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Portraits of Success 2011 Internazionali, creativi, innovatori: Bocconiani all’opera
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Portraits of Success 2011

Internazionali, creativi, innovatori: Bocconiani all’opera

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Indice* Edward: l'artista che fotografa l'immobilismo italiano 3 di Andrea Celauro È bocconiano il Virtual Talent 2010 5 di Davide Ripamonti Un progetto etico è l'I-Dea vincente 7 di Davide Ripamonti Il mestiere dell'attore 9 di Davide Ripamonti Classica o moderna, purché sia danza 11 di Davide Ripamonti Un anno in barcastop 13 di Davide Ripamonti Federico e il flauto d'oro 15 di Davide Ripamonti In aula e in tv, le lezioni di Silvia 17 di Davide Ripamonti Per Marco il fantacalcio è business reale 19 di Tomaso Eridani ______________________________________ * Portraits of Success è una selezione di articoli precedentemente pubblicati su Bocconi Newsletter, e consultabili online su ViaSarfatti25, il quotidiano della Bocconi, all’indirizzo www.viasarfatti25.unibocconi.it.

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Paola, un cuore musicale liberato dal jazz 21 di Andrea Celauro Scardovi-Stitch, il professore con la passione dei gialli 23 di Davide Ripamonti Valentina sulle tracce di Gesù 25 di Davide Ripamonti Antonio Aloisi, dal giornale del liceo al cda della Bocconi 27 di Andrea Celauro Un campione del mondo alla SDA 29 di Davide Ripamonti I premi della PhD School 31 di Tomaso Eridani Con la violenza honduregna negli occhi 33 di Andrea Celauro Un alumnus dell'MBA nel comitato esecutivo della BCE 35 di Fabio Todesco

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Edward: l’artista che fotografa l’immobilismo italiano di Andrea Celauro

Nato a New York e laureatosi in belle arti con specializzazione in fotografia alla Rhode Island School of Design, Edward Rozzo insegna critica della cultura visiva al Cleacc Bocconi. Ma, soprattutto, spinge i suoi studenti a guardare in maniera aperta alla realtà che li circonda.

Italia paese di creativi. “Sì, ma con il gusto dell’autocelebrazione e con una cultura, in particolare quella visiva, piuttosto conservatrice”. Il giudizio di Edward Rozzo è tranchant, ma arriva da chi, nato a New York e laureatosi in belle arti con specializzazione in fotografia alla Rhode Island School of Design, ha però vissuto a Milano per buona parte della sua vita. Edward quindi l’Italia, e la sua cultura dell’immagine e del bello, la conosce bene. Ha fatto per molti anni il fotografo prima di moda e poi industriale, ha esposto le sue foto, frutto di un estro che spazia su più campi, a Milano, Torino, Firenze, Verona e in Francia, ha insegnato fotografia all’Accademia di belle arti di Bergamo, all’Istituto europeo di design di Milano, ed è stato l’artefice della creazione, all’inizio degli anni Ottanta, di Brera Fotografia, alla omonima Pinacoteca. Oggi, tra le sue attività, c’è la docenza di critica della cultura visiva al Cleacc della Bocconi. La sua storia di fotografo inizia negli States, dove all’università ha come maestro quell’Harry Callahan considerato uno dei grandi innovatori della fotografia americana. Dopo la laurea, siamo nel 1970, si stabilisce in Italia. Il suo approccio con Milano, negli anni dell’esplosione della moda italiana nel mondo, avviene attraverso il lavoro di assistente a un fotografo dell’ambiente. “Ma della moda mi sono stancato presto”, racconta Edward, “e sono passato quindi alla fotografia aziendale e industriale”. In questo settore, dove lavora per marchi del calibro di Pirelli, porta però l’occhio, l’attenzione per i dettagli e la cura della luce del fotografo di fashion. “Si trattava”, spiega, “di comunicare attraverso le immagini la struttura, l’etica e la visione dell’azienda, in un’era in cui internet non esisteva e, di conseguenza, la visibilità delle imprese era differente”. Oggi il lavoro di corporate photograpy è più ridotto, proprio grazie alla rete, mentre la richiesta è per i video: “I quali richiedono una qualità altissima, che rasenta il cinema, sempre con l’obiettivo di raccontare non solo il prodotto, ma anche chi lo fa e perché”. Accanto all’attività di fotografo industriale ci sono poi i suoi progetti personali. Rozzo ha esposto ad esempio alla Biennale della fotografia a Torino, alla Fondazione Corrente a Milano e al Museo di fotografia Alinari di

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Firenze. Nel 1998 il suo lavoro “Urgent stories” è stato esposto alla mostra “Un nouveau paysage humain” ai Rencontres internationales de la photographie ad Arles, in Francia, mentre la sua mostra “Pensieri urbani” è stata ospitata, tra il 1999 e il 2000, dal Castello Sforzesco di Milano. E c’è il suo profondo coinvolgimento nell’attività di insegnamento. Tra il 1982 e il 1984 viene chiamato dal direttore della Pinacoteca di Brera per dare vita al progetto Brera Fotografia, poi insegna all’Accademia di belle arti di Bergamo, a Milano allo Ied e al Watson Ibm Centre for management di Bruxelles, dove tiene alcuni seminari sulla comunicazione visiva. Successivamente si sposta in Svizzera, all’Ecole supérieure d’arts appliqués di Vevey. Dal 2004, infine, la cattedra di critica della cultura visiva all’Università Bocconi. E nel suo corso in via Sarfatti, Edward spinge gli studenti a guardare in maniera aperta alla realtà che li circonda. Un’apertura mentale che deve riguardare anche ciò che, nell’immaginario collettivo, è uno dei punti di forza del nostro paese, la presunta padronanza di ciò che è bello e di buon gusto. “Viviamo in un mondo totalmente visivo eppure nessuno investe più di una manciata di tempo per imparare i linguaggi dell’immagine”, esordisce il fotografo. “Siamo autoreferenziali e, quando vediamo qualcosa che esula dalla nostra cultura, lo consideriamo brutto o di scarso valore. Ciò che cerco di dare ai ragazzi sono gli strumenti necessari a comprendere la nostra realtà”. Capire chi siamo anche attraverso l’immagine che ci costruiamo di noi, elemento non sempre facile da realizzare, visto che, come sottolinea Edward Rozzo, l’Italia “è un paese fondamentalmente ignorante quanto a cultura visiva. Siamo il paese in cui si concentra l’apice della moda e del design, eppure non sperimentiamo. In questo senso, siamo chiusi all’innovazione, preferiamo seguire la regola”. E chi non la segue, chiaro, “viene tagliato fuori”. E rincara: “L’Italia ha mille motivi più che giusti per essere orgogliosa di sé, però a volte questa autocelebrazione offusca il nostro giudizio”. C’è poi da dire che la società dei social network, con i milioni di fotografie e di video di pessima qualità che intasano la rete, di certo non aiuta ad elevare il livello della cultura del bello. Ma su questo Edward è possibilista. O meglio, sottolinea come questa sia un’evoluzione né giusta, né sbagliata, e comunque inarrestabile. “Come le lingue si modificano continuamente, come l’italiano non è che la volgarizzazione del latino, così la cultura fotografica degli scatti casuali che è nata con i social network non è che una trasformazione del linguaggio ‘alto’ della fotografia. È un approccio spontaneo che, volente o nolente, fa parte della trasformazione sociale e culturale. In fondo, non è una novità la battaglia tra chi detiene ciò che è consolidato e chi invece parteggia per la trasformazione”. È il motivo per cui, tra l’altro, nel corso che tiene in Bocconi, Edward non insegna storia della fotografia, “bensì una storia dell’evoluzione del gusto”. Una differenza forse sottile, ma in cui è racchiuso tutto il messaggio del professore della cultura visiva.

Da Bocconi Newsletter no. 100/2011

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È bocconiano il Virtual Talent 2010 di Davide Ripamonti

Ivan Cogliati, studente del secondo anno della laurea specialistica in Marketing Management della Bocconi, ha vinto il Virtual Talent 2010, business game promosso da Asseprim - Associazione Servizi Professionali per le Imprese. Una sfida virtuale organizzativa, gestionale e commerciale.

