si
instaura col fruitore.
Nelle Avanguardie accade spesso che questo modo di relazionarsi col pubblico
diventa un vero e proprio schiaffo, un oltrepassare e sconvolgere la sua cultura. Il
rapporto che cerchiamo di porre al centro noi è un po’ diverso. Il nostro modo di
valutare il rapporto tra opera e fruitore è ovviamente figlio di un’altra cultura, ed è
molto più interessato ad una vera e fondante possibilità interattiva e soprattutto ad
un sistema di conoscenza che inciti l’iniziativa del fruitore. Figli del web e allievi dei
browser siamo costantemente in contatto con i flussi ipertrofici di informazione on-
line. Collegati quasi involontariamente alle pratiche del web 2.0, viviamo
costantemente nel corto circuito di lettore/scrittore, osservatore/autore,
musicista/compositore. Non più qualcosa di statico e definito ma un vero e proprio
ambiente riprogrammabile. Una condizione che supera l’aggressività verso un
“pubblico borghese”, a favore di un maggiore coinvolgimento e interessamento,
nel tentativo di fornirgli delle nuovi chiavi di lettura del quotidiano, che si sviluppino
a partire non più semplicemente da oggetti, ma da processi e situazioni.
3.1.2. This is [was] Tomorrow, 1956: un’esperienza totale di
mediazione e organizzazione del POPolare non distante dal reale.
This is Tomorrow è una mostra tenutasi alla Whitechapel Art Gallery a Londra,
75 Cfr D. BERTRAND, Basi di semiotica letteraria, Roma, Meltemi Editore, 2002, p. 82
53
nel mese di agosto nel 1956 e sostenuta dal curatore Bryan Robertson. Concepita
dal critico Theo Crosby, che dopo aver partecipato nel 1954 ad un congresso a
Parigi con ad architetti, pittori e scultori, trovava molto interessante la possibilità di
concepire assieme un’esposizione. A confermare questo racconto vi è anche una
versione dell’anziano padre del Pop, Richard Hamilton in un’intervista con Hans-
Ulrich Obrist
Theo Crosby, editor of Architectural Design magazine, was involved in a congress
in Paris around 1954, where the idea was presented that architects, painters and
sculptors should get together. He organised a meeting and told us, “We must form
groups, so go away and talk amongst yourselves, and decide who you want to
work with.” 76
Nell’organizzazione della mostra erano coinvolti anche Reyner Banham,
Lawrence Alloway e alcuni membri dell’ I.G. (Independent Group), quest’ultimo è
oramai riconosciuto come l’indiscusso precursore della Pop Art in Gran Bretagna e
negli Stati Uniti.77
This is Tomorrow è stata sviluppata attraverso una vera e propria opera di
fucina, una sorta di laboratorio composto da diversi esperti. Il progetto per la sua
realizzazione ha occupato circa due anni ed è stato il risultato dello sforzo di dodici
gruppi di lavoro. Ogni team era composto dalle figure di un artista e un architetto,
affiancate da un designer o da un musicista, oppure da un ingegnere o ancora da
un critico.
Non si è trattato di un risultato omogeneo: effettivamente, ogni squadra ha
lavorato attraverso diverse strategie e motivazioni, considerando e progettando
assieme i lavori da esporre e organizzando lo spazio. Questo ha dato origine ad
una vera e propria varietà di situazioni78 con un allestimento composito, che
rifletteva soprattutto il loro particolare punto di vista sull’ambiente culturale
contemporaneo. Molto importante in questa esposizione è il legame con la 76 Da un’intervista di Hans-Ulrich Obrist a Richard Hamilton, “Pop Daddy” in Tate Magazin. Issue 4, http://www.tate.org.uk/magazine/issue4/popdaddy.htm.77 Cfr. M. LIVINGSTONE, Pop art: una storia che continua, Milano, Leonardo, 1990.78 Cfr. B. ALTSHULER (a cura di), This is Tomorrow in “Salon to Biennial. Exhibitions That Made Art History. Volume I: 1863-1859”, London, Phaidon, 2008, p.355.
54
questione Pop, soprattutto a causa della presenza dell’I.G., assieme ad un certo
interesse per il mondo della pubblicità e del cinema.
L’utilizzo di poster e di schermi cinematografici, che sembravano concorrere in
una corsa tra chi riuscisse a monopolizzare di più l’attenzione, serviva ad evocare
la varietà dell'ambiente esterno.
La scelta di parlare, anche se brevemente, di questa mostra, nasce da una
serie di esigenze funzionali alla mia ricerca e altrettanto utili al tentativo di
progettare un’esposizione labirintica, di cui tratteremo nel prossimo capitolo.
In effetti, se da un lato la questione dei gruppi di lavoro ibridi risulta comodo
soprattutto per cercare di creare dei dispositivi comunicativi utili alle strategie
complesse, come quella del labirinto, dall’altro lato trovo molto interessante che in
questa esposizione si sia lavorato abilmente per focalizzare l’attenzione sulle
condizioni culturali di allora, mettendole in mostra attraverso oggetti di quella
cultura che verrà successivamente definita Pop. Infatti, così facendo
the visitor is exposed to space effects, play with signs, a wide range of materials
and structures, which, taken together, make of art and architecture a many-
chanelled activity, as far from ideal standards as the street outside.79
La creazione di una serie di differenti artefatti e l’uso di diverse modalità di
comunicazione hanno messo in luce la necessità di trasversalità che le condizioni
di vita moderne richiedono all’arte, per far sì che essa riesca a rapportarsi con
sempre maggior intelligenza verso il pubblico.
Hanno contribuito all’interessamento le foto dell’esposizione [Fig. 6-7] e la
stessa pianta [Fig. 8] del progetto di allestimento, che mostrano uno spazio che
diviene molto complesso e articolato attraverso il costituirsi di situazioni in cui il
rapporto con il pubblico appare teso [Cfr. 2.4.3] e la stessa visione [Cfr. 2.4.4] più
che dispiegarsi, affiora come una manifestazione discorsiva, in un dialogo che
mette al centro dell’esibizione il fascino della ricerca e del mistero accompagnati
ad una non semplice lettura e comprensione della tumultuosità dei dodici
79 L. ALLOWAY Introduction 1 in Lawrence ALLOWAY, Reyner BANHAM, David LEWIS (a cura di), “This is Tomorrow” (catalogo della mostra), London, Whitechapel Art Gallery, 1956.
55
interventi.
3.1.3. Andare! Andare! Andare! “Ubi Fluxus Ibi Motus”
La mostra Ubi Fluxus Ibi Motus 1990-1962 è la rilettura del percorso Fluxus, a
esperienza oramai conclusa, «che nel suo divenire ha contribuito in modo
importante al profondo modificarsi dello “stato di cose presenti”, e non solo nello
specifico suo proprio, la storia dell’arte.»80 Curata da Achille Bonito Oliva e allestita
a Venezia negli Ex Granai della Repubblica alle Zitelle, coincise con la XLIV
Esposizione internazionale d’arte Biennale di Venezia tenutasi nel 1990, dalla
quale ebbe anche il patrocino. L’interesse a parlare di questa mostra nasce da un
lato da ciò che essa ha rappresentato come evento, dall’altro dal fatto che la sua
rilettura permette di far presente alcune delle scelte critiche di quel «collettivo
romanticamente cosmopolita»81 che avvallano l’esistenza di questo lavoro, legato
al labirinto e quindi ad un rapporto forte tra spazio e azione, dispositivo e utente,
arte e processo quotidiano di conoscenza, performer/artista e pubblico, di esistere.
Proprio per questo nel prendere in esame questo evento ho preferito
considerarlo non come se fosse strettamente legato agli anni in cui è avvenuto,
ma collocandolo nella linea di ricerca di questo lavoro come attività degli anni che
ne hanno dato i natali, e cioè gli anni Sessanta. A questo si aggiunge il debito che
Fluxus evidenzia nei confronti di Marcel Duchamp, del quale abbiamo parlato nel
precedente paragrafo.
È giusto partire da Marcel Duchamp, il fondatore del procedimento che viene
definito ready-made. Ovvero la possibilità di creare arte attraverso il prelievo
dell’oggetto quotidiano, lo spaesamento e la sua rifunzionalizzazione in termini di
contemplazione estetica nello spazio della galleria o del museo. Lo spiazzamento
dell’oggetto determina la nascita di un’”aura”, di un senso nuovo che permette
all’oggetto di viaggiare ad altri livelli e di attraversare la fantasia dello spettatore,
80 G. DI MAGGIO, Fluxus. “L’arte come sovversione individuale” in A. BONITO OLIVA (a cura di), Ubi Fluxus, ibi motus. 1990-1962 (catalogo della mostra), Milano, Mazzotta, p. 39.81 Ibidem.
56
imprimendo su di essa nuove cifre e nuove possibilità.82
Sin dal titolo si comprende di aver a che fare con una mostra molto strana. Un
evento che più che essere un’analisi postuma, è una (ri)attualizzazione di un
modo molto particolare di guardare all’arte. Se osserviamo bene la data del titolo,
ci accorgiamo che essa è invertita: l’intento è di evitare una rilettura pulita e
coerente, e forse meno fresca, che si fa dei percorsi ad attività terminata, ciò
perché l’arte presa qui in esame è
un’arte che non ama cronologie o l’idealità di un percorso lineare che non esiste
fuori dai percorsi accidentati della storia. Dal presente al duraturo presente
dell’arte. Un atteggiamento che non ama il partito preso della storia come
processo garantito a garantire dei flussi e dei moti della creazione. In tal modo la
storia diventa il flagrante regresso verso il passato, a partire dall’hic et nunc dello
spettatore che forma la propria esperienza attraverso il nomadismo del suo corpo
deambulante, negli spazi temporali della mostra, fatta di oggetti e di eventi.83
Negata così l’indagine storica e quindi totalmente liberi dai suoi
condizionamenti, l’accento viene posto sul flusso di persone che si muove dentro
spazi in cui si fa esperienza, attraverso la quale in maniera non per forza coerente
si entra in contatto con l’arte, vivendola in maniera del tutto intima e personale.
La conoscenza nasce sempre da un’esigenza politica, da una tensione
all’investigare gli strumenti e i fini dell’agire umano [che] permetta un allargamento
della coscienza e un suo giusto rapporto con la realtà. 84
Presentato anche solo attraverso le valutazioni critiche e gli intenti del curatore,
questo evento entra interamente all’interno delle dinamiche che stiamo prendendo
82 A. BONITO OLIVA, La bellezza della neutralità, in AA. VV., 44. Esposizione internazionale d’arte: La Biennale di Venezia. Dimensione futuro. L’artista e lo spazio, (catalogo mostra), Venezia, Edizioni La Biennale di Venezia, 1990, p. 89.83 A. BONITO OLIVA, “Ubi Fluxus, ibi motus” in A. BONITO OLIVA (a cura di), Ubi Fluxus, ibi motus. 1990-1962 (catalogo della mostra), Milano, Mazzotta, p. 13.84 Ivi p. 25.
57
in esame in questo lavoro ed ovviamente siamo noi a dover riconoscerne il debito.
A questo c’è da aggiungere che le idee critiche che mi hanno spinto in questa
ricerca risentono anche indirettamente dell’influenza di quelle Fluxus, soprattutto
perché la rivoluzione di questo “non movimento artistico” (come esso stesso si
definì) è stata tale da diventare fondante per quelle delle generazioni successive.
Detto ciò non può che esserne ancora più doverosa una presa in considerazione.
Evitando di parlare direttamente del fondatore di questo movimento, George
Macinus, inizieremo leggendo alcune parti dall’entusiastico resoconto che ne da
Carolyn Christov-Bakargiev sulle colonne di Flash Art n° 157
Mi ricordo, nella totale confusione e marea umana (artisti, pubblico, non si capiva
bene) che regnava, gli imballaggi buttati da una parte quasi a confondere le
“opere”, quasi a diventarne parte in assoluta mancanza di rispetto delle regole
canoniche di un allestimento classico. Capitavo, stupita, quasi per caso, davanti a
lavori che avevo visto ben in altri contesti clean e ordinati [...]. Mi ricordo
sostanzialmente di non aver capito nulla, di scambiare un artista per un altro e di
non trovare né catalogo né etichette.85
Ora andiamo avanti, cercando di capire bene come possano essere così
importanti e interessanti queste parole nonostante l’alea fosca del ricordo, un
ricordo, per di più, che si fonda su una comprensione non piena dell’evento.
Potrebbe apparire persino imbarazzante avviare un’analisi, che pretende di
mostrarsi obiettiva, su questo tipo di descrizione, ma valutare in questo modo la
situazione risulterebbe, questo sì, un vero sintomo di profonda incomprensione.
Parlare attraverso gli occhi di uno spettatore è l’unico modo per tentare di capire
davvero qualcosa.
Le strategie Fluxus, che inglobano il pubblico all’interno dell’atto
partecipativo/creativo, non sono individuabili all’interno di un’attenta descrizione di
ciò che gli artisti presentano, essendo le loro proposte ascrivibili a una nozione
non d’informazione asettica ma di comunicazione, fatta di accostamenti
imprevedibili e di altrettante posposte impreviste [Fig. 9], al fine di rifondare a
85 C. CHRISTOV-BAKARGIEV, “Ubi Fluxus ibi motus”, in Flash Art n° 157 estate 1990, p. 122.
58
livello antropologico l’esperienza artistica.86
L’unico vero modo per accostarvisi è l’immersione nel flusso di ciò che accade
o la valutazione, e qui è il nostro caso, delle sensazioni di chi si è tuffato all’interno
dei fatti. Con questa breve premessa, senza quasi fare a tempo di soppesare le
parole, siamo già stati investiti dallo scorrere tumultuoso di questa corrente
artistica.
Le gerarchie che designano gli scambi privilegiati di azioni e reazioni
implodono, così come si disintegrano le differenze tra dispositivo di presentazione
e oggetto presentato. Le pretese estetiche che accompagnano l’aggressività degli
oggetti artistici si perdono nell’utilizzo di oggetti semplici che reinventano il
quotidiano. Il cortocircuito che ne viene fuori avvicina a tal punto l’arte alla vita che
si dimentica di essere ad una mostra e ci si perde nel processo che accompagna
le azioni alle passioni. Interessantissime sono le parole del nostro inviato, che tolti
oramai i panni del critico ci confida entusiasta
di essermi divertita come ci si diverte nelle feste riuscite o nelle (passate)
assemblee studentesche, e di aver chiacchierato molto con i miei amici, gli stessi
con i quali stavo passando gli altri giorni del vernissage della Biennale, tra una
conversazione “inamidata” e l’altra.87
Forse questo potrebbe far sorridere e sono anche consapevole che possa
sembrare strano, ma quello che qui abbiamo visto supera i limiti di uno spazio
definito una volta per tutte e deflagra, e se confrontato alle parole con cui Lèvy
affronta il cyberspazio non sarà difficile cogliere l’importanza delle mille
declinazioni Fluxus per l’arte e la società del ventunesimo secolo: «[...] un evento
collettivo che coinvolga i destinatari, che trasformi gli ermeneuti in attori, che metta
l’interpretazione in circuito con l’azione collettiva.» 88
L’evento Fluxus qui preso in esame si sviluppa in maniera liquida. Attrae e
ingloba nel suo percorso il fruitore che, investito dalla piena, stenta a riconoscere
86 Cfr. A. BONITO OLIVA, La bellezza della neutralità, 1990, op. cit., p. 92.87 Ivi pp. 122-123.88 P. LÉVY, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, trad. it. M. Colò, D. Feroldi, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 130.
59
gli artisti. Gli viene tolta, anzi non gli viene offerta la possibilità di conoscere nomi e
date, di capire cosa sia o non sia arte. È inserito nella condizione di non poter
capire. Non riesce a trovare una definizione, una certa e chiara idea. Perde
persino la competenza di distinguere le opere dagli imballaggi. Le sue categorie
conoscitive si avvolgono su se stesse, si aggrovigliano in un gomitolo impossibile
da sbrogliare. Per capire il discorso serve cambiare registro, bisogna mettere in
campo un nuovo metodo di conoscenza legato soprattutto all’ambito passionale
[Cfr 2.3]. Seguendo lo stato d’incertezza che scuote il fruitore, ci accorgeremo che
egli si troverà nella condizione di reinventare le sue metodologie di conoscenza.
In questa nuova esperienza artistica la figura del destinatario, trasformata già
dalla centralità della sua posizione all’interno di queste attività, è seriamente
tenuta in gran considerazione. Il suo agire nella mostra diventa sempre più un
agire critico fondamentale. Superato il primo sconcerto e disorientamento, se
riuscirà a perdersi davvero nel flusso di un tale percorso avrà acquisito dei nuovi
punti di vista. Più smaliziati e meno legati alle sue, forse troppo inamidate,
aspettative iniziali.
