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THE BURDEN OF PROOF IN TRANSFER PRICING CONTROVERSIES Convegno: «I rapporti intra-gruppo, focus su:...

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THE BURDEN OF PROOF IN TRANSFER PRICING CONTROVERSIES Convegno: «I rapporti intra-gruppo, focus su: transfer pricing – Imposte dirette, Irap e dogana» Associazione industriali di Lucca – 14/02/2014 Relatore: dott. Nicola Strappaghetti Commercialista – Revisore legale
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THE BURDEN OF PROOF IN TRANSFER PRICING CONTROVERSIES

Convegno: «I rapporti intra-gruppo, focus su: transfer pricing – Imposte

dirette, Irap e dogana»

Associazione industriali di Lucca –

14/02/2014

Relatore: dott. Nicola Strappaghetti

Commercialista – Revisore legale

Odcec Lucca

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OVERVIEW

1. Principi generali dell’onere della prova nel processo tributario;

2. L’onere della prova nel transfer pricing;

3. Disamina di sentenze di merito e di legittimità;

4. Il transfer pricing: tra norma ordinaria di sistema e norma antielusiva;

5. Elusione fiscale e abuso del diritto - Prospettive di riforma

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Principi generali dell’onere della prova nel processo tributario

• L’Ufficio nel processo tributario assume la veste di attore sostanziale sul quale via di principio grava l’onere di provare il fatto costitutivo della sua pretesa tributaria;

• La parte contribuente nel processo tributario assume invece la veste di convenuto sostanziale il quale solo dopo che l’Ufficio ha offerto prova della propria pretesa, deve provare la verificazione di fatti modificativi, estintivi od impeditivi della pretesa dell’ufficio;

• Principio generale in tema di onere della prova applicabile anche al processo tributario, derivato dall’art. 2697 del c.c.: «chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda»;

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Principi generali dell’onere della prova nel processo tributario• Obbligo di motivazione dell’atto impositivo a pena di nullità:

la motivazione consiste nella descrizione della pretesa erariale, non deve convincere il contribuente della pretesa ma fornirgli l’iter logico-giuridico seguito dall’Ufficio, cosicchè egli possa esercitare, in riferimento a tale iter, il suo diritto di difesa. Infatti il difetto di motivazione di un atto emesso dall’amministrazione finanziaria rende nullo l’atto medesimo. La motivazione deve essere espressamente indicata nell’atto impositivo, non essendo consentito all’Ufficio di modificare, integrare o rettificare anche parzialmente la detta motivazione in corso di giudizio.

La motivazione è fondamentale anche per le questioni di diritto, e deve riportare, in modo sufficientemente preciso, il ragionamento giuridico su cui si fonda l’accertamento stesso; non basta infatti indicare nell’avviso di accertamento una lista di articoli di legge senza dare alcuna spiegazione ma la motivazione deve riportare anche il ragionamento giuridico svolto dall’Ufficio. Questa conclusione, è confermata anche dall’art. 7 dello statuto del contribuente (legge 212/2000), secondo cui l’atto impositivo deve essere motivato indicando le «ragioni giuridiche», che hanno determinato la decisione dell’amministrazione. In caso contrario verrebbe vanificato il diritto di difesa, perché il contribuente sarebbe costretto ad «immaginare» l’interpretazione adottata dall’Ufficio, per procedere successivamente ad esporla e confutarla.

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Principi generali dell’onere della prova nel processo tributario

• Differenza tra motivazione ed onere della prova:

La prova a differenza della motivazione ha la funzione di dimostrazione della fondatezza dei fatti presupposto della pretesa impositiva. A differenza dell’obbligo di motivazione, può essere allegata anche in corso di giudizio.

Si potrebbe anche affermare che mentre la motivazione dell’atto è rivolta prevalentemente alla parte contribuente per l’esercizio del proprio diritto di difesa, la prova è prevalentemente rivolta al giudice affinchè possa maturare il proprio convincimento nella decisione da assumere.

Su un piano logico, la motivazione sussiste quando tutti i passaggi logico-giuridici sono comprensibili esaminando l’atto impositivo, in modo tale che il contribuente si possa regolare e capire in quale misura le argomentazioni dell’Ufficio rispondono alla realtà.

La prova sussiste invece quando tutti questi passaggi sono invece dimostrati in modo convincente. I due profili possono quindi senz’altro non coincidere, poiché può esservi un passaggio asserito, descritto, spiegato ma non dimostrato. Possono quindi configurarsi accertamenti motivati ma successivamente annullati perché non accompagnati da sufficienti riscontri probatori in sede contenziosa.

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L’onere della prova nel transfer pricing:

Chi deve provare cosa e come?

Rassegna di giurisprudenza tributaria italiana di merito e legittimità:

• Sentenza cassazione civile sezione V n. 11226 del 16/05/2007 «Caso Ford Italia»; «Onere della prova grava sull’amministrazione finanziaria – Mancata dimostrazione dell’elusività».