Era solo un gioco, ma molto vicino alla realtà che, una volta laureati, gli studenti si troveranno ad affrontare. Perlomeno quelli che sceglieranno il competitivo mondo della consulenza. Si tratta di Virtual Talent 2010, promosso da Asseprim-Associazione Servizi Professionali per le Imprese, e a trionfare è stato Ivan Cogliati, 23enne della provincia di Lecco iscritto al secondo anno della specialistica in Marketing management in lingua inglese. Ivan ha battuto i circa 100 concorrenti (sui 200 che hanno avanzato la propria candidatura) provenienti dalle università milanesi Bocconi, Bicocca, Cattolica, Politecnico e Statale. “Il mio obiettivo era entrare tra i primi 10”, dice Ivan, “per poter vincere uno stage in una delle circa 700 società associate ad Asseprim, visto che terminati gli studi mi piacerebbe lavorare nella consulenza, un settore che permette di fare esperienza in ambiti diversi per poi capire quale sia il settore più adatto alle proprie capacità”. Una strada, quella dei business game, come precisa ancora Ivan, “assai battuta di questi tempi da molti grandi brand internazionali”. Ivan ha vinto una sfida virtuale in cui le abilità organizzative, gestionali e commerciali sono la chiave vincente, e che si gioca via internet attraverso un portale dedicato, con i partecipanti che vengono divisi in scenari (mercati) da 5 concorrenti ciascuno. Nelle loro aziende virtuali devono quindi valutare il mercato, prendere decisioni operative e verificarne i risultati. Ciascun partecipante ha a disposizione 5 giocate, ognuna delle quali rappresenta un bimestre. La valutazione del mercato si basa su 5 parametri: la conoscenza numerica delle imprese e delle loro esigenze; i fattori di successo; i tempi; gli sconti e i margini; il portafoglio clienti. Le decisioni operative sono di due tipi: l’organizzazione del tempo di dipendenti e collaboratori e le azioni commerciali. La verifica dei risultati permette di capire se si sta agendo bene ed eventualmente di correggere le scelte nei bimestri successivi. I test qualitativi non concorrono al successo o meno sul mercato, ma determinano il successo finale in classifica, dato che il punteggio finale sarà determinato al 70% dal risultato commerciale e al 30% dal risultato dei test qualitativi.

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Un gioco complesso e assai stimolante, perché, come spiega Ivan che si è anche aggiudicato un notebook riservato al primo classificato, “tutti gli studenti, qualunque sia il percorso di studi da loro intrapreso, hanno le stesse possibilità di vittoria. Le regole infatti non sono particolarmente ferree ed è lasciato largo spazio alle capacità e alle sperimentazioni del singolo”.

Da Bocconi Newsletter no. 101/2011

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Un progetto etico è l’I-Dea vincente di Davide Ripamonti

Quattro studenti Bocconi conquistano il 2° posto nel concorso “I-Dea dell’impresa”, promosso dall’Associazione imprenditrici e donne dirigenti di azienda, con il progetto di un ristorante “etico”: un’impresa sociale attenta al problema del disagio giovanile.

Un ristorante “etico”, dalla scelta della location ai prodotti da servire ai clienti, dalla selezione del personale al fine a cui verranno destinati i ricavi d’impresa. È Questo il progetto presentato dalla rappresentativa della Bocconi che ha conquistato il secondo posto al concorso “I-Dea dell’impresa”, promosso dall’Associazione imprenditrici e donne dirigenti di azienda (Aidda) e rivolto a studenti di tutte le facoltà, di laurea triennale e specialistica, di alcune tra le più importanti università italiane. “Il bando di concorso”, dice Paolo Fontana, studente del Corso di laurea specialistica in amministrazioni pubbliche e organizzazioni internazionali (Clapi), “chiedeva o di proporre un’idea innovativa da sviluppare in un’azienda già esistente oppure di costituire una nuova impresa, come abbiamo fatto noi. L’importante era che si trattasse di idee originali”. Come indubbiamente è quella proposta da Paolo e dai suoi compagni d’avventura, Desiree Ciampa, anch’essa studentessa Clapi, Lucio Santacroce (Management) e Luigi Guerra (Amministrazione, finanza aziendale e controllo). “Il nostro ristorante etico si basa su tre leve”, spiega Paolo, “persone-prodotti-ambiente. Per entrare nello specifico, si tratta di impiegare giovani in condizioni di disagio, come ex detenuti o ex tossicodipendenti, utilizzare prodotti provenienti da agricoltura biologica o dal commercio equo-solidale oppure ottenuti su terreni confiscati alla mafia. Anche il ristorante, inteso come location, dovrà essere a basso impatto ambientale”. Ma il progetto non si ferma qui. Anche i guadagni ottenuti, infatti, andranno bene utilizzati, visto che Paolo e colleghi hanno previsto “la creazione di un’organizzazione non profit che si occupi di disagio giovanile a cui destinare i proventi”. Un lavoro molto elaborato, con tanto di pianificazione strategica, che è stato premiato lo scorso 31 gennaio, all’Università La Sapienza di Roma, alla presenza del rettore Luigi Frati e del presidente di Aidda, Laura Frati Gucci. “Parte del premio viene erogata in denaro, 4.500 euro per il secondo posto, e parte attraverso uno stage trimestrale da svolgersi presso un’azienda selezionata in base al nostro curriculum”, spiega ancora Paolo.

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Un progetto, quindi, da collocarsi nell’ambito dell’impresa sociale trattato, in Bocconi, soprattutto da Francesco Perrini e Giorgio Fiorentini, che sta raccogliendo sempre maggiore successo con la partecipazione a numerose e importanti competizioni, come l’Harvard Business Plan Competition e Make a Change. “Spero che le possibilità di sviluppare attività che abbiano a che fare con il sociale aumentino sempre più”, auspica Paolo, “inoltre competizioni come questa danno la possibilità a studenti con formazione diversa di lavorare insieme per lo stesso obiettivo”.

Da Bocconi Newsletter no. 102/2011

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Il mestiere dell’attore di Davide Ripamonti

Donato Nubile, 36 anni, una laurea in Economia aziendale in Bocconi, e Marco Colombo Bolla, 29 anni, laureato Cleacc con una tesi sul teatro come metafora di modello di gestione del personale, hanno trovato la loro strada lavorando sia sul palco come attori sia dietro le quinte come manager.

Una strada diversa, che passa per entrambi dalla Bocconi, per un approdo comune. Donato Nubile e Marco Colombo Bolla sono oggi attori, insegnanti e manager dello spettacolo della Compagnia Campo Teatrale e del Teatro Guanella a Milano, 36 anni il primo, una laurea in economia aziendale, 29 Marco, laureato Cleacc con una tesi sul teatro come metafora di modello di gestione del personale. Per Donato, che adesso è amministratore delegato di Campo Teatrale, niente lasciava prevedere una carriera in questo settore: “Ho scoperto il teatro tardi, verso la fine dell’università, e quasi per gioco. Mai avrei immaginato potesse diventare un lavoro”, dice. Qualche corso di formazione a Campo Teatrale e un lavoro “tradizionale”, in una grande compagnia di assicurazioni. Ma è stata una breve parentesi. “Ho incontrato l’attore e regista argentino César Brie e sono entrato nella sua compagnia, con la quale sono stato diversi mesi lontano da Milano. Il teatro a questo punto è diventato il mio lavoro”. Donato Nubile adesso è uno dei quattro soci di Campo Teatrale, insieme, tra gli altri, a Marco Bolla, che però ha avuto un approccio al teatro completamente diverso. “La mia carriera di studente e quella di attore procedevano di pari passo”, racconta Marco, “avevo già svolto un corso di recitazione a Campo Teatrale e mi occupavo anche di laboratori e spettacoli per ragazzi. Dopo la laurea ho partecipato ad alcuni colloqui per un lavoro più vicino ai miei studi, ma poi quella di attore e formatore è diventata la mia vita. Non ho mai fatto altri lavori”. Campo Teatrale è oggi una realtà molto importante a Milano, “che va avanti bene anche se non riceviamo alcun contributo pubblico”, spiega con orgoglio Donato, “la cui attività principale è quella di scuola di recitazione, con corsi molto articolati sia per hobbisti sia per professionisti, dei quali io e Marco siamo anche insegnanti”. Al di fuori del palcoscenico, Donato si occupa anche degli aspetti amministrativi, mentre Marco di quelli organizzativi. Un’attività variegata e multiforme che comprende anche seminari, laboratori per le

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scuole e, seppure ancora in forma marginale, organizzazione di eventi e formazione aziendale.Vi è poi, molto importante, la produzione e distribuzione di spettacoli teatrali, nei quali entrambi sono coinvolti anche come attori. Proprio in questi giorni Donato e Marco sono molto impegnati con le prove di Coraggio, il meglio è passato!, in programma al Teatro Guanella dal 10 al 20 febbraio (biglietto scontato a 12 euro per studenti, docenti e personale della Bocconi presentando in cassa il tesserino), spettacolo ispirato a L’orologio americano, un testo di Arthur Miller che narra le vicende di una famiglia della media borghesia americana coinvolta, e travolta, nella crisi economica degli anni ’30, la fine del grande sogno americano. “Mantenendo il nucleo essenziale di Miller”, spiegano, “abbiamo riscritto il testo sviluppando alcune tematiche alla luce anche degli eventi della crisi economica che stiamo vivendo. In particolare, abbiamo passato in rassegna le dichiarazioni dei politici americani di allora confrontandole con quelle dei nostri attuali governanti e abbiamo riscontrato che sono praticamente identiche”. Per riflettere su questo e su altri aspetti, ogni sera lo spettacolo sarà seguito da un evento legato ai temi trattati in scena; il 16, in particolare, sarà presente il docente della Bocconi Severino Salvemini. “Rendiamo il pubblico parte della vicenda narrata”, dice ancora Donato, “creiamo eventi per approfondire con gli spettatori i temi dello spettacolo”.