A pensarci bene, però, quel disordine e quella confusione erano molto più vicini a
quello che si vive andando nello studio di molti artisti che non andando a vedere le
loro mostre, come se mantenessero un grado di autenticità perché vita e arte
pericolosamente e miracolosamente si avvicinano.89
Lo statuto di pubblico viene sempre più innalzato. L’esposizione perde quella
pulizia e astrazione che caratterizza i classici allestimenti ed è proprio qui, in un
momento successivo dal punto di vista cognitivo, che i visitatori dovranno usare la
loro acquisita competenza per leggere e interpretare coi loro occhi, attraverso
nuove riflessioni.
Anche la questione della forma, che pian piano perde il legame con gli oggetti a
vantaggio di un nuovo modo di legarsi alle contingenze, tende difatti a coniugare
gli elementi per sollecitare un doppio processo di conoscenza: uno specifico
riguardante l’opera e l’altro più generale riguardante le sue relazioni col mondo.
89 C. CHRISTOV-BAKARGIEV in Flash Art n° 157, 1990, op. cit., p. 123.
60
Siamo già in odore di forma e attitudine, manca solo quel piccolo passo in più che
compie Szeemann nel porle al centro del suo discorso.
3.1.4 C’è un tempo in cui le attitudini diventano forma
In questo paragrafo vorrei affrontare senza troppe pretese alcuni aspetti della
famosa mostra organizzata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di
Berna, di cui egli stesso era il direttore, dal titolo “Live in Your Head. When
Attitudes Become form. Works-concepts-processes-situations-information”.
Evento tra i più rivoluzionari per quanto riguarda le metodologie curatoriali, la
mostra di Berna segna l’inizio di un nuovo modo di concepire l’evento d’arte. Si
supera l’idea di una serie di oggetti messi in bella mostra e proposti al pubblico
[Fig. 7]. Questo è già evidente a partire dai primi passaggi e da come prende
forma il progetto. Dal punto di vista organizzativo Szeemann prende contatto
direttamente con gli artisti, i quali sono essi stessi che pian piano presentano altri
amici artisti.90 Già questo è sintomatico di un nuovo modo di lavorare. Non sono le
opere ma gli artisti ad essere selezionati, in base spesso ad un sentire comune e
ad essere invitati poi a lavorare direttamente all’interno del progetto della mostra.
E’ esattamente questo il cardine rivoluzionario che tale evento ha reso esplicito sin
dal titolo. Non si parla di opere ma di atteggiamenti ed è proprio ciò che ha fatto il
curatore svizzero: ha selezionato delle attitudini91.
Tema centrale e contenuto non sono più la caratteristica principale dell’arte
odierna, la forma dello spazio, bensì l’attività dell’uomo, dell’artista. A questo punto
si può capire anche il titolo (una frase e non uno slogan) della mostra:
l’atteggiamento interiore dell’artista non è mai diventato opera in modo tanto
diretto.92
90 Cfr. M. BORTOLOTTI, Il critico come curatore, Milano, Silvana Editoriale, 2003, p. 61.91 Cfr. D. BIRNBAUM, “When attitude becomes form: Daniel Birnbaum on Harald Szeemann” inARTFORUM, New York, Summer, 2005, XLIII, No. 10, p. 55.92 H. SZEEMANN, “When Attitudes Become Form, Live in your head” in L. DE DOMIZIO DURINI, Harald Szeemann. Il pensatore selvaggio, Milano, Silvana Editoriale, 2005, pag. 149.
61
Questi intenti ricadono proprio dentro «alla cosiddetta cura processuale. La
cura processuale propriamente detta si distingue per la prassi costitutiva ed
attutiva dell’operazione organizzativa.»93 In questo breve ragionamento siamo
interessati ad evidenziare come a partire da questo evento, in cui cambia il
rapporto tra arte e critica, varia anche il legame tra opere e pubblico. Difatti,
l’evento, assume una modalità di comunicazione talmente innovativa che la
centralità materiale dell’oggetto scompare a favore di situazioni e sensazioni,
portando lo spazio della mostra a esplodere sotto l’azione combinata dalle opere.
Sintomatico di un rapporto vigoroso tra artista e curatore, questo progetto
rappresenta è un vero e proprio scambio e passaggio di consapevolezze. Lo
stesso spazio che il curatore svizzero organizza assieme ai partecipanti non ha il
semplice scopo di esporre ordinatamente e sistematicamente gli artisti. L’azione è
ben diversa. L’area della Kunsthalle di Berna non è articolata, ma ad articolarne e
complicarne l’interno ci pensano gli artisti, i quali (è lo stesso curatore a dirlo)
hanno rilevato l’istituzione94. Influenzato forse dalle sue passate esperienze in
teatro egli mette in scena un “caos controllato”95, disponendo le opere tutte
assieme. In questo modo predispone una specie di spazio utopico in cui i vari
lavori si relazionano tra di loro e al tempo stesso riescono ad essere la
manifestazione formale della personale tendenza del proprio creatore.96
Nello sviluppo spaziale non è molto sentito l’interesse verso la distanza e la
tensione non è provocata da un non poter vedere o da un poter non vedere [Cfr.
2.4.3]; al contrario, vi è la massima possibilità di vedere. Non possiamo non
vedere [Cfr.2.4.5], questo crea una situazione di abbagliamento. Tutto è visibile,
tutto è dato alla nostra percezione. Siamo in una specie di condizione di
sospensione. Non ci sono degli espliciti e definiti nodi da attraversare, che
mettono in comunicazione gli ambienti e le situazioni. Siamo così sicuri di questo?
Potrebbe non trattarsi di un labirinto?
93 D. SCUDERO, Manuale del curator, Roma, Gangemi Editore, 2004, p. 75.94 Cfr. D. BIRNBAUM, “When attitude becomes form: Daniel Birnbaum on Harald Szeemann” inARTFORUM, Summer, 2005, op.cit. p. 55.95 Cfr. Ibidem96 Cfr. D. J. MEIJERS, Il museo e la mostra “a-storica”. L’ultima trovata degli arbitri del gusto o un fenomeno culturale importante? in C. RIBALDI (a cura di), Il nuovo museo. Origini e percorsi, vol. 1, Milano, Il Saggiatore, 2005, p. 220.
62
Potrebbe essere! Non tutto, in fondo, è un labirinto, - e aggiungerei - per
fortuna. A dire il vero forse non è questo il caso. A risolvere una tale impasse, ci
può aiutare la chiusa del racconto di Borges I due re e i due labirinti, un testo
molto conosciuto dello scrittore argentino.
Lo legò su un veloce cammello e lo portò nel deserto. Andarono tre giorni e gli
disse: “Oh, re del tempo e sostanza e cifra del secolo! In Babilonia mi volesti
perdere in un labirinto di bronzo con molte scale, porte e muri; ora l’Onnipotente
ha voluto ch’io ti mostrassi il mio dove non ci sono scale da salire né porte da
forzare né faticosi corridoi da percorrer né muri che ti vietano il passo”. Poi gli
sciolse i legami e lo abbandonò in mezzo al deserto, dove questo morì di fame e di
sete. La gloria sia con Colui che non muore. 97
Il rapporto con i fruitori è libero e aperto. Oserei dire quasi dai risvolti illimitati.
Anzi è proprio per questo suo essere all’opposto di un labirinto con pareti e
meandri, che assegna allo spettatore la totale libertà di dover organizzare il suo
cammino e il suo processo di scoperta, che le sue potenzialità risultano pressoché
infinite.
Viene in questo modo lasciata aperta la relazione tra artista e pubblico. Tant’è vero
che nella maniera più ampia e difficile, dovrà essere quest’ultimo a diventare parte
del processo di creazione, nella maniera più ampia e difficile, per poter passo
dopo passo comprendere il senso del caos controllato che gli si dispiega innanzi.
Il nostro interesse a parlare di questo evento supera l’idea di labirinto inteso
come forma complessa, il suo vero legame sta proprio nel fatto che ci troviamo in
una condizione in cui le attitudini diventano forma. Effettivamente ciò è centrale
nell’organizzazione di uno spazio labirintico: le forme, i meandri sono proprio delle
attitudini formalizzate. Proviamo a pensare già solo al fatto che il labirinto è
cristallizzato in una figura a partire dai movimenti di una danza [Cfr. 1.2] e nell’
avviarsi dalle forme è molto interessante cercare di far rivivere una parte della loro
processualità.
97 J. L. BORGES, I due re e i due labirinti in L’aleph, trad. it. di Francesco Tentori Montalto, Milano, Feltrinelli, 1959.
63
Opere, concetti, processi, situazioni, informazione sono le “forme” in cui questi
atteggiamenti artistici hanno trovato espressione. Sono “forme che non sono nate
da opinioni figurative preconcette, ma da un evento del processo artistico.98
3.1.5. LAB(irinto)
Se nelle precedenti osservazioni abbiamo lavorato molto con l’ambito teorico e
critico, in questo breve discorso vorrei avvicinarmi per analizzare un percorso più
pratico, semplice, ma non per questo inefficace, al contrario. Quello di cui vorrei
trattare è forse uno dei più interessanti progetti nel quale ho avuto la fortuna
d’incappare in questo mio incedere labirintico. Un allestimento e dispositivo
comunicativo, realizzato nel 2004 per il Kröller-Müller Museum di Otterlo [Fig. 14]
dal Gruppo A12. Il titolo del lavoro è LAB. ed è esplicitamente ispirato al labirinto
inteso come
metafora della città e della vita urbana: difficoltà di districarsi tra le direzioni,
impossibilità di cogliere con chiarezza un punto d’ingresso e uno di uscita.
Labirinto come condizione esistenziale condivisa, da reinterpretare, da
rappresentare, da assumere come oggetto di riflessione. 99
L’idea del gruppo ha preso il via dalla proposta della curatrice Nathalie
Zonnenberg di creare un contenitore, non neutro, capace esso stesso di parlare,
di raccontare il tema [Fig.15]. Il progetto si è focalizzato sulla possibilità di creare
uno spazio aperto che fosse anche spazio espositivo, scultura a grande scala,
giardino, dispositivo percettivo, strumento della visione, percorso sensoriale,
allestimento di un’idea curatoriale, messa in forma della collaborazione creativa tra
artisti, curatori e architetti. 100
98 H. SZEEMANN, When Attitudes Become Form, Live in your head in L. DE DOMIZIO DURINI, 2005, op. cit., pag. 149.99 gruppo A12, Lab, Padiglione temporaneo nel parco del Kröller-Müller Museum di Otterlo, Olanda in G. MASTRIGLI (a cura di), Holland-Italy. 10 works of architecture, Milano, Electa, 2007, p.76.100 Ibidem.
64
Tra il progetto LAB. e le opere ospitate vi è una forte rima: gli otto artisti
intervenuti a collaborare, infatti, sono accomunati dall'utilizzo delle strutture
comunicative urbane come mezzo d'espressione. Tutto il progetto si sviluppa,
quindi, attorno alla questione della metafora della città e lo stesso allestimento non
è da meno. All’idea tipica della configurazione a meandri che caratterizza la forma
dei labirinti, il Gruppo sostituisce corridoi stretti e angusti [Fig. 11], ma soprattutto
una tripartizione [Fig. 13] di spazio che gioca comunque «con il senso di
disorientamento e con il contrasto e l’incomunicabilità tra spazi diversi, tra “interno”
ed “esterno”.»101
Inoltre la soluzione costruttiva che abbiamo scelto presenta la struttura portante a
vista sempre sulle superfici esterne dei muri, sovvertendone l'ordine abituale e
creando una notevole complessità spaziale: nessun ambiente risulta del tutto
"stabile" e definito, perché ci si rende conto che non potrebbe esistere senza
quello che gli è esterno.102
Percorrere il corridoio sottostando alla sua limitazione e claustrofobia vuol dire
rapportarsi alla manovra di perdita del controllo, di visione e quindi di
comprensione. Esplorandolo è possibile giungere ai vari piccoli padiglioni in cui
sono ospitate le opere, in ambienti totalmente bianchi, dominati dalla luce
proveniente dal soffitto traslucido e fortemente contrastanti con la matericità e
naturalità di tutto il resto. Da lì si riesce ad intuire la presenza di un ulteriore spazio
interno, il cortile, dove sono collocate delle statue, settore non raggiungibile dal
corridoio, ma accessibile in maniera indipendente dall’esterno. In questo
semplicissimo modo si separano le diverse aree di fruizione, si mantiene una certa
distanza rendendo momentaneamente inaccessibile un luogo, innescando così un
gioco di tensione [Cfr. 2.4.4]. S’intuisce la presenza attraverso piccole aperture
[Fig. 12] di questo spazio interno, si spinge dentro lo sguardo, ma non è subito
possibile prendere parte completamente alla fruizione. Per riuscire a raggiungere
101 Ivi p.78.102 G. NEPI, Un labirinto olandese. Il gruppo A12 al Kröller-Müller Museum di Otterlo, 17 Maggio 2004, montelocale.it (diretto da Laura Gugliemi), montelocale s.r.l. Genova, 2000-2009, http://www.mentelocale.it/arte/contenuti/index_html/id_contenuti_varint_9784.
65
quest’altra area si dovrà uscire nuovamente all’esterno e attraversare con una
scala a ponte il corridoio. Questo punto sopraelevato è l’unico che mette in
comunicazione il fuori col dentro e che modifica anche il rapporto con l’intero
dispositivo. L’essere sopra la linea di confine del corridoio permette anche una
visione di quest’ultimo dall’alto. La complessità e la divisione degli spazi è domata
e la stessa struttura da percorso diventa una scultura/installazione che unisce,
collega e raccoglie le diverse opere messe in mostra; ma basta discendere
nuovamente la scaletta a ponte e di nuovo le strutture divisorie diventano alte e
riappare la trepidante magia del labirinto.
Siamo agli antipodi dell’idea che abbiamo seguito in Ubi fluxus ibi motus e in
When Attitudes Become Form, dove il controllo comunicativo era al limite
dell’assenza (non assente ma al limite): qui invece siamo al massimo del
controllo. Ci troviamo comunque in un caso di sottrazione, soprattutto della visione
e della possibilità di percepire l’ambiente che comunque resta frammentato.
Nonostante tutto ciò trovo in queste diverse esperienze qualcosa di simile, una
conoscenza in divenire, che innova e che sprona, anche se attraverso differenti
metodologie, una partecipazione critica.
3.2. La pratica del Labirinto
In questa seconda parte ho deciso di trattare alcuni artisti verso i quali sento un
forte debito, artisti che sono riusciti a mettere in gioco in vario modo alcune idee,
che mi hanno guidato in questo lavoro. Il mio intento è di parlare di lavori e opere
che fanno uso di strategie labirintiche e non di fare una semplice catalogazione in
base alle caratteristiche formali di ciò che possa essere considerato, o meglio,
avvicinato ad un labirinto. A questo c’è da aggiungere che i lavori presi in
considerazione vanno al di là di una definitiva e netta contrapposizione tra arte,
architettura, allestimento e se in questo capitolo ho scelto di operare una sorta di
distinzione, ciò accade semplicemente per una questione di comodità espositiva.
Fermo restando, comunque, che la trasversalità che il mondo dell’arte
66
contemporanea esige (arte intesa nella maniera più ampia del termine) supera
qualsiasi configurazione a tenuta stagna.
3.2.1. Una pratica iniziatoria: Dan Graham
Il primo artista di cui intendo parlare è Dan Graham e i lavori sui quali ho posto
molto del mio interesse sono i Pavilions, delle strutture architettoniche per la
maggior parte dei casi composte da superfici di vetro riflettente e spesso installati
in spazi all’aperto come parchi o giardini. Qui mediante l’interazione tra finestre,
specchi e luce lo spazio non è solo diviso, trasformato: meglio ancora, esso è
riprogrammato. Dentro o intorno a uno dei suoi padiglioni il visitatore si trova
innanzi a un
diverso tipo di coinvolgimento o, per adattare un termine della fenomenologia, a
una diversa intenzionalità. Dopo qualche istante si accorgerà, infatti, di essere
attratto non dalla forma del padiglione né dalle serene prospettive, come nel caso
di un belvedere, bensì dalle vedute e dalle immagini improvvise riflesse qua e là
lungo tutte le pareti di vetro-specchio del padiglione: immagini di sé accanto ad
altri che si trovano, in quel momento, a passare in quel luogo. Non più, dunque, un
visitatore assorto nella contemplazione, ma un visitatore che si accorge e diventa
consapevole di sé.103
L’importanza dei lavori di Dan Graham è rintracciabile proprio in questo
rapporto che muta lo statuto di spettatore, col quale essi si pongono in uno stato di
variabilità e irregolarità. Per esempio se pensiamo al fatto che il vetro-specchio
cambia la sua caratteristica di riflessione o trasparenza col variare del tipo e
dell’angolazione della luce, ci accorgiamo di avere a che fare con una questione di
contingenza e di posizionamento dell’osservatore rispetto ad esso. Il gioco quindi
si complica, diventa non solo un problema di specchi, ma più che altro una
circostanza di visione che cambia, rimanda, riflette e/o si cela. «Il visitatore si
103 B. HATTON, Dan Graham Pavilions, Roma, Testo & Immagine, 2002, p. 20.
67
accorgerà, allora, di essere più partecipante che spettatore, poiché il padiglione si
rivelerà più mezzo di comunicazione che architettura.»104 Non più un oggetto, ma
una questione comportamentale in fieri. Le sue opere sono da intendere come dei
dispositivi che organizzano la trasmissione e istruiscono l’utente alterando la sua
natura mentre prende parte all’”azione”.
