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One of Us / Uno di Noi · 2016-02-08 · anche il termine linguistico –“sesso”- finirà con...

Date post: 07-Jan-2020
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1 Focus: Sesso o genere? Un dibattito aperto Altrovocabolario Biblionote Speciale: Campagna europea One of Us / Uno di Noi Biofrontiere ContrAddetti Mediapiù Mediameno NonsoloLocale
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Focus: Sesso o genere? Un dibattito aperto

Altrovocabolario

Biblionote

Speciale: Campagna europea One of Us / Uno di Noi

Biofrontiere

ContrAddetti

Mediapiù Mediameno

NonsoloLocale

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Sommario

FOCUS SESSO O GENERE? UN DIBATTITO APERTO Io donna, tu uomo. Chi ha paura della differenza? di Paola Ricci Sindoni ……………………………………………………….…….…………………...……………….……… 3 Sex, gender, queer. Le nuove categorie avanzano di Laura Palazzani …..……………………….………..……………………....….….……..……….…………....………… 5 Con l’ideologia di genere il dibattito è chiuso di Roberto Marchesini ………………………………………….…………………………………….………………………… 7 Il corpo al centro degli interrogativi: sovraesposto o rimosso? di Maria Teresa Russo ………………………………………………………………………………………………………….. 9 Domande giuste, risposte sbagliate. Divagazioni teologiche sulla teoria del gender di Maurizio P. Faggioni …………………….…………..……………………………………………….…..………………… 11

ALTROVOCABOLARIO Basta cambiare un nome per cambiare la propria identità? di Pier Giorgio Liverani ……..……….………………….…………………..…………….……………..…….…….…..…. 13 BIBLIONOTE Suggerimenti bibliografici …………………………..………………………………………………………….……………..………….…….………………..… 15

SPECIALE UNO DI NOI Difendere la vita è costruire il futuro dell’Europa di Maria Grazia Colombo …………………….……………………………………………….……………..………………. 16

Modulo di raccolta firme …………………………….……………………………………………………………………………….……………………………… 17 BIOFRONTIERE Le dimissioni del ministro irlandese: “no alla legge sull’aborto” di Ilaria Nava ……..……….……………………………………………………..…………….……………..…….…….…..…. 19 CONTRADDETTI Al supermarket del figlio perfetto, anche il colore della pelle è un’opzione di Giulia Galeotti …………………………………………………………….……………………………………………………. 20 MEDIAPIÙ MEDIAMENO La vita è sempre un regalo, anche quando è più forte che facile di Andrea Piersanti ………………………………………………………………………………….……….……..….……..… 21 NONSOLOLOCALE Ferrara di Chiara Mantovani ……...………....…………………….…….……………..……….……..…..…….….....….……..… 23

Direttore responsabile Emanuela Vinai

Note legali

Associazione Scienza & Vita | 06-68192554 | Lungotevere dei Vallati 10 - 00186 Roma | CF 97404790582| Iscrizione ROC n. 14872

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SESSO O GENERE 1 | Gli effetti della negazione della sessualità

IO DONNA, TU UOMO. CHI HA PAURA DELLA DIFFERENZA?

di Paola Ricci Sindoni*

Non c’è dubbio che l’ormai compiuta deriva

antropologica, legata alla trasmutazione ideologica ad opera delle Gender Theories, secondo le quali anche il termine linguistico –“sesso”- finirà con lo scomparire nell’astratta e asettica omologazione del “genere”, nasconde sul fondo la paura ancestrale della differenza. Sin dagli albori della civiltà occidentale, infatti, è stato questo paradigma biologico e culturale a segnare lo spazio del conflitto, dell’emarginazione e della violenza. La paura del diverso ha segnato così modelli culturali ispirati al bisogno di recuperare le proprie certezze, annullando le pretese dell’altro. Anche la diversità sessuale, madre di tutte le differenze, invece di rappresentare una strategica risorsa antropologica, come molti hanno tentato di chiarire, si è tradizionalmente allineata alla linea oppositiva, diventando il simbolo del conflitto tra il più forte e la più debole, con tutto il carico di subordinazione femminile che questo ha comportato sul piano individuale e sociale. Anche quando, nel secondo ‘900, si è provato a costruire modelli teorici, centrati sulla “differenza sessuale” non si è riusciti che a proporre due mondi separati, portatori reciprocamente di due diversi pacchetti di valori: la disponibilità, la dolcezza e la cura per la donna, la forza, l’organizzazione, il potere per il maschio. Si è perso così l’occasione, in quella fase del femminismo, di insistere come la differenza sessuale generasse la forza dei legami, l’alternativa concreta di costruire la reciprocità delle relazioni intersoggettive, che prendevano forma proprio grazie alle diverse prospettive che aspiravano ad un confronto, al posto del conflitto. Il pensiero dialogico che sempre in quegli anni si imponeva all’attenzione della cultura finiva così per essere emarginato e sottovalutato: la carica rivoluzionaria del nuovo paradigma che faceva della differenza la causa e il fine proprio della prassi dialogica veniva colto come teoria romantica e inapplicabile nella post modernità. Si imponeva così un tipo di pensiero filosofico e teologico, rivolto a comporre la complessità del reale dentro l’unicità del sistema. Sullo sfondo di questi diversi approcci teorici, sta comunque la comune percezione dell’oblio della filosofia e della cultura umanistica nei confronti dell’empiricità del darsi corporeo dell’essere femminile e dell’essere maschile, a favore di strutture teoriche universalizzanti, necessariamente astratte, liberate cioè da contaminazioni empiriche. La linea del pensiero disincarnato, accanto alla negazione della corporeità del darsi del femminile e del maschile, segnava così il fallimento di ogni

tentativo di interpretare la differenza, ogni differenza, come paradigma etico-antropologico. La risposta del femminismo radicale, alleatasi suo malgrado con la marcia rivendicazionista degli omosessuali, trovava in tal modo la strada in discesa: decostruire la differenza, sganciare il corpo dalla soggettività, il riconoscimento di sé dalla “natura”, significava ricercare la propria identità finalmente liberata dalla marcatura biologica verso il sogno di una uguaglianza generalizzata. Le teorie del Gender uscivano in tal modo dalla cerchia ristretta degli studi accademici, per diventare a rapidi passi cultura diffusiva, grazie anche alle potenti lobby omosessuali della moda e del cinema, che lentamente ma costantemente veicolavano figure asessuate o omosessuali sensibili, gradevoli, ormai liberate dall’ossessiva differenza … Conviene chiedersi, a questo punto, che cosa in realtà sia questa “differenza”, che si esprime in modo emblematico nella differenza sessuale, se sia soltanto una scelta culturale oppure si fondi su di una realtà indubitabile, quella della “natura”, così come anche è approvato dal senso comune. Anche questa dimensione della vita ha subito nel tempo alterne vicende, per lo più segnate dalla paura della differenza che il dato naturale da sempre evidenziava: la natura infatti si impone con le sue leggi immutabili e imprendibili dalla mano dell’uomo, sinché la scienza con il suo braccio armato, la tecnologia, ha pensato di piegarla ai suoi fini. Siamo dentro l’avventura della post-modernità, ancora segnata dalla tensione a piegare la natura –madre maligna e riottosa – con gli strumenti tecnologici: un altro modo per riportare la differenza dentro i propri paradigmi. La natura soggetta all’uomo, perdeva progressivamente il suo carattere di “dato”, di realtà esterna e al contempo interna alla condizione umana, di “oggetto” posto al di là della mano rapace degli uomini. Ciò non significa, è ovvio, demonizzare le vie della scienza, ma solo sottolineare come la natura “data” implichi una sorta di passività da parte di chi, come l’uomo, la contempla e la gestisce. Quando guardo il tramonto del sole sul mare, so con certezza che domani, sia pure in forme straordinariamente diverse, questo evento ritornerà: in questo mio sguardo non vedo la natura come un dato statico, immutabile, ma come una dimensione della realtà continuamente identica e differente. La natura insomma mi si offre nella sua inesplicabile differenza e questa, più che un oggetto da manipolare, dovrebbe divenire nella coscienza di tutti un dato da accettare, come sostiene molta ecologia ambientale.