Da Bocconi Newsletter no. 103/2011

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Classica o moderna, purché sia danza di Davide Ripamonti

Ottavio Taddei, 27 anni, laureato triennale in Discipline economiche e sociali alla Bocconi, è anche un affermato ballerino professionista: ha già lavorato con Riccardo Muti e Pier'Alli, e si è esibito davanti a 20.000 persone a San Siro nella prima del musical “I Promessi Sposi”.

Ha lavorato con Riccardo Muti e Pier’Alli, all’Opera di Roma, in Mosè e il Faraone e, sempre a Roma, in Romeo e Giulietta diretto da Carla Fracci; ma si è anche esibito davanti a 20 mila persone, a San Siro, nella prima del musical ispirato ai Promessi Sposi, con la direzione di Michele Guardì. Ballerino classico e moderno, Ottavio Taddei, 27 anni, di Bologna, laureato triennale in Discipline economiche e sociali alla Bocconi, ha messo da parte “forse momentaneamente”, dice, il sudato pezzo di carta per provare a sfondare nella danza, sua grande passione divenuta lavoro. “Ho iniziato tardi, a 17 anni, avvicinandomi per primo al modern jazz. Non pensavo, allora, che sarebbe diventata la mia professione”. Dopo i primi approcci, quando la vita era una continua corsa tra lezioni, ore dedicate allo studio e il resto del tempo consacrato alla danza, Ottavio passa al classico, alla scuola di Prisca Picano, a cui deve molto: “Io sono stato fortunato, perché in Italia per aprire una scuola di danza serve un titolo, ma poi l’insegnamento può essere praticato da chiunque e il rischio di trovare insegnanti poco preparati è molto alto”. Con effetti negativi sulla futura carriera, “cosa capitata a molti”, dice amaramente. Dopo il periodo milanese, nel quale l’amore per la danza è aumentato a tal punto da “cambiare le priorità”, Ottavio si trasferisce per alcuni mesi, intervallati da brevi ritorni in Italia, a New York, dove vive e studia suo fratello. Un periodo particolarmente importante della sua vita. “Ci sono ottime scuole e ottimi docenti a New York, tra questi ricordo soprattutto David Howard e Kat Wildish, ma, soprattutto, ho conosciuto una ballerina messicana che poi è diventata mia moglie”. Fare il ballerino professionista è un mestiere duro, sei o sette ore al giorno di allenamenti, molto studio e molta disciplina, soprattutto quando ti avvicini al classico in età adulta, con il corpo ormai formato. In cambio, tante audizioni, moltissima concorrenza e guadagni modesti. Frustrazioni, “come quando sei scartato dopo un’audizione di un minuto in cui non puoi mostrare nulla”, ma anche gioie, “come venire chiamati da Christoph Ferrari a Firenze e la magnifica opportunità dei Promessi Sposi, tra Milano e Agrigento, con

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l’esperienza unica di San Siro, una platea che normalmente un ballerino non ha”. Il tutto tra continui viaggi, compensi che arrivano in ritardo e una vita privata che non può non risentirne. Un’instabilità che porta Ottavio a riflettere sul suo futuro, che vorrebbe nel mondo dello spettacolo, “anche se non escludo un ritorno all’università per una specialistica o un master”, dice, “benché mi terrorizzi l’idea di entrare in competizione con colleghi di una decina d’anni più giovani”. A breve, però, Ottavio sarà nuovamente in partenza, destinazione Qatar. “Farò parte di uno spettacolo, curato dal coreografo Gino Landi, denominato Secrets of the sea, allestito in occasione del Festival del mare che vuole celebrare l’Unità del paese. Una decina di rappresentazioni, dal 5 al 27 marzo, nelle quali saremo circa 60 ballerini”. Un’opportunità di carriera e di guadagno, “perché lì i soldi ci sono, mentre in Italia scarseggiano e devi scendere a compromessi. Qui se vuoi guadagnare devi andare in tv, ma, almeno per me, è un’esperienza priva di stimoli”.

Da Bocconi Newsletter no. 104/2011

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Un anno in barcastop di Davide Ripamonti

Una laurea in Bocconi, una brillante e promettente carriera da investment banker avviata: Alberto Di Stefano un bel giorno lascia tutto e parte per fare il giro del mondo in barca. Ecco il racconto di un’esperienza decisamente fuori dal comune, dalla quale è nato anche un libro.

“Di solito, chi decide di lasciare tutto e andare in giro per il mondo lo fa o perché insoddisfatto della propria vita, o perché scappa da qualcosa: per me non è stato così”. Alberto Di Stefano, laureato in Bocconi, una carriera di investment banker internazionale avviata, da poco passata la trentina decide di lasciare tutto e prendersi un anno per sé: obiettivo attraversare l’Atlantico e poi viaggiare ancora, con qualunque mezzo e per chissà dove. “Il lavoro era soddisfacente, era la fine degli anni 90, il momento d’oro del mercato dei derivati, guadagnavo bene, avevo soddisfazioni professionali, stavo cavalcando l’onda giusta”, spiega Di Stefano durante un incontro in Bocconi organizzato dal Sailing Club dell’Università, “anche se la mia professione mi assorbiva totalmente”. Cinque anni di questa vita, con poche ferie e giornate interamente passate in ufficio, alla fine logorano e Alberto, incerto se cambiare lavoro o prendersi una pausa, decide per la seconda opzione e si licenzia. “Ci ho pensato molto, la voglia di fare il giro del mondo in barca l’avevo fin da piccolo, ma era una scelta complicata. Non avevo neanche esperienza vera di barca a vela, se non un corso effettuato in Italia”. L’idea di partenza era salire su una barca che attraversasse l’Atlantico e poi proseguire, vedere altri continenti magari aggregandosi a qualcuno incontrato sul posto, senza un vero programma. In corso d’opera le cose sono cambiate, perché chi ama la barca a vela ama soprattutto navigare, partire senza l’ansia di arrivare chissà dove. “Ai Caraibi ho scoperto un mondo tutto nuovo, di cui non sospettavo l’esistenza: ci sono delle persone, con le proprie barche, che fanno lunghi e avventurosi tragitti accogliendo i viaggiatori che ovviamente costituiranno l’equipaggio. Si sceglie su quale barca salire, in base alla rotta, e poi si parte”, spiega Alberto, “finita la tratta si cambia e si va da un’altra parte, come una sorta di barca-stop”. E così Alberto Di Stefano arriva fino in Polinesia, alle Marchesi o anche su isole sperdute, condividendo tutto con i compagni di viaggio, “è difficile la vita in barca, convivere in molti in poco spazio”, e conoscendo persone, anche italiani, “quelli che vivono lì magari da 15 anni e dicono sempre che stanno per tornare in

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Italia, ma non torneranno mai”. Alberto, invece, è tornato, ha scritto un avvincente libro (Il giro del mondo in barcastop, Feltrinelli) e ha ripreso la sua vita, anche se con qualche difficoltà: “In Italia chi fa l’anno sabbatico è visto con una certa diffidenza, non è considerato un plus come avviene nei paesi anglosassoni o in Francia. Ci ho messo un anno a trovare un nuovo lavoro, sempre nel campo della finanza, ma sono molto soddisfatto della scelta fatta, partire e poi tornare era quello che volevo”. Anche se un piccolo cedimento, una tentazione, di fare come “quelli che stanno sempre per tornare ma non lo fanno”, c’è stata. “Dopo 15 giorni di navigazione siamo arrivati a Niue, una bellissima isola tra Tonga e le Cook, e lì, in un bar, ho conosciuto un distinto signore che era in realtà il primo ministro. Ci siamo frequentati nei giorni in cui siamo rimasti lì e, alla fine, mi ha fatto una proposta: una bella casa a picco sul mare, una robusta pensione per me e i miei familiari in futuro purché mi fermassi per aiutarlo ad avviare un’attività turistica. Lo ammetto, ho vacillato”.