L’opera di cui ho deciso di trattare nello specifico è provvista persino di una
vera e propria funzione d’uso. Vista la centralità del tema del labirinto in questa
ricerca, sarebbe forse stato più naturale parlare per esempio di Two-Way Mirror
Punched Steel Hedge Labyrinth, lavoro in cui le facce di vetro-specchio si
raccordano a pareti arboree di viti, iscrivendosi così all’interno dell’ambiente
naturale come un labirinto di siepi e vetro a memoria dei labirinti di siepi da
giardino. Nonostante ciò, come dicevo la mia attenzione è caduta su un pavilion di
Graham, che ha persino una funzione: il Café Bravo [Fig. 16], costruito fra il 1995
e il 1998 nel cortile del Kunst-Werke a Berlino.
A dire il vero la mia scelta è legata da una parte proprio a questa condizione,
visto che questa sua natura di luogo di ristoro e di relax gli consente di entrare in
contatto col pubblico attraverso un diverso livello discorsivo, per giunta con un
pubblico non per forza conscio della situazione a cui si sottopone. Dall’altra trovo
molto interessante il fatto che questo luogo si riferisca alla fase adolescenziale,
parte importantissima per quel che riguarda lo sviluppo dell’individuo, quella in cui
la persona riceve l’imprinting destinato a incidere sull’intera sua vita.
Il Café è direttamente legato a Two Adjacent Pavilions [Fig. 18], il cui primo
modello venne messo a punto nel 1978. Nonostante l’aggiunta dell’arredamento
interno e l’aumento delle dimensioni, le caratteristiche sono rimaste invariate. È
stata conservata anche la differente proprietà dei due soffitti di vetro per i due cubi
[Fig. 19]: un tetto infatti è trasparente mentre l’altro è realizzato con un vetro
traslucido.
Il lavoro di Dan Graham prende ispirazione dalla rivista tedesca “Bravo”, mirata
a un pubblico giovanile. All’interno di questo magazine sono trattati i più diversi e
disparati temi, dai più leggeri, a proposito delle stelle e cantanti pop, sino ai più
104 Ibidem.
68
seri come i problemi che i ragazzi incontrano crescendo, delle preoccupazioni che
gli adolescenti hanno con la propria immagine, a quel che i ragazzi devono fare o
non fare, all’aspetto che devono avere e non avere e così via.
Il legame con il lavoro che stiamo seguendo, forse, non appare a questo punto
molto chiaro. Ma se ricordiamo bene, il tema dell’adolescenza non è tanto distante
dal concetto del labirinto, usato spesso nelle pratiche iniziatorie. L’uso del vetro-
specchio inserito in un contesto quotidiano apre e dispiega la percezione del
fruitore circa se stesso e lo spazio che lo circonda.
La riflessione, che la superficie specchiante consente di avere di sé all’interno
del contesto, dispiega delle informazioni circa se stessi dentro il tessuto sociale. Si
ha un feedback diretto e certo, non un semplice riflesso fermo e autoreferenziale,
ma una visione attiva colta nel divenire della vita.
Attraverso lo specchio, il mio esterno si completa, tutto ciò che ho di più segreto
passa in questo viso, questo essere piatto e chiuso, di cui già sospettavo
l’esistenza vedendo il mio riflesso nell’acqua. 105
Tenendo a mente questo discorso, diventa anche più comprensibile come le
opere di Graham possano essere intese come dispositivi comunicativi, oltre che,
nello specifico di questo caso, essere la sede di un bar. I vetri-specchio usati
dall’artista americano, sono simili a quelli usati per i grattaceli in vetro, a differenza
di questi ultimi, però, non sono specchiati solo dall’esterno, ma da entrambe i lati.
Le caratteristiche che le superfici assumono dipenderanno, quindi, dalle condizioni
della luce naturale. Ci potrà essere maggior riflesso dall’interno verso l’esterno o
viceversa (aspetti, questi, che varieranno sia nell’arco della giornata, che rispetto
alle condizioni atmosferiche). Oltretutto potrebbe trattarsi non sempre di un riflesso
pieno le cui caratteristiche, poi, dipenderanno anche dall’angolazione del punto di
vista dell’osservatore. In questo modo si viene configurando la perdita della
profondità, a favore di un effetto di fantasmagoria. L’interno e l’esterno si
105 M. MERLEAU-PONTY, L’occhio e lo spirito, Milano, SE SRL, 1989, p. 27.
69
sovrappongono [Fig. 17] e lo stesso osservatore vede la sua posizione certa
diventare meno sicura. Non solo smarrimento ma un bisogno di riadattarsi alle
condizioni che si vanno configurando.
La struttura traduce l’immagine del corpo umano in un riflesso a più strati e a più
facce: chi osserva, e si vede rispecchiato, non vede subito se stesso oppure non si
rende conto subito di avere di fronte la propria immagine riflessa. Gli occorre un
po’ di tempo per capire che ciò che il suo occhio scorge e penetra sono vari strati
di vetri a specchio, così da rivelare ad’un osservazione più attenta, sia la propria
immagine, in piedi nel giardino mentre guarda dentro al Café Bravo, sia se stesso
che dall’interno di Café Bravo guarda i passanti.106
Una tale “finestra” trasmette la sua presenza, ma allo stesso tempo diventa un
modo per sottolineare le caratteristiche di ciò che sta da un lato e dall’altro dal
vetro. Lo sviluppo comunicativo che un oggetto tale collocato nel fluire della vita
ha, è da intendere come un sistema per istruire e rinnovare la visione del proprio
io, in relazione a tutto ciò che gli sta intorno. L’attenzione alterata da questa sorta
di membrana osmotica resta comunque non legata ad un’informazione sicura e
definita, ma più che altro ad una fenomenologia frammentaria, come i un giardino
barocco. Infatti l’interazione tra la facciata dei due cubi a specchio e il cortile
interno del museo sembra proprio riecheggiare quelle di un giardino seicentesco.107
Se elementi come finestre, specchi e luci
sono comparsi marginalmente nella storia dell’architettura, è perché essi scindono
la visione dal suo oggetto, confondono la categoria di forma e liberano la
soggettività fra rimbalzi e riflessi, 108
106 K. BIESENBACH, “Immagini in movimento di spazi polimorfi” in G. Celant (a cura di), Arti & Architettura:1968/2004. Scultura, pittura, fotografia, design, cinema e architettura: un secolo di progetti creativi, Vol II, Ginevra-Milano, Skira, 2004, p. 472. 107 Ivi, p. 471.108 B. HATTON, Dan Graham Pavilions, 2002, op. cit. p. 21
70
proprio per questo la loro presenza invece è forte nel lavoro di Graham, la cui
ricerca è legata soprattutto a ciò.
3.2.2 (Ri)Trovare il corpo: Studio Azzurro
Nel mio continuo e lento incedere tra i corridoi, nei meandri più profondi, mi
accade, passo dopo passo, di credere sempre più di essere nella direzione giusta.
C’è da dire, che per tentare di uscire dai labirinti sono state messe appunto delle
serie di algoritmi. Il caso vuole però che il più delle volte suonino come delle
massime, più che come delle pronte e rapide soluzioni. Al di là delle particolarità,
tutte, più o meno, si fondano sul concetto dell’esplorare il più possibile, col minor
dispendio di energia. Fondamentalmente, quindi, il gioco sta nel cercare di andare
avanti, stando attenti a non tornare eccessivamente sui propri passi. Secondo
Rosenstiehl, appunto, la frase che Dedalo disse ad Arianna e che lei poi avrebbe
consegnato a Teseo assieme al gomitolo, di cui lei stessa reggeva il capo,
sarebbe stata «Srotola sul nuovo, altrimenti riavvolgi il meno possibile.»109 Lo
stesso tipo di consiglio ho cercato di seguire io all’interno di questa ricerca.
Allo Studio Azzurro sono arrivato, forse, nel modo più semplice che nel caso di
altri artisti o di altri dispositivi comunicativi. La cosa che mi ha guidato a parlare di
questo gruppo è stato il rinnovato avvicinamento all’aspetto multisensoriale. La
fisicità dei loro lavori o meglio, delle loro operazioni, coinvolge una serie di
situazioni e di sensazioni che è impossibile tenere fuori da un lavoro sul variazione
delle possibilità conoscitive, delle passioni, accompagnata dal controllo e da
un’iniziale vertigine.
Procedendo nell’utilizzazione di sistemi tecnologici avanzati ne sfruttano a pieno la
potenza ma ne nascondono la minacciosa presenza per non frenare il potere
seduttivo delle bellissime immagini da esse generate. Liberano poi i fruitori da
109 P. ROSENSTIEHL, “Cosa disse Dedalo ad Arianna porgendole il filo?”, in R. ARAGONA (a cura di), Le vertigini del labirinto, Napoli, Ed. Scientifiche Italiane, 2000, p. 45.
71
qualsiasi condizionamento e li dispongono al gioco, alla curiosità, alla riflessione.
Attraverso la semplicità, la facilità del gioco insegnano a tutti, a chi ha il passo
incerto, a chi ce l’ha più sicuro, a procedere nello spazio per capire le regole, per
farle proprie, per reinventarle. E in questo modo, avvicinandoci al loro magico
mondo narrativo, ci fanno complici di una nuova concezione dell’arte, di un diverso
procedere nel cammino della conoscenza.110
L’effetto di incomprensione dinanzi ai loro lavori lo si ha solo se non si è
responsabilmente interessati a partecipare alla fruizione come un novello Teseo.
In realtà, solo attraverso la voglia a partecipare e la consapevolezza a scegliere
questo vuoto inizia, passo dopo passo, ad essere colmato.
Per esperire un percorso di questo tipo, è indispensabile rendersi conto che
non vi sono risposte certe, ma più che altro vi sono atti di negoziazione. La figura
del visitatore non deve essere, quindi, a-critica; al di là di questo, comunque resta
il fatto che non è abbandonata o lasciata totalmente alla deriva in questa attività.
Credo che il lavoro di Studio Azzurro, questo muoversi da un’opera all’altra, sia
poeticamente rivolto a sollecitare una proposta di nuova identità per l’uomo di oggi,
che avviene attraverso tante e sempre continue esperienze.111
Se teniamo a mente quanto appena detto, ci accorgiamo che il loro lavoro si
lega molto alla pratica della ricerca e della conoscenza, intesa, soprattutto, come
consapevolezza. Il suo modo di operare prevede, più che un nuovo modo di
percepire la realtà, un quasi dimenticato e antico sistema di esperirla, ma proprio
in questo cortocircuito sta il nocciolo della situazione. Giungo al dunque: sono
proposte delle situazioni in cui mediante un insolito sistema di relazione, si arriva a
scegliere e scegliendo si partecipa, si prende parte sino a cambiare la stato di
un’opera.
Nell’arte interattiva l’uomo mette in gioco, dunque, non solo la sua intelligenza ma
110 M. G. TOLOMEI, “Mettersi in gioco”, in F. CIRIFINO, P. ROSA, S. ROVEDA, L. SANGIORGI (a cura di), Studio azzurro: ambienti sensibili. Esperienze tra interattività e narrazione, Milano, Electa, 1999, p. X.111 Ivi, p. XI.
72
il corpo e i sensi e ne prevede una trasformazione, sfiorando una problematica che
coinvolge oggi molto sperimentazione artistica. Su queste istanze si muove la
ricerca di Studio Azzurro, cerca di eliminare le distanze tra artista e fruitore, sfrutta
una dimensione di gioco e conoscenza, coinvolge il corpo e i sensi allontanandosi
da una comprensione dell’arte esclusivamente intellettuale.112
Nel parlare di questo gruppo anzi di questa “bottega rinascimentale” come loro
stessi amano definirsi, non ho affrontato (non essendo questo il mio intento)
direttamente la storia dello sviluppo del loro lavoro. Più che altro perché vorrei
evidenziare e “saccheggiare” dalle loro pratiche, le modalità con le quali si possa
giungere a creare e operare attraverso una relazione forte e interessante con il
fruitore.
Per affrontare ciò che stiamo tratteggiando, ho creduto bene parlare di alcuni
dei loro lavori, e non solo di un’opera, perché credo che proprio attraverso un
analisi attenta alle diversità ed ai punti di contatto possano emergere una serie di
posizioni molto importanti per questa mia ricerca.
Tra le opere di Studio Azzurro quella che per prima ha attratto la mia attenzione
è un lavoro che non fa parte del gruppo dei percorsi interattivi, ma che per molti
aspetti ne preconizza la venuta. Interessante, soprattutto perché segna un modo
di rinnovare il procedimento con cui entrare in contatto con il mondo che ci
circonda.
“Il Giardino delle cose” è un’opera del 1992 e fa parte della serie dei “video
ambienti”. Installato in un ambiente non troppo luminoso il progetto è composta da
una fila di monitor [Fig. 20], uno di fianco all’altro, come un’unica fessura
trasversale, che taglia la parete con il suo fondo monocromo, uguale su tutti gli
schermi. Non un video che racconta, narra o descrive, ma uno schermo pieno di
blu, un blu elettrico, innaturale. A questo si aggiungono una serie di coordinate
numeriche che occupano la parte alta della videata. Nel giro di pochi attimi si
fanno avanti, sui monitor, le silhouette bianche di due mani [Fig. 21]. Non è molto
chiaro fin da subito cosa succeda. Si muovono sul colore piatto. Compiono dei
112 Ivi, p. X
73
gesti nel vuoto, gesticolano segni non comprensibili. Stringono, toccano
accarezzano, riscaldano. Sì, dopo un po’ ci si rende conto che proprio questo è il
punto: riscaldano. Pian piano, infatti sotto il palmo delle mani, e davanti ai nostri
occhi, un oggetto prende forma, una nuova silhouette bianca dai tratti meno
definiti di quelle delle due mani comincia ad apparire. Emerge dal monocromo
fondale attraverso la manipolazione delle due mani che, pian piano riscaldandola,
le consentono di essere colta dalla camera termica.
L’azione che si sviluppa davanti ai nostri occhi è un’assidua lotta tra il caldo e il
freddo, l’apparire e lo scomparire, il poter vedere e il poter non vedere [Cfr. 2.4.5],
visto che appena le mani avranno abbandonato la superficie dell’oggetto e
smesso di riscaldarlo, esso sarà nuovamente inghiottito dal blu di prima. Ingoiato
dal freddo e nascosto alla videocamera come pure a noi, testimoni di questa breve
epifania.
La sua apparizione non dipende quindi dalla luce, ma da qualcosa di più a
stretto contatto. L’oggetto viene scoperto attraverso il tatto. A permettere la visione
sono le mani. Le mani che mostrano, che scaldano e che si fanno medium della
condizione di vedere. Ci troviamo davanti ad una sorta di corto circuito tra tatto e
vista. Una sinestesia che ci aiuta a ricordare che esiste un diverso modo per
entrare in relazione con le cose: il contatto. Sicuramente un modo meno distante
e, qui è proprio il caso di dirlo, meno freddo. Resta poi d’aggiungere che avanzare
a tentoni, usando le mani è un ottimo sistema quando si è colpiti eccessivamente
dalla vertigine. Quando nella paura di perdersi non riusciamo più a tenere a freno i
pensieri per progredire nel nostro incedere.
Mi chiedo se a questo punto serva però accennare qualcosa riguardo al
legame tra questo lavoro e il labirinto?
Forse sì. Mi rendo conto che a volte possa non risultare automatico cogliere i
passaggi che realizzo quando collego il discorso del labirinto con delle opere.