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Rileggere i primi capitoli di Genesi in tale prospettiva, è ridire ciò che lo stesso Aristotele e tutta la tradizione filosofica realista ha sempre detto: la natura ha in sé delle leggi interne, delle logiche proprie che esprimono il bisogno di realizzazione di tutte le sue potenzialità. La natura differente dei due sessi si iscrive a questo bisogno naturale di proiezione verso le sue interne finalità: il legame di amore della coppia e la propagazione della specie, così come si realizza in tutto l’universo. Voler mutare queste leggi, significa, ancora una volta, piegare la natura alle proprie condizioni: è ancora l’uomo tecnologico che riporta tutto a sé, dentro quella indiscussa logica che oggi è diventata la scienza, le cui espressioni tecnologiche si impongono come “valori non negoziabili”, mai messi in discussione, sempre accettati come unica forma di verità. Si dirà al riguardo che questa è una delle tante interpretazioni della realtà, che oggi viviamo in un clima pluralista e che è “naturale” avere opinioni diverse, così come un sano relativismo impone. E’ comunque necessario – anche per questa questione – chiarire i termini: il pluralismo è realtà assai diversa dal relativismo. Quest’ultimo afferma che principi, valori, giudizi morali sono validi soltanto all’interno del proprio gruppo di riferimento, e non possono essere giudicati da presunte autorità esterne, anche se danno luogo a pratiche ingiuste. Il relativismo, in altri termini, non pretende il riconoscimento, né si vuol far carico delle alterità differenti, eliminando così ogni confronto: se ogni risposta è giusta, ognuno sceglie i propri valori di riferimento, stando ciascuno al proprio posto ( identità statiche), e pretendendo al contrario legittimità normativa e politica alle proprie convinzioni. Più vicino alle politiche dell’identità, diventa così un mezzo per tutelare chi fa più rumore, che è più disposto a mobilitarsi, coinvolgendo l’opinione pubblica e rifiutando un criterio oggettivo sul quale misurarsi. Ne deriva una situazione sociale perennemente conflittuale, che genera spaccature e risentimenti: chi pone principi di verità condivisibili e razionalmente riconosciuti viene tacciato di intolleranza e le altrui verità vengono condannate come banali “credenze”. Nulla a che vedere con il pluralismo che riconosce la legittimità giuridica e politica dei singoli componenti o gruppi sociali , religiosi o politici, tutti ugualmente chiamati a partecipare alla vita pubblica, che è sempre oltre lo statalismo e oltre l’individualismo, che sono i termini politici per dire la paura della differenza. Aprire un dibattito su questi temi non significa perciò fronteggiarsi uno contro l’altro, perché alla fine il più forte vinca. Significa lottare contro il relativismo, perché ogni identità sessuata ( che è più del sesso di ciascuno) si esprima nel rispetto della comune naturalità e nel recupero di strumenti argomentativi, sorretti da un sano esercizio della ragione discorsiva.

* Professore Ordinario di Filosofia Morale Università di Messina

Presidente nazionale Associazione Scienza & Vita

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SESSO O GENERE 2 | Non più astrazioni ma linguaggio comune

SEX, GENDER, QUEER LE NUOVE CATEGORIE AVANZANO

di Laura Palazzani *

La parola ‘genere’ può essere usata in diversi

modi: a livello grammaticale, indica la distinzione tra ‘maschile/femminile’ (ma in alcune lingue, anche il neutro); a livello concettuale è una categoria che raggruppa cose/persone con caratteristiche rilevanti simili e irrilevanti dissimili (si può usare anche per indicare l’‘umano’, senza distinguere uomini/donne); nel dibattito oggi, come traduzione dall’inglese ‘gender’, si riferisce, in modo specifico, ad una dimensione di significato che si contrappone a ‘sex’. Con ‘sex’ si indica la condizione biologica o fisica dell’essere uomo/donna, maschio/femmina (‘come si nasce’): con ‘gender’ si indica la condizione meta-biologica dell’essere uomo/donna, la mascolinità/femminilità (‘come si diviene’). La categoria ‘gender’ è stata teorizzata in modi diversi. Le recenti teorizzazioni delineano un percorso che si allontana sempre più dal ‘determinismo biologico’, che ritiene il ‘sex’ determinato alla nascita in modo statico e fisso, postulando la corrispondenza sex/gender. Le teorie ‘gender’ dimostrano, con modalità ed argomentazioni diverse, la separazione tra ‘sex’ e ‘gender’. La teoria di J. Money (nell’ambito della psicosessuologia) ritiene il ‘gender’ una rappresentazione psicologica e prodotto dell’educazione, a prescindere dall’identità sessuale alla nascita; le teorie del costruzionismo sociale, in ambito sociologico, riconducono il ‘gender’ ad una costruzione storico-sociale e antropologico-culturale, quale assunzione di compiti, ruoli, funzioni mediante la socializzazione; infine, le teorie post-gender identificano il ‘gender’ con la creazione individuale, ossia la libera espressione di istinti, pulsioni, volontà. Accanto a ‘gender’ compare una nuova categoria ‘queer’ che indica dopo e oltre il gender, la dimensione fluida, flessibile e fluttuante, del ‘pansessualismo/polimorfismo’ sessuale contro il binarismo sessuale. ‘Gender/queer’ diviene la espressione della ‘in-differenza’ sessuale, della neutralità e neutralizzazione che annulla ogni differenza nella mescolanza, incrocio, confusione, dove scompaiono rigide classificazioni lasciando il posto solo a sfumature variabili per grado e intensità. Non si parla più di ‘maschio o femmina’; semmai, in modo neutrale, di ‘maschio e femmina’ o ‘né maschio né femmina’. Si usa la generica espressione ‘orientamento sessuale’ per indicare in modo equivalente, unioni sessuali con individui dello stesso sesso (omosessualità) o di sesso opposto (eterosessualità). Le teorizzazioni ‘gender’ non sono

astrazioni sofisticate, ma sono già entrate e stanno entrando nel diritto vigente internazionale e nazionale. In particolare nell’ambito delle normazioni rivendicate dalla comunità LGBTI (lesbiche, gay, bisessuali, trangender/transessuali, intersex), che rivendicano il diritto a scegliere, in modo individuale ed arbitrario (sulla base della autodeterminazione), la propria identità ‘gender’ (anche a prescindere dal sex, di nascita) e unioni sessuali, in modo neutrale e indifferente. Molte sono le criticità espresse nei confronti delle teorie gender. La stessa osservazione del processo di differenziazione sessuale evidenzia la rilevazione di modificazioni ‘a cascata’ coordinate da un programma non casuale o necessitato, che si sviluppa gradualmente e progressivamente secondo una successione lineare e regolare di fenomeni strettamente interconnessi. La configurazione genetica e cromosomica determina la morfologia delle gonadi che produce ormoni, i quali svolgono un ruolo determinante per la formazione dell’apparato riproduttivo interno/esterno e dei caratteri sessuali primari/secondari. Tale processo si articola in una direzionalità teleologica: le anomalie dello sviluppo sono ‘disordini’ (così chiamati nella stessa letteratura medica, ‘disordini della differenziazione sessuale) che presuppongono un ‘ordine’ naturale. Anche il transessualismo costituisce un ‘disturbo’ che si manifesta nella disarmonia tra sesso fisico e percezione di genere psico-sociale. Non sono ancora chiare le cause che portano a tale stato, ma è indispensabile che il medico lo accerti, con una corretta diagnosi, che escluda in modo certo la presenza di un disturbo mentale, che sussista un desiderio persistente di malessere psicologico e di disagio sociale. La strategia terapeutica di ‘riassegnazione del sesso’ chirurgico-ormonale deve prevedere un percorso di transizione fisico-psichico-sociale che consenta il recupero di una condizione di armonia soma/psiche. Infine, nella prospettiva della rilevanza della natura umana, non si possono considerare equivalenti gli ‘orientamenti sessuali’. L’eterosessualità garantisce sul piano biologico-naturalistico le condizioni dell’obiettiva apertura alla procreazione nella complementarità fisiologico-sessuale. L’unione omosessuale, seppur durevole, è strutturalmente sterile: per questa ragione non può essere considerata equivalente all’unione eterosessuale. Il desiderio di genitorialità degli adulti omosessuali confligge con l’interesse del nascituro. La mancanza di una delle due figure genitoriali sessuali comporta il rischio che il figlio rimanga impigliato nel ‘narcisismo parentale’ senza che si

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instauri quella progressiva separazione che consente al nato di divenire sé. Anche se la psicologia evolutiva non fosse considerata attendibile o sufficiente, di fronte al solo rischio che la crescita di un bambino in un contesto familiare biparentale monosessuale possa attivare insanabili scompensi psichici, esige che il diritto dia prevalenza all’interesse del nascituro, anche sacrificando il desiderio di genitorialità omosessuale.

