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Craniofaringioma di Paolo Ferroli
Mininvasiva della Tiroide di Gioacchino Giugliano
e Bianca Gibelli
Estratti di Timo pTE di Federica Sciacca
Intervista al Prof. Walter Ricciardi
Direttore del Dipartimento di Sanità Pubblica
del Policlinico “A. Gemelli” di Roma
www.iso9000sanita.it
Rivista Scientifica di: MEDICINA - RICERCA - STANDARD DI QUALITA’ - EUROPROGETTAZIONE Anno 2 Nr.1
ISB
N:
978
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Medicina di Frontiera Iscrizione al Tribunale di Como N° 3/2011
Direttore responsabile: Vera
Paola Termali editoriale: Su la testa!
Redazione:
Federica Sciacca Responsabile di redazione Andrea passi
Giorgio romandini Federica Peci
Copertina dedicata a: Walter
Ricciardi
Samorindo Peci Direttore scientifico
Comitato scientifico
Massimo Saita Marianno
Franzini Fabio Catalano
Concetto Battiato Valentina
Vena Giovanna Sartor
Emanuela Cafiso
Anna Frisinghelli
Gioacchino Giugliano Paolo
Ferroli Massimo Lemma
David satanassi
Collaboratori Rita Buoncristiano Giorgio
D’alessandro Michela
Palvarini Melina Castiglione
Fracesco Acerbi Morgan
Brogi Giovanni felisati
Mauro Arcicasa Alberto
Maccari Stefano Giraudi
Marco Schiariti Donatella
Vasaturo Ulrich Erdmann
Girolamo Simonetta
Elisabetta Montano
Addetto stampa: [email protected] Editing -
Grafica - Impaginazione: Cerifos
Tel. 02 26416162 - Fax 02 87388788
Email: [email protected]
sito: medicinadifrontiera.cerifos.it Flipping:
ebook.cerifos.it
Amministrazione: P.zza Carlo Schiavio 2 22020 Veleso
Como
Editore: Cerifos
Stampa: Litograf editor srl Citta di Castello Pg Info pubblicità:
ISBN: 978-88-98371-02-0
Biotech: a ognuno il suo. Intervista a Maria Luisa Nolli di Vera Paola Termali Pag. 6
La terapia del timo: passato, presente e futuro di Federica Sciacca Pag. 8
Le sindromi geriatriche e l’ossigeno-ozono-terapia di Marianno Franzini Pag. 11
Il Craniofaringioma
di Paolo Ferroli et al. Pag. 12
La terapia occupazionale di Donatella Vasaturo Pag. 14
Sedimentest la scoperta “made in Cerifos” per valutare le
funzionalità dell’organismo a cura di Bianca Scoto Pag. 15
Ambulatori dedicati allo Scompeso Cardiaco Cronico di Anna Frisinghelli Pag. 26
Chirurgia conservativa nella cura dei tumori differenziati della
tiroide a cura di Bianca Gibelli e Gioacchino Giugliano Pag. 29
Breve viaggio intorno alla radiochirurgia stereotassica a cura di Giovanna Sartor e Mauro Arcicasa Pag. 31
Il medico davanti al paziente: un’idra o una chimera? a cura di Concetto Battiato Pag. 32
Servizi Psichiatrici Semiresidenziali
a cura di Emanuela Cafisio Pag. 33
Sanità: Le sfide del futuro
di Walter Ricciardi Pag. 4
Linee guida, una riflessione
a cura di Valentina Vena Pag. 28
Biostatistica
a cura di Valentina Vena Pag. 38
Master Europrogettazione
Università Milano Bicocca Facoltà di Economia Pag. 25
Progetti europei: conoscere per saper fare
a cura di Girolamo Simonetta Pag. 34
Le innovazioni del prossimo futuro per far ripartire il paese
a cura di Cristina Boeri Pag. 36
1° Congresso Medicina di Frontiera
Cerifos Pag. 17
A randomized placebo-controlled single and multiple dose stu-
dy on animal thymus gland extract (pTE) in healthy volunteers
Peci et al Pag. 18
Partecipazione congressi Cerifos
Pag. 28
Editoriale
Vera Paola Termali
Sembra uno slogan politico e, ora che saremo in distribuzione, molto sarà già successo nel nostro Paese in questo ambito. Ma non voglio parlare di politica, ma delle persone, perché di una sola cosa sono certa: non possono essere mille parlamentari ad aver rovinato l’Italia. Siamo noi, cittadini qualsi- asi, ognuno nel nostro ruolo, che abbiamo abbozza- to, per stanchezza, per ignavia, occupati nel portare a sera la giornata, nell’arrivare a fine mese, siamo noi che abbiamo pensato che come singoli non pote- vamo fare la differenza ed invece non è così. Il sin- golo fa sempre la differenza! Tutte le grandi sco- perte, che hanno cambiato la vita dell’umanità, sono nate come un flash nella testa di un essere umano, un’idea che, come un sasso gettato in uno stagno, a cerchi concentrici si espande e cambia le cose. Voi, cari lettori, siete tutti uomini di Medicina, e sapete bene quanto sia più impegnativo trattare il cronico che non l’acuto. Noi, cittadini di questo Paese, non possiamo dar spazio alla cronicizzazione delle situa- zioni che viviamo ed è proprio per raccogliere intor- no a sé i migliori, quelli che non si rassegnano, che è nata Medicina di Frontiera. Tutte le persone che scrivono sulla nostra rivista sono professionisti appassionati, persone che cerca- no strade nuove per far bene il loro lavoro, persone che non si stancano di cercare di vedere, di intuire, il non ancora visto, ciò che non è stato ancora pensa- to, per prendere un fardello di conoscenze pregresse e portarlo avanti per un pezzetto, fino a dove posso- no, senza credersi Superman. In prima linea, ecco dove dobbiamo stare, sempre. Dare il buon esempio, conservare la capacità di indignarci, quale ultimo baluardo di libertà individuale, ma all’indignazione che fa salire il sangue in volto e strizza la cistifellea, deve seguire l’azione, perché l’azione è tutto. Senza l’azione concreta l’indignazione diventa lamentazio- ne, passività, stasi, fuga dal cambiamento. Il cambiamento … niente è più agognato e più temu- to al contempo. Chi lascia la strada vecchia per la nuova... quante volte ce lo siamo sentiti dire, eppure soltanto il cambiamento è Vita. In Medicina di Frontiera troverete sempre una sto-
ria di qualcuno che ha fatto un punto e a capo, per- ché, se ce l’ha fatta lui, perché non io? È la doman- da che tutti e sempre dobbiamo porci. Abbiamo un margine di libero arbitrio sempre, mai la scelta più facile, certamente, ma ce l’abbiamo. In questo nu-
mero troverete due personaggi: l’uomo in copertina è il Prof. Walter Ricciardi, medico che continua a dedicare la vita a cercare di far funzionare al me- glio il nostro SSN; nel settore dedicato all’eccellenza delle aziende italiane, troverete una mia intervista alla Dr.ssa Nolli, fondatrice di Areta International, famosa azienda di Biotech. Nel giornale troverete, poi, una nuova sezione, quel- la di Economia Sanitaria, tema che così fortemente influenza l’attività di ogni medico, perché non si può non prendere posizione su certe disfunzioni e subire sempre, perché “così va il mondo”. Proprio per riconoscere il merito e offrire tutela al Medico, il dipartimento di Economia Sanitaria di Cerifos sta portando avanti progetti importanti, tra cui l’elaborazione di standard di qualità per la cer- tificazione di eccellenza sia delle strutture che delle organizzazioni che dei singoli professionisti della salute. Ci siamo accorti però che troppi medici non sanno veramente “leggere” una pubblicazione scientifica, una competenza che troppo spesso si dà per sconta- ta. L’incapacità di interpretare correttamente i dati rende il Medico manipolabile da chi vuole orientare le sue scelte, facendosi bello della “pubblicazione scientifica”. Mi auguro che leggiate con interesse gli articoli dedicati a questo argomento. Segnalo poi quello che riteniamo il cuore di questo numero, uno degli assi portanti del nostro centro di ricerca: la terapia del timo, un approccio terapeuti- co che affonda le radici in tempi antichissimi e su cui Cerifos ha maturato notevole esperienza. Il direttore scientifico del Centro, attraverso un’intervista, ne spiega punti di forza e di debolezza e anticipa una sua pubblicazione sull’argomento.
In questi primi due mesi dell’anno Cerifos ha pro- ceduto inoltre ad un restyling del sito www.cerifos. it, per renderlo sempre più facilmente fruibile. Nel settore Europrogettazione è in dirittura d’arrivo una piattaforma e-learning che conterrà videolezioni, grazie alle quali si potranno apprendere, comoda- mente e da qualsiasi parte del mondo, le informazio- ni basilari sul mondo dei finanziamenti europei.
Adesso, non mi resta che augurarvi una buona let- tura, aspettando i vostri consigli, suggerimenti o anche le vostre critiche, indispensabili per farci cre- scere ancora e per arrivare al numero tre più ricchi
di idee e di proposte stimolanti.
Vera Paola Termali
Su la testa! Cambiare per crescere, cambiare per non morire
SANITA’: LE SFIDE DEL FUTURO
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Il Professor Walter Ricciardi, me-
dico, nato a Napoli nel 1959, ha
svolto la sua attività professionale,
didattica e scientifica nell’ambito
dell’Igiene e della Sanità Pubblica.
Attualmente è Professore Ordina-
rio di Igiene e Vice Preside della
Facoltà di Medicina e Chirurgia
“A. Gemelli” dell’Università Cat-
tolica del Sacro Cuore di Roma ed
anche Direttore del Dipartimento
per l’assistenza sanitaria di Sanità
Pubblica del Policlinico Universi-
tario “A. Gemelli”.
Ha ricoperto e ricopre diverse
cariche, sempre nell’ambito della
Sanità Pubblica, tra cui quella di
Presidente della III Sezione del
Consiglio Superiore di Sanità.
E’ attivamente impegnato in diver-
se società scientifiche. Presidente
della Società Italiana Medici Ma-
nager (SIMM) di cui è stato il fon-
datore nel 2006, è stato tra i primi
igienisti in Italia ad occuparsi di
management sanitario, istituendo
anche numerosi corsi di forma-
zione in varie Università italiane.
È, inoltre, Fondatore e Direttore
dell’Osservatorio Nazionale per
la Salute nelle Regioni Italiane e
Direttore del Rapporto Osserva-
salute.
Nel corso della sua attività pro-
fessionale ha consolidato im-
portanti relazioni internazionali,
conseguendo diversi incarichi
tra cui quelli attuali di Presiden-
te dell’Associazione Europea di
Sanità Pubblica (EUPHA) e di
Membro del Consiglio di Ammi-
nistrazione dell’Ente Nazionale
per la Valutazione dei Medici ne-
gli Stati Uniti (NBME) e di Editor
del Manuale di Sanità Pubblica di
Oxford.
La sua attività scientifica, ricca di
11 monografie ed oltre 300 pub-
blicazioni su riviste nazionali ed
internazionali ha interessato lo
stesso settore disciplinare, essendo
anche editore del Giornale Italiano
e del Giornale Europeo di Sanità
Pubblica (Italian Journal of Public
Health e European Journal of Pu-
blic Health).
In un periodo di crisi generalizzata che
colpisce tutti i settori della vita pubbli-
ca di un Paese, è buona cosa ricordare
come l’istruzione, la formazione e, più
in generale, il capitale umano contribu-
iscano in modo decisivo allo sviluppo
socio-economico di qualsiasi nazione. A
maggior ragione parlando dell’Italia, Pa-
ese di immensa storia, gloriosa tradizio-
ne e profonda cultura che, però, a livello
internazionale si trova a dover compete-
re con una realtà sempre più complessa.
Difatti, in un contesto globale in cui: gli
Stati Uniti d’America possono ancora
investire puntando sulle risorse econo-
miche, i BRICs (Brasile, Russia, India e
Cina) e gli altri Paesi a rapida espansione
economica possono contare sulle materie
prime e risorse minerarie, le Nazioni del
Nord Europa mantengono il passo grazie
alla propria struttura e puntando sulle ri-
sorse tecnologiche, l’Italia deve essere in
grado di riconoscere il valore strategico
della formazione per poter puntare con
decisione sulle uniche risorse a propria di-
sposizione, quelle umane. A tal proposito
il tema della formazione e della sua mi-
gliore modalità di gestione deve rimanere,
a pieno titolo, ai primi posti nell’agenda
del dibattito istituzionale, accademico e
politico.
In sanità questo risulta ancora più vero ed
urgente poiché il mondo della salute, per
definizione, è un sistema complesso dove
il rapido perfezionarsi e migliorarsi del-
la conoscenza, il veloce ricambio tecno-
logico, la multi-professionalità e l’ultra-
specializzazione pongono continuamente
richieste ed esigenze nuove. È utile ricor-
dare, difatti, come il Servizio Sanitario
Nazionale (SSN) svolga, oltre e insieme
alle sue funzioni di prevenzione, cura e
riabilitazione, anche attività di didattica e
di ricerca biomedica.
Invece è proprio in epoca di “spending
review” che gli investimenti in Formazio-
ne e Ricerca e nella valorizzazione del ca-
pitale umano costituiscono le condizioni,
necessarie e sufficienti, per la crescita e lo
sviluppo di un sistema pubblico che, insie-
me alla sicurezza sociale e sanitaria e ad
una solida formazione delle giovani gene-
razioni, rappresenta la più grande industria
di servizi del Paese.
Purtroppo, nel contesto attuale, i decisori
nazionali e regionali vedono quasi sem-
pre Sanità e Ricerca come voci di costo
e sembrano aver dimenticato le realtà di
eccellenza che il nostro Paese vanta nel
campo della biotecnologia applicata, del-
lo sviluppo dei medical devices e dell’in-
dustria farmaceutica: l’Italia ha, infatti
,un enorme potenziale non ottimizzato,
con una dotazione di eccellenze cliniche
e strutture di ricerca che possono attirare
investimenti nazionali ed internazionali,
purtroppo bloccati dalla scarsa efficienza e
dalla complessità burocratica che costitui-
scono un difettoso “collo di bottiglia”, per
non parlare del deficit di opportunità che il
nostro Paese presenta ai giovani laureati e
alle persone meritevoli, con troppe iniqui-
tà nel riconoscere e ricompensare talento e
merito al di là della rete di relazioni e della
posizione sociale di partenza.
E’ chiaro a tutti in teoria che la formazione
professionale e la ricerca siano le chiavi per
far ripartire il Paese e renderlo più capace
di affrontare le sfide globali: è prioritario,
dunque, mettere al centro l’importanza del
capitale umano e degli sforzi profusi da
personale qualificato, non sempre adegua-
tamente valorizzato, di cui il nostro Paese
dispone, e accrescere gli investimenti del
settore privato, anche mediante agevola-
zioni fiscali e attraverso il credito struttu-
rale di imposta e rafforzando il dialogo tra
imprese e università.
Come fare nella pratica? Anzitutto, ridu-
cendo il peso della politica nelle carriere
professionali e nella valutazione del la-
voro svolto dai dipendenti pubblici. Quindi,
promuovendo la mobilità sociale: maggiori
borse di studio, assegni di ricerca e tutti gli
strumenti utili ad un orientamento efficace
per i giovani meritevoli e con minori mezzi e
risorse. Oltre questo, sarebbe necessario ga-
rantire la dovuta attenzione alla ricerca scien-
tifica e la promozione del talento e del merito,
rilanciare il meccanismo degli accordi di pro-
gramma, per liberare risorse e dare impulso
al sistema delle PMI e degli Spin Off Uni-
versitari, sfruttare i fondi di ricerca europei
(finanziati, non dimentichiamolo, anche dal
contribuente italiano) ed, infine, incrementa-
re la capacità e gli sforzi delle Pubbliche Am-
ministrazioni nel loro recepimento ed utilizzo
efficiente e totale.
La sanità del futuro può essere compatibile
con l’universalità delle cure solo a patto che
vi sia un radicale recupero di efficienza in un
contesto di immutata efficacia
La crisi finanziaria sta inducendo nei deciso-
ri italiani l’adozione di politiche di conteni-
mento drastico della spesa pubblica e, poiché
è forte nel nostro Paese la convinzione che la
Sanità sia essenzialmente una voce di costo
da controllare e ridurre, il diritto alla tutela
della salute corre rischi sempre maggiori. In-
fatti, il crescente razionamento delle risorse,
spesso cieco con i suoi tagli progressivi e li-
neari, minaccia alla base i principi fondanti
del Sistema Sanitario Nazionale (SSN) con la
conseguente creazione di un sistema nuovo,
ma peggiore e profondamente iniquo, che sta
facendo emergere la scarsa capacità di quasi
tutte le Regioni di avviare un vero percorso
riformatore all’interno di un federalismo che,
ancor prima di essere attuato, ha mostrato tut-
ti i suoi limiti, finendo con il costituire addi-
rittura una minaccia alla stessa sopravvivenza
del Servizio. Per questo motivo, in accordo
all’art. 32 della Costituzione Italiana, la tu-
tela della salute diritto fondamentale dell’in-
dividuo e dovere della collettività, deve ri-
tornare di piena competenza dello Stato, con
un Governo centrale che dovrà preoccuparsi,
in prima battuta, di garantire, oltre ai LEA,
l’attuazione di una programmazione sanitaria
di largo respiro, in accordo con le esigenze
regionali.