Ciò accade perché in fondo, in questa mia ricerca, ho imparato che non
esistono solo labirinti spaziali, o con delle caratteristiche formali definite. Se
badiamo alla sostanza, ci rendiamo conto che il labirinto spesso supera i limiti a
cui siamo abituati a circoscriverlo. Basti pensare che Johan Sebastian Bach ha
composto un vero e proprio labirinto musicale, l’opera per organo BWV-591,
74
meglio conosciuta come il Piccolo labirinto armonico (Kleines Harmonisches
Labyrinth). Sviluppata con una struttura armonica piuttosto disorientante, le frasi
musicali giocano con delle modulazioni, tra tante tonalità e sviluppi enarmonici che
possono essere assegnati a varie tonalità. Ma torniamo ora, cercando di tenere
ancora a mente questa difficoltà a orientarci, allo Studio Azzurro. Similmente in
quest’opera di cui stiamo discutendo ci troviamo nella situazione di non capire
cosa stia accadendo. Dal punto di vista formale ciò che vediamo sullo schermo
non è difficilmente comprensibile, ma il dunque sta oltre la semplice forma delle
silhouette. Nella relazione tra ciò che accade davanti ai nostri occhi e il come
accade, c’è un avvenimento che buca il piano dei nostri sensi, riattivando un fluire
più disteso per accedere alla realtà fenomenica.
Smascherati i trucchi di questa sorta di esperimento si diventa pienamente
consapevoli del poter vedere toccando. Più che di labirinto, sarebbe più giusto
parlare di un esercizio per trovare sempre più strategie per orientarci nel labirinto:
in fondo non è questo che vogliamo?
Dopo aver compreso il procedimento dell’apparizione attraverso il calore,
l’interesse si sposta sull’oggetto attraverso una suite di sensazioni. Si cercherà di
capire cosa stia comparendo. L’aggiunta, poi, dei suoni registrati durante lo
sfregamento completa il quadro. Consente di dare maggiore spessore all’atto del
toccare, appunto: attraverso il rumore d’attrito tra le mani e l’oggetto anche la
materia, di cui esso è composto, tende a prendere corpo.
Manca poco per passare da questi lavori, in cui la partecipazione dello
spettatore è legata ad un’attività spiccatamente intellettuale, a lavori in cui la sua
partecipazione è direttamente fisica. Questa operazione porta già in nuce il
discorso sull’interazione, in cui la partecipazione è direttamente connessa alle
azioni delle istallazioni, di cui discuteremo nella seconda opera presa in esame.
Il secondo lavoro del quale intendo parlare è “Dove va tutta 'sta gente?”, video
installazione del 2000, che fa parte della serie “ambienti sensibili”. Quest’opera a
differenza dell’altra riesce, con una differente consistenza, anzi fisicità, è proprio il
caso di dirlo, a legarsi alla questione labirinto. Il lavoro è formato da un vero e
proprio carosello di retroproiezioni su pareti trasparenti di figure di persone a
grandezza naturale, che si lanciano, impattandosi contro la parete [Fig. 22]. Dove
75
vada ‘sta gente non lo sappiamo, ma se siamo accorti possiamo intuirlo. Sin da
subito abbiamo la certezza del fatto che vogliono uscire. Vogliono distruggere la
parete che li imprigiona e saltare in un’altra dimensione, forse la nostra? L’azione
a cui si assiste è molto forte e appassionante. La presenza vigorosa del corpo
pone la comunicazione su un piano meno intellettivo. Il corpo parla al corpo.
L’entrare in campo, poi, della nostra presenza modifica lo stato dell’installazione. .
Se decidiamo di avvicinarci, per provare a capire se davvero la parete vibra sotto
le forti spallate delle figure, accade qualcosa d’inatteso. Una porta davanti ai nostri
piedi si apre. Come un varco due parti della parete scivolano l’una sotto l’altra e
appare una sorta di entrata. [Fig. 23]
Noi possiamo entrare, senza la minima difficoltà. Siamo privilegiati. Lo spazio
che stiamo visitando sembra riconoscerci e trattarci con rispetto. Per chi sta
dentro, è diverso, e forse è proprio in questa differenza di privilegi che risiede il
motivo che sta dietro alla voglia di oltrepassare la parete.
Però solo attraverso questa asettica visita, che non mette in pericolo la nostra vita,
possiamo rispondere alla domanda posta dal titolo. In questo modo, partecipando
con volontà, con interesse tenteremo di comprendere il senso di questo voler
sconfinare, attivato dalla “differenza che ci separa”.
L’interattività riapre un dialogo, riconoscendo che un processo di creazione e
d’informazione non è completo se non c’è un’assunzione di responsabilità anche
da parte del fruitore, il quale diviene non più solo spettatore, ma produttore di
un’esperienza. 113
Con l’aprirsi della porta non si mette fine al gioco. Dalla porta aperta, infatti,
una di quelle figure che si lanciava verso la parete, trovando un spiraglio, riesce a
giungere nella nostro zona. Si tratta ancora di una proiezione, una proiezione
dall’alto che prende forma sul pavimento, sullo spazio che noi calpestiamo. Noi
abbiamo facilitato la sua evasione. Attività quanto mai inutile, la nostra, essendo
ancora poco consapevoli del bisogno di quella figura, che cerca di cambiare
113 P. ROSA, "Rapporto confidenziale su un'esperienza interattiva" F. CIRIFINO, P. ROSA, S. ROVEDA, L. SANGIORGI (a cura di), 1999, op cit., p.158.
76
spazio e quindi vita. Infatti non appena essa giunge ai nostri piedi, smette di
agitarsi e dopo poco tempo scompare. La nostra azione casuale, della quale forse
ci vergogniamo persino - in fondo è un po’ colpa nostra se uno dei reclusi esce -
non ha comunque rilevanza. Non c’è da temere, siamo ancora all’inizio. L’azione
che a-criticamente abbiamo fatto non porterà a niente. Non cambierà per questo lo
stato di cose e non libererà nessuno. Varcando la soglia invece le cose forse
potrebbero cambiare.
Prendere una posizione, attraversare uno spazio contro cui altri corpi si
schiantano.
Di fatto si tratta di assumere la giusta e del tutto personale distanza, ma anche di
varcare una soglia, di attraversarla. Una soglia fisica, psicologica, culturale e
sociale114.
Cioè che viene messo in campo è una specie di dispositivo che sottolinea le
differenze sociali, attraverso le differenze di situazioni.
Il dispositivo interattivo si rifà a una complessità di relazioni umane e lo spazio
dell’installazione si trasforma in "luogo antropologico", nel quale i movimenti di
chiusura e apertura non sempre rispondono nella maniera attesa.115
Siamo messi nella posizione di poter visitare un labirinto e di non perderci.
Siamo dall’altro lato, come se fossimo dall’alto della consapevolezza e osserviamo
chi è imprigionato. Più che Teseo potremmo dire di essere un Dedalo in volo.
Testimoni di questa distanza e differenza, siamo spinti più che a trovare un’uscita
a cogliere il senso di questa differenza.
Non si tratta più solo di un’opera ma si sollecitano
dei comportamenti, dei gesti, delle reazioni che sospingono a confrontarsi con un
114 A. LISONI, “Corpo/ambiente” in B. DI MARINO, Studio Azzurro. Tracce, sguardi e altri pensieri, Milano, Feltrinelli Editore, 2007, p. 99 tratto da "Dalla parte di chi sta dall'altra parte. Cercando una posizione nell'opera di Studio Azzurro", catalogo della mostra Caveau. Studio Azzurro, Siena, Palazzo delle Papesse, 22 giugno-25 agosto 2002, ed. Gli Ori, Siena-Prato 2002115 http://www.studioazzurro.com
77
territorio delicato che dall’etica si allarga alla concezione di una moderna
antropologia. Possibilità di perdere il controllo del proprio lavoro.116
3.2.3 Un filo di luce che da dentro ci riporta fuori: Olafur Eliasson
Olafur Eliasson è un artista spiccatamente europeo. Nasce a Copenaghen e
dopo aver studiato all’accademia Reale d’Arte si sposta a Berlino. Il motivo che mi
porta a evidenziare con così tanta energia la sua europeità sta nella profonda
affinità delle condizioni che mettono in relazione i lavori di Eliasson con una sorta
di “Romanticismo Nordico”, discreto e per nulla dogmatico. A precisare la propria
prospettiva è lo stesso artista che dalle pagine di Flash Art in una conversazione
con Angela Rosenberg, evidenza ed espone il suo debito verso un’idea di
“Romanticismo non normativo”.
Con “normatività” intendo dire che i sistemi di valore e lo sviluppo dell’identità sono
sottomessi ad una strategia onnicomprensiva i cui scopi hanno una priorità più alta
rispetto ai modi per raggiungerli. Non diversamente dalla vecchia versione della
nozione di “utopia”. Questo è il punto in cui il Romanticismo diviene, a mio parere,
una questione di predominanza e quindi di totalitarismo. 117
Ho deciso di partire direttamente dal suo pensiero e dal suo relativismo,
perché, ad essere sincero, in tutto questo lavoro di ricerca Eliasson è stato per me
una sorta di guida. Semplicemente rileggendo con molta attenzione le parole
poc’anzi citate, non sarà difficile notare una vicinanza d’intenti con le idee che
stiamo sviluppando e discutendo. Il suo andare contro i sistemi normativi e le
strategie onnicomprensive, quelle in cui gli scopi sono più importanti del percorso,
è un modo di relazionarsi al mondo non attraverso delle certezze, ma attraverso la
propria cultura, passo dopo passo, nella consapevolezza che ogni scelta è
116 P. ROSA, "Rapporto confidenziale su un'esperienza interattiva" in F. CIRIFINO, P. ROSA, S. ROVEDA, L. SANGIORGI (a cura di), 1999, op cit., p.158.117 A. ROSENBERG, Olafur Eliasson. Oltre il Romanticismo nordico, in “Flash Art”, n. 240, 2003, p 109.
78
personale e persino ingiudicabile. Nel mio sviluppo attorno al tema del labirinto,
anche io sto tentando di seguire la stessa strada. Nel mio incedere da est a ovest
nei meandri, la strategia ovviamente, non può, a causa dell’andatura incerta, che
essere una negoziazione e un costante dialogo.
I suoi lavori spesso attraverso un discorso fisiologico e culturale giungono a
toccare direttamente il rapporto con la società e la politica. Forse è anche e
soprattutto questo suo atteggiamento critico, a volte parziale, momentaneo,
miope, ovviamente nel senso positivo del termine, che mi ha rassicurato e
sostenuto attraverso questi infiniti nodi e lunghi corridoi.
A questo si aggiunge il suo profondo interesse alla condizione del
disorientamento, inteso quasi come un processo per riacquisire una diversa
capacità a vedere [Cfr. 2.4]. Pensiamo per esempio all’intervento eseguito
alla Biennale di Venezia del 1999 [che] è consistito in una gabbia-labirinto, una
chiocciola percorribile in cui, pur vedendo l’esterno, ci si poteva paradossalmente
sentiti perduti; una serie di fotografie tratte dalle grotte islandesi mette
ulteriormente in luce come la sua attenzione si concentri sulla ricognizione,
sull’escursione nel mondo, sulla ricerca di quei momenti visivi che suscitano
stupore per la loro imprevedibilità e che comunque hanno a che fare con i problemi
percettivi.118
Prima ancora di entrare in uno dei suoi lavori stiamo già toccando con vigore
uno dei grandi temi attorno al quale si organizza il lavoro dell’artista, la questione
della percezione. Da notare però che i suoi “esperimenti” non sono delle sterili
sperimentazioni percettive, bensì un’attività di conoscenza e auto-conoscenza.
Nell’incontro con le opere di Eliasson, l’occhio e il corpo intervengono in una
(ri)costruzione del rapporto tra il sé e il mondo. La vista, a sua volta, diviene
fisicamente dipendente dal movimento del corpo nello spazio. Ogni singola opera
fa parte di un flusso continuo che scorre.119
118 Cfr. F. MATZNER, A. VETTESE, ARTE ALL’ARTE, IV edizione, San Gimignano, Associazione Arte Continua, 1999, p. 72.119 G. ØRSOKOU, Padiglione della Danimarca alla Biennale d’arte di Venezia del 2003 in AA. VV., “50. Esposizione internazionale d’arte: La Biennale di Venezia. Sogni e conflitti. La dittatura dello
79
Come era già successo quando abbiamo parlato di Dan Graham anche qui ho
voluto solo citare un’opera che formalmente sarebbe potuta essere avvicinata al
discorso labirinto con maggior semplicità. Ancora una volta un piccolo accenno,
ancora una volta una scelta diversa per cercare di scardinare le idee formali
riguardo a cosa possa essere considerato alla stregua del progetto di Dedalo. Ciò
perché trovo molto interessante far emergere dei fattori, circa il nostro tema
principe, che consentano di aprirne la forma, facendola diventare un’esperienza,
nel tentativo di trovare una sostanza più mobile e adattabile al contesto sociale e
politico contemporaneo. Ma andiamo avanti e cerchiamo di parlare finalmente
dell’opera.
Il lavoro è “Your Black Horizon” ideato nel 2005 in occasione della 51°
Esposizione Internazionale Biennale d’arte di Venezia da Eliasson in
collaborazione con l’architetto londinese David Adjaye e installato sull’isola di San
Lazzaro degli Armeni.
Visto dalla Laguna il padiglione si presenta come una specie di palizzata di
tavole [Fig. 24], che non consente bene la visione di cosa ci sia dietro. Da un lato
di questa palizzata è posizionato l’ingresso [Fig. 25]. Si apre come un corridoio,
proprio dietro alla palizzata di prima [Fig. 26]. Stiamo accedendo all’opera
gradualmente. Procedendo per questo passaggio i nostri occhi cominciano a ad
abituarsi ad una minore quantità di luce e, allo stesso tempo, non hanno più la
piena visione della Laguna. Dallo spazio fisico l’attenzione comincia pian piano a
spostarsi verso la luce. L’esperienza ovviamente è già iniziata. Noi, assieme alla
nostra cultura e alla nostra visione plasmata e influenzata dalle nostre esperienze,
ci stiamo facendo avanti. Le strisce d’ombra segnano il nostro viso e il pavimento
con angolazioni e qualità sempre diverse durante l’arco della giornata. A decidere
tutto questo non è nessun congegno tecnologico, ma semplicemente il tragitto
quotidiano del sole. Si fa l’esperienza della luce. Nessun complicato scontro tra
natura e cultura. La sua presenza è funzionale allo studio sull’uomo120.
Accedendo all’interno del padiglione la situazione cambia, anzi varia, lasciando
spettatore”, (catalogo della mostra), Venezia, Marsilio, 2003, p. 520.120 A. POLVERONI, Invento favole di luce, in “La Repubblica delle Donne” supplemento de “La Repubblica”, n. 463, 2005, p. 75
80
intatte alcune coordinate, soprattutto quella della luce. Ci troviamo in un piano
superiore e non solo metaforicamente e qui in un ambiente totalmente buio vi è
una luce, una linea di luce che corre per tutto il perimetro del padiglione
tagliandolo nettamente in due parti. Questa linea netta è anche il segno, un filo
che ci lega col fuori. Non si tratta di una luce artificiale e fredda ma di quella
campionata precedentemente dallo stesso artista nella Laguna [Fig. 29]. Quello
che vediamo è una sorta di linea di orizzonte, nera come recita il titolo, perché
l’immagine persistente è il negativo dell’orizzonte bianco [Fig. 28]. Di rilievo è
notare che nonostante siamo in presenza di una linea di orizzonte, e quindi di un
sistema utile a valutare la propria posizione, perdiamo l’orientamento. In effetti,
fissando la linea che ci gira tutta intorno, non siamo più capaci di calcolare le
distanze e perdiamo persino la presenza del corpo. Il nostro punto di vista viene
imbrigliato e illuso e, fluttuando in queste condizioni, non può che relativizzarsi.
L’immagine persistente che si forma sulla retina ci ammalia e ci alleggerisce:
quando dopo aver fissato per circa un minuto la linea si comincia a recuperare la
presenza dello spazio [Fig. 27], e lo si inizia a praticare, più che camminare,
avremo l’impressione di levitare. Si tratta di un’esperienza tutta personale: «Your»121. Difatti, l’immagine persistente è propria: legata non solo ad un aspetto
fisiologico, ma anche alla memoria e quindi alle passate esperienze.
Mi interessa l’esperienza del singolo, che è come un’impronta digitale. Unica e
sempre diversa. Mi interessano gli aspetti sociali e politici, per questo cerco di
costruire, decostruire e raccontare esperienze, suscitare reazioni che spero siano
diverse in ciascuno dei miei spettatori. E riflettere sull’identità, una domanda
particolarmente importante122
Si ha a che fare con un’esperienza spinta al limite, in cui la figura del fruitore è
convocata energicamente e consapevolmente a vivere il percorso che l’artista gli
propone: nonostante tutto, la presenza dell’avvenimento della luce e dello spazio
121 Cfr. Conversazione tra Francesca Von Habsburg, David Adjaye, Olafur Eliasson, Daniel Birnbaum, pp. 90-91, in L. MASCHERONI Loredana (a cura di), Olafuriade Eliasson, da Pasadena a Venezia, in “Domus”, n°884, settembre 2005, pp. 84-93. 122 A. POLVERONI, Invento favole di luce, 2005, op. cit. p. 76.
