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Date post: 16-Feb-2019
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LESSICO PEDAGOGICO
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LESSICO PEDAGOGICO

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Tutela

Elisabetta Biffi

This paper aims at providing a pedagogical reflection on the concept of “protection”, specifically related to the field of the protection of minors. Starting from the definition of its connections with the dimensions of politics, power and right, the author will present an analysis of the Conven-tion on the Rights of the Child, in order to identify some educational aspects of the protection of minors.

l presente contributo intende offrire una riflessione peda-gogica sul concetto di tutela. A partire dalla definizione delle sue connessioni con le dimensioni della politica, del potere e del diritto, sarà possibile approfondire i significa-ti pedagogici della tutela posando lo sguardo su di un suo particolare ambito, vale a dire la tutela dei minori, attra-verso un’analisi che prende spunto dalla Convenzione sui Diritti dell’Infanzia.

Parole chiave: tutela, cittadinanza, diritti, educazione. Key words: children’s rights, citizenship, education. Articolo ricevuto: 18 aprile 2013 Versione finale: 29 giugno 2013

INTRODUZIONE

Tutela è una parola impegnativa, che rimanda ad una dimensione giuridica, sociale, economica quanto culturale. Rimanda a qualcosa di prezioso che va pre-servato e protetto, così come a logiche di potere, alla violazione e alla violenza. Nel lessico quotidiano, essa trova spazio facilmente laddove ci si occupi, a vario titolo, di diritti. La si ritrova soprattutto in riferimento a soggetti cosiddetti “de-boli”, vale a dire impossibilitati o in difficoltà - per condizione giuridica, sociale, economica o altro - nel far valere i propri diritti. Si sente, così, parlare di diverse tutele: dalla tutela ambientale, alla tutela minorile, alla tutela delle donne, solo per citarne alcune.

Tutela è, dunque, una parola complessa per essere raccontata da una sola vo-ce: ha bisogno di linguaggi plurimi e discipline differenti, poiché ogni tentativo di riduzione rischia di provocare una sua mistificazione, di nasconderne le criticità e le ombre. Proprio a fronte di tali criticità, lo sguardo pedagogico può offrire una prospettiva preziosa per osservare la tutela, i suoi significati così come le sue im-plicazioni operative. L’intento della riflessione proposta in queste pagine è, dun-que, quello di avvicinarsi all’idea di tutela posando lo sguardo - pedagogico - su di un suo versante, la tutela minorile, capace di offrire il fianco alla presente in-dagine.

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1. TUTELA, DIRITTI E POTERE

Il concetto di tutela trova una delle sue principali dimore nell’ambito giuridi-co, nel rimandare ad uno status da preservare e garantire, da tutelare appunto. Un ordine da mantenere o da ripristinare. Ed è proprio questa dimensione di ordine (di diritto, inteso in tale direzione) che rimanda alla norma e, dunque, alla sua re-golamentazione. L’ambito del diritto, infatti, può essere considerato come il si-stema dottrinale che concretizza in un impianto di norme le risposte ai bisogni dell’uomo e della società, permettendone la gestione. Esso pertiene alla dimen-sione politica che è parte costitutiva della storia del genere umano.

Per meglio chiarire il passaggio, è utile recuperare l’analisi di Piero Bertolini, parte di un suo più vasto discorso su educazione e politica (Bertolini, 2003; Ber-tolini, 2005; Erbetta, 2000). Il punto di partenza indicato da Bertolini è l’essere duale dell’uomo, inteso come “contemporanea perché dialettica presenza dell’individuo (del singolo soggetto, anzi dei singoli soggetti in carne ed ossa […]) e della comunità sociale (delle realtà intersoggettive): presenza che si costi-tuisce e che di conseguenza si può cogliere nel rapporto tra un individuo e un al-tro individuo e quindi tra molteplici individui” (Bertolini, 2005, p. 306). Da tale considerazione, Bertolini deriva la necessità di una dimensione politica, intesa come “l’insieme degli sforzi che si compiono per garantire la compresenza dialet-tica dell’uno e del molteplice” (Bertolini, 2005, p. 307). Pertanto, è plausibile supporre che, lungo la storia dell’uomo, “si sia fatta sentire l’esigenza di trovare formule utili a rendere non tanto possibili quanto irrinunciabili quelle continue costruzioni di cultura da cui dipendono (meglio, per mezzo delle quali vengono orientati) i vari comportamenti individuali e non” (Bertolini, 2005, p. 309). In as-senza di tali formule e interventi, prosegue Bertolini, l’unica alternativa che si è imposta e si imporrebbe è l’uso della violenza, nelle sue diverse modalità. La vio-lenza “risulta essere il contrario della mediazione avendo come principale pro-spettiva la distruzione di chi è considerato ‘altro’, ovvero di chi si contrappone o si oppone alle idee e alle scelte di chi è in quel momento in possesso di un pote-re” (Bertolini, 2005, 309).

Da un punto di vista formale, dunque, contro le possibili violente derive della nostra umanità, le società si dotano di una regolamentazione, il diritto, in grado di consentire una piena realizzazione della socialità insita nell’essere umano e, al contempo, di garantire la sopravvivenza della società stessa. Lo sforzo ultimo re-sta, così, quello di sancire ciò che è fondamentale, ciò che non può tollerare de-roghe, pena la decadenza della società e, in ultimo, dell’uomo. In questo senso, pur essendo il diritto soggetto storico, vale a dire storicamente dipendente dal contesto e dalla cultura in cui viene istituito, esso mira a sottrarre al flusso della storia le possibilità di sviluppo della propria umanità. In questi termini, il diritto è “esigenza trascendentale che l’umanità esprime di poter regolare tanto i rapporti

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tra gli individui quanto quelli tra le varie comunità, nonché quelli tra i singoli in-dividui e le comunità di appartenenza” (Bertolini, 2003, p. 54).

