Date post: | 23-Oct-2015 |
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Raymond Carver
Di cosa parliamoquando parliamo d’amore
Postfazione di Fernanda PivanoTraduzione di Livia Manera
Titolo originale: «What We Talk About When We Talk About Love»Garzanti Editore
> Digitalizzazione a cura di Yorikarus @ forum.tntvillage.scambioetico.org <
Perché non ballate?
In cucina, si versò ancora da bere e guardò i mobili della camera da letto nello
spiazzo davanti casa. Il materasso era nudo e le lenzuola a righe colorate erano
sopra il comò, accanto ai guanciali. Per il resto, tutto aveva più o meno lo stesso
aspetto che in camera da letto - comodino e lampada dalla parte di lui, comodino
e lampada dalla parte di lei.
La parte di lei, la parte di lui.
A questo pensava mentre sorseggiava il whiskey.
Il comò era a circa un metro dai piedi del letto. Quella mattina aveva trasferito
il contenuto dei cassetti in scatole di cartone e le scatole erano in salotto. Accanto
al comò c’era una stufetta elettrica. Ai piedi del letto una sedia di bambù e un
cuscino fantasia. I mobiletti da cucina di alluminio lucido occupavano una parte
del vialetto di accesso. Una tovaglia di mussola gialla troppo grande, un regalo,
ricopriva il tavolo e ricadeva ai lati. Sopra al tavolo c’era una felce in vaso,
insieme con una scatola di posate d’argento e un giradischi, regali anche quelli.
Un grande televisore era appoggiato sopra un tavolino basso, e poco oltre c’erano
una sedia, un divano, e una lampada a stelo. La scrivania stava contro la porta
del garage. Sul ripiano erano posati alcuni utensili, insieme con un orologio a
muro e due stampe incorniciate. Nel vialetto c’era anche una scatola con tazze,
bicchieri e piatti, avvolti uno per uno in carta di giornale. Quella mattina aveva
svuotato gli armadi, e a eccezione delle tre scatole in soggiorno, tutta la roba era
fuori. Aveva portato fuori una prolunga e tutto era collegato. Le cose
funzionavano, più o meno come quando erano dentro casa.
Di tanto in tanto una macchina rallentava e qualcuno dava un’occhiata. Ma
non si fermava nessuno. Gli venne da pensare che neppure lui si sarebbe
fermato.
«Deve essere una vendita di mobili usati», disse la ragazza al ragazzo.
Questi due ragazzi stavano ammobiliando un appartamentino.
«Sentiamo quanto vogliono per il letto», disse la ragazza. «È per il televisore»,
disse il ragazzo. Lui svoltò nel vialetto e si fermò davanti al tavolo di cucina.
Scesero dalla macchina e cominciarono a esaminare questo e quello, lei toccò
la tovaglia di mussola, lui inserì la spina del frullatore e schiacciò il tasto tritare,
lei prese uno scaldavivande, lui accese il televisore e regolò i pulsanti.
Sedette sul divano a guardare il programma. Si accese una sigaretta, diede
un’occhiata in giro, e gettò il fiammifero nell’erba.
La ragazza si sedette sul letto. Si tolse le scarpe e si sdraiò. Le parve di vedere
una stella.
«Vieni qui, Jack. Prova questo letto. Porta uno di quei guanciali», disse.
«Com’è?», disse lui.
«Provalo», disse lei.
Lui si guardò intorno. La casa era buia. «Ho una strana sensazione», disse lui.
«Meglio guardare se c’è qualcuno in casa». Lei si molleggiò sul letto. «Prima
provalo», disse lei.
Lui si sdraiò sul letto e si mise il cuscino sotto la testa.
«Come ti sembra?», disse lei.
«Mi sembra solido», disse lui.
Lei si girò sul fianco e gli posò la mano sul viso.
«Baciami», disse.
«Alziamoci», disse lui.
«Baciami», disse lei.
Chiuse gli occhi. Lo trattenne.
«Vado a vedere se c’è qualcuno in casa», disse lui.
Ma si limitò a tirarsi su a sedere e restò dov’era, fingendo di guardare la
televisione.
Nelle case lungo la strada le luci cominciavano ad accendersi.
«Non sarebbe buffo se», disse la ragazza e con un sorriso lasciò la frase in
sospeso.
Il ragazzo rise, ma senza un motivo preciso. Senza un motivo preciso accese la
lampada sul comodino.
La ragazza scacciò via una zanzara, e subito dopo il ragazzo si alzò e si infilò
la camicia nei pantaloni.
«Vado a vedere se c’è qualcuno in casa», disse. «Non credo ci sia nessuno. Ma
se trovo qualcuno, mi faccio dire quanto vogliono per questa roba».
«Qualsiasi cosa ti chiedano offri dieci dollari di meno. È sempre una buona
idea», disse lei. «E poi devono essere disperati o roba del genere».
«Il televisore non è niente male», disse il ragazzo.
«Senti quanto costa», disse la ragazza.
Lungo il marciapiede stava arrivando l’uomo con un sacchetto del
supermercato. C’erano panini, birra e whiskey. Vide la macchina nel vialetto e la
ragazza sul letto. Vide il televisore acceso e il ragazzo davanti all’entrata.
«Salve», disse l’uomo alla ragazza. «Ha trovato il letto. Brava».
«Salve», disse la ragazza e si alzò. «Lo stavo giusto provando». Batté con la
mano sul letto. «Mi sembra niente male».
«È un buon letto», disse l’uomo, posò il sacchetto e tirò fuori la birra e il
whiskey.
«Credevamo che non ci fosse nessuno», disse il ragazzo. «Siamo interessati al
letto e magari anche al televisore. Forse anche alla scrivania. Quanto vuole per il
letto?».
«Pensavo cinquanta dollari per il letto», disse l’uomo.
«Che ne dice di quaranta?», chiese la ragazza.
«Quaranta vanno bene», disse l’uomo.
Tirò fuori un bicchiere da una scatola. Scartò il bicchiere dal giornale. Ruppe
il sigillo del whiskey. «E per il televisore?», disse il ragazzo.
«Venticinque».
«Che ne dice di quindici?», disse la ragazza. «Vada per quindici. Mi stanno
bene quindici», disse l’uomo.
La ragazza guardò il ragazzo.
«Ragazzi, vorrete bere qualcosa», disse l’uomo. «I bicchieri sono in quella
scatola. Io mi siedo. Mi siedo sul divano».
L’uomo sedette sul divano, si appoggiò allo schienale, e fissò il ragazzo e la
ragazza.
Il ragazzo trovò due bicchieri e versò il whiskey. «Basta così», disse la ragazza.
«Vorrei un po’ d’acqua nel mio».
Tirò fuori una sedia e si sedette al tavolo di cucina.
«C’è dell’acqua in quel rubinetto laggiù», disse l’uomo. «Apri il rubinetto».
Il ragazzo tornò indietro col whiskey allungato. Si schiarì la gola e si sedette al
tavolo di cucina. Sorrise. Ma lasciò il suo bicchiere intatto.
L’uomo guardava la televisione. Vuotò il bicchiere e lo riempì di nuovo. Tese il
braccio per accendere la lampada a stelo. Fu allora che la sigaretta gli sfuggì dalle
dita e cadde tra i cuscini.
La ragazza si alzò per aiutarlo a cercarla.
«Allora cosa vuoi?», disse il ragazzo alla ragazza.
Tirò fuori il libretto degli assegni e lo avvicinò alle labbra come se stesse
pensando.
«Voglio la scrivania», disse la ragazza. «Quanto costa la scrivania?».
A quella domanda assurda l’uomo fece un gesto con la mano.
«Dite una cifra», disse.
Li guardò mentre si sedevano al tavolo. Alla luce della lampada, c’era qualcosa
nelle loro facce. Qualcosa di bello o di brutto. Impossibile dirlo.
«Ora spengo il televisore e metto un disco», disse l’uomo. «Anche il giradischi è
in vendita. Costa poco. Fatemi un’offerta».
Versò dell’altro whiskey e aprì una birra.
«È tutto in vendita», disse l’uomo.
La ragazza tese il bicchiere e l’uomo glielo riempì.
«Grazie», disse lei. «Lei è molto gentile», disse.
«Ti dà alla testa», disse il ragazzo. «Io me lo sento in testa». Alzò il bicchiere e lo
agitò.
L’uomo vuotò il suo e lo riempì di nuovo, e poi trovò la scatola con i dischi.
«Prendine uno», disse l’uomo alla ragazza, e le porse i dischi.
Il ragazzo stava scrivendo l’assegno.
«Ecco», disse la ragazza prendendone uno, prendendone uno qualsiasi, dato
che quei nomi sulle etichette non li conosceva. Si alzò dal tavolo e si rimise a
sedere. Non voleva starsene lì immobile. «Non lo intesto», disse il ragazzo.
«Va bene», disse l’uomo.
Bevvero. Ascoltarono il disco. Poi l’uomo ne mise un altro.
Perché non ballate ragazzi? decise di dire, e poi lo disse. «Perché non ballate?».
«Non è il caso», disse il ragazzo.
«Coraggio», disse l’uomo. «Il prato è mio. Potete ballare se volete».
Allacciati, i corpi stretti l’uno all’altro, il ragazzo e la ragazza presero a
muoversi su e giù per il vialetto. Ballavano. E quando il disco finì, ricominciarono,
e quando anche quello finì, il ragazzo disse: «Sono ubriaco».
La ragazza disse: «No che non lo sei».
«E invece sì che sono ubriaco», disse il ragazzo.
L’uomo voltò il disco e il ragazzo disse: «Sul serio».
«Balla con me», disse la ragazza al ragazzo e poi all’uomo, e quando l’uomo si
alzò, andò verso di lui a braccia aperte.
«Quella gente laggiù ci sta guardando», disse lei.
«Fa niente», disse l’uomo. «È casa mia», disse.
«Che guardino pure», disse la ragazza.
«Giusto», disse l’uomo. «Pensavano di avere visto di tutto qui. Ma questo non
lo avevano ancora visto, vero?», disse. Sentiva sul collo il respiro di lei.
«Spero che il letto ti piaccia», disse.
La ragazza chiuse gli occhi e poi li riaprì. Premette la faccia contro la spalla
dell’uomo. Lo avvicinò ancor di più a sé.
«Lei deve essere disperato o roba del genere», disse.
Qualche settimana dopo, lei raccontava: «Era un tipo di mezza età. Tutta la
sua roba là fuori sullo spiazzo. Sul serio. Ci siamo sbronzati e abbiamo ballato.
Nel vialetto. Oh, mio Dio. Non ridete. Metteva su questi dischi. Guardate il
giradischi. Ce lo ha dato il vecchio. E tutti questi dischi schifosi. La degnereste di
uno sguardo questa merda?».
Continuò a parlarne. Lo raccontò a tutti. Restava qualcosa, che non riusciva a
dire. Ci provò, poi smise.
Mirino
Un uomo senza mani si è presentato alla porta per vendermi una foto della
mia casa. A parte gli uncini d’acciaio, aveva un aspetto normale, più o meno sulla
cinquantina.
«Come ha perduto le mani?», ho chiesto dopo che mi aveva detto cosa voleva.
«Questa è un’altra storia», ha detto. «La vuole la fotografia o no?».
«Venga dentro», ho detto io. «Ho appena fatto il caffè».
Avevo appena fatto anche un Jell’O (marca di gelatina dolce N.d.T.). Ma questo
non gliel’ho detto. «Userei il suo gabinetto», ha detto l’uomo senza mani.
Volevo vedere come faceva a reggere la tazza.
Avevo visto come reggeva la macchina fotografica. Era una vecchia Polaroid,
nera, grande. La teneva su con delle cinghie di cuoio che gli giravano intorno alle
spalle e alla schiena fissandogli la macchina al petto. Andava a mettersi sul
marciapiede di fronte alla casa di uno, la inquadrava nel mirino, premeva la leva
con uno dei due uncini, e la fotografia saltava fuori.
Io, vedete, ero rimasto a guardare dalla finestra.
«Dove ha detto che era il gabinetto?».
«Là in fondo, giri a destra».
Piegandosi in avanti, ingobbendosi, si è liberato delle cinghie. Ha messo la
macchina fotografica sul divano e si è riassestato la giacca.
«Può darle un’occhiata mentre sono di là».
Gli ho preso la fotografia.
C’era un piccolo rettangolo di prato, il vialetto d’accesso, la tettoia per
l’automobile, i gradini dell’ingresso, la veranda, e la finestra della cucina, dalla
quale ero stato a guardare.
Perché mai avrei voluto una fotografia di questa tragedia?
Ho guardato un po’ più da vicino e mi sono visto la testa, la mia testa, là
dentro nella finestra di cucina.
Mi ha fatto riflettere, vedermi così. Ve lo garantisco, è una cosa che fa
riflettere un uomo.
Ho sentito lo sciacquone del gabinetto. Lui ha attraversato l’anticamera
tirandosi su la cerniera e sorridendo, un uncino che reggeva la cintura, l’altro che
spingeva dentro la camicia.
«Che ne pensa?», ha detto. «Va bene? Personalmente mi sembra ben riuscita.
Vuole che non conosca il mio mestiere? Diciamo le cose come sono, ci vuole un
professionista».
Si grattò il pube.
«Ecco il caffè», ho detto.
Lui ha detto: «Lei è solo, o sbaglio?».
Ha guardato il salotto. Ha scosso la testa.
«Dura, dura», ha detto.
Si è seduto accanto alla macchina fotografica, si è appoggiato indietro con un
sospiro, e ha sorriso come se sapesse qualcosa che non aveva intenzione di dirmi.
«Beva il suo caffè», ho detto io.
Stavo pensando a qualcosa da dire. «Sono capitati qui tre ragazzini che
volevano dipingere il mio indirizzo sul marciapiede. Mi hanno chiesto un dollaro.
Lei non ne saprebbe qualcosa, vero?».
Era una mossa arrischiata. Ma non per questo ho smesso di osservarlo. Si è
piegato in avanti con sussiego, la tazza in equilibrio tra gli uncini. L’ha appoggiata
sul tavolo.
«Lavoro solo», ha detto. «È sempre stato così e sempre sarà. Cosa intende
dire?».
«Cercavo di stabilire un legame», ho detto io.
Avevo mal di testa. So che il caffè non serve ma qualche volta il Jell’O aiuta.
Ho preso la fotografia. «Ero in cucina», ho detto. «Di solito sono sul retro».
«Succede sempre così», ha detto lui. «Allora l’hanno piantata in asso, giusto?
Prenda me, per esempio, io lavoro solo. Insomma che dice? La vuole la
fotografia?».
«La prendo», ho detto io.
Mi sono alzato e ho raccolto le tazze.
«Come no», ha detto lui. «Quanto a me, ho una camera in città. Non è male.
Vado in giro in autobus, e quando ho battuto i paraggi, mi sposto in un’altra
città. Capisce cosa sto dicendo? Eh sì, avevo dei bambini una volta. Proprio come
lei», ha detto.
Ho aspettato con le tazze in mano e l’ho osservato mentre si divincolava per
tirarsi su dal divano.
Ha detto: «È a loro che devo questi».
Ho osservato bene quegli uncini.
«Grazie per il caffè e per l’uso del gabinetto. Capisco quello che prova».
Ha alzato e riabbassato gli uncini.
«Me lo dimostri», dissi. «Mi dimostri quanto. Faccia delle fotografie a me e alla
casa».
«Non serve», ha detto il tipo. «Non torneranno».
L’ho aiutato lo stesso a infilare le cinghie.
«Posso farle un buon prezzo», ha detto. «Tre per un dollaro. Se mi tengo più
basso, non ne ricavo niente».
Siamo usciti. Ha sistemato l’otturatore. Mi ha detto dove mettermi e ci siamo
andati.
Abbiamo girato intorno alla casa. Con metodo. Qualche volta guardavo di lato.
Qualche volta guardavo dritto davanti a me.
«Bene», diceva lui. «Così va bene», diceva, finché non abbiamo fatto tutto il giro
della casa e siamo tornati sul davanti. «Sono venti. Adesso basta».
«No», ho detto. «Sul tetto», ho detto.
«Cristo», ha detto lui. Ha passato in rassegna l’intero isolato. «Come no», ha
detto. «Adesso sì che fa sul serio».
Ho detto: «Armi e bagagli. Se la sono svignata».
«Guardi qui!», ha detto l’uomo e di nuovo ha alzato gli uncini.
Sono rientrato e ho preso una sedia. L’ho messa sotto la tettoia
dell’automobile. Ma non bastava. Allora ho preso una cassa e ho messo la cassa
in cima alla sedia.
Non era male lassù sul tetto.
Mi sono alzato in piedi e ho dato un’occhiata in giro. Ho fatto un cenno, e
l’uomo senza mani ha risposto agitando gli uncini.
È stato allora che li ho visti, i sassi. Era come un piccolo nido di sassi sul tetto
del camino. Sapete come sono i ragazzi. Sapete come li lanciano su, sperando di
infilartene uno nel camino.
«Pronto?», ho gridato, ho preso un sasso e ho aspettato che mi avesse nel
mirino.
«Pronto!», ha gridato lui.
Ho lasciato andare indietro il braccio e ho urlato: «Dai!», e ho scagliato quel
figlio di puttana più lontano che potevo.
«Non so», l’ho sentito gridare. «Non faccio foto in movimento».
«Ancora!», ho urlato, e ho raccolto un altro sasso.
Mr. Coffee e Mr. Fixit
Ho visto alcune cose. Stavo andando a trovare mia madre per fermarmi
qualche giorno. Ma nel momento che misi piede in cima alle scale, guardai dentro
e lei era lì sul divano che baciava un uomo. Era estate. La porta era aperta, la
televisione andava. È una delle cose che ho visto.
Mia madre ha sessantacinque anni. È iscritta a un club per persone sole. Fu
un colpo lo stesso, però. Rimasi lì a guardare con la mano sulla ringhiera mentre
l’uomo la baciava. Lei rispondeva ai baci, e la televisione andava.
Le cose sono messe meglio ora. Ma in quel periodo, quando mia madre si dava
da fare con gli uomini, io ero senza lavoro. I miei bambini davano i numeri, e mia
moglie dava i numeri. Anche lei si dava da fare. L’uomo che ci andava a letto era
un ingegnere aerospaziale disoccupato che lei aveva incontrato all’Alcolisti
Anonimi. Dava i numeri anche lui.
Si chiamava Ross e aveva sei bambini. Zoppicava per una pistolettata tiratagli
dalla prima moglie. Non so cosa avevamo in testa in quel periodo.
La seconda moglie del tipo era sparita, ma a sparargli era stata la prima
moglie, perché lui non pagava gli alimenti. Adesso gli auguro ogni bene. Ross.
Che razza di nome! Allora però era diverso. In quel periodo parlavo di pistole.
Dicevo a mia moglie: «Credo che prenderò una Smith and Wesson». Ma non la
presi mai.
Ross era un piccoletto. Ma non molto piccolo. Aveva i baffi e indossava sempre
un maglione abbottonato davanti.
La moglie numero uno lo fece mettere in galera. La seconda lo stesso. Venni a
sapere da mia figlia che mia moglie aveva pagato la cauzione. A mia figlia Melody
piacque ancor meno che a me. La storia della cauzione. Non che a Melody
importasse di me. Non le importava di nessuno di noi, né di sua madre né di me.
Era solo che la situazione soldi era pesante, e se una parte andava a Ross, la
stessa parte in meno sarebbe andata a Melody. Perciò Ross era sulla lista nera di
Melody. E poi non le piacevano i suoi bambini e il fatto che ne avesse tanti. Ma in
generale Melody diceva che Ross era un brav’uomo.
Una volta le aveva persino predetto il futuro.
Questo tipo, Ross, passava il suo tempo a riparare di tutto, ora che non aveva
un impiego fisso. Ma avevo visto la sua casa dal di fuori. Era un caos.
Cianfrusaglie dappertutto. Sul prato, due Plymouth scassate.
All’inizio della loro storia, mia moglie sosteneva che quel tipo collezionava
automobili antiche. Erano parole sue, «automobili antiche». Ma erano solo
rottami.
Avevo il suo numero. Mr. Fixit.(Signor Aggiustatutto N.d.T.)
Però avevamo alcune cose in comune, Ross e io, non soltanto la stessa donna.
Per esempio, lui non riusciva a mettere a posto il televisore quando dava i numeri
e non si vedeva più niente. Neanch’io riuscivo a metterlo a posto. C’era l’audio,
ma non il video. Se volevamo il telegiornale, dovevamo sederci vicino allo schermo
ad ascoltare.
Ross e Myrna si incontrarono quando Myrna stava tentando di smettere di
bere. Andava alle riunioni, diciamo, tre o quattro volte alla settimana. Ci ero
passato anch’io. Ma quando Myrna incontrò Ross, io non ci andavo .
Bevevo una bottiglia al giorno. Myrna andava alle riunioni, e poi andava a
casa di Mr. Fixit a cucinare per lui e a mettere in ordine. In queste cose i suoi figli
non erano di nessun aiuto. Nessuno alzava un dito in casa di Mr. Fixit, tranne
mia moglie, quando c’era.
Tutto questo successe non molto tempo fa, tre anni all’incirca. Non era poco
allora.
Lasciai mia madre e il suo uomo sul divano e me ne andai in giro in macchina
per un po’. Quando arrivai a casa, Myrna mi fece il caffè.
Andò a prepararmelo in cucina; io aspettai finché non la sentii che faceva
venir giù l’acqua, poi allungai la mano sotto il cuscino e presi la bottiglia.
Credo che Myrna amasse veramente quell’uomo. Ma anche lui aveva una
storiella per conto suo - una ventiduenne di nome Beverly. Mr. Fixit se la cavava
bene per essere un piccoletto col maglione abbottonato.
Era sui trentacinque quando colò a picco. Perse il lavoro e si diede alla
bottiglia. Un tempo lo sfottevo quando me ne capitava l’occasione. Adesso non lo
sfotto più.
Dio ti benedica e ti protegga, Mr. Fixit.
Aveva detto a Melody di aver lavorato ai lanci sulla luna. Aveva detto a mia
figlia di essere grande amico degli astronauti. Le aveva detto che glieli avrebbe
presentati se fossero venuti in città.
È un’impresa moderna quella, il posto aerospaziale dove lavorava Mr. Fixit. Io
l’ho visto. File alla tavola calda, sale da pranzo per i dirigenti eccetera. Mr. Coffee
(prima macchina automatica per il caffè, per uso domestico N.d.T.) in tutti gli uffici.
Mr. Coffee e Mr. Fixit.
Myrna dice che si interessava di astrologia, aure, I Ching, quelle cose lì. Io non
ho dubbi che questo Ross fosse davvero intelligente e interessante, come molti
nostri ex amici. L’ho detto a Myrna, che certo non le sarebbe importato di lui, se
così non fosse stato.
Mio padre morì nel sonno, ubriaco, otto anni fa. Era un venerdì a mezzogiorno
e aveva cinquantaquattro anni. Tornò a casa dal lavoro in segheria, tirò fuori dal
congelatore le salsicce per la colazione e aprì una bottiglia di Four Roses.
Mia madre era seduta allo stesso tavolo. Stava cercando di scrivere una lettera
a sua sorella a Little Rock. Alla fine, mio padre si alzò e andò a letto. Secondo mia
madre non disse mai buona notte. Ma era giorno, naturalmente.
«Tesoro», dissi a Myrna la sera che tornò a casa. «Teniamoci un po’ abbracciati
e poi ci prepari un pranzetto veramente buono».
Myrna disse: «Lavati le mani».
Gazebo
La mattina mi versa il Teacher’s sulla pancia e se lo lecca tutto. Il pomeriggio
cerca di buttarsi dalla finestra.
Io faccio: «Holly, non si può continuare così. Questa storia deve finire».
Siamo seduti sul divano in una delle suite al piano di sopra. Potevamo
scegliere una qualsiasi delle tante camere libere. Ma avevamo bisogno di una
suite, un posto dove poterci muovere e parlare. Così quella mattina abbiamo
chiuso a chiave l’ufficio del motel e siamo andati di sopra.
Mi fa: «Duane, tutto questo mi sta uccidendo».
Beviamo Teacher’s con acqua e ghiaccio. Abbiamo dormito un po’ tra mattina
e pomeriggio. Poi lei è scesa dal letto e ha minacciato di buttarsi giù dalla finestra
mezza nuda. Ho dovuto afferrarla. Eravamo solo al primo piano. Ma anche così.
«Basta», fa lei. «Non ne posso più».
Si mette una mano sulla guancia e chiude gli occhi. Piega la testa avanti e
indietro emettendo quel suo mormorio.
Mi sono sentito morire a vederla così.
«Di che cosa non ne puoi più?», faccio io, anche se naturalmente lo so.
«Non c’è bisogno che te lo spieghi ancora parola per parola», fa lei. «Ho perso il
controllo. Ho perso l’orgoglio. Una volta ero una donna orgogliosa».
È una bella donna che ha appena passato i trenta. È alta con lunghi capelli
neri e occhi verdi, l’unica donna con gli occhi verdi che abbia mai conosciuto. Ai
vecchi tempi le parlavo dei suoi occhi verdi, e lei mi rispondeva che grazie a loro
sapeva di essere destinata a qualcosa di speciale. Anch’io lo sapevo, eccome!
Tra una cosa e l’altra sto così male.
Sento il telefono che squilla al piano di sotto. Ha suonato a intervalli tutto il
giorno. Lo sentivo anche nel dormiveglia. Aprivo gli occhi, guardavo il soffitto, e
ascoltavo gli squilli chiedendomi cosa ci stesse succedendo.
Forse dovrei guardare il pavimento.
«Ho il cuore spezzato», fa lei. «È di pietra ormai. Non valgo niente. È questo il
peggio, che non valgo più niente».
«Holly», faccio io.
All’inizio, quando ci siamo trasferiti quaggiù e siamo subentrati come gestori,
credevamo di avere risolto i nostri problemi. Affitto e servizi gratis più trecento al
mese. Non era poi una cosa da buttar via.
Holly teneva i conti. Era portata per i numeri, e in genere si occupava lei di
affittare le casette. Lei piaceva alla gente e la gente piaceva a lei. Io badavo alla
manutenzione, tosavo il prato e strappavo le erbacce, tenevo la piscina pulita,
facevo piccole riparazioni.
Per il primo anno tutto è andato bene. La sera avevo un secondo lavoro, e ce
la cavavamo benino. Avevamo dei progetti. Poi un giorno, non so. Avevo appena
messo le piastrelle nel bagno di una delle stanze, quando questa piccola
cameriera messicana entra a fare le pulizie. Era stata Holly ad assumerla. Non
posso davvero dire di avere mai notato prima quella ragazzetta, anche se ci
scambiavamo qualche parola quando ci incontravamo. Mi chiamava Mister,
questo me lo ricordo. Comunque, una cosa tira l’altra.
Perciò dopo quella mattina ho cominciato a farle caso. Era una cosina
graziosa con dei bei denti bianchi. Le guardavo spesso la bocca.
Ha preso a chiamarmi per nome.
Una mattina mentre ero in bagno a cambiare la guarnizione del rubinetto, lei
entra e accende il televisore com’è abitudine delle cameriere. Quando fanno le
pulizie, ovviamente. Ho piantato lì quello che stavo facendo e sono uscito dal
bagno. Era sorpresa di vedermi. Sorride e dice il mio nome.
E subito dopo averlo pronunciato siamo finiti sul letto.
«Holly, sei ancora una donna fiera», faccio io. «Sei ancora la numero uno. Dai,
Holly». Lei scuote la testa.
«Dentro di me è morto qualcosa», fa. «Ci ha messo un sacco di tempo, ma è
morto. Tu hai ucciso qualcosa, come se l’avessi fatto a pezzi con una scure. È
tutto uno schifo adesso».
Finisce il suo whiskey. Poi comincia a piangere. Accenno ad abbracciarla, ma
non serve a niente. Riempio i bicchieri e guardo fuori dalla finestra.
Due macchine con le targhe di un altro stato sono ferme davanti all’edificio
della reception, e i guidatori si parlano stando davanti alla porta. Uno dei due
finisce di dire una cosa all’altro e dà un’occhiata in giro alle casette, carezzandosi
il mento. C’è anche una donna che, con la faccia contro il vetro e le mani messe a
paraocchi, sta scrutando all’interno. Prova ad aprire la porta.
Di sotto il telefono ricomincia a suonare.
«Anche poco fa, quando lo stavamo facendo, tu pensavi a lei», fa Holly.
«Duane, questo fa male». Prende il bicchiere che le porgo.
«Holly», faccio io.
«È vero, Duane», fa lei. «Non contraddirmi».
Cammina su e giù per la stanza in mutande e reggiseno, col bicchiere in
mano.
Holly fa: «Non hai rispettato i vincoli del matrimonio. È la fiducia che hai
distrutto».
Mi metto in ginocchio e comincio a pregarla. Ma sto pensando a Juanita. È
spaventoso. Non so più cosa ne sarà di me o di nessun altro al mondo.
Faccio: «Holly, tesoro, ti amo».
Nel parcheggio qualcuno suona il clacson, si interrompe, e poi riprende a
suonare.
Holly si asciuga gli occhi. «Preparami qualcos’altro da bere», fa. «In questo c’è
troppa acqua.
Lascia che suonino i loro schifosi clacson. Non mi importa. Io mi trasferisco in
Nevada».
«Non andare in Nevada», faccio io. «Stai dicendo delle fesserie».
«Non sono fesserie», fa lei. «Non è mica una fesseria il Nevada. Tu puoi restare
qui con la tua donna delle pulizie. Io me ne vado in Nevada. O là o mi ammazzo».
«Holly!», faccio io.
«Holly niente», fa lei.
Si siede sul divano e tira su le ginocchia fin sotto il mento.
«Dammi ancora da bere, figlio di puttana», fa lei. «Ma vadano a farsi fottere
quei suonatori di clacson. Le loro porcherie possono andarle a fare al Travelodge.