Per garantire un SSN sostenibile, in grado di
prendersi cura anche della salute delle pros-
sime generazioni, è necessario ispirarsi a
principi di appropriatezza delle cure, costo/efficacia, riduzio-
ne al massimo degli sprechi, gestione manageriale basata su
una valutazione trasparente dei risultati, finora troppo spesso
trascurati da una politica politicante che ha preferito scelte
condizionate dagli interessi di parte ad azioni trasparenti (ac-
countability), supportate dall’evidenza scientifica, da valori
etici condivisi e da una forte cultura della prevenzione.
Senza contrapporre sanità pubblica e sanità privata, perché ombre e luci, merito e sprechi, esistono in entrambe, è ne-
cessario incentivare la Sanità integrativa, strumento indi- 5 spensabile per consentire una graduale riduzione della pres- sione fiscale, ma garantire nel contempo, a chi è in grado di
compartecipare al finanziamento di certi servizi (pratica oggi
sempre più diffusa in forma autonoma), una modalità più ef-
ficiente nella funzione di acquisto delle prestazioni sanitarie.
Bisogna, inoltre, riconoscere e valorizzare il ruolo del volon-
tariato, fondamentale non solo nel campo dell’assistenza, ma
anche dell’educazione, nella formazione degli adulti, nello
stimolo culturale, tutto questo nella consapevolezza che la tu-
tela della salute (la più grande industria di servizi del Paese)
rappresenta un vero e proprio asset produttivo per il nostro
Paese in grado di sostenere la crescita e l’innovazione.
In una società che in virtù dell’allungamento dell’aspettativa
di vita dovrà necessariamente fare i conti con un crescente
numero di anziani, vanno promosse reti capillari ed efficienti
di assistenza domiciliare, una soluzione che permette di co-
niugare risparmi di spesa per lo Stato e una condizione mi-
gliore e più umana del paziente. Non esiste, quindi, una sola
ricetta per garantire la sostenibilità del sistema, ma questa
passa per il coinvolgimento attivo di tutti i protagonisti: citta-
dini, professionisti, imprese, no profit.
Una cosa è comunque certa: la rilevanza strategica ricoperta
dalle risorse umane rappresenta un valore inestimabile. Agire
sui comportamenti professionali, attraverso una buona for-
mazione, permetterà di far leva su modalità più appropriate e
sostenibili nell’uso dei servizi, garantendo un empowerment
dei cittadini e delle loro garanzie grazie allo sviluppo di pro-
fessionisti competenti.
Tutti questi ingredienti, ben miscelati in un sistema che eviti
finalmente gli sprechi, i clientelismi e le rendite di posizio-
ne, potranno dare vita all’avvio di un circolo virtuoso che
trasformi dalle sue basi il Sistema Italia e lo renda davvero
competitivo, efficace e di respiro europeo.
Prof. Walter Ricciardi
Si vede subito che è una che ci cre- de, una che non molla, una che la- vora per passione. Parlo della Dr.ssa Maria Luisa Nolli, una biologa che nel 1997 ha seguito un’idea e anche un impulso che l’ha portata a lascia- re una posizione di lavoro tranquilla e di routine, fatta di tante ore di la- boratorio e di esperienza sul campo, per fondare Areta International, so- cietà biotech dedicata allo sviluppo e produzione di nuovi farmaci bio- logici e medicinali per terapie avan- zate. Troppo “choosy” questa donna che lascia la Dow Chemicals per aprire una partita IVA! “Ricordo an- cora il mio primo biglietto da visita: Dr.ssa Maria Luisa Nolli, Biotech Consultant”, sorride nel suo ufficio immerso in un bosco ancora spoglio dell’Insubria’s Bio-Park a Gerenza- no, Varese. Sicuramente in un flash le stanno passando per la mente le mille situazioni che l’hanno porta- ta fin qui, in questi 15 anni in cui la consulente, ha creato un’azienda che oggi è controllata dal Gruppo Hol- ding F.I.S., leader nella produzione di principi attivi per l’industria far- maceutica. Un Gruppo che guarda alle sfide del futuro, come ad esem- pio le terapie avanzate, cellulari e autologhe nelle quali Areta eccel- le. “Non possiamo più pensare che l’innovazione ci venga dal farmaco tradizionale, così come lo abbiamo inteso fino a pochi anni fa: un pro- dotto che puntava alla standardizza- zione della cura, un prodotto che ha dato molto in termini di salute, ma che ha esaurito le sue potenzialità. La speranza di cura attualmente è molto bassa. Se da una parte, gra- zie alla tecnologia, assistiamo ad un continuo affinamento delle capacità diagnostiche, sul fronte terapeuti- co non si vedono innovazioni. Gli strumenti che abbiamo contro molte malattie ormai sono quelli da troppi anni. Il futuro è nelle terapie avan- zate.” Farmaci biologici, terapie avanza- te ….. facciamo chiarezza “Viviamo un periodo entusiasman- te. Da qualche anno il paradigma dal farmaco per così dire di “taglia
unica” è andato in crisi. Il presente è già rappresentato da farmaci centrati sul paziente, fatti di terapie persona- lizzate per quella malattia specifica, ma il futuro è nella terapia autologa, costruita in laboratorio partendo da materiale biologico del paziente. Quando parliamo di farmaci biologi- ci, parliamo di due settori: quello del biotech industriale, fatto di anticorpi monoclonali per l’immunoterapia, di proteine ricombinanti per la terapia enzimatica di malattie rare, molti dei quali oggi, alla scadenza dei brevet- ti sono diventati biosimilari e quello delle terapie avanzate che hanno le cellule come prodotto da sommini- strare nell’uomo e che stanno costi- tuendo una vera sfida per il futuro. Queste terapie, rappresentate da: te- rapia genica, terapia cellulare e inge- gneria tissutale, si basano su nuove tipologie di farmaci biologici, pro- dotti da sistemi cellulari in coltura o costituiti essi stessi da cellule/tessuti e sono alla base di una nuova medici- na, non per masse di popolazioni, ma per nicchie di pazienti e/o persino paziente specifica che ha l’obiettivo di somministrare al paziente farma- ci più specifici e soprattutto in grado di trattare malattie non curabili con i farmaci tradizionali. La terapia genica è una tecnologia medica nella quale il DNA o è diret- tamente utilizzato come una sostan- za farmaceutica o inserito in cellule e può potenzialmente curare molte ma- lattie o disfunzioni sia genetiche che acquisite. Si parla di terapia cellulare nel caso di preparazioni contenenti cellule vive allo scopo di ottenere un effetto terapeutico, diagnostico o preventivo. Le cellule maggiormen- te utilizzate nella messa a punto di prodotti di terapia cellulare sono le cellule staminali adulte: cellule che possono essere selezionate da vari tessuti dell’organismo e dotate della singolare capacità di differenziar- si in diversi altri tipi di cellule del corpo. I prodotti di terapia tissutale contengono o consistono di cellule o tessuti ingegnerizzati somministrati agli esseri umani allo scopo di rige- nerare, riparare o sostituire un tessu-
to umano. L’Italia è molto attiva nel settore del- le TA soprattutto nell’ambito della Ricerca e Sviluppo con centri d’ec- cellenza sia privati che pubblici e aziende micro, piccole e medie con progetti di sviluppo di nuovi bio- farmaci e tecnologie d’avanguardia legate ad essi. Areta è una fra le poche biotech in Italia dotata di un impianto autorizzato da AIFA (agen- zia italiana del farmaco) come offi- cina farmaceutica per la produzione di farmaci per le terapie avanzate fra cui le cellule, il DNA e i prodotti per medicina rigenerativa. La mission aziendale è proprio svi- luppare e produrre medicinali per terapie avanzate e proporsi come partner per permettere ai progetti più promettenti, ma ancora in fase di ri- cerca, di arrivare finalmente al letto del paziente, attraverso un approccio totalmente dedicato alla qualità ed alla sicurezza dei medicinali prodot- ti. In particolare, nel campo delle nuove terapie con cellule staminali, Areta si impegna nella definizione di pro- tocolli di produzione che rispettino pienamente le attuali normative na- zionali ed europee, con particolare attenzione ad una completa com- prensione dei meccanismi cellulari alla base della terapia, allo scopo di minimizzare il rischio per i pazien- ti. Le cellule, infatti, a differenza dei farmaci tradizionali di sintesi chimi- ca (aspirina), sono organismi viven- ti estremamente complessi che non possono essere analizzati fino in fon- do con gli attuali metodi di laborato- rio, ed è per questo che l’attenzione va posta sul metodo di produzione, con una attenta scelta dei materiali ed una precisa analisi delle procedure utilizzate. Solamente così è possibile generare un prodotto le cui caratte- ristiche siano definite e riproducibili per tutti i pazienti: questo aspetto è di fondamentale importanza pro- prio perché, per loro stessa natura, la maggior parte delle terapie avan- zate a base di cellule staminali sono rappresentate da prodotti costruiti su misura per un singolo paziente, e non
Biotech: a ognuno il suo La passione e la tenacia di una ricercatrice italiana in lotta fra eccellenza e sistema-paese
Intervista alla dott.ssa Maria Luisa Lolli
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utilizzabili su altri a causa del possi- bile rigetto. Una stessa tipologia di terapia può quindi essere costituita da cellule con caratteristiche leggermente differen- ti da un paziente all’altro, rendendo difficile il confronto dei risultati ot- tenuti in diversi trattamenti. Grazie ad una attenta caratterizzazione dei metodi di produzione è comunque possibile ridurre la variabilità inter- paziente, permettendo al medico di allestire studi clinici di media-lunga durata per valutare l’efficacia del trattamento su un ampio numero di casi. Areta porta i suoi tredici anni di esperienza nel campo dei nuovi far- maci biologici al servizio dell’eccel- lenza italiana nel campo della ricer- ca, per tradurre le nuove scoperte in prodotti innovativi, sicuri ed efficaci per i pazienti. Nell’ambito delle te- rapie avanzate si pone quindi come anello di congiunzione tra l’idea del medico di curare il paziente con le sue cellule staminali adulte e la re- alizzazione dell’idea stessa trasfor- mandola in possibilità terapeutica, oggi e in potenziale prodotto farma- ceutico in un futuro si spera breve. Dr.ssa Nolli, mi viene da pensare che ogni ospedale dovrebbe essere attrezzato come voi… “Si e no. Alcuni ospedali si sono at- trezzati in questo senso, ma occorre considerare che un laboratorio come il nostro, implica costi molto ingenti che il pubblico spesso non può soste- nere. O si ragiona in termini di delo- calizzazione o si trova una soluzione tecnologica che probabilmente andrà nella direzione della crioconserva- zione, anche se, già oggi, Areta di- spone di sistemi di trasporto validati
sia in entrata che in uscita. Inoltre lavoriamo solamente con bioreattori, “disposables” che soddisfano piena- mente le esigenze delle aziende no- stre clienti in termini di costi, tempi e praticità.” Immagino che la garanzia della qualità sia un tema assolutamente essenziale “Fin dai suoi primi anni di vita, Areta ha investito sulla qualità e sul controllo della qualità, in termini di certificazioni GMP. Abbiamo uno standard veramente elevato che può competere con molte altre nazioni, ma quello che ci manca è il sistema- paese. Siamo stati recentemente “in gara” per un contratto con un’azien- da australiana. Il nostro concorrente più agguerrito è stata un istituto di Lipsia che è stato supportato al mas- simo dalle politiche di sostegno alle imprese attuate dal suo Land, la Sas- sonia, il quale ha offerto l’uso gra- tuito del laboratorio, detassazione e altri benefit che noi nemmeno ci sogniamo. Un’esperienza di questo genere, nel mio, come in altri settori, rischia di scoraggiare gli imprendito- ri e questo è qualcosa che il nostro Paese non può permettersi. Io credo nelle capacità degli italiani; abbiamo secoli, anzi millenni, di storia alle spalle, che ci hanno visti primeggiare nell’arte e nella letteratura, nel dirit- to e nel genio inventivo e non possia- mo accettare di essere penalizzati da chi non si è mai confrontato con re- altà diverse dalle nostre, al contempo più flessibili e più sistematiche.” Ci sono settori in cui siete, diciamo così, “specializzati”? “Noi offriamo ai nostri clienti ser- vizi su misura che permettono loro
di affrontare la pre-clinica e le fasi l, ll e lll della ricerca. I progetti di ricerca e sviluppo riguardano pre- valentemente terapie cellulari per la ricostruzione dell’osso o per la ri- generazione del tessuto miocardico, vaccini a DNA per i linfomi, an- ticorpi altamente specifici per l’im- munoterapia dei tumori ed enzimi per la terapia enzimatica sostitutiva nelle malattie rare. Abbiamo colla- borazioni con università, istituti di 7 ricerca e imprese, perché per noi è importante accelerare i tempi, al fine di mettere a disposizione dei malati i migliori ritrovati nel minor tempo possibile.” Un riferimento alle vostre risorse umane? In Areta il 70% del personale è don- na, cosa che reputo un valore ag- giunto. Ci riferiamo a collaboratori con un alto profilo scolastico. Oltre il 95 percento sono laureati e circa la metà è in possesso di un dottorato di ricerca. Quanto è stato importante per lei il sostegno della sua famiglia? “Moltissimo, abbiamo saputo far convergere le nostre diverse compe- tenze iniziali sull’obiettivo azienda- le. Certo, in questi anni Areta ha su- perato la soglia del family business, anche se continuiamo a lavorare nel pieno rispetto dei nostri valori e nuo- ve scelte si sono imposte. Abbiamo intrapreso una strada nuova perché a noi le sfide piacciono.”
Maria Luisa Nolli PhD
Sede Areta International
Con la ferma intenzione di scoprirne le debolezze e i punti di forza, sin dall’anno della sua nascita, nel 2006, Cerifos e la sua équipe di ricercatori la studiano e analizzano con attenzione, grande cautela e senso di respon- sabilità: stiamo parlando della terapia del timo e degli effetti terapeutici degli estratti timici. Una terapia attualmente utilizzata da medici di tutto il mondo, analizzata da più di 300 studi clinici internazionali, fortemente dibattuta dalla comu- nità scientifica e finanche oggetto di una meta-analisi internazionale, della “The Cochrane Collaboration”. Ormai convalidate le sue proprietà in campo immunologico, il vero og- getto della discussione è oggi la sua validità come coadiuvante della tera- pia oncologica: la terapia del timo, in questo senso, ha infatti, una storia lunga e controversa, a volte di sconfitte, altre di successi, che affonda le sue radici storiche in tempi antichissimi. Ma ormai, con alle spalle anni di studi e di conferme, Cerifos ne è convinto, siamo ad un punto di svolta della ricerca. Per questo, con lo scopo di far luce sull’argomento, abbiamo deciso di puntare i nostri riflettori e di passarla sotto la nostra lente. Un breve viaggio intorno al timo che facciamo attraverso la collaborazio- ne del direttore scientifico di Cerifos, il dottor Samorindo Peci.
Dottor Peci, prima di andare al cuore degli studi portati avanti da Cerifos, facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire quali sono i presupposti che sono dietro questa ricerca. Ovvero, cosa è la terapia citoplasmatica? È un ponte tra la medicina scolastica e quella biologica, perché si fonda da un lato su principi di tipo tradizionale, dall’altro rappresenta l’alterna- tiva biologica agli stessi: tramite questa, cioè, sono attivati principalmente processi di autoriparazione, senza i rischi che sarebbero, invece, presenti con la terapia con le cellule. La malattia, secondo la moderna medicina biomolecolare, è la conseguen- za di una lesione o, per lo meno, di uno dei difetti del sistema di rego- lazione dell’organismo: ecco, poter sviluppare un recupero delle strut- ture funzionali e fisiologiche attraverso meccanismi di sintesi cellulare plasmatiche, è l’obiettivo che mi prefiggo da quando partecipiamo come centro di ricerca negli studi bio-molecolari in campo immuno-endocrino, nella convinzione che la ricerca sulle terapie citochiniche e citoplasmati- che di tipo autologo ha la potenzialità di aprire nuovi scenari sulle malat- tie autoimmuni.
Cosa sono le citochine e qual è il legame tra queste e i linfociti? Le citochine sono molecole glicoproteiche prodotte dal nostro stesso or- ganismo in grado di influenzare il comportamento delle cellule sia vicine che a distanza e di innescare naturalmente processi di autoregolazione, riparazione e rigenerazione di tessuti compromessi. Queste molecole hanno il compito di regolare le principali attività del si- stema immunitario e sono secrete in risposta ad alcuni particolari stimoli, in massima parte dai linfociti, le più importanti cellule del sistema immu- nitario che derivano dalla linea linfoide delle cellule staminali presenti nel midollo osseo e da sistemi linfocitari complessi. A seconda del luogo all’interno dell’organismo nel quale avviene la maturazione cellulare, si ottengono due linee linfocitarie ben distinte: i linfociti B, che hanno piena maturazione nel midollo osseo dove nascono, e i linfociti T, detti T appun- to perché vengono prodotti e maturano pienamente nel timo, e che sono i principali responsabili dell’immunità adattativa cellulo-mediata.
