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Saperi esperienziali e leadership sostenibile nell ... · gno annuale SIPED svoltosi a Bari, dal 19...

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ECPS Journal – 7/2013 http://www.ledonline.it/ECPS-Journal/ 161 Saperi esperienziali e leadership sostenibile nell’educazione degli adulti. Riflessioni pedagogiche * Roberto Albarea Università degli Studi di Udine, Dipartimento di Scienze Umane; Iusve Venezia doi: 10.7358/ecps-2013-007-alba [email protected] EXPERIENTIAL KNOWLEDGE AND SUSTAINABLE LEADERSHIP IN ADULT EDUCATION: PEDAGOGICAL REFLECTIONS Abstract This article tries to reconcile the two factors that in past decades have characterised the edu- cational debate on adult education and on education as a whole: the traditional dimension of on-going education and the emerging concept of lifelong learning. Experiential learning, the validation of experiential acquirements and the dynamics of sustainable leadership by educators appear as the field where this discrepancy can be resolved in an antinomic rela- tionship. In the context of sustainable management, the past professional career of citizens and labour market demands are important variables for our societies characterized by the knowledge economy. In today’s reality, the paradigms often referred to are the paradigm of complexity, which is an interpretative figure of Modernity, and the paradigm of sustain- ability, which emerged from Post Modernity or Late Modernity. They are, or seem to be, paradoxical terms, but their dynamic relationship leads to an essential need for educators: the sustainable management of complexity. Experiential learning and sustainable leader- ship undertaken by educators fit into this scenario and are an opportunity for those who have the educational tasks of creating the future, in addition to conserving and selecting the past. Finally, they are a sort of creative recombination of past, present and future projects. * Questo articolo è uno sviluppo del contributo che l’Autore ha presentato al Conve- gno annuale SIPED svoltosi a Bari, dal 19 al 21 Maggio 2011. Questo tipo di impostazione e di percorso è stato applicato, e continua ad esserlo, negli incontri e nei seminari di studio con studenti, genitori, insegnanti, cittadini, educatori, alla Facoltà di Scienze della Formazione del- l’Università degli Studi di Udine e presso lo Iusve l’Istituto Salesiano Universitario di Venezia.
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Saperi esperienziali e leadership sostenibile nell’educazione degli adulti. Riflessioni pedagogiche *

Roberto Albarea Università degli Studi di Udine, Dipartimento di Scienze Umane; Iusve Venezia

doi: 10.7358/ecps-2013-007-alba [email protected]

EXPERIENTIAL KNOWLEDGE AND SUSTAINABLE LEADERSHIP IN ADULT EDUCATION: PEDAGOGICAL REFLECTIONS

Abstract

This article tries to reconcile the two factors that in past decades have characterised the edu-cational debate on adult education and on education as a whole: the traditional dimension of on-going education and the emerging concept of lifelong learning. Experiential learning, the validation of experiential acquirements and the dynamics of sustainable leadership by educators appear as the field where this discrepancy can be resolved in an antinomic rela-tionship. In the context of sustainable management, the past professional career of citizens and labour market demands are important variables for our societies characterized by the knowledge economy. In today’s reality, the paradigms often referred to are the paradigm of complexity, which is an interpretative figure of Modernity, and the paradigm of sustain-ability, which emerged from Post Modernity or Late Modernity. They are, or seem to be, paradoxical terms, but their dynamic relationship leads to an essential need for educators: the sustainable management of complexity. Experiential learning and sustainable leader-ship undertaken by educators fit into this scenario and are an opportunity for those who have the educational tasks of creating the future, in addition to conserving and selecting the past. Finally, they are a sort of creative recombination of past, present and future projects.

* Questo articolo è uno sviluppo del contributo che l’Autore ha presentato al Conve-gno annuale SIPED svoltosi a Bari, dal 19 al 21 Maggio 2011. Questo tipo di impostazione e di percorso è stato applicato, e continua ad esserlo, negli incontri e nei seminari di studio con studenti, genitori, insegnanti, cittadini, educatori, alla Facoltà di Scienze della Formazione del-l’Università degli Studi di Udine e presso lo Iusve l’Istituto Salesiano Universitario di Venezia.

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Thus, past environments, cultural traditions, indigenous knowledge, social and working experiences and collective memories are preserved and defended because they are valuable in themselves (the ontological dignity of human beings) and are a resource for meaningful learning and improvement of living conditions.

Keywords: Adult Education, Complexity and sustainability, Experiential learn-ing, Lifelong education, Lifelong learning.

1. Lo scenario: il «lifelong learning» con le sue prospettive e i suoi dilemmi

Partendo da una acuta analisi che prende globalmente in considerazione i problemi dell’educazione, Paul Bélanger ha affermato come alcune caratteri-stiche delle società in trasformazione, sia nei contesti dei Paesi del Nord del mondo sia in quelli del Sud del mondo, abbiano portato a nuove domande culturali ed educative (Bélanger, 1994). Questi elementi di caratterizzazione sono: (a) il prolungamento e la diversificazione dei cicli di apprendimento e la proliferazione degli attori dell’educazione; (b) la ricerca di una nuova forma di identità culturale in reazione alle varie forme di discriminazione e di egemonia culturale; (c) la crisi dell’impiego e l’allungamento del tempo del non lavoro. Ciò porta ad una continua modifica e ristrutturazione delle rela-zioni tra le tre componenti dell’educazione permanente: l’educazione di base o iniziale (Initial Education, IE), l’educazione degli adulti (Adult Education, AE) e gli ambienti di apprendimento (Learning Environments, Les). Come esistono diverse forme attraverso cui si manifesta l’educazione permanente, così ci sono molte «educazioni di base», a seconda dei contesti, e l’educazione degli adulti ha avuto negli ultimi due decenni uno sviluppo multidimen-sionale rispetto a domande di alfabetizzazione, a richieste di qualificazione professionale e di inserimento lavorativo, ad esigenze di promozione civile, culturale e personale, diventando in molti Paesi uno dei poli cardine del siste-ma formativo (Albarea, 2004).

Un panorama arricchente, stimolante e pluriprospettico (ma non esausti-vo e totalizzante, come è tipico degli studi di scienze dell’educazione, work in progress) si può reperire negli Atti del Convegno nazionale della SIPED, a Bari, nel Maggio 2011, dal titolo: Gli adulti, la cura e la società civile (Corsi, 2011).

Così come si desume dalla rivista citata, anche gli ambienti di appren-dimento hanno assunto differenziati aspetti: ambiente della vita quotidiana, esperienze prescolastiche ed extrascolastiche, acquisizione e sviluppo attraver-

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so esperienze comunitarie e collettive, associazionismo, educazione familiare, orientamenti culturali della società e loro impatto sui sistemi di educazione formale, reti informatiche, prassi didattiche nell’impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (webquest, learning object, podcast, social network, ambienti virtuali, ecc.). Le tre componenti (IE, AE, Les) sono pertanto viste in interrelazione, originando una dialettica di posizioni e di interventi e diversi modelli e percorsi per apprendere: si tratta del concetto di intelligenza distribuita, distribuita nell’ambiente, negli altri, nel «gioco» degli asimmetrici rapporti di potere tra le varie componenti della società (Albarea, Izzo et al., 2006).

Dal canto loro i sistemi scolastici in Europa (come sono stati concepiti a partire dal XIX secolo) sono soggetti ad un processo di revisione nelle loro funzioni tradizionali; processo che si rivela come ambivalente, non privo di rischi da un lato (per quanto riguarda il motivo delle pari opportunità forma-tive) ma anche ricco di potenzialità dall’altro.

Un autorevole studioso di educazione comparata ha coniato il termine transitologies. Si tratta di un fenomeno della tarda modernità che concettual-mente: «[…] can be defined as the more or less simultaneous collapse and reconstuction of (i) state apparatus (ii) economic and social stratification sys-tems and (iii) the central value system, especially the political value system to offer a new definition of the future» (Cowen, 1999, p. 84).

Dal punto di vista della loro funzione politica il maggior contributo dei sistemi scolastici riguardava e riguarda la promozione di una consapevolezza e di una sensibilità generalizzate, indirizzate ad educare i giovani e gli adulti al loro ruolo di cittadini democratici, con i conseguenti atteggiamenti sociali. Se il ruolo della scuola e dell’università, nella loro tendenza ad una azienda-lizzazione, viene ridimensionato per quanto riguarda l’educazione alla citta-dinanza, quali saranno gli agenti di essa? La forza del mercato? L’associazioni-smo? Le reti informatiche? Si entra in un territorio facilmente manipolabile e che richiede punti di riferimento e linee educative comuni.

