Trends di Economia InternazionaleGlobalizzazione, Investimenti e Commercio Estero
Massimo Del Gatto
Versione preliminare del 3 ottobre 2017
What an extraordinary episode in the economic progress of man that age was which came to anend in August, 1914! The greater part of the population, it is true, worked hard and lived at a lowstandard of comfort, yet were, to all appearances, reasonably contented with this lot. But escapewas possible, for any man of capacity or character at all exceeding the average, into the middleand upper classes, for whom life offered, at a low cost and with the least trouble, conveniences,comforts, and amenities beyond the compass of the richest and most powerful monarchs of otherages. The inhabitant of London could order by telephone, sipping his morning tea in bed, thevarious products of the whole earth, in such quantity as he might see fit, and reasonably expecttheir early delivery upon his doorstep; he could at the same moment and by the same meansadventure his wealth in the natural resources and new enterprises of any quarter of the world,and share, without exertion or even trouble, in their prospective fruits and advantages; or hecould decide to couple the security of his fortunes with the good faith of the townspeople of anysubstantial municipality in any continent that fancy or information might recommend. He couldsecure forthwith, if he wished it, cheap and comfortable means of transit to any country or climatewithout passport or other formality, could despatch his servant to the neighboring office of a bankfor such supply of the precious metals as might seem convenient, and could then proceed abroad toforeign quarters, without knowledge of their religion, language, or customs, bearing coined wealthupon his person, and would consider himself greatly aggrieved and much surprised at the leastinterference. But, most important of all, he regarded this state of affairs as normal, certain, andpermanent, except in the direction of further improvement, and any deviation from it as aberrant,scandalous, and avoidable. The projects and politics of militarism and imperialism, of racial andcultural rivalries, of monopolies, restrictions, and exclusion, which were to play the serpent to thisparadise, were little more than the amusements of his daily newspaper, and appeared to exercisealmost no influence at all on the ordinary course of social and economic life, the internationalizationof which was nearly complete in practice.
[J.M. Keynes, The Economic Consequences of the Peace, Ch. II, 1919]
Indice
1 Il processo di ‘globalizzazione’ 61.1 La prima ondata di globalizzazione (1890-1914) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61.2 La deglobalizzazione tra le due guerre mondiali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 91.3 La seconda ondata di globalizzazione (1945-1980) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101.4 Somiglianze e differenze tra la prima e la seconda ondata . . . . . . . . . . . . . . 111.5 La terza ondata di globalizzazione: le Global Value Chains . . . . . . . . . . . . . . 121.6 L’impatto delle Global Value Chains sul commercio internazionale . . . . . . . . . 14
2 Commercio internazionale 182.1 Evoluzione storica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 182.2 La dimensione geografica del commercio internazionale . . . . . . . . . . . . . . . . 222.3 La dimensione settoriale del commercio internazionale . . . . . . . . . . . . . . . . 25
3 Investimenti Diretti Esteri 283.1 Evoluzione storica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 283.2 L’impatto della crisi economico-finanziaria del 2007-2008 . . . . . . . . . . . . . . . 313.3 Le operazioni di M&A . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 323.4 Imprese multinazionali e commercio intra-gruppo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33
4 Focus sull’economia italiana 364.1 Partecipazione nelle Global Value Chains . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 364.2 Commercio estero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 384.3 Investimenti Diretti Esteri e commercio intra-gruppo . . . . . . . . . . . . . . . . . 40
2
Glossario delle abbreviazioniricorrenti
• GVC Global Value Chain (Catena Globale del Valore)
• EU European Union
• FDI Foreign Direct Investment (IDE - Investimenti Diretti Esteri)
• GDP Gross Domestic Product (PIL - Prodotto Interno Lordo)
• M&A Mergers and Acquisitions (operazioni di Fusione ed Acquisizione). Nel testo si fasempre riferimento alle M&A transfrontaliere (cross-border M&As)
• MNE Multinational enterprises (imprese multinazionali)
• NAFTA North American Free Trade Agreement
• OECD Organisation for Economic Co-operation and Development (OCSE - Organizzazioneper la Cooperazione e lo Sviluppo Internazionale)
• PTA Preferential Trade Agreements (accordi preferenziali per il commercio)
• PVS Paesi in Via di Sviluppo (Developing Economies)
• SITC Standard International Trade Classification
• WTO World Trade Organization (OMC - Organizzazione Mondiale per il Commercio)
3
Prefazione
Insegnando Macroeconomia ed Economia Internazionale, ho spesso avvertito l’esigenza di proporre
ai miei studenti una ‘rappresentazione’ visivamente efficace degli andamenti di medio/lungo periodo
relativi a fenomeni quali il livello e la direzione dei flussi di commercio e degli investimenti diretti
esteri, l’affermarsi delle multinazionali e le catene globali del valore: grandi temi di economia
internazionale che affondano le radici nei cambiamenti strutturali che hanno interessato i sistemi
economici a partire dalla rivoluzione industriale e che compongono il quadro del cosiddetto processo
di ‘globalizzazione’.