Cosa è il timo e cosa si intende con “Terapia del timo”? Il timo è una ghiandola situata dietro lo sterno che già dai primi giorni di vita produce speciali sostanze per la costruzione del sistema immunolo- gico necessario per vivere, tanto che, specialmente nell’infanzia, senza
il timo non esisterebbe un’efficace difesa immunologica. Questa ghiandola raggiunge il suo peso massimo durante la pubertà e da quel mo- mento in poi ha un ridimensionamento e una trasformazione in tessuti grassi e con- nettivi che riguardano soprattutto la cortec- cia, infatti, dopo i 25 anni anche la sinte- si dei fattori timoidi si riduce e tra i 50 e 70 anni il timo smette di funzionare quasi del tutto, conservando solo un minimo di attività biosintetica. Perciò è durante la se- conda metà della nostra vita che il sistema immunitario ha bisogno di più “assistenza”: ecco, la terapia del timo aumenta il livello di timosina nel corpo affinché questo possa continuare ad adempiere al suo ruolo di di- fesa dell’organismo. Sul significato fisiologico di questo organo ci sono state innumerevoli discussioni negli anni, se si pensa che già Paracelso, nobile medico che affermava “cuore cura cuore, fegato cura fegato”, usava il timo nel trat- tamento delle malattie infettive. Ma è sol- tanto dal 1938 che la terapia del timo ha raggiunto il suo apice, quando lo svedese Sandberg, studiando il sistema endocrino e la resistenza alle infezioni, arrivò a scopri- re una connessione diretta tra le modifiche della ghiandola del timo e le difese immu- nitarie e la capacità dei fattori timoidi di influenzare il sistema di difesa dell’organi- smo. Uno dei primi approcci di trattamen- to del cancro tramite la stimolazione del sistema immunitario con estratti e peptidi di timo, invece, è stata introdotta negli anni ’70. E infine, la meta-analisi pubblicata nel 2011, che ha raccolto gli studi clinici a ri- guardo, ha avuto il merito di accendere ul- teriormente i riflettori sull’importanza che questa metodica ha assunto nel mondo. Fino ad arrivare ai nostri giorni in cui con “terapia con estratti di timo” s’intende una cura fatta con le sostanze della ghiandola del timo, cioè, una terapia di rigenerazione che si è dimostrata non solo particolarmen- te adatta al paziente geriatrico, ma anche nei confronti di pazienti in chemioterapia e radioterapia, sia in fase di riposo terapeuti- co che in fase di terapia attiva.
Approfondiamo intanto il ruolo del timo quale “centralino delle difese del corpo”. In campo immunologico quando si utiliz- za la terapia con gli estratti di timo? È un modello terapeutico valido per tutti i disturbi derivati da un’alterazione del si- stema immunitario, dalle malattie croniche della pelle alle malattie cardiache e degli
La terapia del timo: passato, presente e futuro Breve viaggio intorno al timo e agli effetti terapeutici degli estratti timici
in campo immunologico ed a supporto oncologico:
Intervista al Direttore del Dipartimento Ricerca di Cerifos
di Federica Sciacca
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organi respiratori, dalle malattie degene- rative delle articolazioni e della colonna vertebrale ai disturbi reumatici: l’elenco è lunghissimo. L’esperienza insegna, infatti, che la combinazione tra proteine autologhe di peso molecolare specifico, come fattore di stimolo con l’aggiunta della terapia cellulare, ha dato buoni risultati nei pa- zienti, i cui quadri clinici hanno come denominatore comune un’alterazione del sistema immunitario. Ecco perché questo modello terapeutico deve essere considerato una macrotera- pia e non un semplice approccio alter- nativo: si tratta di applicare i principi di fisiologia umana all’approccio terapeu- tico immunomodulante su base protei- ca autologa con l’aggiunta di estratti di timo, per lo stimolo citochinico autolo- go. Inoltre, va aggiunto, che alcuni studi in combinata, timo e inibitori, hanno dato grandi risultati nelle malattie immuno- logia come Lupus, connettiviti, scle- rodermie: ognuna di queste patologie, infatti, affrontata con la collaborazione di immunologici e reumatologi che af- fiancano l’approccio multidisciplinare, con terapie combinate fatte da inibitori o immunosoppressori e estratti timici, ha consentito finora ai pazienti una buona qualità di vita e una tossicità ridotta.
Come si riconosce la debolezza del si- stema immunitario? Anche se gli esami del sangue sono i mi- gliori provider di un’indicazione accura- ta del sistema immunitario, ci sono altri puntatori a cui si può prestare attenzio- ne, come il fatto di stancarsi rapidamen- te, una certa vulnerabilità alle infezioni e persistenza delle malattie, una lenta guarigione delle ferite o anche eccessive reazioni alle infezioni. Bisogna sempre essere consapevoli del proprio corpo e fare attenzione ai segna- li che ci manda, e se, pur assumendo uno stile di vita sano non si vedono migliora- menti, allora è bene informare il proprio terapeuta e approfondire il problema. È molto importante, infatti, essere cauti e non lasciarsi sedurre dal fai da te: oggi, il gran numero di immunostimolatori fi- toterapici in commercio sembra, invece, voler far capire che sia giusto ricorrere all’immunostimolazione per ogni cosa. Ma ricordo che una patologia autoim- mune è un’eccessiva reazione, non un deficit reattivo, quindi attenzione e con- siglio medico! Il centro di ricerca Cerifos misura tutta l’attività immunologica, dagli interfe- roni alle interleuchine, affrontando uno specifico screening di grande importan- za clinica per determinare l’applicabilità della terapia del timo, la sua forma e la sua combinazione ideale, e misurando anche ogni stato di avanzamento della terapia.
Oggi, infatti, non possiamo acconten- tarci di una diagnosi basata soltanto su marcatori specifici, dato che con uno screening immunologico specifi- co possiamo definire anche l’intensità della malattia e i distretti immunologi- ci coinvolti, collaborando con medici di medicina generale. Andiamo all’altro aspetto fonda- mentale: la meta-analisi pubblicata da Cochrane ha analizzato l’utilità degli estratti purificati di timo e dei peptidi timici sintetici per il miglio- ramento del sistema immunitario dei malati di cancro. Quale evidenza scientifica se ne può trarre? La prima vera, indiscutibile evidenza scientifica della meta-analisi sta nel fatto che sugli estratti timici sono state fatte centinaia di ricerche, che da tan- tissimi anni la comunità scientifica e i suoi ricercatori più illuminati parlano di questa terapia, e che di tutti questi studi se ne è fatta una meta-analisi. Ecco questa è l’unica evidenza. Una premessa a questo punto è infat- ti doverosa: un lavoro del genere non può non avere delle contraddizioni in- trinseche, e una meta-analisi non può mai -diciamo per sua natura- avvallare il valore clinico in toto dell’oggetto in esame. Chi è un ricercatore lo sa bene, uno studio come questo non può dare mai delle ragioni in assoluto, ma solo delle linee di attenzione. Questo lavoro, ormai fermo a due anni fa, così conferma che con un tipo di estratto purificato di timo si potrebbe ridurre il rischio di complicanze infet- tive in pazienti sottoposti a chemiote- rapia o radioterapia, o in entrambi, e al tempo stesso rileva che con un altro tipo non c’è stato alcun risultato posi- tivo, e che con un ancora altro ci sono state delle risposte positive. La ricerca ha preso in esame studi si- mili abbastanza addietro nel tempo, se si pensa che il più antico in ordine cronologico risale al 1979, e che dei 26 analizzati, 20 sono stati fatti su un campione che andava da 20 a 60 pa- zienti, e solo 6 tra quelli inseriti nella pubblicazione si basano su un cam- pione di un centinaio di pazienti. Tuttavia è confermato che vi sono prove che gli estratti animali di timo abbassino il rischio di gravi compli- canze infettive in pazienti sottoposti a chemioterapia o radioterapia, e pur con la scarsa qualità metodologica di molti degli studi inclusi, pur con la variabilità dei criteri di selezione uti- lizzati per i pazienti e pur utilizzando campioni così ristretti, sono emersi ri- sultati così promettenti che si spinge la comunità scientifica a proseguire la ricerca. Per fare un esempio pratico, è sta- to dimostrato che una timectomia
in organismi giovani porta a un in- vecchiamento anticipato del sistema immunologico, mentre una sommini- strazione di preparati al timo in ani- mali anziani porta a una riattivazione del sistema dei linfociti T. Quando parliamo di sistema immunologico invecchiato intendiamo la manifesta- zione clinica con maggiore frequen- za di infezioni che con l’età hanno sempre un decorso impegnativo. Al di là degli ottimi risultati ottenibili nel paziente anziano, l’ideale sareb- be una profilassi annuale della tera- pia con ghiandola del timo a partire dal venticinquesimo anno di età, pe- riodo nel quale la ghiandola inizia a riassorbirsi. Oggi riteniamo per questa ragione che la terapia del timo e questo prin- cipio vadano recepiti dalla comunità scientifica e applicati in tutti i centri oncologici come terapia di supporto a quella chemioterapica. Personalmente sono sempre cauto a non illudere il malato, ma posso con- fermare che questa terapia ha grandi potenziali e possibilità di applicazio- ne, come ha già dimostrato. Non fos- se altro per il fatto che racchiude un principio supremo come quello dello stimolo citochinico autologo.
In cosa consiste il trattamento? Il trattamento che viene praticato di solito dai medici specialisti di que- sto modello è della durata di quattro giorni e ha lo scopo di rallentare il processo di invecchiamento biologi- co, di assicurare la qualità della vita anche ad età avanzata, e di raggiun- gere un aumento della resistenza ge- nerale e delle prestazioni immunita- rie. I tessuti timici necessari vengono trattati subito dopo il prelevamento dagli animali donatori senza ricorre- re a sostanze conservanti, vengono poi integrati con estratti proteici au- tologhi (anch’essi estratti con moda- lità di non conservazione), e iniettati nel paziente per via intramuscolare. Dopo il primo trattamento comincia la fase di resistenza: le componenti solubili della sospensione cellula- re insieme al supporto citochinico o proteico autologo, secondo il caso, vengono assorbite dal corpo, cosa che può portare ad un miglioramento di breve durata dei disturbi presenti e ad un’aumentata vitalità, ma anche a sensazioni di spossatezza, importan- tissima fase di rigenerazione. Dopo un breve periodo di tempo, poi, della durata massima di uno, due giorni, questa fase si placa e si ha un periodo di latenza, quello della co- siddetta reazione immunobiologica di circa due settimane. (Nel caso di persone di una certa età, il periodo
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di latenza può protrarsi più a lungo, ma la maggior parte dei pazienti non presenta alcun disturbo ed è in grado ben presto di sentire l’effetto curativo atteso). Poi, ha inizio lo stadio rigenerativo e rivitalizzante, che si manifesta soprattutto attraverso un miglioramento della condizione generale, di vitalità e un aumento dell’effi- cienza psicofisica. I disturbi possono, a seconda della loro natura, essere ridotti in un periodo di tempo compreso tra 6 e 12 mesi ma, è bene specificare che la ripetizione, il dosaggio e le modalità di somministrazione non sono standard e sono stabilite dal medico a seconda dei casi. Nella terapia cellulare il preparato consiste in una sospen-
10 sione di molti peptidi nutrizionali cellulari, piccoli orga-
nismi che possiedono vita e metabolismo propri, di gruppi minimi di tessuto. Le aziende farmaceutiche tedesche uti- lizzano estratti cellulari, e gli animali donatori provengo- no da greggi specifici e sottoposti ai controlli veterinari più severi, non ci sono macellazioni per procurarsi gli estratti di organi. Va sottolineato però che oggi non c’è niente che non si possa riprodurre in laboratorio: attraverso la sintesi chi- mica, infatti, la produzione industriale può sintetizzare perfettamente queste molecole, senza per questo distrug- gere la qualità del naturale. Un lavoro che apre nuove frontiere, non per la macellazio- ne degli animali - tengo a specificarlo- ma per la scienza.
Concludiamo con un occhio al futuro. Quale e dove è il futuro della terapia del timo? Il futuro è in Italia. Anzi, per essere più specifici, a Rimi- ni. Ma è un progetto su cui Cerifos sta ancora lavorando, non posso rivelare molto, in questa sede posso solo dire che non mancano né le intenzioni, né le forze, né tanto meno gli spazi per mettere su il più grande centro in Italia dove praticare questa terapia. Ne sentirete parlare presto. Per ora, posso dire solo que- sto.
Per ulteriori informazioni e approfondimenti sull’argo- mento è possibile leggere le parti principali della pubbli- cazione “The Cochrane Collaboration” su questo stesso numero della rivista, e trovarla nella sua versione inte- grale sul nostro sito all’indirizzo www.cerifos.it.
Federica Sciacca
Le sindromi geriatriche sono varie:
diminuzione della vista e dell’udito,
incontinenza, instabilità, immobili-
tà, calo della memoria, depressione,
insonnia, malattie iatrogene (special-
mente dovute ai farmaci assunti).
L’Ossigeno Ozono può essere di gran-
de aiuto terapeutico a molte di queste
sindromi.
Sul cervello la pratica medica dell’Os-
sigeno Ozono può essere di grande
aiuto nel prevenire e/o bloccare il
declino cognitivo ed avere un effet-
to importante nella depressione. Sul
cuore è di contrasto nelle cardiopatie
ischemiche e nello scompenso cardia-
co. Agli arti inferiori contro le arte-
riopatie e l’insufficienza venosa. Sul
sistema muscolo-scheletrico è estre-
mamente utile nel togliere o diminu-
ire l’infiammazione e il dolore.
Queste patologie, con le attuali cure,
costano al Sistema Sanitario Naziona-
le e, quindi, a tutti noi alcuni miliardi,
oltre a ulteriori centinaia di milioni,
pagati direttamente dagli anziani as-
sistiti e dalle loro famiglie, ottenendo,
peraltro, ben scarsi risultati.
Oggi solo il Sistema Regionale Lom-
bardo rimborsa i trattamenti con Ossi-
geno Ozono, ma limitatamente al trat-
tamento delle piaghe, ulcere e piede
diabetico, e null’altro.
L’Ossigeno Ozono è pratica medica
della quale sono noti i meccanismi
d’azione e riconosciuta la sua utilità
clinica, acclarata da centinaia di lavo-
ri scientifici internazionali.
Quale meccanismo sottende la capa-
cità terapeutica dell’Ossigeno Ozono
sulle patologie appena descritte? Si-
curamente l’influenza positiva sulla
emoreologia e sulla microcircolazio-
ne.
Il microcircolo è elemento anatomico
vitale per le funzioni che svolge, basti pensare che alimenta tutte
le cellule e gli organi del corpo, e che la sua estensione nel corpo
dell’adulto è di oltre 6300 mq. Attraverso la parete dei capillari
arrivano ossigeno e sostanze nutritizie, come attraverso il torrente
sanguigno vengono espulse CO2 e prodotti di rifiuto.
Il trattamento con Ossigeno Ozono determina:
1. incremento della deformabilità e filtrabilità;
2. riduzione della viscosità ematica e plasmatica vitale;
3. riduzione del fibrinogeno plasmatico con allungamento del tem-
po di protrombina; inoltre, incremento della cessione di ossigeno
ai tessuti, non alterando e modificando né l’equilibrio fibrinolitico,
né la dilatazione arteriosa.
L’ozono peraltro è una sostanza estremamente fisiologica per il
nostro corpo, in quanto il nostro sistema immunitario produce
ozono, il quale ha un ruolo di killing dei batteri e virus e interviene
in ogni malattia con componente infiammatoria.
In conclusione, il trattamento con la miscela di Ossigeno Ozono
ha un effetto preventivo e protettivo sull’infarto acuto del mio-
cardio e dovrebbe costituire una strategia terapeutica per evitare
e/o limitare l’insorgenza delle alterazioni cellulari provocate dalla
sequenza ischemia-riperfusione.
E’ inoltre interessante notare come nei soggetti sottoposti per mo-
tivi diversi ad applicazioni di ozono terapia sistemica si è sempre
riscontrato un miglioramento del tono dell’umore, anche indipen-
dentemente dalla condizione patologica di partenza.
L’Ossigeno Ozono Terapia ha infatti importanti effetti sul flusso
cerebrale, sulle funzioni cognitive e sul tono dell’umore.
Proprio su questo versante è in corso un’importante ricerca con
il Politecnico di Torino, il quale sta monitorando i miglioramenti
dell’ossigeno cerebrale da 3 a 24 ore post Ossigeno Ozono Tera-
pia.
Nessun farmaco è in grado di ottenere risultati così evidenti ed
importanti.
Ringrazio il Prof. Ludovico Coppola, Primario di Geriatria della
Seconda Università degli Studi di Napoli, e il Prof. Carlo Luongo,
Specialista in Anestesia e Rianimazione e Professore presso la Se-
conda Università degli Studi di Napoli.