Dal punto di vista della loro funzione economica, scuole e università tradizionalmente avevano ed hanno il compito di preparare la forza lavoro e la classe dirigente del Paese: recentemente si sono rinforzati ed enfatizzati gli aspetti riguardanti il learning, l’apprendimento, piuttosto che quelli propria-mente educativi. Nella definizione dei curricula molta importanza, a livel-lo delle politiche educative degli Stati e delle autorità sovranazionali (ad es. Unione Europea), viene assegnata a determinate skills, come lingue moderne, matematica, scienze e tecnologie dell’informazione e dell’elaborazione.

Tale tendenza ha condotto a particolari linee guida curriculari che pon-go l’attenzione soprattutto sulla flessibilità e la personalizzazione dei percorsi educativi (Ceri-Ocse, 2008). In particolare, si parte dalla esplicitazione di

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due grandi sfide (antinomiche): la prima è quella dell’equità e dell’eccellenza (e della qualità), la seconda è la sfida del rapporto tra la generalizzazione dei servizi educativi e la personalizzazione dell’insegnamento.

La carta vincente, secondo l’ipotesi della personalizzazione, starebbe nella capacità dei docenti di predisporre itinerari frormativi che, fin dalla prima infanzia, siano in grado di valorizzare la varietà delle caratteristiche personali degli alunni, i loro diversi modi di apprendere, le molteplici si-tuazioni reali e virtuali nelle quali essi vivono. Personalizzare l’insegnamento non significa solo praticare l’individualizzazione didattica (come aveva indi-cato l’Attivismo pedagogico del Novecento) e nemmeno progettare forme di apprendimento individuale: significa piuttosto mettere a punto ambienti e condizioni adatti a sostenere ed elaborare saperi, competenze e relazioni in funzione delle potenzialità creative di ciascuno. Si potrebbe aggiungere, da parte nostra, che tali ambienti che puntano alla personalizzazione degli approcci educativi debbano basarsi sul clima educativo e relazionale che si instaura in classe o nel gruppo, e sulla testimonianza dell’educatore, nelle sue competenze e nei suoi valori.

Al centro, come si vede, è la dimensione della creatività, nelle proprie valenze plurali e pluriprospettiche e il policentrismo formativo (Gardner, Feurstein, Lengrand, Garcia Hoz, Schwartz, Husén), ma anche un certo tipo di organizzazione scolastica meno burocratizzata e più attenta a ciò che avvie-ne fattualmente e si persegue nella scuola. Lo scopo è quello di far assumere alla scuola e agli altri protagonsiti della formazione la fisionomia di una co-munità capace di auto-organizzarsi intorno ad un progetto governato da vin-coli non tanto procedurali (come nel caso di una pianificazione centralizzata) ma ordinato in funzione di obiettivi di tipo generale, terminale e valoriale. Qui il lifelong learning vi entra di pieno diritto.

Tutto sta nel come viene intesa e favorita tale personalizzazione: se essa costituisca una risorsa per la scoperta e la valorizzazione delle differenze e incentivi la mobilità sociale (un aspetto che si riconnette al motivo caro agli anni Settanta dell’uguaglianza delle opportunità) oppure se essa porti ad una più accentuato divario nella forbice delle attuali disuguaglianze. Insomma, se essa sia uno strumento adatto per pervenire all’equità (uguaglianza nella dif-ferenza) oppure sia una scelta di direzione che punti principalmente al reperi-mento dei talenti, sulla scia del sistema scolastico statunitense, caratterizzato dalla privatizzazione dei servizi e dalla ricerca dell’eccellenza delle prestazioni.

Come esempio, si pensi a come si è trasformata oggi la scuola, in cui gli aspetti organizzativi derivanti dall’autonomia non ha, nella maggior parte dei casi, apportato i benefici sperati verso una maggiore attenzione ai bisogni de-gli alunni e si è risolta, paradossalmente, in una enfasi della burocratizzazione e degli aspetti procedurali che intristiscono il pathos dell’educare.

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La personalizzazione, come si vede, può essere un elemento positivo, ma anche qui il criterio della sostenibilità viene chiamato in causa: fino a che punto (livello soglia) la flessibilità è positiva per la formazione prima di trasformarsi in dispersione e fragilità intellettuale, e fino a che punto la personalizzazione dei percorsi educativi va perseguita prima che diventi op-portunismo individualista e mancanza di valori condivisi?

Dal punto di vista della funzione di selezione e di orientamento dei sistemi scolastici, la revisione del concetto «forte» della uguaglianza delle op-portunità può portare ad una chiusura di opzioni per coloro che non hanno sufficiente qualificazione per entrare nel mondo del lavoro o per proseguire gli studi, ad una difficile gestione delle aspettative generali dei soggetti, aspet-tative talvolta non convalidate da esperienze concrete e dalla consapevolezza in merito alle reali potenzialità personali. Infine una inadeguata teorizzazione e problematizzazione dell’attuale cultura dell’appendimento e del learning può diventare un meccanismo per legittimare le ineguaglianze.

Una significativa ricerca-azione sull’importanza dell’educazione infor-male e non formale è stata condotta dall’Istituto francese di Ricerche Eco-nomiche e Sociali, dal titolo La validation des acquis de l’expérience entre dans les moeurs (Ires, 2007). Il focus è sui saperi esperienziali, sul loro rapporto con i saperi più istituzionalizzati e certificati, sul ruolo che essi giocano nella formazione delle persone e sul tipo di ricaduta che essi possono avere nei percorsi professionali e nella costruzione di competenze per re-inserirsi nel mondo del lavoro. Si parla di validazione perché non si tratta solo di costruire un repertorio nazionale delle certificazioni professionali, ma anche di elabo-rare un «dispositivo» atto ad indicare piste a procedere che coniughino in sé, in modo interconnesso e dinamico, i contributi diversi alla formazione tout court.

Nel contesto italiano tale problematica è stata affrontata a più riprese, secondo diversi punti di vista (Alberici & Serrieri, 2009; Alberici & Di Rien-zo, 2011; Meghnagi, 2012).

L’interdipendenza tra formazione in età adulta e valorizzazione delle competenze appare sempre più come cruciale e costitutiva della teoria e della pratica dell’apprendimento permanente. Il percorso del Bilancio di compe-tenze, in cui si esplorano le dimensioni teoriche e le modalità applicative, si incontra con «il diventare e l’essere adulti», con l’essere aperti ai cambiamenti ed alle perturbazioni che la gestione delle esperienze vissute, degli affetti, del-le perdite e delle conquiste, imprime alla fisionomia di ciascuno.

La complessità del sociale contemporaneo (con i risvolti della crisi eco-nomica in atto), inoltre, non tocca solo il lavoro, ma la vita delle persone. Così vengono riprese le sollecitazioni che invocano il rafforzamento delle attività di guidance e orientamento, per giovani e adulti, attività proposte

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dal confronto europeo e internazionale, come premessa sostanziale alla for-mazione vera e propria. La discussione sulla materia è in corso ma, secondo Saul Meghnagi (2012), la formazione dovrà avere un rilievo inedito nelle azioni pubbliche e private tese a qualificare le forze di lavoro nell’occupazione iniziale e nella mobilità professionale.

Da parte sua, Paolo Federighi (2000), fornisce un ampio e fondamen-tale glossario dell’educazione degli adulti, secondo le prospettive di docenti e ricercatori della UE, in modo da avviare a quell’idea di «spazio europeo dell’educazione» che è stata, ed è ancora, uno dei traguardi in campo educa-tivo dell’Unione Europea.

Si tratta di «parole chiave» che possono diventare, a detta del curatore, uno strumento dinamico da utilizzare attraverso una sorta di intelligenza di-stribuita e di supporto scientifico, ambedue fondati su integrazione, confron-to, collaborazione ed armonizaazione, coniugate insieme. In passato (negli anni Settanta) il concetto emergente era stato quello di Educazione perma-nente (Rapporto Faure), il quale era declinato verso la formazione persona-le in quanto Bildung (Gadamer, 1990) e le parole chiave erano quelle della integrazione sia verticale sia orizzzontale dei sistemi e dei percorsi educativi («armonizzazione») e della democratizzazione delle strutture; ora il lifelong learning sembra assumere una colorazione più pragmatica e flessibile, indiriz-zata alla acquisizione di competenze, anche spendibili sul mercato del lavoro, delle conoscenze e delle professioni.