Per introdurre agli aspetti teorici relativi a tali argomenti, i manuali di economia internazionale
e di macroeconomia partono da descrizioni grafiche basate sui dati. Tuttavia, lo spazio che un
manuale puo dedicare a tabelle e grafici introduttivi e per forza di cose limitato e tende a non
soddisfare l’esigenza di un supporto ‘visivo’ didatticamente efficace. D’altro canto, il desiderio
di una rappresentazione che vada sufficientemente indietro nel tempo da cogliere gli equilibri e
le tendenze di lungo periodo e che sia, al contempo, sufficientemente aggiornata da cogliere i
cambiamenti piu recenti si scontra di solito con il costo opportunita dell’estrarre ed elaborare dati
ad hoc: costo spesso troppo alto per i tempi di una lezione. Di solito si ricorre pertanto ad un mix
di fonti: qualche immagine dai manuali di riferimento, dati che per vari motivi sono gia presenti
nel disco fisso del proprio computer, figure tratte da articoli scientifici o di giornale e dai report
dei vari organismi internazionali.
Di qui l’idea di raccogliere in un volume l’analisi descrittiva relativa ad alcuni aspetti chiave
dell’economia internazionale, concentrandosi su elementi di lungo periodo.
L’analisi che si propone e marcatamente descrittiva ed i commenti non entrano mai, o lo fanno
soltanto marginalmente, nella spiegazione dei fenomeni e nell’individuazione delle cause. Tali
aspetti sono interamente lasciati al lettore. Le figure descrivono i fatti nella maniera piu obiettiva
possibile ad un livello di corso universitario, anche di livello avanzato.
Il volume e innanzitutto una ‘raccolta’ (di figure). Nella maggior parte dei casi, i grafici riportati
sono prodotti mediante elaborazione di dati internazionali estrapolati dai principali databases
4
internazionali. In altri casi, le immagini provengono da (poche) pubblicazioni selezionate, quali
il World Trade Report del WTO (ed. 2013), il World Investment Report dell’UNCTAD (ed.
2013 e 2016) ed alcune pubblicazioni dell’OECD, davvero ben realizzate e rispetto alle quali si
sarebbe difficilmente potuto fare di meglio. Ringrazio le istituzioni economiche internazionali per
il permesso accordato nell’utilizzo delle figure.
Il fatto che l’esposizione sia totalmente priva di riferimenti teorici dovrebbe rendere la lettura
interessante anche al di fuori di un’aula universitaria. Credo infatti che chiunque si interessi
di questioni legate all’economia internazionale abbia avvertito, almeno una volta, l’esigenza di
disporre di analisi descrittive su alcuni degli aspetti trattati in questo volume. Spero non sia andato
del tutto vano il tentativo di comporre tali aspetti in un quadro per quanto possibile unitario e
mi auguro che l’approccio descrittivo di volta in volta adottato componga, almeno parzialmente,
le esigenze delle varie tipologie di lettori.
Sebbene l’inquadramento di lungo periodo metta al riparo dall’esigenza di aggiornamento con-
tinuo, mi piacerebbe procedere in futuro a revisioni ed aggiornamenti sulla base dell’aumentata
informazione disponibile, da un lato, e dei commenti che chiunque vorra farmi pervenire, dall’altro.