• Sentenza cassazione civile sezione V n. 11949 del 13/07/2012 «Onere della prova sul contribuente per inerenza costi da transazione in T.P.».

• Sentenza cassazione civile sezione V n. 10739 del 08/05/2013 «Onere della prova sul contribuente basata sul principio di vicinanza della prova».

• CTR Lombardia sentenze n. 83 e 84 Sez. XI del 06/05/2013 «Onere della prova sul contribuente basata sul principio di vicinanza della prova».

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Sentenza Cassazione civile sez. V n. 11226 del 16/05/2007 – Caso Ford Italia – Normativa di riferimento: ex art. 76 c. 5 (ora 110 c. 7) del Tuir n. 917/86 – normativa antielusiva

Sentenza che rigetta il ricorso dell’amministrazione finanziaria perchè, i giudici della suprema corte, ritenendo la normativa sul transfer pricing di natura antielusiva, pongono a carico dell’amministrazione finanziaria l’onere della prova che la condotta della parte contribuente, era ispirata da finalità elusive dirette alla riduzione della base imponibile mediante trasferimento di utili in Paesi a più bassa fiscalità.

Abstract sentenza «pro-contribuente»

Con la sentenza n. 11226 del 27 marzo 2007 la Corte di Cassazione è tornata ad esaminare la concreta applicazione della disciplina del transfer pricing, ribadendo ancora una volta che l'onere della prova nelle controver sie aventi ad oggetto la determinazione dei prezzi di trasferimento grava sull'Amministrazione finanziaria che intende operare le conseguenti rettifiche al reddito del contribuente.

La società Ford Italia S.p.A., appartenente al gruppo americano Ford, operava in Italia come distributrice-venditrice di veicoli acquistati dalle proprie consociate europee e prodotti negli stabilimenti localizzati in Germania, Spagna e Regno Unito.

A seguito di una verifica fiscale compiuta dal Nucleo di Polizia tributaria della Guardia di Finanza relativa agli anni 1987 - 1992 il II l ufficio Imposte Dirette di Roma emanava avviso di accertamento con riferimento al periodo di imposta 1991, con il quale procedeva a riprendere a tassazione presunte sovrafatturazioni di autovetture acquistate da società estere del Gruppo e spese per prestazioni di servizi infragruppo.

L'Ufficio procedeva inoltre a rilevare che la società italiana era parte di un accordo con la casa madre americana il quale prevedeva che alcuni servizi di utilità generale per il Gruppo fossero affidati alla società Ford Europe – s.p.a. che li rifatturava alle società europee in ragione di un progetto di sviluppo annuale. Alcune delle prestazioni contemplate dall'accordo (quali ad esempio, la pubblicità, l'allestimento degli autosaloni, i programmi sportivi, le locandine ecc.), otre ad essere fatturate dalla Ford Europe s.p.a., erano fatturate anche dalle altre società europee, quali la società italiana, determinando in tal modo una duplicazione dei costi.

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A seguito della sentenza della Commissione Tributaria Regionale favorevole al contribuente, l'Amministrazione finanziaria proponeva ricorso in Cassazione sostenendo che non vi fosse alcuna prova documentale atta a supportare l'applicazione di una riserva di garanzia nella determinazione transfer pricing: infatti, secondo l'Amministrazione non essendo stata richiesta da parte della società italiana la riduzione del prezzo in funzione degli oneri sostenuti i costi di acquisto rimanevano contabilizzati all'iniziale super valore sproporzionato rispetto a quello effettivo della merce con conseguente riduzione degli utili della Ford Italia S.p.A. a favore delle società estere.Nell’avviso di accertamento emesso nei confronti della società Ford Italia – s.p.a. l’Ufficio procedeva a riprendere a tassazione le presunte sovrafatturazioni di autoveicoli acquistati da società estere del Gruppo.La Corte di Cassazione ha ribadito che lo scopo della disciplina contenuta nell’art. 76, co. 5, del TUIR per tempo vigente è quello di evitare che all'interno del gruppo vengano posti in essere trasferimenti di utili tramite applicazione di prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti onde sottrarli a tassazione in Italia a favore di tassazioni estere inferiori.Pertanto, considerata la ratio della norma, l'Amministrazione finanziaria avrebbe dovuto dimostrare che le operazioni poste in essere dalla società italiana rispondevano al fine precipuo di trasferire materia imponibile all‘estero. Secondo i Giudici di legittimità, l'Ufficio ha fondato le proprie controdeduzioni esclusivamente sull'assenza di un contratto scritto e di una clausola di recupero delle spese di manutenzione e riparazione sostenute dalla Ford Italia s.p.a. in luogo delle consociate estere. L'Amministrazione finanziaria avrebbe dovuto accertare, in primo luogo, se la fiscalità in Italia fosse all'epoca superiore rispetto a quella dei Paesi di residenza delle consociate estere. Quantificate le differenze di pressione fiscale, l'Amministrazione avrebbe dovuto procedere alla valutazione dei valori di scambio per procedere alla determinazione del valore normale delle transazioni oggetto di analisi. Tale analisi doveva essere condotta "verificando, in concreto, se i corrispettivi pagati dalla stessa alle proprie consociate estere fossero effettivamente superiori a tale valore con indagine estesa alla sufficienza del margine di utile ricavato per coprire le spese di riparazione in garanzia.In conclusione, la Suprema Corte ha rilevato come «la ripresa a tassazione operata sul rilievo della illegittima deduzione di imponibile non risulta essere transitata da questi passaggi obbligati, in realtà l’ufficio essendosi limitato a fare riferimento alle particolari condizioni contrattuali esistenti tra le parti in tema di esclusione della garanzia per i vizi di fabbricazione dei veicoli e da tanto deducendo la sovrafatturazione dei veicoli acquistati dalla società italiana».