Il rischio per ambedue sembrerebbe l’opposto: per la prima era ed è il pericolo di una standardizzazione dell’offerta formativa (privilegiando l’u-guaglianza delle opportunità e il diritto allo studio); per il secondo la par-cellizzazione e la frammentazione degli apprendimenti («modularizzazione»), nonché la rigida specializzazione della conoscenza.

Detto questo, è possibile una mediazione tra il concetto di educazione permanente, orientata principalmente alla formazione interiore e alla co-scientizzazione del soggetto (in un certo senso non quantificabile) e il lifelong learning, più indirizzato ad acquisire competenze ed abilità professionali (ma comunque inserite in una cornice di educazione integrale)?

Alcune divergenze sembrano emergere dagli orientamenti espressi da tre importanti organizzazioni internazionali: l’UNESCO (2010) ha un ap-proccio più centrato su una educazione degli adulti attenta ai diversificati contesti della realtà mondiale preoccupandosi di coesione sociale e della ri-cerca di una effettiva uguaglianza, paventando i rischi di emarginazione. Il lifelong learning ha un significato ampiamente comprensivo. Nel Foreword del documento citato si legge: «Many continue to view adult learning as a synonym for vocational education or literacy programmes only. Here again, the Institute works tirelessly to demonstrate the role that adult learning plays

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in improving the lives of all individuals and in advancing critical citizenship, social development and stability across the world». E così Adama Ouane, direttore dell’Istituto di Amburgo, afferma:

The outcome document of the conference, the Belém Framework for Action, adopted by the participants on the last day of the Conference, emphasises the relevance of adult education in view of today’s most urgent development issues, such a poverty, health and climate change. It makes a case for gender equity and greater participation in adult learning. The need to strengthen literacy as the foundation of lifelong learning and for the «redoubling the efforts to reduce illiteracy by 50 percent from 2000 levels by 2015» is afforded particular attention.

Alla conferenza, nel cui documento una particolare attenzione è dedicata ai progetti in Africa, non è estranea neppure la preoccupazione di superare le fa-cili e diffuse retoriche degli organismi internazionali: «Shifting from rethoric to action: the Belem Challenge».

L’OECD è ovviamente maggiormente interessata allo sviluppo del-le competenze individuali e alle richieste del mercato del lavoro ed assume una prospettiva tendenzialmente neoliberista, spesso criticata (Tuijnman & Boström, 2002; Hirtt, 2004).

Questo d’altra parte si collega alla tendenza, riscontrabile nei Paesi occi-dentali, a concepire un disegno che giunge ad una sorta, come è stato detto, di «Marketisation of Education in the Gobalised Economy» (Hirtt, 2004).

In particolare viene messa in discussione la visione riduttivistica che ve-de il lifelong learning come espressione quasi univoca della recurrent education mentre viene contemporaneamente affermata l’emergenza di una ridiscussio-ne del termine e delle prospettive ad esso legate, in senso più comprensivo ed interdipendente, e dei vari significati secondo cui esso è interpretato.

L’Unione Europea ha un approccio che si può definire bilanciato tra i due menzionati (Garrido, 2003), adottando una visione più comprensi-va e pluralistica rispetto all’OECD ma meno orientata alla realtà mondiale, inserendo tra il «Management del LLL Programme» i progetti Comenius, Erasmus, Leonardo e Grundtvig, i programmi trasversali e lo «Jean Monnet Programme».

Occorre comunque riprendere i concetti della tradizione sull’educazio-ne degli adulti (come fa l’UNESCO) e reinterpretarli alla luce delle muta-te condizioni di vita, di sviluppo e di sostenibilità delle relazioni umane ed economico-sociali. A tale proposito una provocatoria affermazione di Roger Boshier rileva:

But now, 26 years after Faure, education is being transformed by neoliberalism and architects of new right have hijacked some of the language and concepts

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used while ignoring actions proposed by Faure […] OECD, which earlier made Herculean attempts to erect an architecture for recurrent education, now proposes lifelong learning (not education) as the strategy for the 21st century. The European Union has also co-opted lifelong learning into a neo-liberal way to thinking where it is an instrument to enhance economic effectiveness. (Boshier, 1998, p. 4)

Si tratta, secondo l’autore, di una manovra di dirottamento (o di mistificazio-ne?), la quale usa concetti tradizionalmente accettati come positivi (contenuti nel Rapporto Faure) verso una dominanza neoliberista che erode l’impegno verso l’equità e l’uguaglianza e riduce il lifelong learning ad essere principal-mente un imperativo economico. In prospettiva, il lifelong learning, nelle sue valenze problematiche implicanti scelte antinomiche, sul tipo dei «bivi» di Bogdan Suchosolski (2003), andrebbe il compito di assicurare una offerta educativa più personalizzata, e questo è positivo. Non solo. Esso si troverà a dover assumere anche quelle funzioni che in precedenza, nel periodo della formazione degli Stati nazionali, erano quasi esclusivamente affidate ai siste-mi scolastici: la coesione sociale (per prevenire il degrado e la frammentazio-ne sociali), l’uguaglianza delle opportunità, l’aumento della consapevolezza in ordine ai problemi del vivere contemporaneo, ed ora la sostenibilità delle relazioni negli stili di vita tra le persone. Può essere sufficiente una imposta-zione neo-funzionalista o neo-liberista? Sembrerebbe di no.

In sintesi, il lifelong learning dovrebbe cercare di dare risposte: alla com-petizione economica e alle interdipendenze culturali; all’ipotesi della società della conoscenza; ad una maggiore compatibilità, sostenibilità e comparabi-lità fra i sistemi di educazione; al sistema dei crediti di studio, da applicare anche in contesti quali il mercato del lavoro e delle professioni (è il motivo della trasferibilità); allo sviluppo della cooperazione tra università ed enti di formazione e di ricerca (disseminazione di best practices) che sfocia in una internazionalizzazione dell’insegnamento; ad una accresciuta mobilità di stu-denti, ricercatori, lavoratori. Si tende perciò a creare una sorta di «circolo virtuoso» tra: (a) offerta formativa qualificata (che si basa sulla ricerca scien-tifica, secondo il modello humboldtiano); (b) programmi integrati (partner-ships) con apporti provenienti da diversi ambiti di competenza e di ricerca e da diverse aree culturali e geografiche; (c) esigenze di base (del mondo del lavoro, delle professioni, della società civile).

L’idea del lifelong learning e della società della conoscenza e/o della learning society (il dibattito è ancora intorno alla knowledge e/o al learning) è inseparabile dall’idea della costruzione di una società che attivi processi di umanizzazione e di sviluppo sostenibile (come accenna l’UNESCO nella sua dichiarazione del 1997). Da qui i fattori di democrazia politica, sociale ed economica e l’impegno etico per la giustizia sociale (nella forma, per noi edu-

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catori, di una tenace testimonianza), che sono marginali nel discorso corrente neoliberista sulla learning society, dovrebbero essere ricercati. Questa propo-sta, tuttavia, non è solo un progetto per disegnare la società della conoscenza (la cui ipotesi, d’altra parte, nelle retoriche europee ha subìto recentemente un decisivo ridimensionamento), ma anche un imperativo morale per svilup-pare apprendimenti democratici e rapporti comunitari più inclusivi, nei luo-ghi e nelle situazioni in cui la gente vive e lavora (Albarea, Izzo et al., 2006).

Sembrerebbe, per rifarsi a Bergson e, con lui, a Maritain (Maritain, 1975, pp. 155-156; Maritain, 1980), che l’educazione del tempo futuro e il lifelong learning abbiano bisogno di un «supplemento d’anima», che l’etica vivifichi l’economia e il sociale. Solo in una triplice dialettica si troverà, forse, la media-zione tra knowledge, education e learning. Si va verso un sistema più flessibile, è ovvio, ma questo dal punto di vista autenticamente pedagogico non va inteso nel senso di provocare una frammentazione dei comportamenti, degli indirizzi di studio, dei processi di apprendimento (frammentazione che causa disorien-tamento, indecisione, difficoltà di scelta), piuttosto si cerca la prospettiva (fati-cosa) atta a consentire maggiore aderenza ai bisogni e alle richieste della società, senza tradire i presuppsti di rigore scientifico e le opzioni etiche. Tale è la sfida.