Da Bocconi Newsletter no. 105/2011

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Federico e il flauto d’oro di Davide Ripamonti

Non è da tutti tenere tra le mani un flauto d’oro a nove carati con meccanica d’argento, e nemmeno diplomarsi al Conservatorio a soli 14 anni. La storia di Federico Rossini, 19 anni, iscritto al Corso di laurea in Economia e management in Bocconi, un talento diviso tra la musica e l’economia.

Erano 42, poi sono rimasti in tre. Dopo un fitto programma di audizioni condotto dalla Gioventù musicale d’Italia con alcuni dei maggiori talenti della musica classica del paese, i migliori tre sono stati selezionati per esibirsi, il 28 marzo, al Teatro Dal Verme di Milano. Tra loro, Federico Rossini, 19 anni, milanese, iscritto al primo anno del Corso di laurea in Economia e Management, giovane promessa del flauto. Molto sicuro di sé, Federico racconta con naturalezza, senza presunzione, i suoi esordi da ‘genio precoce’: “A 7 anni, per assecondare una passione dei miei genitori, ho avuto i primi approcci con il flauto dolce e sono entrato al Conservatorio, dove ho proseguito con il flauto. Ricordo poco di allora, quando suonare era poco più che un gioco”. L’età media per diplomarsi al Conservatorio è intorno ai 20 anni, Federico c’è riuscito a 14, questione di talento. Ma quando si scopre di averlo? “All’inizio è tutto molto naturale, al Conservatorio impiegano metodologie didattiche adatte a bambini di quell’età, poi subentra la passione, quando ti accorgi che dedicare due-tre ore al giorno alla musica, oltre il tempo riservato allo studio, non ti pesa. Solo un po’ più avanti si intravede il talento”. Federico studia con il suo maestro, Bruno Cavallo, e compatibilmente con gli studi universitari tiene concerti, si è esibito già al Dal Verme e al Palazzo della Regione, ma l’economia non è solo una polizza contro i rischi e le incertezze della carriera artistica: “L’economia mi piace, la prospettiva di una carriera da manager o da mago della finanza mi alletta. Sicuramente, dopo la laurea triennale, mi iscriverò alla specialistica”. Al Dal Verme Federico si esibirà con il suo bellissimo “flauto d’oro a nove carati con meccanica d’argento, uno strumento importante, ma”, ci tiene a chiarire, “non si tratta di un vezzo estetico, sarebbe davvero un capriccio costoso, questi materiali conferiscono un timbro molto bello”.

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Per ora, però, la musica è ancora l’amore principale, nonostante le difficoltà, di cui si legge quotidianamente, che attanagliano i ‘mestieri della cultura’. “È un problema non solo italiano, anche nel resto d’Europa, dopo la crisi, i fondi destinati alla cultura sono stati ridotti. L’essere stato selezionato in queste audizioni è un’ottima opportunità”, racconta Federico, “perché Gioventù musicale d’Italia ha stipulato accordi con le società che organizzano concerti e per noi tre si aprono interessanti prospettive”. Una passione che diventa lavoro è il sogno di tutti. È così anche per Federico? “Mi piace suonare, questo è fuori discussione. Ho ancora speranze che il flauto diventi la mia professione, la strada più comune è quella di entrare in un’orchestra e poi sostenere anche attività concertistica, ma devo essere realista, la situazione non è semplice. So che ci sono flautisti che, dopo aver vinto concorsi, non sono poi stati assunti per mancanza di fondi. Inoltre la concorrenza è tanta, ci sono altri giovani flautisti di talento e il vantaggio di essermi diplomato precocemente ogni anno che passa è meno rilevante. Tuttavia non c’è un’età precisa per affermarsi definitivamente, oltre alla capacità servono le occasioni”. Quanto ancora Federico vorrà attendere? “Non lo so, per adesso continuo, con grande fatica, a portare avanti musica e università, sono convinto di potercela fare. Il risultato di questo concorso mi ha restituito grandi stimoli”.

Da Bocconi Newsletter no. 106/2011

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In aula e in tv, le lezioni di Silvia di Davide Ripamonti

Ha accettato di sottoporsi a un provino, ha sbaragliato la concorrenza di presentatori professionisti e ha ricevuto l’incarico di condurre su un canale Sky una trasmissione sul web e le nuove tecnologie: la sfida di Silvia Vianello, docente di e-marketing in Bocconi e in SDA.

A una carriera di conduttrice non pensava, e forse non pensa tutt’ora. Ma quando è stata contattata dai vertici di La3, canale del bouquet Sky (canale 143) votato alle tecnologie, è rimasta piacevolmente sorpresa. Silvia Vianello, docente di marketing digitale e green marketing in Bocconi e alla SDA, ha accettato di sottoporsi a un provino, dove ha sbaragliato la concorrenza di presentatori professionisti, magari più avvezzi di lei alle telecamere ma certamente meno competenti per quanto riguarda i contenuti, e ha firmato il contratto. La trasmissione si chiamerà “Smart&App”, andrà in onda a partire dal 9 maggio, un’ora al giorno da lunedì a venerdì alle 16. “Parleremo dei trend più interessanti nel panorama dell’innovazione e della ricerca”, dice Silvia Vianello, “commenteremo le applicazioni per smartphone più utili e i più recenti gadget tecnologici, ma parleremo anche delle nuove opportunità nel digitale sia per le aziende sia per gli utenti. Esprimerò senza reticenze la mia opinione sui diversi prodotti, i nuovi trend e le opportunità di business per le imprese”. Decisa e sicura di sé, “non ho esperienze tv alle spalle, ma in fondo si tratterà solo di tenere una lezione su argomenti a me abituali a un pubblico più vasto di quello dell’aula universitaria o della Business School”, dice. Una trasmissione per la quale le previsioni della rete si attestano sui 500 mila spettatori per la puntata in diretta, più quelli della registrata e quanti potranno seguirla sul proprio supporto mobile e online. Un’audience quindi molto vasta. “Aiuterò la redazione sulla scelta degli ospiti che interverranno in trasmissione, uno per ogni puntata, che potranno essere imprenditori, dirigenti, ricercatori, e che oltre a rispondere alle mie domande interagiranno con il pubblico via sms, blog o social network”. Ma perché un canale televisivo nuovo e ambizioso l’ha prima cercata e poi scelta, nonostante la mancanza di esperienza specifica? “Il direttore ha letto una mia intervista sul Corriere della Sera, in marzo, e l’ha giudicata interessante. Poi mi ha contattata e, come dicevo prima, ho fatto il casting. Sarò l’unica presentatrice non professionista della rete”. Ma questo non sembra spaventarla, al punto che andrà rigorosamente in diretta: “Lo preferisco di gran lunga. Quando

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faccio lezione ‘è buona la prima’, come si dice. Conoscendomi, se la trasmissione andasse in registrata farei rifare le riprese cento volte”. Silvia ha firmato un contratto sino al 31 luglio, nonostante la rete ne proponesse uno più lungo. Ma per il momento è sufficiente così: “La possibilità offertami, di fare cioè televisione di qualità, è davvero un ottimo esempio di come anche il mondo televisivo abbia compreso l’importanza della formazione . Ma si tratta anche di un impegno notevole, che mi costringerà a conciliare università e tv e a ridefinire i miei orari. Nel futuro? Si vedrà, per ora comincio con grande entusiasmo questa nuova avventura”.

Da Bocconi Newsletter no. 107/2011

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Per Marco il fantacalcio è business reale di Tomaso Eridani

Marco Massicci, 31 anni, diplomato MBA alla SDA Bocconi, ha sfruttato le conoscenze acquisite in aula per ideare Bizonamagic, un gioco di fantacalcio innovativo e interamente “market-based”, in cui, cioè, il valore dei giocatori varia in funzione della domanda e dell’offerta.