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Sentenza Cassazione civile sez. V n. 11949 del 13/07/2012 normativa di riferimento: art. 110 c. 7 del Tuir n. 917/86 – Normativa antielusiva

Massima sentenza pro amministrazione: La Cassazione conferma l’orientamento secondo cui la disciplina sui prezzi di trasferimento avrebbe natura elusiva e ne fa discendere l’effetto che, nei casi di rettifica dei costi infragruppo, sarebbe il contribuente a dover provare non solo la congruità ma anche l’inerenza dei prezzi.Particolare attenzione è stata data dai supremi giudici al sospetto di elusività che può accompagnare le rettifiche di fine anno sui prezzi fissati a preventivo, e sulla natura di mero parere non vincolante attribuita ad uno studio di analisi fatto predisporre dal contribuente ad una società di consulenza esterna: queste le circostanze di fatto del giudizio.

Il caso:La vicenda origina dall’accertamento mosso a carico di una società italiana distributrice di prodotti software per console e computer, controllata da società holding svizzera facente capo ad un gruppo americano.

La società, filiale unica per la commercializzazione in esclusiva di software in Italia, importava i prodotti dalla consorella inglese (anch’essa controllata dalla holding svizzera) quale fornitore unico per l’Italia.

La condotta contestata era rappresentata dal fatto che nell’ultimo giorno dell’esercizio 2004 la società italiana aveva ricevuto e contabilizzato la fattura di acquisto (per circa un milione di euro) emessa dalla consorella inglese con causale “Price adjustement to product sold during FY 2003/2004”, ossia riferibile a rettifiche in aumento dei prezzi applicati nell’esercizio in chiusura su alcuni prodotti software.

L’Amministrazione disconosceva i suddetti costi addebitati dalla consorella inglese con fattura di fine anno. Riteneva tali maggiori costi finalizzati ad un artificioso spostamento di reddito nel gruppo. Pertanto, ne contestava la violazione della disciplina sui prezzi di trasferimento di cui all’art. 110, comma 7, T.U.I.R.

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La società ricorreva alla Commissione Tributaria Provinciale che ne accoglieva l’impugnativa. Così anche la Commissione Tributaria Regionale che ne confermava le conclusioni.

Resisteva l’Amministrazione chiedendo la cassazione della sentenza di secondo grado, deducendo, tra gli altri, specifici motivi di ritenuta violazione o falsa applicazione dell’art. 110, comma 7, T.U.I.R. in relazione all’art. 360, n. 3, codice procedura civile e di insufficiente motivazione su un fatto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c.

In particolare, l’Ufficio riteneva trattarsi di un’evidente operazione elusiva, finalizzata al drenaggio degli utili conseguiti dalla filiale italiana mediante l’abuso dello strumento costituito dai prezzi di trasferimento all’interno del gruppo multinazionale.

In tal senso, a parere dell’Amministrazione, deponevano, invero, una serie di fattori:• a) la data dell’operazione, effettuata l’ultimo giorno dell’esercizio fiscale, in concomitanza con la

disponibilità dei consuntivi sulla redditività della stessa società contribuente;• b) la specie di operazione economica, tradottasi nella contabilizzazione di una fattura passiva per rettifica in

aumento del prezzo già praticato dalla società fornitrice, su vendite quantitativamente rilevanti di prodotti software;

• c) lo scostamento del prezzo praticato da quello medio di acquisito degli stessi prodotti da parte della società.• Con tali argomentazioni l’Amministrazione insisteva doversi disconoscere i costi derivanti dalle rettifiche di

prezzo ed applicare i costi determinati col prezzo medio di vendita ex art. 9 T.U.I.R..• I Giudici di merito annullavano l’accertamento motivando che:• a) l’onere della prova in ordine al comportamento elusivo del contribuente incomberebbe a carico

dell’Amministrazione; • b) tale onere non sarebbe stato, nella specie, adempiuto da parte dell’Agenzia delle Entrate, a fronte degli

elementi di prova forniti dalla contribuente sulla scorta di uno studio articolato, in proposito, dalla società consulente;

• c) non sussisterebbe agli atti la dimostrazione di un intento elusivo della contribuente, e neppure che quest’ultima abbia conseguito un effettivo beneficio fiscale dal comportamento contestato dall’amministrazione.