2. La validazione degli «acquisti d’esperienza»: il caso francese

È forse sul terreno dei saperi esperienziali (Ires, 2007; Albarea, 2009) che si può accettare ed esplorare tale sfida e creare un ponte di raccordo e di con-fronto tra i due orientamenti educativi sopra citati? Proviamo.

Qui si farà riferimento al caso francese (sulla scia della grande lezione di Bertrand Schwartz) che, a parere di chi scrive, sembra essere una delle innovazioni di ampia applicazione territoriale, gestita dai poteri pubblici, che ha avuto notevole rilevanza anche a livello di risonanza europea. La Legge del 17 Gennaio 2002 (Legge sulla modernizzazione sociale n. 73) tenta di stabi-lire una equivalenza tra i saperi esperienziali, altrimenti detti «saperi implici-ti», e quelli specifici della formazione istituzionalizzata, certificata attraverso un diploma comune. Ma qui sta il paradosso: ciò che viene dall’esperienza non è commensurabile con ciò che viene dal processo istituzionale di appren-dimento, le analogie ci possono essere, ovviamente, ma le caratteristiche di ambedue i versanti sono differenti.

Si può comprendere ciò, e forse ricomporlo, solo se ci si pone in un’ot-tica processuale, che si incentri sulle rappresentazioni, sulle intenzioni, sulle attese, sulle riflessioni (anche di sé). Ci si pone, quindi, dalla prospettiva di

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una esegesi del sé (Foucault, 2003, p. 76) dei soggetti coinvolti, in modo da sviluppare le loro capacità intese a bonificare le rispettive conoscenze con l’iniziativa, attraverso una mobilitazione permanente, attiva e mutua dei sa-peri di esperienza. Si tratta di una tecnologia del sé intesa come un insieme di pratiche riflesse e volontarie (poggiantesi sull’esercizio, sulla riflessione e anche sulla meditazione) per mezzo della quale non solo gli uomini si danno delle regole di comportamento ma cercano inoltre di trasformare se stessi, di modificarsi nel loro stesso essere singolare. La tecnologia del sé, secondo Foucault, diventa allora coestensiva della cura di sé rispetto all’arte del vivere, coestensiva rispetto all’intera vita.

Si fa riferimento, come è stato detto, a Bertrand Schwartz (1977 e 1987). Schwartz era partito dalle «unità capitalizzabili», per arrivare a porre l’accento sui «bilanci di competenze» passando attraverso l’uso del portfo-lio delle competenze e il riferimento alle «storie di vita», come mezzo per promuovere lo sviluppo personale. L’esperienza delle missions locales ne fa testo. Si tratta di ritorni cognitivi e di apprendimento focalizzati attorno alla attività passata (o presente) che mira a estenderne il senso e la portata. Que-sta attivazione si appoggia sulle parole, come dice Freire (Freire & Macedo, 1995), implica un passaggio attraverso le parole, attraverso una verbalizzazio-ne dell’esperienza che si fa «filtro narrativo»: qui emerge l’attenzione posta da John Dewey (1968 e 1971) sulla capacità di selezionare e filtrare l’esperienza e il valore della narrazione postulata da Jerome Bruner (1997).

Non si può capire, dice Bruner, l’attività mentale e gli interventi educa-tivi se non li collochiamo nel loro contesto culturale, in rapporto alle risorse ivi disponibili, le quali danno forma ai processi mentali, ne determinano le operazioni fondamentali, come l’imparare, il ricordare, l’immaginare, il co-municare, entro i quali, a sua volta, il soggetto costruisce una versione del mondo e colloca se stesso.Lungo questa impostazione si collocano anche i presupposti teorici e gli interventi in merito all’orientamento formativo con soggetti in età evolutiva (De Pieri, 2002).

Si arriva così a delineare facoltà e condizioni di adattamento e di ap-prendimento intorno ad un universo differente, alla combinazione tra prepa-razione teorica e applicata, alla trasferibilità dell’esperienza e delle esperienze, trasformabili in competenze nuove.

La VAE (Validation des Acquis de l’Expérience) si configura quindi come una quarta via nel paesaggio della certificazione, allo stesso titolo della for-mazione iniziale, della formazione continua e degli ambienti d’apprendimen-to ricorrente (Bélanger, 1994). Essa si configura come un percorso lungo e complesso, cioè risultante da differenti variabili che vengono riassunte in uno schema. Naturalmente l’interpretazione di tali variabili comportano, come si evince dalla parola stessa, una variabilità di esecuzione, che investe la pro-

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cedura di attuazione, che è, in estrema sintesi, la seguente: accoglienza e do-manda di informazioni da parte dei soggetti; formalizzazione dell’esperienza professionale (documenti scritti o altro); esplicitazione della carriera pregres-sa e delle prospettive di vita futura (lavorativa e non); tutorato, possibili aiuti finanziari, creazione di un ambiente di accompagnamento; passaggio davanti alla giuria. In tutto questo vi sono tre implicazioni, istituzionali e non.

La prima implicazione riguarda il legame formazione/certificazione. La VAE rilancia la questione del diploma, dei suoi modi di acquisizione, dei suoi fondamenti: l’ipotesi centrale del dispositivo VAE è che l’esperienza permette di sviluppare competenze che hanno lo stesso valore delle situazioni di edu-cazione formale; in altre parole la VAE concretizza l’interdipendenza tra il valore di una certificazione e il corso intrapreso per ottenere quel titolo.

La seconda implicazione investe la coordinazione degli attori coinvolti. L’apertura della VAE a tutti i Ministeri e alle istituzioni locali (nonché alle imprese e ai differenti datori di lavoro) attenua il monopolio del Ministero de l’Education Nationale (come è nella tradizione centralistica francese). Da questo punto di vista occorre costruire uno zoccolo comune, una cultura co-mune in materia di valutazione, sia dell’esperienza, sia dell’impiego che si va ad occupare, sia del diploma da acquisire. Si tratta di una gestione collettiva.

La terza implicazione focalizza la messa in opera di un diritto indivi-duale in un quadro collettivo così come dell’utilizzazione che sarà fatta di questo diritto (Federighi, 1995, pp. 364-368). Niente sarà possibile, si dice nella ricerca dell’lres, se la VAE non è percepita dalle imprese e dai datori di lavoro come un dispositivo efficace, meno oneroso e meno lungo, della formazione continua tradizionale; e quindi un mezzo per accompagnare la mobilità (la flessibilità postulata dal lifelong learning) ma anche un mezzo per dare ai salariati la sicurezza della presa in conto dei loro problemi sociali e di integrazione lavorativa (Ires, 2007, pp. 24-25).

In questa proposizione dei saperi esperienziali esistono due dimensioni.La prima concerne il tipo di competenze/conoscenze che si cerca di

va lidare. C’è una finalità relativa all’inserimento nel mercato del lavoro e c’è una finalità specificamente educativa. Come avviene anche per i diplomi: c’è un valore interno che attesta del raggiungimento di un certo livello di studi nella gerarchia nazionale dei diplomi, e c’è un valore esterno che fornisce un indicatore al mercato del lavoro.

Più spesso, nel processo VAE, si cerca di validare dei «grani» di com-petenza corrispondenti a compiti o funzioni elementari. L’obiettivo primo è l’acquisizione di un titolo equivalente a quello della formazione iniziale. Il fatto che queste due categorie di certificazione (VAE e formazione iniziale) coesistano all’interno di uno stesso repertorio nazionale, e che esse siano clas-sificate in livelli, spinge ad un loro riavvicinamento. D’altra parte non può

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che essere così: si tratta di una interfaccia che rimanda continuamente alle due valorizzazioni (Albarea, 2009, p. 14).