Per consultare la bibliografia o per trovare un medico ozonotera-
peuta visitare il sito consultare: www.ossigenoozono.it
Le sindromi geriatriche e l’ossigeno-ozono-terapia
di Federica Peci
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Il Craniofaringioma: una patologia rara che richiede una gestione multidisciplinare
Istituto neurologico
“Carlo Besta”
Paolo Ferroli, Melina Castiglione, Francesco Acerbi, Marco Schiariti, Morgan Broggi,
Alberto Maccari*, Giovanni Felisati*
Il termine “Craniofaringioma” fu coniato da Charles Frazier nel 1931 e divulgato successivamente da Harvey Cushing nel 1932 che comprendeva sotto quest’unica denominazione la “serie caleidoscopica di tumori, cistici e solidi, che prendono la loro origine da residui epiteliali per chiusura imperfetta del dotto ipofisario o craniofaringeo.” Il Craniofaringioma è un tumore che origina in corrisponden- za del peduncolo ipofisario e che per tale motivo contrae in- timi rapporti con strutture vitali e funzionalmente importanti come l’ipotalamo e le strutture vascolo-nervose del basicranio anteriore. La natura istologicamente benigna di tale neoplasia contra- sta con il comportamento biologico della stessa. Difatti, la tendenza a recidivare ne costituisce il problema principale. Il coinvolgimento dell’asse ipotalamo-ipofisario, delle vie otti- che (nervi ottici, chiasma e tratti ottici) e di importanti struttu- re vascolari come le arterie carotidi interne e i suoi rami prin- cipali ne rendono problematica l’asportazione e ne spiegano i rischi di gravi sequele. L’incidenza del Craniofaringioma è di 1,3-1,4 per milione di individui all’anno. La curva di distribuzione per età è bimoda- le, con un picco nell’infanzia e un secondo picco negli adulti di età medio-avanzata. Data la rarità di tale neoplasia, studi prospettici randomizzati che abbiano come obiettivo quello di risolvere la questione su quale sia la gestione chirurgica più appropriata non esistono. Il razionale alla base delle attuali strategie di trattamento si fonda quindi sugli studi retrospettici degli effetti, precoci e tardivi, che hanno prodotto le terapie, qualsiasi sia stata la tecnica utilizzata. Il Craniofaringioma è un tumore che può presentarsi in forma puramente solida, cistica o mista, può aver sede intrasellare, ma può avere anche uno sviluppo sovrasellare, può invadere le cisterne della base: anteriormente (cisterna chiasmatica), lateralmente (cisterna ottico-carotidea) e posteriormente (ci- sterna interpeduncolare), può interessare il III ventricolo e a volte può essere completamente intraventricolare. La manifestazione clinica più grave e per fortuna meno fre- quente, è la sindrome da ipertensione endocranica per osta- colo alla circolazione liquorale a livello del terzo ventricolo e delle cisterne della base. Tale quadro si presenta di solito con una triade sintomatologica caratterizzata da cefalea, vomito e rallentamento ideo-motorio talora di difficile interpretazione. I disturbi clinici più frequenti sono caratterizzati da defi- cit visivi che vanno dalla perdita dell’acuità visiva in uno o entrambi gli occhi a un quadro oftalmologico caratterizzato da disturbi del campo visivo tipo emianopsia bitemporale o emianopsia laterale omonima in caso di coinvolgimento delle vie ottiche posteriori (tratti ottici). Il Diabete insipido (DI), associato o meno a ipopituitarismo, per alterazione della funzione dell’asse ipotalamo-ipofisa- rio, è un altro segno associato, anche se non specifico, che si osserva abbastanza comunemente nei pazienti affetti da craniofaringioma. La poliuria da deficit di adiuretina, si può accompagnare a calo della libido, amenorrea (nelle donne),
ipotiroidismo e iposurrenalismo. Spesso sono proprio i disturbi correlati alla sfera ses- suale che spingono il paziente ad una prima osservazione medica. I bambini, invece, possono sviluppare un ri- tardo di crescita per carenza di GH e obesi- tà con o senza iperfagia. Entrambi (bambi- ni e adulti) possono avere alterazioni della memoria, variazioni del ciclo sonno-veglia, disturbi della termoregolazione, ridotto ren- dimento scolastico e ridotta produttività la- vorativa in conseguenza di una alterazione della funzione dell’ipotalamo che prende il nome di Sindrome Ipotalamica. Per tutti questi fattori, la scelta di trattamento di un tumore che origina sempre da una stes- sa struttura anatomica (peduncolo ipofisario) ma che si presenta come un caleidoscopio, può richiedere l’intervento di un team di nu- merosi esperti che pianificano di volta in vol- ta, paziente per paziente “la strategia di cura” più appropriata. Alcuni Craniofaringiomi vengono trattati chi- rurgicamente, altri vengono indirizzati verso terapie alternative come la radioterapia, la radiochirurgia Gamma Knife, l’instillazione di radionuclidi: Yttrium90, Phosphorum32; Rhenium186; Aurum198 (quest’ultimo non in uso in Europa) e la chemioterapia loco re- gionale con sostanze quali la Bleomicina e il più recente Interferone alfa che vengono somministrati direttamente nel contesto della lesione (ma solo per le forme cistiche) attra- verso cateteri precedentemente introdotti per via stereotassica transparenchimale o endo- scopica trans ventricolare. La scelta del trattamento più appropriato vie- ne fatta sulla base di diversi fattori: rapporto tra il tumore e le strutture circostanti (primi fra tutti vasi e nervi) e i possibili rischi con- nessi con la procedura chirurgica, le aspet- tative del paziente sulla qualità di vita post- operatoria in conseguenza della già citata Sindrome Ipotalamica e, in caso di un giova- ne adulto o un bambino, l’aspettativa di vita. Il principio di base di Ippocrate (460-377 AC) “Primum non nocere”, su cui si basa tutta la pratica medica e chirurgica, è la principale sfida che viene affrontata nel trattamento dei Craniofaringiomi, soprattutto dell’infanzia, e prevede di volta in volta lo sviluppo di uno schema di trattamento appropriato, persona- lizzato, che riduca al minimo le complican- ze.
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Negli anni sono state sperimentate nuove tecniche di approc- cio ai tumori con l’obiettivo di ottimizzare il risultato minimiz- zando il danno. Per tale motivo, sono state sviluppate e perfe- zionate tecniche che alcuni hanno definito “alternative” come gli approcci mininvasivi, tra cui gli interventi trans-nasali en- doscopici, in aggiunta alle classiche modalità di trattamento trans-cranico fronto-temporale (pterionale) e sub frontale. L’ap- proccio transnasale endoscopico viene utilizzato sempre più di frequente per i craniofaringiomi pre-infundibulare, infundibu- lari, retroinfundibolari con minima estensione laterale (Fig. 1). Gli approcci transcranici restano necessari per i craniofaringio- mi puramente endoventricolari (III ventricolo) e per i craniofa- ringiomi con una importante estensione laterale. Il trattamento ottimale deve essere studiato caso per caso con- siderando le varie possibilità di cura, che, in maniera comple- mentare l’una all’altra, possano ottimizzare i risultati in termini di sopravvivenza e di benessere globale. Ed è per questo che la gestione del Craniofaringioma è affidata ad un team multidisciplinare di esperti, fatto di Neurochirurghi, Neurologi, Endocrinologi, Radiologi, Radioterapisti, Pediatri e non ultimi Otorinolaringoiatri che insieme stabiliscono la stra- tegia di trattamento e di questa neoplasia così complessa. Nel caso dei tumori che coinvolgono l’asse ipotalamo-ipofisa- rio, l’efficacia di un trattamento viene giudicata sulla base di diversi indicatori quali: 1. Possibilità di ottenere una radicalità chirurgica o un controllo a lungo termine della malattia; 2. Tasso di recidiva; 3.Sviluppo di complicanze; 4. Outcome oncologico, neurologico, oftalmologico ed endocri- nologico; 5. Tempi chirurgici, grado di soddisfazione del paziente e durata della degenza. Negli ultimi anni l’introduzione delle tecniche di resezione transnasale endoscopica associata alla radiochirurgia ed ai pro- gressi fatti nel trattamento medico sostitutivo hanno contribuito a migliorare la qualità di vita di questi pazienti.
Immagine sagittale di craniofaringioma (cr) in Risonanza Magnetica (A)
in uomo di 40 anni, la cui diagnosi ha fatto seguito alla comparsa
di disturbi della sfera sessuale e della vista.
Il tumore è stato completamnte rimosso (B) per via transnasale
endoscopica.
Se indubbiamente i vantaggi di un approccio extracerebrale (endoscopico o microscopico trans-nasale) ad una lesione in- tracranica extracerebrale, come il Craniofaringioma, l’adenoma dell’ipofisi ed altre lesioni che prendono origine al di fuori del cervello, sono numerosi, non bisogna dimenticare che la chirur- gia trans-nasale, allo stesso modo della chirurgia trans-cranica, non è scevra da complicanze che, come tali, vanno accurata-
mente gestite. Il Craniofaringioma è un tumore benigno e la percentuale di sopravvivenza globale e di sopravvivenza libera da malattia a 10 anni è molto alta in caso di resezione totale. Molti sono concordi, e i dati di letteratura lo confermano, che la chirurgia con l’obiet- tivo unico dell’asportazione radicale del Craniofaringioma sia la migliore e la più ri- solutiva modalità di trattamento soprattutto per i pazienti giovani che hanno una lunga aspettativa di vita. 13 Gli strumenti chirurgici dedicati, l’alta tecnologia del sistema visivo con l’uso di endoscopi e microscopi che convertono le immagini in formato digitale, HD, full-HD e recentemente 3D, il continuo training chi- rurgico, il perfezionamento degli approc- ci complementari e soprattutto il lavoro multidisciplinare in team, sono i requisiti necessari che permetteranno in futuro di migliorare ulteriormente i risultati del trat- tamento di questi tumori a tutto vantaggio del paziente in termini di possibilità di cura e conservazione di una buona qualità di vita, riducendo al minimo la morbidità e la mortalità. I tumori del basicranio e i Craniofaringiomi in particolare, sono quindi un esempio tan- gibile di una patologia “di frontiera” che si inserisce tra molte e varie competenze spe- cialistiche (neurochirurgiche, otorinolarin- goiatriche, endocrinologiche, neurologiche, pediatriche e radioterapiche), che lavorano in team per il benessere del paziente. La completa gestione di una patologia rara, ma gestibile come il Craniofaringioma, non può e non deve prescindere dal fondamen- tale ruolo che ricopre il Medico di Medi- cina Generale nel riconoscere la malattia e nell’indirizzare il paziente verso le cure più appropriate.
Dott. Paolo Ferroli
Neurochirurgo
Istituto Neurologico “Carlo Besta” Milano
dipartimento di neurochirurgia
* Ospedale San Paolo Milano
clinica otorinolaringoiatrica
La terapia occupazionale “Le attività che contribuiscono al miglioramento della salute”
di Donatella Vasaturo
E’ una disciplina riabilitativa che,
attraverso un approccio olistico,
intende portare l’utente al raggiun-
gimento del più alto grado di auto-
nomia nella self-care, nelle A.D.L.
(attività di vita quotidiana), nella
scuola, nel lavoro e nella comuni-
tà. Sostanzialmente si prefigge l’o-
biettivo principale di ricondurre la
persona, che presenta delle disabi-
lità, ad una condizione di massima
autonomia ed indipendenza possi-
bile, pur tenendo in considerazione
l’età, la gravità della patologia, la
prognosi e del contesto sociale in
cui esso vive.
E’ indicata per tutti i soggetti che
presentano alterazioni funzionali
siano esse derivanti dalla malat-
tia sia quelle derivanti da sequele
di malattie invalidanti, basandosi
direttamente sulle risorse positive
piuttosto che sui propri limiti o de-
ficit.
La Terapia Occupazionale ritiene
quindi che la salute sia supportata e
mantenuta quando le persone sono
in grado di impegnarsi in occupa-
zioni e attività che permettono la
partecipazione, necessaria o desi-
derata, nella vita in casa, a scuola,
al lavoro e nella collettività.
Il Italia la Terapia Occupazionale
è stata introdotta con Decreto del
Ministro della Sanità 17 gennaio
1997, n. 136 con il quale è stato
previsto un percorso accademico
prevedendo una laurea di primo
livello direttamente abilitante, ed
una laurea magistrale di secondo
livello.
La Terapia occupazionale deve ne-
cessariamente prevedere una valu-
tazione multidimensionale preli-
minare che indaghi le condizioni
fisiche, lo stato cognitivo-affettivo,
lo stato funzionale e le condizioni
sociali e di ambiente di vita. Ven-
gono utilizzate delle scale di valu-
tazione quale il Mini Mental State
e l’indice di Barthel modificato poi-
ché finalizzato ad una valutazione
funzionale delle ADL. In caso di
demenza viene impiegata la CDR,
Clinical Dementia Rating, al fine di
stadiare la demenza.
La riabilitazione cognitiva e com-
portamentale consta in una serie di
interventi atti ad agire sui disturbi
della sfera cognitiva e compor-
tamentale. Le funzioni cognitive
maggiormente studiate sono l’at-
tenzione, la memoria, il linguag-
gio (produzione e comprensione),
orientamento (temporo-spaziale,
personale ed impersonale), abilità
logiche (astrazione e ragionamen-
to).
Possono essere impiegati interventi
individuali o di gruppo da tenersi in
setting confortevoli, ben illuminati,
sicuri, familiari ed arredati in modo
funzionale.
Il 27 Ottobre di ogni anno si cele-
bra la giornata internazionale della
Terapia Occupazionale per sensibi-
lizzare gli Stati e l’opinione pubbli-
ca sul ruolo della professione nella
promozione della salute e del be-
nessere bio-psico-sociale delle po-
polazioni.
La terapia occupazionale può essere
un valido ausilio a supporto di di-
verse affezioni quali quelle:
1.Neurologiche, offrendo valide
opportunità di normalizzazione dei
movimenti,
2. Ortopediche, riabilitando la per-
sona in seguito a fratture, lesioni
ai tendini ed ai nervi, amputazioni,
malattie reumatiche e altre patolo-
gie che riguardano soprattutto l’arto
superiore.
3. Geriatriche, offrendo aiuto a
persone anziane affette da patolo-
gie d’origine neurologiche come
l’Alzheimer ed il Parkinson, da di-
sturbi reumatici come l’artrosi o da
depressione nel riprendere parte
della propria autonomia persa;
1.Psichiatriche, cercando di raffor-
zare e stabilizzare le prestazioni
psichiche;
4. Pediatriche, attraverso il gioco,
il lavoro manuale, l’attività arti-
gianale o gli allenamenti specifici,
cercando di rieducare e sviluppare
le abilità deficitarie e rendere pos-
sibile l’autonomia e la partecipazio-
ne alla vita della famiglia, alla vita
scolastica e alla vita della comunità.
Le tecniche utilizzate si differen-
ziano in:
- tecniche di base, che si basa-
no sull’impiego di materiali naturali
e la loro trasformazione a prodotti
finiti, attività di tessitura, lavorazio-
ne del vimini, uso di materiali pla-
smabili e falegnameria,
- tecniche di espressione, mo-
mento importante del programma
terapeutico in quanto strumenti di
comunicazione non verbale, me-
diante l’uso di attività di disegno,
pittura, scrittura e musica.
- tecniche complementari,
utilizzano l’attività di cucito, di la-
voro a maglia, di lavoro con carta,
cartone e collage.
- tecniche di adattamento
all’indipendenza, con lo scopo di
restituire le massime autonomie
possibili in ambito di vita quotidia-
na come la vestizione, l’igiene per-
14
sonale, l’alimentazione, i trasferi-
menti e gli spostamenti, il governo
della casa e l’uso dei mezzi pubbli-
ci.
Laddove è necessario ricreare le
funzioni perdute è possibile impie-
gare ortesi, protesi ed ausili.
Pertanto, a seguito dell’incremento
di numerose patologie invalidan-
ti che colpiscono la popolazione,
l’impiego di questa disciplina deve
ritenersi specialità da incentivare
mediante l’istituzione di interven-
ti multidisciplinari e coordinati tra
loro.
RSA Sandro Pertini
BIBLIOGRAFIA
1. Creatività La Sintesi magica. Arieti,
Silvano. Il Pensiero Scientifico Editore,
Roma, 1986;
2. Il momento presente. Stern, N. Daniei.
Oscar Mondatori, Milano, 2001;
3. Le demenze. Trabucchi, Marco. Edizio-
ni Utet periodici, Milano, 2000;
4. Strumenti e tecniche di riabilitazione
psichiatrica e psicosociale. Ba, Gabriella.
5. Edizioni Franco Angeli, Milano, 2009;
Terapia Occupazionale. Wilson,
6. Moya. Edizioni RED, Como, 1994.
SedimenTest la scoperta “made in Cerifos”
per valutare la funzionalità dell’ organismo
È stato messo a punto già qualche anno fa da Cerifos, e oggi si con- ferma
ancora come uno degli strumenti più preziosi nell’individua- 15 zione dei disturbi intestinali e nella diagnosi di disbiosi. Il Sedimentest, o nella sua versione non abbreviata “test del sedimen-
to urinario”, ideato dal dottor Samorindo Peci, è infatti l’esame che
ha dimostrato essere uno dei migliori alleati nella valutazione della
funzionalità dell’organismo, in modo di gran lunga superiore agli al-
tri approcci esistenti.
Il test facile, poco costoso e per nulla invasivo, parte da una semplice
premessa: «Una cattiva digestione di carboidrati, proteine e grassi,
comporta sempre la presenza di vari sedimenti nelle urine, e attra-
verso il SedimenTest, appunto, si evidenziano queste sostanze - spie-
ga il dottor Peci-. Ogni macronutriente ha, infatti, un suo specifico
segmento: la presenza di fosfato di calcio nel sedimento urinario si
ricollega al malassorbimento dei carboidrati, l’acido urico è il residuo
del malassorbimento delle proteine, e l’ossalato di calcio è il residuo
del malassorbimento dei grassi, così, a seconda dei risultati che il test
rivela è possibile capire cosa l’organismo assimila e cosa no, e quindi
ciò che la singola persona digerisce correttamente e viceversa.
Solo attraverso questi dati è, infatti, possibile capire qual è il miglior
regime alimentare da fare seguire al paziente, o nel caso di disturbi
più complessi, quali sono gli interventi nutrizionali e terapeutici più
adatti».
«Nella mia esperienza di medico endocrinologo si è sempre rivelato
il più utile in fase diagnostica, sia per la facilità di esecuzione sia per
l’esattezza scientifica; e anche i pazienti sembrano apprezzare, visto
che specialmente nell’ultimo anno, probabilmente grazie anche al
passaparola, è stato sempre più richiesto. Una scelta facilmente spie-
gabile – continua il dottor Peci- se si pensa che invece di sottoporsi ai
mille esami per le intolleranze alimentari, con un’analisi delle urine
si possono avere gli stessi risultati. La forza di questo strumento è il
fatto di essere semplice, rapido, economico e accessibile universal-
mente».
