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ordinanza 15 novembre 1999; Giud. Melluso; imp. Pivanti e altri

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Page 1: ordinanza 15 novembre 1999; Giud. Melluso; imp. Pivanti e altri

ordinanza 15 novembre 1999; Giud. Melluso; imp. Pivanti e altriAuthor(s): Edoardo D'AmbrosioSource: Il Foro Italiano, Vol. 124, No. 9 (SETTEMBRE 2001), pp. 487/488-495/496Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23196679 .

Accessed: 28/06/2014 08:11

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PARTE SECONDA

rativa era prevalentemente o esclusivamente dipendente dalle

commesse dell'Acea (pochissimi imprenditori hanno dichiarato

di aver lavorato anche per altri enti). E chiaro che, posto di

fronte alla richiesta di una tangente a pena di esclusione dalle

gare future, formulata da personaggi che detenevano un potere

politico così forte in quegli anni (Sbardella e Moschetti da una

parte, Dell'Unto (prima) e Rotiroti (poi) dall'altra), l'impren ditore, per il quale

— questo è il dato più importante

— l'esclu

sione dalle gare poteva significare la cessazione dell'attività (si ribadisce che la maggior parte delle persone offese lavorava

esclusivamente per l'Acea) non poteva opporre che una debole

resistenza e finiva, obtorto collo, per pagare (v., riguardo alla

«capacità di resistenza» del privato, Cass. 26 marzo 1996, Gar

bato, id., Rep. 1997, Corruzione, n. 15, che ha escluso la con

cussione «ambientale» nel caso di corresponsioni di denaro ef

fettuate all'assessore regionale alla viabilità da parte di profes sionisti affermati, già operanti in svariati campi e titolari di im

portanti cariche, al fine di ottenere incarichi professionali; la

corte, in particolare, ha rilevato che siffatti soggetti non poteva no abilmente sostenere di essere stati condizionati dall'illecita

prassi regionale e di essersi dovuti piegare all'accordo sulle

tangenti per assicurarsi la sopravvivenza nel campo del lavoro:

anche da tale decisione è, quindi, possibile desumere il principio

per cui quando il privato — come nel processo che ci occupa

si pieghi alla richiesta illecita del pubblico ufficiale per assicu rarsi la sopravvivenza nel campo del lavoro deve considerarsi

vittima del reato di concussione e non responsabile del reato di

corruzione). Del resto, se non si fossero sentiti come soggetti passivi di

una condotta prevaricatrice (piuttosto che protagonisti di un ac

cordo paritetico), non si comprende perché — com'è successo e

molti di loro hanno dichiarato — gli imprenditori avrebbero do

vuto protestare, presso il Bosca o il Moschetti, per l'esosità

delle richieste ricevute (che non era compatibile con le possibi lità economiche dell'impresa), oppure cercare talvolta il sotter

fugio di «arrotondare» in loro favore la somma da versare (ver

sando, cioè, meno di quanto preteso), ovvero ancora, eludere, in

qualche occasione, i pagamenti connessi ai rinnovi (a trattativa

privata) degli appalti già aggiudicati e per i quali era già stata versata la relativa tangente. V'è da aggiungere, a tal proposito, che più volte nelle deposizioni delle persone offese si fa riferi

mento ai pressanti solleciti ed ai vigorosi rimproveri subiti, an

che in modo mortificante (v. esame Giorgini, laddove, parlando del Bosca, dichiara: «... una volta mi disse che gli portavo l'e

lemosina ...»), dal Bosca e/o dal Moschetti per il ritardato, in

sufficiente o, talvolta, omesso versamento della tangente: situa

zioni, queste, che evidenziano ancora una volta la posizione di

superiorità dell'agente pubblico (e/o del suo concorrente nel

reato) e, per converso, lo stato di soggezione in cui versavano i

privati. Ravvisata, quindi, la sussistenza della condotta costrittiva o

induttiva, sono da ritenersi pacificamente integrati sia l'ultimo

componente dell'elemento materiale del reato di cui all'art. 317

c.p., e cioè l'indebita dazione o promessa di denaro (che veniva

effettuata all'indomani dell'aggiudicazione del singolo appalto), sia l'elemento soggettivo, rappresentato dal dolo generico e,

quindi, dalla coscienza e volontà di tutti gli elementi del reato, con la consapevolezza del carattere indebito della dazione o

della promessa. Ed infatti, il bagaglio di esperienza politico-amministrativa

posseduto da tutti gli imputati li rendeva senz'altro consapevoli sia dell'abuso delle pubbliche funzioni che stavano perpetrando o contribuendo a perpetrare, sia della coartazione della volontà

degli imprenditori — ai quali, con le modalità che si sono de

scritte, veniva chiaramente fatto comprendere che dovevano pa

gare se volevano continuare a lavorare per l'Acea — sia, infine, del fatto che le somme versate da questi ultimi non erano a loro

in alcun modo dovute.

In relazione a tutti gli elementi costitutivi, deve, in conclusio

ne, ritenersi integrata dalle condotte ascritte agli imputati ai capi B e D (per tale capo limitatamente agli episodi per i quali si ri tiene raggiunta la prova) la fattispecie delittuosa della concus

sione. (Omissis)

Il Foro Italiano — 2001.

TRIBUNALE DI FERRARA; ordinanza 15 novembre 1999; Giud. Melluso; imp. Pivanti e altri.

TRIBUNALE DI FERRARA;

Prova penale in genere — Documenti anonimi — Utilizzabi

lità (Cod. proc. pen., art. 240).

Il documento anonimo che integra comunque il corpo di un

reato si sottrae al divieto di utilizzabilità enunciato nella pri ma parte dell'art. 240 c.p.p. (1)

( 1 ) Scritti anonimi e loro utilizzazione come corpo del reato.

1. - Quesiti. Un documento tradizionalmente guardato con sospetto ed escluso dal processo viene alla ribalta sotto una luce particolare: ta

le, secondo il Tribunale di Ferrara, da giustificarne l'utilizzazione. As

sumiamo che, nel corso di un esame dibattimentale, un imputato di

reato connesso, in seguito a contestazioni mosse nei suoi confronti dal

pubblico ministero, rifiuti di rispondere; che l'organo d'accusa chieda

l'acquisizione di una lettera anonima con gravi minacce a carico del

l'esaminando e che il giudice accolga la domanda: quella missiva, poi ché integra il corpo di un reato, sfuggirebbe al divieto comminato nella

prima parte dell'art. 240 c.p.p. e avrebbe un «interesse probatorio», an

zi, rimarchevole, al fine di valutare la credibilità delle dichiarazioni ri

lasciate nelle indagini preliminari da quello stesso soggetto. Una con

clusione del genere suscita dubbi piuttosto seri. In primo luogo, ammettere l'uso degli anonimi ogniqualvolta essi

costituiscano corpo di un qualsiasi reato — anche diverso, cioè, da

quello oggetto del procedimento in corso — significa svuotare la regola in forza della quale tali documenti non dovrebbero essere acquisiti né

in alcun modo utilizzati, restringendola a casi tutto sommato marginali. Infatti, se la creazione di .quella scrittura di per sé non costituisce ille cito (penale), è frequente che alla stessa si ricorra per minacciare (come nel nostro caso), calunniare, simulare reati, estorcere e così via (1).