* Professore Ordinario di Filosofia del Diritto, Lumsa, Roma

Vicepresidente del Comitato Nazionale per la Bioetica

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SESSO O GENERE 3 | Dell’ideologia e del dibattito

CON L’IDEOLOGIA DI GENERE IL DIBATTITO È CHIUSO

di Roberto Marchesini*

Il titolo proposto è molto stimolante, in entrambe le

sue parti. Cominciamo dalla prima: sesso o genere? Il problema del genere, il nocciolo dell'ideologia di genere che papa Benedetto ha definito con una espressione eccezionale “una rivoluzione antropologica” (Discorso in occasione della presentazione degli auguri natalizi alla Curia romana, 21/12/2012), sta proprio in quella “O”. Il termine “genere” è stato introdotto in campo sessuologico (Money, Stoller) proprio per separare la sessualità biologica (il sesso) da quella psicologica, sociale, relazionale, identitaria (il genere). Credo che non ci sia nulla di male nella parola “genere” di per sé: è solo uno strumento concettuale in più a nostra disposizione per descrivere la realtà. A livello clinico, ad esempio, è utile distinguere i problemi di identità sessuale (“Sono maschio? Sono femmina?”) da quelli dell'identità di genere (Sono un uomo? Sono un uomo come gli altri? Il mondo maschile è il mio mondo?”). Sesso e genere sono due cose diverse, è vero, ma assolutamente legate ed interdipendenti. Credo che gli strumenti migliori per capire il rapporto tra sesso e genere (“Natura o cultura?”) ci siano stati forniti dal filosofo greco Aristotele. Aristotele parlava dell'uomo come “sinolo” (unione inscindibile) di materia e forma. Bene, per quanto riguarda la sessualità, il sesso attiene alla materia e il genere alla forma, quindi sono assolutamente inscindibili (pena la distruzione dell'uomo). Potremmo anche, e sarebbe ancora meglio, utilizzare i concetti di “potenza” e “atto”. Il sesso ci è assegnato dalla nascita, è indicato in ogni cellula del nostro corpo (“Maschio e femmina li creò”, Gn 1, 27); il genere (diventare uomini e donne) è invece il compimento di quel progetto assegnato al momento del nostro concepimento. Il genere – l'”atto” – è il compimento del sesso – la “potenza”. Dunque “sesso E genere”, legati da un rapporto specifico. L'ideologia di genere – e qui sta il vero problema – predica l'assoluta indipendenza tra sesso e genere: sesso e genere non hanno nulla a che fare l'uno con l'altro e quindi è possibile che tra loro si sviluppi un conflitto (“sesso O genere”). Questo conflitto potrà vedere talvolta sconfitto il sesso (come nel caso del transessualismo) o il genere (come nel caso dell'omosessualità) a seconda della preferenza del soggetto. Riassumo: il nocciolo dell'ideologia di genere non consiste nell'utilizzo della parola “genere”, ma nella assoluta indipendenza (che può diventare addirittura contrapposizione) tra sesso e genere. Credo che aderire a questa contrapposizione (“sesso O genere”) sia, in qualche modo, una adesione all'ideologia di genere.

Sesso e genere non sono contrapposti, ma intimamente uniti e connessi da un rapporto particolare. Veniamo ora alla seconda parte del tema: “Un dibattito aperto”. Non credo che sia possibile un dibattito tra una antropologia aristotelico-tomista (sulla quale è costruita l'immagine occidentale di uomo) e l'ideologia di genere. Non è possibile perché queste due antropologie non hanno un linguaggio comune con il quale parlarsi; mancano dunque gli elementi essenziali di un dibattito. Da una parte abbiamo il concetto di ragione, di entelechia, di un universo armonico nel quale regna un ordine, di fronte al quale l'uomo è chiamato ad un atteggiamento contemplativo; abbiamo il principio di non contraddizione, esiste una verità oggettiva (anche se non ci appare in tutta la sua interezza) di fronte alla quale l'uomo è chiamato a riconoscere il proprio limite. L'ideologia di genere ha tutte le caratteristiche dell'ideologia che io, scherzando ma non troppo, assimilo a quelle del delirio: resiste ad ogni prova dei fatti e tentativo di convincimento. Per aderire all'ideologia di genere è necessario fare tabula rasa di duemila e passa anni di filosofia antropologica, dell'intera biologia umana, della caratteristica specificamente umana di chiedersi “Perché?” e individuare un fine alle cose. Basterebbe parlare degli effetti psicologici del testosterone per far saltare l'ideologia di genere, ma faccio un esempio più terra-terra. L'ideologia di genere, tra le varie bizzarrie, chiede l'eliminazione degli orinatoi a parete. Fare la pipì in piedi, sostengono gli attivisti del genere, sarebbe un gesto sessista che discrimina gli uomini dalle donne e rappresenta una affermazione del potere maschile. Poiché (come tutto ciò che attiene al sesso e non è biologico) fare la pipì in piedi è un atteggiamento costruito socialmente sulla base di una lotta di potere tra maschi e femmine, esso deve essere combattuto. Bene, io ho una cagnolina, Gnugna, e fa la pipì accovacciata. Il suo amico Spillo è un maschietto e fa la pipì alzando al zampa. Posso assicurare chiunque che né io, né i proprietari di Spillo abbiamo insegnato ai nostri cani a fare la pipì in questo modo sessista. Come la mettiamo con la costruzione sociale dei comportamenti di genere? Il fatto è questo: Money ha inventato quest'uso della parola “genere” per giustificare i mostruosi esperimenti che lui ed i suoi collaboratori praticavano presso la John Hopkins University (vedasi il caso dei fratelli Reimer); le femministe radicali, che tanto hanno contribuito alla diffusione a livello istituzionale dell'ideologia di genere, hanno trovato uno strumento teorico che giustifica il loro lesbismo (Simone de Beauvoir, Shulamite Firestone, Grace Atkinson, Anne Koedt, Monique Wittig, Gayle Rubin, Judith Butler...); le istituzioni sovranazionali utilizzano questo “pensiero” per distruggere la civiltà giudeo-greco-cristiana...

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L'ideologia di genere è semplicemente strumentale: nessuno dei suoi attivisti è minimamente interessato a scoprire la realtà (cioè ad applicare un'ermeneutica scientifica), ma a stravolgerla per adeguarla ai propri desideri. Che dibattito può esserci con un tale delirio? Con quale fine? Su quale base, visto che essi negano il principio di non contraddizione (il genere è socialmente costruito; l'orientamento sessuale attiene al genere; però l'orientamento omosessuale è “naturale”...)? Con quali strumenti, visto che il metodo scientifico non è applicabile all'ideologia di genere (i suoi attivisti non sono in grado di portare una sola prova a dimostrazione delle loro affermazioni; quindi di cosa si può discutere?)? Infine: il dibattito, anche se fosse possibile, non sarebbe comunque aperto. Il dibattito è chiuso, finito ancora prima di cominciare. La nostra società ha accettato passivamente e in modo assolutamente accondiscendente l'ideologia di genere senza minimamente osare metterla in discussione. Da anni Stato, Regioni e Provincie hanno ministeri, dipartimenti, assessorati alle pari opportunità e nessuno ha mai obiettato alcunché, le quote rosa hanno suscitato al massimo qualche sorrisino ironico, ma mai una vera opposizione ragionata e documentata. Il motivo, a mio modesto parere, è che l'ideologia di genere è riuscita a penetrare così facilmente nella nostra cultura perché quest'ultima ha gradualmente rinunciato al suo sistema immunitario costituito, come ho detto, dalla filosofia aristotelico-tomista. Non abbiamo conservato, tramandato la filosofia che ha costruito la nostra civiltà; di essa godiamo i frutti, ma non ci preoccupiamo di curarne le radici. Fa eccezione, ovviamente, la Chiesa cattolica che con il pontificato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI ha instancabilmente messo in guardia dall'avanzare dell'ideologia di genere.

* Psicologo e psicoterapeuta

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SESSO O GENERE 4 | Si può dis-incarnare l’identità?

IL CORPO AL CENTRO DEGLI INTERROGATIVI: SOVRAESPOSTO O RIMOSSO?

di Maria Teresa Russo *

Vi propongo un esperimento mentale. Se potessimo

trapiantare il cervello di un uomo in un cavallo, avremmo un cavallo col cervello di un uomo oppure un uomo col corpo di un cavallo? La provocazione intende far riflettere sulla questione, una delle più spinose dell’antropologia, relativa all’identità personale. La classica domanda “chi sono io?” oggi, alla luce delle neuroscienze, si complica ulteriormente con altre: “in cosa consiste il mio io, la mia identità”? E’ da attribuire al cervello o, al contrario, alla capacità di poter esprimere me stesso con atti di autodeterminazione? Questi interrogativi chiamano immediatamente in causa il ruolo del corpo: quale ruolo esso ricopre nella mia identità? Marginale o essenziale? Quando dico “io”, come mi penso? In modo cartesiano, ossia come “sostanza la cui essenza consiste nel pensare”, o al contrario mi risulta impossibile pensarmi senza corpo? Si può dis-incarnare l’identità? Mi scuso di questo fuoco di fila di domande, ma la posta in gioco ha un peso di grande rilevanza non tanto nell’ambito di astruse disquisizioni da caffè filosofico, quanto per i dibattiti più scottanti oggi in corso. Il corpo risulta sempre al centro di questi interrogativi, in una temperie culturale che, paradossalmente, lo sovraespone, ritenendolo oggetto di dignità e di riconoscimento (si pensi alle rivendicazioni per il rispetto del corpo della donna nella pubblicità) e simultaneamente lo rimuove, rendendolo quasi residuale e antiquato. Il dibattito innescato dalla diffusione della Gender Theory è un esempio di questa rimozione. La filiera da ripercorrere per scoprirne le origini e lo sviluppo si compone non solo di teorie filosofiche sorte all’interno di alcuni femminismi (basta citare Gayle Rubin e, più recentemente, Judith Butler), ma anche di teorie scientifiche, rivelatesi ben presto pseudo-teorie, senza alcun fondamento sperimentale (si pensi al tragico fallimento degli esperimenti del dottor John Money). In realtà, per essere più precisi, bisognerebbe parlare di Gender Theories, al plurale, perché, pur nel dualismo di fondo che le accomuna, vi è una fondamentale differenza tra chi afferma che il Sex è indiscutibile, mentre il Gender sarebbe una costruzione sociale e invece chi sostiene che anche il Sex è “performato”, ossia socialmente prodotto nel e dal linguaggio. E’ sorprendente la rapidità di diffusione che ha registrato la terminologia introdotta dalla Gender Theory, senza un minimo di distinguo e di critica filosofica. E’ un ulteriore esempio del carattere “performativo” del linguaggio, per cui “si fanno” cose con le parole. Pochi filosofi, per timore dell’emarginazione accademica data la vulgata imperante, osano mettere in risalto la confusione