Occuparsi di tutela significa, così, occuparsi dei processi di difesa e garanzia di ciò che è inviolabile, dei principi fondamentali, della dimensione assiologica e di appartenenza al tempo stesso. Ogni comunità, per quanto piccola, ha, infatti, la propria regolamentazione, più o meno formalizzata. E quando l’uomo ha ini-ziato a pensare alla propria appartenenza come globale, si è fatta più forte l’esigenza di un diritto condiviso a livello planetario. Possiamo meglio compren-dere questo passaggio prendendo ad esempio la Dichiarazione Universale dei Di-ritti Umani, approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. I diritti umani sono la concretizzazione di principi già comparsi in parte precedentemente, nella Dichiarazione di indipendenza statunitensi e nella Dichia-razione francese (senza tornare sino al Bill of Right o persino alla Magna Charta), ma che hanno assunto un valore differente in quel documento perché prodotto della storia dell’umanità, fino a quel punto: come precisato da Norberto Bobbio, “attraverso la proclamazione dei diritti umani abbiamo fatto emergere i valori fondamentali della civiltà umana sino al momento presente” (Bobbio, 1997, p. 42). È fondamentale il riferimento al tempo che si avverte in tutta la riflessione di Bobbio: i diritti, persino quelli fondamentali, sono e restano prodotto storico e culturale. Non possono essere validi eternamente e in assoluto. Per questo, ogni diritto necessita sempre della prova di realtà data dalla sua attuazione, che è azio-ne politica e al contempo responsabilità collettiva. Ciò è un monito a non dare per scontato la bontà di quanto si ritiene imprescindibile, e nel nostro caso, di quanto si ritiene da tutelare.

Chiaro è, però, che i diritti umani hanno mostrato il bisogno della civiltà di preservare la propria stessa umanità, dopo il secolo delle grandi guerre, di fronte alla dimostrazione di quello che Hannah Arendt ha magistralmente definito La banalità del male (Arendt, 2003). I diritti umani sono, così, al tempo stesso atto di tutela e ammissione del proprio limite: gli anni bui dell’occidente hanno svelato all’uomo la sua stessa disumanità, hanno svelato come la violenza sia naturale e innaturale al contempo. Riconoscendo il proprio potenziale distruttivo, l’umanità ha dovuto difendersi da se stessa. Ed i diritti umani sono, in fondo, il più vasto strumento di tutela che la nostra civiltà ha finora trovato, frutto di una nuova co-scienza mondiale o, come sostiene Edgar Morin, della consapevolezza di “una comunità di destino, nel senso che tutti gli umani sono sottomessi alle medesime minacce mortali” (Morin, 2000, p. 73). In questo senso, i diritti umani possono essere pensati quali direzioni intenzionali capaci di dirigere l’agire dell’uomo e, an-che, il suo progetto pedagogico (Tarozzi, 2001).

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2. QUESTIONE DI SQUILIBRIO E RICERCA DI EQUILIBRI

Eppure, come ancora ricorda Bobbio, “ciò che importa non è fondare i diritti umani, ma proteggerli” (Bobbio, 1997, p. 33). Se, infatti, essi rappresentano il frutto del consenso generale rispetto a ciò che è fondamentale, la possibilità di tutelarli, vale a dire di attuarli, necessita di una struttura che possa farsene garan-te. E questo apre ad uno sguardo critico sul nostro tema. Il concetto di tutela presuppone, infatti, l’esistenza di un potere superiore capace non solo di decreta-re ciò che è da tutelare, ma anche di agire affinché tale tutela sia attuata. Prose-guendo con l’esempio dei diritti umani, è stato necessario dotarsi di strutture di controllo (le diverse Commissioni dei Diritti Umani, ma anche lo stesso Tribuna-le Internazionale Penale dell’Aja, per certi versi), eppure siamo ancora lontani dal poter pensare ad una tutela planetaria. Siamo ancora lontani da quel panorama di ordine – in cui ogni diritto umano è totalmente garantito – che la Dichiarazione traccia. Questo perché la tutela è parola che va ben oltre il confine del diritto.

Il principio secondo il quale qualcuno o qualcosa è chiamato a tutelare qual-cun altro o qualcos’altro presume, infatti, una situazione di squilibrio, una rela-zione a-simmetrica su più fronti. Anzitutto, chi necessita di tutela è qualcuno o qualcosa che ha dei diritti che vengono lesi da qualcuno o qualcosa d’altro. Quest’ultimo è, dunque, in una ipotetica situazione di vantaggio rispetto a chi necessita di tutela, ha un maggiore potere. Al tempo stesso, però, chi può tutelare è qualcuno che ha maggiore potere non solo rispetto al tutelato, verso il quale agisce quel potere ai fini della tutela stessa, ma anche verso chi ha creato la situa-zione di pregiudizio. Secondo tali considerazioni, dunque, chi può tutelare è colui che detiene il potere maggiore. E questo non è privo di complicazioni. Se ne possono evincere due.

In primo luogo, quando si definisce un determinato gruppo di soggetti, od una determinata cosa, necessitante di tutela si sta affermandone la sua condizione di svantaggio e la sua impossibilità a far valere da sé la sua voce. Si sta, in sintesi, dichiarando la sua debolezza, e questo è certamente un passaggio delicato che proveremo ad affrontare sul filo della provocazione. Il punto critico, allora, sta proprio nel ‘come’ della tutela, nel progetto culturale che v’è sotteso. Nel pensare alla tutela non come difesa per supposto svantaggio, ma come affermazione di ciò che è proprio, come rivendicazione di ciò che si è. Questo implica, però, un ribaltamento del concetto stesso di tutela, lo scardinamento del principio di svan-taggio che porta alla richiesta di un aiuto, per muovere, invece, verso l’affermazione del proprio potere in modo autonomo. In questi termini, la tutela è arma a doppio taglio, è concetto da osservare con sguardo critico.

La seconda complicazione è relativa al fatto che, quando il potere della tutela diviene lesivo dei suoi stessi confini, essa facilmente diventa abuso, inteso come uso improprio ed abnorme del proprio potere. Il meccanismo di tutela ha, dun-que, bisogno di tutelarsi in primo luogo dalle possibilità di un suo vizio proprio

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perché, in linea teorica, chi detiene il potere maggiore - e dunque chi può ledere maggiormente - è il tutelante stesso. Le norme servono, così, anche a controllare i possibili abusi da parte del tutelante, tanto che il più alto livello di tutela sta proprio nella consapevolezza del tutelante del proprio stesso potere.