È là che la tua donna delle pulizie lavora adesso? Dammi ancora da bere, figlio di
puttana!».
Stringe le labbra e mi guarda in quel suo modo speciale.
Bere è strano. Se ci ripenso, tutte le decisioni importanti le abbiamo prese
bevendo. Persino quando discutevamo della necessità di bere di meno, eravamo
seduti al tavolo di cucina, o fuori a quello da picnic, con una confezione di sei
lattine di birra o una bottiglia di whiskey. Quando abbiamo deciso di venire a
vivere qui a gestire il motel, siamo rimasti alzati due notti a bere, soppesando i
pro e i contra.
Verso nei bicchieri quello che è rimasto del Teacher’s e aggiungo un po’ di
acqua e ghiaccio.
Holly si alza dal divano e si sdraia per traverso sul letto.
Fa: «Sei stato con lei anche in questo letto?».
Io non ho niente da dire. Mi sento come se dentro avessi finito le parole. Le
porgo il suo bicchiere e mi siedo in poltrona. Bevo e penso che non sarà mai più
la stessa cosa.
«Duane?», fa lei.
«Holly?».
Il mio cuore ha rallentato i battiti. Aspetto.
Holly era il mio unico vero amore.
Con Juanita succedeva cinque giorni alla settimana, tra le dieci e le undici. In
qualsiasi stanza si trovasse quando faceva il giro delle pulizie. Bastava che io
entrassi dove stava lavorando e mi chiudessi la porta alle spalle.
Ma il più delle volte era alla 11. La 11 era la nostra camera fortunata.
Eravamo affettuosi l’uno con l’altro, ma rapidi. Era piacevole.
Credo che Holly avrebbe potuto benissimo superare la crisi. Credo che
avrebbe dovuto provarci, ma sul serio.
Quanto a me, mi ero tenuto quel lavoro serale. Avrebbe potuto farlo anche
una bestia. Ma le cose stavano precipitando velocemente. Non ne avevamo
proprio più voglia.
Smisi di pulire la piscina. Si era riempita di una specie di melma verde per cui
la gente non la usava più. Non riparavo più rubinetti né sostituivo più mattonelle
né facevo ritocchi alle pareti. Bè, la verità è che tutti e due ci stavamo dando
dentro col bere. L’alcool esige un sacco di tempo e di energia se ti ci vuoi dedicare
seriamente.
Anche Holly faceva dei pasticci nel registrare i clienti.
Chiedeva prezzi troppo alti oppure non riscuoteva quanto le era dovuto. A
volte metteva tre persone in una stanza con un solo letto, oppure dava una
camera matrimoniale a una persona sola. Inutile dire che c’erano lamentele, e
talvolta volavano parole pesanti. La gente faceva le valigie e se ne andava da
qualche altra parte.
Dopo un po’ arriva una lettera da quelli della direzione. Poi ne arriva un’altra,
raccomandata con ricevuta di ritorno.
Ci sono delle telefonate. C’è un tizio che viene apposta dalla città.
Ma a noi non importava più niente, e questo è un fatto. Sapevamo di avere i
giorni contati.
Avevamo rovinate la nostra vita e ci stavamo preparando a un rivolgimento.
Holly è una donna intelligente. È stata la prima a capirlo.
Poi quel sabato mattina ci svegliammo dopo averci rimuginato su tutta la
notte. Aprimmo gli occhi e ci girammo nel letto. A quel punto lo sapevamo tutti e
due. Avevamo toccato il fondo di qualcosa, e adesso si trattava di capire da dove
ricominciare.
Ci alzammo, ci vestimmo, bevemmo il caffè e decidemmo di parlare. Senza
nessuna interruzione. Niente telefonate. Niente clienti.
Fu allora che presi il Teacher’s. Chiudemmo a chiave la porta e salimmo al
piano di sopra con ghiaccio, bicchieri e bottiglie. In un primo momento
guardammo la televisione a colori giocherellando un po’ e lasciando che il telefono
di sotto suonasse. Per mangiare scendemmo a prendere patatine al formaggio dal
distributore automatico.
C’era questa strana sensazione che tutto potesse succedere ora che capivamo
che tutto era successo. «Quando eravamo ragazzi prima di sposarci?», fa Holly.
«Quando avevamo grandi progetti e speranze? Ti ricordi?». Era seduta sul letto, le
braccia allacciate intorno alle ginocchia e il bicchiere in mano. «Mi ricordo, Holly».
«Non sei stato tu il primo, sai. Il primo è stato Wyatt. Pensa. Wyatt. E il tuo
nome è Duane. Wyatt e Duane. Chi sa cosa mi sono persa tutti quegli anni? Tu
eri tutto per me, proprio come nella canzone».
Io faccio: «Sei una donna meravigliosa, Holly. So che non ti sono mancate le
occasioni».
«Ma non ne ho approfittato!», fa lei. «Non potevo scavalcare il matrimonio».
«Holly, ti prego», faccio io. «Adesso basta, tesoro. Non torturiamoci. Cosa
dovremmo fare?».
«Senti», fa lei. «Ti ricordi la volta che siamo andati fino a quella vecchia fattoria
fuori Yakima, oltre Terrace Heights? E stavamo solo facendo un giro in
macchina? E eravamo su quella stradina sterrata e faceva caldo e c’era polvere?
Abbiamo proseguito un bel pezzo e siamo arrivati a quella vecchia casa, e tu hai
chiesto se potevano darci un sorso d’acqua? Te lo immagini noi che facciamo una
cosa simile ora? Fermarci a una casa a chiedere un sorso d’acqua?
«Quei vecchi devono essere morti adesso», fa lei, «uno accanto all’altro in
qualche cimitero. Ricordi che ci hanno invitati a mangiare un dolce? E dopo ci
hanno fatto fare un giro intorno alla casa? E sul retro c’era questo gazebo? Giù in
fondo, sotto gli alberi? Aveva un piccolo tetto a punta e la vernice era tutta
scrostata e sui gradini crescevano le erbacce. E la donna ha detto che una volta,
tanto tempo fa voglio dire, gli uomini ci venivano la domenica a suonare, e la
gente si sedeva intorno ad ascoltare. Pensavo che saremmo stati così anche noi
da vecchi. Dignitosi. In un posto nostro. E la gente avrebbe bussato alla nostra
porta».
Sul momento non riesco a dire niente. Poi faccio: «Holly, un giorno
ricorderemo anche queste cose. Diremo “ti ricordi il motel con tutto quello schifo
nella piscina?”. Capisci cosa sto dicendo Holly?».
Ma Holly se ne sta seduta sul letto col bicchiere.
Vedo che non lo sa neppure lei.
Vado alla finestra e guardo fuori attraverso la tenda. Da basso un tizio dice
qualcosa e scuote la porta del bureau. Rimango lì. Prego che mi venga un segno
da Holly. Prego che Holly me lo faccia arrivare.
Sento una macchina partire. Poi un’altra. Puntano i fari contro la casa e una
dopo l’altra si allontanano per immettersi nel traffico.
«Duane», fa Holly.
Anche in questo aveva ragione?
Riuscivo a vedere ogni più piccola cosa
Ero a letto quando sentii il rumore del cancello. Tesi l’orecchio. Non sentii più
niente. Ma quello sì. Cercai di svegliare Cliff Era come morto. Allora mi alzai e
andai alla finestra. C’era una grande luna sopra le montagne intorno alla città.
Era una luna bianca piena di cicatrici. Anche un imbecille ci avrebbe visto una
faccia.
C’era abbastanza luce, tanto che riuscivo a vedere ogni cosa nel giardino: le
sedie a sdraio, il salice, il filo del bucato teso tra i pali, le petunie, le staccionate,
il cancello spalancato.
Ma non c’era nessuno in giro, né zone d’ombra che facessero paura. Tutto era
inondato dal chiarore della luna e io riuscivo a vedere ogni più piccola cosa. Le
mollette della biancheria sul filo, per esempio.
Misi le mani sul vetro per schermare la luna. Guardai ancora. Restai in
ascolto. Poi tornai a letto. Ma non riuscivo a prendere sonno. Continuavo a
girarmi. Pensavo al cancello spalancato. Era come una minaccia.
Il respiro di Cliff era insopportabile. Stava a bocca aperta con le braccia strette
sul petto bianco. Occupava quasi tutto il letto.
Provai più volte a spingerlo dalla sua parte. Ma lui emise solo un mugolio.
Rimasi immobile ancora un po’ finché decisi che non sarebbe servito a niente.
Mi alzai e infilai le pantofole.
Andai in cucina a farmi un tè e mi sedetti a berlo al tavolo. Fumai una
sigaretta di Cliff, senza filtro. Era tardi. Non guardai l’ora. Bevvi il tè e fumai
un’altra sigaretta. Dopo un po’ decisi di uscire a chiudere il cancello.
Presi dunque la vestaglia.
La luna illuminava tutto: case e alberi, pali e fili della luce, il mondo intero.
Diedi un’occhiata al giardinetto sul retro prima di uscire sotto il portico. C’era
una leggera brezza e mi avvolsi bene nella vestaglia.
Mi avviai verso il cancello.
Udii un rumore provenire dalle staccionate che ci separano dal terreno di Sam
Lawton. Aguzzai la vista. Sam stava appoggiato con le braccia sulla sua
staccionata; sì, perché di staccionate su cui appoggiarsi ce ne erano due. Sollevò
una mano chiusa a pugno all’altezza della bocca e tossì, un colpo secco.
«Sera, Nancy», disse Sam Lawton.
Dissi: «Sam, mi hai fatto paura. Cosa fai alzato?». «Hai sentito qualcosa?»,
dissi. «Io ho sentito il mio cancello che si apriva».
«Non ho sentito niente», disse. «Non ho nemmeno visto niente. Potrebbe essere
stato il vento». Stava masticando qualcosa. Guardò il cancello aperto e alzò le
spalle.
I suoi capelli erano d’argento sotto la luce della luna, e gli stavano dritti sulla
testa. Riuscii a vedere il suo naso lungo, e le rughe sulla sua grande faccia triste.
Dissi: «Che fai alzato, Sam?», e mi avvicinai alla sua staccionata.
«Vuoi vedere una cosa?», disse.
«Vengo», dissi.
Uscii sul vialetto. Mi sentivo strana ad andarmene in giro in camicia da notte
e vestaglia. Mi dissi che dovevo proprio ricordarmelo questo, andarmene in giro in
quel modo.
Sam era là, vicino a casa sua, con i calzoni del pigiama arrotolati sopra le
scarpe bianche e marroni. Aveva una torcia elettrica in una mano e un barattolo
di qualcosa nell’altra.
Sam e Cliff erano stati amici un tempo. Poi una sera avevano bevuto. Avevano
litigato. E dopo quella sera Sam si era costruito una staccionata e Cliff ne aveva
costruita una anche lui.
Questo successe dopo che Sam aveva perso Millie, si era risposato, ed era
diventato di nuovo padre, il tutto in men che non si dica. Millie era stata una
buona amica per me fino al giorno in cui morì. Aveva solo quarantadue anni
quando accadde. Insufficienza cardiaca. Successe proprio nel momento in cui
imboccava il vialetto. La macchina continuò ad andare avanti fino a sfondare la
parete in fondo al garage.
«Guarda qua», disse Sam, tirandosi su i calzoni del pigiama e accovacciandosi.
Puntò la torcia elettrica sul terreno.
Guardai e vidi su una zolla tutto un brulicare di cose mollicce.
«Lumache», disse. «Gli ho appena dato un po’ di questa roba», disse,
sollevando un barattolo che poteva essere di Ajax. «Stanno per prendere il
sopravvento», disse, e masticò quella cosa che aveva in bocca. Voltò la testa di
lato e sputò qualcosa che pareva tabacco. «Devo continuare con questo se voglio
tenerle sotto controllo». Puntò la luce su un vaso pieno di quelle cose. «Metto
l’esca e appena posso vengo fuori con questa roba. Bastarde, sono dappertutto.
Un disastro quello che possono combinare. Guarda qua», disse.
Si rialzò. Mi prese per il braccio e mi guidò fino ai suoi cespugli di rose. Mi
mostrò i forellini sulle foglie.
«Lumache», disse. «La notte se ti guardi intorno ne vedi dappertutto. Metto
l’esca e poi vengo a prenderle», disse.
«Un’invenzione schifosa, la lumaca. Le conservo in quel vaso lì».
Puntò la torcia elettrica sotto i cespugli di rose.
Un aereo passò sopra le nostre teste. Mi immaginai le persone, sedute ai loro
posti con le cinture allacciate, alcune che leggevano, altre che guardavano giù.
«Sam», dissi, «come stanno a casa?».
«Stanno bene», disse, e alzò le spalle.
Continuava a masticare quella roba che aveva in bocca.
«Come sta Clifford?», disse.
«Come sempre», dissi.
Sam disse: «Magari una volta che sono qua fuori alle prese con le lumache
guarderò verso casa vostra» disse. «Vorrei proprio che Cliff e io tornassimo ad
essere amici. Guarda là adesso», disse e tirò un brusco respiro. «Ce n’è una là. La
vedi? Proprio là dove sto facendo luce». Teneva la luce puntata sul terriccio sotto
il cespuglio di rose. «Ora fa attenzione», disse Sam.
Mi strinsi le braccia sul petto e mi chinai verso il punto che stava
illuminando. La cosa smise di muoversi e girò la testa da una parte all’altra.
Allora Sam le fu addosso col suo barattolo, e spruzzò la polvere.
«Che schifose», disse.
La lumaca si contorse. Poi si arrotolò e di nuovo si allungò.
Sam prese una palettina, raccolse la lumaca, e la buttò dentro il vaso.
«Ci ho rinunciato, sai», disse Sam. «C’è stato un momento che non sapevo più
cosa fare. Intorno alla casa ci stiamo ancora attenti, ma non è che ci badi più
molto».
Annuii. Lui mi guardò insistentemente.
«Sarà meglio che rientri», dissi.
«Certo», disse. «Continuo ancora un po’ e appena ho finito torno dentro
anch’io». Dissi: «Buona notte, Sam».
«Senti», disse. Smise di masticare. Con la lingua spinse quella cosa dietro il
labbro inferiore. «Dì a Cliff che lo saluto».
«Gli dirò che hai detto così, Sam».
Sam si passò una mano sui capelli argentati come se volesse farli star giù una
volta per tutte, e poi la alzò in un gesto di saluto.
In camera da letto, mi tolsi la vestaglia, la ripiegai e la misi a portata di mano.
Senza guardare l’ora, controllai che la levetta della sveglia fosse alzata. Poi mi
infilai nel letto, tirai su le coperte, e chiusi gli occhi. Fu allora che mi venne in
mente che avevo dimenticato di chiudere il cancello.
Aprii gli occhi e restai lì ferma. Diedi una scrollatina a Cliff. Lui si schiarì la
gola. Deglutì. Qualcosa gli andò di traverso e gli gorgogliò dentro il petto.
Non so. Mi fece pensare a quelle cose che Sam Lawton cospargeva di polvere.
Per un minuto pensai al mondo là fuori, e poi non pensai più a nient’altro,
solo che dovevo sbrigarmi a dormire.
Sacchetti
È ottobre, una giornata umida. Dalla finestra del mio albergo riesco a vedere
anche troppo di questa città del Midwest. Vedo le luci che si accendono in alcuni
palazzi, il fumo delle ciminiere che si alza in una densa voluta. Vorrei non dover
guardare.
Voglio parlarvi di una storia che mi raccontò mio padre quando mi fermai a
Sacramento l’anno scorso. È a proposito di certi fatti che gli capitarono due anni
prima di quella volta, e quella volta fu prima che lui e mia madre divorziassero.
Sono un venditore di libri. Rappresento un’organizzazione molto conosciuta.
Pubblichiamo libri di testo, e la sede è a Chicago. La mia zona è l’Illinois, parte
dell’Iowa e del Wisconsin. Ero alla convention della Western Book Publishers
Association a Los Angeles quando mi venne l’idea di andare a passare qualche
ora con mio padre. Dico, non lo avevo più visto dai tempi del divorzio. Così tirai
fuori dal portafogli il suo indirizzo e gli mandai un telegramma. La mattina dopo
spedii la mia roba a Chicago e mi imbarcai su un aereo per Sacramento.
Mi ci volle un minuto per distinguerlo tra la folla. Stava in mezzo a tutti gli
altri - cioè dietro la transenna - capelli bianchi, occhiali, calzoni marroni, di quelli
che non si stirano.
«Come va, papà?», dissi. «Les», disse lui.
Ci stringemmo la mano e ci avviammo verso il terminal.
«Come stanno Mary e i bambini?», disse.
«Tutti bene», dissi, il che non era vero. Aprì un sacchetto bianco, di una
pasticceria. Disse: «Ho preso qualcosa che potresti portare a casa. Non molto.
Delle mandorle Roca per Mary e delle gelatine per i bambini».
«Grazie», dissi.
«Non te lo dimenticare quando vai via», disse.
Mentre ci tiravamo fuori dalla ressa, alcune monache ci vennero incontro
correndo verso l’imbarco. «Qualcosa da bere o un caffè?», dissi.
«Quello che vuoi tu», disse. «Ma sono senza macchina».
Trovammo il bar, prendemmo da bere, fumammo qualche sigaretta.
«Eccoci qua», dissi.
«Beh, sì», disse.
Mi strinsi nelle spalle e dissi «già».
Mi appoggiai allo schienale della sedia e trassi un lungo respiro, aspirando
quell’aria di sventura che mi sembrava aleggiargli intorno alla testa.
Disse: «L’aeroporto di Chicago deve essere grande quattro volte questo».
«Anche di più», dissi.
«Sapevo che era grande», disse.
«Da quando porti gli occhiali?», dissi.
«Da un po’», disse.
Mandò giù una sorsata e poi andò dritto al punto.
«Avrei preferito morire», disse. Appoggiò le sue braccia pesanti ai lati del
bicchiere. «Tu sei uno che ha studiato, Les. Queste cose tu le puoi capire».
Capovolsi il posacenere per leggere cosa c’era scritto sul fondo:
HARRAH’S CLUB
RENO AND LAKE TAHOE
GOOD PLACES TO HA VE FUN.
«Lei era una venditrice di prodotti Stanley. Una donna piccolina, mani e piedi
piccoli, e capelli neri come il carbone. Non era la cosa più bella del mondo. Ma
aveva un modo di fare delizioso. Aveva trent’anni e dei bambini. Ma era una
donna per bene, comunque sia andata.
«Tua madre comprava sempre qualcosa da lei, una scopa, uno strofinaccio,
qualche ingrediente per i dolci. Sai com’è tua madre. Era sabato e io ero a casa.
Tua madre era andata da qualche parte. Non so dove. Non era andata al lavoro.
Io ero in soggiorno a leggere il giornale e a bere una tazza di caffè, quando sentii
bussare alla porta ed era quella donnina. Sally Wain. Disse di avere delle cose per
la signora Palmer. “Io sono il signor Palmer”, dico. “La sonora Palmer non è in
casa”, dico. Le dico se vuole entrare un momento, sai, così l’avrei pagata. Lei non
sapeva che fare. Se ne sta lì con quel sacchetto di carta in mano e la ricevuta.
«“Dia qua, lo prendo io”, dico. “Perché non entra e si siede un minuto, vedo se
trovo i soldi”.
«“Non importa”, dice. “Può prendere a credito. Lo fa un sacco di gente. Non
importa”. Sorride per farmi capire che andava bene lo stesso, capisci.
«“No, no”, dico io. “Ce li ho. Preferisco pagare adesso. Così a lei risparmio un
viaggio e a me un debito. Venga dentro”, dico, e tengo la porta aperta. Non era
educato farla aspettare là fuori».
Tossì e prese una delle mie sigarette. Dall’altra parte del bar una donna rise.
La guardai e di nuovo lessi la scritta sul posacenere.
«Lei entra, e io dico: “Un momento solo, per favore”, e vado in camera da letto
a cercare il mio portafogli. Guardo sul comò, ma non lo trovo. Trovo degli
spiccioli, dei fiammiferi e il mio pettine, ma non riesco a trovare il portafogli. Vedi,
tua madre quella mattina aveva riordinato la stanza. Così torno in soggiorno e
dico: “Bene, farò saltar fuori qualche soldo, comunque”.
“La prego, non si disturbi”, dice lei. «“Nessun disturbo”, dico. “Devo pure
trovarlo, il mio portafogli. Si metta comoda”. «“Oh, sto benissimo”, dice lei.
«“Guardi qua”, dico. “Ha sentito della grande rapina all’Est? Stavo proprio
leggendolo ora”.
«“L’ho visto in televisione ieri sera”, dice lei. «“Hanno fatto un lavoro pulito”,
dico. «“Proprio coi fiocchi”, dice lei. «“Il delitto perfetto”, dico io. «“Non a tutti
riesce”, dice lei.
«Non sapevo che altro dire. Stavamo lì in piedi a guardarci. Uscii sotto il
portico e andai a cercare i miei calzoni nella cesta della biancheria sporca, perché
mi era venuto in mente che tua madre poteva averli messi là. Trovai il portafogli
nella tasca posteriore, tornai dentro e le chiesi quanto le dovessi.
«Erano tre o quattro dollari, e la pagai. Poi, non so perché, le domandai che
avrebbe fatto se li avesse avuti lei, tutti quei soldi che si erano portati via i
rapinatori.
«Rise e le vidi i denti.
«Non so cosa mi successe allora, Les. Cinquantacinque anni. Figli grandi.
Sapevo bene come vanno certe cose. Questa donna aveva la metà dei miei anni, e
dei figli piccoli a scuola. Faceva questo lavoro per la Stanley solo nelle ore in cui
erano a scuola, tanto per tenersi occupata. Non aveva bisogno di lavorare.
Stavano abbastanza bene. Suo marito, Larry, faceva l’autista per la Consolidated
Freight. Guadagnava bene. Caposquadra, capisci».
Si interruppe e si asciugò la faccia.
«Tutti possono sbagliare», dissi.
Scrollò la testa.
«Lei aveva questi due ragazzi, Hank e Freddy. Circa un anno di differenza. Mi
mostrò delle foto. In ogni caso, ride quando le dico quella cosa dei soldi, dice che
immagina che smetterebbe di vendere i prodotti Stanley, si trasferirebbe a Dago e
comprerebbe una casa. Disse che aveva dei parenti a Dago».
Accesi un’altra sigaretta. Guardai l’orologio. Il barista sollevò le sopracciglia e
io sollevai il mio bicchiere.
«Insomma, ora è seduta sul divano, e mi chiede se ho una sigaretta. Dice che
ha lasciato le sue nell’altra borsetta, e che non fuma da quando è uscita di casa.
Dice che non le va di comprarle dai distributori automatici quando a casa ne ha
una stecca. Le ho dato una sigaretta e le ho acceso un fiammifero. Ma ti dico,
Les, mi tremavano le dita».
Tacque e per un minuto esaminò le bottiglie. La donna che aveva riso teneva
ora sottobraccio due uomini.
«Quello che viene dopo è confuso. Ricordo che le domandai se voleva un caffè.
Dissi che lo avevo appena fatto. Lei disse che doveva andare. Disse che forse però
il tempo per una tazza ce l’aveva. Così andai in cucina e aspettai che il caffè si
scaldasse. Ti dico, Les, lo giuro davanti a Dio, non ho mai tradito tua madre per
tutto il tempo che siamo stati marito e moglie. Nemmeno una volta. Ci sono stati
momenti in cui ne ho avuto voglia e ho anche avuto l’occasione. Credimi, tu non
conosci tua madre come la conosco io».
Dissi: «Non sei tenuto a dirmi niente in proposito».
«Le portai il caffè, e lei a questo punto si era tolta il cappotto. Mi siedo dalla
parte opposta del divano e cominciamo a parlare di cose più personali. Lei dice di
avere due bambini che vanno alla scuola elementare Roosevelt, e Larry, che fa
l’autista e che a volte è via per una settimana o due. Su a Seattle, giù a L.A., o
magari a Phoenix. Sempre da qualche parte. Dice di avere incontrato Larry
quando andavano al liceo. Disse che era orgogliosa di averlo finito. Poco dopo si fa
una risatina per qualche cosa che avevo detto. Era una cosa che poteva essere
intesa in due modi. Poi mi chiede se conosco quella del venditore di scarpe che va
a trovare la vedova. Ci ridemmo sopra, e dopo io gliene raccontai una un po’ più
spinta. Allora lei si fa una bella risata e fuma un’altra sigaretta. Una cosa tira
l’altra, sai come succede, hai capito?
«A questo punto la baciai. Le appoggiai la testa sul divano e la baciai, e sento
ancora la sua lingua che s’infila nella mia bocca. Capisci cosa voglio dire? Un
uomo può tirare avanti rispettando tutte le regole e poi, al diavolo, non conta più
niente. La fortuna lo molla, capito?
«Ma era tutto finito in un attimo. E dopo lei dice: “Penserai che sono una
puttana o qualcosa del genere”, e poi se ne va.
«Io ero così eccitato, sai? Rimisi in ordine il divano e girai i cuscini. Ripiegai
tutti i giornali e lavai persino le tazze che avevamo usato. Per tutto il tempo non
feci che pensare a come avrei dovuto affrontare tua madre. Avevo paura.
«Insomma, cominciò così. Tua madre e io andammo avanti lo stesso come
prima. Ma io presi a vedere quella donna regolarmente».
La donna in fondo al bar si alzò dallo sgabello. Fece qualche passo verso il
centro della stanza e cominciò a ballare. Piegava la testa da una parte e dall’altra
e faceva schioccare le dita. Il barista smise di servire le bibite. La donna sollevò le
braccia sopra la testa e cominciò a girare su se stessa. Ma poi si fermò e il barista
riprese a lavorare.
«Hai visto che roba?», disse mio padre.
Ma io non risposi.
«Ecco, è successo così. Larry ha la sua tabella di marcia, e io andavo da lei
ogni volta che mi capitava l’occasione. A tua madre dicevo che andavo ora qua
ora là».
Si tolse gli occhiali e chiuse gli occhi. «Non l’ho mai raccontato a nessuno».
Non c’era niente da dire. Guardai fuori verso i campi e poi l’orologio.
«Senti», disse. «A che ora parte il tuo aereo? Potresti prendere un altro aereo?
Lascia che ti offra qualcos’altro da bere, Les. Ordinane altri due. Farò alla svelta.
Finisco questa storia in un minuto. Ascolta», disse.
«Lei teneva la fotografia di Larry in camera vicino al letto. All’inizio mi dava
fastidio, vedere la sua fotografia là e tutto il resto. Ma dopo un po’ mi ci abituai.
Sai bene come ci si abitua a tutto». Scosse la testa. «È incredibile. Comunque,
finisce male. Questo lo sai. Sai già tutto».
«Io so soltanto quello che mi dici tu», dissi.
«Te lo dico io, Les. Ti dico io qual è la c8sa più importante in tutta questa
storia. Vedi, ci sono delle cose. Cose più importanti del fatto che tua madre mi ha
lasciato. Ora senti questa. Una volta eravamo a letto. Doveva essere circa l’ora di
pranzo. Stavamo là a parlare. Sonnecchiavo forse. Sai quando sonnecchi e
insieme sogni. Ma al tempo stesso mi stavo dicendo che avrei fatto bene ad
alzarmi e andarmene. Insomma, ero in quello stato lì, quando l’auto entra nel
vialetto e qualcuno esce sbattendo la portiera.
«“Mio Dio”, strilla lei. “È Larry!”»
«Devo aver perso la testa. Mi sembra di ricordare che ho pensato che se
scappavo dalla porta sul retro lui mi avrebbe inchiodato alla grossa staccionata
del cortile e magari anche ucciso. Sally faceva strani versi. Come se non riuscisse
a respirare. Ha la vestaglia addosso, ma è aperta, e sta lì in piedi in cucina
scuotendo la testa. Tutto questo succede in un baleno, capisci. Per cui mi trovo
là, quasi nudo con i vestiti in mano, mentre Larry apre la porta d’ingresso. Allora
salto. Salto proprio dentro la finestra, proprio dentro, attraverso il vetro».
«Sei riuscito a scappare?», dissi. «Non ti ha inseguito?».
Mio padre mi guardò come se fossi pazzo. Fissò il suo bicchiere vuoto. Io
guardai l’orologio e mi stiracchiai.
Avevo un leggero mal di testa, vicino agli occhi.
Dissi: «È bene che mi avvii». Mi passai la mano sul mento e raddrizzai il
colletto. «È ancora a Redding, quella donna?».
«Tu non sai niente, vero?», disse mio padre. «Tu non sai niente di niente. Non
sai niente; sai solo vendere libri».
Era quasi ora di andare.
«Oh, Dio, mi dispiace», disse. «Quell’uomo è crollato, ecco cosa. Si buttò per
terra a piangere. Lei restò in cucina. Si fece il suo pianto là. Cadde in ginocchio a
pregare Dio, chiaro e forte perché lui la sentisse».
Mio padre fece per dire qualcos’altro. Poi scrollò il capo. Forse voleva che fossi
io a parlare.
Ma poi disse: «No, tu devi prendere l’aereo».
Lo aiutai a infilarsi il cappotto e uscimmo fuori. Con la mano lo guidavo
tenendolo per il gomito. «Ti chiamo un taxi», dissi.
Disse: «Vengo a salutarti alla partenza».
«Ma no!», dissi. «La prossima volta magari».
Ci stringemmo la mano. Quella fu l’ultima volta che lo vidi. Mentre andavo a
Chicago, mi ricordai di avere lasciato il sacchetto dei regali al bar. Non aveva
importanza. Mary non aveva bisogno di dolci, né di mandorle Roca o altro.
Questo fu l’anno scorso. Ora ne ha bisogno ancora meno.
Il bagno
Sabato pomeriggio la madre andò in auto dal panettiere allo shopping center.