terminologica e concettuale che la Gender Theory ha creato, producendo una frammentazione della categoria di identità. Pensiamo al lessico utilizzato ormai ovunque, dai dibattiti politici ai rotocalchi e persino ai varietà: se il “sesso biologico” è l’insieme della caratteristiche corporee che configurano il soggetto come maschio o femmina, l’“identità di genere” (Gender identity) sarebbe la percezione di sé come maschio o femmina indipendente dal sesso biologico; il “ruolo di genere” (Gender role) diventa la manifestazione sociale della propria identità di genere, conforme o in contrasto con le aspettative sociali connesse all’essere maschio o femmina; infine, l’“orientamento sessuale” è l’attrazione emotiva nei confronti di persone dello stesso sesso, di sesso opposto o di entrambi i sessi. Ad accrescere la confusione, si definisce come “identità sessuale” l’insieme o interazione di queste quattro componenti. Due prime osservazioni si impongono: qual è il posto che assume la corporeità sessuata in questa prospettiva? E ancora: come è possibile definire l’“identità sessuale” una “interazione di queste quattro componenti”, se le ultime tre possono risultare in contrasto con la prima, la quale diventa indifferente? Per essere precisi, non esiste il “sesso biologico”, ma esiste il “corpo sessuato” e non è una semplice questione di parole: non si possiede un sesso, ma si è sessuati. La psicologia dello sviluppo ci mostra che la scoperta dell’io va di pari passo con la scoperta del proprio corpo e, come Freud e Lacan insegnano, del proprio corpo sessuato. E’ evidente e si può ben affermare che sessuati si nasce e sessuali si diventa. E se ciò avviene anche grazie all’educazione e alle influenze dell’ambiente, non significa che il risultato sia un costrutto artificiale. Se si nasce in grado di parlare, ma si diventa parlanti solo grazie ad altri, non per questo si è autorizzati ad affermare che il linguaggio non sia naturale: semplicemente non è spontaneo, il che è diverso. La nostra condizione sessuata comprende diverse dimensioni, per cui occorre che si sviluppino gradualmente sia uno schema psicologico del proprio corpo sessuato sia un adeguato orientamento sessuale, tutto ciò nel contesto del sesso “sociale”, che è quello riconosciuto dal nome e dalla registrazione civile. Ma non si tratta di “più” identità. Esiste un’unica identità, che è quella del soggetto chiamato a realizzare un lavoro di integrazione di queste dimensioni, pena l’esperienza di un profondo disagio personale. Ma questo disagio, si badi bene, non va attribuito esclusivamente, come spesso si afferma, allo stigma sociale o ad atteggiamenti di discriminazione (sempre beninteso inaccettabili e frustranti), bensì alla difficoltà personale nel ricomporre in unità e senza contraddizioni gli aspetti della propria condizione sessuata.

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Occorre ritornare a riflettere sulla centralità del corpo nell’identità personale, con tutte le sue implicazioni, recuperare un’idea adeguata di natura umana, sfuggendo alla trappola del culturalismo, che vede il corpo quasi come zavorra della propria libertà. La femminista Barbara Duden, docente di Storia del corpo e critica della Gender Theory, osserva con sorpresa che per la maggior parte delle sue studentesse la categoria di “natura” è diventata “un ideologema minaccioso, sinonimo di monopolio eterosessuale, di cromosomi xx, di determinismo biologico e di una concezione antiquata. Per la maggior parte delle mie giovani studentesse il corpo non rappresenta nulla più di un semplice costrutto sociale”. La sfida è far nuovamente affiorare il carattere personale della nostra condizione in-carnata, “fare corpo col proprio corpo”, per non scomporre la propria identità in tanti simulacri senza sostanza, altrettanti personaggi in cerca d’autore.

* Docente di Bioetica Facoltà di Scienze della Formazione

Università Roma Tre Roma

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SESSO O GENERE 5 | E’ la persona nella sua interezza ad essere sessuata

DOMANDE GIUSTE, RISPOSTE SBAGLIATE DIVAGAZIONI TEOLOGICHE SUL GENDER

di Maurizio P. Faggioni *

I dibattiti che agitano le opinioni pubbliche

occidentali sul riconoscimento delle unioni omosessuali e la loro equiparazione alla unioni eterosessuali, gli interventi di correzione del fenotipo nel caso di disordini della identità di genere eseguiti in nome del primato della autocoscienza, l’esaltazione della sessualità extramatrimoniale e del libero esercizio della genitalità sono alcune delle questioni quotidiane che sono confluite nel gran contenitore ideologico costituito dalla teoria del genere. Come è noto la teoria del genere, nelle sue molteplici declinazioni, sottolinea la preminenza delle costruzioni culturali e delle scelte individuali nel definire la sessualità umana rispetto ai nudi dati biologici. La teoria del genere ha la pretesa di fornire una visione generale della sessualità umana, secondo il modello delle vecchie ideologie moderne e con queste condivide il carattere metanarrativo, ma anche la astiosa insofferenza per qualsiasi contraddittorio. La legge sull’omofobia che si sta discutendo in Italia, per esempio, comprensibile come argine alle ingiuste discriminazioni ed emarginazione delle persone omosessuali e come difesa della loro dignità di persone, tuttavia risente delle tonalità ideologiche e intolleranti che sono presenti nella teoria del genere. Noi siamo convinti che non solo nel caso della lotta contro la omofobia, ma, più in generale, la teoria del genere viene impiegata come base socio-culturale per affrontare problemi reali e a questioni non effimere che ricevono, però, una risposta parziale e inadeguata. Senza pretendere in poche righe di presentare le complesse radici problematiche di natura storica, sociologica e filosofica che rappresentano la preistoria e il terreno di crescita della teoria del genere, non possiamo sottacere le domande e istanze cui la teoria del genere cerca di rispondere, domande e istanze che agitano anche il mondo teologico e che sono oggetto di sofferta riflessione in ambito ecclesiale. Una prima critica viene portata al legame pressoché esclusivo fra sessualità e procreazione: la antropologia sessuale tradizionale, erede dell’antropologia stoica, comprendeva la sessualità in prospettiva naturalistica e sottolineava, fra i molti aspetti possibili della sessualità umana, quello procreativo. Questa enfasi unilaterale, ovviamente, comportava una sottolineatura della binarietà e fissità dei ruoli sessuali in funzione della riproduzione. L’attenzione era tutta sulla funzione naturale degli organi sessuali intendendo il termine “naturale” in riferimento alla capacità procreativa. In questa prospettiva la sessualità umana non risultava particolarmente connotata rispetto alla sessualità

animale e la comprensione della sessualità tendeva ad appiattirsi sulla genitalità. Da Aristotele a san Tommaso, passando per sant’Agostino, la dualità sessuale o, meglio, il dimorfismo sessuale, veniva spiegato in ordine alla finalità procreativa. L’etica sessuale tradizionale assumeva come criterio base per valutare la correttezza dell’esercizio della sessualità e dell’uso accettabile del piacere sessuale la fecondità degli atti sessuali e la loro contestualizzazione nell’istituto matrimoniale: si consideravano perciò illeciti tutti gli atti sessuali extramatrimoniali e, addirittura contro natura, tutti gli atti – anche fra sposi - che non fossero almeno potenzialmente procreativi. Contro natura erano considerati quindi la zoofilia, ma anche la sodomia e persino la masturbazione. Contro natura cioè contro il fine naturale della sessualità venivano giudicati anche i rapporti non vaginali con una donna o il coitus interruptus, per non dire l’uso del profilattico, anche fra coniugi. L’altro aspetto della tradizione antropologica preso di mira dalla teoria del genere, chiaro riflesso delle sue ascendenze femministe, è la pretesa naturalezza delle asimmetrie di potere fra maschi e femmine. La donna, per motivi biologici, sarebbe naturalmente inferiore, inadatta a dirigere e governare, moralmente fragile, destinata ad un ruolo subordinato nella società e, anche in famiglia assoggettata al capofamiglia. L’organizzazione sociale, le strutture educative, i sistemi legislativi, le elaborazioni filosofiche, le convenienze comportamentali erano tutte orientate alla perpetuazione e rafforzamento della ideologia maschilista, suggerendo ai bambini e alle bambine l’assunzione di persuasioni e di ruoli corretti Lo status quo era infine egregiamente rafforzato dagli insegnamenti tradizionali delle religioni monoteiste. La lettura sessista di Efesini 3, per esempio, canonizzava senza discussioni la soggezione unilaterale delle mogli ai mariti, nonostante la reciprocità di sottomissione invocata dal versetto 21 di quello stesso capitolo paolino. L’emancipazione della donna dalla sudditanza , la sua uscita da uno stato di minorità permanente e il suo ingresso da protagonista nella società suonavano per l’antropologia tradizionale come una rivoluzione inaccettabile e disastrosa che scardinava l’ordine naturale voluto dal Creatore. L’onda di piena delle scienze umane, soprattutto la psicoanalisi di matrice freudiana, l’antropologia culturale, la sociologia hanno messo in crisi la riduzione della sessualità a genitalità procreativa, l’universalità e, quindi, la naturalezza delle strutture familiari, la ragionevolezza della marginalizzazione della donna. Lo specifico della sessualità umana non deve essere ricercato in ciò che la accomuna con la sessualità animale, ma in ciò che la distingue e , quindi, non nel legame fra esercizio della sessualità e procreazione, ma, al contrario, nella progressiva