Il SedimenTest attraverso lo studio dei cataboliti urinari e della loro
concentrazione, permette dunque, di valutare la sindrome da intestino
irritabile, l’insufficienza pancreatica, la disbiosi, ma anche di rilevare
gli eventuali danni causati da una dieta non appropriata.
«Questo esame è utile anche quando non si è in presenza di patologie,
ma si vuole semplicemente stabilire qual è il migliore regime alimen-
tare da seguire - aggiunge il suo ideatore, il dottor Samorindo Peci-.
Infatti- spiega- una dieta, per funzionare, deve essere necessariamen-
te personalizzata sulle caratteristiche e sui bisogni del paziente. Non
esistono alimenti che fanno bene o male in assoluto, tutto dipende
dalle caratteristiche fisiche e metaboliche di ciascuno di noi. Un’evi-
denza scientifica che, in particolar modo oggi, con il
proliferare di diete approssimative, è bene ricordare».
In più, in una fase successiva lo stesso Sedimentest,
si rivela uno strumento utile per monitorare l’anda-
mento della dieta stessa: «Quando si intraprende un
regime alimentare diverso è fondamentale tenere
sempre sotto controllo le inevitabili modificazioni
del metabolismo in modo da prescrivere eventuali
correttivi, anche farmacologici».
16 Al test possono sottoporsi tutti. Unica
avvertenza: farlo al mattino e a stoma-
co vuoto. Infatti, gli alimenti potreb-
bero interferire con i risultati degli
esami. «Per fare un esempio, alti livel-
li di ossalati di calcio possono anche
essere il risultato di un consumo ele-
vato di caffè, tè, cioccolato o vitamina
C. Mentre un’alimentazione troppo
ricca di carboidrati o zuccheri raffi-
nati (detta anche “junk diet” o “dieta
spazzatura”) può causare una perdita
di calcio attraverso le urine.
Per avere un quadro clinico completo,
infine, e per verificare i dati risultati dal test, è bene,
sottoporsi ad altri tipi di esami: «Grazie al test del
peso specifico delle urine possono essere individuati
problemi di disidratazione, disfunzioni renali e dia-
bete spiega il dottor Peci-. Il test del calcio dà indi-
cazioni sull’acidità dello stomaco: infatti, se i livelli
di calcio nelle urine sono alti, ciò è probabilmente
dovuto a un’alimentazione troppo ricca di grassi e
zuccheri raffinati, mentre livelli bassi di calcio nel-
le urine sono associati a problemi che vanno dal
cattivo assorbimento delle proteine, alla celiachia,
all’ipoparatiroidismo, all’insufficienza di vitamina
D. Inoltre, un altro esame con cui è possibile ve-
rificare le indicazioni date dal test del sedimento
urinario, è il test della tossicità intestinale, detto
test di Obermeyer, grazie al quale è possibile rile-
vare la presenza di composti tossici fenolici dovu-
ti a problemi dell’ intestino (disbiosi,
ipocloridria, cattiva digestione, intol-
leranze). Infine- conclude il direttore
scientifico di Cerifos-, ma non ultimo
in ordine di importanza, va citato il
test dello stress surrenalico che misu-
ra il livello di cloro nelle urine, cor-
relato al funzionamento più o meno
corretto della ghiandola surrenalica».
Per ulteriori informazioni sul Se-
dimentest è possibile rivolgersi in
una delle sedi Cerifos o scrivere a:
oppure visitare il sito internet ufficia-
le del Centro di ricerca all’indirizzo:
www.cerifos.it.
a cura di Fedrica Peci
A randomized, placebo-controlled, single and multiple dose study on animal
thymus gland extracts (pTE) in healthy volunteers
Samorindo Peci, Paolo Ferroli, Stefano Giraudi, Concetto Battiato, Valentina Vena
18
Scientific Research Centre department of health research
Scientific Research Centre
A randomized, placebo-controlled, single and multiple dose study on animal thymus gland extracts (pTE) in healthy volunteers
A randomized, placebo-controlled, single and multiple dose
study on animal thymus gland extracts (pTE) in healthy
volunteers
19
20
21
Table 1.
n = n = n = n = n =
0 0 5
0
22
23
24
26 2020 si stima che saranno anche più del doppio: i dati che riguardano lo scompenso
cardiaco, infatti, sono tutt’altro che confor-
tanti. Tanto che, come emerge chiaramente
dai risultati del programma SHAPE (Study
on Heart failure Awareness and Perception in
Europe), quando si parla di questa patologia
non è improprio parlare di vera “epidemia”.
Lo scompenso cardiaco è una delle patolo-
gie croniche, oggi, a più alto impatto sulla
sopravvivenza, sulla qualità di vita dei pa-
zienti e sull’assorbimento di risorse. Ogni
anno in Europa vengono diagnosticati oltre
3,6 milioni di nuovi casi, e di questi, circa il
40% muore entro un anno dal primo ricovero
e, solo il 25% degli uomini e il 38% delle
donne, sopravvive oltre i cinque anni dalla
diagnosi.
A differenza di quanto forse si crede, infatti,
questa patologia è molto più comune dei più
frequenti tumori (mammella, testicoli, utero
e intestino).
Se prendiamo ad esempio la sola realtà ita-
liana, dati alla mano, ogni anno si hanno
170 mila nuovi casi di scompenso cardiaco
e ogni giorno si verificano circa 500 ricove-
ri per scompenso cardiaco: cioè, l’inciden-
za della malattia è pari a 1 nuovo caso ogni
1000 persone. In più, la percentuale sale ogni
anno del 10%.
Tutto questo per un costo complessivo di cir-
ca 1.4% della spesa nazionale per la sanità
e pari a 1-2% dell’intero costo sanitario del
mondo occidentale, anche perché la degenza
media in caso di ricovero è elevata (in media,
8-9 giorni), e la re-ospedalizzazione plurima
del paziente scompensato è uno dei problemi
critici anche in termini di assorbimento delle
risorse.
Eppure, nonostante l’incidenza della malat-
tia e il numero delle persone coinvolte, an-
cora oggi bisogna ammettere che la risposta
globale del sistema ai bisogni di questi pa-
zienti non è adeguata.
fatti, man mano, hanno profondamente cambiato lo scenario
dei bisogni assistenziali, spostando l’asse delle cure dalle pa-
tologie acute alle malattie croniche che, spesso coesistenti fra
loro, colpiscono una popolazione sempre più anziana e assor-
bono una proporzione sempre maggiore della spesa sanitaria.
In questo contesto i pazienti si trovano ad affrontare non più
singoli episodi di malattia, ma complessi percorsi di cura, dove
l’esito è raramente il completo recupero del benessere, ma, ben
più spesso, la presa di coscienza che si deve convivere con una
condizione cronica e che è necessario un ruolo attivo nella ge-
stione della propria malattia per poter mantenere un’accettabile
livello funzionale e qualità di vita.
Risulta, quindi, del tutto giustificata la ricerca di nuove o diffe-
renti strategie di intervento che siano efficaci, sicure, disponi-
bili e con un conveniente rapporto costo/efficacia.
In questo contesto, un ambulatorio dedicato allo scompenso
cronico è ciò che potrebbe rispondere perfettamente al bisogno
di un adeguato monitoraggio clinico, di interventi strutturati
educazionali e psico-comportamentali, fornendo, allo stesso
tempo, ai pazienti la possibilità di attuare un programma di
esercizio fisico, almeno nel caso in cui l’ambulatorio sia inte-
grato in Unità Operativa di Cardiologia Riabilitativa.
L’ambulatorio dedicato allo scompenso cronico dovrebbe ri-
spondere, infatti, a caratteristiche ben precise come: assistenza
clinica, valutazione del rischio cardiovascolare globale, iden-
tificazione degli obiettivi specifici per la riduzione di ciascun
fattore di rischio, e formulazione di un piano di trattamento
individuale che includa interventi terapeutici, programmi edu-
cazionali strutturati, tra cui anche programmi di counselling
infermieristico (abolizione del fumo, controllo del peso, dieta
adeguata, valutazione dell’ansia e della depressione).
In ambito riabilitativo, inoltre, l’ambulatorio dedicato dovreb-
be prevedere la prescrizione di un programma di attività fisica
finalizzato a ridurre la disabilità legata alla malattia, a favorire
il miglioramento della qualità della vita, a migliorare la capa-
cità funzionale, e a favorire, ove possibile, il reinserimento so-
ciale e lavorativo.
Gli obiettivi a breve termine devono essere, infatti, quelli di
perseguire la stabilità clinica del paziente, limitare le conse-
guenze fisiologiche e psicologiche della malattia, e migliorare
la capacità funzionale, incrementando il grado di autonomia e
indipendenza. Mentre quelli a lungo termine sono principal-
mente quello di ridurre il rischio di successivi ricoveri e di ri-
durre la mortalità.
Ambulatori dedicati allo Scompenso Cardiaco Cronico:
La soluzione per una malattia grave, altamente invalidante e dai costi sanitari elevati
a cura di Anna Frisinghelli
Colpisce oltre 14 milioni di europei e nel I mutamenti socio-demografici e i progressi della medicina, in-
L’Ambulatorio, poi, deve essere connesso, o almeno avere ac-
cesso, alle Unità Degenziali di Cardiologia, di UTIC, e di Car-
diochirurgia di riferimento; inoltre, deve necessariamente rap-
portarsi, condividendo i protocolli assistenziali, con i Medici
di Medicina Generale per una adeguata gestione del paziente e
per garantire l’accesso facilitato del paziente in caso di instabi-
lizzazione clinica negli intervalli temporali tra una visite pro-
grammata e l’altra, o di problematiche meritevoli, a giudizio
del MMG, di valutazione cardiologica specialistica sollecita.
Naturalmente, tutto questo rende necessaria la collaborazione
all’interno dell’ambulatorio, di più professionisti, e in partico-
lare, di almeno 2 unità mediche cardiolo-
giche, con competenza specifica in gestio-
ne dello scompenso cardiaco; un dietista o
nutrizionista, 3 o 4 unità infermieristiche,
di specialisti di supporto/consulenza (come
l’internista e lo psicologo) e, se inserito in
contesto riabilitativo, di 2 unità fisioterapi-
sti/TdR.
27
Nei pazienti con scompenso cardiaco, l’incapacità di fare esercizio fisico senza disagio è una caratteristica di
comune riscontro. Tuttavia, questa ridotta tolleranza allo sforzo genera un circolo vizioso di decondiziona-
mento, e quindi di peggioramento della funzione cardiocircolatoria: l’inattività, infatti, favorisce l’atrofia dei
muscoli scheletrici che, a sua volta, causa riduzione della forza e precoce esauribilità. Inoltre, la disfunzione
cardiaca determina la stimolazione neuro-ormonale e l’attivazione dell’asse renina-angiotensina-aldosterone,
che a loro volta, peggiorano il deficit cardiocircolatorio con iperattività adrenergica e vasocostrizione arterio-
sa, aumento del post-carico e sovraccarico cardiaco cronico.
Il training fisico, invece, induce una serie di adattamenti funzionali e strutturali a carico di diversi apparati che
interrompono questo circolo vizioso, e che quindi si traducono in miglioramenti emodinamici, ventilatori e
metabolici, tali da aumentare la capacità funzionale e da consentire una qualità di vita migliore.
A questo proposito, una revisione sistematica della letteratura (ExTraMATCH, 2004) condotta su 9 trial
controllati e randomizzati, coinvolgenti pazienti con scompenso cardiaco e disfunzione ventricolare sinistra in
classe funzionale NYHA II e III, ha dimostrato che programmi di esercizio fisico regolare riducono la morta-
lità del 35% e le riospedalizzazioni del 28%.
Gli autori hanno inoltre dimostrato che un esercizio fisico di intensità moderata migliora significativamente il
VO2max e che questo miglioramento è predittivo di una prognosi migliore.
La mortalità a 2 anni e le re-ospedalizzazioni, infatti, erano ridotte del 25% nei pazienti allenati rispetto ai
controlli non allenati (p<0.05).
Altre revisioni sistematiche di diversi studi hanno evidenziato che l’allenamento migliora la capacità di eser-
cizio e che ha effetto favorevole sul tono simpato-vagale (regolazione della frequenza cardiaca).
dott.ssa Anna Frisinghelli
U.O. Cardiologia Riabilitativa
E-learning del Gruppo Cerifos è stato creato con
l’obiettivo di fare una formazione continua su ricerca
scientifica, economia sanitaria ed
europrogettazione
Esercizio fisico nello scompenso cardiaco Una revisione sistematica conferma che può ridurre la mortalità del 35%, e le riospedalizzazioni del 28%
Linee guida, una riflessione
Clinical practice guidelines are systematically deve-
loped statements to assist practitioner and patient
decisions about appropriate health care for specific
clinical circumstances.
Field & Lohr, 1990 Una linea guida è una raccomandazione elaborata in
28 modo sistematico, partendo dall’evidenza scientifica disponibile, con lo scopo di essere il fondamento per
eseguire degli interventi efficaci ed appropriati, sotten-
dendo il corretto utilizzo delle risorse disponibili.
Queste non sono utili unicamente al professionista, che
nelle raccomandazioni in esse contenute trova un fon-
damentale strumento di educazione permanente, con
il quale migliorare il proprio rapporto con l’utenza,
oltre che avere uno strumento di tutela contro i rischi
medico-legali, a seguito dell’introduzione del nuovo
decreto Balduzzi contenente il concetto di colpa lieve.
Le linee guida sono, infatti, un supporto per i diversi
livelli istituzionali, intesi Stato, Regioni ed enti locali,
perché offrano la possibilità di ridurre le disuguaglian-
ze nell’allocazione dei servizi, ed alle singole aziende
perché possano definire ed ottimizzare i propri proces-
si produttivi ed i propri investimenti. Una cittadinanza
ben educata all’utilizzo di tale strumento, inoltre, ha la
possibilità di essere maggiormente informata e consa-
pevole dei principi scientifici, che giustificano i tratta-
menti erogati ai pazienti.
Si comprende, quindi, l’importanza di compilare delle
linee guida di elevata qualità, che si basino realmente
sulle migliori evidenze scientifiche disponibili, perché,
quando recepite ed utilizzate, garantiscano un reale mi-
glioramento continuo nell’assistenza.
A tal proposito è necessario, quindi, sottolineare l’e-
sigenza di creare delle linee guida che non guardino
unicamente all’appropriatezza di un intervento sotto il
profilo clinico, quindi un intervento condotto seguendo
la procedura giusta, sul paziente corretto, al momento
opportuno, ma che ne valutino anche la componente
organizzativa, che consiste, in primo luogo, nella scel-
ta del livello assistenziale più idoneo all’erogazione
dell’assistenza. Sarebbe, quindi, necessario offrire ai
futuri redattori di future raccomandazioni e linee gui-
da uno strumento che li supporti nella stesura di do-
cumenti, che si basino sulle migliori evidenze scien-
tifiche reali e che contengano i fondamenti necessari
alla definizione di futuri protocolli quanto più possibile
appropriati, in senso sia clinico sia organizzativo.
Valentina Vena
Partecipazione congressi CeRiFoS
Certificazioni di qualità per i Medici
www.atphgmbh.eu
Chirurgia conservativa nella cura dei tumori differenziati della tiroide
a cura di Bianca Gibelli e Gioacchino Giugliano
I carcinomi tiroidei sono generalmente tumo- ri ad ottima prognosi, soprattutto nelle forme ben differenziate e clinicamente iniziali, cioè localmente non avanzati. Questo porta anco- ra una volta a sottolineare l’importanza della diagnosi precoce per questi tumori che rappre- sentano le neoplasie endocrine più frequenti, anche in età giovanile. Il comportamento relativamente benigno ha portato negli anni - e porta ancora- vivaci di- scussioni sull’opportunità di trattamenti più o meno invasivi. Premetto che l’evoluzione tecnologica, an- che di strumenti diffusamente utilizzati, come la semplice ecografia, ha realmente ribaltato l’indirizzo terapeutico e nelle linee guida delle più importanti società di endocrino-chirurgia o di chirurgia oncologica compaiono indica- zioni molto più conservative, di quanto si po- tesse immaginare negli anni 80-90. Il dibattito infinito tra sostenitori di una chi- rurgia conservativa (emitiroidectomia, lobo- istmectomia, con o senza linfadenectomia) e i sostenitori della chirurgia demolitiva è legato essenzialmente al fatto che la prognosi, come si è detto, è ottima e la sopravvivenza non è intaccata dalla scelta chirurgica ma risulta le- gata a fattori prognostici intrinseci al paziente o alla neoplasia stessa ( v. fig 1) . Quindi l’approccio conservativo o demoli- tivo non modifica la sopravvivenza ma solo le modalità del follow-up post-chirurgico. E’ vero che nei pazienti trattati con chirurgia conservativa l’incidenza di recidive locali è più elevata, ma statistiche ormai di decen- ni confermano che queste eventuali recidive sono trattabili senza spostare i dati di mortali- tà per causa specifica. La chirurgia conserva- tiva d’altro canto ha una minore morbilità sia nell’immediato che a distanza di tempo. Nella convinzione che la principale controin- dicazione a qualunque terapia (dall’aspirina agli antibiotici) sia la mancanza di indicazio- ne, ragioniamo in questo modo anche per le procedure chirurgiche. In questa ottica la prima controindicazione ad una chirurgia demolitiva è la mancanza di indicazione oncologica all’asportazione com- pleta dell’organo. Solo dopo- perché non ser- ve parlare dei danni di una procedura se que- sta non è necessaria - vengono le osservazioni
sui danni iatrogeni, sulla morbilità chirurgica o post-attinica, e
sulla necessità di terapia sostitutiva a vita anche per persone 29 molto giovani. Le indicazioni oncologiche alla tiroidectomia totale sono es- senzialmente di due categorie: 1. estensione = tumori che interessino entrambi i lobi, o multifocali, o con immagini controlaterali ecograficamente dubbie, oppure pazienti radioesposti o con familiarità per neo- plasie tiroidee (in cui è ipotizzabile malattia plurifocale anche se non evidente) 2. tumori metastatici documentati o con malattia linfo- nodale o tumori ad alto rischio (v. tab) in cui sarà necessaria terapia metabolica con radioiodio Al di fuori di questi gruppi la scelta di chirurgia demolitiva non è legata a considerazioni oncologiche ma a indicazioni di tipo pratico o meccanico: spesso una tiroidectomia totale è eseguita per la concomitanza di struma voluminoso con sinto- mi compressivi o di tiroiditi autoimmuni che rendano comun- que non funzionante il tessuto residuo.