Il gioco è fantasy e il nome ironico (preso dallo sventurato modulo di gioco di Oronzo Canà nel fim ‘L’allenatore nel pallone’) ma le opportunità di business sono reali per Bizonamagic (www.bizonamagic.com), il gioco di fantacalcio realizzato e mandato online da Marco Massicci, neo diplomato MBA della SDA Bocconi. In Rete da fine dicembre, il gioco conta già su 215 squadre che si sfidano ogni settimana. 31 enne, con laurea in ingegneria gestionale e cinque anni d’esperienza nella consulenza d’azienda, Marco decise di puntare sull’MBA per aprirsi nuove strade professionali. “Ho scelto l’MBA proprio come trampolino per accelerare la mia crescita professionale, acquisire nuove competenze e crearmi nuove opportunità”. L’idea a Marco venne giocando alla playstation con amici e notando quanto fosse restrittivo potersi sfidare solo sotto lo stesso tetto o online mentre ci fossero buone opportunità per aprire dei veri tornei trasversali disputabili su diverse piattaforme. Le competenze, invece, vennero acquisite nelle aule delle SDA. Marco, infatti, sceglie il progetto imprenditoriale per la parte del field project del suo corso e segue, appassionandosi, lezioni su tutte le fasi di creazione di una start up, dallo sviluppo dell’idea alla redazione e implementazione del business plan. “Acquisite queste competenze ho fatto degli studi e analisi sull’industria del gaming e sulla disponibilità dei consumatori a pagare, focalizzandomi poi sui giochi fantasy basati sulla figura dell’allenatore di calcio”, spiega Marco. “Deciso sul fantacalcio, ho pensato di differenziarmi creando un fantacalcio ‘all’inglese’, non legato ai voti dei giornalisti ma sui dati statistici delle performance dei giocatori. In altre parole, il gioco si basa su elementi oggettivi e il risultato della tua squadra può essere aggiornato in tempo reale, a partita in corso. Il gioco così e molto tecnico, una bella sfida per gli specialisti”.

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Anche il sistema di calciomercato di questo gioco è innovativo, poiché interamente ‘market-based’, con il valore dei giocatori che varia in funzione della domanda e offerta. “Un calciomercato che si avvicina al trading finanziario”, spiega Marco. Lo sviluppo di Bizonamagic fa molto leva sulla creazione di un’ampia community di giocatori. Si può creare una lega di squadre per sfidarsi tra amici o colleghi e chattare con gli altri giocatori. Mandato con successo in rete il gioco, Marco si dedica ora allo sviluppo delle opportunità di crescita. “Mi sto dedicando molto al marketing del gioco per ampliare l’utenza. L’obiettivo di questo primo anno è soprattutto diffondere il gioco e creare un primo ‘buzz’. Sul fronte della redditività, la presenza di un’ampia community risulta molto appetibile per il mondo pubblicitario e poi ci sono anche possibilità per una partnership con un quotidiano online, per creare delle sinergie”. A dicembre Marco si è diplomato all’MBA e si divide ora tra Bizonamagic e la ricerca di una nuova apertura professionale. “Ho capito che ho un spiccato senso imprenditoriale e vorrei sfruttarlo nel campo del private equity o venture capital. L’esperienza di Bizonamagic, dalla sua ideazione all’implementazione, ha richiesto il dispiego di tutte le competenze, dalla redazione dei financials alla pianificazione della campagna marketing. Un’esperienza bellissima e completa che mi sta dando grandi soddisfazioni”.

Da Bocconi Newsletter no. 108/2011

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Paola, un cuore musicale liberato dal jazz di Andrea Celauro

La passione per la musica l’ha assorbita fin da giovanissima. Paola Paris, commercialista e docente di accounting della Bocconi, è rimasta anni confinata, per mancanza di alternative, in un genere per lei limitante, la classica. Fino a che un amico l’ha convinta a fare il grande salto verso il jazz...

Non è detto che la musica liberi l’anima. Nel caso di Paola Paris, commercialista e docente di accounting della Bocconi, la musica è stata anche una gabbia. Una passione bruciante che l’ha presa dall’età di sette anni ma che, a causa della mancanza di alternative, l’ha rinchiusa in un genere che lei ha sempre sentito limitante: la classica. Finché, già adulta, un amico non l’ha convinta a fare il grande salto e passare al jazz. Paola Paris è nata e cresciuta a San Donato Milanese, in quella Metanopoli costruita dall’Eni per i propri dipendenti. Alle elementari scopre la passione per la musica: “Avrei voluto suonare latina o rock, ma dove abitavo, per chi voleva fare musica e non aveva grandi possibilità, l’unica era studiare la classica, a meno di fare l’autodidatta”. Studia flauto traverso e si diploma in questo strumento al Conservatorio di Piacenza nel 1986. Poco dopo, inizia a insegnare alla scuola civica di musica classica di San Donato e, parallelamente, comincia la carriera di studentessa universitaria, che la porta a laurearsi col massimo dei voti, “e la medaglia d’oro di Spadolini”, nel 1991 alla Bocconi. “Avevo una passione per le materie matematiche”, ricorda la Paris, “ma decisi di dedicarmi alla professione di commercialista”. Nella musica, la svolta arriva intorno ai 27 anni, quando in banca incontra un amico meccanico (“Sono anche motociclista”, confessa...) il quale le parla della Big Band che nel frattempo era nata proprio all’interno della scuola civica di San Donato. “Tuttora classica e jazz, in alcuni istituti di formazione, sono due mondi che si parlano a stento”, spiega Paola, raccontando della sua decisione di spiccare il grande salto. “Sì, perché io non sapevo nulla di jazz, sapevo leggere molto bene la musica, ma le figure ritmiche dei due generi sono completamente diverse. Ho voluto provare e mi si è aperto un nuovo mondo”. Un mondo che la libera, finalmente, da quella gabbia che l’aveva fatta sentire rinchiusa, con pareti sottili quanto la quinta riga di uno spartito, per tanti anni.

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Approcciandosi al jazz, Paola smette di insegnare classica e si dedica anima e corpo alla sua nuova bruciante passione. “Mi sono iscritta a seminari di jazz e ho studiato con grandi jazzisti come Tino Tracanna, Paolo Fresu e Giulio Visibelli. Poi nel 2002 sono entrata alla Scuola Civica di jazz di Enrico Intra”. Cinque anni di studio matto e disperatissimo parallelo all’attività professionale (“tra l’altro, nel frattempo sono diventata mamma”). Cinque anni durante l’ultimo dei quali Paola aggiunge anche la frequenza al Conservatorio Verdi di Milano, dove si laurea con la prima ondata di diplomi in jazz nel 2009. “L’ho vissuta malissimo e benissimo allo stesso tempo. È stato un periodo intensissimo, dove lavoravo di giorno e studiavo di notte, per giunta avendo un bambino piccolo. Però era l’unico modo, per me, di colmare le lacune di jazz che mi portavo dietro”, racconta. In questi anni, Paola ha suonato sia il flauto che il sassofono in diverse occasioni con la Big Band e la Flight Band della scuola civica di San Donato, con la Civica di Intra al tributo a Trovajoli durante le manifestazioni dell’Ambrogino d’oro del 2006 al Piccolo Teatro e nella sua università, la Bocconi, nel 2008 insieme a Marco Vaggi e Enrico Intra. Infine, con l’ottetto di Paolo Favini, il sassofonista di Maurizio Crozza. “Sempre il sassofono ‘di lettura’, però, mai ‘di improvvisazione’, come si dice in gergo. Tuttora, nel jazz non mi sento allo stesso livello di chi è nato jazzista. Purtroppo, l’orecchio è progredito musicalmente, ma le dita sono rimaste indietro”. Il fardello di tristezza che a volte traspare dalle parole di Paola Paris si manifesta nel suo raccontare della sua attività di insegnante di musica: “Non voglio che altri provino il mio stesso rimpianto. Oggi insegno flauto jazz privatamente e musica d’insieme nel corso che tengo alla scuola civica di musica classica di San Donato. Ovvero insegno jazz a tutti i bambini che studiano classica, cercando di far loro vivere lo strumento in modo diverso”.

Da Bocconi Newsletter no. 109/2011

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Scardovi-Stitch, il professore con la passione dei gialli di Davide Ripamonti

È docente di Mercati finanziari alla Bocconi e consulente strategico di grandi gruppi italiani e internazionali, ma riesce anche a coltivare la sua grande passione: scrivere gialli ambientati nel mondo della finanza. La storia di Claudio Scardovi, ovvero John Stitch...