81
s’irradia a partire dall’azione e dal dirigersi dell’individuo123 che pratica l’opera.
Si tratta di una comunicazione intima, che giocando sull’identità del singolo non
può non avere dei risvolti sociali e politici. Operando sul rapporto che si crea tra il
soggetto e il mondo rinnova le qualità delle nostre esperienze, e da questo stimola
una serie di nuove competenze.
Anche la scelta di lavorare a stretto contatto con l’architetto che ha progettato il
padiglione è parte di questo interesse verso la società e le sue leggi, un modo per
riuscire ad integrare sempre di più l’arte all’interno del contesto. Non un lavoro che
giunge dall’alto, ma un progetto che usando tecniche emotive e appassionanti
prende parte alle tematiche attuali, attraverso un linguaggio semplice e anche
troppo vicino, una luce che da fuori ci porta dentro e da dentro a fuori.
3.3 Labirinticità
Giunti alla fine di questo capitolo sicuramente non si avranno più le idee certe
su cosa sia o non sia un labirinto. Già col primo capitolo abbiamo visto che
storicamente la questione non era semplice. Una forma, una danza, un’idea e la
faccenda andava sempre complicandosi a causa del sovrapporsi delle diverse
condizioni. Sicuramente in questo lavoro non mi sono eccessivamente soffermato
sull’aspetto formale, e questo l’ho più volte precisato. Ciò non perché non fosse di
mio interesse ma perché affrontando il nostro tema di riferimento, ho sempre più
notato che la questione non era da porre attraverso una struttura formalmente
definita. Il rischio però è che ad un certo punto tutto possa diventare labirinto. Un
sistema, aperto, complicato può facilmente essere definito intricato come un
labirinto. Ne consegue quindi un impellente distinguo.
Nel secondo capitolo abbiamo parlato di cosa accade in un labirinto però la
situazione qui credo sia un po’ più matura, soprattutto per quel che riguarda la
relaziona tra arte e labirinto.
Molto utile il punto di vista sul labirinto di Rosensthiel, che supera il discorso
123 Cfr. M. MERLEAU-PONTY, 1989, op. cit. p. 42.
82
fisico, avvicinandosi più ad una condizione di processualità di ricerca.
Non un’architettura, un reticolo nel senso di chi lo progetta e concepisce, ma lo
spazio che si sviluppa davanti al viaggiatore che procede senza mappa nel reticolo
stesso. 124
Anche per Paolo Fabbri la questione è necessariamente legata all’argomento
delle ricerca. Egli definisce il labirinto proprio come la metafora dell’euristica e si
organizza in una sorta di “prasseologia razionale”, le cui condizioni sono:
1°, che ci sia un’esplorazione (altrimenti non c’è labirinto, si può anche non
entrare);
2°, che il processo sia miope, cioè che non si abbia la mappa, se c’è la mappa il
problema è risolto;
3°, più interessante, che le strategie intellettuali siano strategie astute, intelligenti,
che cerchino di vincere questo spazio, come se fosse un nemico.125
Anche in questo caso più che di una forma si tratta di una situazione, di
un’esperienza da fare e che avviene soprattutto attraverso certi presupposti.
Questo deve essere un altro dei punti cardine del discorso che stiamo
sviluppando, visto che
“il senso” della nostra civiltà attuale, dove nel pensiero riflesso comunque venga
teorizzato, l’esigenza è quella di stringere l’immanenza della dialettica di esistere
ed essere: nella vita sociale è quella di dissolvere i miti e le categorie: nelle
scienze di non rappresentare l’universo come un cosmo necessario ma di
comprenderlo come campo di possibilità spaziali “temporalmente” verificabili;
nell’arte infine di “temporalizzare” la forma e di renderla permeabile al tempo
dell’esistenza, di abolire il distacco contemplativo tra “Arte” e vita.126
124 P. ROSENSTHIEL, “Labirinto”, in Enciclopedia Einaudi, vol.VIII, Torino, 1979, p. 7.125 P. FABBRI, Perdersi: un gioco con la vertigine, in R. ARAGONA (a cura di), “Le vertigini del labirinto”, Napoli, Ed. Scientifiche Italiane, 2000, p.74.126 S. BETTINI, Tempo e forma. Scritti (1935-1977), Andrea Cavalletti (a cura di), Macerata, Quodlibet, 1996, p.23.
83
Occorre superare il mito a favore di una vera e propria azione che tenta di
perpetuarne i gesti. Risolvere la sua fissità perfetta a favore di una parzialità, in cui
il dove e il quando siano delle variabili che identifichino un punto. Attualità del
momento indipendentemente e anche a scapito di un prima e di un dopo,
ovviamente non per un’appartenenza ad un sistema di idee e categorie, al
contrario, per una sempre maggiore contiguità tra la vita del fruitore e il percorso
che sta scorrendo e che egli stesso crea.
Da tenere sempre a mente è poi la componente passionale legata alla
sottrazione e al controllo d’informazione, una suspense [Cfr. 2.4] che fomenta
l’interesse e sfocia in una nuova e più alta condizione di consapevolezza.
Ovviamente questo sviluppo è inscritto nella natura del fare ricerca. C’è da
puntualizzare però che quest’ultima prende avvio direttamente dalla perdita e dal
disorientamento. Si lega alla paura di perdersi, di non ricordare [Cfr. 2.4.2] e al
bisogno di opporsi a questo. Un’esortazione ad affrontare questa ricerca [Cfr. 2.3].
Perdersi e ritrovarsi può essere la narrazione di un’esperienza, un’esperienza di
conoscenza [Cfr. 2.4.1] che avviene gradualmente, dove è fondamentale poterla
proseguire, dove è più importante fare, è più importante il processo che diventa,
così, fine.
Volevo nonostante tutto spendere due parole circa l’aspetto formale di alcuni
punti che abbiamo toccato in questo capitolo. I modelli analizzati sia per quel che
riguarda la parte espositiva che per quel che riguarda quella di progetti artistici
tout-court non si trovano formalmente su una stessa linea, anzi il più delle volte,
soprattutto se pensiamo alla questione espositiva, abbiamo situazioni che
caratteristicamente si oppongono.
Se mettiamo a confronto, infatti, When attitudes become form con Lab. degli
A12 ci accorgeremo di quanto appena detto. Nel primo caso ci troviamo
nell’organizzazione di una vera e propria rete127, in cui ogni punto è connesso con
qualsiasi altro. Sono le relazioni che il fruitore sceglie ad essere rilevanti e la
libertà nel suo percorso è pressoché massima. Nel caso di Lab., invece, il modello
è più “classico”. Lo spazio è articolato attraverso dei percorsi obbligati, lunghi e
127 Cfr. U. ECO, 2001, op. cit. p. 358.
84
claustrofobici. Vi è un rapporto teso e difficile con lo spettatore, il quale esplora
lentamente i corridoi e sceglie solo nei cosiddetti nodi. Questa è una situazione più
praticabile e risolvibile, può essere srotolata e riavvolta come un gomitolo, come
quello che Arianna consegna a Teseo. «Il gomitolo, oggetto domestico, riduce la
distanza infinita a percorso con un inizio ed una fine.»128
Si ha a che fare con
due ideali di pensiero “forte”. In un primo caso si aspira a un pensiero così
complesso (ma al tempo stesso organico) che possa rendere ragione della
complessità (e organicità) del mondo della nostra esperienza, o mondo naturale.
Nel secondo caso si aspira a costruire un mondo-modello ridotto in modo tale che
un pensiero, non così complesso da essere incontrollabile intersoggetivamente
possa rispecchiarne la struttura. In questo secondo caso, onde essere
intersoggettivamente controllabile, il pensiero assume le forme di un linguaggio L
dotato di regole proprie, tali tuttavia che queste regole siano le stesse del mondo-
modello che il linguaggio esprime.129
128 A.BONITO OLIVA, Il labirinto come opera d’arte in A. B. OLIVA e altri (a cura di), “Luoghi del silenzio imparziale: labirinto contemporaneo”, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 11.129 U. ECO, 2001, op. cit. p. 334.
85
86
4. Un’ipotesi di percorso: un labirinto critico
“Se impari la strada a memoria
non troverai certo granché,
se invece smarrisci la rotta
il mondo è lì tutto per te.”
(MERCANTI DI LIQUORE, Il viaggiatore, 2002)
4.1 Un Labirinto
In questo ultimo capitolo cercheremo di fare buon uso di tutte quelle che sono
state le analisi, lo studio e le valutazioni, le strategie, il rapporto con l’arte, la
conoscenza, la ricerca e ovviamente il labirinto.
Quello che ci accingiamo a fare, con molta umiltà, è un tentativo di ideare una
mostra, attorno al nostro tema principe, cercando di mettere molta cura nel legare
le opere allo spazio che tenteremo di proporre.
Consapevole del non essere pienamente all’altezza di tutto quello che vuole
essere il progetto, vorrei almeno tentare, attraverso una sorta di semplicità, di
organizzare uno spazio labirintico e, tramite un processo che
contemporaneamente si occupa della scelta delle opere, proporre un discorso
mostra. Non si tratta di sviluppare uno spazio e dopo riempirlo, più che altro sarà
un procedimento simbiotico, che cercherà di dare origine ad un percorso/spazio,
ricordando di tenere a mente, e sin da subito, il filo conduttore delle opere. Nel
descrivere il progetto tratterò soprattutto di queste, tentando di legarle sempre con
lo spazio, che cercherò di illustrare, invece, aiutandomi con delle immagini e
parlando esplicitamente di alcune aree solo nei casi in cui non risultasse chiaro il
87
senso di alcune soluzioni.
4.1.2 Concept: una semplice libertà di scelta, un quadrato e un
rettangolo
Alla base dello sviluppo della configurazione spaziale del progetto c’è stata la
scelta di non complicare nessuna situazione oltre misura. Nel valutare come
gestire e trattare la pianta di quello che, più che un museo o un padiglione, vuole
essere un dispositivo comunicativo, ho pensato di prendere le mosse da una
figura molto semplice: il quadrato, declinato poi in un rettangolo, come somma di
due quadrati accostati. Quadrato e rettangolo sono, dunque, le due idee di base
da cui prende avvio il progetto [Tav. I]. Non avendo una formazione come
architetto, ho trovato in questo modo, un possibile modello per sviluppare una
sorta di pianta modulare, da trasformare liberamente nel percorso mostra. Un
percorso, che pian piano si è adeguato alle idee e agli sviluppi del progetto. Così
facendo sono riuscito a distribuire spazi ampi intervallati con ambienti più lunghi,
recuperando l’idea del lento incedere dato dai meandri.
Si è conservato anche il tema dei nodi di scelta, punti in cui il passaggio non è
unico, ma è complicato da differenti imbocchi.
Lo stesso camminare nell’attesa di incontrare una nuova esperienza è stato
tracciato attraverso ambienti vuoti, che in alcuni casi si affacciano, attraverso
piccole aperture, su altre sale. Bisogna precisare, però, che attraverso queste
strette fenditure non è possibile passare, ma solo osservare. Così declinato, il
tema della tensione viene ricreato attraverso una relazione di distanza, una
condizione che solo l’andare alla ricerca e alla scoperta potrà colmare.
88
4.2 Una “Zona d’Urgenza”
Come abbiamo più volte sottolineato, centrale è la questione della sottrazione
d’informazione, affinché possa svilupparsi una sorta di vertigine. Proprio in virtù di
ciò la mostra si apre in maniera molto strana. Per evidenziare questa condizione di
disorientamento e per sottolineare e indicare l’ingresso, a lato dell’entrata è
collocato uno dei neon Exil di Adel Abdessemed [Fig. 30]. Si tratta di un’opera del
1996 divenuta famosa durante la Biennale di Venezia del 2007. Questo lavoro è
qui usato proprio per demarcare una parte del percorso. Non una vera insegna, o
almeno non nel senso più comune del termine. La luce è quella al neon, certo,
quella delle sfavillanti pubblicità, ma più che offrire qualcosa di attraente, viene
offerto l’esilio, l’allontanamento e il distacco.
La scritta exil (“esilio” in francese) invece che “exit”, “uscita”, [indica] il punto di
passaggio che separa il dislocamento dal trasferimento, la fissità dallo
sradicamento, l’appartenenza dall’alienazione.130
Nel seguire l’insegna [Tav. II] che ci conduce all’esilio non possiamo non essere
che in una perdita di noi stessi. Siamo informati sul fatto che ci stiamo perdendo.
Sappiamo di essere condotti “all’esilio”, ma allo stesso tempo uno spazio
dell’altrove131 viene localizzato. Si tratta di un’opera fortemente politica e legata
alla stessa condizione dell’artista, che nato a Constantina (Algeria) vive e lavora a
Parigi.
Sono un artista che ha da sempre tentato di indagare zone sensibili, a cavallo tra
legalità e illegalità... e che prende sempre posizione... Quando avanzo
130 R. STORR, Adel Abdessemed in “AA. VV., 52. Esposizione internazionale d’arte: La Biennale di Venezia. Pensa con i sensi, senti con la mente. Arte al presente (catalogo della mostra)”, Venezia, Marsilio, 2007, p. 6.131 Cfr. la voce “Eterotopico” su A. J. GREIMAS., J. COURTÉS, Paolo Fabbri (a cura di), 2007, op cit. p. 116.
89
nell’ignoto... nella trama del caso... il destino mi spinge ad agire...132
La seconda opera che incontreremo è un dipinto di Julian Opie, artista inglese
che nell’arco della sua carriera ha sperimentato diversi supporti e tecniche. Il
lavoro che ho pensato di inserire all’interno di questo progetto è Imagine you are
walking [Fig. 31] presentato nel 1993 durante la sua mostra a Londra alla Hayward
Gallery.
L’opera segna l’inizio del periodo figurativo di Opie e il suo ritorno alla pittura.133
Collocata sulla parete di svolta dei corridoi meandri e ispirato alle passeggiate che
l’artista compiva intorno alla East End, essa raffigura in soggettiva l’esercizio del
camminare, sottolineando, così, il lento incedere del fruitore. Una ridondanza che
non accresce nessun sapere, ma che realizza e concretizza l’attività dello
spettatore, concedendole maggior importanza. Camminare come pratica per
capire, per vedere, per cercare.
Seguendo gli Exil lo spettatore ritornerà sui suoi passi. Sarà riportato quasi
all’ingresso, ma sarà un ritorno solo fisico, poiché il suo passaggio in una
cosiddetta Zona d’Urgenza, avrà cambiato il suo rapporto con le cose e soprattutto
con la loro superficie, e sarà questo il primo passo per uscire dall’esilio.
Nel definire un’area con tali caratteristiche mi sono liberamente ispirato al
progetto Z. O. U. Zona d’urgenza [Fig. 32] curata da Hou Hanru e progettato con
intelligenza e ambizione da Yung Ho Chang/Atelier FCJZ [Fig. 33], per la Biennale
d’Arte di Venezia del 2003. Un’area ibrida [Fig. 34-35] figlia di quella situazione
attuale in cui si trova a vivere l’arte contemporanea: legata da un lato ad una
posizione attiva e critica verso delle proprie e vere urgenze sociali, dall’altro al
bisogno di riflessioni indipendenti e puramente artistiche.
Oscillando tra le due estremità che delimitano la realtà della sopravvivenza, le
attività artistiche contemporanee stanno acquisendo nuova energia e una nuova
raison d’être. In definitiva, questa tensione provoca e genera costantemente zone
132 A. ABDESSEMED, Lettera a Fidel Castro in “AA. VV., 52. Esposizione internazionale d’arte: La Biennale di Venezia. Pensa con i sensi, senti con la mente. Arte al presente”, Venezia, 2007, op. cit. p. 6.133 Cfr. J. M. BONET, The painter of modern life in “http://www.julianopie.com”.
90
d’urgenza in cui gli interessi critici per la crisi sociale e la jouissance creativa
raggiungono una più alta e ampia dimensione esistenziale.134
Avanzando in quest’area, in uno dei primi ambienti dopo quelli preparatori in cui
abbiamo incontrato il lavoro di Opie e le fenditure tensive nelle pareti, sono
proiettati due lavori di Vuk Cosic, i famosi ASCII History of Moving Images (1999).
Questi lavori si basano sul recupero della tecnica dell’ASCII dinamico. Attraverso
un software l’autore ha trasformato le inquadrature di alcuni famosi film (nello
specifico “Gola Profonda” e “Psyco”) [Fig. 24.] in una serie d’immagini in cui il
posto dei pixel è preso da caratteri ASCII. Così facendo, cerca di dare una nuova
vita ad un sistema tecnologico oramai marginalizzato.