Siamo alle soglie di temi etici molto cari anche e soprattutto alla sensibilità pedagogica. Fermo restando che l’asimmetria è, di fatto, un elemento costitutivo delle relazioni umane, e che anzi è aspetto necessario all’educazione stessa - pur riconoscendo una parità a livello esistenziale (Caroni, Iori, 1989; Iori, 2000) - ciò che si va qui delineando è una situazione di squilibrio, che richiede una analisi attenta della relazione fra educazione e potere. A tal proposito, Raffaele Mante-gazza, a partire dalla critica di quelle posizioni che assumono costitutivamente come neutrale - quando non ‘buona’ - l’educazione, ricorda che: “L’educatore, in particolare, non può né permettersi di sospendere il giudizio sulle pratiche di po-tere che lo attraversano e lo definiscono, relegandole a un mitico ‘fuori’ rispetto alla sua figura e alla sua attività, né illudersi che basti un atteggiamento di volon-taristico ‘impegno politico’, magari un ‘Gran Rifiuto’, per sottrarsi alle dimensio-ni di complicità che sono caratteristiche del suo lavoro quotidiano” (Mantegazza, 1998, p. 171). A maggior ragione quando ci si trovi in veste di tutelanti. Nel suo studio sul Lavoro Pedagogico, Maria Grazia Riva pone l’accento sulla tendenza a fa-re del discorso sull’educazione e sulla formazione un discorso eulogistico, “cioè a idealizzare e considerare per forza come ‘cose buone’ tutto ciò che riguarda ap-punto l’educare e il formare” (Riva, 2004, p. 80). E proprio in questo risiede in parte il potere del discorso pedagogico: “La pedagogia e l’educazione, attraverso certe rappresentazioni di ‘buona educazione’, sono state da sempre il veicolo di riproduzione appunto delle culture e delle società. In questa stessa operazione è racchiuso un nucleo importante di esercizio di potere sull’altro, non per forza au-toritario, però in ogni caso costitutivo, di persuasione dell’altro, di incanalamento dell’altro dentro certi esiti e certe mete auspicate dalla famiglia, dalla scuola, dai servizi, dalla società” (Riva, 2004, p. 80). Questo passaggio si rende, a questo punto, necessario: esso obbliga chi si occupa di educazione ad un’attenzione cri-tica alle dimensioni di potere che non solo sottendono l’educare in generale, ma che l’educatore in persona mette in atto, dimensioni sulla cui base agisce, anche fosse inconsapevolmente, il proprio lavoro educativo241.

241 Definire in breve cosa si intenda per lavoro educativo è compito assai complesso. Si riman-

da ai testi cui ci si è maggiormente riferiti per la stesura di questa riflessione: Kanizsa, Tramma, 2011; Frabboni, Pinto Minerva, 2005; Riva, 2004.

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3. MA COSA SIGNIFICA ‘TUTELARE’? UNA RIFLESSIONE SULLA CONVENZIONE DEI DIRITTI DELL’INFANZIA

A fronte di quanto sopra tracciato, si intende ora provare ad accostarsi ai si-gnificati del tutelare riferendosi al suo agire pedagogico.

Come si è visto, occuparsi di tutela significa occuparsi di diritti. In questo senso, si è detto, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è già un atto di tutela. Nello specifico, però, la tutela si occupa dei diritti di coloro i quali non sono in grado di tutelarsi da soli, di chi è in condizione di svantaggio o, per altri versi, di ‘minorità’. Quella che si andrà, ora, prospettando al lettore è una rifles-sione pedagogica a partire da un ambito estremamente complesso, quale è la tu-tela minorile242. La tutela nei riguardi dei minori è, infatti, protezione da ogni forma di violenza, abuso, incuria e maltrattamento. Una pluralità di termini che rimandano, però, ad azioni e comportamenti distinti, con intenzionalità diverse – atti intenzionalmente violenti, volti a ledere, ma anche atti intenzionalmente di-retti al ‘bene’ del bambino, salvo poi dimostrarsi lesivi e dannosi –. E l’aspetto dell’intenzionalità non è affatto di poco conto per la presente riflessione. Tutta-via, si vuole provare ad aggirare momentaneamente questo versante, per giungere ad indagarlo attraverso l’analisi di un oggetto, la Convenzione dei Diritti dell’Infanzia243, che di quell’ambito è il più vasto ‘atto’ di tutela.

Fino all’epoca moderna, il bambino244, dal punto di vista giuridico, non ha goduto di vere tutele. Se pensiamo alla storia della giurisprudenza italiana, ad esempio, i minori quale categoria giuridica compaiono come soggetto di uno sguardo dedicato nel 1908, con la creazione di una Sezione per i minori presso il Tribunale di Milano, con un unico magistrato. L’idea sottesa era quella di favorire per i minori condannati una messa alla prova, con un sistema di assistenza giuri-dica e ‘pedagogica’. In tale periodo in Italia era, infatti, già in uso il sistema ame-ricano della probation, che valse al nostro Paese una certa fama internazionale (Bortoli, 2011). Ma si deve attendere parecchi decenni prima di assistere alla più generale e diffusa formalizzazione dei diritti del minore.

242 La letteratura sul tema è vasta e pertiene a molteplici saperi. Diventa, così, difficile proporre

indicazioni bibliografiche che siano esaustive della ricchezza del dibattito. Si indicano, di seguito, le opere cui si è fatto prevalentemente ricorso per la stesura di questo testo: Cambi, Ulivieri, 1992; Ainschough, Toon, 1997; Bettelheim, 1974; Cirillo, Di Blasio, 1989; Di Blasio, 2000; Malacrea, 1998; Montecchi, 1998; Premoli, 2012; Riva, 1993.

243 Fra i numerosi studi sul tema di infanzia e diritti si rimanda a: Archard, 1993; Garbarini, Nunnari, 2010; Franklin, 2002; Loiodice, 2000; Macinai, 2007; Moro, 1991; Moro, 2000.

244 Per una lettura approfondita sulla storia dei bambini e delle bambine si rimanda a: Ariès, Duby, 1988; Becchi, 1994; Covato, 2002; Covato, 2007; Covato, Ulivieri, 2001; DeMause, 1983; Sarsini, Cambi, Di Bari, 2012; Seveso, 2001; Ulivieri, 1997.