Ha conseguito una laurea in Economia a Bologna e un Mba alla Clemson University, insegna mercati finanziari alla Bocconi ed è consulente strategico di grandi gruppi italiani e internazionali. Eppure… è un appassionato umanista. “All’università mi ero iscritto a filosofia seguendo le mie passioni”, dice Claudio Scardovi, che con lo pseudonimo John Stitch ha da poco pubblicato il suo secondo libro, La sostanza del bianco (Il Sole 24 Ore Editore), “ma poi ho cambiato facoltà per le scarse prospettive di lavoro che offriva”. La passione per la scrittura, soprattutto di gialli, è un retaggio giovanile, ma gli inizi ‘letterari’ di Scardovi sono stati alquanto diversi. “Ho cominciato con articoli, saggi e manuali tecnici”, spiega, “come un manuale sul risk management e uno sul futuro delle banche. Ma poi è arrivata la svolta, quando mi sono deciso a mettere in pratica un’idea che avevo da 15 anni, raccontare il mondo della finanza in modo romanzato, un genere di cui in Italia non c’è tradizione”. Lo spunto, il fallimento di Lehman Brothers, per cui Scardovi ha lavorato e quindi si è sentito maggiormente coinvolto. “Ho deciso di scrivere il mio primo libro non tecnico”, racconta Scardovi-Stitch, “un thriller finanziario ambientato nel 2008, annus horribilis della finanza mondiale, dal titolo Lupi & Husky, che ha per sfondo un piano globale ordito per far saltare una delle più grandi banche d’affari del mondo”. Libro che ha avuto un buon successo di vendite e di critiche, nonostante, come precisa lo stesso Scardovi, “alcune pagine molto tecniche. Ma agli studenti è piaciuto”. Ma è davvero così facile, come sembra ascoltando le parole di Scardovi, passare dalla scrittura di manuali di testo o per professionisti a un genere letterario tanto diverso? “Scrivere un romanzo è molto più difficile”, prosegue, “in un manuale si procede per semplice ragionamento deduttivo, in un romanzo bisogna pensare al passaggio narrativo, alla storia. Inoltre il fatto che sia un giallo complica tutto, poiché bisogna disseminare la trama di una serie di indizi che aiutino ad arrivare alla conclusione. Una cosa importante, per scrivere, è essere grandi lettori”.

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E Scardovi lo è, con una passione particolare per Agatha Christie. E poi, altrettanto importante, è conoscere bene il contesto di cui si scrive, e il mondo della finanza per lui non ha segreti: “Il libro appena uscito l’ho scritto nel 2009 e molte delle cose che sono contenute si sono purtroppo avverate. Il punto centrale è una grande congiura internazionale per far crollare l’euro e il relativo sistema monetario, ed è facile riscontrare nella trama, in anticipo, alcuni fatti tristemente accaduti nella crisi ancora in atto. Non sono certo un indovino”, sorride amaramente il docente-scrittore, “ma molte cose erano leggibili nei fatti. E anche altri le avevano anticipate”. Se volessimo conoscere lo scenario economico finanziario del futuro dovremo quindi leggere il prossimo libro firmato John Stitch? “Il terzo libro l’ho già scritto”, racconta, “si svolgerà nella Milano dell’Expo e anche in Bocconi, a crisi ormai risolta, una Milano diventata terreno di caccia degli investitori orientali, in particolare cinesi, che si rivolgono al nostro mercato a seguito di una bolla immobiliare in Cina. È uno scenario possibile, ogni cosa che scrivo è fondata su un ragionamento economico. Il titolo? È ancora provvisorio, ma dovrebbe essere Il formichiere del diavolo”. Un giallo anche questo, ricco di intrighi e colpi di scena. “Si scrive per raccontare e per divertirsi e poi attraverso la forma del giallo è anche utile. Come diceva un personaggio di Agatha Christie, ‘Il delitto non paga ma certamente insegna’”.

Da Bocconi Newsletter no. 110/2011

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Valentina sulle tracce di Gesù di Davide Ripamonti

Valentina Alberici, 42 anni, laureata in Economia aziendale alla Bocconi, un lavoro presso un’azienda del settore informatico bancario e la passione per la storia e la letteratura, ha scritto il suo primo libro per cercare di svelare a sua figlia, e non solo, uno dei grandi enigmi della storia.

Per rispondere alla domanda della figlia di nove anni ha scritto un libro. Certo, la questione posta non era delle più semplici: “Mamma, ma Gesù è davvero esistito?”. E così Valentina Alberici, 42 anni, laureata in Economia aziendale alla Bocconi, un lavoro presso un’azienda del settore informatico bancario e la passione per la storia e la letteratura, soprattutto quella locale, lei che è nata a Piacenza e vive a Parma, ha pubblicato un libro, Gesù è davvero esistito?, ora in libreria per le Edizioni Sanpaolo. Valentina, figlia di un docente di materie economiche e di un’insegnante di discipline umanistiche, ha scelto economia “forse perché allora era prevalente l’interesse verso questo campo o forse perché mi assicurava maggiori prospettive per il futuro”, spiega, ma non ha mai trascurato gli altri suoi interessi e, in ambito locale, è conosciuta per la sua attività e ricerche di tema storico-artistico, lavori complessi come “Gli affreschi del Correggio nella chiesa di San Giovanni Evangelista alla luce della liturgia medievale”, oppure il ciclo di incontri, nel 2010, sulla figura di “Maria Maddalena tra arte e storia”. “Il libro è nato per rispondere all’interrogativo di mia figlia, all’inizio la sua destinazione era soprattutto ‘domestica’, ma più procedevo con le ricerche e la scrittura e più mi rendevo conto che stava nascendo qualcosa di interessante”. Di lì la decisione, senza nessun aggancio con il mondo editoriale, di proporlo alla Sanpaolo con una semplice mail. Era il 2009 e, dopo la risposta positiva della casa editrice, sono iniziati i lavori per la stesura definitiva. “Ci sono voluti quasi due anni prima della stampa e della distribuzione nelle librerie”, dice Valentina, “ma ora sono soddisfatta”. Il volume, che si rivolge ai giovani ma non solo, è un lungo viaggio intorno al mondo sulle tracce di Gesù, privilegiando i luoghi in cui è possibile vedere queste tracce con i propri occhi. “In ogni tappa, da Firenze a Manchester, dal Sinai ad Ann Arbor, nel Michigan, e altre ancora, si prende un po’ di tempo per fare una breve visita guidata del luogo, poi si conduce il lettore a vedere personalmente il motivo per cui è stato scelto

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come tappa, invitandolo, di volta in volta, a vestire i panni del papirologo, dell’archeologo o del detective”, continua Valentina. Un viaggio che Valentina Alberici ha compiuto, almeno finora, solo virtualmente, anche se in alcune località, come l’Egitto, era già stata in precedenza. “Del resto”, spiega, “se prendo come esempio l’Università del Michigan, ad Ann Arbor, dove si conservano due papiri importantissimi, su internet puoi usufruire di un sito molto esaustivo, mentre se ti rechi sul posto, a meno di permessi molto difficili da ottenere, non ti fanno certo accedere”. L’opera che ne è scaturita, semplice ma non banale, adatta anche ad adulti che cerchino seriamente una risposta a questa domanda, ha soddisfatto la curiosità della figlia di Valentina? “Direi di sì”, spiega l’autrice, “anche se poi, leggendolo, mi ha fatto molte altre domande, che potrebbero fornirmi lo spunto per scrivere ancora”. E alla domanda se Gesù è veramente esistito e su chi fosse veramente, Valentina si nasconde un po’: “Il libro ha un finale aperto...”. Non resta che leggerlo.

Da Bocconi Newsletter no. 111/2011

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Antonio Aloisi, dal giornale del liceo al cda della Bocconi di Andrea Celauro

Alle ultime elezioni studentesche ha preso il 55% dei voti ed è entrato nel Consiglio di Amministrazione della Bocconi. Il ventiduenne Antonio Aloisi, al terzo anno della laurea magistrale in Giurisprudenza in Bocconi, racconta le sue grandi passioni: per l’impegno civile e per il giornalismo.

Alle elezioni dello scorso 18 e 19 maggio, che hanno rinnovato tutta la rappresentanza studentesca della Bocconi, ha preso il 55% dei voti validi espressi dagli studenti. E, a distanza di qualche settimana, è stato ufficialmente nominato a rappresentare i suoi colleghi all’interno del cda dell’Università. Si tratta di Antonio Aloisi, 22 anni e al terzo anno della laurea magistrale in giurisprudenza, che per due anni siederà in consiglio a fianco di Monti, Pavesi e Tabellini, ma anche, tra gli altri, Profumo, Passera e Tronchetti Provera. Emozionato? “Un po’, ma sono sereno”. Antonio è arrivato allo scranno più alto della rappresentanza alla sua seconda campagna elettorale, ma è dal primo anno, da quando era ancora una matricola, che ha deciso di impegnarsi politicamente all’interno dell’università. Eppure, la parola politica è proprio quella che gli piace di meno, sarà forse perché la sua generazione “si sta confrontando con il vero fallimento della politica comunemente intesa, quella che ormai, a noi ventenni, fa storcere il naso”. Lui preferisce parlare di impegno per la rappresentanza (“Policy, non politics, direbbero gli anglosassoni”), anche perché, tiene a sottolineare, “qui in Bocconi si tratta di fare artigianato della politica, di lavorare con tutti, soprattutto con quelli degli altri gruppi (Antonio era in corsa con B.Lab, gli altri erano Alternativa Democratica e Obiettivo Studenti), per cercare di risolvere questioni molto concrete della nostra vita studentesca. C’è insomma solo la voglia di mettersi in gioco e impegnarsi in un’attività di grande responsabilità”. Responsabilità che Antonio sente molto, ma per la quale sembra essere portato. Durante gli anni del liceo (Classico, a Galatina, provincia di Lecce), dirige il giornalino della scuola, LiberaMente, e contemporaneamente inizia il suo impegno per i suoi colleghi entrando alla Consulta provinciale degli studenti (“Organo piuttosto poco influente”, commenta). Trasferitosi a Milano ed entrato alla Bocconi, scopre