Come per ogni altra neoplasia la scelta chirurgica deve essere guidata da un’adeguata stadiazione e deve rispondere a preci- se considerazioni oncologiche: il tumore deve essere asportato con ampio margine di tessuto sano in blocco con i linfonodi ricorrenziali omolaterali. Una considerazione che raramente emerge da questi dibattiti è che con la tiroidectomia totale la persona viene privata di una serie di segnali legati a processi riparativi o metabolici o di trasduzione neuroendocrina che avvengono prevalentemen- te, anche se non esclusivamente, nella tiroide (fig.2) di que- ste ricordo solo brevemente calcitonina e CGRP (Calcitonin Gene Related Peptide) di cui è attualmente riconosciuto solo l’effetto ripartivo e antalgico nella patologia osteomuscolare, già sfruttato in passato per la terapia del dolore da metastasi ossee. Gli ormoni prodotti dalla tiroide sono numerosi e stra-
ordinariamente collegati tra di loro in ordinata modulazione reciproca. La sostituzione chimica completa con levotiroxina copre certamente la parte indispensabile alla sopravvivenza, ma non permette il meraviglioso adeguamento costante alle necessità dell’organismo che la tiroide attua, o come termo- stato o come centralina di comando dei processi riparativi.
Allo IEO la scelta di preservazione d’organo ha molti risvol- ti, da quelli estetici o emotivi per i tumori della mammella a quelli funzionali per la laringe. Anche risparmiare tessuto
30 tiroideo, sia per preservare almeno parte della funzioni, sia per evitare se possibile una terapia a vita. rientra in questa ottica di rispetto della persona. E’ vero che i pazienti sottoposti a tiroidectomia totale posso- no essere controllati in modo più semplice e immediato con scintigrafia whole body o con dosaggi di tireoglobulina sia basali che sotto stimolo, ma facilitare i controlli non dovrebbe essere un motivo sufficiente per una terapia demolitiva, non lo è per i tumori della prostata, del pancreas , della vescica, dell’ovaio ecc, perché dovrebbe esserlo per tumori a buona prognosi come i ben differenziati della tiroide? Certamente è più impegnativo e richiede attenzione e responsabilità se- guire un paziente sottoposto a chirurgia conservativa (quello che non c’è non si ammala, è una vecchia storia) ma i dati nel tempo dimostrano che la scelta è fruttuosa se ben fatta. A parte gli esiti con minor morbidità post-chirugica (soprat- tutto per quanto riguarda ipocalcemia e paresi cordale) dob- biamo tener conto anche del danno iatrogeno a lungo termine sulla sopravvivenza totale: i pazienti sottoposti a tiroidecto- mia e terapia radio metabolica hanno un maggior rischio di decesso per patologia cardiovascolare. Difficile dire se sia esclusivamente il trattamento sostitutivo inadeguato nel tem- po oppure la perdita di fattori protettivi o riparativi. Per quanto riguarda l’esperienza IEO possiamo dire che l’a- spetto principale deve essere la selezione del paziente con criteri che seguano un normale ragionamento oncologico: estensione, velocità di crescita, aspetto clinico, anamnesi e fattori di rischio (v.Tab).
Un paziente ben selezionato verrà comunque seguito nel post-operatorio con modalità e frequenza differenti a seconda del risultato istologico definitivo. Una piccola percentuale viene sottoposta a intervento di radicalizzazione dopo l’esito
definitivo per “sorprese” istologiche, in ge- nere invasione vascolare o capsulare da parte di piccoli tumori o riscontro di tipi istologici considerati a comportamento più aggressivo, per esempio le forme a cellule alte o forme poco differenziate come le insulari. Il risul- tato negli anni è comunque soddisfacente in fig 1 abbiamo riportato dati del 2010 in cui si evidenzia l’ottima sopravvivenza libera da malattia, con un follow-up che ormai supera
i 15 anni.
Gioacchino Giugliano Chirurgo Cervico-Facciale
Direttore
Unità Neoplasie Tiroidee
Istituto Europeo di Oncologia Milano
Bianca Gibelli Endocrinologa
Vicedirettore
Unità Neoplasie Tiroidee
Istituto Europeo di Oncologia Milano
Breve viaggio intorno alla radiochirurgia stereotassica
Il concetto di radiochirurgia ste- reotassica nasce nei lontani anni ‘50, a firma Lars Leksell, neuro- chirurgo svedese. A dispetto del nome, non prevede l’intervento del bisturi, ma di fasci di radia- zione X, utilizzati come bisturi chirurgici. Si differenzia dalla radioterapia moderna per alcu- ni aspetti di base che si possono riassumere in quattro concetti: ipofrazionamento della dose, alto gradiente di dose, volumi bersaglio di piccole dimensioni e alta precisione di centratura. La radioterapia moderna, su vo- lumi grandi, utilizza molti fasci di radiazione, attualmente ad in- tensità modulata, con campi di trattamento generalmente copla- nari. Il risparmio dei tessuti sani è ottenuto grazie ad un “effetto radiobiologico differenziale” che si basa sul frazionamento della dose terapeutica in molte sedute; frazionare la dose significa sfrut- tare la migliore capacità dei tes- suti sani di riparare il danno bio- logico provocato dalle radiazioni ionizzanti. La radiochirurgia ste- reotassica utilizza alta dose per seduta e basso numero di frazioni (da una a cinque), ed una balisti- ca di trattamento con un arrangia- mento di fasci i cui assi centrali sono orientati nello spazio, e non solo su un piano: “stereo”, dal greco, significa solido o tridimen- sionale, “tact”, dal latino, signifi- ca colpire. Si ottiene così un “ef- fetto topologico differenziale”, perché si aumenta il gradiente di dose attorno al bersaglio. Il gradiente di dose è la varia- zione di dose tra due punti adia- centi dello spazio: maggiore è il gradiente, più la dose cala ra- pidamente, e quindi minore è il volume di tessuto sano che rice- ve dose clinicamente rilevante. Un alto gradiente di dose si può ottenere però solo su bersagli di piccole dimensioni, e quindi l’alta selettività di questa tecnica assieme alla piccola dimensione dei bersagli, richiedono una pre- cisione di centratura del bersaglio molto elevata. La procedura radioterapica pre- vede diverse fasi: nella prima (in gergo chiamata simulazione) si acquisiscono i dati del paziente con scansioni TC e, nel caso del- le patologie cerebrali, anche di scansioni di Risonanza Magneti- ca e PET, opportunamente corre- late tra loro grazie all’utilizzo di particolari metodi matematici di “registrazione delle immagini”. Poi, segue una fase di contouring,
in cui devono essere individuati il bersaglio e gli organi critici, che in questo caso sono gli occhi con i cristallini, i nervi ottici, il chia- sma e il tronco cerebrale, ed una fase di pia- nificazione, in cui si progetta la balistica di trattamento ottimale per ogni specifico caso. Solo dopo queste fasi si può passare alla fase di trattamento, in cui il piano viene realiz- zato. È bene ricordare però che, di norma, il bersaglio è interno al corpo, che non è traspa- rente, quindi è necessario utilizzare sistemi di posizionamento ed immobilizzazione del di- stretto corporeo interessato, in modo da far sì che il paziente venga riposizionato sul lettino di terapia nella stessa posizione della fase di simulazione. L’intuizione di Leksell, fu quella di utilizzare come sistema di posizionamento ed immobi- lizzazione il frame o casco stereotassico, nato per neuro navigazione: esso garantiva di rag- giungere una precisione di riposizionamen- to dell’ordine del millimetro, permettendo l’applicazione di tecniche di trattamento ad alto gradiente di dose, altamente selettive, e conseguentemente l’ipofrazionamento spinto fino a trattamenti in singola seduta, molto ef- ficaci perché la dose erogata era sufficiente per raggiungere il controllo della malattia con tossicità limitata alle altre parti del cer- vello. Tutto ciò, però ovviamente, aveva anche al- cuni aspetti negativi: ciò che veniva definita radiochirurgia stereotassica doveva essere realizzata in singola giornata, perché il fra- me stereotassico doveva essere ancorato alla teca cranica con viti e un qualsiasi disguido che modificasse il piano di lavoro rendeva la tecnica difficile da applicare. Per superare il problema si introdusse l’uti- lizzo di un frame non invasivo, buon com- promesso tra comfort del paziente e precisio- ne di terapia, che permetteva l’esecuzione di quella che veniva definita radioterapia stere- otassica. Quest’ultima non raggiungeva però la precisione della radiochirurgia, e quindi non permetteva il trattamento di lesioni non tumorali come per esempio le MAV (malfor- mazioni artero-venose). Tuttavia, dagli anni ‘50 ad oggi, le cose sono molto cambiate, e la radioterapia ha visto l’introduzione di altissima tecnologia. La chiave di volta, per la garanzia del comfort del paziente e l’alta precisione di esecuzione, è stata l’introduzione dell’IGRT (Image Gui- ded Radiation Therapy). Garantendo la precisione definita al tempo di Leksell, l’IGRT rende di fatto obsolete le originali tecniche SRT per la localizzazione ed il riposizionamento del paziente. Essa uti- lizza strumenti di imaging installati nella sala di terapia, che permettono di visualizzare l’interno del paziente appena prima o anche durante l’erogazione della dose, e permette quindi la corretta realizzazione di tecniche stereotassiche senza l’utilizzo del frame. In più, questa tecnica oggi rende possibile trattare anche malattie di piccole dimensioni localizzate in sedi diverse da quella cerebrale, esempio nel polmone, fegato, o colonna, tutte zone che, prima dell’introduzione dell’IGRT,
potevano essere trattate solo con l’utilizzo di frame di contenimento complicati e scomodi, e con meto- dologie così complesse da limitare la tecnica solo a pochi pazienti. Oggi le soluzioni IGRT a dispo- sizione sono molte. Citiamo ad 31 esempio il Cyberknife, un sistema per radioterapia stereotassica in cui un acceleratore lineare è installato su braccio robotico ed incorpora un sistema di guida per immagini real time, che elimina la necessità di rigida immobilizzazione del pa- ziente, per cui, quando il paziente o il bersaglio si muovono, il siste- ma rileva il movimento e il robot produce aggiustamenti appropriati per mantenere un’accurata cen- tratura. Oppure la Tomoterapia, un’apparecchiatura equipaggiata con un acceleratore che ruota lun- go un anello all’interno del quale il lettino porta paziente si muove con continuità, realizzando terapia elicoidale, integrata con una CT ad alta energia (MV CT). Infine, tra le soluzioni IGRT vanno citati anche gli Acceleratori tradizionali, che possono essere equipaggiati con un “On Board Imager”, a fasci X di diagnostica (bassa energia - kV), il quale permette l’acquisizione di immagini assiali (kVCT) pre e post trattamento. Oltre a ciò, essi posso- no essere equipaggiati con sistemi di imaging kV quasi real time e con lettino portapaziente robotizzato (e relativo software di controllo) a sei gradi di libertà, permettendo aggiustamenti di posizione appro- priati per mantenere un’accurata centratura. Ciascuna delle soluzioni preceden- temente indicate può dare ottimi risultati; la scelta di una di loro di- penderà da fattori legati sia al tu- more che al paziente. Sempre più spesso si leggono su giornali titoli “ad effetto”, che possono indurre a pensare che l’alta tecnologia, da sola, produca miracoli. Queste tec- niche, se usate in modo appropria- to, possono migliorare i risultati e ridurre, ma non eliminare, gli effet- ti collaterali della radioterapia: essi vanno sempre tenuti presenti per essere poi controllati con le ade- guate terapie. Per il miglioramento dei risultati l’esperienza consolida- ta ed l’alta preparazione del perso- nale, l’empatia, ambienti ospitali e rassicuranti non sono valori ag- giunti, ma valori imprescindibili. L’alta tecnologia, è bene ribadirlo, fornisce un valido aiuto, certo, ma non si prende cura del paziente.
Il medico davanti al paziente: un’idra o una chimera? Il breve racconto di una sera a cena… In omaggio a Carlo Urbani, uno dei tanti colleghi a cui penso
spesso e a cui devo riconoscenza per avermi rinfuso la speranza da “invictus”
Ero a cena con alcuni amici, e come spesso accade, purtroppo, si parlava di “malasanità”, termine ormai tristemente inflazionato e sinonimo di “cattivo medico”. Così, con la rabbia e il dolore (che aggravano l’esofagite da Nero d’Avola), insorgo contro il luogo comune e chiedo ai miei commensali se qualcuno ri-
32 corda ancora quel collega medico che nel marzo 2003 perse la vita dopo aver contratto la SARS ad Hanoi da un paziente. No, nessuno ricordava. Quel collega si chiamava Carlo Urbani, ed è a lui che dedico la mia riflessione in questa pagina nata da una domanda che mi tocca da vicino: perché attorno al rapporto medico-paziente e medico-collettività si sono creati tanti malintesi e preconcetti? Come ci vorrebbero i pazienti e come, invece, ci costringono a essere gli amministratori del servizio sanitario? Certamente per colpa di alcune pecore nere si è gettato fango sulla categoria e, purtroppo, si sa: una fiala di veleno inquina tutto uno stagno. Eppure, io penso che ci sia decisamente qualcosa di più, che trascende il gusto della notizia che certo giornalismo scandalistico ricerca, qualcosa di più profondo per cui sia- mo in costante imbarazzo con ciò che nel nostro immaginario viene evocato dalla figura del medico. Chi siamo noi che professiamo tale vocazione? A questo punto, mi viene in mente l’immagine di medico polivalente: tecno- logico ma umano, informatico ma manualmente destro, super efficiente ma calmo. Insomma, una specie di chimera, il mostro mitologico fatto con le par- ti di animali diversi, mentre lo avrei voluto dipingere piuttosto come un’idra, quel mostro a nove teste a forma di serpente, come simbolo dell’unione di tante teste collaboranti all’unisono per il paziente da curare. Ma torniamo al rapporto medico/paziente oggi, così inquinato, cercando però di risalire alle origini, prima delle contaminazioni medico-legali rivendica- tive da un lato, e medico-legali difensive conseguenti, cercando invece di tornare alle nostre motivazioni iniziali. Allora, facendo questo passo indietro, ci accorgeremo con stupore che tale relazione, anche depurata, non è necessariamente “sana” o meglio, non si basa su uno stato di equilibrio fra persone, bensì su un rapporto impari in cui il paziente (bisognoso) si rivolge ad un sano (medico) per chiedere aiuto. Ma i medici sono persone come tutti, per nulla immuni dalle malattie: anche i me- dici, infatti, da curanti possono diventare in qualsiasi momento pazienti, una
consapevolezza questa, che fa scattare meccanismi di paura e che ci porta, anche inconsciamente, in empatia con l’ansia del paziente, con il rischio così
di renderci perfino inefficienti come medici. In più, continuando la nostra analisi, bisogna considerare un altro elemento che complica ulteriormente questo rapporto così delicato e complesso: il con- testo in cui medico e paziente si incontrano, cioè le Asl. Personalmente come primario che sta a metà tra la direzione aziendale e gli utenti, penso a questo riguardo che se l’aziendalizzazione ha portato sicura- mente ad un miglioramento dell’efficienza delle strutture ospedaliere che era- no alla bancarotta gestionale, è anche indiscutibile che come ogni sistema ad alta complessità, essa richiede una gestione assolutamente non facile. In più
l’azienda ospedaliera ha una peculiari- tà: gli operatori non sono e non devono essere completamente gestibili, ma de- vono conservare la propria autonomia professionale, di scienza e coscienza, che ha come corollario indispensabile la responsabilità del medico verso la col- lettività che a lui affida la propria salute, dandogli carta bianca su come indirizza- re le risorse. Bisogna considerare però che il medico non sempre può scegliere: l’unica scel- ta logica sarebbe, infatti, quella di dare a tutti i pazienti la cura migliore, nei tempi più brevi possibili e nei luoghi di eccellenza, ma contestualizzando que- sto desiderio in un paese con la nostra situazione finanziaria e con una gestione politica della spesa sanitaria dove impe- rano i tagli, si capisce subito che una tale posizione è un’utopia. Come con- ciliare allora? Personalmente ritengo, che per prima cosa questo vada fatto tagliando gli sprechi e ottimizzando i sistemi anco- ra più di quanto non si stia cercando di fare, e in secondo luogo guidando chi fa le scelte con pareri tecnici, evidenze scientifiche, esperienze già percorse. Una bella rivoluzione, insomma, spe- cialmente di mentalità: e dunque la più difficile da attuarsi… E come spiegare tutto questo ai miei commensali di quella sera a cena e so- prattutto al resto del mondo? Come spiegare le difficoltà enormi che in re- altà affrontiamo ogni giorno? Le ore di lavoro straordinario non pagato, la mancanza di supporto logistico-tecno- logico, i salti mortali che compiamo per aumentare la sicurezza e la gestione del rischio? Come spiegare, e come ricorda- re a tutti che oltre a quelle “pecore nere” che fanno tanto parlare di malasanità, ci sono moltissimi uomini che ogni giorno fanno miracoli, salvano vite, e che non guardano l’orologio, per servire i propri pazienti? Uomini come Carlo Urbani e come tanti di cui non ricorderemo il nome, ma di cui almeno un paziente ser- berà un grato ricordo.