Ma, a prescindere dagli effetti sull'economia applicativa della nor

ma, l'opzione ermeneutica non convince. Suscita, anzi, interrogativi in

solubili: a quale apprezzabile interesse risponderebbe l'utilizzabilità di

uno scritto anonimo, sol che costituisca corpo di un reato qualsiasi? Cosa giustificherebbe una disciplina differenziata tra il caso in cui lo

scritto integri il corpo di reato e quello in cui non lo integri? Insomma,

per quale ragione un documento «sporco» — qual è il corpus delieti —

sarebbe «più» utilizzabile di uno «pulito»? Quali sono, allora, gli esatti limiti e la ratio della disciplina derogatoria dettata dall'art. 240 c.p.p.?

La questione s'incunea in un nuovo snodo nevralgico, che sarà op

portuno trattare a parte (2): quale ruolo può giocare l'anonimo nel re

gime di acquisizione probatoria eccezionale previsto dal riformato art.

500 c.p.p. (3)? È idoneo esso ad accertare quel fatto («processuale» o «secondario»; la condotta illecita) da cui dipende la deroga all'obbligo di formazione della prova in contraddittorio (5° comma dell'art. 111

Cost.)? L'ammissione a tal fine del mezzo sospetto potrebbe infatti

fungere da passe-partout per far affluire al dibattimento dichiarazioni rese in precedenza dal testimone: elementi probatori emersi nella fase

prodromica potrebbero trasmigrare nel fascicolo dibattimentale — sen

za possibilità di controesame — sol che si valutasse un anonimo quale «elemento concreto per ritenere che il testimone è stato sottoposto a

violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affin ché non deponga ovvero deponga il falso» (4).

Si cercherà qui di mostrare come, invece, quel documento non possa assurgere a prova di alcunché, salvi i casi in cui operino effettivamente, e non solo in apparenza, le eccezioni previste dall'art. 240 c.p.p.

2. - Ragioni del divieto d'uso. La chiusura verso ogni notizia da fonte misteriosa nasce, per induzione, dal rifiuto delle denunce anonime

quali insidiosi strumenti d'infamia. In origine, infatti, questo rifiuto era

espresso in forma implicita (anche se facilmente ricavabile dall'obbligo di sottoscrivere la denuncia) e mirava ad un'esigenza di politica crimi nale: individuare il reo di calunnia (5).

(1) Oggi va menzionata anche l'ipotesi delle «induzioni a non rende re dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all'autorità giudizia ria», di cui al nuovo art. 377 bis c.p., introdotto dall'art. 20 1. 1° marzo 2001 n. 63, c.d. sul giusto processo.

(2) Il discorso verrà ripreso nell'ultimo paragrafo. (3) Il riferimento è all'art. 16 1. 63/01.

(4) Così il 4° comma del nuovo art. 500 c.p.p. (5) Cfr. ordonnance criminelle, 1670, art. 7, titolo III; codice crimi

nale del Granducato di Toscana, 1786, art. 1; codice di procedura pe nale pel Regno d'Italia, 1807, art. 60; codice di procedura criminale

degli Stati sardi, 1847, art. 88; codice di procedura penale per gli Stati

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GIURISPRUDENZA PENALE

Rilevato che il documento di cui il p.m. ha chiesto l'acquisi zione, in quanto contiene una evidente minaccia pervenuta al

Pivanti, già collaborante in fase di indagini, integra il corpo di

un reato e come tale si sottrae al divieto di utilizzabilità enun

ciato nella prima parte dell'art. 240 c.p.p., come ivi peraltro

espressamente previsto. Esso è dunque come tale ammissibile ed è altresì rilevante

anche ai fini della valutazione della credibilità della chiamata in

correità svolta dal Pivanti stesso.

L'introduzione di un esplicito divieto normativo di dar seguito a «delazioni oscure» veniva invece auspicata dagli illuministi, il cui pen siero sembrava oscillare fra due diverse anime: da un lato, si sottoli neava come le denunce anonime finissero per vanificare qualsiasi pos sibilità di difesa dell'accusato; dall'altro, attraverso la sottoscrizione, si voleva imporre una consapevole responsabilizzazione del denunziarne

(6). Quest'ultima visione, etica, del divieto prevalse anche nelle for mule adottate dai quei legislatori che, per primi, espressero il principio di esclusione (7). In tali ordinamenti, accanto alla regola generale d'inutilizzabilità, per le denunce anonime, si prevedevano eccezioni per i casi (flagranza di reato o fatto permanente) in cui la fondatezza delle notizie trovasse riscontri: la nuova disciplina rispondeva, quindi, ad una

presunzione d'inattendibilità del suo autore, e non ad un'esigenza di

garanzia del cittadino accusato. Con il codice del 1930, il divieto venne esteso ad ogni altro «scritto»

(8), e risultò ispirato da una sola ragione: quella di sanzionare l'anoni mo contegno, socialmente riprovevole. Magistratura, avvocatura e dot

trina salutarono con favore tale scelta, consona allo spirito dei tempi:

di S.M. il Re di Sardegna, 1859, art. 100; codice di procedura penale del Regno d'Italia, 1865, art. 100; codice di procedura penale, 1913, art. 89. A titolo esemplificativo, si menziona la disciplina contenuta

negli art. 1 e 2 del codice Leopoldino del 1786: «Tutte le cause crimi nali si principieranno o ad istanza del querelante pubblico, o ad istanza della parte offesa; l'uno e l'altro sarà obbligato a firmare la sua quere la, sapendo scrivere, e presentata in tribunale, a ratificarla con la viva voce davanti al ministro a ciò deputato, il quale, interrogatolo ancora

sopra quel più che esigesse di schiarimento il tenore della stessa que rela, ne registrerà l'atto nelle debite forme» (art. 1); «Quest'atto servirà

perché chi avrà presentato le querele sempre, e a tutti gli effetti, ne sia il debitore per tutti i casi che l'imputato ritrovato innocente si dovesse

procedere contro l'accusatore per calunnia» (art. 2). (6) L'idea risale a Montesquieu e a Beccaria, ma le più organiche ar

gomentazioni in materia si devono all'opera di Filangieri, che conside rava la libertà di accusare (intesa come piena assunzione di responsabi lità in capo al denunciarne, ottenuta attraverso la pubblicità e sottoscri zione della denuncia) direttamente proporzionale alla difficoltà di ca lunniare (G. Filangieri, La scienza della legislazione, Firenze, 1872, vol. II, libro III, 28); ed a quella di Carrara, la cui massima preoccupa zione era rivolta, in un sistema processuale che si servisse di notizie

anonime, alle «angustie e ai perigli patiti a danno dell'innocente, (...) per il quale non è possibile costruire la prova negativa», e alla «impu nità dei diffamatori e calunniatori» (F. Carrara, Testimonianze anoni

me, in Lineamenti di pratica legislativa penale, Torino, 1886, 368). N. Nicolini (Della procedura penale nel Regno delle due Sicilie, Livorno, 1843, II, 434), individua addirittura in una pronuncia divina di assolu zione il fondamento dell'irrilevanza della denuncia anonima: «Ubi sunt

qui te accusanti Disse Nostro Signore all'adultera. Nemo, Domine. E Dio: Neque Ego te condemnabo».