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autonomizzazione fra sessualità e procreazione a vantaggio delle dimensioni ludiche, simboliche, comunicative, personali della sessualità umana. L’attenzione si sposta dagli aspetti procreativi a quelli interpersonali e la stessa fecondità fisica viene compresa come fecondità personale ovvero come creatività di una relazione amicale. Il dualismo binario dei sessi legato alla generazione, l’istituto matrimoniale tradizionale al servizio di questa finalità, l’esclusione di rapporti non eterosessuali, la fissità dei ruoli sessuali e la corrispondenza rigida fra strutture fisiche della sessualità, autocoscienza di genere e ruoli sessuali, vengono messi in discussione e rifiutati. Ci pare che un limite della teoria del genere stia nella sua incapacità di valorizzare la singolarità della persona e la ricchezza del suo essere sottolineando in modo unilaterale alcuni aspetti a scapito di altri. Per non mortificare la coscienza si mette fra parentesi il corpo o lo si riduce a un dato un bruto, plasmabile a volontà come se non fosse sempre e originariamente un corpo umano e non fosse portatore di una istanza di senso che precede l’interpretazione. Per riconoscere la dignità della donna sembra necessario negarne la differenza e la originalità rispetto all’uomo. Per non essere schiavi delle leggi biologiche della procreazione si esalta la libertà del desiderio e la forza legittimante del consenso prescindendo dalla globalità della persona, anima e corpo. Per non esser costretti a un generare necessitato da istinto si sciolgono amore umano incarnato e procreazione. La questione è antropologica: l’uomo e la sua sessualità si fluidificano in un costruttivismo suscettibile di decostruzioni e riletture infinite. I problemi cui vuole rispondere la ideologia del genere sono autentici, ma la soluzione proposta è devastante e non tiene conto del fenomeno umano nel suo complesso. La sessualità è una realtà articolata che attraversa tutta la condizione umana. Essa non può essere ridotta alle strutture e alle funzioni genitali, ma esse non possono neppure essere sottratte ad uno sguardo d’insieme, perché è la persona nella sua interezza ad essere sessuata, a livello biologico, a livello psicologico, a livello relazionale. Dal momento che la persona si autocomprende attraverso l’esperienza fondamentale e irriducibile della corporeità che è sempre una corporeità sessuata, ciascuno di noi non può comprendersi compiutamente prescindendo dalla connotazione sessuale del suo esistere corporeo. Questa autocomprensione è un processo altamente soggettivo che non si compie, tuttavia, in un vuoto assoluto, fuori di uno spazio e di un tempo dati, ma sempre in precisi contesti storici e culturali, all’interno di un’interpretazione generale del mondo umano e attraverso i codici linguistici e simbolici propri di un certo gruppo e di un certo tempo. L’autocomprensione del proprio esistere in quanto creatura sessuata si configura, così, come un processo di mediazione e di unificazione compiuto dal soggetto fra molteplici elementi di diversa provenienza, naturale e culturale, fisici e psichici, consci e inconsci, necessitati e liberi. Il vissuto della sessualità, passando attraverso un processo di mediazione, ne riflette e ne subisce le vicende, le difficoltà, i fallimenti, derivandone una inevitabile componente di relatività. Le regole che le diverse società hanno elaborato per dare ordine all’esercizio della sessualità sono diverse e riflettono sensibilità difficilmente riducibili a norme universalmente condivise. Il legame naturale fra sessualità e generazione rappresenta una evidenza antropologica che le diverse culture hanno valorizzato e normato, data l’importanza della generazione per la vita sociale e individuale, ma il tratto tipico dell’intuizione morale originaria sulla sessualità umana, prima di qualsiasi specificazione normativa, è il legame fra l’esercizio della sessualità e una relazione interpersonale tendenzialmente stabile fra uomo e donna che possiamo

definire coniugale. “La sessualità - si legge in un bel testo del Catechismo della Chiesa Cattolica - segna tutti gli aspetti della persona umana, nell’unità del suo corpo e della sua anima. Essa coinvolge in modo particolare la capacità affettiva, la capacità di amare e di procreare e, in modo ancora più generale, l’apertura a stringere con l’altro rapporti di comunione” (CCC 2332). L’antropologia personalista tematizza queste istanze e risponde, in modo inclusivo e non esclusivo, alle questioni serie che sono sottese alla teoria del genere. La sessualità presenta un volto pienamente umano soltanto quando essa viene assunta in relazioni libere tra persone umane. Uomo e donna sono modi diversi di attuarsi dell’unico progetto umano, uguali nella dignità, diversi per incontrarsi. In una visione unitaria e multidimensionale della persona corpo e coscienza non si oppongono perché il corpo altro non è che la rivelazione del Sé ed in esso si anticipa un senso di fondamentale apertura alla comunione che la persona abbraccia liberamente. Proprio il tema della comunione interpersonale, alternativa ad una antropologia individualista, dovrebbe diventare il punto di partenza per una rilettura dell’antropologia sessuale e permettere di cogliere nel matrimonio fra uomo e donna il compimento dell’umana sessualità. Se, infatti, la comunione è apertura all’altro da me, la pienezza coniugale della relazione richiede la diversità sessuale significata nel corpo, simbolo della persona, e la fecondità è segno e suggello della ricchezza creativa di questa comunione con l’alterità.

* Professore Ordinario di Bioetica Accademia Alfonsiana, Roma

Consigliere nazionale Associazione Scienza & Vita

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SESSO O GENERE? | Una scaltra elaborazione verbale

BASTA CAMBIARE UN NOME PER CAMBIARE LA PROPRIA IDENTITÀ?

di Pier Giorgio Liverani*

Non ti piace il tuo sesso? Cambiagli nome.

Questa non è una battuta, ma una realistica sintesi del senso di uno dei più recenti lemmi dell’Antilingua. La pretesa di mutare l’oggettivo in soggettivo ovvero di cambiare l’apparenza della realtà mutandone il nome, è uno dei risultati della nuova antropologia, che si fonda sul principio di autodeterminazione: la persona non sarebbe più un’unità di spirito (non di anima) e di corpo, ma uno spirito che ha (possiede) un corpo. Se nella concezione unitaria dell’uomo il corpo è un dato certo e non modificabile della persona, nel pensiero figlio del materialismo evoluzionista e del radicalismo è soltanto una parte della natura del mondo messa nella mani dell’uomo come disponibile e di cui si ha la proprietà (esempio classico: «L’utero è mio e lo gestisco io»). La sua disponibilità alimenta una sorta di lotta di liberazione dall’“oppressione” identitaria del sesso con la possibilità di modificare il proprio genere e quindi di cambiare la propria identità senza interventi fisici. Il genere di appartenenza si trasforma in un «gender» di scelta temporaneo o permanente. È il linguaggio di questa nuova filosofia del corpo, ma in realtà soltanto un drammatico gioco di parole, che non intacca la fisicità della persona, ma ne illude la psiche. Questa tecnica linguistica viene presentata come capace di soddisfare il desiderio dell’appartenenza all’altro dei due generi (maschio o femmina), ma lascia intatta la realtà, pur raggiungendo sensibili risultati strumentali, dialettici, politici e teorici. Così, alla fine del secolo scorso, era nata l’Antilingua, fatta di “parole dette per non dire quello che si ha paura di dire” o che non si vuole dire o per ingannare sia chi parla sia chi ascolta. Il suo caso più classico è l’“interruzione volontaria della gravidanza”, trasformazione soltanto verbale del nome “aborto” in una parola meno sgradevole e addirittura in un “diritto della donna”1. Poiché, però, la realtà non può essere mutata, il suo significato viene sdoppiato: il contenuto sgradevole è riservato soltanto a quello clandestino mentre il nuovo nome, pur lasciando intatta la realtà, acquista un valore etico, giuridico e di “civiltà”. Naturalmente la differenza tra l’aborto legale diventato IVG e quello clandestino vietato è soltanto nel nome, che sussiste unicamente come espressione ideologica legata a un processo di