Ciò che appare sullo schermo sono dei filmati in verde fluorescente su fondo
nero, in cui le ombre, le luci e le sagome delle figure sono rese da un insieme di
caratteri alfanumerici. Modificati in questo modo, dei famosi film diventano il
pretesto per guardare l’hight-tech, da un altro punto di vista. Una critica alla
tecnologia attraverso dei sistemi dimenticati e desueti135. Allo stesso tempo si pone
sotto una diversa chiave di lettura il codice ASCII che può diventare un ottimo
modo per nascondere e veicolare informazioni. Viene data una profondità diversa
ad una serie di stringhe numeriche intelligibili. Direttamente legata a questa idea è
l’opera successiva. Fruibile attraverso una serie di postazioni informatiche
connesse ad internet, l’opera si chiama http://wwwwwwwww.jodi.org/ ed è il primo
lavoro del duo jodi.org, composto dall’olandese Joan Heemskerk e il belga Dirk
Paesmans. Messo on-line la prima volta nel 1993, jodi è raggiungibile attraverso il
browser di qualsiasi computer connesso al web all’indirizzo
http://wwwwwwwww.jodi.org/. L’home page [Fig. 38] si presenta come un testo in
verde fluorescente, su schermata nera, sul quale la freccia del nostro mouse si
trasforma in un’evidente mano cursore, quella che segnala la presenza di un link.
Ci viene quasi suggerito che c’è l’opportunità di superare senza troppi mezzi
134 H. HANRU, Z. O. U. Zona d’urgenza in “AA. VV., 50. Esposizione internazionale d’arte: La Biennale di Venezia. Sogni e conflitti. La dittatura dello spettatore, (catalogo della mostra)”, Venezia, Marsilio, 2003, p.188.135 Cfr. M. TRIBE, R. JANA, New Media Art, Uta Grosenick (a cura di), Colonia, TASCHEN GmbH, 2006, p.38.
91
termini questo insieme di righe incomprensibili. Un modo semplice e rapido per
bypassare qualcosa in cui forse non dovevamo incappare. Forse più
semplicemente ci troviamo davanti ad un errore. Nel gergo dei programmatori si
tratterebbe di un glitch, un svista nella programmazione del codice che porta ad un
effetto indesiderato.
Trovare una chiave di lettura per questa pagina non è molto semplice, tuttavia
se cerchiamo di pensare al lavoro precedente in cui l’ASCII diventava un modo
per “codificare” delle scene di film, potremmo essere già sulla strada giusta.
I tratti che ricorrono maggiormente nella pagina sono infatti in formato ASCII e
uniti al colore e alla loro reiterazione, fanno pensare a delle righe di comando,
qualcosa di più o meno simile al codice delle macchine: quella lingua nascosta,
che il computer adopera per calcolare e lavorare. Perché pongo un segno
distintivo anche e soprattutto sul colore, anzi sulla giustapposizione tra il verde
fluorescente delle stringhe e il nero dello sfondo? L’uso di questo tipo di schermata
serve proprio a supportare l’intuizione iniziale. Forse davvero ci troviamo innanzi
ad un linguaggio di programmazione, come accadeva nei monitor fluorescenti,
usati tempo fa dai programmatori per parlare e interfacciarsi con le macchine.
Evidentemente non possiamo essere sicuri di questo. In fondo questa è una
pagina web visualizzata con un browser, che decodifica delle serie di codici e che
dovrebbe restituire una pagina comprensibile. Invece nonostante un software di
codifica si interponga tra noi e le serie alfanumeriche, non si giunge ad avere una
home page intelligibile, ma ancora una sorta di codice. Se fosse la pagina ad
essere decriptata male, qualcosa non dovrebbe andare nel codice. Per levarci
questo dubbio, potrebbe essere utile fare un ultimo controllo. Con l’opzione di
visualizzazione codice136, che tutti i browser hanno, possiamo vedere il testo in
HTML che compone la pagina. Qui scopriamo che la serie di caratteri in verde
fluorescenti, che viene visualizzata come la prima pagina di un sito web, è il
risultato, invece, di una serie di disegni in ASCII. In altri termini, ciò che il browser
legge è una serie di disegni comprensibili all’uomo e non “linguaggio macchina”.
Viene, in questa maniera, capovolta la possibile fruizione di una pagina web.
Nascondendo il messaggio, in una vera piega del rovescio, si pone l’accento
136 “Visualizza codice” su Safari, “sorgente pagina” su FireFox, “visualizza html” su Explorer.
92
soprattutto sulla natura stessa della comunicazione. Sul bisogno di filtrare e di
sottoporre ad un’analisi, ad un vero e proprio “decriptamento” le informazioni.
Incoraggiare la libertà di scelta e incentivare a non accettare passivamente i
bombardamenti mediatici, i percorsi obbligati a cui la società ci sottopone.
A completare questa Zona è un progetto nel quale la presenza fisica degli
spettatori, diventa da una parte un vero atto interattivo/performativo, dall’altro
questo stesso atto modifica la loro condizione e ciò che gli sta intorno in maniera
evidente. Il progetto si chiama UMBRELLA.net, ed è un lavoro messo a punto nel
2005 da due ricercatori/artisti: Jonah Brucker-Cohen e Katherine Moriwaki. Un po’
ricerca tecnologica e un po’ performance, l’idea è legata alla questione delle
relazioni e delle reti che si creano spontaneamente tra le persone, col variare delle
condizioni esterne, come per esempio possono essere quelle atmosferiche137 [Fig.
39].
Si indagano attraverso l’ingegnerizzazione di un oggetto quotidiano le modalità
di creazione di reti ad-hoc, e le si visualizza in un modo semplice e assai
partecipativo. L’oggetto al centro della questione, come preannunciato dal titolo, è
un semplice ombrello, arricchito da LED sulla parte superiore in tessuto bianco e
da piccoli palmari collocati sul manico. Modificati così, gli ombrelli di questo
progetto entrano in comunicazione tra loro attraverso la tecnologia wireless dei
Pocket-Pc e mostrano lo stato di connessione attraverso le differenti colorazione
dei LED: rossa quando tentano di connettersi e blu quando è connesso [Fig. 40].
Inoltre sui display dei palmari è possibile visualizzare i nomi degli altri partecipanti,
condividere e scambiare informazioni.
The project explores public space, proxemics, and the influence of network
awareness on co-operative behavior. We want to collaboratively explore the
language and models of networks in a practice-based environment and contribute
to a conceptual foundation upon which new applications and practices can
emerge.138
137 Cfr. http://undertheumbrella.net/138 Ibidem
93
L’oggetto quotidiano diventa un modo per esplicitare e rinvigorire gli statici
canali di comunicazione, attraverso non solo i messaggi che ci si scambia, ma
anche per mezzo della sua condizione estetica.
Traslato da un contesto esplicitamente pubblico per essere inserito all’interno di
un discorso labirintico, questo progetto diventa parte della contro-strategia dei
partecipanti. Di solito aprire un ombrello è un atto di riposta alle variazioni delle
condizioni atmosferiche, qui invece diventa il gesto per fare “unione”, rete o meglio
networking all’interno di un percorso complicato e di crisi, come quello di cui
stiamo discutendo, in cui occorre coordinarsi per reagire a situazioni impreviste.
4.3 Tra i riflettori e dentro il labirinto
Questa sezione del nostro percorso [Tav. III] mette insieme due artisti
sicuramente diversi, ma tenuti assieme da uno dei concetti del discorso, che
stiamo pian piano tessendo: riflettere sul legame, sulle condizioni spaziali e su
come queste si relazionano con la “presenza attiva” del fruitore.
Il primo di cui vorrei scrivere è Michel Verjux: artista francese che, tramite un
uso molto caratterizzante della luce, cerca di riflettere e far riflettere gli spettatori
sulla loro condizione, in relazione all’atto del mostrare e allo spazio che li circonda.
Il lavoro di Verjux consiste nell’entrare in relazione con l’ambiente in cui si trova ad
operare, e questa relazione viene costruita esclusivamente con l’uso di proiettori
luminosi, preferibilmente producenti un’immagine perfettamente circolare,
monocromatica e freddamente bianca.139
Si tratta di una vera e propria interrogazione sulla genesi dell’immagine, a
partire da un’analisi del luogo dell’esposizione. Le luci si accendono sullo spazio,
lo modellano, intrattengono con esso un processo di ratificazione, ne rivelano
l’ovvia presenza. Inoltre orientano i tragitti e guidano lo sguardo mobile
139 R. PINTO, Michel Verjux o della dilatazione dello spazio attraverso un fascio luminoso in “Flash Art” n° 157 estate 1990, p. 104.
94
dell’osservatore. Giocano con il suo punto di vista, definiscono la sua posizione: le
distanze, le aperture, gli assi prospettici. Viene esposta la condizione di fruizione
del percorso. Le sue prime installazioni, risalgono alla prima metà degli anni
Ottanta in cui spesso i fasci di luce erano interrotti da oggetti che consentivano
alla luce di disegnare sulle pareti delle piccole linee luminose, che riprendevano le
dimensioni di una possibile porta [Fig.29]. Successivamente Verjux è passato alle
proiezioni di luci perfettamente circolari, si veda a riguardo Proseguimento a muro
A+A+A del 1987 per il Beaubourg di Parigi.
La luce produce delle porte, delle finestre, dei lucernari e l’attenzione del fruitore si
sposta verso le possibilità di costruzione e sulla dilatazione dello spazio concreto,
fisico, costruito dalle pareti stesse.140
L’opera si genera a partire dal rapporto che si crea tra lo spettatore, i fasci
luminosi e i muri: una situazione di illuminazione che si trasforma in una vera e
propria esperienza.
La luce diventa un vero e proprio dispositivo, vale a dire un meccanismo con
generali condizioni di funzionamento, un principio organizzatore della percezione e
del ruolo dello spettatore. In sostanza, una macchina di visibilità141
In questo modo vengono anche resi espliciti l’allestimento e il dispositivo della
mostra, le sue strategie di comunicazione e le possibili chiavi di lettura. Nel
percorso di mostra si tende in questo modo ad “illuminare i nodi del concept”,
evitando di valutare separatamente il dispositivo espositivo e le opere messe in
mostra.
Il secondo artista di questa sezione è Olafur Eliasson, artista islandese-danese
di cui abbiamo già affrontato i temi nel capitolo precedente trattando dell’opera
Your black horizon [Cfr. 3.2.3]; in questo capitolo dove stiamo discutendo
140 Ibidem.141 M. SCOTINI, L’atto di mostrare. Le priezioni luminose di Michel Verjux, in “Michel Verjux. Rivelare, prevalere, creare (catalogo della mostra)”, Milano, A arte Studio Invernizzi, 2005, testi da http://www.aarteinvernizzi.it
95
soprattutto come organizzare il lavoro degli artisti, ho preferito prendere in
considerazione altri lavori.
Le opere di cui vorrei discutere sono installazioni create apposta per il secondo
passaggio della mostra Take your time. Il primo step di questo progetto si è aperto
l’8 settembre 2007 al SFMoMA di San Francisco con la curatela di Madeleine
Grynsztejn in collaborazione a Elise S. Haas. Spostata e ampliata da Klaus
Biesenbach e Roxana Marcoci è stata inaugurata il 20 Aprile 2008 a New York al
P.S.1 Contemporary Art Center e al MoMA, con lo stesso titolo, ma con l’aggiunta
di circa ventiquattro142 opere non presenti a San Francisco, sei delle quali inedite.
Le installazioni che hanno attirato la mia attenzione ricadono proprio in
quest’ultima categoria: quella degli inediti. Collocate assieme e con diverse riprese
in entrambi le sedi, Mirror door (observer), Mirror door (spectator), Mirror door
(user) and Mirror door (visitor)143 sono delle opere che si basano sulla variazione
della condizione di chi vede [Fig. 43]. Attraverso l’uso di diversi proiettori spot e di
specchi rettangolari simile a delle porte, si proiettano delle vere e proprie pozze144
di luce sul pavimento della galleria. Con la semplice variazione dell’angolo del
fascio di proiezione in relazione allo specchio e quindi al pavimento, si avranno dei
cerchi di luce che enfatizzeranno di volta in volta diversi elementi: il riflettore
stesso (Mirror door versione visitor [Fig. 44]), lo spazio davanti lo specchio e
laterale al proiettore (Mirror door versione spectator), lo specchio e la continuità
che esso instaura nel completare il disco di luce per metà sul pavimento e per
metà verso la sua superficie riflettente (Mirror door versione user [Fig. 45]) o
ancora, lo specchio, la superficie opaca in cui è inserito e il pavimento (Mirror
door versione observer [Fig. 46]). Diversificando e complicando la galleria in
questo modo, ciò che si tenta di fare è enfatizzare il rapporto tra lo spazio, le
diverse posizioni e i punti di vista che chi vi accede adotta. Si pongono sotto il
riflettore e davanti lo specchio le diverse inclinazioni che ognuno di noi ha nel
relazionarsi alla realtà. Si struttura una sorta di esperienza che tiene conto dello
142 Cfr. Comunicato Stampa, Take your time: Olafur Eliasson in http://www.undo.net/cgi-bin/undo/pressrelease/pressrelease.pl?id=1208277687&day=1208642400 e http://www.moma.org/visit/calendar/exhibitions/31. 143 Cfr. http://media.moma.org/subsites/2008/olafureliasson/#/intro/144 Cfr. http://artnews.org/gallery.php?i=647&exi=8321
96
spostamento del concetto145. Ciò organizza la figura del partecipante, lo declina e
se ne sottolineano le discordanze146. Si ha a che fare in fondo con variazioni non
evidentissime, nella maggior parte dei casi lievi, sottili come le differenze tra user,
visitor, spectator e observer, ma che comunque sono sintomo di un diverso
atteggiamento e a volte pensiero.
4.4 Dalla vista al tatto (RW) 147, con le mani e gli occhi
La sezione successiva è più un ambiente, una vera e propria condizione,
oltretutto molto complessa e articolata, che un semplice settore [Tav. IV]. In effetti,
più che con una zona delimitata e definita, a causa delle opere esposte e delle
relazioni che si è voluto stabilire tra di esse attraverso una serie di feritoie che
tagliano la struttura divisoria, si ha a che fare con un territorio poroso. Una zona in
cui le opere, assieme al dispositivo spaziale mettono in gioco momenti di tensione,
accompagnati dalla difficoltà di ritrovare il percorso e connessi alla stessa
risoluzione della mostra. Si giunge a pochissimo dalla fine, dalla soluzione, ma il
tutto scompare in una sorta di errore/abbaglio da rivedere, da controllare,
riavvolgendo il filo del discorso. Ecco spiegato il senso di RW: rewind. Se da una
parte vi è il recupero del senso del tatto, dall’altro sarà solo attraverso questa
rinnovata acquisizione che potrà avvenire il dissolvimento del nostro mistero. In
verità, prima di giungere alla fine bisognerà rimettere in discussione nuovamente
ciò che è stato appena appreso. Ritornare indietro con umiltà. Mettere in dubbio e
in discussione la giustezza delle competenze. Solo attraverso quest’ultimo
passaggio si potrà giungere verso una fine e trovare l’uscita.
4.4.1 Aernout Mik: Scapegoats
145 Cfr. K. BIESENBACH e R. MARCOCI, Toward the sun: Olafur Eliasson’s protocinematic vision in “GRYNSZTEJN Madeleine (a cura di), Take your time: Olafur Eliasson”, San Francisco, SFMoMA, Thames & Hudson, 2007.146 Cfr. D. BERTRAND, 2002, op. cit. p. 75.147 Acronimo di rewind.
97
Scapegoats, lavoro del 2006 dell’artista olandese, è presentato in Italia durante
la sua personale alla Galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento, a cura di
Fabio Cavallucci e inaugurata il 17 Novembre del 2006. Coprodotto dalla stessa
Galleria Civica di Trento assieme al Bak di Utrecht, Scapegoats «è una
“normalissima” scena di detenzione e di guerra»148[Fig.47]. Una semplice
condizione di scontro, una naturale situazione bellica di come se ne vedono
quotidianamente sui media di tutto il mondo.
Il punto sta proprio nel risvolto dei fatti che vengono raccontati. La questione
non sta nella maggiore o minore verosimiglianza. É fiction, questo è sicuro, ma
nonostante ciò il contenuto è assolutamente realistico. Si genera così una sorta di
cortocircuito, che sposta l’accento sull’asse della veridicità.