La seconda dimensione è quella riguardante il modo di validazione so-ciale dei titoli o diplomi. In genere questa modalità riposa essenzialmente sulla logica di mercato. Ma la VAE introduce una sorta di rottura rispetto a questo modello, creando un ponte tra la formazione continua, la validazione dell’esperienza e un sistema di certificazione che si avvicina alle caratteristi-che della formazione iniziale. Le politiche di formazione delle imprese e le strategie individuali di accesso alla formazione e alla certificazionene saranno allora modificate. La VAE dunque potrebbe costituire un utile mezzo di ac-compagnamento iscrivendosi in una politica di accrescimento delle oppor-tunità. Stato, regioni, imprese e partenariati sociali si dovranno confrontare a fronte di tale sfida. Il numero dei diplomi rilasciati dalla VAE rappresenta circa il 30% del flusso annuale delle uscite senza qualificazioni dal sistema educativo. Da quando la Legge è stata approvata circa 100.000 persone han-no acquisito diplomi o titoli corrispondenti rilasciati dalla VAE (e probabil-mente più del doppio di persone hanno avviato il percorso o hanno ottenuto una validazione parziale): tutto ciò è stato accompagnato dall’impegno di un gran numero di imprese o di branche professionali che costituiscono una opportunità al servizio della professionalizzazione, costituendo un punto di non ritorno rispetto all’esperienza avviata (Ires, 2007, p. 70). Solo una massa critica di diplomi acquisiti in VAE, si dice (ivi, p. 38), permetterebbe di vali-dare l’ipotesi di una rottura con il modello francese del diploma. Un diploma o un titolo specifico non certifica semplicemente una capacità a compiere delle mansioni prescritte o a rispettare le procedure: è una previsione di atti-tudine ad agire efficacemente e a progredire in un universo professionale che fa appello a una moltitudine di risorse: conoscenze tecniche, metodi di lavo-ro, comprensione dell’ambiente di lavoro, padronanza gestionale, capacità di cooperare con altri professionisti nella realizzazione di un progetto, com-portamenti professionali, orientamento alle scelte, lavoro su focus e sfondo, ecc. Con la VAE si cerca di evitare che il diploma acquisito diventi troppo presto una via determinata che condiziona il destino professionale ed umano dei soggetti: in altre parole si ritorna ai presupposti classici dell’educazione permanente (Lochard, 2009).

In effetti la conoscenza, e la conoscenza scientifica, anche o soprattutto accademica, non è mai in linea di massima uno strumento di comprensione. Essa non esiste in sé che altrimenti trascritta. Essa diviene sapere incorporato, che è utilizzato in un ragionamento, in una azione, anche quando non si tratti di un sapere derivante da una lezione. Si tratta dell’opposizione tra cul-tura come bildung, come paideia, come humanitas ed erudizione/nozionismo (Ducci, 2004).

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Il sapere si determina dal momento in cui c’è la pertinenza dell’azione che lo guida. L’accademico vale per essere messo in atto, sviluppato (e questo si applica al futuro ingegnere come al futuro ricercatore). Da questo punto di vista la VAE accompagna una trasformazione dei modi di validazione del sapere, giudicato sulla base di ciò che esso permette, in termini di prospettive di sviluppo personale e sociale, piuttosto che basato sulle semplici conoscenze che lo stesso attiva. Tale processo obbliga ad interrogarsi sulla natura del lavo-ro che viene promosso e sul contenuto dell’attività piuttosto che sullo statuto secondo il quale viene condotto.

Questo riconoscimento della validazione degli acquisti di esperienza è tanto più necessario in quanto esso apre una alternativa alla vana ricerca di un «adeguamento» tra la formazione e l’impiego, tra i diplomi e le qualificazioni.

Poiché è proprio di questo che si tratta: di una lotta tra due modi di regolazione dell’accesso agli impieghi. L’uno mette l’accento sugli acquisti iniziali, che sono essenzialmente scolastici; l’altro si basa sulle realizzazioni convalidate in una attività. Ma occorre constatare che, parallelamente alla formazione continua, nel contesto francese (ma non solo in quello, anche in Italia) è accresciuta l’importanza del diploma iniziale nella ripartizione degli impieghi.

La formazione continua è rimasta nella forma di una adattamento ai margini, essa non ha mai acquisito la forza di una via di formazione dif-ferente. L’appello all’adeguamento si fa copertura rispetto ad una messa in discussione dei modi di reclutamento e di gestione delle carriere. E questo soprattutto avviene quando ci si esonera da un riflessione sulla organizza-zione del lavoro, rispetto a ciò che i salariati apprendono quando essi sono investiti di responsabilità nuove e in rapporto a ciò che essi disapprendono in una situazione di routine.

La validazione degli acquisti di esperienza introduce un varco in questa logica del’adeguamento, identificando più nettamente tra ciò che sta nell’or-dine del diploma e ciò che riguarda la qualificazione e riqualificazione in itinere (si ricordino les missions locales di Schwartz); avendo i primi valore generale, cardine di mobilità, la seconda assumendo un valore contrattuale. In questo modo la VAE offre una opportunità a una migliore integrazione tra formazione iniziale e formazione continua (Ires, 2007, pp. 75-78).

Infine, alcune osservazioni sul termine «esperienziale».L’aggettivo esperienziale ha conosciuto negli anni recenti una ampia

diffusione. È stato utilizzato sia nei contesti educativi: apprendimento, «sto-rie di vita», autobiografia (Alberici & Demetrio, 2002), educazione senso-riale, recurrent education, sia anche nell’ambito del consumo e del marketing aziendale (Rifkin, 2000), con tutte le conseguenze del caso, atte a creare una atmosfera psicosensoriale nei luoghi mercato.

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Il concetto è stato applicato ai viaggi e al turismo (più spesso ad un certo tipo di turismo, più affine all’esplorazione e alla dimensione della soste-nibilità); anche l’arte a volte si è imposta come «esperienziale» coinvolgendo oggetti quotidiani, giochi, effetti sensoriali, video, ecc., come attestano le ultime edizioni delle Biennali d’Arte e di Architettura di Venezia (2010 e 2012). Tuttavia la familiarità con cui si usano i termini in una società denota il cambiamento degli «stati di cultura», sottolineandone il riconoscimento sociale e la loro azione simbolica nella costruzione della conoscenza e nell’im-maginario collettivo.

Alcuni preferiscono parlare di «saperi impliciti» o informali piuttosto che di saperi esperienziali, altri distinguono il «lavoro reale» dal «lavoro pre-scritto», altri ancora li includono nel concetto di competenza, facendo capire come quest’ultimo concetto non tratti solo le acquisizioni scolastico-istitu-zionali (Cegolon, 2008). Ai saperi esperienziali, come si sottolinea in uno dei contributi della rivista (Ires, 2007, p. 81), si può applicare a riguardo quello che si intende per i fenomeni sociali, e cioè che essi non esistono in se stessi, come un insieme di condizioni sociali oggettive, ma sono fondamentalmente i prodotti di un processo di definizione collettiva. La validità dei saperi espe-rienziali, dunque, non è imposta ma è promossa attraverso gruppi di attori sociali, organizzazioni, sistemi educativi, agenti i più vari, ed essa è giocata nelle congiunture sociali, cognitive e politiche particolari.

Un illustre predecessore dei saperi esperienziali è naturalmente John Dewey. Nel processo di emersione di questo tipo di sapere ci sono state tappe di sviluppo, salti di qualità, indifferenza, ostacoli e difficoltà in ordine al loro ri-conoscimento, retoriche specifiche a favore e contro, e così via, ma tuttavia tale concetto si è visto applicato alla sfera dell’educazione permanente, del mondo associativo e nel contesto della lotta contro l’esclusione e l’emarginazione, sino ad essere tema di discussione e di confronto delle politiche pubbliche.

Una tappa importante di questo percorso è costituita dalla cosiddet-ta Inchiesta-partecipazione o ricerca-azione, in cui non esistono da un lato quelli che «sanno» (esperti di tutti i generi, funzionari, ruoli istituzionali, ecc.) e dall’altro quelli che hanno tutto da imparare, ma si tratta di una re-sponsabilità condivisa da tutti coloro che si prendono in carico la conduzione e la gestione dell’inchiesta: esiste perciò un sapere, da cui si parte, di cui le persone ordinarie sono detentori e che occorre accogliere. Nella ricerca-azione colui che vi partecipa può costruire i propri saperi in seno al progetto collettivo al quale collabora. Si tratta di provocare una auto-ricerca (che ha a che fare con l’autoformazione), guidandola, sostenendola, lasciando margini di libertà e zone entro le quali il soggetto esperimenta i propri salti di qualità. Qui comunque si arriva al core della questione, questione rinforzata dal mo-mento in cui tali saperi esperienziali o formazione esperienziale sono oggetto

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di politiche pubbliche, e cioè il rapporto tra sapere e potere, o meglio tra saperi e poteri, tra presa di decisioni e scelte conseguenti. Qui si incrociano alcuni motivi tipici degli anni Settanta e che ora sembrano emergere pur con diverse connotazioni: l’interesse per imboccare e proporre strade «altre» o alternative; la scelta per l’auto (autogestione, autoformazione, autonomia, ecc.); il motivo della democrazia partecipativa, della cittadinanza critica ed attiva, del parte-nariato (Virgilio & Moretuzzo, 2006), ecc.: insomma il contesto dei saperi esperienziali si situa entro una zona propizia d’inventiva, di rimessa in causa, di esplorazione delle proprie risorse personali (Ires, 2007, p. 83).