Per il momento, la stesura ha beneficiato del contributo di alcuni colleghi e di alcuni studenti. Tra
questi ultimi, ringrazio affettuosamente Antonio Palombizio, Edoardo Vitullo, Enrico Donatelli,
Lorenzo Cellini e Morris Ciotola.
5
Capitolo 1
Il processo di ‘globalizzazione’
Il termine globalizzazione e utilizzato con riferimento ad un complesso insieme di fenomeni, tra
loro interconnessi, che investono la sfera della integrazione economica, sociale e culturale su scala
mondiale. Sebbene il concetto di fondo faccia riferimento ad un fenomeno senz’altro riscontrabile
anche in epoche lontane (si pensi all’Impero Romano, che nella sua massima estensione interessava
ben 53 dei 196 paesi attualmente riconosciuti a livello internazionale), il termine, e l’utilizzo dello
stesso con riferimento ad una serie di aspetti caratteristici dei processi di integrazione in tempi
moderni, sono legati a tempi recenti.
L’analisi di tre variabili - immigrazione, esportazioni ed investimenti diretti esteri (FDI), puo
servire ad individuare nettamente tre fasi di globalizzazione (Figura 1). La prima coincide con
la fine del XIX secolo ed e seguita da una fase di deglobalizzazione intercorsa tra le due guerre
mondiali; la seconda inizia nel secondo dopoguerra e termina con gli anni ’80; la terza puo esser
fatta partire dal 1980. Le prossime pagine discutono brevemente similarita e differenze in tali
ondate di globalizzazione, con particolare attenzione all’aspetto dell’integrazione commerciale1
1.1 La prima ondata di globalizzazione (1890-1914)
La rivoluzione industriale, che molti economisti amano far partire dal 1776, data della pubblicazione
della Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith, segna l’inizio di una grande fase di integrazione a
livello mondiale. L’attuale struttura mondiale del commercio risale in gran parte a quel periodo,
quando l’innovazione tecnologica nel campo dei trasporti e delle comunicazioni ridusse decisamente,
e bruscamente, il costo del trasporto di merci, tecnologia e capitale, sia fisico sia umano. Nella
prima fase di tale processo, detta anche prima eta dell’oro del commercio internazionale, gioca un
1Su tali temi: Baldwin and Martin (1999) e De Benedictis ed Helg (2002).
6
ruolo fondamentale l’invenzione della motore a vapore. Perfezionato gia nel 1765 da James Watt,
ma pienamente utilizzato solo dall’inizio dell’ottocento, il motore rivoluzione il mondo dei trasporti,
a partire dalle navi. Gia dal 1830 era possibile attraversare regolarmente l’Oceano Atlantico, mentre
l’apertura del Canale di Suez nel 1869 fornı un contributo importante al processo di riduzione dei
tempi e dei costi di trasporto tra il vecchio ed il nuovo continente. Fino ad allora, infatti, le navi
a vapore non potevano trasportare abbastanza carbone per circumnavigare l’Africa. I costi dei
trasporti transatlantici scesero complessivamente di circa il 60% in soli tre decenni, tra il 1870 ed il
1900 (Lundgren, 1996). L’altro simbolo della rivoluzione industriale, legato al motore a vapore, fu
il treno. L’importanza delle vie navigabili interne (le quali avevano permesso la riduzione dei costi
di trasporto nell’entroterra gia alla fine del settecento) fu presto eclissata dal boom ferroviario.
La Prima linea ferroviaria del mondo, la Stockton & Darlington Railway, fu inaugurata nel 1825;
nella seconda meta del XIX secolo, linee ferroviarie furono costruite nell’Europa occidentale e negli
Stati Uniti. I costi del trasporto interno diminuirono di oltre il 90% tra il 1800 e il 1910.
La riduzione dei costi di trasporto si accompagno, grazie ad altre invenzioni, ad una riduzione
dei costi di comunicazione. In un certo senso, l’invenzione del telegrafo elettronico nel 1840 inau-
guro la moderna era della comunicazione globale in tempo reale. Il primo messaggio telegrafico
transatlantico fu inviato nell’ agosto 1858, riducendo il tempo di comunicazione tra l’Europa e il
Nord America da dieci giorni - il tempo impiegato per consegnare un messaggio con la nave - a
pochi minuti.