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Sentenza Cassazione civile sez. V n. 10739 del 08/05/2013 - Normativa di riferimento: art. 110 c. 7 del Tuir n. 917/86, art. 2697 c.c. «Onere della prova a carico del contribuente secondo il principio di vicinanza della prova di cui all’art. 2697 c.c.»

Massima sentenza pro amministrazione:

La disciplina italiana del "transfer pricing", come negli altri Paesi, prescinde dalla dimostrazione di una più elevata fiscalità nazionale. La disciplina in parola rappresenta una difesa più avanzata di quella direttamente repressiva dell'elusione. Elusione che, per tale ragione, non occorre dimostrare. E questo, appunto, perché la disciplina di che trattasi è rivolta a reprimere il fenomeno economico in sé. È pertanto necessario, da parte dell'Amministrazione finanziaria, soltanto dimostrare l'esistenza di transazioni tra imprese collegate. Spetta invece al contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova di cui all'art. 2697 c.c., dimostrare che le transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali ai sensi dell'art. 9, comma 3, del T.U.I.R., D.P.R. n. 917/1986. Ciò che, quindi, non esclude altri mezzi di prova documentali.

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Abstract sentenza «pro-amministrazione»

L'Amministrazione finanziaria, nelle rettifiche da transfer price, non deve provare il maggior favore della fiscalità del Paese in cui viene, per così dire, dirottato il reddito (o, specularmente, la più elevata fiscalità nazionale), né l'anormalità dei prezzi di trasferimento intercompany.

Questa in estrema sintesi la statuizione contenuta nella sentenza in commento per quanto riguarda l'accoglimento del motivo di ricorso relativo alla dedotta violazione dell'art. 76, comma 5, del T.U.I.R. (oggi art. 110, comma 7) e, quanto all'IRAP, degli artt. 4 e 5 del D.Lgs. n. 446/1997.

In particolare, con riferimento ad una ripresa a tassazione avente ad oggetto sconti praticati da una società di capitali residente in Italia a controllate non residenti, la Suprema Corte si esprime nel senso che «tra gli elementi costitutivi della fattispecie repressiva del transfer pricing di cui all'art. 76, comma 5, del D.P.R. n. 917/1986, non si rinviene quello della maggiore fiscalità nazionale. Non occorre, si ripete, provare la elusione. È pertanto necessario, da parte dell'Amministrazione, soltanto dimostrare l'esistenza di transazioni tra imprese collegate. Spetta invece al contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova di cui all'art. 2697 c.c., dimostrare che le transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali ai sensi del D.P.R. n. 917/1986, art. 9, comma 3. Disposizione per la quale, come noto, son da intendersi normali i prezzi di beni e servizi praticati "in condizioni di libera concorrenza" con riferimento, "in quanto possibile", a listini e tariffe d'uso. Ciò che, quindi, non esclude altri mezzi di prova documentali ….. La CTR, quindi, non ha correttamente interpretato la disciplina, quando ha preteso dall'Amministrazione la prova dell'elusione e particolarmente la prova di una fiscalità di favore della legge straniera e della anormalità dei prezzi di transazione intergruppo».

Due distinti aspetti dunque risultano coinvolti dall'arresto in questione.

Il primo è il ruolo, se un ruolo esiste, della fiscalità del Paese del polo estero della transazione infragruppo ed il secondo, l'articolazione dell'onere della prova con riferimento allo scostamento del corrispettivo pattuito dal valore normale del bene o del servizio scambiato.

Su entrambi gli aspetti il decisum è favorevole all'Amministrazione giacché, come detto, la conclusione è che la fiscalità del Paese nel quale il reddito viene dirottato è irrilevante nell'applicazione della norma domestica sul transfer price e che non incombe sull'Amministrazione l'onere di provare lo scostamento tra corrispettivo pattuito e valore normale del bene o del servizio scambiato dovendo la stessa solo dimostrare «l'esistenza di transazioni tra imprese collegate».

Onde valutare la correttezza di una siffatta conclusione è evidentemente necessario ripercorrere i tratti essenziali della disciplina in relazione alla quale si sono espressi i Giudici di legittimità.

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Oggetto ed onere della prova secondo la Corte di cassazione:

Nel sopra delineato quadro normativo e giurisprudenziale si inserisce, dunque, la sentenza in commento la quale, come si è visto, si esprime nel senso che l'Amministrazione finanziaria non deve provare, quando agisce ai sensi dell'art. 110, comma 7, del T.U.I.R., né il maggior favore della fiscalità estera rispetto a quella italiana, né la non congruità del prezzo pattuito rispetto al valore normale del bene o del servizio scambiato, dovendo bensì provare soltanto «l'esistenza di transazioni tra imprese collegate».

La prima parte della statuizione è senz'altro corretta.