Concetto Battiato
AREA VASTA N. 5
Ascoli Piceno San Benedetto del Tronto
Tra le condizioni psicopatologiche con- siderate severe in ambito psichiatrico, le sindromi psicotiche, i disturbi di per- sonalità, particolarmente quello border- line, la malattia bipolare, i disturbi della condotta alimentare, sono quelle che più spesso conducono il soggetto ver- so grosse limitazioni nella realizzazione di una vita socialmente e affettivamente soddisfacente. La tendenza che in molti casi si genera, è quella di veder chiudere progressivamente la persona dentro una condizione di cronicità, in cui si spe- gne la parte creativa, progettuale dell’in- dividuo, annullandone le potenzialità. La Riabilitazione Psichiatrica è un intervento terapeutico complesso e integrato, teso a contrastare gli ef- fetti desertificanti dell’esistenza, in queste condizioni psicopatologiche. All’interno del complesso sistema del- le reti dedicate alla Salute Mentale, troviamo Servizi completamente dedi- cati alla Riabilitazione Psico-Sociale. Si tratta delle Strutture Intermedie: Co- munità Terapeutiche e altre forme di Residenzialità Protetta, Centri Diurni che promuovono una grande varietà di percorsi intensivi territoriali rivolti a bisogni specifici: trattamento all’esor- dio della malattia, inserimenti lavorativi o formazione al lavoro e più in gene- rale varie forme di inclusione sociale. Tra le strutture intermedie, Il Centro Diurno (CD) ha dimostrato, nel trat- tamento e la riabilitazione dei disturbi mentali gravi, di essere lo strumento più flessibile e capace di accompagnare in percorsi di cambiamento, pur man- tenendo il malato all’interno della rete familiare sociale di appartenenza. Il Centro Diurno è un presidio a carat- tere semiresidenziale, dove la persona è impegnata, in un confronto con la quoti- dianità, per l’acquisizione o il manteni- mento di abilità, necessarie nelle relazio- ni interpersonali e nelle attività pratiche. L’intervento del Centro Diurno si rea- lizza sia con attività direttamente gestite e sviluppate in un contesto strutturato, al fine di produrre anche gli effetti di un ambiente terapeutico, sia come coordi- namento di una vasta rete di iniziative di carattere psicologico e sociale, presenti nella rete sociale e negli altri presidi del dipartimento di salute mentale (DSM). L’altissimo sviluppo del numero e del- la qualità di strutture semiresidenziali nell’ultimo trentennio, è stato ben docu- mentato, oltre che da un’ampia produzione scientifica internazionale, anche dall’at- tività dell’Associazione Nazionale Coor- dinamento Centri Diurni in Psichiatria.
L’Associazione, nata a Milano (Rho) da una proposta di Angelo Cocchi e Giorgio De Isa- bella, dal 1980 riunisce e invita al confronto gli operatori della riabilitazione psichiatrica italiana, nei territori regionali, ma anche in momenti più ampicomeicongressi nazionali. Il VII Congresso Nazionale si svolge- rà a Mestre (VE), nei giorni 11 e 12 aprile 2013, presso Ospedale dell’An- gelo di Mestre - Padiglione Rama, con il titolo “Pratiche e modelli di riabili- tazione nei percorsi semiresidenziali.” Nel corso delle due giornate sarà presen- tato il variegato panorama delle struttu- re semiresidenziali nel nostro Paese e le loro prospettive di sviluppo per un ruo- lo dei Centri Diurni fondato sulle buo- ne pratiche e sulle evidenze scientifiche. La Lombardia parteciperà insieme alla re- gione Veneto alla realizzazione del gruppo di lavoro sul tema: “Tipologie dei Servizi e caratteristiche dei Progetti Riabilitativi”, con l’intento di stendere un documento fi- nale che riassuma i principali criteri per standardizzare gli interventi: utilizzo di in- dicatori, monitoraggio, temporizzazione, tipologie, etc. Il gruppo sarà da me coordi- nato insieme al referente regionale veneto.
Molte altre aree di discussione saranno sviluppate nelle varie sessioni con la pre- senza di relatori autorevoli nell’attuale psichiatria. Tra gli ambiti più innovativi di cui si parlerà ne citerò soltanto alcu- ni: i “trattamenti accreditati da Evidence Based”, “modelli integrati tra Evidence Based e costi standard”, “recovery e stra- tegie di inclusione sociale”, “percorsi spe- cializzati per interventi nelle fasi di esor- dio e nelle patologie non psicotiche”, etc. In sintesi, le linee tematiche principali sa- ranno due: una che svilupperà la riflessio- ne sui Centri Diurni come setting di trat- tamenti basati sull’evidenza scientifica e orientati al recovery, mentre l’altra linea guiderà l’attenzione, che deve sempre ri- manere altissima, verso il superamento di trattamenti custodialistici che possano an- cora oggi essere praticati, mantenendo in condizione di disabilità il malato. Si tratta ora, di sostenere con convinzione i proces- si di empowerment degli utenti e delle loro rappresentanze. Una forte spinta ad operare con determinazione in tal senso, deriva an- che dal periodo e dal contesto generale del sistema socio-sanitario del nostro Paese. In questo momento storico assistiamo ad una grande crescita della “domanda-bisogno” accompagnata da una drastica riduzione delle “risorse”. Per attraversare la crisi so- cio economica attuale siamo tutti chiamati ad un cambiamento acrobatico che consenta ad operatori, pazienti, parenti di confluire
verso forme associative e collaborati- ve capaci di promuovere, far maturare progressive forme di autogestione nel
Territorio, orientando gli interventi verso una psichiatria di comunità e ri- fondando i Servizi su nuovi paradigmi.
Inoltre, poichè la riabilitazione psi- chiatrica non è legata ad una speci- fica struttura muraria ma è una me- todologia a valenza trasversale, che può essere applicata in ogni setting
di servizio, dall’Ambulatorio, al Re- parto Psichiatrico, al Centro Diurno,
si ricorderà la necessità della sua im- plementazione all’interno del siste-
ma dei servizi come visione generale di tutti i Servizi di Salute Mentale.
Con il VII Congresso di aprile, a Mestre, l’Associazione desidera ani-
mare il dibattito intorno agli inte- ressi prevalenti degli operatori dei
Centri Diurni nell’attualità, interessi che sembrano orientati verso l’ac-
quisizione di competenze tecniche e organizzative per la trasformazione
migliorativa della qualità dei Servi- zi e per il raggiungimento di livelli
sempre più efficienti nell’operatività. Gli eventi sociali per i congressisti
prevedono una visita al Museo della Follia all’Isola di San Servolo, cene di gruppo nei Bacari di Venezia e la visita notturna, guidata, di Venezia.
Per avere maggiori informazio- ni ci si può rivolgere alla Segre-
teria Organizzativa Congresso: [email protected] e per visionare il programma si può vi-
sitare il sito: www.centridiurni.com Invito le persone interessate a ricevere materiale informativo rispetto all’As- sociazione o al Coordinamento regio- nale lombardo, di cui sono referente,
a rivolgersi direttamente a me tramite:
e-mail: [email protected]
Servizi Psichiatrici Semiresidenziali l’esperienza della rete dei Centri Diurni
a cura Emanuela Cafiso
Emanuela Cafiso
Psichiatra; gruppoanalista;
direttore medico del Centro
Diurno psichiatrico Il Camale-
onte- Fondazione Istituto Sacra
Famiglia, Cesano Boscone-MI;
referente per Regione
Lombardia dell’Associazione
Nazionale Coordinamento Centri
Diurni in psichiatria.
33
Progetti europei: Conoscere per saper fare
34 Noi italiani abbiamo il terrore della burocrazia. La
richiesta di documenti può causarci una tale ansia, da
scoraggiare qualsiasi iniziativa e, quando si parla di
europrogettazione, la paura fa 90.
Cominciamo quindi a conoscere la belva, a definire
i passi da seguire per il finanziamento di un progetto
tramite i fondi europei.
Innanzitutto bisogna definire l’idea che si vuole por-
tare avanti. Questo può avvenire tramite un’azione
propositiva verso gli stakeholder interessati (univer-
sità, centri di ricerca, fondazioni, etc.) in modo da
dare stimolo, ascoltando le esigenze tramite incontri
e brainstorming.
La fase successiva riguarda l’analisi dell’idea proget-
tuale e il confronto con il mondo dei finanziamenti
europei per individuare la “call” (bando di finanzia-
mento) più adatta all’idea progettuale che si vuole
portare avanti. Questa fase richiede del tempo, poi-
ché un buon progettista cerca di individuare un bando
che uscirà in un prossimo futuro e non nell’immedia-
to, essendo ancora nella fase iniziale di preparazione
del progetto.
Una volta individuato il bando, l’idea progettuale va
“letta” nell’ottica delle politiche comunitarie e van-
no individuati quali sono quei criteri imprescindi-
bili richiesti dalla “call” che non possono mancare
nel progetto. In questa fase bisogna adattare l’idea
progettuale alla “call” che si è scelto di seguire e in-
cominciare a definire i tempi con cui andremo a pre-
sentare il progetto, per stare in linea con i termini di
scadenza previsti dal bando stesso.
Una volta definito questo, bisogna analizzare tutti i
documenti che la Commissione Europea o l’Agenzia
Esecutiva di riferimento mettono a disposizione per
la “call”, in modo da poter mettere dei paletti entro
i quali preparare il progetto. Una volta analizzati i
documenti, bisogna seguire le istruzioni date dalla
Commissione Europea che portano a registrare l’en-
te che vuole presentare il progetto in modo da otte-
nere i moduli su cui inviare, per la valutazione, l’i-
dea progettuale. Nel presentare un’idea progettuale
alla Commissione Europea ci sono alcuni argomenti
che si trovano in quasi tutti i bandi, che vanno dagli
a cura di Girolamo Simonetta
obiettivi che il progetto vuole raggiungere, le azioni
che vanno intraprese e il budget che si vuole utiliz-
zare per la realizzazione del progetto. La parte più
importante riguarda l’utilità a livello europeo dalla
realizzazione del progetto e come il proponente in-
tende “disseminare” i risultati ottenuti.
Una volta preparato il progetto, bisogna inviarlo in
maniera telematica alla Commissione Europea o ad
un’Agenzia Esecutiva delegata per la valutazione.
Le tempistiche di risposta possono variare, ma la
Commissione Europea per il periodo 2014 – 2020 si
è imposta di abbassare queste tempistiche del 20%.
Ricevuta la valutazione, la proposta effettuata può
essere accettata senza nessuna variazione, accettata
in parte con richiesta di variazione per alcuni conte-
nuti o non accettata. Nel secondo caso ci sarà tempo
per modificare alcune parti richieste, per poi rinviare
il nuovo modulo per la correzione. Successivamente,
l’ente proponente sarà invitato a Bruxelles per la fir-
ma del Grant Agreement, che permette di partire con
il progetto.
Una volta iniziato il progetto, bisogna rendicontare
periodicamente la Commissione Europea sull’anda-
mento del progetto. Le sovvenzioni europee non ven-
gono date completamente ad inizio o fine progetto,
ma scaglionate nella durata del progetto.
Le rendicontazioni servono appunto per passare al
livello successivo di sovvenzione.
Il tutto richiede sforzo creativo, competenze multidi-
sciplinari e un efficace supporto lobbistico.
Preparare un progetto da presentare alla Commissio-
ne Europea richiede tempo e impegno. Mediamen-
te la preparazione di un progetto da presentare alla
Commissione Europea richiede un anno di lavoro.
Certificazioni internazionali
per la qualità professionale in Salute
Europrogettazione step by step
Ricerca attiva di idee progettuali:
• individuazione dei potenziali stakeholder ed azione
propositiva e di stimolo nei confronti dei detentori di
conoscenza (università, centri di ricerca,
fondazioni, etc.)
• ascolto delle esigenze del territorio
• incontri e brainstorming
Analisi e matching tra idea progettuale e bando/
programma:
• idea progettuale “letta” nell’ottica delle politiche
comunitarie
• individuazione dei criteri imprescindibili richiesti
dal bando
• adattabilità e rivisitazione dell’idea progettuale
(modifiche parziali, scomposizione di una idea in vari
progetti, ecc..), rispetto all’eventuale bando
• definizione dei tempi e delle modalità di presenta-
zione del progetto
Dall’idea al progetto:
• analisi del bando comunitario (budget, tipo di azioni
finanziate, scadenza)
• approfondimento del Programma di lavoro (azioni,
tematiche, iniziative finanziate, risultati attesi, futuri
bandi programmati)
• partnership iniziale
• redazione scheda progettuale in inglese
• riformulazione eventuale della scheda
• allargamento della partnership
• redazione del progetto
Stesura del progetto:
• problema individuato
• soluzione proposta
• obiettivo generale e obiettivi specifici
• partners
• metodologia d’azione (costi e benefici)
• durata, budget, sovvenzione richiesta, sostenibilità
• risultati attesi e loro misurabilità … e poi viene il
bello! Realizzare il progetto!
Girolamo Simonetta
Europrogettista
35
www.csg-consulting.it
Le innovazioni del prossimo futuro per
far ripartire il Paese di Cristina Boeri
Il ruolo della tecnologia per una politica industriale di crescita competitiva dell’industria italiana che non può non andare a braccetto con la ricerca universitaria.
36 L’Europa punta sulle Key Enabling Technologies e l’in- dustria italiana non sta a guardare.
Lo scorso 30 gennaio si è tenuta in anteprima nazionale a Milano presso Palazzo Turati la presentazione del rapporto AIRI. “Le innovazioni del prossimo futuro. Tecnologie pri- oritarie per l’industria”, organizzata da Innovhub Stazioni Sperimentali per l’industria (SSI) e da AIRI - Associazione Italiana per la Ricerca Industriale. L’Ottava Edizione del Rapporto AIRI (pubblicata a fine 2012) assume un partico- lare significato considerando l’attuale contesto di una crisi economica e finanziaria del Paese tra le più complesse e dif- ficili degli ultimi decenni. Infatti quest’ulti- ma indagine (l’indagine è condotta da AIRI dal 1995 con cadenza biennale o triennale) vuole essere un segnale che indica come un’importante parte della ricerca indu- striale italiana malgrado tutto può e vuole rispondere all’incertezza del momento evi- denziando opportunità di crescita grazie a linee innovative di ricerca e sviluppo tec- nologico. Linee che se attivate potrebbero avere in Italia una ricaduta, già nel medio- breve periodo, sulla competitività del siste- ma produttivo e dei servizi avanzati. L’indagine, che copre settori rilevanti dell’industria italiana, in particolare quello manifatturiero, è stata realizzata grazie all’apporto di 86 fra aziende, enti pubblici e organismi privati di ricerca con la partecipazione attiva e volontaristica di circa 110 ricercatori specializzati nei diversi settori.
Otto i settori industriali presi in considerazione: 1) Informatica e Telecomunicazioni 2) Microelettronica e semiconduttori 3) Energia 4) Chimica 5) Farmaceutica e Biotecnologia farmaceutica 6) Trasporti su strada, ferro e marittimi 7) Aereonautica 8) Beni strumentali
Le 84 tecnologie individuate come rilevanti nel rapporto sono per esempio: la capacità della sensoristica più avan- zata di contribuire, oltre al miglioramento dei dispositivi mobili, all’avanzamento di nuove tecnologie per il rispar- mio energetico, per la salute, per la sicurezza della filiera alimentare, per la conservazione dei beni culturali; le nuo- ve tecnologie chimiche per uno sviluppo sostenibile e per
l’ambiente, come il recupero di materiali da bottiglie e contenitori di plastica o da pneumatici usati o la bonifica di terreni, lo sviluppo dell’utilizzazione di risorse rinno- vabili di origine naturale in bioraffinerie o per la produzione di un carburante come il bioetanolo, le nanotecnologie per materia- li innovativi per l’edilizia; le nuove tec- nologie per la medicina personalizzata e per il moderno imaging molecolare, per la chirurgia mini-invasiva, in grado di ridur- re la convalescenza, e le terapie avanzate per la rigenerazione tissutale. Nel settore aereonautico importante risulta lo svilup- po dell’utilizzo di materiali avanzati oltre
che di tecnologie innova- tive per il sistema di con- trollo del traffico, mentre nei beni strumentali per l’industria manifatturiera, l’aspetto della sostenibi- lità caratterizza le nuove tecnologie di progettazio- ne di sistemi produttivi complessi e per la pianifi- cazione della produzione e della logistica intra e in- ter fabbrica, la sensoristi- ca avanzata e lo sviluppo dell’applicazione di nuovi
materiali per componenti e macchine. Un ventaglio di tecnologie con eviden- ti rilevanti ricadute che potrebbe esse- re sviluppato in gran parte in un periodo medio-breve, e cioè fra i 3 e i 5 anni, e il cui sviluppo è stato valutato richiedere un incremento intorno al 16 -17% dell’attua- le spesa annua della ricerca svolta in Italia dalle aziende, che è dell’ordine di 10 mi- liardi di euro. Un investimento incrementale quindi dell’ordine di circa 5 miliardi di euro da spalmare in un periodo di tre-cinque anni. Non si è tenuto però conto della spesa re- lativa allo sviluppo di farmaci o di alcuni settori dell’aereonautica, che richiedono spese più rilevanti ad alto rischio, e che però possono sfruttare anche un coinvol- gimento finanziario di strutture europee o internazionali. Inoltre, la spesa relativa allo sviluppo di tecnologie dell’informatica e delle teleco-
INNOVHUB SSI, l’azienda speciale della Camera di
Commercio di Milano
al servizio dell’innovazione
Innovhub-Stazioni Sperimentali per l’industria
(SSI) opera con la finalità di migliorare la compe-
titività del sistema produttivo nazionale attraver-
so un servizio di supporto tecnologico di elevato
livello scientifico, la promozione e il sostegno
all’innovazione, alla ricerca e alla formazione di
personale di specifici settori produttivi.