Un modello normativo — ancora vigente — in cui si condiziona il

procedimento a rigorosi standard qualitativi della querela o della de

nuncia, esigendo non solo gli ordinari requisiti formali, ma anche l'e sclusione di intenti calunniosi mediante un apposito giuramento, è il codice di procedura penale dello Stato di San Marino, in particolare l'art. 28: «Chiunque si presenta in giudizio per querelarsi di un reato,

pel quale abbia sofferto danno fisico o morale, e chiunque si faccia a denunziare in giudizio un reato qualunque, deve, prima di essere inteso in esame, prestare il giuramento che dicesi di calunnia, ossia deve giu rare toccando le scritture a delazione del cancelliere o attuario, che egli non è mosso alla sua querela o denunzia dall'animo di calunniare la

persona, contro la quale sta per esporre la querela o denunzia».

(7) Cfr. codice delle gravi trasgressioni politiche pel Regno lombar do-veneto. Sezione seconda: Della procedura legale contro le gravi tra

sgressioni politiche, 1815, § 297; codice per lo regno delle due Sicilie,

1819, art. 28; codice criminale e di procedura penale per gli Stati esten

si, 1855, art. 46). (8) Fissava il previgente art. 141 c.p.p.: «Eliminazione degli scritti

anonimi. Gli scritti anonimi non possono essere uniti agli atti del pro cedimento, né può farsene alcun uso processuale, salvo che costituisca no corpo del reato, ovvero provengano comunque dall'imputato».

Il Foro Italiano — 2001.

«opportunissima e veramente di stile fascista è la innovazione» (9),

perché «lo scritto anonimo, che rappresenta costantemente un gesto in

generoso e vile, non poteva essere tollerato da un regime, che ha a suo fondamento il senso di responsabilità, la dirittura e il coraggio» (10). Secondo questa concezione, l'ordinamento rinuncia a contributi infor

mativi in ossequio all'indirizzo morale secondo cui è giusto farsi carico delle proprie dichiarazioni, svelando la propria identità (11).

Alla luce dell'assetto politico-processuale delineato dal codice del 1988 e dal nuovo art. 111 Cost., la regola d'esclusione recupera — ac canto a quella «etica» — una funzione «laica» ed epistemologica: pro teggere non solo il diritto di difesa, ma, più in generale, il metodo del

contraddittorio. Una dichiarazione, infatti, è credibile quanto la sua

fonte (12), perciò le parti (o, d'ufficio, il giudice) devono poter esami nare in giudizio il documentatore per saggiarne la sincerità; diversa

mente, non è dato sottoporre il documento dichiarativo a controllo ra zionale (13). Lo scritto è da considerare anonimo, allora, solo quando non consenta di risalire all'autore; non anche quando manchi della

semplice sottoscrizione, ma se ne accerti comunque la provenien za (14).

Vari segnali spingono a tale accezione «sostanziale» del concetto; anzitutto la previsione secondo cui il documento è comunque utilizza bile se proviene dall'imputato: proprio perché se ne accerta la prove nienza, la fonte cessa d'essere anonima; perciò vien meno la ragione del suo bando (15). In secondo luogo, la coerente disciplina di diffiden

(9) Cfr. avvocati di Bologna, tra i commenti delle Commissioni reali e sindacati avvocati e procuratori, in Pareri al progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale, in Lavori preparatori al codice pe nale e al codice di procedura penale, IX, 286.

(10) Così gli avvocati di Brescia, in Pareri al progetto preliminare del nuovo codice dì procedura penale, cit., 286.

(11) Una lettura in chiave «garantista» della disciplina è offerta, in

vece, da M. Nobili, Il principio del libero convincimento del giudice, Milano, 1974, 324; nonché, sia pure in relazione alla problematica del l'utilizzabilità della denuncia anonima nella «preistruttoria», da G. Il

luminati, Una deludente pronuncia in materia di delazioni anonime, in Riv. it. dir. e proc. pen.. 1976, 1047, 1054.

(12) In questo senso, F. Carnelutti, Documento (teoria moderna), voce del Novissimo digesto, Torino, VI, 87; R. Orlandi, Atti e informa zioni della autorità amministrativa nel procedimento penale, Milano, 1992,205 s.

(13) Tanto che al documento dichiarativo (non anonimo) si ritiene

applicabile per analogia la disciplina della testimonianza indiretta (art. 195 c.p.p.): la mancata, e pur possibile, escussione dell'autore della di chiarazione nelle forme dell'esame testimoniale, richiesta da una delle

parti, si tradurrebbe in una causa di inutilizzabilità del documento me desimo. La tesi è di I. Calamandrei, I documenti in senso stretto nel l'ottica del codice del 1988, in Giust. pen., 1992, III, 475 s., e P. Toni

ni, Il valore probatorio dei documenti contenenti dichiarazioni scritte, in Cass, pen., 1990,1, 2217.

(14) Propende per la teoria c.d. «sostanzialistica» dell'anonimo la

migliore dottrina, tra cui F. Cordero, Procedura penale, Milano, 2000, 752; P. Corso, Notizie anonime e processo penale, Padova, 1977, 148 s.; nonché la giurisprudenza: Cass. 25 gennaio 1979, Barraco, Foro it.,

Rep. 1979, voce Procedimento penale, n. 1. Da tale concezione discende che ove la paternità dello scritto venga

accertata in apposito giudizio (ad esempio, quello — originariamente concepito contro ignoti — avente ad oggetto la minaccia perpetrata mediante anonimo), il medesimo documento, proprio perché perde il suo carattere originario, sarà utilizzabile quale prova dei fatti in esso

dichiarati, in un procedimento diverso. (15) In realtà, la locuzione «provenienti dall'imputato» è ambigua:

può essere intesa come «ritrovamento materiale» presso l'imputato; oppure come «paternità», «riferibilità» all'imputato medesimo. En trambe le alternative hanno inconvenienti; seguendo la prima, la dispo sizione diviene pressoché inspiegabile: per quale motivo la mera rela zione materiale tra l'anonimo e l'imputato dovrebbe «sanare» l'inuti lizzabilità? Accogliendo la seconda, però, la regola risulta superflua (non occorre prevedere esplicitamente l'utilizzabilità dell'anonimo re datto dall'imputato: s'arriverebbe alle stesse conclusioni anche in virtù della già esposta concezione «sostanziale») o addirittura dannosa (per ché la deroga al divieto d'uso viene, incomprensibilmente, limitata ad un unico soggetto, cioè alla sola ipotesi in cui l'imputato — e non altri — ne sia autore).