1 Cfr Giovanni Paolo II, «Evangelium Vitae», § 11.

“liberazione” femminile, che viene fatto passare come “conquista civile”, ma non cancella le due brutali realtà. Assai simile è la vicenda del sesso che si muta in “genere” (gender), ma anche in questo caso soltanto a parole. Quando una persona non gradisce o non si sente più a proprio agio nel sesso che madre natura le ha donato (cosa oggi di una qualche frequenza), interviene la soluzione gender, linguisticamente assai più efficace, più raffinata e meno traumatica della trans-sessualità e soprattutto reversibile senza sacrifici fisici. Per soddisfare il “diritto all’autodeterminazione” occorrevano una teoria che fosse anche politicamente corretta e una definizione di maggiore dignità e accettabilità formali e avesse possibilità di ritorno. La soluzione gestibile fu trovata nell’adattabilità della teoria del gender, parola inglese che significa genere, ma in sé priva di un genere, che divenne un vero e proprio strumento ideologico e si presta, quindi, agli effetti accattivanti della nuova antropologia. Il gender o, meglio, il gender streaming, che all’inizio indicava soltanto un modo o un’ottica di presa in considerazione degli aspetti che nella personalità di un maschio o di una femmina fanno vivere il “maschile” o il “femminile”, fu formulato in un modo capace – sovrapponendosi alla realtà del sesso – di divenire elemento culturale, sociale e “storico” determinante della maschilità e della femminilità. Nella sua nuova significazione, la parola gender entrò a far parte del lessico dell’Antilingua per indicare un sesso illusorio non più statico e immutabile, ma – dicono i suoi sostenitori – dinamico e variabile sia interiormente alla persona sia nella realtà politica e sociale, separando così il sesso dalla sessualità della persona. L’operazione corrispondeva alla visione dualistica della nuova antropologia accennata all’inizio, anche se nella realtà si tratta di una pura operazione linguistica, anzi antilinguistica. Questa elaborazione verbale, dichiarata valida per entrambi i sessi anagrafici e manifestatasi inizialmente nelle due Conferenze Mondiali delle Donne promosse dalle NU nel 1985 a Nairobi e nel 1995 a Pechino, fu soprattutto un frutto del pensiero femminista, presentandosi come un riscatto dalla dipendenza del femminile dal maschile. Insomma: legato a una pre-condizione naturale, il sesso sarebbe vissuto come un limite e poiché ogni limite oggi è visto come una minorazione e una mancanza di libertà, anch’esso come altri andrebbe superato (si pensi per esempio, all’aborto, alla fecondazione artificiale, all’eutanasia, alle nozze gay).

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Ecco, dunque, come sarebbe sufficiente cambiare un nome per cambiare, almeno nel modo di sentirla, la propria identità, fino a ieri condizionata dal dimorfismo sessuale immutabile e oggi, invece, apparentemente superabile nel gioco illusorio di un dualismo che si trasferisce dalla specie umana alla persona. Esso, però, non tiene conto di quanto possono pesare le sue conseguenze. La principale, che va ben oltre quelle di tipo anagrafico e tenta di smentire la creazione, è – per usare un concetto del cardinale Carlo Caffarra – «una riduzione che porta diritto a una progressiva dissoluzione della relazionalità della persona»2: il tessuto sociale, oltre che quello morale tra gli esseri umani, non sarebbe più necessariamente basato su un intreccio di mascolinità e femminilità e sul valore del linguaggio. Davanti a noi si prospetta il rischio di una seconda Babele caratterizzata dalla demolizione della parola a semplice flatus vocis e, dunque, assai peggiore della prima.

2 Cft C. Caffarra, «Maschio o femmina: realtà o scelta?», www.caffarra.it, Brescia 21 giugno 2008.

* Giornalista Direttore responsabile “Quaderni di Scienza & Vita”

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Piccola nota bibliografica V. HELD, Etica femminista. Trasformazioni della coscienza e famiglia post-patriarcale, Feltrinelli, Milano 1997. M. RIDLEY, Il gene agile. La nuova alleanza fra eredità e ambiente, Adelphi, Milano 2005 D. O’ LEARY, Maschio o femmina? La guerra del genere, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006 J. BUTLER, La disfatta del genere, Meltemi, Roma 2006 B. DUDEN, I geni in testa e il feto nel grembo. Storia del corpo femminile, Bollati Boringhieri, Torino 2006. M. TERRAGNI, La scomparsa delle donne, Mondadori, Milano 2007 P. RICCI SINDONI, Fra natura e cultura. Note antropologiche ed etiche sulla differenza tra i due sessi, in AA.VV., Di un altro genere: etica al femminile, a cura di P. Ricci Sindoni e C. Vigna, Vita e Pensiero, Milano 2008 L. PALAZZANI, Sex/Gender: gli equivoci dell’uguaglianza, Giappichelli, Torino 2011 F. CRISTOFARI, Chiavi di lettura del principio famiglia e identità di genere, Giappichelli, Torino 2011 M. T. RUSSO, Differenze che contano. Corpo e maternità nelle filosofie femministe, Giuliano Ladolfi, Roma 2013.

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UNO DI NOI | Una firma di dialogo

DIFENDERE LA VITA È COSTRUIRE IL FUTURO DELL’EUROPA

di Maria Grazia Colombo*

Uno di noi, appartenenza, dimensione di un popolo.

Quando in direttivo del Forum delle Associazioni Familiari è stata posta sul tavolo la possibilità di seguire l’esperienza della raccolta firme per l’iniziativa Uno di noi, mi sono resa subito disponibile. Forse un po’ incuriosita, senz’altro poco informata ma inspiegabilmente interessata a questa proposta italiana ma con sguardo e dimensione europea. Ho sempre lavorato associativamente nell’ambito scolastico ed educativo, il Forum mi ha però spalancata alla dimensione bellissima della vita nella sua globalità. Quante volte la tentazione di seguire bene quello che facciamo, in cui siamo specializzati, ci impedisce di guardare oltre e uscire da schemi già precostituiti. Questa esperienza mi ha costretta a confrontarmi con associazioni e movimenti con carismi diversi, il tema della vita infatti unisce sempre, non divide e la sconfitta più grande è il tentativo di rendere questo tema ideologico. C’è una sensibilità popolare che lo testimonia, l’embrione è vita e va riconosciuta la sua dignità umana, sempre. Il messaggio è molto semplice e facilmente ripetibile, il punto è riconoscerlo e proporlo a tutti per farlo diventare “voce di un popolo”, appunto il popolo italiano ed europeo di Uno di noi. Così è nata l’avventura che giorno dopo giorno ha messo accanto alcune persone in un gruppo operativo più ristretto che ha dovuto scegliere slogan, foto, testi e organizzare la fase del marketing e della comunicazione. In questo gruppetto c’è un lavoro sottile di scambio, a volte acceso, di opinioni e strategie che costruisce. La prima scelta che insieme abbiamo dovuto fare è stata quella relativa la foto bellissima del bambino “sotto la coperta” ,da utilizzare per i manifesti, un bimbo con grandi occhi azzurri quasi inquietanti che sanno comunicare bene la portata della sfida. Quel mento sorretto da una piccola mano, un viso serio che disarma e che riempie di contenuto l’affermazione che sovrasta l’immagine: “Anch’io sono stato un embrione. Puoi metterci la firma”. Se lo guardiamo bene, quel bimbo, attraverso i suoi occhi lo sta comunicando. La Bellezza comunica sempre la Verità e quell’immagine è straordinariamente bella. Poi ecco gli incontri con i responsabili dei movimenti e associazioni del nostro mondo cattolico ma non solo: abbiamo cercato di interessare tutti. L’iniziativa è di tutti e proponibile a tutti. Senza dare nulla per scontato ma piuttosto cercando punti in comune anche con appartenenze religiose, confessionali diverse. La richiesta di una firma presuppone un incontro, una relazione, un volto, delle ragioni, nelle chiese, sulle piazze, nelle scuole, ovunque. La campagna Uno di noi pone al centro la persona, nella sua totalità e nel suo diritto a crescere, a vivere, a essere cittadino a pieno titolo del mondo. Non si tratta di difendere valori astratti ma occasione di riflessione sulla vita, sulla famiglia, sulla

società che vogliamo costruire per il futuro. Le persone rispondono, esprimono attraverso una firma ciò di cui sono fatti, escono da una solitudine di pensiero oggi molto preoccupante. Difendere la vita in ogni fase dal concepimento alla fine naturale è costruire un pezzo della nostra storia non solo italiana ma europea, di questa nostra Europa così travagliata. Sono convinta che oggi più che mai occorra avere luoghi in cui potersi confrontare su temi importanti ( vita, famiglia, scuola , educazione, lavoro etc.), in cui “giocare” la propria responsabilità di adulti appassionati alla vita capaci di dialogare con le nuove generazioni. Papa Francesco alla Giornata mondiale dei giovani a Rio de Janeiro ha definito il dialogo tra le generazioni un tesoro da conservare. La sfida di Uno di noi ha come traguardo ottenere entro il 31 ottobre un milione di firme in Europa , molti sono ormai i Paesi che in modo parallelo stanno lavorando accanto al Comitato italiano e i risultati sono davvero sorprendenti. Molte sono le iniziative già in programma in questi ultimissimi mesi, dal Meeting di Rimini, al “click day” del 22 settembre che vedrà protagonisti movimenti e associazioni. Durante le Settimane sociali dei cattolici a Torino dal 12 settembre sarà avviata una raccolta firme straordinaria in Piemonte, mentre il 29 settembre” la vita” sarà nelle piazze italiane con i Forum regionali delle associazioni familiari. La prima settimana di ottobre Uno di noi andrà “ a scuola” anzi nelle scuole, statali e paritarie, e il 26 ottobre in pellegrinaggio a Roma con tutte le famiglie per incontrare il Papa . A questi appuntamenti se ne aggiungono molti altri per testimoniare una creatività molte volte popolare segno di un desiderio di dialogo costruttivo necessario per rafforzare il tessuto sociale del Paese. Il dialogo infatti si pone tra l’indifferenza egoista e la protesta a volte violenta. L’opzione del dialogo vince sempre ed è sempre possibile. Scrive Papa Francesco : “L’unico modo di crescere per una persona, una famiglia, una società, l’unico modo per far progredire la vita dei popoli è la cultura dell’incontro, in cui tutti hanno qualcosa di buono da dare e tutti possono ricevere qualcosa di buono in cambio”. Uno di noi chiede una firma di dialogo, di incontro.