Dopo aver sfogliato le pagine di un raccoglitore con incollate le fotografie delle
torte, ordinò quella al cioccolato, il dolce preferito da suo figlio. La torta che aveva
scelto era decorata con un’astronave e una base di lancio, sotto una spruzzata di
stelle bianche. Il nome SCOTTY sarebbe stato glassato sopra in verde, come se
fosse il nome dell’astronave.
Il panettiere ascoltò attentamente mentre la madre gli diceva che Scotty
avrebbe compiuto otto anni. Era anziano, questo panettiere, e portava uno strano
grembiule, un affare pesante con delle fettucce che gli passavano sotto le braccia,
si incrociavano sulla schiena e poi di nuovo davanti, dove formavano un nodo
molto grosso. Continuò ad asciugarsi le mani sul grembiule mentre ascoltava la
donna, e i suoi occhi umidi le esaminavano le labbra mentre lei studiava i
campioni e chiacchierava.
La lasciò decidere con calma. Non aveva fretta.
La madre decise per la torta con l’astronave, e poi diede al panettiere il suo
nome e il numero di telefono. La torta sarebbe stata pronta il lunedì mattina, in
tempo per la festa di lunedì pomeriggio. Questo era tutto quello che il panettiere
aveva da dire. Niente convenevoli, poche parole e quella sola semplice
informazione, lo stretto necessario.
Lunedì mattina il bambino stava andando a scuola a piedi. Era in compagnia
di un altro bambino e i due si scambiavano di continuo un grosso sacchetto di
patatine. Il bambino del compleanno stava cercando in tutti i modi di farsi dire
dall’altro bambino che cosa gli avrebbe regalato.
A un incrocio, il bambino del compleanno scese dal marciapiede senza
guardare e fu investito da un’auto. Cadde su un fianco, con la testa nella cunetta
e le gambe sulla strada che si muovevano come se stessero arrampicandosi su un
muro.
L’altro bambino restò lì con il pacchetto di patatine in mano, chiedendosi se
doveva finirle o proseguire e andare a scuola.
Il bambino del compleanno non pianse. Ma non aveva più voglia di parlare.
Non rispose quando l’altro bambino gli domandò che effetto faceva essere investiti
da un’auto. Il bambino del compleanno si rialzò e si avviò verso casa, e allora
l’altro bambino lo salutò con la mano e se ne andò a scuola.
Il bambino del compleanno raccontò a sua madre cos’era successo. Si
sedettero insieme sul divano. Lei gli tenne le mani tra le sue. Era questo che
stava facendo quando il bambino tirò via le mani e si sdraiò sulla schiena.
Naturalmente non ci furono feste di compleanno. Il bambino del compleanno
era in ospedale. La madre sedeva vicino al letto. Aspettava che il bambino si
svegliasse. Il padre arrivò di corsa dall’ufficio. Si sedette accanto alla madre. Così
adesso tutti e due aspettavano che il bambino si svegliasse. Aspettarono per ore,
poi il padre andò a casa a fare un bagno.
Tornò a casa in auto dall’ospedale. Guidò più veloce di come avrebbe dovuto.
Finora gli era sempre andato tutto bene nella vita. C’era stato il lavoro, la
paternità, la famiglia.
Era stato fortunato e felice. Ma la paura gli aveva fatto venir voglia di un
bagno.
Imboccò il vialetto. Rimase seduto in macchina, perché sentiva che le gambe
non gli rispondevano. Il bambino era stato investito ed era in ospedale, ma
sarebbe guarito. L’uomo scese dall’auto e andò verso la porta. Il cane abbaiava e
squillava il telefono. Continuò a squillare mentre lui apriva la porta e tastava il
muro cercando l’interruttore della luce.
Sollevò il ricevitore. Disse: «Sono entrato in casa in questo momento!».
«C’è qui un dolce che non è stato ritirato».
Questo disse la voce all’altro capo del filo.
«Che cosa sta dicendo?», disse il padre.
«Il dolce», disse la voce. «Sedici dollari».
Il marito tenne il ricevitore contro l’orecchio, sforzandosi di capire. Disse: «Io
non ne so niente». «Non penserà di darmela a bere», disse la voce.
Il marito riattaccò. Andò in cucina e si versò del whiskey. Chiamò l’ospedale.
Le condizioni del bambino non erano cambiate.
Mentre l’acqua scorreva nella vasca, l’uomo si insaponò la faccia e si fece la
barba. Era dentro la vasca quando sentì di nuovo squillare il telefono. Uscì e
attraversò di corsa la casa, dicendo «che stupido, che stupido» perché non si
sarebbe trovato in questa situazione se fosse rimasto dov’era in ospedale. Sollevò
il ricevitore e gridò: «Sì?».
La voce disse: «È pronto».
Il padre tornò in ospedale dopo mezzanotte. La moglie era seduta sulla sedia
vicino al letto. Alzò gli occhi verso il marito e poi tornò a guardare il bambino.
Sopra il letto c’era un apparecchio con una bottiglia, e un tubicino che andava
dalla bottiglia al bambino.
«Cos’è?», disse il padre.
«Glucosio», disse la madre.
Il marito posò una mano sulla nuca della donna.
«Si sveglierà», disse l’uomo.
«Lo so», disse la donna.
Dopo un po’ l’uomo disse: «Va’ a casa e lascia che resti qua io».
Lei scrollò il capo. «No», disse.
«Davvero», disse lui. «Va’ un po’ a casa. Non devi preoccuparti. Sta solo
dormendo».
Un’infermiera spalancò la porta. Fece loro un cenno con la testa andando
verso il letto. Prese il polso sinistro da sotto le coperte e scrisse qualcosa sulla
cartella medica attaccata al letto.
«Come sta?», disse la madre.
«Stazionario», disse l’infermiera. Poi disse: «Il medico passerà di nuovo tra
poco».
«Le stavo dicendo che farebbe bene a andare a casa a riposarsi un po’», disse
l’uomo. «Dopo che è venuto il medico».
«Non vedo perché no», disse l’infermiera. La donna disse: «Sentiamo prima
cosa dice il medico». Si mise una mano sugli occhi e piegò in avanti la testa.
L’infermiera disse: «Certo».
Il padre guardò suo figlio, il piccolo torace che si alzava e si abbassava sotto le
coperte. Aveva più paura adesso. Cominciò a scuotere la testa. Parlava tra sé. Il
bambino sta bene. Invece di dormire a casa, dorme qui. Il sonno è lo stesso
ovunque uno dorma.
Entrò il medico. Strinse la mano all’uomo. La donna si alzò dalla sedia.
«Ann», disse il medico e le fece un cenno col capo. Il medico disse: «Vediamo
come sta». Si avvicinò al letto e prese il polso del bambino. Sollevò prima una
palpebra e poi l’altra. Tirò indietro le coperte e gli auscultò il cuore. Premette con
le dita qua e là sul corpo. Andò ai piedi del letto e esaminò la cartella. Annotò
l’ora, scarabocchiò qualcosa sulla cartella e poi fissò il padre e la madre. Il medico
era un bell’uomo. Aveva la pelle liscia e abbronzata. Portava un completo col gilè,
una cravatta vivace, e una camicia con i gemelli.
La madre si stava dicendo queste cose. Deve aver fatto una comparsa in
pubblico. È da lì che arriva. Gli avranno dato una qualche medaglia.
Il medico disse: «Non c’è da cantare vittoria ma neppure da preoccuparsi. Fra
non molto dovrebbe svegliarsi». Il dottore guardò di nuovo il bambino. «Ne
sapremo di più quando arriveranno i risultati degli esami».
«Oh, no», disse la madre.
Il medico disse: «A volte capita di vedere fenomeni del genere».
Il padre disse: «Allora lei non crede che sia coma?»
Il padre attese la risposta e guardò il medico.
«No, non lo chiamerei in questo modo», disse il medico. «Sta dormendo. È un
sonno ristoratore. Il corpo sta facendo quello che deve fare».
«È coma», disse la madre. «Una specie di coma».
Il medico disse: «Io non lo chiamerei così».
Le prese le mani tra le sue con un gesto affettuoso. Salutò il marito.
La donna appoggiò le dita sulla fronte del bambino, e le tenne lì un po’. «Per lo
meno non ha la febbre», disse. Poi disse: «Non so. Senti tu».
L’uomo appoggiò la mano sulla fronte del bambino. Disse: «Penso che sia
normale».
La donna rimase lì in piedi ancora un po’, torturandosi le labbra coi denti. Poi
si avvicinò alla sedia e si sedette.
Il marito si sedette sulla sedia accanto a lei. Avrebbe voluto dire qualcos’altro.
Ma non sapeva proprio cosa. Le prese la mano e se la appoggiò sul ginocchio.
Questo lo fece sentire meglio. Lo fece sentire come se stesse dicendo qualcosa.
Restarono seduti così per un po’, guardando il bambino, senza parlare. Di tanto
in tanto, lui le stringeva la mano, finché lei non la tirò via. «Ho pregato», disse lei.
«Anch’io», disse il padre. «Ho pregato anch’io».
Entrò di nuovo un’infermiera a controllare il flusso del liquido nella bottiglia.
Entrò un medico e si presentò. Questo medico aveva i mocassini.
«Adesso lo portiamo da basso a fare altre lastre», disse. «Vogliamo fare anche
una stratigrafia».
«Una stratigrafia?» disse la madre. Stava in piedi tra questo nuovo medico e il
letto.
«Non è niente», disse lui.
«Mio Dio», disse lei.
Entrarono due infermieri. Spingevano una specie di letto con le ruote.
Staccarono il tubicino e fecero scivolare il bambino su quella cosa con le ruote.
Fu dopo l’alba che riportarono in camera il bambino del compleanno. Il padre
e la madre seguirono gli infermieri dentro l’ascensore e su fino in camera. Ancora
una volta i genitori si sedettero ai loro posti vicino al letto.
Attesero tutto il giorno. Il bambino non si svegliò. Il medico tornò ancora e
visitò di nuovo il bambino e uscì dopo avere detto ancora le stesse cose.
Entrarono le infermiere. Entrarono i medici. Entrò un infermiere diplomato che
fece un prelievo di sangue.
«Non capisco perché, questo», disse la madre.
«Ordini del medico», disse l’infermiere diplomato.
La madre andò alla finestra e guardò fuori nel parcheggio. C’erano macchine
con i fari accesi che entravano e uscivano. Lei restò alla finestra con le mani sul
davanzale. Parlava tra sé e si diceva: Questa volta ci siamo proprio dentro, dentro
qualcosa di tremendo. Aveva paura.
Vide un’auto fermarsi e una donna con un cappotto lungo salire sull’auto.
Immaginò di essere lei quella donna. Immaginò di essere lei che se ne andava via
con l’auto, lontano da lì.
Entrò il medico. Era abbronzato e più in forma che mai.
Si avvicinò al letto e visitò il bambino. Disse: «Le reazioni sono buone. Va tutto
bene».
La madre disse: «Ma continua a dormire».
«Sì», disse il medico.
Il marito disse: «È stanca. Non ha mangiato niente». Il medico disse: «Dovrebbe
riposare. Dovrebbe mangiare, Ann».
«Grazie», disse il marito.
Strinse la mano al medico e quello diede una leggera pacca sulle spalle a tutti
e due e uscì.
«Credo che uno di noi dovrebbe andare a casa a dare un’occhiata», disse
l’uomo. «Il cane deve mangiare».
«Telefona ai vicini», disse la moglie. «Qualcuno gli darà da mangiare se glielo
chiedi».
Cercò di pensare a chi si poteva dire. Chiuse gli occhi e si sforzò di pensare a
una cosa qualsiasi. Dopo un po’ disse: «Forse potrei farlo io. Forse se non sono
qui si sveglierà. Forse è perché sono qui a sorvegliarlo che non si sveglia».
«Ecco, magari è così», disse il marito.
«Vado a casa a fare un bagno e a mettermi qualcosa di pulito», disse la donna.
«Sì, fai bene», disse l’uomo.
Prese la borsetta. Il marito l’aiutò a infilarsi il cappotto.
Andò verso la porta, e si voltò. Guardò il bambino, e poi guardò il padre. Il
marito le fece un cenno con il capo e sorrise.
Passò davanti alla stanza delle infermiere e arrivò in fondo al corridoio; svoltò
e vide una piccola sala d’aspetto dove una famiglia stava seduta sulle sedie di
vimini: un uomo con una camicia cachi e un berretto da baseball cacciato
indietro sulla testa, una donna grassa con un vestito da casa e le pantofole, una
ragazza in jeans con i capelli annodati in tante piccole treccine, il tavolo tutto
pieno di pacchetti di sigarette vuoti, tazze da caffè e cucchiaini di plastica, e
bustine di sale e pepe. «Nelson», disse la donna. «È per Nelson?».
La donna sgranò gli occhi.
«Mi dica, signora», disse la donna. «È per Nelson?».
La donna stava cercando di alzarsi dalla sedia, ma l’uomo le teneva una mano
sul braccio.
«Sta’ buona, sta’ buona», disse l’uomo.
«Mi spiace», disse la madre. «Sto cercando l’ascensore. Mio figlio è in ospedale.
Non riesco a trovare l’ascensore».
«L’ascensore è da quella parte», disse l’uomo, e puntò il dito nella direzione
giusta.
«Mio figlio è stato investito da un’auto», disse la madre. «Ma se la caverà. Ora è
sotto shock, ma potrebbe anche essere una specie di coma. È questo che ci
preoccupa, questo fatto del coma. Io adesso esco un pochino. Magari faccio un
bagno. Ma c’è mio marito con lui. Ci sta attento lui. C’è una possibilità che le cose
cambino mentre sono via. Il mio nome è Ann Weiss».
L’uomo si mosse sulla sedia. Scrollò la testa.
Disse: «Il nostro Nelson».
Lei entrò con l’auto nel vialetto. Il cane sbucò da dietro la casa. Cominciò a
correre in tondo sull’erba. Lei chiuse gli occhi e appoggiò la testa al volante.
Ascoltò il rumore del motore.
Scese dall’auto e andò alla porta. Accese le luci e mise sul fuoco l’acqua per il
tè. Aprì una scatoletta e diede da mangiare al cane. Si sedette sul divano con il tè.
Il telefono squillò.
«Sì!», disse. «Pronto!», disse.
«La signora Weiss», disse la voce di un uomo.
«Sì», disse. «Parla la signora Weiss. È per Scotty?».
«Scotty», disse la voce. «Per Scotty», disse la voce. «Sì, a proposito di Scotty, sì».
Di’ alle donne che usciamo
Bill Jamison era sempre stato grande amico di Jerry Roberts. Erano cresciuti
tutti e due nella zona a sud della città, vicino al vecchio spiazzo del circo, erano
andati insieme alle elementari e alle medie, e dopo all’Eisenhower, dove, appena
possibile, avevano scelto gli stessi professori, si erano scambiati le camicie, i
maglioni e i pantaloni a tubo, e avevano corteggiato e scopato le stesse ragazze
-quelle che ci stavano, è naturale.
D’estate facevano dei lavoretti insieme - potavano i peschi, raccoglievano
ciliegie, legavano il luppolo, - insomma qualsiasi cosa che fruttasse un po’ di soldi
e dove non ci fosse un padrone sempre lì a romperti le scatole. E poi insieme
comprarono un’auto. L’estate prima del loro ultimo anno di scuola misero insieme
i soldi e per 325 dollari comprarono una Plymouth rossa del ’54.
Se la dividevano. Andava tutto bene.
Ma poco prima della fine del primo semestre Jerry si sposò e lasciò la scuola
per un lavoro regolare da Robby e Mart (catena di supermercati N.d.T.). Quanto a
Bill, anche lui era uscito con quella ragazza. Si chiamava Carol e andava proprio
d’accordo con Jerry, e Bill andava a trovarli ogni volta che poteva. Lo faceva
sentire più grande, avere degli amici sposati. Andava da loro a pranzo o a cena, e
dopo magari ascoltavano Elvis o Bill Haley e i Comets. Ma qualche volta Carol e
Jerry cominciavano a pomiciare quando Bill era ancora lì e allora gli toccava
alzarsi, scusarsi e andare a piedi fino alla stazione di servizio Derzon a prendere
una Coca, perché c’era solo quel letto ribaltabile del soggiorno in tutto
l’appartamento. Oppure qualche volta Jerry e Carol si ficcavano in bagno, e Bill
doveva andare in cucina e far finta di guardare con interesse le tazze e il
frigorifero, sforzandosi di non sentire.
Smise perciò di andarci così spesso; e poi in giugno si diplomò, trovò lavoro
allo stabilimento Darigold, e entrò nei servizi dell’amministrazione locale. In capo
a un anno aveva una zona di distribuzione del latte tutta sua e faceva coppia
fissa con Linda. Per cui ora Bill e Linda andavano da Jerry e Carol, a bere birra e
sentire i dischi.
Carol e Linda andavano d’accordo, e Bill si era sentito molto lusingato quando
Carol gli aveva detto, in tono confidenziale, che Linda era proprio «una ragazza in
gamba».
Linda piaceva anche a Jerry. «È fantastica», diceva Jerry.
Quando Bill e Linda si sposarono Jerry fece da testimone. Il ricevimento era al
Donnelly Hotel, naturalmente, e Jerry e Bill fecero un gran casino tenendosi
sottobraccio e tracannando bicchieri di ponce. Ma a un tratto, in mezzo a tutta
quell’allegria, Bill guardò Jerry e pensò che sembrava molto più vecchio, molto
più vecchio dei suoi ventidue anni. A quell’epoca Jerry era padre felice di due
bambini ed era passato vicedirettore da Robby’s; quanto a Carol, ne aveva in
cantiere un altro.
Si vedevano tutti i sabati e le domeniche, anche più spesso se era vacanza.
Quando era bel tempo andavano da Jerry a cucinare hot dogs sul barbecue e a
far giocare i bambini nella piscina di plastica che Jerry aveva comprato a un
prezzo davvero stracciato, come tante altre cose che aveva preso al Mart.
Jerry aveva una bella casa su una collina da cui si vedeva il fiume Naches.
Intorno c’erano altre case, ma non troppo vicine. Jerry se la passava bene.
Quando Bill e Linda e Jerry e Carol si vedevano, era sempre a casa di Jerry
perché Jerry aveva il barbecue e i dischi e troppi bambini da tirarsi dietro.
Successe una domenica a casa di Jerry.
Le donne erano in cucina a mettere in ordine. Le bambine di Jerry erano fuori
in giardino che buttavano una palla di plastica in piscina, gridando, e tuffandosi
in acqua per riprenderla. Jerry e Bill stavano nel patio, seduti sulle sedie a sdraio
a bere birra e a godersi un po’ di riposo.
A parlare era soprattutto Bill - parlava di gente che conoscevano, della
Darigold, della Pontiac Catalina quattro porte che voleva comprarsi.
Jerry fissava il filo del bucato, oppure la Chevy coupé del ‘68 nel garage. Bill
ebbe l’impressione che Jerry stesse pensando ai fatti suoi, perché se ne stava lì
con lo sguardo fisso e quasi non apriva bocca.
Bill si agitò sulla sedia e accese una sigaretta.
Disse: «Qualcosa non va? Puoi dirmelo, sai».
Jerry finì la sua birra e poi stritolò la lattina.
Alzò le spalle.
«Sai com’è», disse.
Bill annuì.
Poi Jerry disse: «Che ne diresti di fare un giro?».
«Mi sembra una buona idea», disse Bill. «Vado a dire alle donne che usciamo».
Presero l’autostrada del Naches River fino a Gleed; guidava Jerry. Era una
bella giornata, calda, e il vento entrava dai finestrini.
«Dove si va?», disse Bill.
«A fare un paio di tiri», disse Jerry.
«Per me va bene», disse Bill. Si sentì più sollevato nel vedere che Jerry si stava
rasserenando.
«Un uomo ha bisogno di uscire ogni tanto», disse Jerry. Guardò Bill: «Lo sai,
no, cosa voglio dire?».
Bill capì. A lui piaceva uscire con quelli dello stabilimento per andare al
bowling il venerdì sera. Gli piaceva fermarsi a bere qualche birra con Jack
Broderick un paio di volte alla settimana, dopo il lavoro. Sapeva bene che un
uomo ha bisogno di uscire ogni tanto.
«È ancora in piedi», disse Jerry, fermandosi sulla ghiaia davanti al Ree Center.
Entrarono: Bill tenne la porta aperta a Jerry, Jerry, passando, diede a Bill un
leggero pugno sullo stomaco.
«Salve!»
Era Riley.
«Ehi, come state, ragazzi?».
Riley uscì fuori da dietro il banco, sorridendo. Era un omaccione. Portava una
camicia hawaiana a maniche corte, fuori dai jeans. Disse: «Allora ragazzi, come ve
la passate?».
«Ah, sta’ zitto e dacci un paio di Olys», disse Jerry, strizzando l’occhio a Bill.
«Allora, come va, Riley?».
Riley disse: «Allora ragazzi, cosa fate? Dov’eravate spariti? Avete qualche giro,
eh? Jerry, l’ultima volta che ti ho visto la tua vecchia era già di sei mesi».
Jerry rimase un attimo immobile e sbatté le palpebre.
«Allora, queste birre?», disse Bill.
Si sedettero sugli sgabelli vicino alla finestra. Jerry disse: «Riley, ma che razza
di posto è questo che non c’è nemmeno una ragazza di domenica pomeriggio?».
Riley rise. Disse: «Secondo me sono tutte andate in chiesa a pregare sempre
per la solita cosa».
Si scolarono cinque lattine di birra a testa e passarono due ore giocando tre
partite a biliardo semplice e due a carambola, con Riley seduto sullo sgabello che
parlava e li guardava giocare, e Bill che continuava a guardare prima l’orologio e
poi Jerry.
Bill disse: «Allora Jerry, che ti succede? Eh? Che ti succede?».
Jerry scolò fino in fondo la sua lattina, la stritolò e restò lì a rigirarsela in
mano.
Di nuovo sull’autostrada, Jerry andò a tutto gas, con punte di centoquaranta,
centoquarantacinque. Avevano appena sorpassato un vecchio camioncino carico
di mobili, quando videro le due ragazze. «Guarda là», disse Jerry rallentando.
«Quelle me le farei volentieri».
Jerry proseguì più o meno per un chilometro e poi accostò. «Torniamo
indietro», disse. «Proviamoci». «Cristo», disse Bill. «Non so». «Io me le farei», disse
Jerry. Bill disse: «Già, ma io non so». «Oh, Cristo», disse Jerry.
Bill diede un’occhiata all’orologio e poi si guardò intorno. Disse: «Ci parli tu? Io
sono arrugginito». Jerry cacciò un urlo e con una brusca sterzata partì a tutta
velocità.
Quando fu quasi all’altezza delle ragazze rallentò. Accostò la Chevy alla
banchina, superandole. Le ragazze continuarono a pedalare, ma si scambiarono
un’occhiata e risero. Quella più all’interno era alta e sottile, e aveva i capelli scuri.
L’altra era piccolina e coi capelli chiari. Portavano tutt’e due pantaloni corti e top.
«Puttane», disse Jerry. Lasciò passare le altre auto e poi fece un’inversione a
U.
«Io prendo la mora», disse. «La piccola è tua».
Bill si appoggiò allo schienale e si toccò la sbarretta in mezzo agli occhiali da
sole. «Non ci staranno proprio per niente», disse Bill.
«Stavolta te le trovi dalla tua parte», disse Jerry. Attraversò la strada e tornò
indietro. «Tienti pronto», disse Jerry.
«Salve», disse Bill quando si trovarono affiancati. «Mi chiamo Bill».
«Carino», disse la mora.
«Dove state andando?», disse Bill.
Le ragazze non risposero. Quella piccola rise. Continuarono a pedalare e Jerry
tenne la loro andatura.
«Dai, forza, dove state andando?», disse Bill.
«In nessun posto», disse la piccola.
«E cioè?», disse Bill.
«Ti piacerebbe saperlo, vero?», disse la piccola.
«Io ti ho detto il mio nome», disse Bill. «Perché non mi dici il tuo? Quello del
mio amico è Jerry», disse Bill.
Le ragazze si guardarono e risero. Dietro arrivò un’auto. Il tipo sonò il clacson.
«Fottiti!», gridò Jerry. Accostò un po’ per lasciare passare l’auto. Poi si portò di
nuovo a fianco delle ragazze.
Bill disse: «Vi diamo un passaggio. Vi portiamo dove volete. Promesso. Sarete
stanche di pedalare. Avete proprio l’aria stanca. Troppo moto non fa bene.
Soprattutto a delle ragazze».
Le ragazze risero.
«Visto?», disse Bill. «Ora diteci come vi chiamate».
«Io mi chiamo Barbara e lei Sharon», disse quella piccola.
«Benissimo!», disse Jerry. «Ora scopri dove stanno andando».
«Dove andate ragazze?», disse Bill. «Barb?».
Lei si mise a ridere. «In nessun posto», disse. «Solo in fondo alla strada».
«Dove in fondo alla strada?».
«Devo dirglielo?», disse lei all’altra ragazza.
«A me non importa», disse quella. «Non mi interessa», disse. «Tanto non vado
da nessuna parte con nessuno, comunque», disse quella che si chiamava Sharon.
«Dove state andando?», disse Bill. «Andate al Picture Rock?».
Le ragazze risero.
«Ecco dove stanno andando», disse Jerry.
Diede un colpo di acceleratore e si accostò alla banchina in modo che stavolta
le ragazze si sarebbero trovate dalla sua parte.
«Non fate così», disse Jerry. Disse: «Forza». Disse: «Ci siamo tutti presentati
no?».
Le ragazze continuarono a pedalare.
«Non mordo mica!», gridò Jerry.
La mora si voltò a guardarlo. Jerry ebbe l’impressione che lo guardasse
proprio in quel certo modo. Ma con una ragazza non si può mai dire.
Jerry lanciò di nuovo l’auto sulla strada, facendo schizzar via terra e sassi da
sotto le ruote.
«Ci vediamo!», disse Bill, passando accanto a tutta velocità.
«È fatta», disse Jerry. «Hai visto che occhiata mi ha dato quella figa?».
«Non so», disse Bill. «Forse dovremmo filarcela a casa».
«Ma se è fatta!» disse Jerry.
Lasciò la strada e andò a fermarsi sotto gli alberi. Qui a Picture Rock la strada
si divideva, da una parte si continuava in direzione di Yakima, dall’altra per
Naches, Enumclaw, il passo Chinook, Seattle.
A un centinaio di metri dalla strada c’era uno sperone di roccia scura, alto e
ripido, parte di una bassa catena di colline, tutte segnate da sentieri e piccole
grotte che qui e là sulle pareti avevano tracce di pitture murali indiane. La parte
della roccia a strapiombo dava sull’autostrada ed era tutta coperta di scritte
come:
NACHES 67 - GLEED WILDCATS
(squadre locali di football N.d.T.)
- DIO TI AMA - BATTETE YAKIMA!
PENTITI ADESSO.
Rimasero seduti in auto a fumare. Dai finestrini entravano zanzare che
cercavano di posarsi sulle loro mani.
«Se avessimo una birra adesso», disse Jerry. «Mi andrebbe proprio una birra»,
disse.
Bill disse: «Anche a me», e guardò l’orologio.
Quando apparvero le ragazze, Jerry e Bill scesero dall’auto. Si appoggiarono al
parafango anteriore. «Ricorda», disse Jerry, allontanandosi dall’auto, «la mora è
mia. Tu prendi l’altra».
Le ragazze lasciarono le biciclette e imboccarono un sentiero. Scomparvero
dietro una curva, e poi riapparvero di nuovo, un po’ più in alto. Restarono lassù a
guardare di sotto.
«Perché ci seguite voi due?», disse la mora.
Jerry si incamminò su per il sentiero.
Le ragazze si voltarono e se ne andarono via correndo.
Jerry e Bill continuarono a salire piano. Bill stava fumando una sigaretta, e
ogni tanto si fermava a dare un tiro. A una curva del sentiero, si voltò indietro e
intravide l’auto.
«Muoviti!», disse Jerry.
«Arrivo», disse Bill.
Continuarono ad arrampicarsi. Ma poi Bill si fermò a prender fiato. Non
vedeva più l’auto adesso. Non vedeva più nemmeno la strada. Alla sua sinistra,
giù in basso, riusciva a vedere una lingua del fiume Naches che pareva una
striscia di carta metallizzata.
Jerry disse: «Tu va’ a destra, io vado dritto. Così le pigliamo in trappola, quelle
due pollastre».
Bill annuì. Era troppo spompato per parlare.
Salì ancora per un po’, e poi il sentiero cominciò a scendere, girando verso la
valle. Guardò giù e vide le ragazze. Le vide rannicchiate dietro una roccia. Forse
stavano ridacchiando.
Bill tirò fuori una sigaretta. Ma non riuscì ad accenderla. Poi comparve Jerry.
Ma sì, non gliene importava un fico.
Bill aveva solo avuto voglia di scopare. O anche solo di vederle nude. Però, se
la cosa non andava in porto, per lui faceva lo stesso.
Non capì mai che cosa volesse Jerry. Ma tutto cominciò e finì con una pietra.
Jerry usò la stessa pietra su tutte e due le ragazze, prima su quella che si
chiamava Sharon e poi su quella che doveva essere di Bill.
Dopo i jeans
Edith Packer aveva l’auricolare del registratore nell’orecchio e fumava una
sigaretta del marito. Il televisore era acceso, ma senza il sonoro, e lei se ne stava
accoccolata sul divano a sfogliare una rivista. James Packer uscì dalla stanza
degli ospiti, la stanza che aveva adibito a ufficio, e Edith
Packer si tolse l’auricolare dall’orecchio. Mise la sigaretta nel posacenere e
tese il piede agitando le dita in segno di saluto.
Lui disse: «Andiamo o no?». «Io vado», disse lei.
A Edith Packer piaceva la musica classica. A James Packer no.
Era un ragioniere in pensione. Ma teneva ancora la contabilità di qualche
vecchio cliente e non gli piaceva sentire la musica quando lavorava.