Sembrano comunque prevalenti le ragioni in favore di quest'ultima soluzione (accolta, per esempio, da F. Lunari, L'eliminazione degli scritti anonimi. Limiti del divieto e poteri del giudice, in Riv. proc.

pen., 1960, 53 s.). In primo luogo, infatti, essa impedisce a priori «l'espediente di 'rinvenire' anonimi presso l'imputato al fine di intro durli nel processo» (così P. Corso, Notizie anonime, cit., 220). D'altra

parte, l'idea che la formula «provenienti dall'imputato» equivalga a

«reperite presso costui», si presterebbe a strumentalizzazioni in senso

non solo sfavorevole, ma anche favorevole all'accusato (basti pensare

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PARTE SECONDA

za nei confronti delle altre notizie pure definite «anonime», per le quali — tuttavia — non si pone alcun problema di sottoscrizione: ossia, la c.d. vox publico (art. 194, 3° comma, c.p.p.) e gli ignoti confidenti di

polizia (art. 203 c.p.p.). Proprio in quest'ultima ipotesi è evidente l'i dentità di ratio con la disciplina che stiamo esaminando: in entrambe le

fattispecie (art. 203 e 240 c.p.p.) è sancito il divieto di utilizzazione della notizia — di cui nell'un caso è veicolo il testimone, nell'altro il materiale (cartaceo o di altra natura) — poiché è impossibile saggiarne l'autenticità (16); l'una e l'altra — una volta individuato l'autore della dichiarazione e, quindi, venuta meno la ragione del divieto — si lascia no disciplinare dalla normativa ordinaria in tema, rispettivamente, di testimonianza indiretta (art. 195 c.p.p.) e di prova documentale (art. 234 s. c.p.p.).

Nonostante sia ancora aperto il dibattito tra chi (17) distingue, dagli altri, i documenti rappresentativi di dichiarazioni (utilizzabili, in osse

quio al principio di oralità, per attestare che la dichiarazione è stata re

sa, e non per provare la sua veridicità) e chi (18) nega a tale distinzione fondamento normativo, c'è una convergenza di vedute nell'esigere, per le dichiarazioni documentali, un rigoroso controllo in dibattimento (in forma orale). E probabile che a tal fine non sia nemmeno necessario

importare nel nostro sistema il principio della «prevalenza della prova migliore» tra quella orale e scritta, screditando quest'ultima in presenza della prima: è sufficiente adeguare il regime di acquisizione della prova documentale dichiarativa al principio del contraddittorio, ogniqualvolta ciò sia possibile.

Dal canto suo, il contraddittorio — quale strumento principe di cono scenza giudiziale, anche nell'ambito della disciplina delle prove pre costituite e non solo di quelle c.d. costituende (19) — sembra trascen dere i limiti di tutela della sfera individuale per proiettarsi quale garan zia oggettiva di miglior approssimazione alla verità (20). Riconoscere efficacia probatoria a dichiarazioni anonime striderebbe con tali valori,

perché eliminerebbe in radice qualsiasi possibilità di verifica: per defi

nizione, le notizie da fonte anonima forniscono elementi incontrollabili.

3. - Letture giurisprudenziali. C'è tuttavia, in questo percorso stori

co, in questo continuo spostarsi del divieto verso l'una o l'altra giusti

ali'ipotesi in cui il documento anonimo venga spontaneamente prodotto in giudizio dall'imputato stesso). Infine, è vero che, interpretando l'espressione «provenienti dall'imputato» come «formati da questi», la

regola diventa inutile; tuttavia l'obiezione è meno forte di quanto sem bri a prima vista: essa infatti cade su una norma — l'art. 240 — che mostra forti intenti didascalici e ribadisce, per chiarezza, regole già ri cavabili da altre disposizioni; anche l'eccezione al divieto d'uso stabi lita per l'ipotesi in cui l'anonimo sia corpo del reato, infatti, probabil mente è superflua. Sul punto, v. più avanti, par. 4.

(16) Non assolutamente inutilizzabili sono considerate le c.d. «testi monianze anonime» dalla Corte europea dei diritti dell'uomo: in speci fiche e complesse circostanze, in cui, oltre al diritto di difesa dell'im

putato e all'esigenza che l'accertamento si svolga secondo un certo metodo, è in gioco pure la garanzia dell'incolumità del testimone e dei suoi familiari, la corte perviene al contemperamento di questi interessi, senza escludere a priori la possibilità di utilizzare le testimonianze anonime; sulla questione, M. Vogliotti, La logica «floue» della Corte

europea dei diritti dell'uomo tra tutela del testimone e salvaguardia del contraddittorio: il caso delle «testimonianze anonime», in Giur. it., 1998, 851 s.

(17) P. Ferrua, Oralità del giudizio e letture di deposizioni testimo niali, Milano, 1981, 290 s.; A. Nappi, Guida al nuovo codice di proce dura penale, Milano, 2000, 402 s.; G. Ubertis, Documenti e oralità nel nuovo processo penale, in Studi in onore di Giuliano Vassalli, Milano, 1991, II, 301 s.; recentemente, Cass. 16 marzo 1999, Di Marco, Foro it., Rep. 1999, voce Prova penale, n. 36.

(18) I. Calamandrei, / documenti in senso stretto, cit., 477; R. Or landi, Dubbi sul valore probatorio degli atti di una commissione par lamentare d'inchiesta, in Cass, pen., 1994, 2816 s.; P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2000, 233 s.; nonché Cass. 11 luglio 1997, Luftija e altri, Foro it., Rep. 1998, voce Prova penale, n. 53, e Dir. pen. e proc., 1998, 994.

(19) In questo senso, anche E. Marzaduri, Commento a I. cost. 23 novembre 1999 n. 2 - Inserimento dei principi del giusto processo nel l'art. Ill Cost., in Legislazione pen., 2000, 791.

(20) Sul valore epistemologico del contraddittorio, quale metodo ideale di ricerca della verità, cfr. F. Cordero, Tre studi sulle prove pe nali, Milano. 1963; L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garanti smo penale, Roma-Bari, 1989, 8 s.; P. Ferrua, Contraddittorio e verità, in Studi sul processo penale, Torino, 1992, II, 76 s.; U. Guerini, Le di chiarazioni nel processo dopo la sentenza della Corte costituzionale sull'art. 513 c.p.p., Padova, 1999, 52; E. Marzaduri, Commento, cit., 790; M. Nobili, Scenari e trasformazioni del processo penale, Padova, 1998, 53 s.; G. Ubertis, La prova penale. Profili giuridici ed episte mologici, Torino, 1995, 56 s.; M. Vogliotti, La logica «floue» della Corte europea dei diritti dell'uomo, cit., 853.

Il Foro Italiano — 2001

ficazione dogmatica, un aspetto costante; qualcosa che attraversa i vari

sistemi, restando insensibile a tali pur profondi percorsi di pensiero: si tratta degli indirizzi marcatamente antiformalistici della giurisprudenza. Sin dalle prime norme che, nella storia della procedura penale, faceva no propendere per l'abbandono dell'anonimo, l'abitudine a servirsi di

qualsiasi mezzo per scoprire il vero ha determinato, infatti, atteggia menti contra legem, assunti con plurimi espedienti (21).