É chiaro che se l’argomento del giorno è la guerra, o comunque la violenza
organizzata, il tema generale delle videoinstallazione di Mik è il rapporto tra reale e
virtuale.149
Si cerca attraverso le immagini di recuperare un legame forte con lo spettatore,
per tentare di mettere in campo un rapporto fisico, che deautomatizzi le modalità
di rapportarsi alla realtà stessa. Un modo per recuperare la libertà individuale, per
decidere se fidarsi o meno di ciò che vediamo. Superare così le manipolazioni
dubbie, per trovare un senso più vero nelle situazioni di cui facciamo esperienza.
É anche per questo che Mik non usa il suono: troppo coinvolgente il senso
acustico. Per contribuire a spostare l’asse della percezione e dell’interesse in una
situazione come quella attuale risulta di maggiore impatto il silenzio, rotto solo da
una rapida scarica di mitra.
Il motivo della scelta di un lavoro del genere sta proprio in questo tentare di
rimodellare la percezione dello spazio e delle condizioni dei fruitori, per avvicinarsi
sempre di più ad un vivo bisogno di libertà di scelta, attraverso delle modalità
semplici. Rientra a pieno nella ricerca dell’acquisizione di una specie di contro-
strategia: il provocare quelle capacità critiche di cui abbiamo bisogno per poter 148 F. CAVALLUCCI, Normali disastri quotidiani, in “Work. ART IN PROGRESS”, Autunno-Inverno 2006-2007 – Periodico trimestrale della Galleria Civica di Arte Contemporanea Trento, n° 17, p. 9.149 Ibidem
98
uscire dal labirinto ed è dunque proprio per questo che Scapegoats è collocato in
uno dei più importanti nodi del nostro percorso.
4.4.2 A tentoni: Carsten Höller e Studio Azzurro
Gantenbein Corridor [Fig.48] è un lavoro del 2000 di Carsten Höller, proposto
come una sorta di dispositivo preparatorio per l’allucinatoria Upside-Down
Mushroom Room, presentati assieme durante Synchro System, mostra curata per
la Fondazione Prada da Germano Celant nel 2000.
Per i grandi spazi della Fondazione, Höller ha creato un villaggio di possibilità,
ovvero un labirinto di sensazioni e stimoli psico-fisici suscitati da macchine,
congegni elettrici, immense scenografie.150
Il titolo del lavoro deriva dal nome del protagonista del libro di Max Frisch, Il
mio nome sia Gantenbein, il quale finge di essere cieco, per osservare lo
scollamento tra ciò che le persone dicono e ciò che fanno quando sono convinte di
non essere viste. Un modo strategico per riuscire ad osservare e cogliere una
realtà più vera, una realtà oltre le maschere, un’autenticità innegabile.
Gantenbein Corridor is a place based on the gradual disappearance of the light to
make a way for darkness. It is a dark labyrinth trough which visitors must pass in
order to reach the Upside-Down Mushroom Room. Here there is a element of Zen
Buddhism – a sort of purificatory journey – before arriving at the place of
hallucination.151
L’opera di Carsten Höller è uno spazio in fieri, che si fa promotore di
un’esperienza di perdita della visione causata dalla graduale diminuzione della
150 F. BONAZZOLI, Allucinazioni ad arte più che una mostra tradizionale, un percorso da sperimentare col corpo. Un laboratorio di sensazioni in “Corriere della Sera”, 22 novembre 2000, p. 59. 151 G. CELANT da Germano Celant_Carsten Höller (conversazione) in G. CELANT (catalogo della mostra), Carsten Höller: >Register<, Milano, Fondazione Prada, 2000.
99
luce. Al tempo stesso è lo spazio di un’attività di conoscenza, di consapevolezza di
se stessi attraverso il buio152, un buio però percorso ed esperito. Un lento
incedere, che gradualmente, ci porta, passo dopo passo, alla ricerca di nuove
competenze. A favorire questa esperienza sono due corrimano montati sulle pareti
del corridoio. Vi è un passaggio di consegne di sensi. Dalla vista al tatto.
Importantissima parte, questa, che avvicina il presente lavoro sempre più ad una
discesa verso un luogo in cui dover esercitare rinnovate capacità. Un andare alla
volta di un’avventura misteriosa in cui, pian piano, si accresceranno attitudini e
competenze, accompagnate, soprattutto, da un diverso utilizzo dei sensi. Ci tengo
a ripeterlo, perché è proprio da ciò che ha preso le mosse la scelta di una tale
opera.
A tale idea c’è da aggiungere che le modalità di disposizione di questo lavoro
all’interno del percorso mostra che stiamo sviluppando, si collocano sulla scia del
legame che connette quest’opera all’allucinatoria Upside-Down Mushroom Room
all’interno di Synchro System153.
Il mio interesse a sottolineare queste due condizioni (quella del passaggio dei
sensi e poi quest’ultima riguardo la disposizione) nasce dal fatto che il lavoro
collocato successivamente all’interno della idea che stiamo proponendo è Il
Giardino delle cose degli Studio Azzurro. Una videoinstallazione [Cfr. 3.2.2] che
opera su quella, a volte dimenticata, linea di connessione che avvicina l’occhio ai
polpastrelli. Avvicinare Gantenbein Corridor e Il Giardino delle cose focalizza
l’attenzione e aiuta la fruizione di entrambe le opere. Per l’appunto, se la prima è
una sorta di azione preparatoria ad un’attività più intensa, che nel caso della
mostra curata da Celant assume i tratti di un miraggio, qui l’avanzare nell’ombra e
con le mani a tentoni sul corrimano si propone come un ottimo preliminare ad
un’epifania tattile, epifania che proprio l’opera degli Studio Azzurro giunge a
completare, e della quale abbiamo già ampiamente parlato nel precedente
capitolo.
152 Cfr. Ibidem.153 Cfr. L. BEATRICE, Intervista a Marco Della Torre, pubblicata il 23.03.2004 in “ARTKEY” (http://www.teknemedia.net/magazine/dettail.html?mId=260)
100
4.4.3. Più che barriere meccanismi di visione e focalizzazione
Prima di parlare dell’ultima parte del percorso di questa mostra, volevo
spendere altre parole sul dispositivo di comunicazione labirintica che abbiamo
approntato, soprattutto per toccare quelle parti che non risultano comprensibili
attraverso le immagini o che credo abbiano, comunque, bisogno di un
approfondimento.
All’interno del percorso alcune pareti che dispongono il meccanismo di visione
di questo spazio sono interamente tagliate verticalmente. Si tratta di un insieme di
fenditure che, anche a causa dell’orientamento, tentano di direzionare il cono
visivo. Consentono di vedere una parte dell’opera che è al di là della barriera. Si
stimola così l’interesse, ma al tempo stesso si provoca una sorta di tensione,
negando la possibilità di avvicinarsi o esperire il lavoro in maniera ottimale.
Questa condizione di distanza in relazione alla voglia di vedere, di capire,
sollecita l’attenzione [Cfr. 2.4.3] e pone il visitatore/utente nella posizione di andare
alla ricerca di ciò che ha visto solo in parte [Cfr. 2.4.5]. Gli è dato una sorta di
mandato, un invito a partecipare, a colmare lo spazio che lo separa dalla giusta
condizione di fruizione, attraverso un’attività tutta personale, propria e libera.
Se nella prima parte del percorso queste feritoie tensive, sono usate soprattutto
in corrispondenza di alcuni punti e per regolare un’ipotetica anteprima, che serve a
mettere in moto l’interesse e la ricerca, nella parte finale la situazione cambia. Le
aperture, a questo punto della mostra, si fanno più frequenti. A dire il vero
giungono quasi a smaterializzare i divisori spaziali, arrivando al punto di operare
come una sorta di membrana. Così facendo favoriscono una specie d’effetto
osmotico tra le aree del percorso, che risultano, così, fortemente comunicanti.
Nel caso dell’opera degli Studio Azzurro, composta da una sequenza di monitor
e installata al centro di una delle ultime parti di quest’ala del percorso, le aperture
sono situate lungo la parete retrostante. La caratteristica principale di tali aperture
è di cercare, attraverso l’angolazione del taglio nello spessore del muro, di
direzionare lo sguardo e di focalizzare l’attenzione. Avanzando parallelamente alla
parete, ormai divenuta una sorta di struttura porosa [Fig. 49], il fruitore noterà che
101
le angolazioni delle quattro fenditure non sono tutte uguali, ma cambiano. Queste
variazioni sono funzionali ad orientare il suo punto di vista [Cfr. 2.4.4],
direzionando la visione verso una sorta di punto di fuga. In questo modo la
deflagrazione che si era già innescata tra vista e tatto attraverso le opere di
Carsten Höller prima e di Studio Azzurro poi, si estende e coinvolge in ultimo
anche le opere di Graham e di Nauman, collocate al di là delle varie aperture.
Nello specifico, il punto massimo di questo atteggiamento di negoziazione e
controllo della fruizione è precisamente all’interno dell’ultimo settore di questa
parte, che come vedremo non coincide con la fine del nostro programma. Siamo
alla fine di questa zona dalla quale non è possibile uscire se non compiendo una
rotazione di centottanta gradi per tornare indietro sui propri passi. Come nei
labirinti classici si giunge a pochissimo dalla soluzione e/o dall’uscita. La si sfiora
inconsapevolmente e ce se ne allontana. Alle aperture di cui abbiamo già parlato
qui se ne aggiunge un’altra. Quest’ultimo “squarcio” che conclude la serie ha una
sistemazione di grande impatto. Aperto nell’angolo contiguo alla parete “lacerata”
di prima, permette che una leggera luce verde vi filtri attraverso. In questo modo
dopo essere acceduti qui attratti dalla luce, ci si accorge che si tratta anche
dell’unica cosa presente. Ciò che appare è un ambiente vuoto che ancora una
volta lavora sull’allontanamento della fruizione per spingere lo spettatore ad
un’attività sempre più partecipe. Si è separati dall’opera da una barriera solcata da
una fenditura, che ne permette una visione parziale, ma che non consente
l’esperienza diretta. Esperienza che risulta ancora più impellente essendo al di là
della parete Green Light Corridor di Bruce Nauman (del quale a breve parleremo,
ed ecco così spiegato anche il chiarore verde).
A questo c’è da aggiungere che le quattro aperture, di cui abbiamo fino a poco
fa parlato, si aprono tutte sullo stesso ambiente e riescono a restituire con una
certa continuità il luogo che è al di la dei setti. Qui invece la situazione è differente.
L’ultimo taglio, quello in angolo, si apre su uno spazio in cui la luce verde fa da
padrona, oltretutto a tal punto da filtrarvi attraverso. Allo stesso tempo però non
filtra nello spazio che gli altri tagli lasciano intravedere. Questo ci induce quindi a
credere che gli spazi, anche se adiacenti, non siano direttamente comunicanti, e
quindi l’intuizione sulla possibilità di uno spazio continuo si sfalda. Il nostro
102
pensiero, che aveva provato a ricostruire e unire le aree oltre la linea della parete
segmentata, si scopre nell’errore. Ci troviamo ancora una volta nella difficoltà di
mappare e quindi di cogliere la chiave di lettura del nostro labirinto.
Prima di poter ritrovare la strada maestra che ci condurrà alla soluzione e verso
l’uscita, dovremmo rimettere in gioco le acquisizioni fatte e usare con minore
certezza la vista accompagnata e sostenuta umilmente dal tatto, da un’attività
pratica.
4.5 Un fare fisico oscillante, per meglio vedere, capire, trovare,
esperire: una soluzione?
Far ondeggiare la testa davanti le feritoie per gettare, così, l’occhio dentro,
tentando di guadagnare un po’ di panoramica dell’ambiente.
Oscillare nei continui corridoi, come la pendola di un orologio, in preda ad un
altalenante moto, che concilia la meditazione e che ne evita la memorizzazione
[Cfr. 2.4.2].
Andare avanti e indietro con la consapevolezza che ritornare sui propri passi
non vuol dire errore, ma errare: il che più delle volte è un’esperienza non sterile.
Solo dopo aver raggiunto una tale coscienza, si potrà dispiegare
un’apprezzabile attività di ricerca per operare concretamente e fare del proprio
incedere una contro-strategia del tutto personale.
Nella scia di questa modalità di agire si è inscritta la scelta delle due ultime
opere di questo nostro percorso, di cui per certi aspetti abbiamo già detto
qualcosa nel precedente paragrafo.
Il primo lavoro nel quale c’imbatteremo appena saremo riusciti ad imboccare
nuovamente la via maestra, che ci porterà sino all’uscita, è un’opera di Dan
Graham, collocato immediatamente dietro le quattro feritoie. Si tratta di Triangular
Pavilion with Circular Cut-outs [Fig. 50], opera del 1989 composta da differenti
superfici specchiate che si giustappongono in vario modo lungo le tre differenti
facce. Ciò che si propone al fruitore è un’esperienza quanto mai strana, unica e
103
allo stesso tempo intelligente. Dopo aver osservato questo misterioso oggetto a
distanza, si ha, ora, la possibilità di entrare direttamente in relazione con esso e di
seguire quelle che sono le attitudini di fruizione che una tale opera comporta.
Come accade nel progetto di cui abbiamo parlato nel capitolo predente [Cfr. 3.2.1]
anche qui la condizione di luce, di posizione dello spettatore e di ambiente che
circonda il lavoro modifica la situazione di percezione. Pone il visitatore in dialogo
con la sua condizione di ricercatore e sperimentatore. Come un medium connette
lo spazio, l’attività dell’utente e la sua situazione, rendendogli sempre più palese
l’importanza a esperire, a cambiare il punto di vista e la visione. In un continuo
gioco di specchi, in cui si agisce e contemporaneamente si osserva, si vede la
propria attitudine in relazione a tutta una serie di parametri, come l’ambiente
esterno e le altre persone che lo praticano, in una presa di coscienza sempre in
crescendo.
A chiudere il percorso e a sanzionare, giusto prima dell’uscita, l’operato dello
spettatore è Green Light Corridor [Fig. 51] di Bruce Nauman, di cui abbiamo già
fatto menzione durante il discorso sulle feritoie tensive.
A differenza della serie di lavori ripresi con le telecamere a circuito chiuso,
quello preso qui in esame supera ed evita le ossessioni degli allucinatori effetti
loop154. Come in altri casi però, anche qui al centro dell’opera è messa la figura del
fruitore, che decide o meno di praticare la disorientante esperienza proposta
dall’artista.
Nauman found that he could achieve equally compelling and disorienting effects by
altering lighting conditions or the configuration of his spaces. In Green-Light
Corridor (1970-71), he left both ends of the corridor open, encouraging the intrepid
to traverse its entire length. Claustrophobia was nonetheless induced, both by the
narrow width and exaggerated length of the corridor, and by the eerie light cast by
green fluorescent tubes that ran its length.155
154 Cfr. G. PELLIZZOLA, Arte Espansa: dal quadro alla performance coordinate per un tracciato (1895-1968) in “A. BALZOLA, A. M. MONTEVERDI, Le arti multimediali digitali”, Milano, Garzanti Libri s.p.a., 2004, p. 144.155 B. NAUMAN, R. C. MORGAN, Bruce Nauman, JHU Press, 2002 p. 126.
104
La condizione che la luce, la lunghezza e l’angusta larghezza propongono al
fruitore, assume i tratti di un’esperienza mistica, dai risvolti iniziatici. A questo si
aggiunge che il corridoio, che manifesta la sua caratteristica solo se praticato,
termina in corrispondenza con la fine del percorso mostra. Il bagno di luce che
esso offre appare come una sorta di celebrazione che sanziona tutta l’attività che
fino ad ora il visitatore ha compiuto. L’uscita dal corridoio e dal labirinto non
termina con una vera soluzione ma, come nella fine di un viaggio, con una serie di
nuovi intenti e capacità.
105
106
BIBLIOGRAFIA RAGIONATA
- AA. VV., Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti, “Labirinto”, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 1950.
- ARAGONA Raffaele (a cura di), Le vertigini del labirinto, Napoli, Ed. Scientifiche Italiane, 2000.
- BONITO OLIVA Achille e altri, “Il labirinto come opera d’arte” in Luoghi del silenzio imparziale: labirinto contemporaneo, Achille Bonito Oliva (a cura di), Milano, Feltrinelli, 1981.
- CHADWICK James, Lineare B: l’enigma della scrittura micenea, Torino, Einaudi, 1959.
- COLONNESE Fabio, Il labirinto e l’architetto, Roma, Edizioni Kappa, 2006.
- FANELLI Maria Cristina, Labirinti: storia, geografia e interpretazione di un simbolo millenario, Rmini, Il Cerchio, 1997.
- ECO Umberto, Sugli specchi e altri saggi, Bologna, Tascabili Bompiani, 2001.
- KERÉNYI Károly, Nel labirinto, Corrado Bologna (a cura di), Torino, Boringhieri, 1983.