L’Azienda, già dal 2011 si articola in cinque di-
visioni: il laboratorio CISGEM, divisione Inno-
vazione, per quanto riguarda il settore gemmo-
logico, la Divisione Stazione Sperimentale per
la carta, cartoni e paste per carta, la Divisione
Stazione Sperimentale per i combustibili, la Di-
visione Stazione Sperimentale per le industrie
degli Oli e dei Grassi, dove vengono trattati semi
e frutti oleaginosi, oli e grassi vegetali e animali,
oli minerali, lubrificanti, detersivi e tensioattivi,
ma anche pitture, vernici, prodotti cosmetici e di
igiene personale, e infine, la divisione Stazione
Sperimentale per la Seta, per quanto riguarda le
fibre, i filati, i tessuti di seta e quelli serici.
L’Azienda con le sue divisioni tecniche, tutte
dotate di attrezzature moderne e laboratori alta-
mente specializzati, offre una serie di attività in
ambiti trasversali che vanno dai servizi di inno-
vazione di prodotto all’assistenza nell’accesso a
finanziamenti e bandi, dalla formazione per ricer-
catori, fino a tutto ciò che riguarda la normazione
tecnica.
I servizi vengono erogati tramite competenze
interne o avvalendosi di strutture terze, con un
comune denominatore: la professionalità e l’o-
biettivo di rendere disponibili alle imprese gli
strumenti necessari per migliorarne la competi-
tività.
Innovhub SSI è inoltre partner della rete comuni-
taria di supporto al business “Enterprise Europe
Network” composta da oltre 500 organizzazioni
dislocate in 49 Paesi, e Sportello APRE, l’Agen-
zia per la Promozione della Ricerca Europea per
la Lombardia.
Per maggiori informazioni è possibile contattare
il centro telefonando al numero 39.02.8515.5243,
oppure scrivendo a [email protected].
Per altri approfondimenti www.innovhub-ssi.it
Cristina Boeri
municazioni non è stata considerata poiché coinvolge oltre ai costi di ricerca anche rilevanti spese per le ne- cessarie infrastrutture. L’investimento incrementale si riferisce allo sviluppo di prototipi, di impianti pilota o di prodotti per una prima sperimentazione sul mercato, e non considera i costi ne- cessari per arrivare successivamente ad una produzione industriale, o a un impianto industriale, o al lancio di un nuovo prodotto sul mercato. L’indagine AIRI mette inoltre in evidenza per la prima
volta che molte di queste tecnologie potrebbero acquisi- 37 re incrementi di competitività ancora più elevati se po- tessero fruire, mediante collaborazione molto stretta con la ricerca pubblica, di iniezioni di nuove tecnologie tra- sversali quali le Key Enabling Technologies, identificate dalla UE come la struttura portante per la crescita della competitività tecnologica dell’Europa e quindi la base del programma Horizon 2020 che decollerà nel 2014 con rilevanti risorse finanziarie.
Queste Key Enabling Technologies sono: - Biotecnologie industriali - Nuovi Materiali - Fotonica - Nanotecnologie - Micro e Nanoelettronica - Sistemi avanzati di produzione
Per ciascuna delle 84 tecnologie è stato quindi valutato come le Key Enabling Technologies possano apportare un ulteriore vantaggio competitivo, vale a dire: • La Fotonica può essere rilevante per il 24% delle tec- nologie • Le Biotecnologie per il 25% • Le Nanotecnologie per il 50% • I Materiali avanzati per più del 50% • I Sistemi avanzati di produzione per il 57% • La Micro e Nanoelettronica per il 60%
Al fine di fornire alcuni esempi di come l’analisi possa avere una rapida ricaduta tecnologica, durante l’even- to di gennaio, Innovhub SSI ha presentato delle ricer- che condotte in due proprie Divisioni tecniche inerenti: l’impiego delle micro e nano fibre di seta per la rigene- razione tissutale nel campo biotech (Divisione Seta) o l’utilizzo del glicerolo nella formulazione di fluidi per il trasferimento del calore (Divisione Oli e Grassi). Raffrontando il rapporto AIRI con le attività sviluppate da Innovhub SSI emergono interessanti correlazioni in attività di ricerca e di servizio tra cui ad esempio: im- pieghi avanzati di biomasse, utilizzo di materie prime alternative per la produzione di energia, imballaggi per alimenti, biomateriali per applicazioni mediche, tecno- logie per combustibili.
Biostatistica
La lettura di una pubblicazione scientifica si rende sempre più neces-
saria a tutti coloro, che appartengono al mondo sanitario. Purtroppo,
molto spesso, non si posseggono basi adeguate alla piena compren-
sione dell’evidenza, di fronte alla quale ci si trova. I testi che si è deciso di presentare in questa sezione della rivista non
38 vogliono essere una sintesi di lezioni di statistica. Si propongono,
piuttosto, come uno strumentario utile agli addetti ai lavori, per poter
comprendere al meglio i risultati di una pubblicazione e leggere con
maggiore accuratezza, e sicurezza, le fonti primarie dell’evidenza
scientifica.
L’Evidence Based Medicine EBM L’Evidence Based Medicine (EBM), ossia la Medicina basata sulle
prove di efficacia, è una disciplina che tende ad affiancare all’impor-
tanza dell’intuizione, dell’esperienza clinica individuale e del razio-
nale fisiopatologico l’importanza delle informazioni, che provengo-
no dalla ricerca clinica, in particolar modo dalla ricerca condotta con
metodo scientifico, in condizioni di quotidianità oltre che sperimen-
tali. In sostanza la medicina basata sulle prove di efficacia tende a
dare maggiore rilevanza ai risultati degli studi clinico-epidemiologici
e non esclusivamente alle basi fisiopatologiche delle malattie.
Il termine EBM è stato usato pubblicamente per la prima volta su una
rivista scientifica nel 1992: “Evidence-based medicine: a new appro-
ach to teaching the practice of medicine”. – Riferimenti bibliografici
sono riscontrabili in calce.
L’articolo affermava, in modo esplicito, che tutte le azioni cliniche
sul piano diagnostico, della valutazione prognostica e delle scelte te-
rapeutiche devono essere basate su solide evidenze quantitative, deri-
vate da una ricerca epidemiologico-clinica di buona qualità.
Anche prima dell’avvento della medicina basata sulle prove di effi-
cacia, i professionisti cercavano un supporto nelle pubblicazioni di
carattere empirico. La letteratura disponibile, però, non era ricercata
seguendo un metodo sistematico ed, inoltre, le evidenze disponibili
non erano valutate da parte dei clinici, per identificare quelle di mag-
gior valore.
Questo non deve far ritenere, però, che con l’applicazione dell’EBM
si sia completamente sciolto quel nodo gordiano, che teneva i clinici
lontani dall’applicazione della best practice in campo medico. Sussi-
stono, infatti, numerosi limiti di tale pratica, sebbene permanga quan-
to di meglio si sia prodotto per assicurare il miglioramento continuo
e l’eccellenza della qualità nella pratica clinica.
Un primo limite è relativo allo sbilanciamento “strutturale” della
ricerca, infatti, prevale la ricerca su interventi terapeutici rispetto a
quella su interventi di tipo assistenziale o a carattere preventivo. La
ricerca su farmaci, inoltre, è condizionata da interessi commerciali.
Ed, infine, vi è una limitata attenzione ad aspetti non clinici, come
ad esempio quelli economici e/o organizzativi. Permane, inoltre, la
convinzione che la “tecnologia più complessa” sia la “tecnologia mi-
gliore”, senza dimenticare i così detti bias di pubblicazione.
Alcuni ricercatori, poi, incorrono in errori nascenti da convinzioni
personali, che andrebbero eliminate, come ad esempio l’idea che
tutte le informazioni rilevanti siano disponibili in letteratura, basta,
quindi, solo saperle cercare e valutare; oppure che il rigore e la cor-
rettezza formale degli studi siano gli unici aspetti che distinguono la
bontà di uno studio rispetto ad un altro; o, infine, che le scelte di poli-
tica sanitaria debbano essere orientate dalle prove di efficacia clinica.
Un ultimo, ma comunque molto rilevante, limite della medicina ba-
sata sulle prove di efficacia nasce dal fatto che non tutte le evidenze
sono egualmente “evidenti”. Le pubblicazioni scientifi-
che, infatti, definiscono i loro risultati su un campione di
popolazione che può essere più o meno rappresentativo
di quella reale, e, comunque, non in grado di rappresenta-
re tutte le variabili possibili. Inoltre, l’evidenza è studiata
in un determinato periodo di tempo, con le sue proprie e
determinate condizioni, entrambi fattori esposti a costan-
te mutamento.
Oltre a queste problematiche, che investono la totalità
delle pubblicazioni scientifiche, a seconda, appunto del
loro grado di evidenza, sussistono altri limiti che rendono
uno studio più o meno forte, più o meno “raccomandabi-
le” rispetto ad altri.
Per tale ragione, successivamente all’avvento dell’EBM,
diversi organi ed enti, nazionali ed internazionali, si sono
preoccupati di porre in essere sistemi di graduazione dei
livelli di evidenza e della forza delle cosiddette racco-
mandazioni.
Il livello di evidenza si riferisce alla qualità delle eviden-
ze scientifiche disponibili. La forza delle raccomandazio-
ni, invece, fa riferimento alle probabilità di applicazione
delle evidenze alla pratica clinica, tenendo anche in con-
siderazione il probabile impatto sulle condizioni di salute
del paziente.
Le metodiche di graduazione sono diverse e molteplici.
Una delle più utilizzate, forse anche la più conosciuta, fa
riferimento a quella riportata sul sito del centro EBM di
Oxford:
•Ia Prove basate su studi di meta-analisi o trials clinici
controllati randomizzati (RCT)
•Ib Prove basate su almeno 1 trial clinico randomizzato
•IIa Prove basate su almeno 1 studio controllato ma non
randomizzato
•IIb Prove basate su almeno un altro tipo di studio quasi-
sperimentale
•III Prove basate su studi descrittivi non sperimentali,
quali studi comparativi, studi di correlazione, studi caso-
controllo
•IV Prove basate su Reports di Comitati di Esperti, o
Esperienza clinica di autorità rispettate, o entrambi.
Per quanto concerne la forza delle raccomandazioni, in-
vece, nel nostro Paese è stata adottata una trasposizione
del modello dell’US Agency for Healthcare Research
and Quality:
•A L’esecuzione dell’intervento è fortemente raccoman-
data. L’evidenza è potenzialmente molto utile, rilevante
per i pazienti reali e le prove scientifiche a sostegno sono
di buona qualità o accettabili;
•B Vi sono dubbi sul fatto che la raccomandazione deb-
ba essere applicata sempre, si ritiene, quindi, che la sua
applicazione debba essere considerata sempre con atten-
zione;
•C Vi è una sostanziale incertezza sull’applicabilità
dell’evidenza;
•D L’esecuzione dell’intervento non è raccomandata;
•E L’esecuzione dell’intervento è fortemente sconsiglia-
ta.
La griglia sottostante, dell’Agency for Healthcare Policy
and Research, mette in chiaro il rapporto tra i livelli di
evidenza e la forza delle raccomandazioni, rispetto alle
diverse tipologie di studi presenti in letteratura.
Per comprendere, però, a pieno quello di cui stiamo trat-
tando è necessario fornire alcune basi statistiche, che
possano fungere da strumento utile per una piena com-
prensione delle pubblicazioni scientifiche. Per tale ragio-
ne, a partire da questo numero e nei seguenti, vi sarà una
sezione dedicata all’esplicazione di concetti biostatistici
utili per la lettura delle fonti scientifiche internazionali.
Le fonti dell’evidenza scientifica
Le fonti dell’evidenza si possono classificare in:
1.primarie, costituite dai singoli articoli originari;
2.secondarie, costituite dalle revisioni sistematiche e dal-
le riviste di letteratura secondaria, ossia le antologie di
quanto di meglio viene pubblicato sulle riviste biome-
diche;
3. terziarie, costituite dalle linee guida, da clinical evi-
dence e, in parte, anche dalle banche dati di indicatori
validati.
Ognuna di queste fonti trova nella precedente il suo fon-
damento scientifico.
Le linee guida, infatti, sono delle raccomandazioni di
comportamento clinico, che hanno lo scopo di definire le
caratteristiche degli interventi appropriati, con un razio-
nale consumo di risorse, legittimate dall’evidenza scien-
tifica, in particolar modo quella prodotta dalle revisioni
sistematiche.
Le revisioni sistematiche, dal loro canto, sono dei veri e
propri lavori scientifici, che fondano le loro basi, per la
definizione dei risultati, negli articoli originali.
Il carattere di sistematicità è dato dal fatto che tali revi-
sioni utilizzano una precisa metodologia per la ricerca
delle fonti primarie, che le costituiscono, e per la succes-
siva definizione dei risultati.
Per tale ragione, una revisione sistematica, condotta in
modo corretto, dovrebbe contenere:
•la metodologia seguita per rintracciare tutti gli studi per-
tinenti, definendo, anche, in maniera appropriata le ban-
che dati di letteratura scientifica che sono state utilizzate
per la ricerca dei singoli studi. Questa dovrebbe, quindi,
specificare:
-l’inclusione dei soli studi pubblicati su riviste scientifi-
che o anche di altri, come, ad esempio, quelli presentati
come tesi di dottorato o come comunicazioni a congressi
– così detta letteratura grigia, rintracciabile sui motori di
ricerca generici;
-I criteri utilizzati per decidere quali studi includere o
escludere dall’analisi. Tali criteri, solitamente, si riferi-
scono a: la popolazione, la tipologia di intervento, il set-
ting organizzativo, il disegno dello studio, l’anno di pub-
blicazione dell’articolo ed eventuali limitazioni relative
alla lingua delle pubblicazioni scientifiche.
•L’eventuale cecità dei ricercatori delle fonti primarie ri-
spetto ai trattamenti effettuati.
•I criteri utilizzati dai revisori per valutare la qualità me-
todologica degli studi presi in esame, che devono, inol-
tre, essere riproducibili e, quindi, non dipendenti dai valutatori stessi.
•Gli esiti considerati e i vari metodi utilizzati per combinare o sinte-
tizzare i risultati, ad esempio se sono stati utilizzati i metodi quanti-
tativi della metanalisi.
•I metodi utilizzati per valutare l’omogeneità dei risultati tra i diversi
studi inclusi e per tenere conto di eventuali incoerenze tra gli stessi.
•Ed, infine, la rilevanza clinica dei risultati e la generalizzabilità del-
le conclusioni. Quest’ultima caratteristica si riferisce al fatto che, se
futuri ricercatori volessero condurre una medesima revisione, valu-
tando i medesimi articoli ed utilizzando un’eguale analisi dei risul-
tati, devono giungere alle stesse conclusioni della revisione presa in
esame. 39 Si rende ora necessario, quindi, fornire una definizione di metanalisi, ossia quella parte di una revisione sistematica, in cui i risultati dei
vari lavori considerati vengono combinati con metodi statistici quan-
titativi e per ciascuno degli esiti si calcola una stima complessiva
quantitativa dell’effetto del trattamento in esame .
È, dunque, l’applicazione di metodi matematico-statistici di estrazio-
ne e combinazione dei dati per riuscire a giungere ad un unico risulta-
to di sintesi, a partire dai diversi esiti, presenti nei singoli studi, che si
rinvengono in letteratura. Gli esiti di una metanalisi hanno, quindi, un
livello più forte di evidenza ed un grado più alto di raccomandazio-
ne, rispetto alla singola pubblicazione scientifica, soprattutto perché
prendono in esame un campione di individui molto più grande, che
può, inoltre, essere suddiviso in sottogruppi.
Bisogna sottolineare, però, che può accadere che i campioni creati
dalla metanalisi provengano da studi di epoche e, quindi, condizioni
differenti. Inoltre, la definizione di un unico risultato di sintesi porta
alla perdita di molte informazioni, che sono presenti negli studi con-
siderati singolarmente e che non trovano rappresentazione nell’esito
unico. Si può, poi, in via generale, affermare che, quando gli studi
sono simili nei risultati, la metanalisi rafforza la validità delle con-
clusioni, quando, invece, gli studi sono differenti, questa può con-
durre alla scoperta di nuove conoscenze o alla formulazione di nuove
ipotesi.
Rubrica a cura di: Valentina Vena Responsabile dipartimento
Economia Sanitaria di Cerifos
La biostatistica è una materia
essenziale per la lettura
di dati presenti in una
pubblicazione, anche se
può risultare ostica
e disciplinata da regole
complesse.
Nei prossimi numeri troverete
ulteriori approfondimenti
sull’argomento
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