Così, paradossalmente, fu proprio quell'obiettivo di politica crimi nale che, in origine, aveva ispirato il rifiuto delle denunce anonime, a rivelarsi un buon motivo per utilizzarle. Si è già accennato (22) al fatto

che, sin dal 1670 in Francia e dal 1847 ne! Regno di Sardegna — vi

genti l'ordonnance criminelle e il codice di procedura criminale — si

tentò di arginare il dilagante fenomeno delle false denunce con il deter rente della calunnia: il proposito incappò in un arduo nodo esegetico. In sede sostanziale, infatti, la fattispecie di calunnia non prevedeva in maniera espressa la denuncia anonima quale possibile modalità della

condotta; d'altro canto, se ad una siffatta delazione non si fosse dato alcun seguito in sede processuale, l'operazione incriminatrice sarebbe stata paralizzata: si esigeva, infatti, quale elemento costitutivo de! rea

to, l'idoneità della denuncia temeraria ad innescare un procedimento. Così, la giurisprudenza, con un'operazione costosissima per l'economia del sistema, si liberò dell'irrilevanza processuale della denuncia ano nima in cambio della sua rilevanza penale: affermò il principio della

piena equivalenza tra delazioni (anonime o sottoscritte) per l'appunto su entrambi i versanti (23).

(21) È il tipico atteggiamento di quella parte della magistratura insof ferente alle regole del procedimento probatorio limitative del «libero convincimento» giudiziale, su cui M. Nobili, Libero convincimento del

giudice. II. Diritto processuale penale, voce dell' Enciclopedia giuridi ca Treccani, Roma, 1990, XVIII.

Per l'influenza, nell'ostracismo ad un'effettiva esclusione dell'ano

nimo, a partire dalla fine del XIX secolo, della scuola positiva, che pre dicava l'individuazione del fine del processo penale nella «difesa so

ciale», e la svalutazione delle forme giudiziali, G.P. Voena, Aspetti pe nali e processuali delle delazioni anonime, 1978, 187; per tale influen za nella teoria generale delle prove penali, M. Nobili, La teoria delle

prove penali e il principio della «difesa sociale», in Materiali per una storia della cultura giuridica raccolti da G. Tarello, Bologna, 1974, IV, 419 s.

Una lettura della disciplina dei documenti anonimi quale luogo giu ridico in cui la dialettica fra autorità e libertà, fra esigenze dello Stato e del cittadino, è più evidente di quanto accade di solito in campo proces suale è offerta da G.P. Voena, Corte costituzionale e denunce anonime, in Giur. costit., 1977,1, 1607.

(22) All'inizio del par. 2.

(23) Cfr. Cass. Torino 15 giugno 1855, Giur. Stati Sardi, 1855, 514: «se il codice di procedura esige che la querela sia firmata, ciò è diretto a garantire la giustizia e il querelante sulla identità dei fatti denunciati e a dare all'atto un'autenticità, ma l'adempimento di tale formalità non è condizione dell'esistenza della denuncia — tanto meno è necessaria la firma del denunciante, perché la denuncia possa essere accusata di ca lunnia. Quindi anche una lettera anonima diretta al fisco può costituire denuncia calunniosa e dar luogo all'applicazione dell'art. 592 c.p.»; 22

maggio 1893, Busoli, Foro it., Rep. 1893, voce Calunnia, n. 4, secondo cui la denuncia anonima «era una vera denunzia, la quale, per virtù di

legge, si può dal denunciante fare in qualunque maniera, e che perciò aveva la possibilità di dar vita ad un processo penale»; 6 giugno 1898, Buia, id., 1898, II, 436: «senza dubbio la denunzia fatta per iscritto de ve essere sottoscritta dal denunziante, non però a pena di nullità o con divieto che sia ricevuta».

Parte della dottrina cercò di limitare l'uso della denuncia anonima, considerandolo bandito in generale, salvo i casi di flagranza di reato o di reato permanente (in analogia alla disciplina prevista da quegli ordi namenti processuali pre-unitari citati in nota 7), e ritenendo nullo il

procedimento istruttorio fondato sulla delazione anonima: N. Nicolini, Della procedura penale, cit., 435; G. Borsani-L. Casorati, Codice di

procedura penale, Milano, 1876, II, 267; F. Saluto, Commento al co dice di procedura penale per il Regno d'Italia, Torino, 1877, II, 170; G. Perroni Ferranti, Delitti contro l'amministrazione della giustizia, in Completo trattato teorico e pratico di diritto penale diretto da Co gliolo, Milano, 1890, II, parte I, 37: «l'anonimo è tale arma che se sa na talvolta una ferita sociale colla scoverta del delitto, ferisce il più delle volte chi se ne serve e ferisce nelle tenebre il privato contro cui è diretto il colpo. Ecco perché le migliori leggi o lo hanno affatto bandito dalle denunzie che autorizzino l'apertura di un procedimento (codice Leopoldino, art. 1 e 2), o lo hanno ammesso soltanto 'nel caso di at tuale flagranza (...) o di fatto permanente' disponendo altresì che 'si

può discendere all'istruzione ulteriore, verificata prima la flagranza o il fatto permanente' (art. 28 leggi penali napolitane) (. . .). Gli illustri Borsani e Casorati ritengono che anco sotto l'impero del nostro codice

procedurale debban vigere le norme stabilite dalle leggi napolitane; ed a noi parrebbe che così debba essere; pur confessiamo che la nostra

giurisprudenza (...) ammette che, anco fuori i casi di flagranza e di

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GIURISPRUDENZA PENALE

Solo nel 1930 furono previste espressamente sia le scritture anonime

quali possibili modalità di condotta della calunnia (e altri reati) (24), sia la generale regola di inutilizzabilità delle stesse, affiancata dalle — fino ad allora inedite — eccezioni per i casi in cui fossero «corpo del reato» o «provenienti dall'imputato». Anche in questo sistema, però, alla so lenne formula e all'entusiasmo iniziale, seguì una violenta frattura tra

disposizione e prassi: la norma nacque morta (25). D'altronde, era il

periodo in cui la categoria dell'inutilizzabilità, pur specificamente pre vista per gli anonimi (dall'art. 141 c.p.p.), non veniva considerata, co me oggi, quale sanzione robusta (26), ma quale divieto debole, facile da scardinare, per esempio facendo leva sulla mancanza di «conse

guenze» ricollegate alla sua violazione (27). Infine, pure l'eccezione fissata per il caso in cui lo scritto costituisse

«corpo del reato» (28) fu vista come breccia da allargare: tirando la lo cuzione fino a intenderla come equivalente a «cose pertinenti al reato»

(29), si abbatté il divieto probatorio, svuotandone in pratica la portata.

4. - L'anonimo quale corpo del reato. E una pronuncia — quella del Tribunale di Ferrara — che si ricollega, dunque, ad indirizzi risalenti.

Essa, tuttavia, merita d'essere sottoposta ad un vaglio ulteriore. Consideriamo il dato testuale. L'espressa eccezione al principio era

probabilmente inutile: le norme (attuali art. 235 e 253, 1° comma,

c.p.p.) che già impongono il dovere di acquisire a fini probatori il corpo del reato, sarebbero bastate allo scopo. Forse il legislatore ha sentito il

fatto permanente, possa iniziarsi procedimento in base ad un anonimo». Fra gli autori successivi, anche per V. Manzini (Trattato di procedu

ra penale italiana, Torino, 1914, II, 279) «la denuncia è un atto forma le: se in essa non ricorrono i requisiti essenziali richiesti dalla legge, perde il carattere di denuncia per il diritto processuale (...). Altrimenti è invece per il diritto penale sostantivo, il quale reprime le denunce calunniose».