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È, infatti, il 20 novembre 1989 quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva la Convention on the Right of the Child245, ratificata poi dall’Italia con la Legge n. 176 del 27 maggio 1991. In realtà, la questione dei maltrattamenti e della violenza ai minori precede la stessa Convenzione, se si considera che il Consiglio d’Europa, a Strasburgo, nel 1978 già vi faceva riferimento come “atti e carenze che turbano gravemente il bambino”. Tuttavia, la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza enuncia, per la prima volta in modo forma-lizzato, i diritti fondamentali dei bambini e delle bambine, diritti che devono es-sere garantiti loro in tutto il mondo. La Convenzione nasce, infatti, in risposta alla esigenza, avvertita all’interno delle stesse Nazioni Unite, di fornire all’infanzia uno sguardo adeguato ai propri bisogni, quale una specificazione dei principi già racchiusi nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Su tale base, l’ONU imposta un sistema di controllo sugli Stati membri (la Convenzione è ad oggi ri-conosciuta da 193 Stati), sulla base di rapporti ad un Comitato indipendente, atto a monitorare il rispetto dei diritti dell’infanzia nei vari territori nazionali.

La Convenzione, composta di 54 articoli e due Protocolli opzionali, inerenti i minori in territori di guerra e lo sfruttamento sessuale dei minori, resta un testo importante che, va sottolineato, è certamente perfettibile e richiama ad una rifles-sione anche critica, ma che resta al momento il fondamento normativo utile per comprendere i significati sottesi al concetto di tutela in ambito minorile. Si pro-verà, pertanto, ad estrapolarne alcuni capisaldi, utili a guidare la presente rifles-sione.

In primo luogo, la Convenzione definisce chi sia il “fanciullo”, vale a dire un essere umano con età inferiore ai 18 anni, salvo diverse indicazioni sulla maturità nella legislazione nazionale di riferimento (art.1), e afferma il principio di non di-scriminazione, “affinché il fanciullo sia effettivamente tutelato contro ogni forma di discriminazione o di sanzione motivate dalla condizione sociale, dalle attività, opinioni professate o convinzioni dei suoi genitori, dei suoi rappresentanti legali o dei suoi familiari” (art. 2).

In secondo luogo, essa stabilisce il ruolo delle istituzioni ai fini della tutela del minore, ponendo al centro l’interesse superiore del fanciullo, per il quale “Gli Stati parti si impegnano ad assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessa-rie al suo benessere”, vigilando “affinché il funzionamento delle istituzioni, servi-zi e istituti che hanno la responsabilità dei fanciulli e che provvedono alla loro protezione sia conforme alle norme stabilite dalle autorità competenti in partico-lare nell’ambito della sicurezza e della salute” (art. 3). A tal fine, la Convenzione

245 Va precisato che la Convenzione è frutto di un lungo dibattito: i suoi fondamenti compaio-no già nel 1925, quando la Dichiarazione dei diritti del fanciullo sanciva il diritto del bambino ad essere nutrito, accudito e protetto dallo sfruttamento, mentre nel 1959 l’Assemblea Generale dell’ONU riconosce al bambino anche i diritti al gioco, all’istruzione e alla protezione dalle forme di discriminazione.

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definisce come ciò possa essere garantito: “Gli Stati parti si impegnano ad adot-tare tutti i provvedimenti legislativi, amministrativi e altri, necessari per attuare i diritti riconosciuti dalla presente Convenzione. Trattandosi di diritti economici, sociali e culturali essi adottano tali provvedimenti entro i limiti delle risorse di cui dispongono e, se del caso, nell’ambito della cooperazione internazionale” (art.4). La prima parte della Convenzione, pertanto, esige e formalizza l’impegno degli Stati firmatari nell’ambito della tutela dei minori, da un punto di vista legislativo, amministrativo, sociale, economico e culturale.

In terzo luogo, la Convenzione sancisce i diritti primari del fanciullo: il diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo (art. 6), il diritto ad un nome e ad una cittadinanza (art. 7), il diritto ad aver preservata la sua identità e le sue relazioni familiari (art. 8), a non essere sottratto ai propri genitori contro la loro volontà “a meno che le autorità competenti non decidano, sotto riserva di revisione giudi-ziaria e conformemente con le leggi di procedura applicabili, che questa separa-zione è necessaria nell’interesse preminente del fanciullo” (art. 9).

Infine, essa prevede il diritto dei minori ad essere ascoltati: “Stati parti garan-tiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità. A tal fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia di-rettamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale” (art. 12).

Il documento è, dunque, un atto formale che decreta cosa sia la tutela, cosa sia da tutelare e come debba essere fatto. Con un procedimento a ritroso, si pro-verà ora a desumere dal testo esattamente questi aspetti, per approfondire i signi-ficati del “tutelare”.

4. DARE NOME ALL’INDICIBILE, DARE LUCE ALL’INVISIBILE

Come sa bene chiunque si sia trovato almeno una volta a leggere un regola-mento, un atto o un testo legislativo, nei primi articoli di tali testi si trovano sem-pre le definizioni: quali parole verranno usate per indicare oggetti e soggetti con-tenuti nel testo e cosa si intenda per tali parole. Le cose così esplicitate acquisi-scono dunque un ‘nome’, quell’appellativo unico e definito che stabilisce i confi-ni di ciò che è. Definire chi è il fanciullo, ad esempio, serve per delimitarne i con-fini, per tracciare un profilo che, per quanto vasto e generale, non è per ogni cosa ma solo per quella categoria definita.

V’è una ragione nel nominare le cose che sottende la volontà di comunicare, di comprendersi fra più persone. Ma, al tempo stesso, il dare un nome alle cose è, in un certo senso, il primo atto formale di tutela. È per questo che avere un nome – registrato all’anagrafe – è un diritto fondamentale, ad esempio. Ed è per questo che

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quando si entra in una comunità si acquisisce un nome (si pensi alle cerimonie che, in ogni parte del mondo, consentono l’acquisizione del proprio nome, scelto da altri o scelto per sé). Dare nome alle cose significa attribuire loro il potere di dive-nire visibili al mondo, riconoscibili fra le altre. Il nome è il modo tramite il quale le cose prendono corpo anche nell’incorporeo mondo delle relazioni sociali.