«Se vogliamo andare, andiamo».
Guardò il televisore, e poi andò a spegnerlo.
«Io vado», disse lei.
Chiuse la rivista e si alzò. Uscì dalla stanza e andò di là.
Lui la seguì per assicurarsi che la porta sul retro fosse chiusa e che la luce del
portico fosse accesa. Poi rimase in soggiorno e aspettò un bel po’.
Ci volevano dieci minuti di auto per andare al circolo sociale, il che voleva dire
che si sarebbero persi la prima partita.
C’era un vecchio camioncino tappezzato di adesivi nel posto dove di solito
James parcheggiava l’auto, e così dovette proseguire fino alla fine dell’isolato.
«Un mucchio di auto stasera», disse Edith Packer.
«Ce ne sarebbero state di meno se fossimo arrivati puntuali», disse lui.
«Ce ne sarebbero state molte lo stesso. Solo che non le avremmo viste». Gli
diede un pizzicotto sulla manica, così per scherzo.
James disse: «Edith, se vogliamo giocare a tombola, dobbiamo arrivare in
orario». «Zitto», disse Edith Packer.
James trovò un posto per parcheggiare e ci si infilò. Spense il motore e i fari.
Disse: «Non so se stasera avrò fortuna. Sentivo di avere fortuna mentre facevo le
tasse di Howard. Ma ora no. Non è certo una fortuna dover fare mezzo chilometro
a piedi solo per andare a giocare».
«Stammi vicino», disse Edith Packer. «Sentirai che la fortuna è con te».
«Per il momento non mi sembra», disse James. «Blocca la portiera».
C’era una brezza fredda. James tirò su la cerniera della giacca a vento fino al
collo, e lei chiuse bene il cappotto. Si sentivano le onde frangersi sulle rocce ai
piedi della scogliera dietro l’edificio. Lei disse: «Prima vorrei una delle tue
sigarette».
Si fermarono sotto il lampione all’angolo. Era un lampione mezzo sgangherato,
tenuto su con cavi di rinforzo. I cavi oscillavano nel vento, creando ombre
sull’asfalto.
«Quando smetterai di fumare?», disse lui, accendendosi una sigaretta dopo
avere acceso quella di Edith.
«Quando smetterai tu», disse lei. «Smetterò quando smetterai tu. Proprio come
quando hai smesso di bere. Così. Come te».
«Potrei insegnarti a lavorare a piccolo punto», disse lui.
«Uno che ricama in casa è più che sufficiente», disse lei.
La prese per il braccio e continuarono a camminare.
Quando giunsero all’ingresso, lei buttò per terra la sigaretta e la calpestò.
Salirono su per la scala fino al foyer. Nel locale c’era un divano, un tavolo di
legno, e alcune sedie pieghevoli accatastate. Alle pareti erano appese fotografie di
barche da pesca e di navi, tra cui una dove si vedeva una barca capovolta, con un
uomo in piedi sulla chiglia che agitava le braccia.
I Packer attraversarono il foyer, e quando infilarono il corridoio James prese
Edith per il braccio. In fondo al corridoio, accanto alla porta, alcune signore del
circolo prendevano nota di quelli che entravano nella grande sala dove una donna
in piedi sul palco annunciava i numeri della partita che era già iniziata.
I Packer si affrettarono verso il loro solito tavolo. Ma il posto dei Packer era
occupato da una giovane coppia.
Sia la ragazza sia l’uomo con i capelli lunghi che l’accompagnava, erano in
jeans. Lei aveva addosso anelli, braccialetti e orecchini che la facevano luccicare
tutta nella luce lattiginosa. Proprio quando i Packer si avvicinarono, la ragazza si
girò verso il tipo che era con lei, e indicò un numero sulla sua cartella. Poi gli
pizzicò il braccio.
L’uomo portava i capelli tirati all’indietro, annodati dietro la testa, e i Packer
notarono anche un’altra cosa, un anellino d’oro al lobo dell’orecchio.
James condusse Edith a un altro tavolo, girandosi di nuovo a guardarli prima
di sedersi. Si levò la giacca a vento e aiutò Edith a togliersi il cappotto, e poi
squadrò la coppia che aveva occupato il loro posto. La ragazza verificava le sue
cartelle man mano che venivano estratti i numeri, piegandosi in avanti per
controllare anche quelle dell’uomo, come se, pensò James, quel tipo non fosse
capace di badare da solo ai suoi numeri.
James prese la pila di cartelle per la tombola, che era stata preparata sul
tavolo. Ne diede la metà a Edith.
«Scegline qualcuna vincente», disse. «Perché io prenderò le prime tre sopra. È
inutile che le scelga. Edith, questa sera sento di non avere fortuna».
«Non badarci», disse lei. «Non fanno male a nessuno. Sono solo giovani, tutto
qua».
Lui disse: «Ma questa è la solita tombola del venerdì sera per quelli del
circolo».
«È un paese libero», disse lei.
Gli restituì la pila di cartelle. Lui le posò dall’altra parte del tavolo. Poi tutti e
due presero un po’ di fagioli dalla scodella.
James sfilò un biglietto da un dollaro dal rotolo che teneva per le serate di
tombola. Mise il dollaro vicino alle sue cartelle. Una delle signore del circolo, una
donna magra con i capelli azzurrini e una macchia sul collo - i Packer la
conoscevano solo come Alice - tra poco sarebbe arrivata con un barattolo del
caffè. Avrebbe ritirato le monete e scambiato le banconote, tirando fuori il resto
dal barattolo. Era questa, o un’altra donna, a pagare le vincite.
La donna sul palco annunciò «1-25», e qualcuno nella sala gridò «Tombola!».
Alice si fece largo tra i tavoli. Prese la cartella vincente e la tenne in mano
mentre la donna sul palco leggeva i numeri vincenti.
«È proprio tombola», confermò Alice.
«Quella tombola, signori e signore, vale dodici dollari!», annunciò la donna sul
palco. «Congratulazioni al vincitore!».
I Packer giocarono altre cinque partite senza risultato.
James ci andò vicino, una volta, con una delle sue cartelle. Ma poi furono
estratti cinque numeri di fila che lui non aveva, e il quinto fece fare tombola a
qualcun altro.
«Stavi quasi per farcela», disse Edith. «Tenevo d’occhio la tua cartella». - «Una
vera tortura», disse James.
Inclinò la cartella e si fece scivolare i fagioli nella mano. Chiuse la mano a
pugno. Fece ballare i fagioli nel pugno. Ricordò qualcosa di un ragazzo che aveva
buttato dei fagioli dalla finestra. Era un ricordo molto lontano, che lo rese
malinconico.
«Cambiamo cartelle magari», disse Edith.
«Non è la mia serata», disse James.
Guardò di nuovo la giovane coppia. Stavano ridendo per qualcosa che aveva
detto l’uomo. James notò che non facevano caso a nessuno nella sala.
Alice fece un giro per raccogliere i soldi della partita successiva, e James,
appena fu estratto il primo numero, vide il tipo con i jeans posare un fagiolo su
una cartella che non aveva pagato. Fu estratto un altro numero, e James vide che
il tipo rifaceva la stessa cosa. Era strabiliato. Non riusciva a concentrarsi sulle
sue cartelle. Continuava ad alzare lo sguardo per vedere cosa faceva il tipo con i
jeans.
«James, guarda le tue cartelle», disse Edith. «Non hai segnato N-34. Sta
attento».
«Quel tipo laggiù al nostro posto sta barando. Non riesco a credere ai miei
occhi», disse James. «Come fa a barare?», disse Edith.
«Sta giocando su una cartella che non ha pagato», disse James. «Qualcuno
dovrebbe denunciarlo».
«Non tu, caro», disse Edith. Parlava adagio e cercava di tenere gli occhi sulle
sue cartelle. Mise un fagiolo su un numero.
«Quel tipo sta barando», disse James.
Lei tirò fuori un fagiolo dal palmo della mano e lo mise su un numero. «Gioca
sulle tue cartelle», disse Edith.
Lui vi gettò un’occhiata. Ma sapeva che avrebbe anche potuto lasciar perdere,
per questa partita. Chissà quanti numeri si era perso, quanto era rimasto
indietro. Strinse forte i fagioli nel pugno.
La donna sul palco annunciò: «G-60».
Qualcuno urlò: «Tombola!».
«Cristo!», disse James Packer.
Venne annunciato un intervallo di dieci minuti. La prima partita dopo
l’intervallo sarebbe stata un Blackout, un dollaro a cartella, chi vince prende
tutto, novantotto dollari il monte premi di questa settimana.
Ci furono fischi e applausi.
James osservò la coppia. L’uomo guardava fisso il soffitto toccandosi l’anellino
all’orecchio. La ragazza gli teneva una mano sulla gamba.
«Devo andare in bagno», disse Edith. «Dammi le tue sigarette».
James disse: «Io intanto vado a prendere qualche biscotto con l’uva passa e
un po’ di caffè».
«Io vado in bagno», disse Edith.
Ma James Packer non andò a prendere i biscotti e il caffè.
Andò a mettersi dietro la sedia del tipo con i jeans. «Lo vedo quello che fai»,
disse James. L’uomo si voltò.
«Scusi?», disse fissandolo. «Che cos’è che faccio?».
«Lo sai», disse James.
La ragazza lasciò a mezzo il biscotto che stava mangiando.
«Uomo avvisato», disse James. Tornò al suo tavolo. Stava tremando.
Quando Edith tornò, gli restituì le sigarette e si sedette, senza parlare; non era
del suo solito umore. James la guardò attentamente. Disse: «Edith, è successo
qualcosa?».
«Ho di nuovo delle perdite», disse.
«Perdite?», disse lui. Ma sapeva bene cosa voleva dire. «Perdite», disse ancora,
sottovoce.
«Oh, cielo», disse Edith Packer, prendendo in mano le cartelle e facendole
passare per sceglierle. «Sarà bene che torniamo a casa», disse lui.
Lei continuava a scegliere le cartelle. «No, restiamo», disse. «Sono solo perdite,
tutto qui».
Lui le toccò la mano.
«Restiamo», disse lei. «Andrà tutto a posto».
«Questa è la peggior serata di tombola della storia», disse James Packer.
Giocarono a Blackout, con James che teneva d’occhio il tipo coi jeans. Quello
aveva ricominciato, stava di nuovo giocando su una cartella che non aveva
pagato. Di tanto in tanto, James controllava come stava Edith. Ma non riusciva a
capire. Teneva le labbra strette. Poteva significare tutto: decisione,
preoccupazione, dolore. O forse era solo che le piaceva tenere le labbra strette per
questo particolare tipo di gioco.
A lui mancavano solo tre numeri su una cartella, cinque su un’altra, e non
aveva alcuna possibilità sulla terza, quando l’uomo coi jeans cominciò a urlare:
«Tombola! Tombola! Tombola! Una tombola, qui!».
Il tipo batteva le mani e urlava insieme alla ragazza. «Ha fatto tombola! Ha
fatto tombola, gente! Tombola!».
Il tipo coi jeans continuava ad applaudire.
Fu proprio la donna del palco ad avvicinarsi al tavolo della ragazza per
controllare i numeri con quelli del tabellone.
Disse: «Questa ragazza ha fatto tombola, e questa è una vincita da novantotto
dollari! Facciamole un bell’applauso, signori! C’è una tombola qui! Un Blackout.».
Edith applaudì insieme agli altri. Ma James tenne le mani sul tavolo.
Il tipo coi jeans abbracciò la ragazza quando dal palco la donna le consegnò la
vincita.
«Li useranno per comprarsi la droga», disse James.
Restarono per tutte le altre tombole. Restarono fino all’ultimo gioco. Questo si
chiamava Progressive, e il monte premi aumentava di settimana in settimana se
nessuno faceva tombola dopo un certo numero di estrazioni.
James puntò i suoi soldi e controllò le sue cartelle senza alcuna speranza di
vincere. Aspettava che il tipo coi jeans urlasse «Tombola!».
Ma non vinse nessuno, e il monte premi sarebbe rimasto per la settimana
successiva, più ricco che mai.
«Fine della tombola per stasera!», proclamò la signora sul palco. «Grazie a tutti
per essere venuti. Dio vi benedica e buona notte».
I Packer si misero in coda con tutti gli altri per uscire dalla sala, riuscendo in
qualche modo a infilarsi dietro al tipo coi jeans e alla sua ragazza. La videro che
si toccava tutta soddisfatta la tasca. La videro passare un braccio intorno alla vita
di lui.
«Lasciamoli andare avanti questi due», disse James all’orecchio di Edith. «Mi
dà fastidio vederli». Edith non rispose. Ma restò un po’ indietro per dare alla
coppia il tempo di allontanarsi.
Fuori, si era levato il vento. James era convinto di sentire il rumore delle onde
sopra quello dei motori che si avviavano. Vide la coppia fermarsi al camioncino.
Ma sicuro. Avrebbe dovuto capirlo subito.
«Bischero», disse James Packer.
Edith andò in bagno e chiuse la porta. James si tolse la giacca a vento e
l’appoggiò sullo schienale del divano. Accese il televisore e si sedette ad aspettare.
Dopo un po’ Edith uscì dal bagno. James cercò di concentrare la sua
attenzione sulla televisione. Edith andò in cucina e fece scorrere l’acqua. James
la sentì chiudere il rubinetto. Edith entrò nella stanza e disse:
«Domattina andrò dal dottor Crawford. Mi sembra che stia proprio succedendo
qualcosa là sotto».
«Fortuna schifosa», disse James.
Lei restò lì in piedi, scrollando la testa.
Quando James le si avvicinò per prenderla tra le braccia, lei si coprì gli occhi e
si appoggiò a lui. «Edith, carissima Edith», disse James Packer.
Si sentiva goffo e terrorizzato. Restò lì in piedi, sorreggendo più o meno con le
braccia sua moglie. Lei si protese verso il viso di lui e lo baciò sulle labbra, e poi
gli augurò la buona notte.
Lui andò al frigorifero. Rimase davanti alla porta aperta, a bere succo di
pomodoro e a esaminare tutto quello che c’era dentro. Sentì l’aria fredda sulla
faccia. Guardò i pacchetti e i contenitori per il cibo sui ripiani, un pollo coperto
con un foglio di plastica, tutte le cose avvolte per bene, ordinate. Richiuse la porta
e sputò l’ultimo sorso di succo di pomodoro nel lavandino. Poi si sciacquò la
bocca e si preparò una tazza di caffè solubile. Se la portò in soggiorno. Si sedette
davanti al televisore e accese una sigaretta. Si rese conto che bastava un niente
per mandare tutto in malora. Fumò e finì il suo caffè, e poi spense il televisore.
Andò fino alla porta della camera da letto e rimase un po’ ad ascoltare. Si
vergognò di stare a origliare, di starsene lì in piedi.
Perché non qualcun altro? Perché non quei due di stasera? Perché non tutti
quelli che non hanno mai problemi? Perché non loro invece di Edith?
Si allontanò dalla porta della camera da letto. Pensò di uscire a fare quattro
passi. Ma adesso il vento soffiava molto forte, tanto che si sentivano gemere i
rami della betulla dietro casa.
Tornò a sedersi davanti al televisore. Ma non l’accese. Fumò e pensò al modo
di camminare arrogante e disinvolto di quei due quando gli erano passati davanti.
Se soltanto l’avessero saputo! Se qualcuno almeno glielo avesse detto. Anche solo
una volta!
Chiuse gli occhi. Si sarebbe alzato presto e avrebbe preparato la colazione.
L’avrebbe accompagnata dal dottor Crawford. Se a quei due fosse toccato di stare
con lui nella sala d’aspetto! Glielo avrebbe detto lui che cosa c’era da aspettarsi!
Li avrebbe messi a posto lui quei due stronzi.
Gli avrebbe detto cosa si dovevano aspettare dopo i jeans e gli orecchini, le
toccatine e il barare al gioco.
Si alzò e andò nella stanza degli ospiti, e accese la lampada sopra il letto.
Diede un’occhiata alle sue carte, ai registri dei conti e alla calcolatrice sul tavolo.
In un cassetto trovò un pigiama. Tirò giù le coperte del letto. Poi uscì dalla stanza
e attraversò tutta la casa spegnendo le luci e controllando le porte. Restò un po’
alla finestra di cucina a guardare l’albero agitato dal vento.
Lasciò accesa la luce del portico e tornò nella stanza degli ospiti. Spostò il
cestino del lavoro a maglia, prese il suo cestino da ricamo, e si sistemò sulla
sedia. Alzò il coperchio e tirò fuori il telaio di metallo. Teso sopra, c’era un panno
di lino bianco. Tenendo l’ago sottile contro luce, James Packer infilzò la cruna con
una gugliata di seta azzurra. Poi si mise al lavoro - punto dopo punto -
immaginandosi di agitare le braccia come l’uomo sulla chiglia.
Tanta acqua così vicino a casa
Mio marito mangia con molto appetito. Ma non credo che abbia veramente
fame. Mastica, con le braccia sul tavolo, e fissa qualcosa sulla parete di fronte.
Guarda verso di me, poi distoglie lo sguardo. Si pulisce la bocca col tovagliolo.
Alza le spalle, e continua a mangiare.
«Perché mi fissi?», dice. «Cosa c’è?», dice posando la forchetta.
«Ti stavo fissando?», dico scuotendo la testa.
Suona il telefono.
«Non rispondere», dice lui.
«Potrebbe essere tua madre», dico io.
«Prova a sentire», dice.
Io alzo la cornetta e ascolto. Mio marito smette di mangiare.
«Cosa ti avevo detto?», dice quando riattacco. Ricomincia a mangiare. Poi
butta il tovagliolo sul piatto. Dice: «Accidenti, perché la gente non si fa gli affari
suoi? Ditemi cosa ho fatto di male e allora vi darò retta. Non ero l’unico uomo
presente. Ne abbiamo discusso e abbiamo preso una decisione tutti insieme. Non
potevamo andarcene. Eravamo a otto chilometri dalla macchina. Non ti permetto
di giudicare. Capito?».
«Tu lo sai», dico io.
Lui dice: «Che cosa so, Claire? Dimmi cosa dovrei sapere. Io non so niente
tranne una cosa». Mi rivolge quella che, secondo lui, è un’occhiata carica di
significato. «Era morta», dice. «E mi dispiace come potrebbe dispiacere a
chiunque. Ma era morta». «Questo è il punto», dico io.
Alza le mani. Spinge via la sedia dal tavolo. Prende le sigarette e va fuori in
giardino con una lattina di birra. Lo vedo sedersi sulla sdraio e riprendere in
mano il giornale.
Il suo nome è in prima pagina. Insieme ai nomi dei suoi amici.
Chiudo gli occhi e mi aggrappo al lavandino. Poi passo il braccio sullo
scolatoio e butto tutti i piatti per terra.
Lui non si muove. Lo so che ha sentito. Alza la testa come se stesse ancora
ascoltando. Per il resto non si muove. Non si volta.
Lui, Gordon Johnson, Mel Dorn e Vern Williams giocano a poker e a bowling e
vanno a pesca. Vanno a pesca in primavera e all’inizio dell’estate, per evitare le
visite dei parenti. Sono uomini perbene, padri di famiglia, uomini che hanno a
cuore il proprio lavoro. Hanno figli e figlie che vanno a scuola con nostro figlio
Dean.
Venerdì scorso questi padri di famiglia partirono per andare al Naches River.
Lasciarono la macchina in montagna e proseguirono a piedi fino al punto in cui
intendevano pescare. Si portarono dietro i sacchi a pelo, le provviste, le carte da
gioco, il whiskey.
Videro la ragazza prima ancora di piantare le tende. La trovò Mel Dorn.
Addosso non aveva nulla. Era incastrata tra i rami che si affacciavano sull’acqua.
Chiamò gli altri che accorsero a vedere. Discussero sul da farsi. Uno degli
uomini - il mio Stuart non ha detto chi - sosteneva che era bene tornare subito
indietro. Gli altri pesticciavano la sabbia, dicendo che non se la sentivano.
Tirarono in ballo la stanchezza, l’ora tarda, il fatto che tanto la ragazza di lì non si
sarebbe mossa.
Alla fine decisero di piantare le tende. Accesero il fuoco e bevvero whiskey.
Quando si alzò la luna, parlarono della ragazza. Qualcuno disse che bisognava
impedire al corpo di scivolare via. Presero le torce e tornarono al fiume. Uno degli
uomini - potrebbe essere stato Stuart - entrò nell’acqua per recuperare la
ragazza. La prese per le dita e la tirò sulla riva. Prese una corda di nylon, gliela
legò intorno ai polsi assicurando l’altro capo a un albero.
La mattina dopo prepararono la colazione, bevvero caffè e whiskey, poi,
ognuno per conto proprio, andarono a pescare. Quella sera cucinarono pesce e
patate, bevvero caffè e whiskey, poi portarono i piatti e gli utensili da cucina giù
al fiume, e li lavarono proprio dove si trovava la ragazza.
Più tardi giocarono a carte. Probabilmente giocarono finché non riuscirono più
a vederle. Vern Williams andò a dormire. Ma gli altri rimasero a raccontare storie.
Gordon Johnson disse che le trote che avevano pescato erano dure perché l’acqua
era terribilmente fredda.
La mattina dopo si alzarono tardi, bevvero whiskey, pescarono un po’,
smontarono le tende, arrotolarono i sacchi a pelo, raccolsero la loro roba, e si
misero in cammino. Una volta in macchina cercarono un telefono. Fu Stuart a
fare la telefonata, gli altri rimasero al sole ad ascoltare. Diede i loro nomi allo
sceriffo. Non avevano niente da nascondere. Non si vergognavano. Dissero che
avrebbero aspettato finché fosse arrivato qualcuno per avere indicazioni più
precise e raccogliere le loro deposizioni.
Dormivo quando tornò a casa. Ma mi svegliai sentendolo entrare in cucina. Lo
trovai appoggiato al frigorifero con una lattina di birra in mano. Mi strinse con le
sue pesanti braccia e mi strofinò le sue manone sulla schiena. A letto mi mise
addosso di nuovo le sue mani e poi rimase in attesa, come pensando a
qualcos’altro. Mi girai e aprii le gambe. Dopo, credo che sia rimasto sveglio.
Quella mattina era già alzato prima che scendessi dal letto. Per vedere se c’era
qualcosa sui giornali, credo.
Il telefono cominciò a squillare subito dopo le otto.
«Andate al diavolo!», lo sentii gridare.
Subito dopo ci furono altri squilli.
«Non ho niente da aggiungere a quello che ho già detto allo sceriffo!».
Sbatté giù la cornetta.
«Che sta succedendo?», chiesi.
Allora mi raccontò quello che vi ho appena raccontato.
Raccolgo con la scopa i piatti rotti ed esco. È sull’erba ora, sdraiato supino, il
giornale e la lattina a portata di mano.
«Stuart, che ne dici di andare a fare un giro in macchina?», dico.
Lui si volta su un fianco e mi guarda. «Andiamo a prendere della birra», dice.
Si alza in piedi e passandomi vicino mi tocca il fianco. «Dammi un minuto», dice.
Attraversiamo la cittadina senza parlare. Stuart si ferma a un minimarket
lungo la strada per comprare la birra. Dietro la porta, noto una grossa pila di
giornali. Sul gradino d’ingresso una donna grassa con un vestito fantasia dà un
bastoncino di liquirizia a una bambina. Più tardi, attraversiamo l’Everson e
giriamo nello spiazzo per i picnic. Il torrente passa sotto il ponte e poche centinaia
di metri più oltre finisce in un laghetto. Vedo degli uomini laggiù. Vedo che
pescano.
Tanta acqua così vicino a casa.
Dico: «Era necessario fare tanti chilometri?».
«Non rompere», dice lui.
Ci sediamo su una panca al sole. Apre una lattina di birra. Dice: «Rilassati,
Claire».
«Dicevano che erano innocenti. Dicevano che erano pazzi».
Lui dice: «Chi?». Dice: «Di cosa stai parlando?».
«I fratelli Maddox. Hanno ammazzato una ragazza che si chiamava Arlene
Hubly proprio dove sono nata e cresciuta. Le hanno tagliato la testa e l’hanno
buttata nel Cle Elum River. È successo quand’ero ragazzina».
«Ma allora vuoi proprio rompere», dice lui.
Io guardo il torrente. Ci sono dentro, occhi sbarrati, faccia in giù, a guardare
la melma sul fondo, morta.
«Non so cosa ti prende», dice lui mentre torniamo a casa. «Mi dai sempre più
sui nervi».
Non so pensare a niente da dirgli.
Cerca di concentrarsi sulla strada. Ma continua a guardare nello specchietto
retrovisore.
Lui sa.
Stuart è convinto di avermi lasciato dormire stamattina. Ma io ero sveglia
molto prima che sonasse la sveglia. Stavo pensando, sdraiata sulla sponda del
letto, lontano dalle sue gambe pelose.
Manda Dean a scuola, e poi si rasa, si veste, e va a lavorare. Si affaccia in
camera due volte e si schiarisce la gola. Ma io tengo gli occhi chiusi.
In cucina trovo un suo biglietto. Sopra la firma c’è scritto «Con amore».
Mi siedo in un angolo a bere una tazza di caffè che lascia una macchia
circolare sul biglietto. Do un’occhiata al giornale e lo giro e lo rigiro sul tavolo. Poi
lo faccio scivolare verso di me e leggo. Il corpo è stato identificato, reclamato. Ma
è stato necessario esaminarlo, infilargli dentro delle cose, tagliarlo, misurarlo,
rimettere a posto delle cose e cucirle.
Sto lì seduta a pensare per un sacco di tempo, col giornale in mano. Poi
telefono per fissare un appuntamento dal parrucchiere.
Mi siedo sotto il casco con una rivista sulle ginocchia, e lascio che Marnie mi
faccia le mani. «Domani vado a un funerale», dico.
«Mi dispiace», dice Marnie.
«È stato un omicidio», dico.
«Il genere peggiore», dice Marnie.
«Non che fossimo molto intime», dico. «Ma sa com’è».
«Non dubiti che sarà in ordine domani», ha detto Marnie.
La sera mi faccio il letto sul divano, e alla mattina sono la prima ad alzarmi.
Metto su il caffè e preparo la colazione mentre lui si rade.
Compare sulla porta della cucina, l’asciugamano sulle spalle nude, con l’aria
di valutare la situazione.
«Ecco il caffè», dico. «Le uova saranno pronte tra un minuto».
Sveglio Dean, e tutti e tre mangiamo. Ogni volta che Stuart mi guarda, chiedo
a Dean se vuole ancora latte, pane tostato, ecc.
«Ti telefono oggi», dice Stuart aprendo la porta.
Io dico: «Non credo che sarò in casa oggi».
«Va bene», dice. «Certo».
Mi vesto con cura. Provo un cappello e mi guardo allo specchio. Scrivo un
biglietto a Dean.
Tesoro, questo pomeriggio la mamma ha da fare ma tornerà più tardi. Tu
resta in casa o va’ al parco giochi finché uno di noi non torna.
Un bacio, mamma
Guardo la parola bacio e la sottolineo. Poi vedo parco giochi. Ci vuole il
trattino o no?
Guido in aperta campagna, tra campi di avena e barbabietole, meleti e
bestiame che pascola. Poi tutto cambia, più baracche che cascine, più vivai che
frutteti. Poi montagne, e sulla destra, molto sotto, qualche volta intravedo il
Naches River.
Dietro a me c’è un camioncino verde che mi resta attaccato per chilometri. Io
continuo a rallentare nei momenti sbagliati, sperando che mi sorpassi. Poi
accelero. Ma anche questo nei momenti sbagliati. Afferro stretto il volante finché
le dita mi fanno male.
Mi sorpassa su un lungo rettilineo deserto. Ma resta affiancato per un po’, un
uomo coi capelli a spazzola e una camicia di tela azzurra. Ci guardiamo. Lui
saluta, suona il clacson, e accelera.
Io rallento e trovo una piazzola. Accosto e spengo il motore. Si sente il rumore
del fiume, giù sotto gli alberi. Poi sento il camioncino che torna indietro.
Chiudo la portiera e alzo il finestrino.
«Sta bene?», dice l’uomo. Batte sul vetro. «Si sente bene?». Appoggia le braccia
contro la portiera e avvicina la faccia al finestrino.
Io lo fisso. Non saprei che altro fare.
«Tutto bene? Come mai si è chiusa dentro?».
Io scuoto la testa.
«Tiri giù il finestrino». Scuote la testa, guarda l’autostrada e poi di nuovo me.
«Lo tiri giù adesso».
«La prego», dico. «Devo andare».
«Apra la portiera», dice come se non sentisse. «Soffocherà là dentro».
Mi guarda i seni, le gambe. Ne sono sicura.
«Ehi, tesoro», dice. «Sono qui solo per dare una mano, nient’altro».
La bara è chiusa e coperta di corone di fiori. Nell’attimo in cui mi siedo
comincia a suonare l’organo. La gente sta entrando e prendendo posto. C’è un
ragazzo in pantaloni scampanati e camicia gialla a maniche corte. Si apre una
porta; entra la famiglia in gruppo, e avanza di lato verso uno spazio chiuso da
tende. Le sedie scricchiolano mentre la gente si mette seduta. Dritto davanti a noi
un bell’uomo biondo con un bel completo scuro, in piedi, ci chiede di chinare la
testa. Recita una preghiera per noi, i viventi, e quando ha finito dice una
preghiera per l’anima della scomparsa.
Io sfilo insieme agli altri davanti alla bara. Poi esco sulla scalinata nella luce
del pomeriggio. C’è una donna che scende davanti a me zoppicando. Sul
marciapiede si guarda intorno. «Bè, lo hanno preso», dice. «Se questa è una
consolazione. L’hanno arrestato stamattina. L’ho sentito alla radio prima di
venire. Un ragazzo, proprio di qui, del paese».