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subito l’esistenza del gruppo B.Lab e inizia a frequentarne le riunioni. “Quello stesso anno si tenevano le elezioni studentesche e fui eletto al consiglio di scuola di Giurisprudenza”, racconta. La passione per l’impegno civile l’ha vissuta anche in famiglia: il padre, pedagogista, ha avuto qualche incarico a livello locale e nel mondo del volontariato. E proprio il fatto di vedere in concreto l’esperienza della macchina politica, lo mette un po’ sul chi vive: “Ciò che non voglio è mettermi una maschera di partito e recitare un ruolo all’interno di un sistema politico che è comunque chiuso ai giovani, credo che la mia generazione ne abbia abbastanza di non avere voce in capitolo”. Questa visione dell’impegno civile si riflette anche sulle sue aspirazioni per il futuro: Antonio, alla fine dell’università, si vede piuttosto come giornalista. “È una strada che mi piacerebbe prendere e per la quale sto cercando di accumulare esperienze”, spiega. In questi anni ha creato un suo blog di attualità e politica e collabora con Linkiesta, quotidiano online per il quale ha già scritto una recensione de Il gioiellino, il film di Molaioli sul caso Parmalat, e sta mettendo a punto piccole inchieste sulle energie rinnovabili e sul ruolo dei nuovi media. Il suo blog, tra l’altro, è stato notato dall’ufficio stampa di Cortina InConTra, la kermesse politica e culturale della località veneta, che lo ha cooptato per l’edizione estiva 2010 e per quella 2011. “Lì tenevo il diario di bordo della manifestazione, per il sito, e ho realizzato alcune interviste”. E se la strada del giornalismo non dovesse avere sbocchi? “Allora mi piacerebbe fare il giuslavorista: il diritto del lavoro è finora la mia materia preferita. Non so se mi piacerebbe essere solo avvocato, spero di avere di fronte a me più strade. E di poter scegliere liberamente”.

Da Bocconi Newsletter no. 112/2011

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Un campione del mondo alla SDA di Davide Ripamonti

Federico Albano, ingegnere navale diplomato MBA alla SDA Bocconi, ha fatto da timoniere alla barca che ha vinto il Mondiale di vela d’altura in Croazia lo scorso giugno, dopo essere entrato a far parte dell’equipaggio quasi per caso...

Un dilettante alla guida di un team di professionisti. Sembra strano, ma il “dilettante” in questione, Federico Albano, anche se non vive di vela, passa sulla sua barca la quasi totalità del tempo libero e ha capacità veliche non comuni, regatando in ogni angolo del Mediterraneo. Ventotto anni, di La Spezia, laureato in ingegneria navale e diplomato Mba alla SDA Bocconi, Federico è il timoniere della barca italiana che a inizio giugno a Cres, in Croazia, ha conquistato il titolo mondiale di vela d’altura nella classe ORC I b, una manifestazione alla quale hanno preso parte 130 imbarcazioni provenienti da 27 paesi. “Una partecipazione non programmata, la mia”, dice Federico, “sono stato invitato da un membro dell’equipaggio a fare alcune regate con loro e, visti i buoni risultati, l’armatore Giuseppe Giuffrè mi ha chiesto di far parte del team per il Mondiale”. Federico non è nuovo a competizioni di un certo livello, visto che nel 2010 ha guidato il team SDA che ha vinto l’Mba’s Cup, ma in questa competizione si è trovato fianco a fianco con un team di professionisti abituati alle gare importanti: “Basti pensare che il tattico Lorenzo Bodini ha alle spalle un’Olimpiade”, dice Federico, che lavora nell’azienda di famiglia che opera nella costruzione di impianti petroliferi offshore, “mentre per me rimane una passione”. Il Mondiale è un’esperienza entusiasmante ma anche dura, che richiede un grande sforzo fisico e mentale, attitudini naturali ma che vanno anche allenate. “Bisogna avere freddezza, sensibilità e capacità di concentrazione. Nel Mondiale stavamo in acqua almeno 10 ore al giorno, su barche di 11-15 metri per un peso di 6 tonnellate, un minimo errore del timoniere può compromettere tutto il lavoro dell’equipaggio”. Per rendere meglio l’idea, Federico racconta un aneddoto: “Un giorno, nelle concitate fasi della partenza, ci arriva la comunicazione che siamo stati squalificati. Noi rimaniamo concentrati e continuiamo nelle nostre manovre fino a quando, dopo pochi minuti, ci comunicano che la squalifica è ritirata. Ci fossimo deconcentrati dopo la prima comunicazione, avremmo corso il rischio di perdere il Mondiale”.

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La vela è la perfetta metafora del mondo del business, si dice e si legge spesso. L’esperienza di Federico sembra confermare questa tesi: “La barca è come un’azienda e ognuno, con il proprio contributo, concorre al successo o all’insuccesso del team. Ma l’aspetto fondamentale è la strategia. Se sei in testa e la barca seconda in classifica sceglie una rotta alternativa, tu cosa fai, la segui in quella rotta per tenerla a bada rischiando che siano magari i terzi a superarti o prosegui per la tua strada confidando sia la scelta migliore? Anche un’azienda deve spesso prendere simili decisioni”. Della sua esperienza all’Mba Federico ha solo buoni ricordi “sia professionali che umani, che si sono concretizzati in legami saldi che tuttora continuano. In più, la mia carica di responsabile del Sailing Team è stata come un Master nel Master”. L’anno prossimo il Mondiale sarà in Finlandia, in condizioni molto diverse da quelle trovate in Croazia. Adesso è il momento di festeggiare, ma l’eventuale difesa del titolo va programmata con largo anticipo: “Intanto godiamoci questo successo, che ci ha dato grande notorietà nell’ambiente. Per l’anno prossimo stiamo pensando di riprovarci con lo stesso equipaggio, ma sappiamo che sarà dura ripetersi. Nella vela puoi programmare di competere a un certo livello, ma la vittoria dipende da troppi fattori, non tutti controllabili. Proprio come nel mondo del business”.

Da Bocconi Newsletter no. 113/2011

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I premi della PhD School di Tomaso Eridani

La PhD School ha premiato i migliori studenti dell’ultimo anno accademico. Sara Wade, Annaig Martine Marie Morin, Jan Voss, Michele Barbieri, Felix Suntheim e Roberta Russo si sono distinti con ottimi risultati, ciascuno nel proprio ambito di ricerca.

Il lavoro di ricerca degli studenti è uno dei punti cardine dei programmi della PhD School della Bocconi e il valore che la faculty dà ai risultati riscossi viene sottolineato ogni anno con la consegna dei premi, anche se simbolici, assegnati a uno studente di ciascun programma che si è distinto nel corso dell’ultimo anno accademico. Premiazione che si è svolta giovedì durante la presentazione della scuola. Il premio per il PhD in Statistics è stato assegnato a Sara Wade, americana, per il suo paper “Enriched conjugate priors”, scritto durante il secondo anno del suo dottorato, che è stato pubblicato sulla rivista Bayesian Analysis e presentato alla 2010 International Conference on Computing and Statistics, svoltasi a Londra il dicembre scorso. Annaig Martine Marie Morin si è vista assegnare il premio per il PhD in Economics per il suo paper “Cyclicality of Wages and Union Power” che nel luglio 2010 vinse il premio Best Paper Prize for Young Economists durante il 2010 Warsaw International Economic Meeting. Il premio per il PhD in Business Administration and Management è stato assegnato a Jan Voss, tedesco, per “la sua eccellente performance accademica nei primi due anni del programma”. Michele Barbieri ha ricevuto il premio riservato per il PhD in International Law and Economics per gli ottimi risultati ottenuti nella stesura della sua tesi “The international regulation of Sovereign Wealth Funds: legal, economic and policy issues”. Il premio per il PhD in Finance è stato assegnato a Felix Suntheim, tedesco, per il suo paper “Managerial Compensation in the Financial Industry” che ha vinto il premio Best Conference Paper by a Doctoral Student alla European Finance Association Annual meeting 2010 a Francoforte nell’agosto 2010.

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Infine, il premio del dottorato in Diritto dell’impresa è stato assegnato a Roberta Russo che nel suo primo anno del programma ha pubblicato due articoli sulla rivista Cassazione penale, “Il ruolo della ‘law in action’ e la lezione della Corte europea dei diritti umani al vaglio delle Sezioni Unite. Un tema ancora aperto” e “Sul principio di affidamento in materia di circolazione stradale”.