La visibilità è un aspetto cruciale per la tutela. La lotta per difendere i diritti del fanciullo, così come i diritti in generale, parte infatti dalla constatazione del bisogno primario di visibilità, inteso come possibilità di essere visto, di esistere agli occhi del mondo. Ciò che rende difficile in primo luogo la tutela è, infatti, proprio l’impossibilità di vedere che di tale tutela si ha bisogno. In questo senso, la Convenzione è di per sé un atto di tutela perché afferma – ferma e consolida – l’infanzia come entità visibile e distinta, come specificità rispetto, ad esempio, all’adultità in genere. Tutto ciò vale anche al contrario: dare nome alle cose signifi-ca affermare – porre come punto fermo – che certe cose sono inaccettabili. La norma dà nome, infatti, alla violazione, la definisce sancendone i contorni e stabi-lendone la punibilità. Anche questo aspetto naviga nei paradossi della tutela, poiché stabilire cosa sia inaccettabile è possibile soltanto se questo è ipotizzabile alla men-te. Tornando ai diritti dell’uomo, porre come condizione fondamentale di esistenza dell’umanità la pace, o l’autodeterminazione dei popoli, è ben lontano dall’essere scontato, e ben lontano dall’essere comprensibile in modo universale. La civiltà umana ha conosciuto secoli fondati sulla guerra, e li conosce ancora. Considerare la pace una condizione di umanità è divenuto pensabile soltanto quando la pace è sta-ta storicamente l’unica condizione possibile per salvaguardare l’umanità stessa, a ridosso di un vissuto di guerra insopportabile. Quanto facilmente, però, ci si possa abituare anche all’’umanità’ della guerra è qualcosa con cui molte parti del nostro mondo tuttora fanno i conti ogni giorno, ogni istante.

Tornando alla nostra riflessione, nelle società complesse come quella attuale, basate sulla definizione delle proprie procedure, l’assenza di un nome con cui de-finire una condizione significa la non pensabilità di quella condizione stessa. In questo senso, ciò cui non è stato ancora dato un nome rischia di non poter essere tutelato. Un esempio, fra gli ultimi della cronaca, è quello dello stalking: persone assediate da atti persecutori ripetuti e continuativi tali da rendere impossibile la vita non è certo fatto recente. Eppure, è stato necessario darvi un nome per po-ter essere ritenuto una violazione alla norma, inteso come normalità, e dunque per poter essere perseguibile. Tutelare significa, allora, anche dare nome a ciò che è indicibile, rendere visibile ciò che è invisibile.

5. DARE VOCE

Riconoscere, inoltre, nel bambino e nella bambina dei cittadini significa rico-noscere loro anche il diritto ad esercitare tale cittadinanza, ad essere parte attiva della vita civile di un Paese (Moro, 1991). Si sta parlando, insomma, del diritto ad

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essere interpellati sulle questioni di propria pertinenza, qualcosa che solo appa-rentemente è banale. Dato per scontato nei salotti democratici, il diritto ad esprimersi, a dire la propria laddove si sia ‘imputati’ è cosa preziosa. Soprattutto se si è in condizione di minorità, se ci si deve necessariamente rimettere alla tute-la di altri per poter far valere i propri diritti. In questo, la tutela si muove invece sul dare voce a chi non può farlo per sé. Nel dare voce, però, sta anche la consa-pevolezza che il tutelato ha qualcosa da dire, di più: che il tutelato sa ciò di cui sta parlando. La tutela, allora, passa attraverso il rispetto delle possibilità dell’altro di pensare per sé, di decidere anche per sé, al di là di qualsiasi presunta minorità.

Si tratta di un tema che interessa il dibattito attuale sull’advocacy nell’ambito della tutela minorile, una pratica complessa che rimanda al rappresentare i diritti e la prospettiva degli utenti dando, al tempo stesso, loro voce, affinché siano par-tecipi nel processo decisionale che li riguarda (per un approfondimento, si ri-manda a: Boylan, Dalrymple, 2011). Ma, chiaramente, si tratta anche di una con-sapevolezza, da parte di chi è chiamato a raccogliere le storie dei bambini e delle bambine, che ci si sta muovendo in un campo delicato, ove la relazione per sua natura asimmetrica fra chi ascolta e chi racconta, e la peculiare condizione di sof-ferenza che comunque connota determinate situazioni, rende quel racconto un percorso difficile e vulnerabile. E in questo senso, il dare voce richiama ancora il tema sopra trattato in merito al potere di chi tutela, perché esiste anche una “vio-lenza istituzionale”, come definita nel 1983 dall’International Conference on Psychologi-cal Abuse of Children and Youth, in riferimento alle procedure giudiziarie che vedo-no minori vittime di reati sessuali costretti ad un iter violento di visite, colloqui, udienze e così via, che ne minano la salute ed il benessere di per sé già corroso dall’abuso principale. Si tratta, cioè, della necessità di una adeguata formazione da parte del personale coinvolto nella tutela minorile (Mostardi, Scardaccione, Pe-trosino, 2006), affinché quello che è il percorso di tutela non si tramuti in una spirale di violenza che, proprio perché istituzionale, non conosce alcuna difesa.

Se pensiamo all’ambito educativo, ritroviamo in questo grande parte del no-stro lavoro: l’educazione è, infatti, azione capace di restituire al singolo la possibi-lità di divenire narratore della propria stessa storia. Altrove chi scrive ha avuto modo di precisare quanto il lavoro educativo sia un lavoro con e sulle storie, in cui l’educatore diviene facilitatore nella presa in carico da parte dell’altro – che può chiamarsi utente, educando, ma anche studente o altro – della propria storia, del quale egli diventa narratore e attore al tempo stesso (Biffi, 2010, p. 56). E questo è di per sé gesto di tutela, nel momento in cui riconosce nell’altro non il destinatario di un agito, bensì un soggetto di diritto, un interlocutore con cui dia-logare che porta il suo legittimo e degno bagaglio di sapere e di esperienza246.