Facciamo qualche passo sul marciapiede infuocato. La gente mette in moto le
macchine. Io allungo una mano e mi tengo al contatore del parcheggio. Cofani e
parafanghi che luccicano. Mi gira la testa.
Dico: «Questi assassini hanno sempre degli amici. Non si può mai sapere».
«Conoscevo quella bambina fin da piccola», dice la donna. «Ogni tanto veniva a
trovarmi, e io le facevo i biscotti e glieli lasciavo mangiare davanti al televisore».
A casa, Stuart è seduto al tavolo davanti a un bicchiere di whiskey. Per un
folle istante penso che sia successo qualcosa a Dean.
«Dov’è?», dico. «Dov’è Dean?».
«Fuori», dice mio marito.
Vuota il bicchiere e si alza. Dice: «Credo di sapere di cosa hai bisogno».
Mi mette un braccio intorno alla vita e con l’altra mano comincia a
sbottonarmi la giacca e poi la camicetta.
«Prima le cose importanti», dice.
Dice qualcos’altro. Ma non ho bisogno di ascoltare. Non sento niente con tutta
quest’acqua che scorre.
«Giusto», dico, finendo di sbottonarmi da sola. «Prima che arrivi Dean. Svelto».
La terza cosa che uccise mio padre
Vi racconterò che cosa uccise mio padre. La terza cosa fu Dummy, la morte di
Dummy. La prima cosa fu Pearl Harbor. E la seconda fu il trasferimento alla
fattoria di mio nonno, vicino a Wenatchee. È là che mio padre finì i suoi giorni,
anche se probabilmente erano già finiti da un pezzo.
Mio padre attribuì la colpa della morte di Dummy alla moglie. Poi diede la
colpa ai pesci. E alla fine a se stesso -perché fu lui a mostrare a Dummy,
sull’ultima pagina del «Field and Stream», la pubblicità del persico trota, che
spedivano vivo per posta in tutti gli Stati Uniti.
Fu dopo aver ricevuto i pesci che Dummy cominciò a comportarsi in modo
strano. I pesci cambiarono completamente la sua personalità. Almeno così diceva
mio padre.
Non ho mai saputo il vero nome di Dummy. Se qualcuno lo sapeva, io non l’ho
mai sentito dire.
Era Dummy allora, ed è come Dummy che lo ricordo adesso. Era un uomo
piccolo e rugoso, con la testa pelata, basso ma molto robusto di gambe e di
braccia. Se sorrideva, cosa che accadeva di rado, gli si ritiravano le labbra sopra i
denti rovinati e scuri. Questo gli dava un’aria astuta. I suoi occhi acquosi ti
stavano incollati alla bocca quando parlavi - e quando stavi zitto, si spostavano
su qualche altro strano punto del corpo.
Non credo che fosse davvero sordo. Almeno non così sordo come faceva
credere. Ma di certo non poteva parlare. Questo è garantito.
Sordo o no, Dummy aveva lavorato come manovale alla segheria fin dagli anni
Venti. Era la Cascade Lumber Company di Yakima, Washington. Negli anni in cui
l’ho conosciuto, Dummy si occupava delle pulizie. E in tutti quegli anni non l’ho
mai visto con addosso qualcosa di diverso: un cappello di feltro, una camicia
color cachi, e un giubbotto di jeans sopra la tuta. Nelle tasche del giubbotto
portava dei rotoli di carta igienica, dato che uno dei suoi compiti era pulire e
rifornire i gabinetti. Quell’incombenza era piuttosto impegnativa visto che gli
operai del turno di notte avevano l’abitudine di portarsi via un rotolo o due nelle
gavette.
Dummy portava con sé una torcia, anche se lavorava di giorno. Più le chiavi
inglesi, le pinze, i cacciaviti, il nastro isolante, tutto quello che portavano gli
operai della segheria. Bè, lo prendevano sempre in giro per quella sua mania di
portarsi tutto addosso. Carl Lowe, Ted Slade e Johnny Wait erano quelli che lo
sfottevano di più. Ma Dummy non se la prendeva. Credo che ci fosse abituato.
Mio padre non sfotteva mai Dummy. Non che io sappia, almeno. Papà era un
omone con le spalle larghe, i capelli a spazzola, il doppio mento, e una pancia di
cospicue dimensioni. Dummy stava sempre a fissargli la pancia. Entrava nel
reparto della piallatura dove lavorava mio padre e si sedeva su uno sgabello a
guardargli la pancia mentre usava le grandi mole a smeriglio sulle seghe.
Dummy aveva una casa non peggiore di altre.
Era un coso ricoperto di carta catramata vicino al fiume, otto o nove
chilometri fuori città. Un chilometro dietro la casa, alla fine di un campo, c’era
una grande cava che lo stato aveva fatto scavare quando le strade della zona
erano state pavimentate; C’erano rimaste tre grosse buche, che negli anni si
erano riempite d’acqua. Poi, col tempo, i laghetti si erano uniti in uno.
Era profondo. Aveva un aspetto piuttosto cupo.
Dummy, oltre alla casa, aveva una moglie. Era una donna molto più giovane
di lui che dicevano andasse con i messicani. Secondo papà erano voci messe in
giro da pettegoli come Lowe, Wait e Slade.
Era una donna piccola e tozza con occhietti luccicanti. La prima volta che la
vidi, notai quegli occhi. Ero in giro in bicicletta con Pete Jensen e ci fermammo da
Dummy a chiedere un bicchier d’acqua.
Quando aprì la porta le dissi che ero il figlio di Del Fraser. Dissi: «Lavora
con...». E poi mi resi conto che non sapevo il suo vero nome. «Sa, suo marito.
Eravamo in giro in bicicletta e abbiamo pensato che potesse darci qualcosa da
bere».
«Aspettate qui», disse lei.
Tornò con due tazzine di latta piene d’acqua, una per mano. Buttai giù la mia
d’un fiato.
Ma lei non ce ne offrì un’altra. Ci scrutò senza dire niente. Quando fummo sul
punto di risalire in bicicletta, si spinse fino al limite del portico.
«Se avevate una macchina, ragazzi, magari venivo a farmi un giro».
Sorrise. Aveva dei denti troppo grandi per la sua bocca. «Andiamo», disse Pete,
e ce ne andammo. Non c’erano molti posti dove pescare persico trota nel nostro
stato. C’erano soprattutto trote iridate e marmorate nei torrenti di alta montagna,
e trote silver nel Blue Lake e a Lake Rimrock. Questo era tutto, eccetto i passaggi
di salmoni in certi corsi d’acqua dolce nell’autunno inoltrato. Ma se eri un
pescatore, ce n’era abbastanza per tenerti occupato. Nessuno pescava il persico
trota. Un sacco di gente che conoscevo non ne aveva mai visto uno se non in
fotografia. Ma mio padre ne aveva visti parecchi quand’era bambino in Arkansas e
Georgia, e nutriva grandi speranze nel persico trota di Dummy, per via che
Dummy era un amico.
Il giorno che arrivarono i pesci ero andato a nuotare alla piscina comunale. Mi
ricordo di essere tornato a casa e uscito di nuovo per andare a prenderli, dato che
papà voleva dare una mano a Dummy: tre vasche spedite per posta da Baton
Rouge, Louisiana.
Andammo con il camioncino di Dummy, papà, Dummy e io.
Risultò poi che queste tre vasche erano in realtà dei barili, imballati in casse
di assi di pino.
Stavano all’ombra dietro al deposito merci, e ci volle la forza di Dummy e di
mio papà insieme per sollevare ogni cassa e metterla nel camion.
Dummy guidò molto piano attraverso la città e altrettanto piano fino a casa
sua. Poi attraversò il cortile di casa senza fermarsi. E proseguì fino a pochi passi
dallo stagno. Poiché ormai era quasi buio, tenne i fari accesi e tirò fuori da sotto il
sedile un martello e un piede di porco, poi insieme trascinarono le casse fino
all’acqua e cominciarono ad aprire la prima.
Il barile all’interno era tutto avvolto in tela da imballaggio, e sul coperchio
c’erano dei buchi grandi come monetine. Aprirono il barile e Dummy puntò la
torcia.
Sembrava che contenesse un milione di pesciolini tutti in movimento. Era una
cosa stranissima, tutti quegli esserini vivi che si muovevano lì dentro, come un
piccolo oceano arrivato in treno. Dummy trascinò il barile fino ai bordi dell’acqua
e lo rovesciò. Prese la torcia e illuminò lo stagno. Ma non c’era più niente da
vedere. Si sentiva il rumore delle rane, ma questo succedeva sempre non appena
faceva buio.
«Lascia che prenda io le altre casse», disse mio padre, e allungò la mano per
prendere il martello dalla tuta di Dummy. Ma Dummy si ritrasse scuotendo la
testa.
Sballò le altre due casse da solo, lasciando sulle assi delle scure macchie di
sangue, poiché si era ferito a una mano.
Da quella notte in poi, Dummy non fu più lo stesso.
Adesso non permetteva più a nessuno di avvicinarsi. Aveva messo un recinto
tutt’intorno al campo, e poi cintato lo stagno col filo spinato attraversato dalla
corrente elettrica. Dicevano che in quel recinto avesse impiegato tutti i suoi
risparmi.
È ovvio che mio padre non ebbe più niente a che fare con Dummy. Non dopo
che Dummy lo ebbe cacciato via. Non perché pescasse, per carità, visto che i
pesci erano ancora neonati. Gli proibì anche solo di dare un’occhiata.
Due anni dopo, una sera in cui papà si trattenne al lavoro fino a tardi e io gli
portai la cena e una brocca di tè freddo, lo trovai che parlava con Syd Glover, il
padrone della segheria. Proprio mentre stavo entrando, sentii papà che diceva:
«Sembra proprio che quell’idiota li abbia sposati i suoi pesci, da come si
comporta».
«Se sono vere certe voci», disse Syd, «quel recinto farebbe meglio a metterlo
intorno alla casa».
A quel punto mio padre si accorse della mia presenza e lo vidi fare un segnale
con gli occhi a Syd Glover.
Ma un mese dopo papà riuscì a convincere Dummy. Fece così: gli disse che
era necessario ridurre il numero di pesci deboli per far posto agli altri. Dummy
fissava il pavimento tirandosi un orecchio. Papà disse che ci sarebbe andato
l’indomani mattina perché era una cosa che andava fatta. Dummy veramente non
disse mai di sì. Solo che non disse mai di no, ecco. Tutto quello che fece fu di
darsi un’altra tirata all’orecchio.
Quando papà rientrò quel giorno, io ero già pronto e aspettavo. Avevo tirato
fuori le sue vecchie esche e stavo provando col dito gli ami a tre punte.
«Ci sei?», mi urlò, saltando giù dalla macchina. «Io vado al gabinetto, tu metti
dentro la roba. Puoi guidare tu, se vuoi».
Avevo cacciato tutto sul sedile posteriore e stavo provando il volante, quando
lui tornò fuori con in testa il cappello da pesca, mangiando una fetta di torta che
teneva con tutt’e due le mani.
La mamma stava sulla porta a guardare. Era una donna con la pelle chiara, i
capelli biondi raccolti in una crocchia stretta, fissata da un fermaglio di Strass.
Mi chieda se in quei giorni felici lei se ne sia mai andata in giro, o cosa facesse
veramente.
Lasciai andare il freno a mano. La mamma rimase a guardare finché non
cambiai marcia, poi, sempre senza sorridere, tornò dentro.
Era un bel pomeriggio. Tenevamo tutti i finestrini abbassati per fare circolare
l’aria. Attraversammo il Moxee Bridge e svoltammo a ovest sulla Slater Road. La
strada era fiancheggiata da campi di erba medica, e più avanti da campi di mais.
Papà teneva la mano fuori dal finestrino. Lasciava che il vento gliela spingesse
indietro. Era agitato, lo vedevo benissimo.
Non ci volle molto per arrivare da Dummy. Lui uscì di casa col cappello in
testa. Sua moglie guardava dalla finestra.
«Hai preparato la padella?», gridò papà a Dummy, ma Dummy rimase lì
impalato a fissare la macchina. «Ehi, Dummy», urlò papà. «Ehi, Dummy, dove hai
la canna, Dummy?».
Dummy alzò e abbassò il capo di scatto. Spostò il peso da una gamba all’altra
e guardò prima a terra, poi noi.
Teneva la lingua fuori, sul labbro inferiore, poi cominciò a rovistare nella terra
col piede.
Io mi caricai la nassa sulle spalle. Passai a papà la sua canna e presi la mia.
«Possiamo andare?», disse papà. «Ehi, Dummy, siamo pronti?».
Dummy si tolse il cappello e, con la stessa mano, si passò il polso sulla testa.
Si girò bruscamente, e lo seguimmo sul terreno soffice del campo. Più o meno
ogni sei metri un beccaccino saltava fuori dai ciuffi d’erba sull’orlo dei vecchi
solchi.
Alla fine del campo il terreno declinava leggermente e diventava secco e
roccioso, con cespugli di ortica e sterpi sparsi qua e là. Piegammo a destra,
seguendo delle vecchie tracce di macchine, e passammo attraverso un campo di
asclepiadi che ci arrivavano alla vita, con i baccelli secchi in cima agli steli che
cricchiavano rabbiosi al nostro passaggio. In quel momento vidi il luccichio
dell’acqua sopra alla spalla di Dummy, e sentii papà gridare: «Oh, Dio, guarda!».
Ma Dummy rallentò, continuando ad alzare la mano e a spostare il cappello
avanti e indietro sulla testa; poi si bloccò di colpo.
Papà disse: «Allora che ne dici, Dummy? Va bene qualunque posto? Da che
parte dobbiamo avvicinarci secondo te?».
Dummy si inumidì il labbro inferiore.
«Che ti succede, Dummy?», disse papà. «Questo è il tuo stagno, no?».
Dummy abbassò lo sguardo e scacciò una formica dalla tuta.
«Al diavolo», disse papà sbuffando. Tirò fuori l’orologio. «Se non hai niente in
contrario, ci andiamo prima che faccia buio».
Dummy si ficcò le mani in tasca e si voltò verso lo stagno.
Riprese a camminare. Noi lo seguivamo in fila indiana. Si riusciva a vedere
tutto lo stagno adesso, con l’acqua increspata dai pesci che venivano a galla. Ogni
tanto un pesce guizzava fuori e si rituffava con uno spruzzo. Sentii mio padre che
diceva: «Signore Iddio».
Ci avvicinammo allo stagno in un punto privo di vegetazione, una specie di
spiaggia di sassi.
Papà mi fece un segnale e si accovacciò. Mi piegai anch’io. Stava scrutando
l’acqua davanti a noi, e quando guardai a mia volta, capii che cosa l’aveva tanto
colpito.
«Bontà divina», bisbigliò.
Un branco di venti, trenta pesci, nessuno sotto il chilo, si aggirava nello
stagno. Si allontanarono, poi cambiarono direzione e tornarono indietro, così
vicini che sembrava andassero a sbattere l’uno contro l’altro. Mentre passavano,
riuscii a vedere i loro grandi occhi dalle spesse palpebre, che ci fissavano. In un
lampo sparirono e tornarono.
Era come se ci provocassero. Non faceva nessuna differenza che stessimo
accovacciati o in piedi. Quei pesci non si curavano affatto di noi. Era una vista da
lasciare sbalorditi, veramente.
Restammo lì seduti per un po’, guardando quel branco di pesci vagare
innocentemente per i fatti propri, mentre Dummy non la finiva più di far
schioccare le dita e di guardarsi intorno come se aspettasse di veder sbucare fuori
qualcuno. In tutto lo stagno i pesci affioravano in superficie oppure saltavano
fuori e ricadevano dentro, o nuotavano sul pelo dell’acqua con le pinne dorsali
fuori.
Al segnale di papà ci alzammo per pescare. Giuro che tremavo per l’emozione.
Quasi non riuscivo a staccare l’esca dall’impugnatura di sughero della mia canna.
Proprio mentre cercavo di estrarre l’amo, sentii Dummy che mi afferrava le spalle
con le sue grosse dita. Lo guardai, e in risposta Dummy girò il mento verso papà.
Era chiaro quel che voleva: non più di una canna alla volta.
Papà si tolse il cappello e se lo rimise, poi venne verso di me.
«Comincia tu, Jack», disse. «Non preoccuparti, figliolo, va’ tu ora».
Un attimo prima del lancio guardai Dummy. La faccia gli si era irrigidita, e un
filo di bava gli colava sul mento.
«Gira forte il mulinello appena dà lo strappo», disse papà. «Quei figli di puttana
hanno bocche dure come sassi».
Feci scattare la levetta del mulinello e buttai indietro il braccio. La lenza finì
una dozzina di metri più in là. L’acqua ribolliva ancora prima che avessi il tempo
di tendere il filo.
«Prendilo!», gridò papà. «Prendi quel figlio di puttana! Tienilo saldo!».
Tirai la lenza con forza, due volte. Aveva abboccato, eccome. La canna era
piegata e sussultava. Papà continuava a gridarmi che cosa dovevo fare.
«Allenta adesso, lascialo andare! Lascialo correre! Dagli più filo! Ora
riavvolgilo! Riavvolgilo! No, lascialo correre! Guarda un po’ cosa fa!».
Il pesce saltava intorno allo stagno. Ogni volta che emergeva dall’acqua
scuoteva la testa così forte che si sentiva tintinnare l’amo. Poi ripartiva. Pian
piano lo stancai, riuscii a tirarlo vicino. Era enorme, forse tre o quattro chili.
Stava sdraiato su un fianco, vinto, a bocca aperta, con le branchie in azione. Le
ginocchia mi tremavano così forte che mi reggevo a malapena in piedi. Ma tenni la
canna dritta, la lenza tesa.
Papà entrò nell’acqua fino alle caviglie. Ma quando raggiunse il pesce, Dummy
cominciò a farfugliare, scuotendo la testa, agitando le braccia.
«Che diavolo ti succede ora, Dummy? Il ragazzo ha acchiappato il persico trota
più grosso che abbia mai visto, e puoi star certo che non lo ributterà in acqua,
per Dio!».
Dummy continuò la sua scena gesticolando in direzione dello stagno.
«Guarda che non lascerò andare il pesce che ha preso il ragazzo. Mi senti,
Dummy? Fatti venire un’altra idea se è questo che stai pensando».
Dummy allungò il braccio verso la mia lenza. Nel frattempo il pesce aveva
ripreso un po’ di forza. Si girò e ricominciò a nuotare. Io gridai, poi persi la testa e
schiacciai il freno del mulinello e cominciai a riavvolgere. Il pesce fece un’ultima,
furiosa corsa.
E fu la fine. Il filo si ruppe. E io per poco non caddi all’indietro.
«Andiamo, Jack», disse papà, e lo vidi afferrare la sua canna. «Accidenti a quel
cretino, andiamo prima che lo stenda».
A febbraio il fiume straripò.
Aveva nevicato parecchio le prime settimane di dicembre, e sotto Natale arrivò
un gran freddo. Il terreno gelò. La neve rimase dov’era. Ma verso la fine di
gennaio, ci arrivò addosso il vento Chinook. Una mattina svegliandomi sentii il
vento sferzare la casa e l’acqua scendere ininterrotta dal tetto. Soffiò per cinque
giorni; il terzo giorno il livello del fiume cominciò ad alzarsi.
«Cinque metri», disse una sera mio padre, alzando gli occhi dal giornale. «Un
metro di più di quanto basta perché straripi. Il vecchio Dummy sta per perdere i
suoi tesori».
Volevo andare giù al Moxee Bridge a vedere quant’era alta l’acqua. Ma papà
non mi diede il permesso. Diceva che non c’è niente da vedere in un’alluvione.
Due giorni più tardi l’acqua raggiunse il livello più alto e poi cominciò a
scendere.
Una mattina della settimana seguente, andai da Dummy in bicicletta con Orin
Marshall e Danny Owens. Lasciammo le biciclette e a piedi attraversammo il
campo che confinava con la proprietà di Dummy.
Era una giornata umida, da temporale, con le nuvole nere e sfilacciate che si
muovevano veloci nel cielo. Il terreno era zuppo e finivamo continuamente nelle
pozzanghere nascoste dall’erba alta.
Danny, che per l’appunto stava imparando a bestemmiare, riempì l’aria con le
migliori che sapeva ogni volta che sprofondava nell’acqua oltre la caviglia. Alla
fine del campo si vedeva il fiume ingrossato. L’acqua era ancora alta e fuori dal
suo letto, e turbinava intorno ai tronchi degli alberi sgretolando l’argine di terra.
Verso il centro, la corrente scorreva rapida e pesante, e ogni tanto si vedeva
passare un cespuglio, o un albero con i rami protesi.
Arrivammo al recinto di Dummy e trovammo una mucca incastrata tra i fili.
Era gonfia e aveva la pelle lucida e grigia. Era la prima cosa morta che avessi mai
visto, di qualunque dimensione. Ricordo che Orin prese un bastone e le toccò gli
occhi aperti.
Camminammo lungo il recinto, verso il fiume. Avevamo paura di avvicinarci ai
fili perché temevamo che avessero ancora la corrente. Ma sul bordo di quello che
sembrava un profondo canale, la recinzione finiva. Qui la terra era semplicemente
sprofondata nell’acqua, e la recinzione insieme a lei.
Attraversammo e seguimmo il canale che solcava il terreno di Dummy, e
andava dritto nello stagno, per poi uscire dalla parte opposta, e infine serpeggiare
fino al punto in cui si univa al fiume, più avanti.
Era chiaro che si era portato via quasi tutti i pesci di Dummy. Ma quelli che
erano scampati erano liberi di andare e venire.
Poi vidi Dummy. Mi spaventò vederlo così. Feci un cenno agli altri e ci
chinammo.
Dummy stava sulla sponda opposta dello stagno, vicino al punto in cui la
corrente era forte. Stava lì e basta, l’uomo più triste che avessi mai visto.
«Certo che mi spiace per il vecchio Dummy», disse mio padre a tavola, poche
settimane dopo. «Bada, quel povero diavolo se l’è proprio voluta. Ma come fai a
non sentirti male per lui?».
Papà continuò dicendo che George Laycock aveva visto la moglie di Dummy
seduta allo Sportsman’s Club con un messicano grande e grosso.
«E questo è solo l’inizio...».
La mamma gli lanciò un’occhiataccia e poi guárdenme. Ma io continuai a
mangiare come se niente fosse.
Papà disse: «Ma che diavolo, Bea, il ragazzo è grande abbastanza!».
Era molto cambiato, Dummy. Non si avvicinava più agli operai, se poteva
evitarlo. Nessuno era più in vena di scherzare con lui, non da quando aveva
rincorso Carl Lowe con un pezzo di legno in mano, dopo che Carl gli aveva fatto
volar via il cappello. Ma il peggio è che ora Dummy si assentava dal lavoro in
media un giorno o due alla settimana, e correva voce che lo avrebbero licenziato.
«Quello sta per toccare il fondo», disse papà. «Pazzo completo se non ci sta
attento».
Poi una domenica pomeriggio, proprio prima del mio compleanno, papà e io
stavamo pulendo il garage. Era una giornata calda e ventosa. Si vedeva la polvere
fluttuare nell’aria. La mamma si affacciò alla porta del cortile e disse: «Del, è per
te. Credo che sia Vern».
Seguii papà in casa per lavarmi. Quando finì di parlare, mise giù la cornetta e
si girò verso di noi. «Si tratta di Dummy», disse. «Ha ammazzato sua moglie con
un martello e si è affogato. Vern l’ha appena saputo in paese».
Quando arrivammo noi c’erano macchine parcheggiate tutt’intorno. Il cancello
del campo era aperto, e si vedevano dei solchi di gomme in direzione dello stagno.
La porta di casa era tenuta socchiusa con una scatola, e sulla soglia c’era un
uomo magro, con la faccia butterata, in borghese, con una fondina a tracolla. Ci
osservò mentre scendevamo dalla macchina.
«Ero suo amico», disse papà a quell’uomo.
Lui scosse la testa. «Non mi importa chi è lei. Si tolga dai piedi se non ha
niente da fare qui».
«Lo hanno trovato?», disse papà.
«Stanno dragando», disse l’uomo, assestando meglio la pistola nella fondina.
«Niente in contrario se andiamo fin giù? Lo conoscevo bene».
L’uomo disse: «Faccia un po’ come crede. Se la cacciano via, non dica che non
l’avevo avvisato». Attraversammo il campo, prendendo più o meno la stessa strada
del giorno in cui avevamo tentato di pescare. C’erano dei motoscafi nello stagno, e
fumi neri di gas sul pelo dell’acqua. Si vedeva dove l’acqua alta aveva eroso la
terra e trascinato via alberi e pietre. Sulle due barche che andavano avanti e
indietro c’erano due uomini in divisa, uno alla guida e l’altro che maneggiava la
fune e gli uncini.
Un’ambulanza attendeva sulla spiaggia di ghiaia dove quel giorno eravamo
andati a pescare i pesci di Dummy. Appoggiati allo sportello posteriore c’erano
due uomini vestiti di bianco, che fumavano. Uno dei motoscafi si fermò di colpo.
Tutti alzarono gli occhi in quella direzione. L’uomo che era a poppa si alzò e
cominciò a tirare la fune. Dopo un po’ emerse dall’acqua un braccio. A quanto
pareva gli uncini avevano afferrato Dummy per il fianco. Il braccio si inabissò e
poi ritornò su, insieme a una specie di fagotto.
Non è lui, pensai. E qualcos’altro che è stato là per anni.
L’uomo andò a poppa, e insieme i due uomini issarono a bordo quella cosa
grondante.
Guardai papà. La sua faccia aveva preso una piega strana.
«Le donne», disse. «Ecco a cosa può ridurti il tipo di donna sbagliato, Jack».
Ma non penso che papà ci credesse veramente. Penso che non sapesse a chi
dare la colpa o cosa dire.
Ho l’impressione che da quel momento tutto gli sia andato storto. Proprio
come Dummy, non era più la stessa persona. Quel braccio che andava su e giù
nell’acqua fu come un addio ai bei tempi e un buongiorno alla sventura. Perché
dopo che Dummy si è annegato in quelle acque buie gli anni non hanno portato
che questo.
È questo che succede quando muore un amico? Cattiva sorte per gli amici che
si è lasciato dietro? Ma come ho detto, Pearl Harbor e il dover tornare a vivere in
casa di suo padre non furono certo salutari per il mio papà.
Un discorso serio
La macchina di Vera era lì ed era la sola, e di questo Burt fu ben lieto. Sterzò
nel vialetto e si fermò accanto alla torta che gli era caduta la sera prima. Era
ancora lì, la teglia di alluminio capovolta, un alone di ripieno di zucca sul
selciato. Era il giorno dopo Natale.
A Natale era venuto a trovare la moglie e i figli. Vera lo aveva messo in guardia
in anticipo. Gli aveva detto tutto chiaro e tondo. Se ne sarebbe andato entro le sei
perché veniva a cena il suo amico con i figli.
Si erano seduti in soggiorno e avevano solennemente aperto i regali che Burt
aveva portato. Avevano aperto i suoi pacchetti mentre altri pacchetti avvolti in
carte colorate restavano sotto l’albero in attesa dell’ora di cena.
Aveva osservato i figli mentre aprivano i loro regali, e aspettato che Vera
disfacesse il nastro del suo. La vide togliere la carta, alzare il coperchio, tirare
fuori il golf di cachemire.
«È carino», disse. «Grazie Burt».
«Provalo», disse la figlia.
«Mettitelo», disse il figlio.
Burt guardò il figlio, grato per il sostegno.
Lei lo misurò. Andò in camera da letto e ne uscì con il golf addosso.
«È carino», disse.
«È carino addosso a te», disse Burt, e sentì qualcosa gonfiarglisi in petto.
Aprì i suoi regali. Da Vera, un buono per il reparto uomo di Sondheim’s. Dalla
figlia, un pettine e una spazzola coordinati. Dal figlio, una penna a sfera.
Vera offrì delle bibite e fecero quattro chiacchiere. Ma soprattutto guardarono
l’albero. Poi sua figlia si alzò e cominciò ad apparecchiare la tavola in sala da
pranzo, e suo figlio andò in camera sua.
Ma a Burt piaceva stare lì. Stava bene davanti al caminetto, con il bicchiere in
mano, nella sua casa, il suo rifugio.
Poi Vera andò in cucina.
Di tanto in tanto sua figlia entrava nella sala da pranzo con qualcosa per la
tavola. Burt la osservava. La vide piegare i tovaglioli di lino dentro i bicchieri da
vino. Livide mettere un vaso sottile al centro della tavola. La vide infilare un fiore
nel vaso con una cura infinita.
Un tronchetto di cera e segatura bruciava sulla grata. In uno scatolone per
terra ce n’erano pronti altri cinque. Si alzò dal divano e li mise tutti nel camino.
Rimase a guardarli finché presero fuoco. Poi finì la sua bibita e si avviò alla porta
del patio. Passando, vide le torte allineate sulla credenza. Le impilò e le caricò
sulle braccia, tutte e sei, una per ogni dieci volte che lei lo aveva tradito.
Nel vialetto, al buio, ne lasciò cadere una mentre armeggiava con la portiera.
La porta principale era rimasta chiusa dalla sera in cui gli si era rotta dentro
la chiave. Fece il giro e andò sul retro. Alla porta del patio era appesa una
ghirlanda. Picchiò sul vetro. Vera indossava l’accappatoio. Guardò verso di lui
aggrottando le sopracciglia. Socchiuse la porta.
Burt disse: «Voglio chiederti scusa per ieri sera. Voglio chiedere scusa anche
ai ragazzi».
Vera disse: «Non ci sono».
Lei stava sulla soglia e lui nel patio, accanto al filodendro. Si tolse una filaccia
dalla manica.
«Non ne posso più», disse lei. «Hai cercato di dare fuoco alla casa».
«No, non è vero».
«Sì, che è vero. Tutti qui erano testimoni».
Lui disse: «Posso entrare, così ne parliamo?».
Lei si chiuse l’accappatoio alla gola e tornò dentro.