* Portavoce Comitato Italiano Uno Di Noi Presidente Agesc

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Approvata la normativa che autorizza l’interruzione volontaria di gravidanza

LE DIMISSIONI DEL MINISTRO IRLANDESE “NO ALLA LEGGE SULL’ABORTO”

di Ilaria Nava*

“Non mi sono mai considerata un’attivista

pro-life. Non mi hanno incoraggiato ad impegnarmi in politica a causa del problema dell'aborto. In realtà, ho già spiegato che quando ero una studentessa avevo una visione molto diversa su questo argomento”. Ha chiarito subito il suo punto di vista Lucinda Creigthon, trentatreenne, ministro irlandese degli affari europei, dimessasi dal ruolo che ricopriva dal marzo 2011 nel governo guidato dal premier Enda Kenny. La giovane capo dicastero ha lasciato l’incarico dopo l’approvazione della normativa sull’aborto, la “legge sulla protezione della vita durante la gravidanza”. Poi è stata espulsa dal Fine Gael, il partito di maggioranza, insieme ad altri cinque deputati. Il magistrale discorso che la giovane ministro ha tenuto in Parlamento è andato al cuore del problema, affrontandolo da un punto di vista laico: “Sarebbe strano se noi, come legislatori e, si spera, come esseri pensanti – ha detto toccando il tema dell’aborto basato sulla differenza di genere diffuso in alcuni Paesi come la Cina – non ci ponessimo l'ovvia domanda: "Qual è la differenza netta tra lo screening di genere seguito dall’aborto, e l'uccisione intenzionale di quel bambino dopo il parto? La risposta è, naturalmente, nessuna”. Ha poi proseguito: “Questo dimostra ancora una volta che la questione dell'aborto non è una questione liberale - tutt'altro. In una società liberale si celebra la vita in tutte le sue manifestazioni imperfette. Noi celebriamo anche il diritto degli esseri umani di godere la vita - sia che si parli di un criminale condannato a morte, o una bambina innocente, o di un bambino con la sindrome di Down. Nessuno di noi è perfetto, ma la nostra vita è degna e siamo tutti degni di una vita. Chi è uno di noi per stabilire che anche una sola vita non è degna di essere vissuta, non è degna di protezione?”

Finora l’interruzione di gravidanza era vietata nelle ventisei contee della nazione e sanzionabile con una pena che poteva arrivare fino a 14 anni di reclusione. Ora la pratica sarà possibile in caso di pericolo di vita per la madre. Il dibattito è stato infuocato al Dáil, la Camera bassa, dove la discussione è durata tre giorni, comprese le sessioni notturne. Contestatissima la norma che comprende tra le cause di pericolo di vita della madre, che autorizzano l’aborto, anche la tendenza al suicidio. Molti, infatti, sostengono, che non ci sia una correlazione tra la gravidanza in corso e l’istinto di togliersi la vita. Il presidente Michael D. Higgins, ha firmato due giorni fa la legge, scegliendo di non esercitare una prerogativa concessagli dalla Costituzione, ossia chiedere alla Corte Suprema di verificare la compatibilità della normativa con la Costituzione. Il cardinale Seán Brady, primate d’Irlanda e arcivescovo di Armagh, aveva criticato l’introduzione di un sistema “molto più liberale di quello previsto dalla Costituzione”, evidenziando anche la mancanza della clausola sull’obiezione di coscienza dei sanitari.

* Giornalista

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India: prove generali di scienza staccata dall’etica

AL SUPERMARKET DEL FIGLIO PERFETTO IL COLORE DELLA PELLE E UN’OPZIONE

di Giulia Galeotti*

«Mayuri Singhal, 36 anni,

sposandosi è entrata in una famiglia dalla pelle chiara. Lei stessa è una di quelle donne che le rubriche matrimoniali definirebbero come “bianchiccia”. E quando Mayuri Singhal ha capito che non sarebbe mai riuscita a concepire per vie naturali, è entrata in una clinica specializzata nella fecondazione in vitro ponendo sul piatto una condizione molto precisa: voglio un bambino dalla pelle bianca».

Shobita Dhar, In search of fair babies, Indians chase Caucasian donors for IVF, The Times of India, 21 luglio 2013 Se – stando ai dati dell'Organizzazione mondiale della sanità – in India vivono oggi circa diciannove milioni di coppie sterili (cifra che si ritiene in continua crescita), tra costoro sta diventando sempre più diffusa la prassi di rivolgersi alle numerose cliniche per la fertilità sparse per il Paese asiatico. Fecondazione assistita, fecondazione eterologa, utero in affitto: la panoplia delle opzioni offerte è decisamente ampia. Come già successo nei Paesi occidentali, e del resto nella logica di mercato, con il tempo però la clientela si va facendo sempre più esigente. L'ultima frontiera – come registra The Times of India in un pezzo non apertamente critico, ma di certo non simpatizzante con la scelta – è quella di volere bambini più “pallidi” possibile. Di volere, cioè, venditori eterologhi bianchi. Li vogliono ormai circa il settanta per cento di quanti si rivolgono a queste cliniche. Pelle chiara, occhi celesti, alto livello di istruzione: è questo l'identikit del venditore o della venditrice ideale. Nell'articolo in esame, Shobita Dhar non prende apertamente le distanze (come già detto) dalla richiesta dei clienti indiani, ma nel raccontare ai

lettori questo trend sempre più mancato, dà voce a diversi medici locali che ricordano come ottenere un bimbo “su misura” sia una pratica difficile e molto costosa. “Servono tantissime autorizzazioni e permessi”, avverte ad esempio il dottor Anjali Malpani, specialista della fertilità che lavora a Mumbai. I servizi di un venditore europeo hanno un costo che va dai mille ai cinquemila dollari, a seconda della salute e del grado di istruzione di costui. I gameti caucasici – provenienti per la maggior parte dalla Spagna e dai Paesi dell'Est – giungono in India grazie ai servizi di corrieri internazionali e di compagnie di crioconservazione specializzate nel campo. “I tanti problemi logistici, economici e amministrativi esistenti però – conclude Shobita Dhar – non scoraggiano affatto coppie come Suresh e Supriya Shetty, provenienti da Hyderabd, che hanno cercato con caparbia tenacia un venditore più chiaro di loro. 'Siamo così felici che nostra figlia Vani sia bianca come il latte. Non v'è alcun dubbio che le ragazze chiare sono molto più facili da sposare' ha quindi concluso Suresh”. Questa vicenda è l'ennesimo esempio della transnazionalità di una scienza slegata da qualsiasi vincolo morale o etico. Se la genitorialità è appagamento di un desiderio, se per diventare padri e madri è sufficiente recarsi al supermercato o al discount, è chiaro che chi ha i soldi vuole il prodotto migliore. E più soldi hai, più vuoi scegliere. Biondo, con gli occhi azzurri e con una progenie upper class, ad esempio. Di cosa ci stupiamo?