- KERN Hermann, Labirinti. Forme e interpretazioni. 5000 anni di presenza di un archetipo, Milano, Feltrinelli, 1981.
- PITTALUGA Franca, Sulle Tracce del labirinto, Roma, Gangemi Editore, 2006.
- ROSENSTHIEL Pierre, “Labirinto”, in Enciclopedia Einaudi, vol.VIII, Torino, 1979.
- SANTARCANGELI Paolo, Il libro dei labirinti, Milano, Frassinelli, 1984.
107
108
BIBLIOGRAFIA GENERALE
- AGAMBEN Giorgio, Che cos’è un dispositivo?, Roma, I Sassi Nottetempo, 2006.
- ALLOWAY Lawrence, BANHAM Reyner, LEWIS David (a cura di), This is Tomorrow (catalogo della mostra), London, Whitechapel Art Gallery, 1956.
- ALTSHULER Bruce (a cura di), Salon to Biennial. Exhibitions That Made Art History. Volume I: 1863-1859, London, Phaidon, 2008.
- AUGÈ Marc, I non luoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità, trad. it. di Dominique Rolland, Milano, Elèuthera editrice, 1992.
- AA. VV., Arte Ambientale: la collezione Gori nella Fattoria di Celle, Torino, Umberto Allemandi & C., 1993.
- AA. VV., 44. Esposizione internazionale d’arte: La Biennale di Venezia. Dimensione futuro. L’artista e lo spazio, (catalogo mostra), Venezia, Edizioni La Biennale di Venezia, 1990.
- AA. VV., 50. Esposizione internazionale d’arte: La Biennale di Venezia. Sogni e conflitti. La dittatura dello spettatore, (catalogo della mostra), Venezia, Marsilio, 2003.
- AA. VV., 51. Esposizione internazionale d’arte: La Biennale di Venezia. Sempre un po’ più lontano, (catalogo della mostra), Venezia, Marsilio, 2005.
- AA. VV., 52. Esposizione internazionale d’arte: La Biennale di Venezia. Pensa con i sensi, senti con la mente. Arte al presente (catalogo della mostra), Venezia, Marsilio, 2007.
- AA. VV., Versus. Quaderni di studi semiotici 73/74, Milano, Bompiani, 1996.
- BALZOLA Andrea, MONTEVERDI Anna Maria, Le arti multimediali digitali, Milano, Garzanti Libri s.p.a., 2004.
109
- BASSO PERESUT Luca, Il museo moderno. Architettura e museografia da Perret a Kahn, Milano, Edizioni Lybra Immagine, 2005.
- BAXANDALL Michael, Intento espositivo, in Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, I. KARP, S.D. LAVINE (a cura di), Bologna, CLUEB, 1995.
- BERTOLA Chiara (a cura di), Curare l’arte, Milano, Electa Mondadori, 2008.
- BERTRAND Denis, Basi di semiotica letteraria, Roma, Meltemi Editore, 2002.
- BERTRAND Denis, “La virtualità dello spazio”, trad. it. parziale di A. Pierri in Semiotica in nuce, volume II: Teoria del discorso, P. Fabbri e G Marrone (a cura di), Roma, Meltemi Editore, 2001 (tratto da D. Bertrand, L’espaces et le sens. Germinal d’Emile Zola, Paris-Amsterdam, Hadès-Benjamins, 1995)
- BETTINI Sergio, Tempo e forma. Scritti (1935-1977), Andrea Cavalletti (a cura di), Macerata, Quodlibet, 1996.
- BIRNBAUM Daniel, “When attitude becomes form: Daniel Birnbaum on Harald Szeemann” in ARTFORUM, New York, Summer, 2005, XLIII, No. 10.
- BONAZZOLI Francesca, “Allucinazioni ad arte più che una mostra tradizionale, un percorso da sperimentare col corpo. Un laboratorio di sensazioni” in Corriere della Sera, 22 novembre 2000.
- BONITO OLIVA Achille (a cura di), Ubi Fluxus, ibi motus. 1990-1962 (catalogo della mostra), Milano, Mazzotta, 1990.
- BORGES Jorge Luis, L’aleph, trad. it. di Francesco Tentori Montalto, Milano, Feltrinelli, 1959.
- BORTOLOTTI Maurizio, Il critico come curatore, Milano, Silvana Editoriale, 2003.
- BOURRIAUD Nicolas, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, Milano, Postmedia Srl, 2004.
- BRUNO Giuliana, Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema, Bruno Mondadori, Milano, 2006.
110
- CAGGIANO Stefano, “design 2.0” in Exibart.onpaper, VII anno, numero 54, dicembre 2008.
- CAILLOIS Roger, L’occhio di Medusa, Milano, Cortina, 1998.
- CAILLOIS Roger, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Milano, RCS libri S.p.A, 1981.
- CARERI Francesco, Walkscapes: camminare come pratica estetica, Torino, Einaudi, 2006.
- CAVALLUCCI Fabio, “Normali disastri quotidiani”, in Work. ART IN PROGRESS, Autunno-Inverno 2006-2007 – Periodico trimestrale della Galleria Civica di Arte Contemporanea Trento, n° 17.
- CAVICCHIOLI Sandra, I sensi, lo spazio, gli umori e altri saggi, Milano, Bompiani, 2002.
- CELANT Germano (a cura di), Arti & Architettura:1968/2004. Scultura, pittura, fotografia, design, cinema e architettura: un secolo di progetti creativi, Vol II, Ginevra-Milano, Skira, 2004.
- CELANT Germano (catalogo della mostra), Carsten Höller: >Register<, Milano, Fondazione Prada, 2000.
- CIRIFINO Fabio, ROSA Paolo, ROVEDA Stefano, SANGIORGI Leonardo (a cura di), Studio azzurro: ambienti sensibili. Esperienze tra interattività e narrazione, Milano, Electa, 1999.
- CLAUSEWITZ von Karl, Della guerra, G. E. Rusconi (a cura di), Einaudi, Torino 2000. Torino, Einaudi, 2000.
- COLLI Giorgio, La nascita della filosofia, Milano, Adelphi Edizioni, 1975.
- COQUET Jean-Claude, Le istanze enuncianti. Fenomenologia e semiotica, Paolo Fabbri (a cura di), Milano, Bruno Mondadori, 2008.
- CHRISTOV-BAKARGIEV Carolyn, Ubi Fluxus ibi motus, in Flash Art n° 157 estate 1990.
- DE CERTEAU Michel, L’invenzione del quotidiano, Roma, Edizioni Lavoro,
111
2001.
- DE DOMIZIO DURINI Lucrezia, Harald Szeemann. Il pensatore selvaggio, Milano, Silvana Editoriale, 2005.
- DELEUZE Gil, Nietzsche e la filosofia e altri testi, F. Polidori (a cura di), Torino, Einaudi, 2002.
- DELEUZE Gil, KLOSSOWSKI Pier, Simulacri e filosofia. Maschere, segni, eventi nella polis contemporanea, Milano, Millepiani, 1997.
- DI BARI Vito, “Introduzione al Web 2.0” in DI BARI Vito (a cura di), WEB 2.0. Internet è cambiato. E voi?, Milano, Il Sole 24 ORE S.p.A., 2007
- DI MARINO Bruno, Studio Azzurro. Tracce, sguardi e altri pensieri, Milano, Feltrinelli Editore, 2007.
- DÜRRENMATT Friedrich, Il minotauro, trad. it di Umberto Gandini, Milano, Marcos y Marcos, 1987.
- ECO Umberto, Il nome della rosa, Bompiani, Milano, 1980.
- FABBRI Paolo, La svolta semiotica, Bari, Editori Laterza, 1998.
- FABBRI Paolo, G. MARRONE (a cura di), Semiotica in nuce, Roma, Meltemi Editore, 2001.
- FABBRI Paolo, SBISÀ Marina, Appunti per una semiotica delle passioni, in Semiotica in nuce, volume II: Teoria del discorso, P. Fabbri e G Marrone (a cura di), Roma, Meltemi Editore, 2001 (tratto da «aut aut», n. 208, 1985).
- FERRARI Federico, Lo spazio critico. Note per una decostruzione dell’istituzione museale, Roma, Luca Sossella Editore, 2004.
- FLOCH Jean-Marie, Semiotica, marketing e comunicazione. Dietro i segni le strategie, Milano, Franco Angeli, 1992.
- FLORENSKIJ Pavel, L’interpretazione gnoseologica dello spazio, in Lo spazio e il tempo nell’arte, Milano, Adelphi, 1993.
- FONTANILLE Jacques, L’osservatore come soggetto enunciativo, in
112
Semiotica in nuce, volume II: Teoria del discorso, P. Fabbri e G Marrone (a cura di), Roma, Meltemi Editore, 2001 (tratto da J. Fontanille, Les espaces subjectives. Introduction à la sémiotique de l'observateur, Paris, Hachette, 1989).
- FOSTER. H., KRAUSS R., BOIS Y., BUCHLOH B. H. D., Arte dal 1900, Elio Grazioli (a cura di), Bologna, Zanichelli, 2006.
- FOUCAULT Michel, L’ordine del discorso, Torino, Einaudi, 1972.
- GREIMAS Algirdas J., Semantica strutturale, Roma, Meltemi, 2000.
- GREIMAS Algirdas J., COURTÉS Joseph, Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Paolo Fabbri (a cura di), Milano, Bruno Mondadori, 2007.
- GRYNSZTEJN Madeleine (a cura di), Take your time: Olafur Eliasson, San Francisco, SFMoMA, Thames & Hudson, 2007.
- HAMMAD Manar, Leggere lo spazio, comprendere l'architettura, Roma, Meltemi Editore, 2003.
- KARP Ivan, LAVINE Steven D. (a cura di), Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, Bologna, CLUEB, 1995.
- KLOSSOWSKI Pierre, Nietzsche e il circolo vizioso, trad it. E. Turolla, Milano, Adelphi, 1981.
- LANDOWSKI Eric, Esplorazioni strategiche, in Semiotica in nuce, volume I: I fondamenti e l’epistemologia strutturale, P. Fabbri e G Marrone (a cura di), Roma, Meltemi Editore, 2001.
- LANDOWSKI Eric, Stati di luoghi, in Versus. Quaderni di studi semiotici 73/74, Milano, Bompiani, 1996.
- LÉVY Pierre, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, trad. it. M. Colò, D. Feroldi, Milano, Feltrinelli, 1996.
- LIVINGSTONE Marco, Pop art: una storia che continua, Milano, Leonardo, 1990.
113
- LIVIO Mario, La sezione aurea. Storia di un numero e di un mistero che dura da tremila anni, Milano, RCS Libri S.p.A, 2003.
- MAGLI Patrizia, Semiotica. Teoria, metodo, analisi, Venezia, Marsilio, 2004.
- MASCHERONI Loredana (a cura di), Olafuriade Eliasson, da Pasadena a Venezia, in “Domus”, n°884, settembre 2005.
- MASTRIGLI Gabriele (a cura di), Holland – Italy: 10 Works of Architecture, Milano, Electa, 2007.
- MERLEAU-PONTY Maurice, L’occhio e lo spirito, Milano, SE SRL, 1989.
- MATZNER Florian, VETTESE Angela, ARTE ALL’ARTE, IV edizione, San Gimignano, Associazione Arte Continua, 1999
- MOLES Abraham, ROHMER Elizabeth, Labirinti del vissuto. Tipologia dello spazio e immagini della comunicazione, Venezia, Marsilio, 1985.
- NAUMAN Bruce, MORGAN Robert C., Bruce Nauman, JHU Press, 2002.
- OMERO, Iliade, trad. It. di Viincenzo Monti, Milano, Universale Rizzoli, 1990, libro XVIII.
- OVIDIO. Publio Nasone, Le Metamorfosi, trad. it di Giovanna Faranda Villa, Libri & Grandi Opere S.p.A., Milano 1994.
- PELZER Birgit, FRANCIS Mark, BEATRIZ Colomina, Dan Graham, London, Phaidon Press Limited, 2001.
- PINTO Roberto, “Michel Verjux o della dilatazione dello spazio attraverso un fascio luminoso” in Flash Art n° 157 estate 1990, p. 104.
- POLVERONI Adriana, Invento favole di luce, in “La Repubblica delle Donne” supplemento de “La Repubblica”, n. 463, 2005
- PLUTARCO, Vite parallele, Antonio Traglia (a cura di), Torino, Utet, 2005.
- PROPP Vladimir J., Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi, 1977.
- RAVERI Massimo, Il Corpo e il Paradiso. Esperienze ascetiche in Asia
114
Orientale, Venezia, Marsilio Editore, 1992.
- RIBALDI Cecilia (a cura di), Il nuovo museo. Origini e percorsi, vol. 1, Milano, Il Saggiatore, 2005.
- ROSENBERG Angela, “Olafur Eliasson. Oltre il Romanticismo nordico”, in Flash Art, n. 240, 2003.
- SCUDERO Domenico, Manuale del curator: teoria e pratica, Roma, Gangemi Editore, 2004.
- SOCCO Carlo, Lo spazio come paesaggio in Versus. Quaderni di studi semiotici 73/74, Milano, Bompiani, 1996.
- SIMMEL George, Il segreto e la società segreta, in Sociologia, Milano, Edizioni di Comunità, 1989.
- SZEEMANN Harald (catalogo della mostra), Live in Your Head. When Attitudes Become Form. Works-concepts-processes-situations-information, Berne, Kunsthalle Berne, 1969.
- TRIBE Mark, JANA Reena, New Media Art, Uta Grosenick (a cura di), Colonia, TASCHEN GmbH, 2006.
- VACCARO Giovanni Battista, Deleuze e il pensiero del molteplice, Milano, F. Angeli, 1990.
- VAUDETTI Marco, Il linguaggio dello spazio, Torino, UTET, 1995.
- VATTIMO Gianni, ROVATTI Pier Aldo (a cura di), Il pensiero debole, Milano, Feltrinelli Editore, 1983.
- VIOLI Patrizia, La spazialità in moto. Per una semiotica dei verbi di movimento, in Versus. Quaderni di studi semiotici 73/74, Milano, Bompiani, 1996.
- VIRGILIO MARONE Publio, Eneide, trad. It. Annibal Caro, Milano, Ulrico Hoepli Editors S. p. A., 1991, libro V.
- VIRILIO Paul, Lo spazio critico, trad. it. M. G. Porcelli, Bari, Edizioni Dedalo, 1988.
115
SITI WEB
- AA. VV., LAB. Padiglione Temporaneo (2004) in d’Architettura: rivista di cultura italiana del progetto, ll Sole 24 Ore Business Media S.r.l, http://www.d-architettura.it/index.php?_idnodo=196849. (27-11-2008)
- "Carsten Hoeller: Synchro System" 2000-11-22 until 2001-01-07, Milan, Italy, http://www.absolutearts.com/artsnews/2000/12/20/27850.html . (30-02-2009)
- Comunicato Stampa, Take your time: Olafur Eliasson in http://www.undo.net/cgi-bin/undo/pressrelease/pressrelease.pl?id=1208277687&day=1208642400 e http://www.moma.org/visit/calendar/exhibitions/31. (12-02-2009)
- Intervista di Hans-Ulrich Obrist a Richard Hamilton, “Pop Daddy” in Tate Magazin. Issue 4, http://www.tate.org.uk/magazine/issue4/popdaddy.htm. (01-03-2009)
- http://media.moma.org/subsites/2008/olafureliasson/#/intro/ . (14-12-2008)
- http://www.olafureliasson.net . (13-12-2008)
- NEPI Giulio, Un labirinto olandese. Il gruppo A12 al Kröller-Müller Museum di Otterlo, 17 Maggio 2004, montelocale.it (diretto da Laura Gugliemi), montelocale s.r.l . Genova, 2000-2009, http://www.mentelocale.it/arte/contenuti/index_html/id_contenuti_varint_9784. (10-10-2008)
- RONCO Manuela, L’archetipo del labirinto nell’arte contemporanea in parol: quaderni d’arte e di epistemologia, www3.unibo.it/parol/articles/labirinto.htm. (04-10-2008)
- http://www.studioazzurro.com (10-12-2008)
- BEATRICE Luca, Intervista a Marco Della Torre, pubblicata il 23.03.2004 su ARTKEY (http://www.teknemedia.net/magazine/dettail.html?mId=260) (09-01-2009)
- BONET Juan Manuel, “The painter of modern life” in http://www.julianopie.com. (15-01-2009)
116
- SCOTINI Marco, “L’atto di mostrare. Le priezioni luminose di Michel Verjux”, in Michel Verjux. Rivelare, prevalere, creare (catalogo della mostra), Milano, A arte Studio Invernizzi, 2005, testi da http://www.aarteinvernizzi.it. (03-02-2009)
117