Disse: «Devo uscire fra un’ora».
Lui si guardò intorno. Le luci dell’albero si accendevano e si spegnevano. In
fondo al divano c’era un mucchio di carta da regalo e scatole lucide. La carcassa
di un tacchino stava su un piatto al centro della tavola da pranzo, con gli avanzi
rinsecchiti su un letto di prezzemolo come in un orribile nido. Una piramide di
cenere riempiva il camino. C’erano dentro anche delle lattine vuote di Shasta
Cola. Un baffo di fumo saliva su per i mattoni fino alla mensola del caminetto,
dove la tavola di legno era annerita dal fuoco.
Si voltò e tornò in cucina.
Disse: «A che ora se n’è andato il tuo amico, ieri sera?».
Lei disse: «Se cominci così, puoi andartene subito».
Lui tirò fuori una sedia e si sedette al tavolo di cucina, davanti al grande
portacenere. Chiuse gli occhi e li riaprì. Scostò la tenda e guardò fuori in
giardino. Vide una bicicletta capovolta, senza la ruota anteriore. Vide le erbacce
che crescevano lungo la palizzata di sequoia.
Lei riempì d’acqua una pentola. «Ti ricordi il giorno del Ringraziamento?»,
disse. «Dissi allora che quella era l’ultima festa che ci avresti rovinato. Mangiare
uova e pancetta invece del tacchino, alle dieci di sera».
«Lo so», disse lui. «Ho detto che mi dispiace».
«Non basta».
L’accensione automatica della cucina non funzionava. Lei era davanti ai
fornelli che cercava di accendere il gas sotto la pentola d’acqua.
«Non ti bruciare», disse lui. «Stai attenta a non prendere fuoco».
Immaginò l’accappatoio che prendeva fuoco, lui che schizzava in piedi, la
buttava per terra e la faceva rotolare fino al salotto, dove l’avrebbe coperta col suo
corpo. O avrebbe dovuto correre in camera da letto a prendere una coperta?
«Vera».
Lei lo guardò.
«Hai niente da bere? Mi ci vorrebbe qualcosa da bere stamattina».
«C’è della vodka nel freezer».
«Da quando tieni la vodka nel freezer?».
«Non fare domande».
«Okay», disse lui. «Non farò domande».
Tirò fuori la vodka e ne versò un po’ in una tazza che aveva trovato sul
ripiano.
Lei disse: «La bevi così, in una tazza?». Disse: «Cristo, Burt. Di che cosa vuoi
parlare, insomma?
Ti ho detto che devo uscire. Ho una lezione di flauto all’una».
«Prendi ancora lezioni di flauto?».
«L’ho appena detto. Cosa c’è? Dimmi cos’hai in mente, che poi mi devo
preparare».
«Volevo dirti che mi dispiace».
«Lo hai già detto».
«Se hai un qualsiasi succo di frutta, allungo un po’ la vodka».
Lei aprì il frigorifero e spostò qualche contenitore.
«C’è del succo di mele e mirtilli», disse.
«Va bene», disse lui.
«Io vado in bagno», disse lei.
Lui mandò giù la vodka col succo di mele e mirtilli. Accese una sigaretta e
lanciò il fiammifero nel grande portacenere che da sempre stava sul tavolo in
cucina. Esaminò i mozziconi che c’erano dentro. Alcuni erano della marca di
sigarette di Vera e altri no. Certi erano addirittura color lavanda. Si alzò e buttò
via il tutto sotto il lavandino.
Il portacenere non era un vero portacenere. Era un grande piatto di ceramica
che avevano comprato da un vasaio con la barba, sulla passeggiata di Santa
Clara. Lo sciacquò e lo asciugò. Lo rimise sul tavolo. E poi ci schiacciò dentro la
sigaretta.
L’acqua sul fornello cominciò a bollire proprio nel momento in cui si mise a
suonare il telefono.
La sentì aprire la porta del bagno e gridare attraverso il soggiorno: «Rispondi!
Io sto per fare la doccia».
L’apparecchio in cucina era sul ripiano, in un angolo dietro la teglia del forno.
Lui spostò la teglia e alzò la cornetta.
«C’è Charlie?», disse la voce.
«No», disse Burt.
«Okay», disse la voce.
Mentre si occupava del caffè, il telefono suonò di nuovo. «Charlie?».
«Non c’è», disse Burt.
Stavolta lasciò la cornetta staccata.
Vera tornò in cucina in jeans e maglione, spazzolandosi i capelli.
Lui mise qualche cucchiaino di caffè solubile nelle tazze di acqua calda, poi
nella sua versò un po’ di vodka. Portò le tazze sul tavolo.
Lei raccolse la cornetta e l’avvicinò all’orecchio. Disse: «Cos’è questo? Chi era
al telefono?». «Nessuno», disse lui. «Chi fuma sigarette colorate?».
«Io».
«Non lo sapevo». «Bè, ora lo sai».
Vera sedette dalla parte opposta del tavolo e bevve il caffè. Fumarono e si
servirono del portacenere.
Tante erano le cose che lui voleva dire, cose tristi, cose consolanti, cose così.
«Fumo tre pacchetti al giorno», disse Vera. «Se davvero ti interessa sapere cosa
sta succedendo qui».
«Mio Dio», disse Burt.
Vera annuì.
«Non sono venuto per sentire queste cose», disse lui.
«Cosa sei venuto a sentire, allora? Volevi sentire che la casa è andata a
fuoco?».
«Vera», disse. «È Natale. Per questo sono venuto».
«È il giorno dopo Natale», disse lei. «Natale è già passato», disse. «Non voglio
più vederne un altro».
«E io allora?», disse lui. «Credi che io sia contento quando arrivano le feste?».
Il telefono squillò ancora. Fu Burt a rispondere. «È qualcuno che vuole
Charlie», disse. «Cosa?». «Charlie», disse Burt.
Vera prese il ricevitore. Mentre parlava gli dava le spalle. Poi si girò e disse:
«Vado a rispondere dalla camera da letto. Ti dispiace attaccare dopo che ho alzato
di là? Guarda che me ne accorgo, quindi attacca quando te lo dico».
Lui prese il ricevitore. Lei uscì dalla cucina. Burt alzò il ricevitore all’orecchio e
si mise ad ascoltare. Non sentì niente. Poi udì un uomo che si schiariva la voce. E
infine Vera che alzava l’altro ricevitore. Gridò: «Okay, Burt! L’ho presa ora, Burt!».
Lui riattaccò e rimase a guardare il telefono. Aprì il cassetto delle posate e
spostò qualche oggetto. Aprì un altro cassetto. Guardò nel lavandino. Andò nella
sala da pranzo e prese il coltello dell’arrosto. Lo tenne sotto l’acqua calda finché il
grasso si sciolse. Asciugò la lama sulla manica. Andò verso il telefono, piegò in
due il filo, e lo tranciò senza la minima difficoltà. Esaminò le due estremità del
filo. Poi spinse di nuovo il telefono nel suo angolo dietro la teglia del forno.
Lei entrò. Disse: «È caduta la linea. Hai fatto qualcosa al telefono?». Guardò
l’apparecchio e lo sollevò dal ripiano.
«Figlio di puttana!», gridò. Gridò: «Fuori, fuori, vattene!». Gli sbatté il telefono
sotto il naso. «Chiederò al giudice che ti proibisca di vedere i bambini, ecco cosa
farò».
Il telefono emise un ding quando Vera lo sbatté sul ripiano.
«Vado dai vicini a chiamare la polizia se non te ne vai immediatamente!».
Lui afferrò il portacenere per il bordo. Si mise nella posizione di uno che sta
per lanciare il disco. «Ti prego», disse lei. «Quello è il nostro portacenere».
Lui uscì dalla porta del patio. Non ne era sicuro, ma credeva di avere
dimostrato qualcosa. Sperava di avere messo una cosa in chiaro. Che presto
dovevano fare un discorso serio. C’erano cose di cui era necessario parlare, cose
importanti che andavano affrontate. Avrebbero parlato ancora. Magari dopo le
feste, quando tutto fosse tornato alla normalità. Le avrebbe detto che quel
maledetto portacenere era un maledetto piatto, per esempio.
Evitò di calpestare la torta nel vialetto e risalì in macchina. Mise in moto e
innestò la marcia indietro. Gli fu difficile far manovra finché non posò il
portacenere.
La calma
Ero dal barbiere a tagliarmi i capelli. Stavo sulla sedia e c’erano tre uomini
seduti lungo il muro, dalla parte opposta della stanza. Due di loro non li avevo
mai visti. Ma l’altro lo riconobbi, anche se non mi ricordavo bene chi fosse.
Tenevo gli occhi su di lui mentre il barbiere mi tagliava i capelli. L’uomo, un tipo
corpulento, con capelli corti ondulati, si stava frugando in bocca con uno
stuzzicadenti. Poi di colpo me lo vidi in divisa con un berretto, gli occhietti all’erta
nell’atrio di una banca.
Degli altri due, uno era decisamente più vecchio, con una gran testa di capelli
grigi e ricciuti. Stava fumando. Il terzo, sebbene non fosse vecchio, era quasi
calvo in cima alla testa, ma ai lati i capelli gli coprivano le orecchie. Portava
scarponcini alti e pantaloni lucidi di olio di motore.
Il barbiere mi mise una mano sulla testa per farmela girare e guardarla
meglio. Poi disse alla guardia: «Lo hai preso il tuo cervo, Charles?».
Mi piaceva quel barbiere. Non ci conoscevamo abbastanza da chiamarci per
nome. Ma quando entravo per farmi tagliare i capelli mi riconosceva sempre.
Sapeva che andavo a pescare. Così parlavamo di pesca. Non credo che andasse a
caccia. Ma era capace di parlare di qualsiasi argomento. In questo senso era un
buon barbiere.
«Bill, è una storia assurda. Veramente pazzesca», disse la guardia. «L’ho preso
e non l’ho preso. Quindi sì e no, è la risposta alla tua domanda».
Non mi piaceva la voce di quell’uomo, non era adatta a una guardia. Non era
la voce che ti saresti aspettato.
Gli altri due uomini alzarono lo sguardo. L’uomo più anziano stava fumando e
sfogliava una rivista, l’altro guardava un giornale. Entrambi posarono ciò che
avevano in mano e si girarono per ascoltare la guardia.
«Continua, Charles», disse il barbiere. «Sentiamo».
Mi fece girare di nuovo la testa e si rimise a lavorare di forbici.
«Eravamo su a Fikle Ridge. Il mio vecchio, io e il ragazzo. Eravamo a caccia
lungo i torrenti in secca. Il vecchio era appostato sul greto di uno, e io e il ragazzo
sul greto di un altro. Il ragazzo aveva i postumi di una sbornia, accidenti a lui.
Era verde e continuò a bere acqua tutto il giorno facendo fuori la sua razione e la
mia. Ormai era pomeriggio ed eravamo fuori dall’alba. Ma non avevamo perso le
speranze. Secondo i nostri calcoli i cacciatori che stavano più in basso avrebbero
stanato un cervo spingendolo nella nostra direzione. Stavamo quindi seduti dietro
un ceppo a tenere d’occhio il letto del torrente quando abbiamo sentito degli spari
nella valle».
«Ci sono dei frutteti laggiù», disse il tipo col giornale. Non riusciva a star fermo
e continuava ad accavallare una gamba, facendo oscillare lo scarponcino per un
po’ prima di accavallare l’altra. «E intorno ai frutteti si aggirano i cervi».
«È vero», disse la guardia. «Quei bastardi ci vanno di notte a mangiarsi le mele
quando sono ancora verdi. Bè, abbiamo sentito questi spari e stavamo proprio lì a
far niente quando questo vecchio, grosso maschio, salta fuori dal sottobosco a
meno di un centinaio di metri. Il ragazzo lo vede nello stesso istante in cui lo vedo
io, naturalmente, e si mette subito a sparare. L’imbecille. Quel vecchio cervo non
correva alcun pericolo. Certo non da parte del ragazzo.
Ma il cervo non capisce da dove vengono gli spari. Non sa da che parte saltare.
Allora io sparo un colpo. Ma nella confusione riesco soltanto a tramortirlo».
«A tramortirlo?», disse il barbiere.
«Hai capito bene, tramortirlo», disse la guardia. «Era un colpo nelle budella. Lo
tramortisce e basta. Il cervo abbassa la testa e comincia a tremare. Trema tutto. Il
ragazzo sta ancora sparando. A me sembrava di essere tornato in Corea. Perciò
sparo ancora ma lo manco. Poi il vecchio Signor Cervo se ne torna nel bosco. Ma
ora, per Dio, non ha più nessuna forza. Il ragazzo ha scaricato il suo maledetto
fucile per niente. Ma io ho colpito nel segno. Gliene ho ficcato uno nelle budella.
Questo volevo dire quando ho detto tramortirlo».
«Poi cos’è successo?», disse il tipo che stava battendo sul ginocchio il giornale
arrotolato. «Poi cos’è successo? Lo avrete inseguito. Quelli ogni volta trovano un
posto difficile per morire».
«Lo avete davvero inseguito?», chiese l’uomo più anziano, anche se non era
proprio una domanda. «Certo. Io e il ragazzo, l’abbiamo inseguito, sì. Ma il
ragazzo non è stato di nessun aiuto. Si sente male per la strada, fa perdere tempo
anche a me. Quel buono a nulla». La guardia fu costretta a ridere adesso,
ripensando alla situazione. «Beve birra e va a donne tutta la notte, e poi dice che
è capace di andare a caccia di cervi. Ora ha capito qualcosa di più, per Dio.
Comunque, certo, lo abbiamo inseguito. È anche una buona traccia. Sangue sul
terreno e sangue sulle foglie. Sangue dappertutto. Mai visto un cervo con tanto
sangue. Non so come facesse quel disgraziato ad andare avanti».
«Certe volte non si fermano più», disse l’uomo col giornale. «Quelli ogni volta si
trovano un posto difficile per morire».
«Ho dato una strapazzata al ragazzo che aveva mancato il bersaglio, e quando
mi ha risposto tutto risentito gliene ho mollato uno di quelli giusti. Proprio qua».
La guardia indicò la tempia e rise. «L’ho preso a ceffoni quel deficiente. Non è
troppo vecchio per prenderle. Se l’è meritato. Ma il fatto è che era buio e poi,
come fare col ragazzo che rimaneva indietro e vomitava».
«Bè, adesso ce l’avranno i coyote quel cervo», disse il tipo con il giornale. «Loro,
i corvi e le poiane».
Srotolò il suo giornale, lo lisciò tutto, e lo mise da parte. Accavallò di nuovo le
gambe. Diede uno sguardo intorno a tutti noi e scosse la testa.
L’uomo più anziano si era girato e stava guardando fuori dalla finestra. Accese
una sigaretta.
«È quello che penso anch’io», disse la guardia. «Proprio un peccato. Era un
figlio di puttana grande e grosso. Tornando alla tua domanda, Bill, il mio cervo
l’ho preso e non l’ho preso. Ma in tavola abbiamo avuto comunque della
cacciagione. Perché salta fuori che il vecchio nel frattempo aveva preso un piccolo
cerbiatto. Lo ha già portato al campo, appeso e scuoiato, bello e liscio come un
fischietto, fegato, cuore e rognoni avvolti nella carta oleata e già sistemati nella
borsa frigorifera.
Un cerbiatto. Un affarino piccolo piccolo. Ma il vecchio sì che era euforico».
La guardia girò gli occhi intorno come se stesse ricordando. Poi prese lo
stuzzicadenti e se lo ricacciò in bocca.
L’uomo più anziano spense la sigaretta e si voltò verso la guardia. Prese fiato e
disse: «Adesso dovresti essere là fuori a cercare quel cervo, invece di stare qui a
farti tagliare i capelli».
«Come ti permetti di parlarmi così», disse la guardia. «Vecchio rimbambito. Ti
ho già visto da qualche parte».
«Ti ho già visto anch’io», disse il vecchio.
«Ragazzi ora basta. Questo è il mio negozio», disse il barbiere.
«Dovrei prendere a ceffoni te», disse il vecchio.
«Provaci», disse la guardia. «Charles», disse il barbiere.
Posò la spazzola e le forbici sul ripiano e mi mise le mani sulle spalle, come se
credesse che avessi intenzione di balzare dalla sedia e buttarmi nella mischia.
«Albert, sono anni che taglio i capelli a Charles e a suo figlio. Vorrei che lasciassi
perdere».
Il barbiere guardò prima l’uno poi l’altro, sempre tenendomi le mani sulle
spalle.
«Andate fuori», disse il tipo col giornale, rosso in faccia, sperando di veder
succedere qualcosa. «Basta così», disse il barbiere. «Charles, non voglio sentire
un’altra parola su questo argomento. Albert, tocca a te. Ora». Il barbiere si girò
verso il tipo col giornale. «Non ho il piacere di conoscerla, signore, ma le sarei
grato se non si impicciasse».
La guardia si alzò in piedi. Disse: «Credo che ripasserò più tardi. In questo
momento la compagnia lascia a desiderare».
Uscì e chiuse la porta con un colpo secco.
Il vecchio era rimasto seduto e fumava. Diede un’occhiata fuori. Esaminò
qualcosa sul dorso della mano. Si alzò e si mise il cappello.
«Mi spiace, Bill», disse il vecchio. «Posso tenermeli ancora qualche giorno».
«Non ti preoccupare, Albert», disse il barbiere.
Dopo che il vecchio fu uscito, il barbiere si avvicinò alla vetrina per guardarlo
mentre si allontanava.
«Albert sta morendo di enfisema», disse il barbiere dalla vetrina. «Una volta
andavamo a pesca insieme. Mi ha insegnato tutto sul salmone. E le donne.
Strisciavano ai suoi piedi. Ora però gli è spuntato un caratteraccio. Ma,
onestamente, la provocazione c’era».
L’uomo col giornale non riusciva a stare fermo. Era in piedi e girava per il
negozio, fermandosi a esaminare tutto, l’attaccapanni, le fotografie di Bill e dei
suoi amici, il calendario del ferramenta con una scena diversa per ogni mese
dell’anno. Lo sfogliò pagina per pagina. Arrivò persino al punto di esaminare la
licenza di Bill, che era incorniciata sul muro. Poi si girò e disse: «Me ne vado
anch’io», e se ne andò davvero.
«Allora, devo finire di sistemarli questi capelli o no?», mi disse il barbiere,
come se fossi io la causa di tutto.
Il barbiere fece girare la sedia per mettermi dritto davanti allo specchio. Mi
prese la testa tra le mani. Mi sistemò nella posizione giusta prima di abbassare la
sua testa accanto alla mia. Guardammo nello specchio insieme, con le sue mani
che ancora mi incorniciavano la testa.
Io mi guardai e anche lui mi guardò. Ma se il barbiere vide qualcosa, non fece
commenti.
Mi passò le dita tra i capelli. Lentamente, come se stesse pensando a
qualcos’altro. Mi passò le dita tra i capelli. Teneramente, come avrebbe fatto un
amante.
Questo avvenne a Crescent City, in California, su vicino al confine con
l’Oregon. Me ne andai subito dopo. Ma oggi ripensavo a quel posto, a Crescent
City, e a come proprio lì avevo cercato di ricominciare una nuova vita con mia
moglie, e a come quella mattina, nella poltrona del barbiere, avevo deciso di
andarmene. Ripensavo alla calma che provai quando chiusi gli occhi lasciando
che le dita del barbiere scorressero tra i miei capelli; alla dolcezza di quelle dita,
ai capelli che già cominciavano a ricrescere.
Meccanica popolare
(Nell’originale, «Popular Mechanics», che è anche il titolo di un mensile)
La mattina presto il tempo era cambiato e la neve stava sciogliendosi in acqua
sporca. Scorreva giù a rivoli dalla piccola finestra all’altezza della spalla che dava
sul giardinetto dietro la casa. Fuori le macchine schizzavano fango sulla strada,
dove stava diventando buio. Ma stava diventando buio anche in casa.
Lui era in camera da letto che cacciava i vestiti in valigia, quando lei comparve
sulla porta.
Sono contenta che tu te ne vada! Sono contenta che tu te ne vada! ha detto.
Mi senti?
Lui continuò a mettere la sua roba in valigia.
Figlio di puttana! Sapessi come sono contenta che tu te ne vada! Cominciò a
piangere. Non riesci nemmeno a guardarmi in faccia, eh?
Poi lei vide la fotografia del bambino sul letto e la prese in mano.
Lui la guardò e lei si asciugò gli occhi e ricambiò lo sguardo prima di voltarsi
per tornare in soggiorno.
Ridammela, disse lui.
Prendi la tua roba e vattene, disse lei.
Lui non rispose. Chiuse la valigia, s’infilò il cappotto, e diede un’occhiata alla
camera prima di spegnere la luce. Poi andò in soggiorno.
Lei era in piedi sulla porta della piccola cucina, con il neonato in braccio.
Voglio il bambino, disse lui. Sei impazzito?
No, ma voglio il bambino. Manderò qualcuno a prendere la sua roba.
Tu non lo tocchi, il bambino, disse lei.
Il piccolo cominciò a piangere e lei gli liberò la testa dalla coperta.
Oh, oh, disse guardando il bambino. Le si avvicinò.
Per l’amor di Dio! disse lei. Indietreggiò di un passo in cucina.
Voglio il bambino. Fuori di qui!
Lei si rintanò con il bambino in un angolo dietro i fornelli.
Ma lui si fece sotto. Tese le braccia oltre i fornelli e agguantò il bambino.
Lascialo andare, disse.
Vattene via, vattene via! urlò lei.
Il bambino aveva la faccia rossa e strillava. Nella zuffa fecero cadere un vaso
di fiori appeso sopra la cucina.
Lui la bloccò contro il muro, e cercò di farle mollare la presa. Tenne fermo il
bambino e la spinse con tutte le sue forze.
Lascialo andare, le disse.
No, disse lei. Fai male al bambino, disse.
Non gli faccio male al bambino, disse lui.
Non entrava luce dalla finestra della cucina. Nella semioscurità lui con una
mano cercò di allentare la stretta di lei e con l’altra afferrò per un braccio, sotto la
spalla, il bambino che strillava.
Lei sentì che le dita le cedevano. Sentì che il bambino si allontanava da lei.
No! urlò nel momento in cui fu costretta a mollare la presa.
Lo avrebbe tenuto lei, il bambino. Gli afferrò l’altro braccio. Lo prese per il
polso e si buttò indietro.
Ma lui non mollò. Sentì il bambino scivolargli via dalle mani e tirò a tutta
forza.
In questo modo la questione fu risolta.
Gli si è appiccicato tutto addosso
È a Milano per Natale e vuole sapere di quando era piccola.
Raccontami, dice. Raccontami di quando ero piccola. Beve un sorso di Strega,
e aspetta, guardandolo fissamente.
È una ragazza fredda, sottile, attraente, una che se la cava sempre.
È passato tanto tempo. Sono passati vent’anni, dice lui.
Però ti ricordi, dice lei. Va’ avanti.
Che cosa vuoi sapere? dice lui. Che altro posso dirti? Potrei raccontarti una
cosa che è successa quando eri neonata. Ti riguarda, dice lui. Ma in modo molto
marginale.
Racconta, dice lei. Ma prima versa ancora da bere a tutti e due, così non
dovrai interromperti a metà.
Lui torna dalla cucina coi bicchieri, si accomoda in poltrona e comincia.
Erano giovanissimi ma pazzamente innamorati, questo ragazzo di diciott’anni
e questa ragazza di diciassette, quando si sposarono. Non molto tempo dopo
ebbero una bambina.
La bambina arrivò verso la fine di novembre durante un periodo freddo che
per caso coincideva col momento di massima migrazione delle anatre. Al ragazzo
piaceva andare a caccia, capisci. Questo fa parte della storia.
Il ragazzo e la ragazza, marito e moglie, padre e madre, abitavano in un
piccolo appartamento sotto lo studio di un dentista. Ogni sera pulivano le stanze
del dentista in cambio di affitto, luce e gas. D’estate dovevano anche curare il
prato e i fiori. D’inverno il ragazzo spalava la neve e spargeva sale sui vialetti. Mi
segui? Ti sei fatta un’idea? Sì, dice lei.
Bene, dice lui. Allora un giorno il dentista scopre che usavano la sua carta da
lettere per la loro corrispondenza privata. Ma questa è un’altra storia.
Si alza dalla sedia e guarda fuori dalla finestra. Vede la neve che cade
incessante sui tetti di tegole. Racconta la storia, dice lei.
I due ragazzi erano molto innamorati. E avevano anche grandi ambizioni.
Parlavano sempre delle cose che avrebbero fatto e dei posti dove sarebbero
andati.
Dunque, i due dormivano in camera da letto, e la bambina dormiva in
soggiorno. Diciamo che la bambina aveva più o meno tre mesi, e aveva appena
cominciato a dormire per tutta la notte.
Il sabato in questione, dopo avere finito il lavoro al piano di sopra, il ragazzo
rimase nello studio del dentista e chiamò un vecchio compagno di caccia di suo
padre.
Carl, disse quando l’uomo alzò la cornetta, che tu ci creda o no, sono padre.
Congratulazioni, disse Carl. Come sta tua moglie?
Sta bene, Carl. Stiamo tutti bene.
Bene, ha detto Carl, sono contento. Ma se hai chiamato per andare a caccia, ti
dirò una cosa. Ci sono tante anatre da perdere la testa. Non credo di averne mai
viste tante. Solo oggi ne ho prese cinque. Domattina ci vado di nuovo; puoi venire
anche tu se vuoi.
Certo che voglio, disse il ragazzo.
Riattaccò e scese a dirlo alla ragazza. Lei rimase a guardarlo mentre lui tirava
fuori la roba. Giubbotto da caccia, borsa, stivali, calze, cappello, mutandoni,
fucile.
A che ora torni? disse la ragazza.
Probabilmente verso mezzogiorno, disse il ragazzo. Ma magari resto fuori fino
alle sei. È troppo tardi?
Va bene, disse lei. La bambina e io ce la caveremo benissimo. Tu va’ e
divertiti. Quando torni, la vestiamo e andiamo a trovare Sally.
Il ragazzo disse, Mi sembra una buona idea.
Sally era la sorella della ragazza. Era uno schianto. Non so se l’hai mai vista
in fotografia. Il ragazzo era un po’ innamorato di Sally, come del resto era un po’
innamorato di Betsy, che era un’altra sorella della ragazza. Le diceva, Se non
fossimo sposati, potrei anche innamorarmi di Sally. E Betsy allora? diceva la
ragazza. Non mi piace ammetterlo, ma credo proprio che sia più bella di Sally e di
me. E Betsy allora?
Anche di Betsy, diceva il ragazzo.
Dopo cena accese la caldaia e aiutò la ragazza a fare il bagno alla bambina. Si
stupì ancora una volta che avesse per metà i lineamenti suoi e per metà quelli
della ragazza. Coprì di talco il corpicino della piccola. Glielo mise anche tra le dita
delle mani e dei piedi.
Svuotò la vaschetta nel lavandino e andò di sopra a vedere com’era il tempo.
Faceva freddo e il cielo era coperto. L’erba, la poca che era rimasta, era rigida e
grigia, sembrava di stoppa sotto la luce del lampione.
La neve era ammucchiata lungo il sentiero. Passò un’auto. Sentì lo scricchiolio
della sabbia sotto le ruote. Provò a immaginare come sarebbe stato il giorno dopo,
con le anatre che fendevano l’aria sopra la sua testa, e il fucile da caccia che gli
batteva contro la spalla.
Poi chiuse a chiave la porta e scese.
A letto provarono a leggere. Ma entrambi si addormentarono, lei per prima,
lasciando cadere la rivista sulla trapunta.
Lo svegliò il pianto della bambina.
Nella stanza accanto la luce era accesa, e la ragazza stava in piedi vicino al
lettino a cullare la bambina tra le braccia. La rimise giù, spense la luce, e tornò a
letto.
Sentì la bambina che piangeva. Questa volta la ragazza rimase dov’era. La
bambina fece qualche strillo e tacque. Il ragazzo tese l’orecchio, poi riprese sonno.
Ma il pianto della bambina lo svegliò di nuovo. La luce brillava nel soggiorno. Si
tirò su a sedere e accese la lampada.
Non so cosa c’è che non va, disse la ragazza, camminando avanti e indietro
con la bambina. L’ho cambiata e le ho dato da mangiare, ma continua a piangere.
Sono così stanca che ho paura di farla cadere.
Vieni a letto, disse il ragazzo. La tengo un po’ io.
Si alzò e prese la bambina mentre la ragazza tornò a sdraiarsi.
Cullala solo qualche minuto, disse la ragazza dalla camera da letto. Magari si
riaddormenta.
Il ragazzo si sedette sul divano con la bambina in braccio. La fece saltellare
sulle ginocchia finché riuscì a farle chiudere gli occhi, proprio quando stava per
chiudere i suoi. Si alzò cautamente e la rimise nella culla.
Erano le quattro meno un quarto, il che voleva dire che gli restavano
quarantacinque minuti. Raggiunse a tentoni il letto e ci si buttò sopra. Ma alcuni
minuti dopo la bambina ricominciò a piangere, e questa volta si alzarono tutti e
due.
Il ragazzo fece una cosa terribile. Bestemmiò.
Per l’amor del cielo, cosa ti prende? disse la ragazza al ragazzo. Potrebbe
anche essere malata. Forse non avremmo dovuto farle il bagno.
Il ragazzo prese in braccio la piccola. Lei agitò le gambette e sorrise.
Guarda, disse il ragazzo, non mi pare proprio che stia male.
Come fai a saperlo? disse la ragazza. Dai qua. Credo che dovrei darle
qualcosa, ma non so cosa. La ragazza posò di nuovo la bambina. Tutti e due la
guardarono, e la piccolina ricominciò a piangere.
La ragazza la riprese in braccio. Bambina mia, bambina mia, disse con le
lacrime agli occhi.