Come si è visto, la norma in oggetto precede quelle relative all'indeducibilità dei costi originati da transazioni effettuate con soggetti residenti o domiciliati in Paesi diversi da quelli cd. white list ed è costruita senza attribuire alcuna rilevanza alla particolare localizzazione del polo estero della transazione di modo che la sostituzione del valore normale al corrispettivo pattuito scatta quand'anche il predetto polo estero non sia localizzato in un paradiso fiscale.

D'altronde correlare l'operatività della norma in discorso alla prova del maggior favore della fiscalità estera rispetto a quella italiana renderebbe estremamente incerta la sua applicazione, sia per l'Amministrazione, che, ancor prima, per il contribuente, al quale, come detto, è diretta in prima battuta e ciò in quanto le variabili che condizionano la valutazione circa il suddetto maggior favore sono numerose.

Non è un caso del resto che le stesse direttive OCSE in materia di prezzi di trasferimento affermino espressamente che una rettifica di detti prezzi, effettuata sulla base del principio di libera concorrenza, potrebbe giustificarsi anche nel caso in cui non ci sia da parte del contribuente alcun intento di minimizzare o evadere l'imposta.

Quanto alla seconda parte della statuizione, ossia quella secondo cui l'Amministrazione non deve provare l'anormalità del prezzo di trasferimento, ma solo «l'esistenza di transazioni tra imprese collegate», giacché, «secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova di cui all'art. 2697 c.c.», spetta al contribuente «dimostrare che le transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali ai sensi del D.P.R. n. 917/1986, art. 9, comma 3», parrebbe riferirsi, per come formulata, a tutte le rettifiche da transfer price relative al valore normale quale che sia il componente di reddito (positivo o negativo) che viene in considerazione.

La relativa portata va, a ben vedere, circoscritta.

Se, infatti, in parte qua la statuizione vuol solo ribadire che la norma in oggetto riguarda la determinazione dell'imponibile del soggetto residente, il quale ad essa deve uniformarsi in sede di adempimento spontaneo dando a se stesso la prova che il corrispettivo pattuito non si discosta dal valore normale del bene o del servizio scambiato, nulla quaestio giacché l'affermazione è astrattamente condivisibile.

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Le circostanze di fatto da cui dipende la determinazione del suddetto valore normale sono primariamente nel dominio del contribuente o del gruppo cui lo stesso appartiene ed in questo senso si può dire che il contribuente è più vicino alla prova di quanto non lo sia l'Amministrazione (peraltro in una fiscalità di massa fondata sull'auto-liquidazione del tributo questa è la regola).

La statuizione non è invece condivisibile ove volta a legittimare rilievi di transfer price totalmente immotivati o «esplorativi».

È evidente, infatti, come sia inconcepibile una rettifica da transfer price in cui l'Amministrazione finanziaria si limiti a negare l'attendibilità del valore dichiarato dal contribuente senza addurre argomenti che militino contro la congruità del valore medesimo e consentano di pervenire ad una quantificazione alternativa (più favorevole per l'Erario).

Affermare dunque che l'Amministrazione finanziaria non deve provare lo scostamento tra corrispettivo pattuito e valore normale può andar bene a condizione che si ammetta che incombe comunque sull'Amministrazione l'onere di contestazione «specifica» ed «argomentata» relativamente all'anormalità del corrispettivo pattuito ed alla quantificazione del valore normale alternativa rispetto al dichiarato.

Insomma, l'Amministrazione non si può limitare ad asserire passivamente la suddetta anormalità, ma deve allegare elementi idonei a supportare logicamente la contestazione e ad invertire l'onere argomentativo ribaltandolo sul contribuente.

Conclusione cui si perviene anche muovendo dalla considerazione che è onere degli uffici accertatori attivare sul piano amministrativo una minima istruttoria diligente e che, a ben vedere, l'onere della previa contestazione «specifica» ed «argomentata», per alcuni applicazione processuale del principio di buona fede, può conciliarsi con la funzione esimente della tenuta della documentazione «idonea» di cui all'art. 1, comma 2-ter, del D.Lgs. n. 471/1997 ed al Provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle Entrate in data 29 settembre 2010.

Il discorso dovrebbe riguardare evidentemente anche le rettifiche fondate sull'art. 110, comma 7, del T.U.I.R. relative ai costi, quantomeno una volta acclarata l'esistenza del costo (rectius: dell'operazione sottostante) e la sua inerenza (aspetti questi ultimi in relazione ai quali viene comunque in considerazione l'onere di contestazione «specifica» ed «argomentata» incombente sull'Amministrazione).

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Sentenze CTR Lombardia n. 83 e 84 Sez. XI del 06/05/2013 - Normativa di riferimento: art. 110 c. 7 del Tuir n. 917/86, art. 2697 c.c. «Onere della prova a carico del contribuente secondo il principio di vicinanza della prova di cui all’art. 2697 c.c.»