Da Bocconi Newsletter no. 115/2011

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Con la violenza honduregna negli occhi di Andrea Celauro

Nanni Fontana, laureato Clefin Bocconi nel 2001, lavora oggi come fotoreporter in giro per il mondo realizzando servizi a sfondo sociale. Ecco come è riuscito a trovare una sintesi tra le sue passioni: l’economia, la fotografia e i temi sociali.

Sul collo, in mezzo a tutti gli altri tatuaggi, Carlos “El Bestia” Alberto ha scritto “Madre perdonami”. Carlos era uno dei capi della mara 18 a San Pedro Sula, città nel Nord dell’Honduras. Oggi è in carcere per omicidio, deve scontare 17 anni. È lì che Nanni Fontana lo ha fotografato per il suo servizio “Violence in Honduras”, uno dei reportage che ha realizzato nel paese del Centro America. Nanni ha 36 anni, si è laureato in Bocconi nel 2001 e oggi lavora come fotoreporter in giro per il mondo realizzando servizi a sfondo sociale. Nanni non si è sempre visto fotografo: “Ho iniziato anzi abbastanza tardi. Quando ero al terzo anno di università ho fatto un viaggio in Mongolia e mio padre mi ha prestato la sua macchina fotografica. Da lì è cominciato tutto”. La sua prima personale arriva proprio durante gli anni univeristari e proprio in Bocconi, con una mostra dal titolo “Antica Melphicta. Settimana santa”, dedicata alle processioni tradizionali di Molfetta e curata da uno dei nomi storici della fotografia milanese, Toni Nicolini: “La Bocconi, quindi, mi ha dato la formazione economica, ma ha battezzato in un certo modo anche la mia carriera professionale di fotografo”, racconta Nanni Fontana. Nel 2001, la laurea al Clefin, con una tesi che già mostrava il suo interesse per i temi sociali: un lavoro di storia economica sulla “fabbrica del consenso nei sistemi totalitari”. Due anni e mezzo di lavoro nell’azienda del padre, “giusto per tirar su qualche soldo per scattare foto” e poi il grande salto nel mondo del lavoro fotografico. Tra il 2004 e il 2008 collabora con le agenzie Fotogramma e Prospekt di Milano e dalla World Picture Network di New York: “In agenzia ho iniziato lavorando su Milano e in Italia, poi sulle news dall’Europa e quelle internazionali. L’aver frequentato la Bocconi mi è stato utile: la conoscenza dell’ambiente economico mi consentiva di arrivare prima di altri colleghi ad alcune notizie”. Dal 2009, poi, la decisione di diventare indipendente, per seguire quello che era emerso come il suo vero interesse nell’ambito fotografico: i servizi di reportage sociale per le organizzazioni e le associazioni internazionali. Ed è proprio il lavoro per le ong, per le quali realizza spesso servizi che possano poi supportare le loro campagne di sensibilizzazione, a portarlo la prima volta in Honduras. Qui, nell’estate del 2008 scatta per la Onlus Imagine di Roma una serie di foto che documentano la terribile situazione sanitaria della Moskitia, una

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regione tra l’Honduras e il Nicaragua nella quale il 75% della popolazione vive in condizione di povertà. “Questo è stato uno dei primi lavori un po’ più corposi e il primo che mi ha permesso di trovare poi nuovi clienti. Il grosso del mio lavoro, oggi, è infatti con le realtà di cooperazione. Lavoro molto poco con l’editoria”. Ciò non toglie che alcuni suoi reportage siano finiti spesso sulle pagine in diverse riviste internazionali, come un reportage sulla filiera produttiva di McDonald’s in Emilia Romagna, pubblicato dal Guardian e da Fortune Magazine. Raccontare per immagini il tema del lavoro, peraltro, è un altro degli elementi che stimolano la creatività di Nanni Fontana: “Per un certo periodo ho seguito il filone della produzione alimentare, ho fotografato il lavoro nelle fabbriche della birra Asahi in Giappone, le piantagioni di tè in India, ma anche la produzione artigianale degli insaccati in Lomellina”. Ma tra i servizi che più hanno lasciato il segno in Nanni ci sono quelli realizzati appunto in Honduras, dove è stato più volte. E tra questi, c’è quello sulla violenza delle gang locali: “Si tratta di bande che si sono sviluppate a partire dalla fine degli anni Novanta e che sono state create dai membri delle gang americane espulsi dagli Usa in quel periodo”. La mara 18 o Barrio 18, ad esempio, sarebbe nata riprendendo la Eighteen street di Los Angeles. “Questa gente, cacciata dagli Stati Uniti, non ha fatto altro che ricostruire la propria dinamica di vita in Honduras e negli altri paesi di origine, diventando anche manovalanza del narcotraffico”. Una situazione esplosiva, evidenziata anche dai numeri che lo stesso Nanni Fontana cita a corredo del servizio: “Nel 2008 l’Honduras ha registrato un tasso di omicidi procapite di 59,7 ogni 100 mila abitanti, un tasso che è aumentato del 25% rispetto all’anno precedente e che è il secondo peggiore al mondo”. Gli scatti realizzati da Nanni immortalano anche diversi membri di gang in carcere, tra cui appunto l’ex membro della mara 18 Carlos Alberto. “La realtà delle gang era già stata trattata da altri fotografi per il Salvador e il Guatemala, ma nessuno si era mai occupato dell’Honduras”, spiega Fontana. Le foto, pubblicate dalla rivista di fotografia d’autore Private sono poi state esposte in più occasioni. Oggi Nanni, che ha appena concluso una prima parte di un lavoro sui giovani del Mediterraneo, ha in cantiere diversi progetti: uno sempre per la ong Imagine, per la quale ha realizzato un reportage nella Repubblica Democratica del Congo sulla salute materna e infantile, un altro sull’Aids, da proporre in futuro ad altri clienti: “Quest’ultimo è un grosso lavoro che si svilupperà tra Tailandia, dove sono appena stato, Brasile, Mozambico e Ucraina. Un lavoro che, se riesco a farmi sovvenzionare, richiederà un altro anno e mezzo di attività”.

Da Bocconi Newsletter no. 116/2011

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Un alumnus dell’MBA nel comitato esecutivo della BCE di Fabio Todesco

Il tedesco Jörg Asmussen, nominato di recente membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea in sostituzione del dimissionario Jürgen Stark, è stato alumnus dell’MBA della SDA Bocconi nell’anno accademico 1991/1992. Entrerà in carica l’1 gennaio 2012.

Il 23 ottobre 2011 il Consiglio europeo ha ufficialmente nominato il tedesco Jörg Asmussen, un alumnus dell’MBA della SDA Bocconi, membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea (Bce), in sostituzione del dimissionario Jürgen Stark. Asmussen entrerà in carica l’1 gennaio 2012. Jörg Asmussen ha frequentato la versione inglese dell’MBA della SDA Bocconi nell’anno accademico 1991-1992. “In quegli anni la SDA Bocconi stava avviando il processo di internazionalizzazione del suo MBA”, racconta l’allora direttore del programma, Luigi Tava, “e la scelta di frequentarlo in Italia, da parte di uno studente tedesco, rappresentava una significativa apertura di credito, oltre che la dimostrazione di un atteggiamento particolarmente aperto”. Un altro dei suoi docenti dell’MBA, Severino Salvemini, se lo ricorda come “uno studente molto diligente e particolarmente affezionato all’Italia”, mentre “serio” e “intelligente” sono gli aggettivi più spesso utilizzati dai suoi compagni di corso. Arte, teatro, cinema e pallavolo erano i suoi interessi al di fuori dell’aula. Asmussen dichiarava di voler frequentare l’MBA con il preciso intento di acquisire le competenze manageriali che, abbinate alle conoscenze macroeconomiche ottenute con gli studi universitari a Bonn, gli avrebbero permesso di muoversi a proprio agio nel ruolo di funzionario pubblico al quale aspirava. Il comitato esecutivo della Bce, formato dal presidente e vicepresidente della banca e da altri quattro membri, ha le responsabilità di “preparare le riunioni del consiglio direttivo”, recita il sito della Bce, “attuare la politica monetaria dell’area dell’euro in conformità con gli indirizzi e le decisioni del Consiglio direttivo e impartire le necessarie istruzioni alle Bcn dell’area dell’euro, gestire gli affari correnti della Bce, esercitare determinati poteri ad esso delegati dal Consiglio direttivo, per esempio di natura normativa”.

Da Bocconi Newsletter no. 117/2011

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