Forse ha qualcosa sullo stomaco, disse il ragazzo.
La ragazza non rispose. Continuò a cullare la bambina senza badare al
ragazzo.
Il ragazzo rimase in attesa. Andò in cucina e scaldò l’acqua per il caffè. Si
infilò i mutandoni di lana sopra le mutande e la maglietta, li abbottonò, e si vestì.
Che stai facendo? disse la ragazza.
Vado a caccia, disse il ragazzo.
Non mi sembra il caso, disse lei. Non voglio restare sola con la bambina in
questo stato.
Carl mi sta aspettando, disse il ragazzo. Eravamo già d’accordo.
Non me ne importa niente degli accordi tuoi e di Carl, disse lei. E non me ne
importa niente neanche di Carl. Non lo conosco nemmeno, Carl.
L’hai incontrato una volta. Lo conosci, disse il ragazzo. Perché dici che non lo
conosci?
Non è questo il punto e tu lo sai, disse la ragazza.
Quale sarebbe il punto? disse il ragazzo. Per quanto mi riguarda il punto è che
Carl mi sta aspettando.
La ragazza disse, Io sono tua moglie. E questa è la tua bambina. È malata
probabilmente. Guardala. Altrimenti perché piangerebbe?
Lo so che sei mia moglie, disse il ragazzo.
La ragazza si mise a piangere. Adagiò la bambina nella culla. Ma la bambina
ricominciò ancora. La ragazza si asciugò gli occhi con la manica della camicia da
notte e riprese in braccio la bambina.
Lui si allacciò gli stivali. Si infilò la camicia, il maglione, la giacca. In cucina il
bollitore fischiava sul fornello.
Guarda che dovrai scegliere, disse la ragazza. Carl o noi. Dico sul serio.
Cosa vuoi dire? disse il ragazzo.
Esattamente quello che ho detto. Se vuoi una famiglia, dovrai scegliere, disse
lei.
Si fissarono negli occhi. Poi il ragazzo prese la sua attrezzatura da caccia e
uscì. Accese il motore della macchina. Scese e fece il giro dei finestrini,
raschiando via il ghiaccio con gran cura.
Spense il motore e rimase seduto in macchina per un po’.
Poi scese e rientrò in casa.
La luce del soggiorno era accesa. La ragazza era addormentata sul letto. La
bambina dormiva accanto a lei.
Il ragazzo si tolse gli stivali. Poi si tolse anche il resto. In calzini e mutandoni
sedette sul divano a leggere il giornale della domenica.
La ragazza e la bambina continuarono a dormire. Dopo un po’ il ragazzo andò
in cucina e cominciò a friggere della pancetta.
Arrivò la ragazza in vestaglia e lo abbracciò.
Ehi, disse il ragazzo.
Mi dispiace, disse la ragazza.
Non importa, disse il ragazzo.
Non intendevo scattare in quel modo.
E stata colpa mia, disse lui.
Ora siediti, disse la ragazza. Che ne diresti di una frittella con la pancetta?
Ottima idea, disse il ragazzo.
La ragazza tolse la pancetta dalla padella e preparò la pastella. Lui stava
seduto al tavolo a guardarla trafficare in cucina.
Lei gli mise davanti un piatto con la pancetta, e la frittella. Lui la spalmò di
burro e ci versò sopra lo sciroppo.
Ma quando fece per tagliarla il piatto gli andò a finire sulle ginocchia.
Non è possibile, disse, balzando in piedi. Se ti vedessi, disse la ragazza.
Il ragazzo abbassò lo sguardo su tutta quella roba appiccicata alle mutande.
Stavo morendo di fame, disse scuotendo la testa.
Stavi morendo di fame, disse la ragazza ridendo.
Lui si sfilò i mutandoni di lana e li lanciò contro la porta del bagno. Poi
spalancò le braccia e la ragazza si strinse a lui.
Non litigheremo mai più, disse la ragazza. Il ragazzo disse, No, mai più.
Si alza e riempie di nuovo i bicchieri. Ecco, dice, fine della storia. Ammetto che
non è poi una gran storia. A me interessava, dice lei.
Lui alza le spalle e va alla finestra portando con sé il bicchiere. È buio adesso,
ma sta ancora nevicando.
Le cose cambiano, dice lui. Non so come, ma succede senza che tu te ne
accorga o lo desideri.
Sì, è vero, solo che... Ma non finisce la frase.
Lascia cadere il discorso. Nel riflesso della finestra lui la vede che si guarda le
unghie. Poi alza la testa. Con voce allegra gli chiede se ha ancora intenzione di
mostrarle la città.
Lui dice, Mettiti gli stivali che usciamo.
Ma rimane vicino alla finestra, preso dal ricordo. Avevano riso. Si erano
appoggiati l’uno all’altra e avevano riso fino alle lacrime, mentre tutto il resto - il
freddo e dove voleva andare lui con quel freddo - era là fuori, almeno per un po’.
Di cosa parliamo quando parliamo d’amore
Stava parlando il mio amico Mel McGinnis. Mel McGinnis è cardiologo, e ciò
gli dà talvolta questo diritto.
Eravamo tutti e quattro nella sua cucina, seduti attorno alla tavola a bere gin.
La luce del sole inondava la stanza dalla grande finestra dietro il lavandino.
Eravamo Mel, io, la sua seconda moglie Teresa - Terri per noi - e mia moglie,
Laura. Abitavamo allora ad Albuquerque. Ma venivamo tutti da altre parti.
Sulla tavola c’era un secchiello del ghiaccio. Il gin e l’acqua tonica
continuavano a girare, e non so come ci siamo messi a parlare d’amore. Mel
pensava che il vero amore fosse soltanto l’amore spirituale. Disse che era stato
cinque anni in seminario, prima di smettere per passare a medicina. Disse che
ripensava a quegli anni in seminario come agli anni più importanti della sua vita.
Terri disse che l’uomo con cui era vissuta prima di vivere con Mel l’amava al
punto che aveva tentato di ucciderla. Poi Terri disse: «Una sera mi ha picchiata.
Mi ha trascinata per le caviglie intorno alla stanza. Non smetteva di dirmi: “Ti
amo, ti amo, troia”. E intanto mi trascinava per il soggiorno. Sbattevo la testa
dappertutto». Terri diede un’occhiata intorno alla tavola. «Cosa si fa con un amore
così?».
Era una donna pelle e ossa con una faccia graziosa, occhi scuri e capelli
castani che le scendevano sulla schiena. Le piacevano le collane di turchese, e i
lunghi orecchini pendenti.
«Non essere sciocca, mio Dio. Quello non è amore e tu lo sai», disse Mel. «Non
so come chiamarlo, ma certo non si può chiamare amore».
«Dì quello che ti pare, ma io so che era amore», disse Terri. «Potrà sembrare
assurdo a te, ma non cambia le cose. Non siamo tutti uguali, Mel. Certo, qualche
volta si sarà comportato come un pazzo. Va bene. Ma mi amava. A modo suo
forse, ma mi amava. Quello era amore, Mel. Non dire che non lo era».
Mel emise un sospiro. Col bicchiere in mano si girò verso Laura e me.
«Quell’uomo ha minacciato di uccidermi», disse Mel. Finì il suo gin e allungò la
mano per prendere la bottiglia. «Terri è una romantica. Terri è della scuola
dammiuncalcioesapròchemiami. Terri, tesoro, non fare quella faccia». Mel allungò
la mano attraverso la tavola e le sfiorò la guancia con le dita. Le fece un sorriso.
«Ora vuole aggiustarla», disse Terri.
«Aggiustare cosa?», disse Mel. «Cosa c’è da aggiustare? So di cosa sto
parlando. Ecco».
«Ma com’è che ci siamo imbarcati in questo argomento?», disse Terri. Alzò il
bicchiere e bevve un sorso. «Mel pensa sempre all’amore», disse. «Non è vero,
tesoro?». Sorrise, e con questo pensavo che l’argomento fosse chiuso.
«È solo che io non chiamerei amore il comportamento di Ed. Tutto qui quello
che volevo dire, tesoro», disse Mel. «E voi, ragazzi?», disse a Laura e me. «A voi, vi
sembra amore?».
«Lo chiedi alla persona sbagliata», dissi. «Io non lo conoscevo nemmeno. L’ho
solo sentito nominare di sfuggita. Non saprei. Bisognerebbe conoscere i
particolari. Ma forse quello che stai dicendo tu è che l’amore è qualcosa di
assoluto».
«Il genere di amore che dico io lo è», disse Mel. «Il genere di amore che dico io
non cerca di ammazzare la gente».
Laura disse: «Io non so niente di Ed, e nemmeno della situazione. Ma chi può
giudicare la situazione di un altro?».
Sfiorai il dorso della mano a Laura e lei mi fece un rapido sorriso. Le presi la
mano. Era calda, le unghie smaltate, perfettamente curate. Le circondai con le
dita il polso largo, e la tenni così. «Quando me ne sono andata, ha preso del
veleno per i topi», disse Terri. Si afferrò con le mani le braccia. «Lo hanno portato
all’ospedale di Santa Fe. Abitavamo allora, quindici chilometri fuori città. Gli
hanno salvato la vita. Ma gli sono saltate le gengive. Non so come dire, si
staccavano dai denti. E dopo i denti sporgevano come zanne. Mio Dio», disse
Terri. Restò così un momento, poi lasciò le braccia e riprese il bicchiere.
«Cosa non farebbe la gente!», disse Laura.
«Ormai è fuori gioco», disse Mel. «È morto».
Mel mi passò il piattino del lime. Ne presi uno spicchio, lo spremetti nel
bicchiere, e rigirai i cubetti di ghiaccio col dito.
«Adesso viene il peggio», disse Terri. «Si è sparato in bocca. Ma gli è andata
storta anche quella, povero Ed», disse Terri scrollando la testa.
«Povero Ed un bel niente», disse Mel. «Era pericoloso».
Mel aveva quarantacinque anni. Era alto, slanciato, con i capelli ricci e
morbidi. La faccia e le braccia erano scure perché giocava a tennis. Quando era
sobrio, i suoi gesti, tutti i suoi movimenti, erano precisi, molto accurati.
«Però mi amava davvero, Mel. Concedimelo questo», disse Terri. «È tutto quello
che chiedo. Non mi amava nel modo in cui mi ami tu. Non sto dicendo questo. Ma
mi amava. Questo me lo concedi, no?».
«Che vuoi dire, gli è andata storta anche quella?», dissi io.
Laura si sporse in avanti col bicchiere. Mise i gomiti sulla tavola tenendo il
bicchiere con entrambe le mani. Spostò lo sguardo da Mel a Terri e rimase in
attesa con un’espressione smarrita sulla sua faccia aperta, come stupefatta che
cose del genere accadessero a gente con cui si era in amicizia. «Che cosa gli è
andato storto quando si è ucciso?», dissi io.
«Ti racconto come è successo», disse Mel. «Ha preso questa calibro ventidue
che aveva comprato per minacciare Terri e me. Oh, dico sul serio, quello
minacciava continuamente. Avreste dovuto vedere come vivevamo quei giorni.
Come fuggiaschi. Io stesso sono arrivato a comprarmi una pistola. Ci credereste?
Un tipo come me? Eppure l’ho fatto. Ne ho comprata una per legittima difesa e la
tenevo nel cassetto del cruscotto. Certe volte dovevo uscire nel cuore della notte.
Per andare all’ospedale, capite? Terri e io non eravamo sposati allora, e la mia
prima moglie aveva la casa e i bambini, il cane, tutto, e Terri e io vivevamo qui, in
questo appartamento. Qualche volta, come dico, ricevevo una chiamata nel cuore
della notte e dovevo andare in ospedale alle due o alle tre del mattino. Fuori nel
parcheggio era buio, e prima ancora di arrivare alla macchina ero in un bagno di
sudore. Che ne sapevo, poteva sbucare fuori dai cespugli o da dietro una
macchina, e cominciare a sparare. Voglio dire, quello era pazzo. Era capace di
mettere una bomba, qualsiasi cosa. Chiamava la mia segreteria telefonica a tutte
le ore e diceva che aveva bisogno di parlare col dottore, e quando io lo richiamavo
diceva: “Figlio di puttana, hai i giorni contati”. Cosette del genere. C’era da aver
paura, ve lo garantisco».
«Eppure mi fa pena», disse Terri.
«È come un incubo», disse Laura. «Ma che cosa è successo esattamente, dopo
che si è sparato?». Laura è segretaria in uno studio legale. Ci eravamo conosciuti
sul lavoro. Senza neanche accorgercene, ci siamo innamorati. Lei ha trentacinque
anni, tre anni meno di me. Oltre a essere innamorati, ci piacciamo e stiamo bene
insieme. È una persona con cui è facile andare d’accordo.
«Cos’è successo?», disse Laura.
Mel disse: «Si è sparato in bocca nella sua stanza. Qualcuno ha sentito lo
sparo e l’ha detto al direttore. Sono entrati con un passepartout, hanno visto
cos’era accaduto e hanno chiamato un’ambulanza. Per caso ero presente quando
lo hanno portato dentro, vivo ma senza più speranza. È vissuto tre giorni. La
testa gli si è gonfiata fino a due volte la grandezza normale. Non avevo mai visto
una cosa simile e spero di non vederla mai più. Quando l’ha saputo, Terri è
voluta entrare e rimanere con lui. Su questo abbiamo bisticciato. Ero del parere
che non dovesse vederlo in quello stato. Lo ero allora, e lo sono ancora oggi».
«Chi l’ha avuta vinta?», disse Laura.
«Ero nella sua stanza quando è morto», disse Terri. «Non si è mai ripreso. Ma
sono rimasta con lui. Non aveva nessun altro».
«Era pericoloso», disse Mel. «Se questo lo chiami amore, puoi tenertelo».
«Era amore», disse Terri. «Certo, agli occhi della maggior parte della gente è
anormale. Ma lui era disposto a morire per questo. È morto, per questo».
«Col cavolo che quello era amore», disse Mel. «Voglio dire, nessuno sa perché lo
abbia fatto. Ho visto un sacco di gente che si è ammazzata, e credo che nessuno
abbia mai saputo perché».
Mel si mise le mani dietro la nuca e inclinò indietro la sedia. «Non mi interessa
questo tipo di amore», disse. «Se questo è amore, puoi tenertelo».
Terri disse: «Avevamo paura. Mel ha persino fatto testamento e scritto in
California a suo fratello, che era stato un Berretto Verde. Gli ha scritto a chi
doveva rivolgersi se gli fosse successo qualcosa».
Terri bevve un sorso. Disse: «Ma Mel ha ragione -vivevamo come fuggiaschi.
Avevamo paura.
Mel certamente, non è vero, tesoro? A un certo punto ho persino chiamato la
polizia, ma non sono stati di nessun aiuto. Hanno detto che non potevano
muoversi finché Ed non avesse realmente fatto qualcosa. Non è da ridere?», disse
Terri.
Si versò nel bicchiere il gin rimasto e scrollò la bottiglia. Mel si alzò da tavola,
andò verso l’armadio e tirò giù un’altra bottiglia.
«Bè, Nick e io sappiamo cos’è l’amore», disse Laura. «Per noi, intendo», disse
Laura. Mi sfiorò il ginocchio. «Tocca a te dir qualcosa adesso», disse Laura,
volgendo il suo sorriso verso di me.
Per tutta risposta, le presi la mano e la portai alle labbra. Feci una grande
esibizione del mio baciamano. Erano tutti divertiti.
«Siamo fortunati», dissi.
«Voi due», disse Terri. «Piantatela adesso. Mi fate venire la nausea. Siete
ancora in luna di miele, per Dio. Ancora troppo presi per cantar vittoria.
Aspettate. Da quanto state insieme? Cos’è? Un anno? Più di un anno?».
«Quasi un anno e mezzo», disse Laura, tutta rossa e sorridente.
«Oh, allora», disse Terri. «Aspettate un po’».
Teneva in mano il bicchiere e fissava Laura.
«Sto solo scherzando», disse Terri.
Mel aprì il gin e fece il giro del tavolo con la bottiglia.
«Ecco qua, ragazzi», disse. «Facciamo un brindisi. Voglio proporre un brindisi.
Un brindisi all’amore. Al vero amore», disse Mel.
Si brindò.
«All’amore», dicemmo in coro.
Fuori in cortile un cane prese ad abbaiare. Le foglie del pioppo che si
protendeva oltre la finestra battevano leggere contro il vetro. Il sole del pomeriggio
era come una presenza in quella stanza, la luce ampia del benessere e
dell’abbondanza. Avremmo potuto essere in qualsiasi luogo, un luogo incantato.
Alzammo di nuovo i bicchieri sorridendoci a vicenda come bambini d’accordo su
qualcosa di proibito.
«Vi dirò io cos’è il vero amore», disse Mel. «Voglio dire, ve ne darò un buon
esempio. E poi potrete trarre le vostre conclusioni». Si versò dell’altro gin.
Aggiunse un cubetto di ghiaccio e una fettina di lime. Noi restammo in attesa
sorseggiando il nostro gin. Laura e io ci toccammo le ginocchia un’altra volta. Le
misi una mano sulla coscia calda e ve la lasciai.
«Che cosa ne sappiamo noi veramente dell’amore?», disse Mel. «A me sembra
che siamo soltanto dei principianti in amore. Diciamo di amarci, e ci amiamo,
non ne dubito. Io amo Terri e Terri ama me, e voi due ragazzi vi amate anche voi.
Sapete di che tipo di amore sto parlando adesso. Amore fisico, quell’impulso che
ti attira verso qualcuno in particolare, e anche amore per l’altro essere, la sua
essenza, per così dire. Amore carnale e, beh, chiamatelo amore sentimentale,
l’attenzione quotidiana per l’altro. Ma a volte è per me molto difficile spiegarmi
come ho potuto amare anche la mia prima moglie. Eppure l’ho amata, so che l’ho
amata. Quindi, immagino di essere come Terri in questo. Terri e Ed». Ci pensò su
e poi proseguì. «C’è stato un momento in cui pensavo di amare la mia prima
moglie più della vita stessa. Ma ora la odio con tutte le mie forze. Davvero. Come
ve lo spiegate? Che fine ha fatto quell’amore? Vorrei proprio saperlo che fine ha
fatto. Vorrei che qualcuno me lo spiegasse. E poi c’è Ed. D’accordo, siamo tornati
a Ed. Ama Terri al punto che cerca di ucciderla e finisce con l’uccidere se stesso».
Mel si fermò e prese un sorso dal bicchiere. «Voi due siete insieme da diciotto
mesi e vi amate. Basta guardarvi. Raggianti d’amore. Ma tutti e due avete amato
altre persone prima di incontrarvi. Siete stati sposati tutti e due, proprio come
noi.
E probabilmente avete amato altre persone ancora prima. Terri e io stiamo
insieme da cinque anni, sposati da quattro. E la cosa tremenda, la cosa tremenda
è, - ma anche la cosa buona, l’ancora di salvezza si può dire, - è che se
succedesse qualcosa a uno di noi, perdonatemi se dico così, ma se succedesse
qualcosa a uno di noi domani, penso che l’altro, l’altra persona, si tormenterebbe
per un po’, no? Ma poi quello dei due che è sopravvissuto tornerebbe ad amare di
nuovo, si troverebbe abbastanza presto qualcun altro. Tutto questo, tutto questo
amore di cui stiamo parlando, sarebbe soltanto un ricordo. Forse nemmeno un
ricordo. Mi sbaglio? Sono fuori strada? Perché voglio che mi correggiate se
sbaglio. Voglio saperlo. È chiaro, io non so niente, e sono il primo ad ammetterlo».
«Mel, per amor del cielo», disse Terri. Allungò la mano e gli prese il polso. «Ti
stai ubriacando? Tesoro? Sei ubriaco?».
«Tesoro, sto solo parlando», disse Mel. «Va bene? Non ho bisogno di essere
ubriaco per dire quello che penso. Voglio dire, stiamo tutti solo parlando, no?»,
disse Mel, e puntò lo sguardo su di lei. «Amore, non sto criticando», disse Terri.
Prese il bicchiere.
«Non sono di turno oggi», disse Mel. «Lascia che te lo ricordi. Non sono di
turno», disse.
«Mel, ti vogliamo bene», disse Laura.
Mel guardò Laura. La guardò come se non riuscisse a individuarla, come se
non fosse la donna che era.
«Anch’io ti voglio bene, Laura», disse Mel. «E tu, Nick, voglio bene anche a te.
Sapete una cosa?», disse Mel. «Voi due siete i nostri migliori amici», disse Mel.
Prese il bicchiere.
Mel disse: «Volevo raccontarvi qualcosa. Per farvi capire. È accaduto qualche
mese fa, ma continua ancora adesso, e dovrebbe farci vergognare di noi stessi
quando parliamo come se sapessimo di cosa parliamo quando parliamo d’amore».
«Ti prego», disse Terri. «Non parlare come se fossi ubriaco quando non sei
ubriaco».
«Chiudi la bocca per una volta in vita tua», disse ma con molta calma. «Mi fai il
favore di tenerla chiusa per un minuto? Allora, come stavo dicendo, ci sono
questi due vecchi, marito e moglie che hanno avuto un incidente sull’autostrada.
Un ragazzo li ha investiti e li ha ridotti in merda, e nessuno sarebbe stato
disposto a scommettere che se la sarebbero cavata».
Terri guardò noi e poi di nuovo Mel. Sembrava ansiosa, ma forse è una parola
troppo fotte.
Mel faceva girare la bottiglia intorno alla tavola.
«Quella sera ero di turno», disse Mel. «Era maggio, o forse era giugno. Terri e io
ci eravamo appena messi a tavola quando ha chiamato l’ospedale. Era successa
questa cosa sull’autostrada. Un ragazzo ubriaco era andato a infilarsi col furgone
del padre dritto dentro un camper con a bordo i vecchi. Tutti e due sui
settantacinque. Il ragazzo -diciotto, diciannove anni, più o meno - c’è rimasto. Gli
è entrato il volante nello sterno. I due vecchi, erano vivi, capite. Insomma, si fa
per dire. Ma avevano di tutto. Fratture multiple, ferite interne, emorragie,
contusioni, lacerazioni, qualsiasi cosa, e commozione cerebrale tutti e due.
Conciati male, potete credermi. E naturalmente, l’età giocava contro. Direi che lei
era conciata peggio di lui. Aveva la Milza in pezzi oltre a tutto il resto. Tutte e due
le rotule rotte. Ma avevano le cinture di sicurezza, e Dio solo lo sa, questo gli ha
impedito di morire sul colpo».
«Gente, questo è un annuncio dell’Ente Prevenzione Infortuni», disse Terri. «Vi
parla il dottor Melvin R. McGinnis», rise Terri. «Mel», disse, «certe volte esageri. Ma
ti amo, tesoro», disse. «Tesoro, ti amo», disse Mel.
Si piegò in avanti sul tavolo. Terri gli andò incontro a metà strada. Si
baciarono.
«Terri ha ragione», disse Mel rimettendosi seduto. «Mettetevi sempre le cinture.
Ma seriamente, erano mal ridotti i vecchietti. Quando sono arrivato il ragazzo era
morto, come ho detto. Era in un angolo, steso su una barella. Ho dato
un’occhiata ai vecchi e ho detto all’infermiera del pronto soccorso di mandarmi
giù subito un neurologo e un ortopedico e un paio di chirurghi».
Bevve un sorso. «Cercherò di farla breve», disse. «Allora abbiamo portato i due
in sala operatoria e lavorato come dannati quasi tutta la notte. Avevano delle
riserve incredibili, quei due. Cose che si vedono raramente. Abbiamo fatto tutto il
possibile e verso mattina gli davamo un cinquanta per cento di probabilità, forse
a lei un po’ meno. Così eccoli ancora vivi la mattina dopo. Naturalmente li
spostiamo al reparto cure intensive, dove sgobbano per due settimane,
migliorando su tutti i monitor. E poi li trasferiamo nella loro stanza».
Mel si interruppe. «Ecco qui», disse, «facciamoci fuori questo pessimo gin. Poi
andiamo a cena, vi va? Terri e io conosciamo un posto nuovo. Andremo lì, in
questo posto nuovo che sappiamo. Ma non ci muoveremo di qui finché non
avremo finito questo schifoso gin da quattro soldi».
Terri disse: «Veramente non ci abbiamo mai mangiato. Ma pare buono. Da
fuori, ovviamente».
«Mi piace mangiare», disse Mel. «Se dovessi ricominciare daccapo farei il
cuoco, sapete? Giusto, Terri?», disse Mel.
Rise. Girò il ghiaccio col dito.
«Terri lo sa», disse. «Terri ve lo può dire. Ma lasciate che vi dica questo. Se
potessi tornare indietro un’altra volta, in un’altra vita, un altro tempo e tutto,
sapete una cosa? Mi piacerebbe rinascere cavaliere. Si stava sicuri con tutta
quell’armatura addosso. Non era male essere cavaliere, prima che arrivassero la
polvere da sparo, i moschetti e le pistole».
«A Mel piacerebbe andare a cavallo e portare una lancia», disse Terri.
«Portare sempre con sé i colori di una donna» disse Laura.
«O solo una donna», disse Mel. «Vergogna», disse Laura.
Terri disse: «E se invece rinascessi servo della gleba? I servi non se la
passavano molto bene a quei tempi», disse Terri.
«I servi non se la sono mai passata bene», disse Mel. «Ma immagino che anche
i cavalieri fossero i vessilli di qualcuno. Non è così che funzionava? C’è da dire
che ognuno è sempre il vessillo di qualcun altro. È vero o no? Terri? Ma quello
che mi piaceva dei cavalieri, a parte le dame, era che avevano quel vestito di
corazza, e non potevano farsi male tanto facilmente. Non c’erano macchine a quei
tempi, giusto? E nemmeno ragazzini ubriachi a sfasciarti il culo».
«Vassalli», disse Terri. «Cosa?», disse Mel.
«Vassalli», disse Terri. «Si chiamavano vassalli, non vessilli».
«Vassalli, vessilli», disse Mel, «che cazzo di differenza fa? Si è capito quello che
volevo dire. Va bene», disse Mel. «Così sono ignorante. Ho imparato il mio lavoro.
Sono un cardiochirurgo, come no, ma sono solo un meccanico. Entro, faccio due
stronzate e aggiusto la roba. Merda», disse Mel.
«La modestia non ti si addice», disse Terri.
«È solo un mediocre aggiustaossa», dissi io. «Ma qualche volta soffocavano con
tutta quell’armatura addosso, Mel. Avevano persino degli attacchi di cuore se
faceva troppo caldo e erano stanchi sfiniti. Ho letto da qualche parte che
cadevano da cavallo e non erano più capaci di alzarsi perché erano troppo stanchi
per stare in piedi con tutta quell’armatura addosso. Venivano calpestati dai loro
stessi cavalli, a volte».
«È terribile», disse Mel. «Questa è una cosa terribile, Nicky. Immagino che
restassero là per terra ad aspettare finché non arrivava qualcuno a farne
spezzatino».
«Un altro vessillo», disse Terri.
«Giusto», disse Mel. «Arrivava un altro vassallo e infilzava il bastardo in nome
dell’amore. O di quel cazzo per cui si battevano a quei tempi».
«Le stesse cose per cui ci battiamo oggi», disse Terri.
Laura disse: «Non è cambiato niente».
Le guance di Laura erano ancora accese. Gli occhi le luccicavano. Portò il
bicchiere alle labbra.
Mel si versò ancora da bere. Guardò l’etichetta da vicino come se esaminasse
una lunga serie di numeri. Posò la bottiglia sul tavolo lentamente e lentamente
tese la mano per prendere l’acqua tonica.
«E allora la vecchia coppia?», disse Laura. «Non hai finito la storia che avevi
cominciato».
Laura faceva una gran fatica ad accendersi la sigaretta. Le si spegnevano
continuamente i fiammiferi.
Ora nella stanza la luce era diversa, stava cambiando, diventava più tenue.
Ma le foglie fuori dalla finestra luccicavano ancora, e io contemplai le forme che
disegnavano sui vetri e sul ripiano di formica. Non erano gli stessi disegni,
naturalmente.
«E allora, la vecchia coppia?», dissi.
«Più vecchia ma più saggia», disse Terri.
Mel le puntò gli occhi in faccia.
Terri disse: «Va’ avanti con la tua storia, tesoro. Stavo solo scherzando. Che
cosa è successo dopo?».
«Terri, certe volte», disse Mel.
«Per favore, Mel», disse Terri. «Non essere sempre così serio, amore. Non sai
stare allo scherzo?». «Dov’è lo scherzo?», disse Mel. Teneva in mano il bicchiere e
guardava fisso sua moglie. «Cos’è successo?», disse Laura.
Mel puntò gli occhi su Laura. «Laura, se non avessi Terri e se non la amassi
tanto, e se Nick non fosse il mio migliore amico, mi innamorerei di te. Ti porterei
via con me, tesoro», disse.
«Racconta la tua storia», disse Terri. «Poi andiamo in quel nuovo posto, va
bene?».
«Va bene», disse Mel. «Dov’ero rimasto?», disse. Fissò la tavola e poi riprese a
parlare.
«Andavo a trovarli tutti i giorni, anche due volte al giorno, se ero lì per qualche
altra chiamata. Gesso e bende dalla testa ai piedi, tutti e due. Lo sapete come, lo
avete visto al cinema. Erano così, proprio come al cinema. Piccoli fori per gli
occhi, fori per il naso, fori per la bocca. E lei oltre a tutto doveva tenere le gambe
appese. Bene, il marito era quello più depresso dei due. Anche dopo aver saputo
che sua moglie ce l’avrebbe fatta, era molto depresso. Non per l’incidente, però.
Voglio dire, l’incidente era una cosa, ma non era tutto. Mi sono avvicinato al foro
della bocca e lui mi ha detto no, non era per l’incidente, ma perché non la poteva
vedere con quei fori per gli occhi. Diceva che era questo che lo faceva star male.