Non sono tuttavia da escludere la messa in opera di retoriche specifiche che concorrono a costruire un fondo discorsivo condiviso da un gruppo, ren-dendolo più coeso, sul quale poggia la maggior parte degli enunciatori e che si presenta tuttavia non scevro da luoghi comuni e frasi ricorrenti che sfiorano talvolta lo slogan. I saperi esperienziali, acquisiti non solamente durante l’atti-vità professionale ma anche nella vita sociale, costituiscono un uteriore vettore di accesso alla conoscenza e conducono verso un nuovo paradigma di giudizio.

Da un lato c’è quindi un approccio tecnico-pedagogico che mobilita un discorso largamente improntato alla didattica e alle scienze dell’educazione. Attraverso i saperi esperienziali si ha una formazione per contatto diretto ma che è nondimeno riflessiva o intuitiva: per contatto diretto significa che essa è una esperienza senza la mediazione di un formatore, di un programma, di un libro, e anche talvolta senza mediazione di parole; l’oggetto, il soggetto o la situazione vi si impongono, emergono come evento. In effetti, tra l’organi-smo e il suo ambiente, si interpone abitualmente una sorta di zona tampone, intermediaria, invisible, fatta di rapporti abituali che l’organismo intrattiene con il proprio entourage. Questa zona tampone assume nominazioni differen-ti a seconda dei punti di vista: «interfaccia» «involucro», milieu e sfocia verso i concetti di «auto- eco- e co-formazione» (Pineau, 1989).

Nella elaborazione dei saperi esperienziali, invece, si attua una sorta di metabolismo dell’esperienza che mira a costruire spazi trasversali del soggetto esistenziale attraverso un progetto intrinseco, assunto interiormente dall’e-sterno, potenziale e creatore, legato alla forza della vita, dotato di un senso non determinato e segnato nondimeno dall’incertezza.

A questa forma di acquisizione di conoscenze si presta o si attribuisce virtù di trasformazione sociale che non hanno alcun rapporto con la tecnica (Ires, 2007, pp. 88-89).

L’aggettivo «esperienziale», nondimeno, si espande intorno agli anni Settanta e Ottanta investendo i progetti educativi del mondo associativo in merito agli interventi sul Quarto Mondo, i quali celebrano l’esperienza dei «più poveri» (Freire, 1973). Solo l’esperienza di vita comune con la popola-zione può creare il linguaggio comune indispensabile per impegnarsi in pro-

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getti d’insieme. Attori, comunità, organizzazioni, governative e non, ne sono più o meno consapevolmente coinvolte. Valorizzare l’esperienza significa, in tale contesto (ma anche in altri settori finitimi), correggere un po’ una ingiu-stizia, ristabilire un diritto non riconosciuto; ciò permette di lottare contro l’istituzione dominante e la cultura dominante; «dignificare» l’esperienza ap-pare come un «dignificare» coloro che hanno solo l’esperienza da far valere; si colora dei tratti di ricerca di giustizia (Ires, 2007, p. 91). Ma la celebrazione dell’esperienza non si limita al movimento umanitario o, peggio, al caritativo (con tutti gli stereotipi conseguenti), essa riveste una importanza più ampia, in quanto l’esperienza sembra giocare un ruolo significativo nel quadro della messa in atto di istanze di partenariato (Virgilio & Moretuzzo, 2006; Alba-rea, 2008a). Questo porta alla presenza qualificante del mondo associativo in seno alle strutture, evidenziandone la testimonianza e le specifiche compe-tenze, in ordine alle azioni contro le esclusioni sociali.

Lo Stato, da questo punto di vista, assicura il suo concorso istituzionale, e fa una politica che delega la messa in opera agli attori che l’hanno condotta: i cosiddetti militanti-funzionari, le reti istituzionali, regionali ed associative. Si cerca una mediazione significativa: essa viene definita un «equivoco pro-duttivo» dai ricercatori dell’Ires, ma tale mediazione potrebbe essere conside-rata come una antinomia creatrice (Albarea, 2006a). Tale mediazione si situa tra l’investimento ideologico e generoso della società civile e le logiche più pragmatiche dei poteri pubblici. Così, allo stato attuale, dice yves Lochard, uno dei ricercatori dell’Ires, il discorso militante di celebrazione (proprio dei militanti dell’educazione popolare, dei cristani di sinistra e dei pilastri tra-dizionalmente etico-educativi dell’educazione permanente) si inserisce nella retorica tecnico-pedagogica delle scienze dell’educazione.

A parere di chi scrive, si passa anche, attraverso la VAE, dai presupposti dell’educazione permanente (Lengrand, 1994; Faure, 1978; Finazzi Sartor, 1978; Lorenzetto, 1988; Suchodolski, 2003; Scaglioso 2005; ed altri) a quelli del lifelong learning, maggiormente orientato alla acquisizione di competenze, anche spendibili sul mercato, sul mercato delle competenze e delle professio-ni, assumendo una colorazione più pragmatica e flessibile (Garcia Garrido, 2002). D’altra parte anche la dichiarazione di Nairobi 1976 sull’educazione degli adulti si muove in questo senso (UNESCO, 1997).

La VAE francese ne rappresenta un ulteriore tentativo. I saperi esperien-ziali, entità ibrida ma tentativo coraggioso, tengono conto allo stesso tempo del «dover essere» e dell’«essere», ed acquistano progressivamente, al prezzo di uno sforzo collettivo, una doppia legittimità: scientifica (essi sono riconosciu-ti come aventi una legittimità accademica all’interno delle scienze dell’edu-cazione) e politica (il loro riconoscimento corregge una ingiustizia sociale) ed appartengono a pieno diritto al mondo della formazione largamente intesa.

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Saperi esperienziali e leadership sostenibile nell’educazione degli adulti

3. La leadership sostenibile: creare il futuro, conservare e selezionare il passato

Le economie del futuro saranno, per forza di cose, economie creative che lavoreranno non solo su obiettivi a breve scadenza, ma soprattutto su obiet-tivi a media e lunga scadenza e quindi, dato per assunto che la società della conoscenza, retoricamente affermata dagli organismi sovranazionali europei (Albarea & Zoletto, 2006) non è sinonimo di società dell’informazione, do-vranno accettare di incontrarsi/scontrarsi con il paradigma della sostenibilità (cifra interpretativa della post- o tarda modernità), accanto a quello, ormai assodato, della complessità, che rinvia alla modernità (Albarea, 2006a).

Già sin d’ora la formazione manageriale è orientata a produrre cono-scenza non su base individuale ma si indirizza a promuovere organizzazioni, gruppi e team di lavoro che abbiano la capacità di condividere e sperimentare insieme, creare ed applicare le nuove conoscenze in modo continuo, in con-testi ove l’apprendimento reciproco e il dinamismo dell’innovazione ne sono la precipua caratteristica.

Ciò induce ad abbandonare l’impostazione anglosassone nei processi di apprendimento, impostazione fondata su compiti ed obiettivi strettamen-te ed angustamente definiti, su operazioni parcellizzate e prove sempre più intensamente standardizzate, che restringe il senso del curriculum, inibisce l’apprendimento creativo e mina la tensione verso la conoscenza nonché il morale professionale dei docenti. In tale contesto si situa la leadership sostenibi-le nell’educazione degli adulti.