Massima sentenza pro amministrazione:

Principio di vicinanza della prova nel «transfer pricing»

Nelle sentenze nn. 83 e 84 del 2013, la Commissione tributaria regionale della Lombardia statuisce che nel «transfer pricing» l’onere della prova va ripartito tra Fisco e contribuente sulla base del principio processual civilistico di «vicinanza», cioè in relazione alla contiguità rispetto ai fatti da provare, cioè alle possibilità in concreto di documentare e spiegare le scelte operate.

Il che significa che il Fisco resta l’attore sostanziale gravato dell’onere di provare di avere accuratamente selezionato le operazioni confrontate, di avere analizzato le funzioni svolte ed i rischi assunti dalle parti nelle transazioni coinvolte dall’analisi, di avere verificato operazioni che insistono sullo stesso livello di commercializzazione e mercati di riferimento. Il contribuente, invece, dato il suo «vantaggio informativo», dovrà essere collaborativo e soprattutto dovrà produrre documentazione rilevante per non avvalorare il lavoro dell’Ufficio.

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Sentenze CTR Lombardia n. 83 e 84 Sez. XI del 06/05/2013 - Normativa di riferimento: art. 110 c. 7 del Tuir n. 917/86, art. 2697 c.c. «Onere della prova a carico del contribuente secondo il principio di vicinanza della prova di cui all’art. 2697 c.c.»

Segue massima

Il «transfer pricing» è materia di sistema, dove la natura dialettica del giudizio di fatto emerge in tutta la sua rilevanza. Non vi possono essere automatismi e l’onere probatorio va ripartito in relazione alla «vicinanza» delle parti rispetto alle circostanze da provare. Nel «transfer pricing» è poi cruciale dotarsi di adeguate forme di «compliance». Seguire le «best practices» internazionali, ed oggi anche interne, non solo previene rischi sanzionatori amministrativi (e si ritiene, a maggior ragione, anche penali), ma aiuta altresì a difendere in termini generali la politica di «transfer pricing» del gruppo, visto che documenta agli occhi del Fisco scelte ragionate e calate su modelli di «business» che diventa assai difficile poi mettere in discussione.

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Il transfer pricing: tra norma ordinaria di sistema e norma antielusiva

Deve esser preliminarmente evidenziato come il cosiddetto transfer pricing costituisca, dal lato economico, un'alterazione del principio della libera concorrenza. E questo nel senso che transazioni tra Società appartenenti ad uno stesso Gruppo, ma con sede in Paesi diversi, avvengono per prezzi che non hanno corrispondenza con quelli praticati in regime di libero mercato. Il fenomeno, quindi, da luogo ad uno spostamento di imponibile fiscale. E, pertanto, permette di sottrarre imponibile a Stati con maggiore fiscalità. Cosicchè, proprio allo scopo di preservare la esatta pretesa impositiva di ciascuno Stato, sono state adottate normative nazionali predisposte a eliminare il fenomeno stesso del transfer pricing. Normative che recepiscono il principio del prezzo normale delle transazioni commerciali, contenuto nel Modello OCSE art. 9, comma 1, Convenzione del 1995.

Principio recepito anche in Italia, ex art. 110 c. 7 del Tuir 917/86. La disciplina italiana del transfer pricing, come negli altri Paesi, prescinde dalla dimostrazione di una più elevata fiscalità nazionale.

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Se si vuole, la disciplina in parola rappresenta una difesa più avanzata di quella direttamente repressiva della elusione. Elusione che, per tale ragione, non occorre dimostrare. E questo, appunto, perchè la disciplina di che trattasi è rivolta a reprimere il fenomeno economico in sè. Difatti, tra gli elementi costitutivi della fattispecie repressiva del transfer pricing di cui dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 7, non si rinviene quello della maggiore fiscalità nazionale. Non occorre, si ripete che l’Amministrazione finanziaria provi l’elusione.

La regola contenuta nel settimo comma dell'art. 110 del T.U.I.R., consistente appunto, in presenza di determinate condizioni, nella sostituzione del corrispettivo contrattuale pattuito con il valore normale del bene o del servizio scambiato, attiene alla determinazione della base imponibile (va ricordato, per inciso, che l'art. 110 riguarda le «Norme generali sulle valutazioni»), ed è regola sostanziale e non sull'accertamento.

In questo senso è improprio ritenere la regola in questione rivolta alla sola Amministrazione finanziaria. In realtà tale regola opera anzitutto in sede di adempimento spontaneo ed è perciò rivolta, in un primo momento, al contribuente il quale, ove il corrispettivo pattuito non sia allineato al valore normale, deve provvedere ad eliminare tale disallineamento, nel caso lo stesso possa produrre una diminuzione dell'imponibile italiano, mercé una corrispondente variazione in aumento (tralasciando qui il caso della sua applicazione al caso in cui la stessa comporti una diminuzione del reddito italiano).

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Solo in un secondo momento, qualora il contribuente alla regola non si conformi, detta regola coinvolge l'Amministrazione finanziaria .

Non si tratta di una presunzione, né, a maggior ragione, di presunzione assoluta.