Ve lo immaginate? Vi sto dicendo che il cuore di quest’uomo si stava spezzando
perché non poteva girare la sua stramaledetta testa e vedere la sua stramaledetta
moglie».
Mel volse lo sguardo intorno alla tavola e scosse la testa per quello che stava
per dire.
«Insomma, quel vecchio rimbambito stava morendo solo perché non riusciva a
vedere quel suo cazzo di moglie».
Tutti guardammo Mel.
«Capite cosa sto dicendo?», disse.
Forse a quel punto eravamo tutti un po’ ubriachi. So che era difficile
mantenere le cose a fuoco. La luce svaniva dalla stanza ritirandosi attraverso la
finestra da cui era entrata. Tuttavia nessuno fece il gesto di alzarsi per accendere
la lampada sopra la tavola.
«Sentite», disse Mel. «Finiamoci questo gin di merda. Ce n’è per un altro giro
completo. Poi andiamo a mangiare. Andiamo in quel posto nuovo».
«È depresso», disse Terri. «Mel, perché non prendi una pillola?».
Mel scosse la testa. «Ho preso tutto quello che c’era da prendere».
«Tutti abbiamo bisogno di una pillola ogni tanto», dissi io.
«Certa gente quel bisogno ce l’ha dalla nascita», disse Terri.
Grattava col dito qualcosa sulla tavola. Poi smise.
«Credo che telefonerò ai bambini», disse Mel. «Niente in contrario? Telefono ai
bambini», disse. Terri disse: «E se risponde Marjorie? Voi due, ci avete mai sentito
sull’argomento Marjorie? Tesoro, sai che non vuoi parlare con Marjorie. Ti farà
sentire anche peggio».
«Non voglio parlare con Marjorie», disse Mel. «Ma voglio parlare coi bambini».
«Non passa un giorno senza che Mel dica che spera che lei si risposi. Oppure
che muoia», disse Terri. «Soprattutto per una cosa», disse Terri, «ci sta mandando
in rovina. Mel dice che è solo per fare dispetto a lui che non si risposa. Ha un
uomo che vive con lei e i bambini, così Mel mantiene anche lui».
«È allergica alle api», disse Mel. «Quando non prego perché si risposi, prego
che sia punta a morte da uno sciame di schifosissime api».
«Vergogna», disse Laura.
«Bzzzzzzzz», disse Mel, trasformando le dita in api e facendole ronzare alla gola
di Terri. Poi lasciò cadere le mani lungo i fianchi.
«È perfida», disse Mel. «Qualche volta penso che andrò da lei vestito da
apicoltore. Ce li avete in mente, quel cappello che sembra un elmetto e quello
schermo che viene giù sulla faccia, i guantoni e il cappotto imbottito? Busserò
alla porta e libererò in casa uno sciame di api. Ma prima mi accerterò che i
ragazzi siano fuori, ovviamente».
Accavallò le gambe, e la cosa sembrò richiedergli molto tempo. Poi posò
entrambi i piedi per terra e si piegò in avanti, i gomiti sul tavolo, il mento nel cavo
delle mani.
«Forse non chiamerò i bambini, dopotutto. Forse non è poi un’idea così
grandiosa. Forse andremo solo a mangiare. Che ne dite?».
«Per me va bene», dissi. «Mangiare o non mangiare. O continuare a bere. O
uscire e andare incontro al tramonto».
«Che cosa significa, tesoro?», disse Laura.
«Significa quello che ho detto», dissi. «Significa che potrei semplicemente
andare senza fermarmi. Ecco che cosa significa».
«Io mangerei volentieri qualcosa», disse Laura. «Credo di non aver mai avuto
tanta fame in vita mia. Non c’è qualcosa da sgranocchiare?».
«Tiro fuori del formaggio e dei crackers», disse Terri.
Ma Terri restò seduta dov’era. Non si alzò a prendere proprio niente.
Mel rovesciò il bicchiere. Tutto il contenuto si sparse sul tavolo.
«Il gin è partito», disse Mel.
Terri disse: «E adesso?»
Sentivo il cuore che mi batteva. Sentivo il battito del cuore di ognuno. Sentivo
il rumore umano che facevamo tutti, lì seduti, senza muoverci, nemmeno quando
la stanza diventò tutta buia.
Ancora una cosa
Sua moglie Maxine gli disse di andarsene la sera in cui tornando dal lavoro lo
trovò di nuovo ubriaco che insultava Rae, la figlia quindicenne. L.D. e Rae, seduti
al tavolo in cucina, litigavano. Maxine non ebbe nemmeno il tempo di metter via
la borsa o di togliersi il cappotto.
Rae disse: «Diglielo, mamma. Digli di cosa abbiamo parlato».
L.D. rigirò il bicchiere nella mano, ma senza bere. Rae lo fissava minaccioso.
«Non t’impicciare in cose di cui non sai nulla», disse L.D. Disse: «Non posso
prendere sul serio una persona che sta tutto il giorno a leggere riviste di
astrologia».
«Questo non ha niente a che fare con l’astrologia», disse Rae. «Non c’è bisogno
che mi insulti». Rae, dal canto suo, non andava a scuola da settimane. Diceva che
nessuno poteva obbligarla. Maxine diceva che questa era l’ultima di una lunga
serie di tragedie da quattro soldi.
«Perché non chiudete la bocca tutti e due!», disse Maxine. «Mio Dio, ho già mal
di testa». «Diglielo, mamma», disse Rae. «Digli che è tutto nella sua testa.
Chiunque ne sappia qualcosa ti dirà che è proprio lì».
«E il diabete allora?», disse L.D. «E l’epilessia? Il cervello controlla anche
quelli?».
Alzò il bicchiere sotto gli occhi di Maxine e lo scolò.
«Anche il diabete», disse Rae. «L’epilessia. Qualsiasi cosa! Il cervello è l’organo
più potente del corpo, per tua informazione».
Prese le sigarette di L.D. e ne accese una per sé.
«Cancro. E il cancro allora?», disse L.D.
Pensava di averla inchiodata. Guardò Maxine.
«Non so più come abbiamo cominciato», disse L.D. a Maxine.
«Cancro», disse Rae, e scosse la testa di fronte a tanta ingenuità. «Anche il
cancro. Il cancro comincia nel cervello».
«Questo è assurdo!», disse L.D. Batté il palmo della mano sul tavolo. Il
portacenere sussultò. Il bicchiere si rovesciò rotolando sul tavolo. «Sei pazza, Rae.
Lo sai?».
«Chiudi la bocca!», disse Maxine.
Si sbottonò il cappotto e appoggiò la borsa sul ripiano. Guardando L.D. disse:
«L.D., io ne ho abbastanza. E anche Rae. E tutti quelli che ti conoscono. Ci ho
riflettuto. Voglio che tu te ne vada. Stasera. In questo momento. Ora. Vattene
immediatamente di qui».
L.D. non aveva intenzione di andare da nessuna parte. Volse lo sguardo da
Maxine al vaso di sottaceti che era rimasto sul tavolo dall’ora di colazione. Prese il
vaso e lo scagliò contro la finestra della cucina.
Rae balzò dalla sedia. «Dio! E pazzo!».
Corse a mettersi vicino alla madre. Respirava affannosamente.
«Chiama la polizia», disse Maxine. «È violento. Esci dalla cucina prima che ti
faccia del male. Chiama la polizia», disse Maxine.
Fecero per uscire dalla cucina camminando all’indietro.
«Me ne vado», disse L.D. «Va bene, me ne vado subito», disse. «Non chiedo di
meglio. Comunque voi siete matte. Questa è una gabbia di matti. Ma la vita non
finisce qui dentro. Credetemi, c’è poco da stare allegri in questa gabbia di matti».
Sentiva sulla faccia l’aria che entrava dal buco nella finestra.
«Ecco dove vado», disse. «Là fuori», disse puntando l’indice.
«Bene», disse Maxine.
«Va bene, me ne vado», disse L.D.
Picchiò forte la mano sul tavolo. Scostò la sedia con un calcio. Si alzò in piedi.
«Non mi rivedrai mai più», disse L.D.
«Mi lasci molti ricordi», disse Maxine.
«Okay», disse L.D.
«Avanti, vattene», disse Maxine. «Sono io che pago l’affitto qui, e sono io che ti
dico di andare. Adesso».
«Me ne vado», disse lui. «Non farmi fretta», disse. «Me ne vado».
«Va’ allora», disse Maxine.
«Lascio questa gabbia di matti», disse L.D.
Andò in camera da letto e prese una delle valigie della moglie dall’armadio.
Era una vecchia Naugahyde bianca, con una chiusura rotta. Un tempo lei la
riempiva di golf e se la portava all’università. Anche lui era andato all’università.
Buttò la valigia sul letto e cominciò a metterci dentro la biancheria, i calzoni, le
camicie, i maglioni, la vecchia cintura di pelle con la fibbia di ottone, i calzini e
tutte le altre cose che possedeva. Dal comodino prese delle riviste per avere
qualcosa da leggere. Prese il portacenere. Infilò in valigia tutto quello che poteva,
tutto quello che ci stava. Chiuse la serratura funzionante, allacciò la cinghia, e
solo allora si ricordò degli oggetti da toilette. Trovò la busta di plastica sul ripiano
dell’armadio dietro i cappelli di Maxine. Rasoio e crema da barba, talco, stick
deodorante e spazzolino finirono dentro. Prese anche il dentifricio. E il filo
interdentale.
Le sentì che parlavano a bassa voce in soggiorno.
Si lavò la faccia. Mise il sapone e l’asciugamano nella busta di plastica. Poi
aggiunse il portasapone, il bicchiere che era sopra il lavandino, le forbici per le
unghie e il piegaciglia di Maxine.
Non riuscì a chiudere la busta, ma poco importava. Si infilò il cappotto e prese
la valigia. Andò in soggiorno.
Quando lo vide, Maxine mise un braccio intorno alle spalle di Rae.
«Ecco», disse lui. «Questo è un addio», disse. «Non so che altro dire, se non che
immagino di non rivederti mai più. E neanche te», disse L.D. a Rae. «Tu e le tue
idee picchiate».
«Va’», disse Maxine. Prese la mano di Rae. «Non credi di aver fatto già
abbastanza danni in questa casa? Va’, L.D. Vattene di qui e lasciaci in pace».
«Ricordati», disse Rae. «È nella tua testa».
«Me ne vado, è tutto quello che posso dire», disse L.D. «In qualunque posto.
Via da questa gabbia di matti», disse. «Questa è la cosa più importante».
Lanciò un’ultima occhiata al soggiorno e poi passò la valigia da una mano
all’altra e infilò la busta di plastica sotto il braccio. «Mi farò vivo, Rae. Maxine,
faresti meglio a lasciare questa gabbia di matti anche tu».
«Sei tu che l’hai fatta diventare una gabbia di matti», disse Maxine. «Se è una
gabbia di matti, è per colpa tua».
Lui appoggiò la valigia per terra e la busta di plastica sulla valigia. Raddrizzò
le spalle e si piazzò davanti a loro.
Rae e Maxine fecero un passo indietro.
«Attenta, mamma», disse Rae.
«Non mi fa paura», disse Maxine.
L.D. infilò sotto il braccio la busta di plastica e raccolse la valigia.
Disse: «Soltanto una cosa voglio ancora dire».
Ma poi non riuscì a pensare cosa mai potesse essere.
Il Minimalismo di Raymond Carverdi Fernanda Pivano
Raymond Carver è considerato il leader del Minimalismo letterario americano e
la sua comparsa si fa datare dal 1976 quando uscì la raccolta di 22 racconti Will
You Please Be Quiet, Please? (di prossima pubblicazione presso Garzanti): che anni
prima era uscita un’altra raccolta, Put Yourself in My Shoes, ma non è più inclusa
nelle bibliografie.
Da quel 1976, lo stesso anno in cui uscirono il primo romanzo (Chilly Scenes of
Winter) e la prima raccolta di racconti (Distorsions) di Ann Beattie allora
ventinovenne, questa corrente ha raccolto un largo numero di scrittori, tutti ostinati,
Raymond Carver per primo, a rifiutare l’etichetta di minimalista.
Mentre Madison Bell scriveva un saggio dispettoso col titolo Less is Less nel
quale raggruppava con Carver e la Beattie giovani scrittori come David Leavitt,
Frederick Barthelme, Bobbie Ann Mason, Amy Hempel e Peter Taylor, il celebre
narratore postmoderno John Barth ne pubblicava uno anche più dispettoso
annunciando che il suo prossimo romanzo sarebbe stato definito massimalista e
avrebbe avuto per argomento la storia di uno scrittore minimalista. Intanto il «New
York Times» pubblicava un prospetto del Minimalismo nell’arte e nella musica,
partendo da John Cage che diede l’archetipo del movimento col suo famoso 4’33”
per arrivare alle Civil wars di Bob Wilson musicato da Philip Glass, attraverso la
danza di Yvonne Rainer, Lucinda Childs e Trisha Brown e le composizioni di
LaMonte Young e Morton Feldman.
Il prospetto di John Rockwell citava gli artisti Robert Morris, Richard Serra, Sol
LeWitt e gli altri «concettuali»; ed è caratteristico che tutti loro, musicisti a artisti,
abbiano respinto la definizione di minimalisti. Probabilmente respingeranno il
raggruppamento anche Michelangelo Antonioni di cui Rockwell cita L’avventura e
Deserto rosso o Sergio Leone di cui vengono ricordati il dialogo monosillabico e i
deserti sconfinati degli «spaghetti western» o Samuel Beckett o Bertolt Brecht.
Rockwell sposta la sua proposta anche nel costume, citando la «Nouvelle Cuisine»
(come una reazione contro gli ornamenti dell’«alta» cucina francese) e nella moda,
partendo dalle minigonne e i bikini per arrivare agli «abitini neri» detti anche «tubini»
in voga all’inizio degli Anni, Sessanta; e qualcuno protesterà per la definizione
anche per questi esempi.
Insomma nessuno vuol essere considerato minimalista, meno di tutti David
Leavitt, Jay McInerney e Bret Easton Ellis che a suo tempo ho definito
postminimalisti nonostante le enormi differenze esistenti fra loro per suggerire ai
lettori che si trattava comunque di tre scrittori posthemingwayani di una New Wave
che stava facendo la storia degli Anni Ottanta d’America; e capostipite di questi
autori resta al di là di qualsiasi definizione Raymond Carver, uno dei più grandi
scrittori di racconti della letteratura americana di tutti i tempi.
Nel 1976, quando fu pubblicato il libro che gli diede la fama, Carver aveva 38
anni e usciva da una vita drammatica per povertà e squallore, proprio la povertà e
lo squallore che hanno fatto da ambiente a tante sue storie. Era figlio di un operaio
di segheria e di una cameriera di ristorante in una cittadina dello Stato di
Washington e appena finito il Liceo andò a lavorare per sei mesi nella segheria col
padre. Aveva 18 anni e aspettava un figlio da una ragazza di 16, Maryann Burk,
che subito sposò. Più tardi Carver scrisse: «Non abbiamo avuto giovinezza. Ci siamo
trovati in ruoli che non sapevamo come recitare. Ma abbiamo fatto del nostro
meglio. Lei ha finito per laurearsi 14 anni dopo che ci eravamo sposati».
Anche Carver si laureò dopo il matrimonio. Cominciò a passare da una cittadina
all’altra, a lavorare di notte e frequentare le lezioni di giorno. La laurea la prese
alla Chico State College, dove lo scrittore John Gardner lo incoraggiò a scrivere:
Carver ricordò riconoscente i suoi rapporti con lui nell’introduzione che fece al suo
libro postumo On Becoming a Novelist. Dopo la laurea andò allo Iowa Writers”
Workshop con l’aiuto del suo insegnante Dick Day che mandò un suo racconto e
qualche sua poesia a Don Justice, incaricato di assegnare le borse di studio e
abbastanza illuminato da assegnarne a Carver una di 500 dollari. La somma però
non gli bastava per la moglie e i due figli nonostante Carver lavorasse nella
biblioteca per un dollaro all’ora e sua moglie facesse la cameriera.
Lo scrittore dovette così lasciare lo Iowa Writers” Workshop e ritornò in
California dove campò per tre anni facendo il portiere di notte in un ospedale: a
metà della notte andava a casa e scriveva la mattina mentre la moglie faceva la
venditrice di libri a domicilio. Carver aveva 29 anni. Ma una notte invece di tornare
a casa andò in un bar a bere e così cominciò il suo alcoolismo.
Questa fu la piaga della sua vita; Carver riuscì a liberarsene soltanto dopo
arresti, ricoveri e disintossicazioni con un gesto di volontà che ha datato col 7
giugno 1977, quando viveva ormai separato dalla moglie in una cittadina della
California. La raccolta di racconti che gli diede la fama era uscita l’anno prima
senza migliorare la sua situazione economica e Fred Hills, presidente dell’editore
McGraw Hill, lo aveva invitato a colazione per dargli un anticipo per un romanzo.
Ma quando andò alla colazione Carver era completamente ubriaco. Hills gli offrì lo
stesso l’anticipo e Carver riuscì a smettere di bere, anche con l’aiuto dell’Alcoholics
Anonymous, nella cui sede per il primo mese di astinenza passò tutte le giornate.
L’alcoolismo non gli aveva impedito però di insegnare allo Iowa Writers”
Workshop nel semestre d’autunno del 1973 insieme a John Cheever, anche lui
alcolizzato, l’altro grande scrittore di racconti che cinque anni dopo rilanciò questo
«genere» così disprezzato dagli editori (convinti che i racconti non si vendessero più
dopo gli storici successi di Hemingway, Fitzgerald e Faulkner) con una raccolta che
vendette 200.000 copie nell’edizione rilegata, 500.000 nella tascabile e restò per
mesi sugli elenchi dei bestsellers.
Non gli aveva impedito neanche di continuare a scrivere in condizioni disperate,
magari su un notes tenuto in grembo in automobile per evitare il chiasso dei
bambini, o rifugiato in un angolo del garage, o sul tavolo di cucina, o in una
biblioteca pubblica e così via. Non era ancora laureato il giorno che considera
tuttora il più fortunato della sua vita, quando una rivista gli accettò un racconto e
un’altra rivista gli accettò una poesia: il racconto si chiamava Pastoral e la poesia
The Brass Ring; ora Carver dice di essere stato orgoglioso del fatto che la poesia
venisse pubblicata sullo stesso numero in cui era pubblicata una poesia di Charles
Bukowski che a quei tempi era uno dei suoi eroi. Un’altra rivista poco nota gli
pubblicò il racconto December: e fu questo ad attirare l’attenzione di Martha Foley,
che lo incluse nella sua antologia annuale delle Best American Short Stories.
Non conosceva ancora l’alcool, tuttavia, quando ascoltava il padre leggergli forte
le storie di Zane Grey o raccontargli episodi della sua vita di povero diavolo e
neanche mentre frequentava il Liceo, quando scrisse il suo primo racconto, la storia
di un pesce (pescato o forse che non si era lasciato pescare), che la madre copiò con
una macchina presa apposta in affitto e mandò a una rivista che naturalmente lo
respinse.
Quando dimenticò l’alcool andò a insegnare in un College a El Paso, il suo
primo lavoro da disintossicato, e lì nel 1979 conobbe Tess Gallagher, una poetessa
che insegnava letteratura all’Università di Syracuse: da due anni Carver era
separato dalla moglie e iniziò la sua convivenza con Tess, andando con lei a
insegnare a Syracuse. Fu lì che Jay McInerney, il bravissimo e fortunato autore di
Brighi Lights, Big City, lo conobbe e diventò suo allievo e suo protetto.
Ormai i tempi difficili per Carver erano finiti. Nel 1981 uscirono i 17 racconti di
What We Talk About When We Talk About Love per l’editore Knopf di cui era
presidente Robert Gottlieb diventato di recente direttore del «New Yorker» (una
rivista alla quale Carver non collaborò mai) e dove fungeva da editor Gordon Lish, il
mentore del Minimalismo che forgiò un intero gruppo di giovani scrittrici.
Si parlò di una New Wave letteraria e nel 1983, quando uscirono i 18 racconti di
Cathedral Irving Howe li citò come capolavori, Carver ricevette l’ambita borsa di
studio Mildred and Harold Strauss Livings che gli assicurava per cinque anni
35.000 dollari all’anno dell’Accademia Americana di Arti e Lettere e la «Paris
Review» gli pubblicò una lunga intervista che lo rese famoso; lo scrittore lasciò
l’Università di Syracuse e scrisse una sceneggiatura per Michael Cimino che gli
permise di comprarsi una Mercedes e costruirsi una casa a Port Angeles (nello
Stato di Washington), la città natale di Tess Gallagher. Da allora divise il suo tempo
tra la minuscola casa solitaria sul mare dove va a pesca di salmoni e quella di
Syracuse dove continua a stare con Tess.
Nella nuova agiatezza ricominciò a scrivere poesie e l’anno scorso uscì la
raccolta Where Water Comes Together With Other Water, la quarta dopo Near
Klamath (1968), Winter Insomnia (1970) e At Night the Salmon Move (1976).
Ormai era diventato un maestro, corteggiato dagli editori, rispettato dai critici,
idolatrato dagli aspiranti scrittori, amato dal pubblico: il primo nome che mi fecero
David Leavitt e Jay McInerney quando li incontrai a New York nel 1985.
Da vero artista non si lasciò inflazionare dal successo. Continuò a scrivere con
umiltà, rispetto e ostinazione, rifacendo i racconti anche trenta volte, con infinite
correzioni e ripensamenti. Nelle interviste disse che dopo aver passato gli anni del
Liceo a leggere riviste di pesca e di caccia o i racconti di Mickey Spillane, scoprì
Ernest Hemingway, che diventò la sua più grande influenza letteraria: «Lo scrittore
il cui lavoro ammiro più di ogni altro», disse. Gli altri «suoi» autori sono Tolstoj, Isaac
Babel, Flannery O’Connor, John Cheever (coi suoi celebri racconti ambientati tra
WASP dell’alta borghesia), Joseph Conrad, Harold Pinter e soprattutto Cechov, di
cui mentre era al Liceo trovò una lettera che consigliava di non scrivere su gente
straordinaria che compie azioni straordinarie.
E il Minimalismo? Il Minimalismo esisteva nelle altre arti, era nell’aria come
reazione all’appassionata visceralità del neoespressionismo astratto o dell’Action
Painting di Jackson Pollock e di Willem De Kooning e della indimenticata poesia e
narrativa cosiddetta «beat» di Ginsberg, Kerouac e Burroughs.
Gli artisti negli Anni Sessanta presero a ridurre la figurazione a segni
elementari, quello che gli Americani chiamano basic, basici, calati in uno spazio
vuoto di significato: gli scultori riducevano la scultura a una struttura geometrica e
metafisica, i pittori riducevano la pittura a una struttura matematica e metafisica.
In uno stesso clima ma con colossali differenze Carver ridusse gli eventi a stati
metafisici, a segni basici, e li collocò in un vuoto sociale, raccontando i disastri
prodotti dalla società, ma di una società che non si vede mai, di cui si vedono
soltanto le conseguenze. Le sue storie potrebbero avvenire dovunque e comunque
avvengono quasi sempre nell’interno delle case, intorno a un tavolo di cucina o
davanti a un televisore: sono storie che si svolgono in scene condensate su una
lastra da vivisezione, dove l’emozione nasce dalla suspense di un evento che
avviene in un vuoto totale, alla cui logica siamo impreparati, un po’ (molto
vagamente) come in certi quadri di Edward Hopper.
In questo vuoto totale si muovono autisti e manovali, contabili in pensione e
amministratori di motel, venditori di libri scolastici e fornai, commesse di
supermercati e cameriere di ristoranti, uomini delle pulizie e gente disoccupata:
poveri diavoli che non sognano neanche il successo ma soltanto un po’ di serenità e
la possibilità, come disse Carver in un’intervista, «di mettere un po’ di latte e di cibo
sul tavolo e di pagare l’affitto».
Con descrizioni ridotte eroicamente al minimo (una volta Carver ha detto: «Se
tagliassi ancora non resterebbe più niente», e anche: «Non taglio soltanto fino
all’osso, taglio fino al midollo») i personaggi sono rappresentati mentre vivono la
loro vita smorta, svolgendo lavori smorti in luoghi smortì; ma la loro anima non è
mai smorta ed è in queste anime doloranti che Carver scava con la sua poesia
tanto ricca di umanità quanto la sua prosa è parca di parole. Sono personaggi che
soffrono orrendamente per una incomunicabilità resa più inesorabile dal senso non
detto di una kafkiana minaccia terribile che incombe sulla vita quotidiana,
l’impotenza di capire non soltanto perché qualcosa è successo, ma che è successo
qualcosa.
Per questo i personaggi che negli Anni Trenta sarebbero stati descritti come
«lavoratori» nella tradizione della letteratura filoproletaria non hanno alcuna
aspirazione di rivendicazioni sociali ma sono soltanto dei poveri diavoli sbattuti
dagli imperscrutabili misteri della vita in situazioni inafferrabili e comunque
incontrollabili. Uno dei nostri racconti narra di un marito che andandosene cacciato
dalla moglie dichiara: «Voglio dire soltanto una cosa»; ma, conclude il racconto: «Non
riuscì a pensare che cosa avrebbe potuto dire».
Laconica e scabra, priva di lirismo e di eloquenza, parsimoniosa di immagini e
di commenti la prosa di Carver conduce la «semplicità» sognata da Hemingway alle
sue estreme conseguenze, senza concessioni a metafore, a esuberanze, a
sentimentalismi. Il nulla che ha fatto da protagonista al racconto di Hemingway A
Clean, Well Lighted Place (diventato per gli scrittori minimalisti una specie di
manifesto letterario) è anche protagonista di tutti questi racconti, a volte spezzati in
capitoli, con le storie inframmezzate di flashbacks tali da togliere profondità alla
narrazione, come per esempio in What We Talk About When We Talk About Love
che dà titolo al libro; ed è un nulla carico di significati metafisici che conduce a
certe allusive conclusioni kafkiane, come il «Lui sa» di So Much Water So Close To
Home, o alla «voce» che conclude il dramma di The Bath. Vorrei ricordare come una
curiosità che questo racconto The Bath rivela una tipica tecnica di Carver. The Bath
nella nostra raccolta finisce con una delle abituali sospensioni carveriane lasciando
incerta la sorte del bambino protagonista; in un ripensamento il racconto è ripreso
nella raccolta successiva e il bambino viene condotto alla sua fine, con la «voce»
impersonata da un personaggio che diventa il consolatore dei genitori dopo la morte
del bambino.
Questo come gli altri è un racconto così immerso nella realtà da sembrare del
tutto autobiografico; eppure di autobiografico nei racconti di Carver c’è solo il clima
degli ambienti piccolo borghesi o popolani che l’autore ha conosciuto così da vicino
per averli vissuti negli anni che precedettero la sua fama. In un’intervista ha detto:
«Nessuna delle mie storie è mai avvenuta in realtà. Ma c’è sempre qualcosa, un
elemento, qualcosa che mi è stato detto o a cui ho assistito, che ha fatto da punto di
partenza. Per esempio una volta da ubriaco mi sono sentito dire: “Questo è l’ultimo
Natale che ci rovinerai!” e me lo sono ricordato. Più tardi, molto più tardi, quando
ero sobrio, usando soltanto quella frase insieme a cose immaginate, ma
immaginate con tanta precisione che avrebbero potuto accadere, ho scritto il
racconto: A Serious Talk».
Anche Why Don’t You Dance? è nato da un fatto vero. Carver ha detto che
mentre si trovava tra alcuni scrittori uno di loro ha raccontato la storia della barista
Linda che una sera si ubriacò e sistemò in cortile tutti i mobili della camera da letto.
Uno degli amici chiese: «Chi la scriverà, questa storia?» e la scrisse Carver cinque
anni dopo. Fu il suo primo racconto quando smise di bere.
Il lettore ritroverà questi racconti nella nostra raccolta, tutta vagamente
autobiografica senza esserlo, ripeto, fino in fondo. In un’intervista Carver ha
ricordato l’affermazione di John Cheever, secondo la quale tutti i suoi racconti sono
autobiografici e ha aggiunto: «Questo non è vero alla lettera. Ma in un certo senso
tutto quello che scriviamo è autobiografico... Quando si è giovani continuiamo a
sentirci dire che dobbiamo scrivere di quello che sappiamo, e che cosa sappiamo
meglio dei nostri segreti?».
È stato, questo, un altro insegnamento di Hemingway a incidere nella poetica di
Carver, e non c’è dubbio che anche alcuni racconti di questa raccolta sembrano
ricalcati da vicino su racconti hemingwayani, per esempio After the Denim coi suoi
dialoghi intimisti, o The Third Thing That Killed My Father Off con le sue descrizioni
di pesca, o The Cairn con quelle di caccia. Detto questo va aggiunto che non sempre
si ritrovano in Carver, magnifico scrittore di racconti, quella universalità e quella
creatività infinita, quella felicità di scoperta e quella drammaticità di sconfitta,
quella stellante poesia e quel disperato amore della vita che hanno fatto di
Hemingway l’eroe della narrativa contemporanea d’America e del mondo; ma va
aggiunto anche che con Hemingway Carver ha sicuramente diviso un’appassionata
ricerca di semplicità e di verità (che alcuni vogliono far risalire agli infruttuosi
tentativi di Wordsworth e Coleridge convinti di usare «il linguaggio veramente
parlato dagli uomini») e ha sicuramente diviso l’appassionata devozione allo
scrivere.
In un’intervista ha formulato quello che sembra il suo credo letterario: «La
narrativa non deve fare niente. Deve solo esserci, per l’ardente piacere che ci viene
dallo scriverla e per il diverso tipo di piacere che ci viene nel leggere qualcosa di
duraturo e scritto per durare, oltre che bello in sé e per sé. Qualcosa che getti
qualche scintilla in un chiarore persistente e saldo anche se fioco».
F. P.
Febbraio 1987