246 Esistono, in letteratura, numerose e brillanti dimostrazioni del valore pedagogico insito nel

coinvolgere direttamente i bambini e le bambine su questioni, anche complesse, che toccano loro

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6. CIÒ CHE È FONDAMENTALE

Quanto detto poco sopra si ricollega ad un ulteriore aspetto è necessario ap-profondire. È qualcosa che ha a che fare con ciò che nella Convenzione viene indicato come requisito fondamentale per lo sviluppo del bambino e della bam-bina: la propria identità, la propria appartenenza, le relazioni familiari. La Con-venzione pone come ‘interesse ultimo del bambino’ il bambino stesso, la sua identità, la sua appartenenza, le sue radici: la sua storia. Ciò che è fondamentale è, allora, proprio il singolo individuo e la sua storia. In un certo senso, la Conven-zione precisa l’impossibilità di salvaguardare il bambino e la bambina senza sal-vaguardarne la storia, senza pensarli come parte di un sistema di relazioni e di appartenenze che fanno di quel bambino e di quella bambina ciò che sono. Il la-voro della tutela minorile, d’altro canto, insegna il bisogno di uno sguardo siste-mico sul soggetto e sulle situazioni. L’investimento sulla rete familiare ma anche sociale, lo sviluppo di modelli di interventi relazionali e la focalizzazione sui fat-tori protettivi si muovono nella direzione di uno sguardo allargato, capace di ac-cogliere il minore nel suo mondo.

Detto questo, l’ambito minorile mostra proprio in questo tutta la delicatezza del suo compito. Il piano normativo, infatti, è per sua natura generale: deve fare i conti con una collettività, e non può chiaramente tenere conto delle specifiche esigenze dei singoli. Al tempo stesso, porre al centro identità, appartenenza, le-gami familiari eccetera significa tradurre ‘il fanciullo’ in quello specifico bambino, con la sua storia unica e non generalizzabile. L’applicazione della tutela, in questo senso, richiede un delicato gioco di equilibri fra l’ordine presunto in teoria e il campo delle possibilità in pratica. Qualcosa che, certo, pare essere paradossale: “Nonostante il fine ultimo della tutela sia quello di mantenere o ripristinare un ordine, l’auspicato ordine risultante dovrebbe essere plasmato in contenuti ad hoc – auspicabilmente i più alti possibile in ogni situazione data. Questo imperativo deontologico verso la massima individualizzazione e la massima sensatezza della azione istituzionale si impone perché la materia di cui parliamo non è una mate-ria qualsiasi, ma è la nuda vita, come direbbe Agamben: l’umanità più esposta e più indifesa, di fronte a se stessa e di fronte al diritto impersonale” (Folgheraiter, 2011, p. 65).

È a questo punto che preme sottolineare il ruolo cruciale dello sguardo peda-gogico. L’ambito della tutela minorile vede, infatti, principalmente agire figure professionali altre, dall’assistente sociale, al magistrato, allo psicologo. E chiara-mente non potrebbe essere diversamente, proprio per le ragioni che si sono sino-ra esposte. Al tempo stesso, è convinzione di chi scrive che proprio in questo ambito lo sguardo pedagogico quando presente con costanza e sin dal principio da vicino. Segnaliamo di seguito alcuni esempi vicini ai temi dibattuti in questa nostra riflessione: Bove, 2012; Christensen, James, 2000; Mazzoni, 2009; Mortari, 2009.

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(non soltanto relegato, ad esempio, alla relazione dell’educatore di Assistenza Domiciliare Minori che giunge infine all’assistente sociale), come attore del pro-cesso, può aiutare – e molto – a presidiare quell’attenzione sulla storia in corso di cui si è detto poco sopra. Laddove, infatti, l’assistente sociale presidia il piano so-ciale, lo psicologo il piano di salute e benessere psichico, il pedagogista è chiama-to a quello sguardo progettuale capace di cogliere il progetto formativo globale del minore. Un progetto in cui la rete familiare, l’appartenenza sociale e l’identità in genere sono necessariamente al centro di un pensare capace di complessità. Lo sguardo pedagogico tutela, allora, in quanto preserva l’attenzione al progetto formativo dell’uomo, all’individuo inteso come parte del tutto e al tutto come più che somma delle parti. E molto spesso, nelle storie di tutela che vedono i sogget-ti e le loro storie parcellizzate in diversi file - dalla cartella sociale, alla relazione dello psicologo, al procedimento del magistrato, alla segnalazione dell’insegnante e così via - a mancare è proprio il progetto d’insieme, inteso come progetto tra-mite il quale il soggetto si dà forma, e non solo prende forma.

La perversione della tutela è, invece, presente laddove il significato proprio di ‘interesse primario del fanciullo’ viene travisato, quando lo si legge attraverso una sola lente, quella del proprio ambito di pertinenza, che sia sociale, psicologico, medico. Il sapere pedagogico, proprio perché ‘meticciato’, capace di contamina-zioni, è un sapere potenzialmente in grado di connettere i diversi punti di vista, di presidiare lo sguardo d’insieme senza, con questo, perdere di vista il singolo. Questo fa della pedagogia una risorsa preziosa per la tutela minorile.

7. FRA PRIVATO E PUBBLICO: LA RESPONSABILITÀ DELLA TUTELA

Infine, si giunge a quello che, secondo chi scrive, è il vero punto cruciale per una riflessione pedagogica sul concetto di tutela, per affrontare il quale è fonda-mentale una premessa.

In qualità di minori, la Convenzione stabilisce che a farsi garanti e tutori dei bambini e delle bambine siano i loro genitori salvo i casi in cui ciò metta in peri-colo il loro stesso interesse primario. Sebbene consapevoli, pertanto, che occu-parsi di tutela dei minori significa occuparsi di famiglie, si vorrebbe provare, in questa sede, a non seguire questa che, certo, resta la strada naturale del discorso. Piuttosto, si propone al lettore di usare il suddetto passaggio per mostrare come la tutela minorile sia, da un punto di vista teorico, questione collettiva e pubblica. Si tratta di un punto assai delicato: il concetto di tutela, così come sancito dalla Convenzione, richiama, infatti, ad una responsabilità condivisa dell’interesse dei bambini e delle bambine. Pertanto, chiunque può e deve segnalare alle autorità una presunta violazione dei diritti dei minori, anche fosse per tutelare quest’ultimi dai genitori stessi. È la collettività, in questo senso, ad assumersi il compito ultimo di vigilare e di garantire la tutela dei bambini e delle bambine.