Questa perdita di importanza del concetto di distanza fisica (‘The death of distance’, secondo
una espressione ricorrente - si legga in proposito Cairncross, 1997) segno in maniera indelebile la
storia economica del paesi e si tradusse in una accelerazione nei flussi commerciali internazionali,
nei movimenti di capitale e nei flussi migratori (cfr. ancora Figura 1). Le esportazioni mondiali
aumentarono in media del 3.4% ogni anno, ben al di sopra della crescita del PIL mondiale (2.1%
annua). La quota di esportazioni globali rispetto a quest’ultimo aumento costantemente, raggiun-
gendo al culmine, nel 1913, livelli che non furono superati fino al 1960 (Maddison, 2001). Dalla
meta dell’ottocento la popolazione mondiale aumento di circa 6 volte, la produzione mondiale di
60 volte ed il commercio internazionale di circa 140 volte (Maddison, 2008).
A dispetto della straordinaria complessita e dimensione dei cambiamenti a livello di integrazione
economica internazionale, i sistemi economici del XIX secolo erano caratterizzati da una politica
internazionale relativamente semplice. Il sistema monetario si basava in larga misura sul Gold
Standard, adottato dalla Gran Bretagna nel 1820, dalla Germania nel 1872, e successivamente da
altri Paesi Europei quali Danimarca, Norvegia e Svezia (1873), Paesi Bassi (1875), Belgio, Francia
e Svizzera (1876), nonche dagli Stati Uniti nel 1879. Alla fine del 1880, seguendo le orme della
Gran Bretagna, tutti questi Paesi avevano fissato il valore della propria valuta a quello dell’oro,
7
con la conseguenza che ogni moneta aveva un tasso di cambio fisso con ogni altra. Cio eliminava
il rischio di cambio creando di fatto una sistema monetario unico mondiale (Frieden, 2006). Il
periodo tra il 1870 e il 1914 fu in effetti un periodo di grande stabilita dal punto di vista del
commercio internazionale e dei flussi di capitali.
Nel 1860, la stipula del trattato di Cobden-Chevalier, che aveva l’obiettivo di migliorare i
rapporti diplomatici tra Gran Bretagna e Francia e ridurre bilateralmente le barriere tariffarie
al commercio, sfocio, ‘attraverso un serie di circostanze fortuite’ (Irwin, 1995), in una catena di
accordi bilaterali che di fatto generarono una sorta di grande accordo multilaterale. Ne seguı un
periodo di forte liberalizzazione del commercio internazionale.2 Inoltre, gli estesi legami imperiali
e coloniali fecero sı che gran parte dell’economia mondiale fosse automaticamente attratta nel-
l’ambito del commercio liberale costituitosi tra i Paesi europei dopo il 1860: le colonie francesi,
tedesche, belghe e olandesi essenzialmente adottarono gli stessi codici tariffari dei loro Paesi d’o-
rigine, mentre i Paesi dipendenti dalla Gran Bretagna, come l’India, applicarono la stessa bassa
tariffa non discriminatoria ai vari Paesi esteri, oltre che alle importazioni britanniche.
Al contempo, vennero promosse politiche di coordinamento a livello internazionale volte a mi-
gliorare l’utilizzo delle nuove tecnologie di comunicazione. Nel 1873 fu costituita l’Unione Interna-
zionale Telegrafica (ITU). Nel 1893 fu fondato lo ‘United International Bureau for the Protection of
Intellectual Property’ (BIRPI) con il compito di amministrare i recenti negoziati della Convenzione
di Berna per i diritti d’autore delle opere letterarie e artistiche. Si tenne inoltre la Convenzione di
Parigi per la protezione della proprieta industriale. Molte di queste innovazioni politiche interna-
zionali della seconda meta del ’900 fornirono le basi per la costituzione della Societa delle Nazioni
(1919) e dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (1945).
In questa fase di integrazione economica, la Gran Bretagna svolse un ruolo centrale nell’econo-
mia globale, essenziale per la comprensione degli accordi politico-economici del periodo. L’impulso
alla liberalizzazione del commercio mondiale venne quasi interamente dalla Gran Bretagna. Tappe
degna di nota sono: l’abrogazione, nel 1846, dei dazi sul grano; l’abrogazione, nel 1849, del ‘Na-
vigation Acts’ (che limitava il commercio estero tra la Gran Bretagna e le sue colonie); l’invito,
rivolto alla Francia, alla negoziazione del trattato Cobden-Chevalier, nel 1860.