* Giornalista

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Tre storie oltre ogni sentimentalismo

LA VITA È SEMPRE UN REGALO ANCHE QUANDO È PIÙ FORTE CHE FACILE

di Andrea Piersanti*

Talia, Carlotta, Ezio. Tre storie diverse dal

mondo dell’entertainment ma un’unica morale: la vita è un regalo, sempre bellissimo, anche se la malattia o il dolore possono colpire quando meno te lo aspetti. Le cronache dell’avventura umana di questi tre protagonisti dello spettacolo che sono state proposte dai media a metà luglio spostano il dibattito oltre la soglia dell’ideologia o del sentimentalismo. Una giovanissima star di Youtube, Talia Joy Castellano, lo scorso 17 luglio è morta per un tumore incurabile: aveva solo 13 anni e abitava a Orlando, negli Usa, la città famosa per i suoi giganteschi parchi di divertimento per bambini. Il cancro le era stato diagnosticato nel 2007. Aveva deciso subito di non nascondere la malattia (il cranio senza capelli, il viso scavato dalla chemio) ma di elaborare un “make up” leggero ed efficace che fosse in grado di esaltare la sua bellezza di bambina. La cosa le era riuscita così bene che aveva deciso di aprire un canale su Youtube, “Professional Makeup Guru”. Le sue lezioni sul trucco, in realtà vere e proprie inni alla vita, hanno commosso l’America. «E che cosa vi aspettate che faccia? Dovrei forse deprimermi? Un piccolo pesciolino mi ha detto: continua a nuotare, continua solo a nuotare», ha detto una volta durante uno show tv. Un anno fa, dopo una nuova diagnosi dei medici, aveva deciso di sospendere le cure. «Non è giusto. Ho solo 13 anni. Davvero non dovrei fare questo. E’ davvero ingiusto che i bambini abbiano il cancro, fa proprio schifo», aveva detto ai suoi fan sul web. Però aveva anche spiegato: «Avere il cancro è stato un regalo, anche se orribile. Una cosa orribile e terrificante. Eppure ne ho ricevuto tanti benefici: avere un canale su Youtube, ispirare moltissime persone, avere tanti spettatori e spiegare perché adoro il trucco, usandolo come la mia parrucca. Trovare dentro di me così tanta fiducia, e andare al negozio di alimentari senza indossare i capelli finti. Avere il cancro è stato un viaggio sorprendente, ma ogni viaggio ha una fine». Su Facebook, il giorno della sua morte, è stato pubblicato un post. «E’ col cuore molto pesante - hanno scritto - che

condividiamo con voi la notizia che Talia si è guadagnata le sue ali. Per favore sollevate la sua bella anima, la sua bella luce verso il paradiso, e inviate il vostro amore e le vostre preghiere alla sua famiglia, durante questo momento così difficile. Vai con Dio piccolina. Possa tu essere libera dal dolore e dalla sofferenza, possa la tua anima sentire la luce e l’amore che hai portato a così tanti di noi su questa terra, durante il breve periodo in cui sei stata qui. Ci mancherai più di quanto tu possa mai immaginare, bambina». Pochi giorni prima, il 15 luglio, a Benevento era morta Carlotta Nobile. Violinista, 24 anni, anche lei colpita da un tumore. «Mi chiamo C., ho 24 anni, e dal 5 ottobre del 2011, combatto con un melanoma metastatico al quarto stadio. Io non so più quanti centimetri di cicatrici chirurgiche ho. Ma li amo tutti, uno per uno, ogni centimetro di pelle incisa che non sarà mai più risanata. Sono questi i punti di innesto delle mie ali», aveva scritto sul blog “Ilcancroepoi” che aveva aperto proprio per «creare un luogo virtuale di incontro e scambio su quella difficilissima ma estremamente formativa esperienza di vita che è il cancro». Prima di morire, Carlotta aveva fatto in tempo a pubblicare tre libri; inoltre era concertista, direttore artistico dell’Orchestra da camera di Santa Sofia e si era laureata alla Luiss di Roma in Storia dell’arte. Il 20 luglio, a Torino, il pianista Ezio Bosso, 42 anni, ha tenuto un concerto. Nel 2011 era stato operato al cervello per un tumore. Adesso sta meglio ma una sindrome autoimmune lo costringe ad usare un bastone per camminare. «Per il tumore ho perso anche l’uso dei suoni, riconquistarlo è volare lontano dai problemi». Con un sorriso spiega che «noi esseri umani siamo bellissimi, ma spesso, chissà perché tendiamo a dimenticarcene. Ora parlo a fatica, non posso più correre, ma riesco ancora a suonare». In America, ma anche da noi, ha avuto molto successo una serie tv intitolata “Scrubs” ambientata nelle corsie di un ospedale. Le vicende dei praticanti e dei dottori sono raccontate in chiave di commedia con uno stile che ha conquistato le platee dei telespettatori più giovani (in Italia la serie è stata mandata in onda da Mtv). Il protagonista, JD, è costretto ad affrontare anche il mistero della morte.

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Negli ospedali capita più spesso di quanto si vorrebbe. In una puntata della serie, ad un certo punto, esclama: «È curioso come le persone affrontino le brutte notizie in modo diverso. C'è chi reagisce in modo viscerale. C'è chi rifiuta la realtà. E gli altri... Gli altri semplicemente voltano le spalle». Non è il caso di Talia, di Carlotta o di Ezio. «When you're smilin' keep on smilin'. The whole world smiles with you And when you're laughin' oh when youre laughin'. The sun comes shining through», cantavano Louis Armstrong ed Ella Fitzgerald. «Quando sorridi, tutto il mondo ti sorride».

* Giornalista, Docente di Metodologia e Critica dello spettacolo

Università “Sapienza”, Roma

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CONOSCERSI & CONFRONTARSI | In Emilia Romagna a “vegliare” per la vita

FERRARA

di Chiara Mantovani*Chi siamo? Nel giugno del 2005 si svolgeva in Italia il referendum sulla PMA e c’era bisogno di fermare un incendio, quella emergenza antropologica che avrebbe realizzato la stessa deriva che poi ha investito Spagna, Gran Bretagna e un po’ ovunque, in Europa. Provvidenzialmente è successo quello che spesso accade in casi di emergenza: una grande, generosa cordata di piccoli atti, un passamano di secchi pieni d’acqua. Oggi, dopo la prosecuzione di quella straordinaria avventura, i Comitati Locali sono diventati 104 Associazioni Locali, segno di un impegno che ha perso i tempi e i ritmi della frenesia e ha guadagnato la metodologia dell’atto educativo. Altro passo, stessa finalità: allearsi per costruire un futuro degno dell’uomo.

Che cosa facciamo? A Ferrara siamo partiti il 5 aprile 2005: tanta gente, tante competenze, tanto entusiasmo e la sensazione di avere l’occasione vera di proporre un pensiero corretto e ragionevole. Naturale, dopo la fine della consultazione referendaria, continuare a lavorare. Così siamo diventati Associazione Locale, il 14 giugno 2006. Abbiamo allacciato relazioni e legami sul territorio, con singoli e associazioni persuasi che l’uso profondamente umano della ragionevolezza possa già consentire di raggiungere condivisioni profonde. Le sfide che in questi anni ci hanno interpellato non sono diminuite, anzi. Ma continuiamo a credere in una scienza rispettosa della persona umana, che ad essa si accosti per servirla e non per servirsene; in una tecnica consapevole di essere, appunto, tecnè, azione non essenza; in una politica conscia di essere mezzo, non fine, dell’agire umano.

Noi e il Nazionale. I rapporti con il consiglio Esecutivo sono stretti e preziosi: come ogni articolazione locale, in questi anni abbiamo avuto tante volte il sostegno affettuoso e qualificato dei “ragazzi” della segreteria. Ripeto spesso, con orgoglio, che è da pochi poter contare su tanta competenza unita a passione e gentilezza.

Guardiamo al futuro. I rapporti con le scuole e le parrocchie sono, insieme alle collaborazioni con gli organismi diocesani, il nostro ordinario campo di azione: piccole cose, a misura dei bisogni e delle richieste. Aver portato un pullman di giovani universitari al convegno del novembre 2012 è stata una splendida esperienza, l’occasione per vedere da vicino lo spaesamento del

mondo giovanile non solo sui grandi temi bioetici ma in generale sul senso del vivere, dello studiare, del lavorare. È una strada da proseguire. Ferrara è una città tranquilla, la nebbia invernale e la calura estiva la fanno assomigliare ad una Bella Addormentata: bella, senza dubbio, ma anche sonnacchiosa e un po’ spocchiosa. “È la provincia, bellezza!” Ma questa estate è scoppiata una polemica per qualche frase schietta del nostro Arcivescovo, S. E. Mons. Luigi Negri, sul degrado che il mercoledì sera sembra impadronirsi del centro cittadino ad opera di giovani molto impegnati a “divertirsi” fin sul sagrato della Cattedrale. Il suo rammarico per una generazione che si accontenta dello sballo - anziché cercare il buono, il bene e il bello nella loro vita– sono state ovviamente trascurate dalla stampa locale. Allora si è pensato di organizzare una “Movida por la Vida”: un aperitivo per lanciare la campagna Uno di Noi. “Vai in vacanza? Ai monti o al mare, approfitta, fai firmare!”. Abbiamo spiegato bene come raccogliere le firme e soprattutto abbiamo offerto argomenti per fondare la ragionevolezza della richiesta di rispetto per ogni essere umano sempre, anche quando è un embrione. Abbiamo un sogno: restare svegli! Siamo colpiti da quella pacifica e originale – perché antica – forma di testimonianza rappresentata, in Francia, dai veilleurs e dalle méres veilleuses. Il silenzio e la poesia, la cura dell’umano e la pacifica evidenza della realtà. Accanto, e non al posto, delle conferenze, degli incontri, degli scritti e delle notizie scientifiche, perché non aggiungere il dato di fatto che se non c’è qualcuno che ci ama, e se non amiamo, siamo capaci solo di cinismo e di tristezza? Ecco, a Ferrara siamo pochini, ma allegri e di buona volontà. Come tutte le associazioni locali e non solo.

* Presidente Associazione Scienza & Vita Ferrara

Consigliere Nazionale Associazione Scienza & Vita ______________________________

Pagina a cura di Luca Ciociola


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