La norma di cui al settimo comma dell'art. 110 non si configura come presunzione perché questa è articolata sulla base di un fatto noto dal quale si deduce quello ignoto; diversamente, la suddetta norma sostituisce all'ordinario criterio di determinazione dell'imponibile, basato sui corrispettivi pattuiti, quello, radicalmente differente, del valore normale.

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Principi generali di evasione ed elusione fiscale ed abuso del diritto:

Evasione fiscale:► comportamento in violazione della legge, di una specifica disposizione tributaria: metodo

illegale atto a ridurre o eliminare il prelievo fiscale e contributivo;► si verifica quando il contribuente si sottrae in tutto o in parte all’obbligo tributario,

mediante l’occultamento dell’imponibile o del presupposto del tributo;

e.g., mancata dichiarazione di una parte o di tutto il reddito imponibile (omessa dichiarazione); incremento fittizio dei costi deducibili dai ricavi imponibili (simulazione di passività fittizie);

Frode fiscale:► tipologia di evasione più sofisticata, che consiste in una serie di artifici e raggiri volti a

celare, con un’apparente veste di regolarità, fenomeni di evasione delle imposte

e.g., inserimento in contabilità di fatture d’acquisto false per ridurre l’imponibile;

Elusione fiscale:► comportamento del contribuente contrario all’ordinamento tributario nel suo complesso;

comportamento conforme alla lettera ma non alla ratio della disposizione tributaria;► è posta in essere mediante fatti e negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni

economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti (art. 37-bis del DPR 600/1973).

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Abuso del diritto:► La più rilevante disposizione antielusiva, i.e., art. 37-bis del DPR 600/1973, anche se, in

apparenza, può presentare una «struttura potenzialmente» idonea a dar vita ad un principio generale antielusivo, è limitata alle sole operazioni richiamate dal terzo comma dell'art. 37-bis, al di fuori delle quali non si può parlare di elusione fiscale.

► L'art. 37-bis definisce espressamente i caratteri che deve assumere il comportamento elusivo per essere perseguibile, quali:► da un lato l’effettuazione di atti, fatti e negozi diretti ad aggirare obblighi o divieti

previsti dall'ordinamento tributario e quindi ad ottenere riduzione d'imposta o rimborsi indebiti;

► dall'altro lato l'assenza di valide ragioni economiche a sostegno dell'operazione.

► Con la pronuncia della Corte di giustizia europea, sentenza «Halifax» n. C-255/02 del 21 febbraio 2006, l’attenzione su scala internazionale rivolta alla disposizione di cui all'art. 37-bis del DPR 600/1973 si è ridotta in corrispondenza dell’introduzione del nuovo istituto non «legalizzato» dell'abuso d2121el diritto.

► Alla luce della recente giurisprudenza europea, anche quella italiana, in particolare con la pronuncia della Cassazione Civile a Sezioni Unite (trattasi di 3 sentenze: n. 30055/08, 30056/08 e 30057/08 del 02 dicembre 2008, depositate il 23 dicembre 2008), ha esteso i confini dell'elusione, introducendo un generale principio antielusivo che ha il suo fondamento nell’abuso del diritto, nell'intento di estenderne l’applicabilità anche con riferimento ai tributi non armonizzati (imposte dirette).

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► La sentenza delle Sezioni Unite, anche se espressamente esclude che la fonte del generale principio antielusivo debba ricercarsi nella giurisprudenza comunitaria, trova ragione in virtù dei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell'imposizione, di cui all'art. 53 della Costituzione.

► Il principio dell'abuso del diritto ha uno spettro di applicazione molto ampio; infatti l'abuso evidenzia l'utilizzo «abnorme» dei propri poteri e/o diritti da parte di chi li destina/utilizza per scopi diversi da quelli per i quali i poteri e/o i diritti stessi sono stati attribuiti/ esercitabili. Pertanto si pone in un rapporto di genere a specie rispetto all'elusione. Va sottolineato che la nozione di abuso del diritto prescinde da ogni valutazione sulla natura fittizia o fraudolenta dell'operazione posta in essere: ciò in quanto il presupposto di questa fattispecie consiste nel compimento di operazioni conformi ai modelli previsti dalla legge ma posti in essere esclusivamente o principalmente per il conseguimento di un indebito risparmio d'imposta.

► Ctr di Milano, sez. 44, sentenza del 20 marzo 2013, n. 43 - («D&G case») “L’abuso si traduce in pratiche volte, mediante un uso distorto, sebbene non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei, ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta in mancanza di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione e diverse dalla mera aspettativa di benefici. L’abuso è la causa, l’elusione è l’effetto”.

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Elusione fiscale e abuso del diritto - Prospettive di riforma

Con l’espressione “abuso del diritto” si intende un limite all’esercizio di un diritto soggettivo, altrimenti potenzialmente illimitato. In tal caso il soggetto titolare del diritto in questione, lo esercita in modo anormale, per fini che non sono compresi tra quelli presenti nell’ordinamento giuridico.

Pertanto, i “negozi” messi in atto dal contribuente possono essere disconosciuti dall’Amministrazione Finanziaria, nel caso in cui tali operazioni siano prive di valide ragioni economiche.