Sustainable educational leadership and improvement preserves and develops deep learning for all that spreads and lasts, in ways that do no harm to and indeed create positive benefit for others around us, now and in the future. (Hargreaves, 2007, p. 224)

Da questa definizione discendono alcuni principi che dovrebbero entrare nello stile educativo di chi si occupa dei processi formativi, ad ogni livello. Essi si richiamano ad una sostenibilità esteriore, nei comportamenti e negli atteggiamenti relazionali del docente, e ad una sostenibilità interiore, nella ge-stione delle proprie dinamiche cognitive ed emozionali dei soggetti implicati (Albarea, 2011). Essi sono impliciti in ogni relazione educativa che si dice tale (Albarea, 2006b, pp. 67-93). Tali principi partono dal presupposto che la leadership sostenibile sia una forma di autorità e di potere, che si distingue dalla coercizione e dagli stati di dominio di una persona su di un’altra. Essi possono essere esplicati in questo modo: (a) implicano il rispetto della realtà ontologica di ogni persona; (b) l’uso delle regole del diritto e la sua certezza; (c) tecniche di gestione e di governo (sostenibili); (d) pratica di sé e di libertà

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lasciata ai soggetti in formazione; (e) ethos dell’educatore e sua testimonianza ai valori (Albarea, 2007).

Nella misura in cui l’educatore favorisce pratiche di autonomia e senso di responsabilità evita di tradurre il suo potere in dominio, trasformando i rapporti tra disuguali in rapporti tra diversi, raggiungendo attraverso la leader ship sostenibile a forme differenziate e dinamiche di uguaglianza che si oppongono all’omologazione, all’assimilazione, al conformismo.

Inoltre, la leadership sostenibile, per essere tale, dura e permane nel tempo (come l’educazione permanente); è diffusa in quanto va esercitata con gli altri, tiene conto dei saperi esperienziali e delle esigenze delle comunità locali; promuove partnership (Albarea, 2008a; Albarea & Paolone, 2007) e diversità coesiva; rispetta le risorse umane nel senso che non pretende in-novazioni eccessive e irrealistici tempi di cambiamento, persegue il livello soglia delle prestazioni; infine cerca di imparare dal passato per creare un futuro migliore. Scopo della leadership sostenibile, allora, non è solo quello di produrre risultati strumentali quanto piuttosto creare occasioni, contesti e opportunità per la comunicazione e la messa in rete e la circolazione di idee: questo terreno delicato ed in evoluzione è lo spazio in cui si fanno le identità, sono luoghi di incontro in cui non solo si incontrano domande ed offerte di formazione ma si provano pratiche educative, orientamenti pedagogici rite-nuti adeguati all’interno di una cornice istituzionale (Bruner, 1997).

Il livello soglia, atteggiamento fondamentale della sostenibilità, significa (seguendo Ivan Illich) che una esperienza di formazione diventa una esperien-za produttiva e positiva solo se si caratterizza per essere né eccessiva rispetto alle forze in campo, né troppo banale rispetto alle sollecitazioni educative: insomma un livello soglia, sempre situato ed elaborato idiograficamente nel contesto, al di sotto o al di sopra del quale il processo di formazione risulta inadeguato, vuoi per carenza di informazioni, di orientamenti e di «sostegni», vuoi per sovrabbondanza di stimoli, di raccomandazioni ed eccesso di «aiuti».

Questo significa che l’autoformazione guidata (secondo Bertrand Schwartz), che si realizza nella prospettiva di una leadership sostenibile, si integra con la strutturazione dell’identità del soggetto: una identità dinamica e creativa, impegnata su più versanti, capace di gestire sia la realtà interiore multidimensionale del singolo sia la variabilità emergente dal cammino stori-co delle vicende umane. Si arriva perciò ad uno stile di lavoro che prelude ad una knowledge society sostenibile, la quale non dipende da un rapido appren-dimento e da un frettoloso curriculum, ma si fonda sulla costruzione tenace e paziente di significati e valori, e promuove le virtù di conservare il passato in un mondo attraversato dall’innovazione e dal cambiamento.

Come allora conciliare l’innovazione con la sostenibilità? Come tentare di costruire un futuro sulle fondamenta del passato? Queste sono domande

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Saperi esperienziali e leadership sostenibile nell’educazione degli adulti

che sostengono l’ipotesi della leadership sostenibile. Si tratta di una trasferi-bilità sostenibile, come è stato detto (Hargreaves, 2007), la quale si esprime in una creative recombination del passato, del presente e della progettualità fu-tura, ammettendo il dimenticare ciò che non serve (organisational forgetting), il tralasciare il superfluo (organized abandonment), il selezionare (purging) e la capacità di recupero (resilience). Questa ricombinazione creativa si avvale, nei contesti educativi dell’adultità, da un lato dei saperi esperienziali, dall’altro dell’intelligenza e dell’apprendimento tipici dell’età adulta.

Quando il cambiamento ha una tensione solo verso il presente e/o il futuro esso diventa l’antitesi della sostenibilità. Lo sviluppo sostenibile ri-spetta, protegge, preserva e rinnova ciò che è valevole nel passato e impara da esso per costruire un futuro migliore. Così, gli ambienti del passato, le specie minacciate, le tradizioni culturali, le conoscenze indigene e le memorie collettive sono difese e preservate perché esse sono valevoli in in se stesse (la dignità ontologica della vita) e sono anche una risorsa pregnante per l’ap-prendimento e il miglioramento delle condizioni di vita. Di conseguenza si deve vedere la resistenza e la nostalgia, che stanno espandendosi tra i membri più consapevoli della professione docente, non più come un ostacolo al cam-biamento, ma come una sorgente di saggezza e di educazione che può perva-derli. Il passato quindi può essere reinventato e ridefinito in ciò che ha avuto come successo e in ciò che prima ha fallito. Si tratta contemporaneamente di una «distruzione creativa» e di una «ricombinazione creativa», altrimenti detta «creatività sostenibile» (Albarea, 2006a) e che si traduce nel neologismo di una «dimenticanza formativa».

Quali sono allora le forme di questa «dimenticanza», di cui l’educatore che si pone nella prospettiva di una leadership sostenibile deve essere consa-pevole?

La prima forma è quella che da Hargreaves viene indicata come dissipa-tion. La dissipazione è un evento definito accidental e si verifica quando una nuova conoscenza impatta le precedenti ma non c’è né volontà né modo di mantenerla o trasferirla ad altri, o includerla nella memoria delle persone. Si fa l’esempio dei leader carismatici che raramente si preoccupano della loro successione o di creare un adeguato turn over quando essi non ci saranno più. In questi casi le nuove conoscenze non passano e non si trasmettono, restano «dentro» il leader. È molto probabile che le nuove conoscenze si fissino quan-do esse sono esplicitamente connesse e quando fanno «più senso» in relazione alle conoscenze esistenti, e quando la visione del futuro passa dal leader al gruppo attraverso una visione comune che nasce da una creazione narrativa del passato (Bruner, 1997).

La seconda forma di «dimenticanza» è la degradation. Essa avviene quando una conoscenza stabilita (non nuova, come nel caso precedente) è ac-

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cidentalmente perduta. Questo si verifica quando c’è l’impossibilità all’inter-no di un gruppo di creare una conoscenza collettiva. Chi scrive ha memoria professionale di tale fenomeno nei casi di scuole innovative in cui gli obiettivi distintivi, le strutture e le pratiche avevano bisogno di essere continuamente riviste e rinnovate, anche in relazione allo scambio tra docenti. In tali situa-zioni, il percorso ad una educazione alle scelte (Albarea, 2008b) si salda con la possibilità di avere il tempo sufficiente a creare un clima di adeguata e consapevole cooperazione.

La terza forma è la suspension. Mentre una buona parte delle dimen-ticanze (nelle organizzazioni, nelle relazioni e negli intrecci educativi e nei gruppi di conduzione) sono accidentali, come nei due casi precedenti, alcune di esse sono invece deliberate e intenzionali. Ci sono capacità non solo per imparare ma anche per dimenticare. Si tratta di «lasciar andare il restante», o perché inadeguato al contesto, o perché diversivo rispetto al focus, o per-ché impedisce la introduzione di qualcosa che viene prima ed è precoce e non comprensibile rispetto al livello di consapevolezza dei soggetti (adulti o soggetti in età evolutiva) cui si rivolge la leadership. Si tratta di un organized abandonment. Si tralasciano consapevolmente talune posizioni perché man-tenerle può richiedere uno sforzo e una fatica eccessivi rispetto ai risultati che si raggiungessero con esse, a breve e a media scadenza. È un lavoro che richiede chiarezza, prontezza di decisioni e ulteriore sforzo. Si tratta di un processo sistematico: sebbene sembri non facile dimenticare, l’abbandono organizzativo in certi casi non è solo fattibile, ma anche desiderabile, per eliminare il superfluo e/o ciò che è d’ostacolo.