(24) V. la relazione ministeriale sul progetto del codice penale del

1930, in Lavori preparatori al codice penale e al codice di procedura penale, II, 169, che in sede di commento alle fattispecie di calunnia

(art. 368 c.p.) e simulazione di reato (art. 367 c.p.), faceva constatare come si fosse «tenuto opportunamente conto dello scritto anonimo o sotto falso nome, rendendosi sicuramente punibili fatti che si dubitava fossero ricompresi» nelle norme degli ordinamenti precedenti.

Comportamenti perpetragli anche mediante anonimo sono previsti, oltre che dagli art. 367 e 368, anche dall'art. 369 c.p.; la circostanza di servirsi del medesimo strumento è qualificata come aggravante speciale in altre fattispecie: art. 336, 337 e 338 c.p. (v., per queste tre ipotesi, l'art. 339 c.p.); art. 610 e 612 c.p.

(25) P. Corso, Notizie anonime, cit., 77. Parte della magistratura aveva manifestato perplessità in ordine all'introduzione di un divieto

perentorio sin dai progetti preliminari (cfr. Pareri al progetto prelimi nare del nuovo codice di procedura penale, cit., 283): «l'anonimo, per quanto manifestazione d'animo vile, e talvolta malvagio, non può ripu diarsi, come elemento anch'esso eventualmente utile nella ricerca dei delitti. La repressione della delinquenza mafiosa siciliana ne dà una

prova» (procura generale di Palermo); «pare che, per quanto si manife sti ispirata a un alto senso di dignità, [la proibizione] sia troppo asso luta e talvolta inopportuna, come quando l'anonimo designi l'autore del

delitto, oppure il luogo dove trovisi il corpo del reato; in tali casi una ricerca di polizia s'impone, come nel caso di segrete rivelazioni, che

pure tanto spesso contribuiscono alla scoperta del vero» (Corte d'ap pello di Trieste).

(26) Tant'è che il legislatore del 1974, disciplinando la materia delle intercettazioni telefoniche, dovette espressamente comminare la pena della nullità (assoluta), quale stigma di rigorosità, alla violazione dei divieti di utilizzazione ivi sanciti; v., a questo proposito, M. Nobili, Di vieti probatori e sanzioni, in Giust. pen., 1991, III, 642 s.

(27) Cfr. Cass. 27 febbraio 1933, De Maria, Foro it., Rep. 1933, voce Istruzione penale, n. 9, secondo cui l'art. 141 c.p.p. del 1930 avrebbe «carattere di affermazione di principio, ma il divieto non è a pena di

nullità»; 14 marzo 1966, Gori, id., 1967, II, 135.

(28) Il significato corretto è quello che oggi ne dà il 2° comma del l'art. 253 c.p.p. («sono corpo del reato le cose sulle quali o mediante le

quali il reato è stato commesso nonché le cose che ne costituiscono il

prodotto, il profitto o il prezzo»). (29) Cass. 9 gennaio 1948, Cusumano, Foro it., Rep. 1948, voce Di

battimento penale, nn. 3, 4, secondo cui «è ammissibile in dibattimento la lettura di corrispondenza pervenuta clandestinamente ai detenuti in carcere e riguardante il reato, anche se anonima»; nello stesso senso,

■ Cass. 19 gennaio 1950, Dragone, id., Rep. 1950, voce Corpo del reato, n. 2; su cui, criticamente, F. Lunari, L'eliminazione degli scritti ano

nimi, cit., 52: «qualora si intendesse per corpo del reato 'tutto ciò che

abbia riferimento al reato', come la Suprema corte vorrebbe, qualsiasi anonimo sarebbe a rigore corpo di reato, perché tal riferimento conter

rebbe; qualunque anonimo potrebbe così a rigore di logica allegarsi al

processo; il che porterebbe ad escludere praticamente il divieto dell'art. 141 c.p.p.».

Il Foro Italiano — 2001.

bisogno d'intervenire, a tale specifico riguardo, perché altrimenti quel divieto, con formula draconiana e generale («i documenti ... non pos sono essere acquisiti, né in alcun modo utilizzati»), avrebbe potuto in

generare equivoci. Qualcosa del genere è del resto avvenuto anche con l'art. 271, 3° comma, c.p.p., laddove — nel contesto d'una disposizione che pur commina forti sanzioni — s'è ritenuto opportuno chiarire che la documentazione delle intercettazioni inutilizzabili non dev'essere di strutta quando costituisce corpo del reato.

Ad ogni modo, a prescindere dalla verosimile superfluità della preci sazione, la scelta del legislatore deriva dalla singolare rilevanza gno seologica che il «corpo» recupera unicamente nei confronti del reato di cui costituisce «materializzazione»: esso, ivi, è fonte eloquente, che

«parla da sé», e non pone questioni di credibilità, circa la prova «gene rica» (30) dell'esistenza di un fatto. Non è consentito, dunque, fare a meno del corpus delieti, ogniqualvolta esso sia immune da ragioni di inutilizzabilità (che lo travolgono, invece, nei casi in cui venga ricer cato o acquisito contra legem (31)). È ovvio, d'altronde, che un tale

obbligo sia cogente solo quando 1' «ingenere» sia rinvenuto: in caso

contrario, l'accertamento dovrà fondarsi su altri mezzi di conoscen za (32).

Del resto, una scelta di segno opposto sarebbe stata incomprensibile: perché mai escludere il corpo del reato anche dal giudizio nei confronti

dell'(ignoto) malfattore? Le potenzialità del documento anonimo per accertare quello specifico delitto non vengono intaccate dalle ragioni (etica e gnoseologica) che, in altre sedi, fondano il divieto. Induce in tal

senso, d'altronde, anche il 3° comma dell'art. 271 c.p.p.; pure sotto

questo aspetto, la norma è figlia della stessa logica che ispira l'art. 240

c.p.p. (33): la ratio dell'inutilizzabilità dell'ascolto abusivo (l'indebita

(30) «Ingenere» era il nome originario del corpo del reato (ossia, in

dipendentemente dalla ricerca, in speciem, della imputabilità del fatto ad un soggetto determinato).

(31) Sulla scia di una spinosa querelle dottrinale e giurisprudenziale, una pronuncia delle sezioni unite della Suprema corte ha stabilito (con trariamente a quanto si è appena affermato nel testo) che il vizio che in ficia il procedimento di ricerca non si trasmette all'oggetto di quest'ul tima nei casi in cui ad essere rinvenuti siano il corpo del reato o le cose

pertinenti al reato: ex art. 253, 103, 235 e 240 c.p.p., il sequestro di tali

oggetti costituirebbe, infatti, un «atto dovuto» e renderebbe del tutto ir rilevante il modo con cui ad essi si sia pervenuti (Cass., sez. un., 27 marzo 1996, Sala, Foro it., 1996, II, 473).