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Da un lato, questo è il risultato di lunghe lotte per la salvaguardia dei bambini e delle bambine. I casi in cui, infatti, sia necessario tutelare i bambini dai loro stessi familiari sono quelli ove i familiari stessi sono abusanti, vale a dire utilizza-no il proprio potere genitoriale, relazionale, affettivo, in modo distorto contro i propri bambini e bambine, violando ciò che è fondamentale per la loro vita e il loro sviluppo. Si sta parlando di violenza domestica: quella più diffusa, quella che - in ultimo e sotto diverse forme - è la principale ragione della tutela minorile come comunemente intesa. Qualcosa che ha una storia antica quanto il mondo, e che per secoli e secoli non ha generato alcuno scalpore. Ad onore del vero, a tutt’oggi capita spesso che, di fronte alla tragedia, si attivi nella collettività un sen-so di compartecipazione, di condivisione del dolore. Ma nel tempo quotidiano, nella routine di tutti i giorni, ogni bambino appartiene alla sua casa. Non si conta-no le storie di violenze, perpetuate fra le mura domestiche, senza che nessuno intorno notasse nulla. E la famiglia richiama ancora, nella nostra società, un ‘pri-vato’ dove non è lecito entrare. Soprattutto in un contesto come quello attuale ove definire i confini e il profilo stesso della famiglia è questione complessa (Contini, 2010; Iori, 2001). Intervenire sulla famiglia sembra ancora - come di-chiara Laura Formenti nella sua lettura del complicato e, per certi versi, contrad-dittorio compito cui sono chiamati gli operatori della tutela – un “atto estremo, quasi pericoloso per l’ordine sociale” (Formenti, 2000, p. 166): “Mentre non tol-leriamo che un adulto aggredisca un altro adulto impunemente”, prosegue l’autrice, “e in questi casi pretendiamo giustizia, sembriamo più disposti ad assi-stere a scene di maltrattamento più o meno grave nei confronti di bambini, don-ne o malati senza intervenire, quando l’abuso è compiuto da un familiare. La vio-lenza, se avviene in famiglia, sembra più giustificabile, più tollerabile” (Formenti, 2000, p. 166). In questo senso, occuparsi di tutela minorile significa comprendere i confini privati e collettivi della responsabilità, verso i bambini così come verso ogni essere umano. Dobbiamo molto, se non tutto su questi temi, alle lotte delle donne, al loro richiamare con forza che il “personale è politico”, perché – sotto altri punti di vista, e dunque forzando la complessa lettura degli studi sulle diffe-renze – si iniziasse a insinuare la necessità di una responsabilità collettiva di ciò che accade anche nelle case private. In questi termini, la Convenzione è debitrice di quella lotta: per dare visibilità all’invisibile celato fra le pareti domestiche e per dire che l’interesse dei bambini e delle bambine è interesse di tutti. Che la civiltà umana intera, in termini di principio, è responsabile dei propri bambini e delle proprie bambine. Va precisato che tutto ciò ha anche un versante in ombra, pa-rimenti violento: quando la collettività si erge a giudice supremo di fronte ad una apparente situazione di pregiudizio ed agisce di conseguenza, violando ‘a fin di bene’ le sue stesse norme, ci si trova di fronte ad una violenza che non è in realtà in grado di tutelare se non se stessa, perpetuando una spirale di violenza che mai porta alcun vantaggio ai più deboli.

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Tornando alla tutela, però, v’è un ulteriore passaggio che si mostra di delicata soluzione: la condivisione da parte della collettività della bontà e giustezza di quei diritti fondamentali sulla cui base la tutela viene costituita. Si sta parlando di una cultura dell’infanzia collettiva e condivisa, ove però l’infanzia sia considerata nelle sue peculiarità e specificità. La Convenzione, infatti, richiede agli stati firmatari una messa in pratica dei suoi principi oltre all’ambito del diritto: richiede un im-pegno politico, etico, economico per rendere il bambino titolare di diritti concre-tamente fruibili. E per far ciò è necessaria una vera e propria politica dei bambini e delle bambine, fatta di infrastrutture, servizi e di una cultura capace di osservare davvero quei bambini e quelle bambine (Mantovani, 2012; Zaninelli, 2010). Una cultura che sappia cos’è l’infanzia e che restituisca alle bambine e ai bambini il loro ruolo costitutivo (Cambi, Ulivieri, 1992). Si tratta di un aspetto di fonda-mentale importanza.

Come ricorda Maria Grazia Riva, nella sua riflessione fra psicoanalisi e peda-gogia su L’abuso educativo, “solo uno sguardo autenticamente ed empaticamente pedagogico può assumere una visione globale e complessiva dell’’abuso’, in quan-to quello che è in gioco sono proprio gli oggetti di studio della pedagogia: il pro-cesso educativo, il rapporto genitore-figli, l’educazione familiare, le pratiche di allevamento e i dispositivi di trattamento e di elaborazione dei minori” (Riva, 1993, p. 29). L’autrice, rileggendo l’opera di Alice Miller (2007) e il concetto di pedagogia nera, sottolinea come anche i maltrattamenti e le violenze siano parte di una certa visione della formazione e di ciò che lungamente si è considerato una educazione accettabile. In questo senso, seguire la pista della tutela minorile si-gnifica provare ad interrogarsi sulle connessioni fra i significati collettivi e privati della violenza e, soprattutto, sul ruolo dell’educazione nella costruzione degli stessi. Anche perché la violenza forma quei bambini al tipo di adulti che diverran-no; occuparsi di abuso significa, allora, pensarlo anche come ‘educativo’, per ri-condurlo alla sua dimensione trasversalmente connessa alla sofferenza dell’uomo. È sempre Riva, infatti, a ricordare le ricadute sociali della violenza: “Il fenomeno dell’abuso ai minori è una realtà concreta che danneggia moltissimo l’intera socie-tà, a causa della carica di distruttività e di aggressività che esso genera, e che si diffonde in mille rivoli e forme in tutta la società stessa” (Riva, 2003, p. 113).