A questo proposito, si potrebbe sollevare una riserva, collegandosi al curricolo a spirale di Bruner (1997, p. 133), per evidenziare un sapere situato ma dalla risonanza universale, e dire che comunque le conoscenze sono fatte di «richiami» e ritornano su se stesse anche quando esse non sono del tutto inseribili nel contesto, e ricordare che l’apprendimento avviene per gradi ed approsssimazioni succesive, come nel processo di ricerca. Comunque, tale avvertenza sull’«abbandono sistematico» sembra onesta e congruente, soprat-tutto se ci si collega alla quarta forma di dimenticanza, e cioè al purging.

Qualche volta è importante dimenticare o almeno non apprendere al-cune cose che si sono trattenute e ricordate. Pratiche banali, cattive abitu-dini, o vecchi modi di fare sono soggette ad essere eliminate dal processo del «selezionare», del «purificare». Abbandonare pratiche ed idee che danno sicurezza per accettare, in loro vece, di esplorarne alcune in cui la competenza personale è incerta, non è per niente facile né piacevole.

Sono i passaggi obbligati nella vita di ognuno (Albarea, 2008c, p. 67). È il momento che porta a riflettere su quelli che sono i passaggi cruciali nelle vite delle persone, su quelle assunzioni d’obbligo che non è possibile evitare,

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in cui c’è vera presa intellettuale e scoperta esistenziale, in cui si prendono le libere e autentiche decisioni, sofferte, pesate e meditate, decisioni che com-promettono ed impegnano fasi e prospettive successive di sviluppo. Si tratta, in definitiva, di un orientamento formativo personale. Passaggi obbligati co-me esperienze di svolta, esercizi di memoria e di progettazione, avulsi da alibi autobiografici e da compiacimenti narcisistici.

Nel caso si tratti, ad esempio, di «purgare» modi di apprendere e di insegnare, atteggiamenti verso la valutazione e l’autovalutazione, o le proce-dure di comunicazione, due condizioni sono importanti: la prima consiste nell’essere certi che l’area da emendare sia corretta dal punto di vista della sua diagnosi e non sia un puro espediente opportunistico; la seconda è che il processo di conversione della conoscenza o della relazione interpersonale/educativa sia rimpiazzato da un nuovo apprendimento, o da una rinnovata modalità di relazione, evitando di lasciare vuoti di condotte. Le scuole e le altre agenzie educative hanno bisogno di sapere cosa dimenticare e dimenti-care (per sostituire) nel modo giusto. Se la diagnosi o i processi di sviluppo sono interpretati in modo scorretto si avvia un processo di nostalgia e di amarezza tra le persone impedendone la ricostruttiva comunicazione. Le ri-forme educative su larga scala spesso non pervengono a soddisfacenti risultati a causa del loro rigetto antinostalgico e in deroga al passato professionale dei docenti. Occorre, in definitiva, impegnarsi con il passato e non indietreggiare di fronte ad esso distorcendolo con sentimenti di nostalgia o di antinostalgia. Congiungere il futuro con il passato attraverso coerenti (e anche contraddi-torie e/o antinomiche) narrazioni di vita (Bruner, 1997) e parole generatrici (Freire, 1973; Freire & Macedo, 1995).

Questa congiunzione si attua anche tramite la resilienza. Il termine ap-partiene alla terminologia fisica dei materiali e definisce la capacità fisica di un corpo di non eccedere ai limiti elastici dopo una deformazione; in altre parole si tratta di resistere ad un urto assorbendo energia cinetica senza rompersi (Mi-lani & Ius, 2010). Questo significa, da un punto di dista pedagogico, che essa è «[…] la capacità di attivare processi di riorganizzazione positiva della propria vita e di comportarsi in modo socialmente accettabile, a dispetto di esperienze critiche che di per sé avrebbero potuto portare a esiti negativi» (ivi, p. 17). Si tratta di un fenomeno umano multidimensionale che comporta la capacità di adattarsi a condizioni critiche e disturbanti, senza esserne sopraffatto; la capacità di ripresa e di mantenimento di alcune facoltà di pensiero e di azione; la capacità di dimenticare e selezionare ciò che per il momento non serve e che si accantona, per poi riprenderlo; il cadere e il risollevarsi; e così via.

Un educatore è sempre colui che deve imparare a «saper perdere» (Al-barea, 2008c, p. 26), a gestire la sconfitta, perché «inattuale» (Bertin, 1977, pp. 5-6). Questa dimensione è decisiva per l’orientamento formativo (De

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Pieri, 2002) e per l’elaborazione culturale in senso narrativo (Bruner, 1997). «Ciò che sembra importante da sottolinerae è che la resilienza umana non si limita a un’attitudine di resistenza, ma permette la costruzione, o meglio la ricostruzione di un percorso di vita nuovo e positivo che non rimuove la sof-ferenza e le ferite, ma al contrario le utilizza come base dalla quale ripartire» (Milani & Ius, 2010, p. 18). Si tratta, se si vuole, della potenzialità dei limiti e della accettazione delle proprie contraddizioni (Albarea, 2006a).

La cultura, per dirla con Bruner, è narrazione (inclusi i saperi esperien-ziali e i rapporti educativi informali); essa è fonte di sicurezza esistenziale, di consapevolezza critica e fonte di potere, nel senso che ha un ruolo fondamen-tale nella formazione dell’identità.

Ricordando Suchodolski, la cultura vera si situa tra cultura banalizzata e cultura elitaria evitando così una duplice alienazione (Suchodolski, 2003, pp. 63-67). Ciò si traduce, da un lato, nelle forme di coscientizzazione di Paulo Freire, dall’altro nella esegesi del sé di Foucault.

Si ha allora una forma di resilience applicata alla leadership sostenibile nel quadro di una educazione in età aduta, vista come una alternanza tra il ricordare (memoria semantica e memoria episodica), la selezione dei ricordi (anche quelli dolorosi), le temporanee o definitive dimenticanze e le intuizio-ni per il futuro, per arrivare ad una sorta di «setacciata», rinnovata e tenace nostalgia del futuro (Nono, 2007; Albarea, 2012).

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Riassunto

Questo articolo tende a riconciliare i due fattori che nei passati decenni hanno caratte-rizzato il dibattito pedagogico intorno all’educazione in età adulta e sull’educazione tout court: la tradizionale dimensione dell’educazione permanente e il concetto emergente del Lifelong Learning. I saperi esperienziali, la validazione degli acquisti d’esperienza e la dinamica di una leadership sostenibile, assunta dagli educatori, appaiono come il campo di studi in cui questa discrepanza possa essere risolta in un antinomico rapporto. Nel contesto di una gestione sostenibile dei processi educativi, la carriera professionale pregressa dei cit-tadini e le richieste del mercato del lavoro sono importanti componenti per le nostre società caratterizzate dalla economia della conoscenza. Nella realtà contemporanea, in effetti, i paradigmi cui spesso ci si riferisce sono il paradigma della complessità, cifra interpretativa della Modernità, e il paradigma della sostenibilità come emerso dalla Postmodernità o Tar-da modernità. Essi sembrano termini paradossali, ma la loro dinamica interrelazione con-duce ad un essenziale compito per gli educatori: la gestione sostenibile della complessità.I saperi esperienziali e la leadership sostenibile entrano in tale scenario e sono un’opportunità per coloro che hanno il compito di creare il futuro e di conservare il passato. Si tratta di una ricombinazione creativa di progetti passati, presenti e futuri. Pertanto, ambienti del passato, tradizioni culturali, conoscenze contestuali e situate, esperienze sociali e lavorative, memorie collettive, sono preservate e difese perché esse sono valevoli in se stesse (la dignità ontologica dell’essere umano) e sono una risorsa per una educazione pregnante e un miglio-ramento qualitativo delle condizioni di vita.

Parole chiave: Complessità e sostenibililà, Educazione degli adulti, Educazione permanente, Lifelong learning, I saperi dell’esperienza.


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