Va rimarcata l'innegabile contraddizione con cui la corte è giunta alla conclusione, pur dopo aver riconosciuto che il concetto di «divieto

probatorio» (dalla cui violazione discende la sanzione dell'inutilizzabi

lità) include il rispetto del procedimento formativo o acquisitivo (della

prova) che incida sui diritti fondamentali del cittadino; e dopo aver sta bilito l'indissolubilità, in genere, del rapporto funzionale tra la ricerca

(la perquisizione) e il suo esito (il sequestro), tale da rendere unica la

procedura acquisitiva, e da trasmettere il vizio che colpisce l'atto pre supposto al risultato conseguito. Sembra facile obiettare che la dovero sità di un atto — sia esso l'acquisizione del corpo del reato, sia esso un

interrogatorio o un decreto di citazione, ecc. — non vale certo a sanare

gli eventuali vizi incorsi nella sua formazione.

(32) L'assunto perde di ovvietà sol che si rammenti l'antico dogma per cui era necessaria, specie per alcuni delitti, e a garanzia dell'inno cenza del cittadino, l'acquisizione del corpo del reato: così, l'art. 54 del codice del Regno delle due Sicilie del 1819 stabiliva: «l'ingenere è di retto a stabilire la prova dell'esistenza del reato: per esempio, se effet tivamente sia avvenuto un omicidio, una falsità, un furto». L'omicidio,

allora, non si poteva accertare senza cadavere, a pena di nullità della condanna. Sulla storia dell'istituto, A. Gargani, Dal «corpus delieti» al «Tatbestand». Le origini della tipicità penale, Milano, 1997, spec, parte II, 157 s.; N. Nicolini, Della procedura penale, cit., 463 s.; G.

Leone, Manuale di diritto processuale penale, Napoli, 1977, 422.

(33) Gli esempi in tal senso potrebbero essere molti. Così, il legisla tore del «giusto processo», in sede di disciplina delle dichiarazioni rese da soggetti giudicati per reato connesso o collegato, una volta sancito il divieto di utilizzazione contra se delle stesse (in ossequio al principio del nemo tenetur se detegere) ne imponeva espressamente subito dopo una diversa disciplina nei casi in cui si fosse proceduto per i reati di cui

agli art. 368, 369, 370, 371 bis e 372 c.p. — in relazione all'oggetto di

quelle stesse dichiarazioni — quali, appunto, corpo del reato (art. 6 d.d.l. n. 6590, nel testo approvato dalla camera dei deputati il 6 novem bre 2000). La questione presenta peculiari tratti di analogia anche con

quella dell'inutilizzabilità (in questo caso però derivante dal principio della separazione funzionale delle fasi del processo, per cui la cono

scenza emersa in fase preliminare non ha lo stesso valore in giudizio) di dichiarazioni rese precedentemente al dibattimento — da un certo sog getto in un certo procedimento — ma utilizzabili, invece, quali corpo del reato, nel caso in cui si siano rivelate non veritiere, nei giudizi in staurati ex art. 369, 370 e 371 bis c.p.

Anche se può risultare improprio configurare dette dichiarazioni co me «corpo di reato», in questo caso un parallelismo pare plausibile

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PARTE SECONDA

interferenza in comunicazioni riservate, costituzionalmente protette) non inficia la rilevanza probatoria della registrazione rispetto al reato commesso per mezzo di essa (34).

Non va infine trascurata la lettera della norma: l'espressione «corpo del reato» (specifico) e non «corpo di un reato» (qualsiasi) induce a ri tenere che non di qualunque illecito l'anonimo debba costituire «cor

po», ma di uno determinato (35). Non sembra perciò casuale — nel l'ordinanza in rassegna (36) — uno slittamento lessicale proprio verso la seconda direzione.

In definitiva, la norma eccezionale ammette lo strumento nel parti colare ambito in cui lo si deve utilizzare nella sua «materialità», ossia

quale prova c.d. generica del misfatto perpetrato con il medesimo, e non per il valore gnoseologico delle dichiarazioni in esso contenute. Di

contro, la regola (generale) — inutilizzabilità di queste dichiarazioni ri

spetto a reati diversi — come tale, non soffre deroghe: nel primo caso il tema probatorio è l'illecito commesso con quel mezzo; nel secondo ciò che si deve accertare è qualcos'altro, e il fatto che il documento co stituisca corpo di un reato non elimina le ragioni del suo bando; sem mai le corrobora. Questa piena autonomia di funzioni e di orbite appli cative rende fuorviarne ricostruire l'art. 240 c.p.p. come se disciplinas se un rapporto fra «regola» ed «eccezione»: esse convivono perfetta mente, e non alternativamente; a rigore, di «eccezione» si potrebbe parlare solo nei confronti dell'idea generica di «inutilizzabilità del do

cumento», e nel rispetto di queste distinzioni fra ipotesi disomogenee.

quantomeno sulla scorta del concetto medesimo di corpus delieti: ossia, quale elemento, percepibile dai sensi, che prova la materiale commis sione del fatto, a prescindere dalla sua imputabilità ad un soggetto quale illecito penale. D'altronde, la generica lettera della nozione of ferta dall'art. 253 c.p.p. non sembra risolutiva: le «cose» mediante le

quali il reato è stato commesso non escludono, per definizione, le di chiarazioni. Al contrario, risolutiva appare, anche in questo caso, la sto ria dell'istituto: prima per orientamento dottrinale, poi per disposizione normativa (nel codice del Regno delle due Sicilie del 1819 — art. 56 —

e in quello del Regno d'Italia del 1865 — art. 129 —) si soleva distin

guere l'ingenere «principale» da quello «suppletorio», intendendo con

quest'ultimo «tutte quelle prove che si potranno avere per supplirsi a

quelle dell'esistenza attuale del [reato]» (così, l'art. 56 del codice del

1819) o «tutti i mezzi di prova atti a supplire alla verificazione del cor

po del reato» (art. 129 del codice del 1865), nel caso, ad esempio, «in cui la natura del reato è tale che non possa lasciare tracce permanenti di sé» (cfr. G. Loschiavo, Corpo del reato, voce del Novissimo digesto, Torino, IV, 857; N. Nicolini, Della procedura penale, cit., parte II, cap. I, sez. III, § 536 e 537). Sulla equivalenza terminologica tra «ingenere» e «corpo di reato», cfr. nota 30.