La formula “valide ragioni economiche”, alla base dei negozi sopra indicati, è quindi prevista dalla legge (art. 37 bis del D.P.R. 600/73), che ne delimita, tuttavia, gli ambiti di applicazione. La norma in questione non contiene, pertanto, una clausola generale che impedisca quei negozi essenzialmente volti ad ottenere un risparmio fiscale, in quanto limita le difese antielusive del sistema ad alcune determinate operazioni sotto l’aspetto fiscale.

Il Legislatore Italiano, fin dalla prima stesura del Codice Civile, ha preferito risolvere tali situazioni di conflitto, disciplinando di volta in volta specifiche fattispecie, a differenza di quanto è avvenuto in altri ordinamenti europei, che hanno scelto il concetto generale (vd. ad esempio la legge generale fiscale tedesca – “…la legge fiscale non può essere elusa attraverso l’abuso di forme giuridiche ammesse” – o quella francese).

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In relazione a tale “vuoto legislativo” è intervenuta più volte la Suprema Corte, la quale con alcune recenti pronunce (Cass. SS.UU., 23.12.2008 n. 30055, 30056, 30057 e sentenza 12 novembre 2010 n. 22994) ha affermato l’esistenza nel nostro ordinamento di un generale principio antielusivo , in base al quale “non è lecito utilizzare abusivamente, e cioè per un fine diverso da quello per il quale sono state create, norme fiscali (latu sensu) di favore”, principio che trova il suo fondamento in quello costituzionale relativo alla capacità contributiva. Tuttavia, il fatto che la giurisprudenza abbia rinvenuto nella Costituzione un generale principio antielusivo secondo il quale non è lecito utilizzare per un fine diverso da quello per il quale sono state introdotte norme fiscali di favore, non può significare necessariamente che costituisca un illecito penale. Illecito ed elusione sono concetti differenti, in quanto il primo presuppone la violazione di una disposizione specifica dell’esercizio di un diritto, mentre la violazione dello scopo per il quale il diritto viene riconosciuto si configura come elusione.

In materia tributaria, la forte esigenza di contrastare i numerosi comportamenti volontari, posti in essere al fine di ottenere un risparmio di imposta, ha spinto la giurisprudenza a ricercare soluzioni in via interpretativa: si è fatto ricorso alla fattispecie della simulazione, del negozio indiretto e della frode alla legge.

Il punto cruciale, oggetto di perplessità, riguarda la potenziale incertezza in cui si verrebbero a trovare gli operatori economici nel porre in essere alcuni negozi giuridici oltre ad operazioni di finanza straordinaria.

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Il vero pericolo consiste, per assurdo, nel fatto che tutte le norme dell’ordinamento possono venire disapplicate se il giudice non ravvisa valide ragioni economiche sottostanti. Contestare l’elusione è semplice: è necessario leggere le carte prodotte e sostenere che il contribuente abbia ottenuto un risparmio fiscale indebito. Davanti ad un comportamento mosso da ragioni di convenienza fiscale, contestare l’elusione è automatico. Anche per la magistratura la strada dell’abuso del diritto è piuttosto comoda, non essendo necessario approfondire norme estremamente tecniche e complesse. Viene considerato il risultato e, qualora lo si consideri ingiusto, deve per forza trattarsi di elusione / abuso del diritto.

Ed è proprio in conseguenza di quanto sopra affermato che viene richiesto un intervento legislativo sull’abuso del diritto, in quanto non è sufficiente che l’Agenzia delle Entrate sostenga che occorre usare saggezza e conoscenza nell’attività di accertamento.

Pertanto, in relazione all’alea di fronte alla quale si trova il contribuente, oltre alle prescrizioni contenute nelle pronunce della Suprema Corte, le Commissioni Tributarie disciplinano di volta in volta i singoli casi.

L’utilizzo di tale strumento deve avvenire senza vessazioni per i contribuenti, valorizzando sempre il confronto e il contraddittorio. Non può essere applicato ai casi in cui i vantaggi fiscali siano espressamente previsti.

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Ad oggi, il contrasto generalizzato al fenomeno dell’abuso del diritto in materia di imposte dirette può essere legittimamente attuato soltanto attraverso una modifica legislativa che, eliminando dal corpo dell’art. 37 bis D.P.R. 600/73 il terzo comma, trasformi la clausola antielusiva espressa da semi-generale a generale, rendendola applicabile ad ogni prestazione avente natura tributaria, anche a carattere locale.

Negli ultimi tempi si è rafforzato l’orientamento della Suprema Corte secondo cui, in sostanza, il contribuente avrebbe l’onere di correggere le lacune della legge: ovvero tra due soluzioni, l’una più restrittiva l’altra meno, il contribuente avrebbe il dovere di pagare di più, non potendo scegliere, tra le due operazioni, quella fiscalmente più conveniente per sole ragioni di risparmio di imposta.

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Thank you for your Attention!Any Questions?


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