Infine, rimando alla necessità di una cultura condivisa sull’infanzia si fa pres-sante anche per altri motivi. In primo luogo, perché è necessario ricordare che, così come si è detto per i diritti umani, anche i diritti dell’infanzia non sono scon-tati: ovunque nel mondo, persino nelle nostre città, esistono bambini i cui diritti vengono costantemente e impunemente lesi, e le condizioni di povertà che gra-vano sempre più anche sui nostri Paesi occidentali stanno acutizzando i disagi e le sofferenze dell’infanzia. La disoccupazione ed i fenomeni di violenza legati alla precarietà delle condizioni di vita non riguardano soltanto gli adulti: riguardano anche i loro figli.

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In secondo luogo, perché le rappresentazioni distorte dell’infanzia nei fatti la negano, etichettando velocemente le bambine e i bambini in cliché improbabili. Basti pensare da un lato alle immagini pubblicitarie, che ritraggono piccoli paffuti e sorridenti, e dall’altro alle pagine di cronaca, che descrivono adolescenti feroci e malvagi (Barone, 2006; Barone, 2009). Si tratta di stereotipi che hanno l’unico reale effetto di dimenticarsi dell’infanzia, perché in ultimo è complessa e difficile da comprendere, nonostante sia la stagione della vita attraversata da tutti gli adul-ti del mondo.

Ecco, a fronte di tutto ciò, la pedagogia diviene l’arma a tutela dell’infanzia, perché è un sapere che può restituirle dignità, indirizzare il mondo adulto alla sua comprensione, sostenere quella cultura dell’infanzia che in realtà è la vera e unica tutela possibile per i bambini e le bambine della nostra civiltà umana. Una cultura basata su di un sapere fondato, legittimo, che non si parcellizza soltanto in buone pratiche ma che sa godere dell’ampio respiro teoretico di cui ha bisogno.

8. MA, INFINE, LA TUTELA RIGUARDA LA PEDAGOGIA?

Alla fine della presente riflessione, sembra di poter suggerire che la tutela non è affatto soltanto questione di diritti. Questi, proprio per la loro storicità e la loro natura politica, sono lo strumento tramite i quali si rende possibile agire. Ma, di fondo, quello di cui si sta qui trattando è questione pedagogica. In un certo sen-so, infatti, è proprio l’educare il principale meccanismo tramite il quale l’umanità salvaguarda se stessa: forma donne e uomini nel massimo della loro umanità pos-sibile, assicura un futuro alla sua civiltà. Senza con questo voler affatto pensare all’educare come invincibile, anzi: di fronte ad un panorama di crisi, anche la pe-dagogia è chiamata ad interrogarsi, per affrontare quel disagio che è anche “edu-cativo” (Palmieri, 2013).

Per certi versi, il tema dell’abuso dell’infanzia svela la fragilità dell’umanità, la sua vulnerabilità nel complicato equilibrio fra le dimensioni di potere, diritto e possibilità. Si è già detto di come il peggiore abusante sia, in potenza, colui che può tutelare. Poiché da questo non v’è tutela, se non nei meccanismi di controllo collettivo. Ma, se il sistema tutela il singolo, è il singolo che si fa garante del si-stema. Ecco come, in ultimo, l’educazione può realmente essere tutelante: quan-do è rivolta alla formazione dell’uomo quale cittadino consapevole (Mortari, 2008a; Mortari, 2008b), quale cittadino del mondo. Afferma Edgar Morin: “Inse-gnare la comprensione fra gli umani è la condizione e la garanzia della solidarietà intellettuale e morale dell’umanità” (Morin, 2001, p. 98). Abbiamo bisogno di una educazione che sia sempre educazione alla cittadinanza (Biffi, 2005) e, più in generale, di un progetto educativo che ci aiuti a coltivare la nostra umanità, di una pedagogica che sappia affrontare le implicazioni dovute a modelli contraddit-tori che incidono sulla formazione del singolo (Tramma, 2011). Come suggerisce Martha Nussbaum in una sua recente riflessione (Nussbaum, 2011), occorre ri-

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scoprire il significato umano di quelle dimensioni economiche e politiche che sembrano, nelle nostre civiltà centrate sul profitto, essere portatrici di un senso sovraumano. Perché, laddove questa operazione di ricerca di senso venga meno - ricordava ancor prima la filosofa statunitense - prevale la paura per la nostra stes-sa vulnerabilità e prevale la violenza (Nussbaum, 2007).

Su queste sfide, la pedagogia si mostra forte nella sua debolezza; è utile citare, a tal proposito, la preziosa riflessione di Mariagrazia Contini in merito al suo Elo-gio dello scarto e della resistenza (2009) quando, citando G.M. Bertin, ricorda come l’idea pedagogica debba essere “inattuale: altrimenti non sarebbe idea, ma costu-me, prassi, ideologia” (Bertin, cit. in Contini, 2009, p. 14). Prosegue poi l’autrice, in riferimento al sapere pedagogico: “Ecco allora che la nostra marginalità e scar-sa visibilità possono tradursi in risorsa, richiamandoci a uno stile, nella ricerca e nella riflessione e nell’operatività, improntato all’inattuale e alla valorizzazione del residuo, dello scarto, nei termini suggeriti dall’epistemologia della complessità, che privilegiando le connessioni, smonta e rifiuta le gerarchie e le contrapposi-zione (tra centrale e periferico, tra superiore e inferiore)” (Contini, 2009, p. 14).

La comunità scientifica ha, anche, il ruolo di portare all’attenzione delle genti le contraddizioni e le criticità della nostra civiltà umana. Ha il ruolo politico di mostrare ciò che altrimenti resta nascosto, di offrire direzioni di attenzione, di sostenere in senso lato l’umanità. E le scienze umane hanno mostrato come que-sto sia non solo una possibilità, ma più propriamente un dovere: gli sviluppi della ricerca nella direzione della social justice (Cannella, Lincoln, 2011; Malsbary, Tor-res, 2012) stanno, appunto, assumendosi la responsabilità politica di fare della ricerca scientifica una leva di cambiamento. La tutela è, si è detto, fatto anche culturale, e la cultura umanistica di cui parla la Nussbaum (2011) è qualcosa di cui l’umanità ha oggi fortemente bisogno. Per questo la pedagogia può e deve fare la sua parte.

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