(34) Anche in tema di intercettazioni telefoniche, la giurisprudenza ha frainteso l'eccezione al divieto di utilizzare captazioni illegittime per l'eventualità che costituiscano «corpo del reato» (art. 271, 3° com

ma, c.p.p.). In un caso in cui erano state disposte intercettazioni telefo niche nell'ambito di un procedimento per omicidio, si era poi proce duto separatamente per il reato di favoreggiamento costituito da una telefonata — registrata nel corso di quelle captazioni — con la quale il titolare dell'utenza sotto controllo veniva avvertito che all'indomani sarebbe stata effettuata una perquisizione. La Cassazione (7 maggio 1993, Olivieri, Foro it., Rep. 1994, voce Intercettazione di conversa zioni, n. 24) ha ritenuto che la telefonata, in quanto «corpo del reato» di

favoreggiamento, si sottraesse ai requisiti fissati dall'art. 270 c.p.p. per utilizzare le intercettazioni in altro procedimento. La pronuncia appare criticabile: il 3° comma dell'art. 271 c.p.p. ammette l'utilizzazione delle registrazioni che siano corpo del reato nello specifico giudizio di retto ad accertare l'illecito commesso mediante l'abusivo controllo (e cioè, i reati di cui agli art. 615 bis, 6\1 e 617 quater c.p.), e non negli «altri procedimenti» di cui all'art. 270 c.p.p. (in questo senso, anche L. Filippi, L'intercettazione di comunicazioni, Milano, 1997, 215). In que sti ultimi, infatti, non si utilizza il «corpo» di un reato specifico, ma l'intercettazione quale prova di altri reati; in definitiva, si è confusa la

registrazione-corpo del reato di indebita intercettazione (a cui allude l'art. 271, 3° comma, c.p.p.) con la telefonata-corpo del reato di favo

reggiamento. (35) «Lo scritto anonimo è corpo di reato, ossia prova in altro proce

dimento penale, non in quello pel quale fu veramente concepito, redatto e inviato», rispetto al quale rimane estraneo, e vigente la regola d'e sclusione (A. Cordova, Commento al codice di procedura penale, Na

poli, 1934, 229). «L'espressione 'corpo del reato' indica che in discus sione nel processo in cui vale l'eccezione è l'esistenza dell'anonimo e non del fatto-reato indicato nell'anonimo; che si indaga sull'autore del l'anonimo e non sull'autore del reato anonimamente denunciato»; che

l'imputato del processo in cui l'anonimo è utilizzabile è «imputato del l'anonimo» (P. Corso, Notizie anonime, cit., 211). Nello stesso senso, P. Tonini, La prova penale, Padova, 185 s.

(36) Nonché nella massima della sentenza riportata in nota 34: «Le limitazioni probatorie, in tema di intercettazioni telefoniche da utilizza re in altri procedimenti, non valgono allorquando la bobina della regi strazione viene ad essere essa stessa corpo di reato».

Il Foro Italiano — 2001.

Si impone dunque un'opzione ermeneutica più rigorosa di quella se condo cui sarebbe sufficiente che uno scritto integri il corpo di un qual siasi reato per diventare utilizzabile. L'art. 240 c.p.p. pone un limite al

potere giudiziale di conoscere e, disciplinando quell'efficacia speciale, sancisce una regola d'esclusione parziale: l'uso della fonte anonima è ammesso soltanto in un particolare giudizio, non negli altri. Per il caso in cui questa regola venga violata, l'art. 240 c.p.p. stabilisce una speci fica inutilizzabilità, proiezione di quella prevista, più in generale, dal l'art. 191 c.p.p. (37).

L'insensibilità ai «nuovi» limiti della prova stabiliti in rapporto ad un particolare ambito (sia esso personale, spaziale o temporale (38)) è la mala pianta seminata dall'inveterata abitudine di pensare che quanto è prova in un certo processo, non può non esserlo sempre e comunque; l'abbaglio dell'assoluta utilizzabilità di un corpo del reato eclisserebbe

pressoché inesorabilmente (39) il principio di esclusione degli anonimi.

5. - L'anonimo come prova di un fatto «secondario». E stato escluso, fin qui, il ricorso allo scritto anonimo per provare fatti oggetto di una

qualsiasi imputazione; ed è stato ammesso, invece, quel ricorso, esclu sivamente per accertare fatti oggetto di imputazioni specifiche. Pare

opportuno, ora, non trascurare un'ulteriore eventualità, suggerita dalle

più recenti modifiche normative. Il 5° comma dell'art. 111 Cost., infat

ti, ammette, nel caso in cui il contraddittorio sia stato inquinato da

«provata» condotta illecita, il recupero di dichiarazioni rese a titolo di

indagini. Per ritenere non genuina la testimonianza, d'altronde, il 4° comma del nuovo art. 500 c.p.p. sembra accontentarsi di non meglio specificati «elementi concreti»; anche se tratti da un documento anoni mo? In pratica: potrebbe una lettera minatoria (di autore ignoto) — tesa ad estorcere il silenzio del testimone — essere acquisita per innescare il congegno dell'art. 500, 4° comma, c.p.p.?

Innanzitutto, la forza delle ragioni — etica ed epistemologica — per cui la regola generale (ex art. 240 c.p.p.) esclude che il documento

possa assurgere a «prova» di alcunché, sembra attrarre anche questo caso nell'area del divieto. D'altro canto, forse è stato commesso un reato (40), di cui l'anonimo è «corpo»: in quanto tale esso è utilizzabile secondo la legge; ma l'operatività dell'eccezione alla regola generale — come sin qui si è sottolineato — è strettamente ancorata a quel giu dizio che abbia come regiudicanda (o imputazione) proprio la minac cia (41).

In definitiva, non sembra che l'anonimo possa giocare alcun ruolo nella prova dell'intimidazione del testimone. Anche perché, se così non

fosse, esso potrebbe rivelarsi comodo strumento per aggirare il metodo

probatorio imposto dalla Costituzione: sarebbe comunque possibile, in

fatti, creare artificiosamente dichiarazioni minatorie (anonime) al fine di farle rifluire nel processo.

Edoardo D'Ambrosio

(37) Per una disamina dei casi in cui l'ordinamento processuale con sente un uso «relativo» di determinati elementi probatori, M. Nobili, Divieti probatori e sanzioni, cit., 642 s.

(38) P. Ferrua, La formazione delle prove nel nuovo dibattimento: limiti all'oralità e al contraddittorio, in Studi sul processo penale, To rino, 1990,1, 79 s.; Id., Anamorfosi del processo accusatorio, id., 1992, II, 157 s.; M. Nobili, Concetto di prova e regime di utilizzazione degli atti nel nuovo codice di procedura penale, in Foro it., 1989, V, 275: il codice processuale del 1988 pone un sistema probatorio significativa mente definito «relativistico» (o argomentativo), in contrapposizione e in sostituzione ad uno «positivistico» (o aritmetico).

(39) Si è già evidenziato (al par. 1) che in casi — forse marginali —

l'anonimo può non integrare il corpo di alcun reato.

(40) Quantomeno, ex art. 612 c.p.; ma, oggi, anche ex art. 377 bis

c.p. (41) Il nuovo 5° comma dell'art. 500 c.p.p. impone, d'altra parte,

una decisione immediata, incidentale (ex art. 2 c.p.p.) della questione, sulla base degli «accertamenti» che il giudice — dell'imputazione prin cipale — «ritenga necessari». Le modalità di accertamento dei com

portamenti illeciti che abbiano determinato il rifiuto del testimone (o imputato) di rispondere in dibattimento sono state oggetto di discussio ne parlamentare in commissione (Camera dei deputati, Lavori prepa ratori. Resoconto lavori commissione 27 settembre 2000, 39): è stata esclusa la via della sospensione del processo per un giudizio ad hoc da concludere con sentenza, optando per la più agevole ed immediata de cisione con ordinanza, al fine di scongiurare la paralisi dei processi pe nali, e accettando il rischio di un eventuale contrasto tra l'ordinanza medesima e la sentenza che verrà emanata a conclusione del processo instaurato per accertare l'illiceità penale della condotta.

Edoardo D'Ambrosio

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