A differenza dei processi di integrazione commerciale piu recenti (si pensi al processo d’inte-
grazione economica in Europa), il processo di integrazione che caratterizzo la prima ondata di
globalizzazione non nasce da un disegno istituzionale e non e opera di istituzioni sovranazionali.
Esso si delinea attraverso accordi bilaterali separati o da impegni individuali. Cio fu elemento
2Il trattato includeva infatti anche un’incondizionata ‘clausola della nazione piu favorita’, che garantiva ugualee non discriminatorio trattamento se la Francia o la Gran Bretagna avessero abbassato le tariffe verso Paesi terzi.Mentre la Gran Bretagna applico le riduzioni tariffarie del trattato a tutti i Paesi, la Francia adotto un sistematariffario a due livelli, con aliquote tariffarie piu basse per la Gran Bretagna e tassi piu elevati per gli altri.
8
di successo e di debolezza allo stesso tempo: negli ultimi tre decenni del secolo, per proteggere i
produttori nazionali contro la crescente concorrenza mondiale scaturita dalla caduta dei costi di
trasporto, la maggior parte dei Paesi europei inizio ad aumentare gradualmente il livello delle ta-
riffe commerciali. Con l’unificazione della Germania e dell’Italia, intorno al 1870, entrambi i Paesi
cercarono di rafforzare l’unita aumentando le tariffe esterne e creando barriere al commercio. La
corsa delle potenze europee verso il consolidamento e l’espansione degli imperi coloniali in Africa
ed Asia fu un segno evidente che ‘l’imperialismo del libero scambio’ della Gran Bretagna era in
declino (Gallagher e Robinson, 1953).
1.2 La deglobalizzazione tra le due guerre mondiali
Tra il 1914 e il 1945 si verificarono le due guerre mondiali ed una crisi economica di portata
internazionale. L’effetto complessivo sul grado di apertura dei mercati e sull’integrazione delle
economie nazionali fu impressionante. Non solo venne distrutto l’ordine economico liberale che
si era delineato nei decenni precedenti, ma crollo l’idea stessa che integrazione economica, coope-
razione internazionale e pace fossero fenomeni complementari. Il Gold Standard crollo e vennero
instaurate restrizioni commerciali piu o meno tra tutti i Paesi. La difficolta dei Paesi nella sfida
di ristrutturazione economica e sociale, con l’aggravante della carenza di materie prime e cibo,
trasformo significativamente la visione del ruolo del governo nell’economia. Dopo il conflitto vi fu
una forte tendenza verso un interventismo economico volto a promuovere la piena occupazione, la
ricostruzione ed una maggiore giustizia sociale. Cio determino pressioni verso il nazionalismo eco-
nomico che, accentuate da questioni legate a ripartizioni di guerra, prestiti e rimborsi, impattarono
negativamente sul grado di cooperazione internazionale.
Quando, nel 1925, i Paesi guida accettarono di ripristinare una versione modificata del Gold
Standard, con l’intento di stabilizzare i tassi di cambio e dunque i flussi commerciali, vi era notevole
incertezza sulle parita da fissare e ne risultarono disallineamenti valutari importanti che lasciarono
la sterlina e il franco francese sopravvalutati rispetto alle altre valute. Inoltre, gli Stati Uniti non
ridussero le barriere commerciali nei confronti delle importazioni dall’Europa, con effetti negativi
sulla ripresa economica dell’Europa.
Quando il mercato azionario di Wall Street crollo, nell’ottobre del 1929, la mancanza di un
coordinamento delle politiche tra i paesi contribuı ad accentuare gli effetti della crisi e a trasformare
la fase di recessione degli Stati Uniti in un periodo di profonda e duratura recessione a livello globale,
la Grande Depressione. Con il crollo della domanda, le crisi bancarie e la crescente disoccupazione,
vi fu un’ascesa del protezionismo. Per tutelare l’agricoltura, ma anche altri settori, dalla caduta
dei prezzi e dalla concorrenza estera, gli Stati Uniti adottarono nel 1930 lo Smoot-Hawley Tariff
9
Act, il quale porto i dazi medi USA a livelli storici e provoco la reazione protezionista di altri Paesi,
costretti a trincerarsi dietro nuove barriere tariffarie e blocchi commerciali. Il Canada applico dazi
elevati nei confronti degli Stati Uniti; la Francia adotto dei contingentamenti alle importazioni
dagli Stati Uniti; il Regno Unito diede la preferenza ai beni disponibili nelle ex colonie. La risposta
di questi Paesi, dapprima soltanto verso gli Stati Uniti e, in seguito, nei confronti di tutti gli altri,
porto ad un drastico aumento dei dazi mondiali nel periodo tra le due guerre (c.d. ‘effetto stadio’).
Nel 1950, il rapporto tra esportazioni e PIL mondiale era tornato al 5%, una percentuale analoga
a quella del 1870: la globalizzazione non e affatto un fenomeno inarrestabile.
1.3 La seconda ondata di globalizzazione (1945-1980)
La fine della seconda guerra mondiale segno la ripresa, ed anzi l’accelerazione, del processo d’inte-
grazione e globalizzazione. In alcuni Paesi europei, nel Regno Unito e in Australia, il commercio
internazionale vide una rapida ripresa subito dopo la fine della seconda guerra mondiale nel 1945.
Nel 1950 il rapporto commercio/PIL risulto nel complesso piu elevato rispetto al 1940.
La lezione principale tratta dall’esperienza tra le due guerre fu che la cooperazione politica
internazionale e la pace dipendevano dalla cooperazione economica internazionale. Uno dei fat-
tore di crescita del commercio internazionale del XX secolo fu dunque la cooperazione economica
internazionale: il Sistema di Bretton Woods; il Fondo Monetario Internazionale (IMF), la Banca
Mondiale (World Bank) e l’Accordo generale sulle tariffe doganali e Commercio (GATT).
Questo nuovo interesse verso la cooperazione economica internazionale trovo espressione in una
serie di passi che spingevano verso l’integrazione delle economie europee. Dopo il Piano Marshall
del 1948, gli USA supportarono anche i piani europei per mettere in comune la produzione in
aree dell’industria pesante, per istituire autorita internazionali con il potere di sorvegliare tale
produzione e per creare grandi aree di libero scambio, poi tradottesi nella formazione della comunita
economica Europea (CEE), prima, e nell’Unione Europea (UE), poi.
La Guerra Fredda, alla fine del 1940, mise pero gli ideali relativi ad nuovo ordine economico
mondiale in standby per quasi cinquant’anni, sostanzialmente fino alla caduta del Muro di Berlino
nel 1989. Inoltre, il rapido disfacimento degli imperi coloniali europei dopo la seconda guerra
mondiale ed il crollo dell’Unione Sovietica dopo 1991 portarono alla nascita di decine di nuovi stati
indipendenti, ognuno con una propria situazione economica, una propria vocazione commerciale
ed un proprio sistema monetario. Tali cambiamenti complicarono enormemente le attivita di
coordinamento internazionale ed i modelli di cooperazione divennero presto obsoleti. Cio fu reso
evidente dalla brusca fine del sistema di tassi di cambio fissi nel 1971, non seguita dalla creazione
di modelli alternativi.
10
1.4 Somiglianze e differenze tra la prima e la seconda ondata
Una differenza importante tra la prima e la seconda ondata di globalizzazione consiste nel fatto
che, benche entrambe le fasi furono caratterizzate da una forte riduzione nei tempi e nei costi di
trasporto e comunicazione, nella seconda ondata e nettamente dominante la dimensione relativa
ai costi di comunicazione, e dunque alla circolazione dell’informazione e delle idee. Cio e mostrato
nella Figura 2. Come nota Cairncross (1997), il costo di una telefonata da New York a Londra
scende approssimativamente da 250 dollari nel 1930 a 50 dollari nel 1960 ma e solo in tempi molto
recenti che il suo costo crolla a pochi centesimi di dollaro.
La grande espansione del commercio internazionale nella prima fase di globalizzazione permise ai
paesi di specializzarsi nelle produzione nelle quali erano piu efficienti, cosı rafforzando e accelerando
la divisione internazionale del lavoro. Sebbene il commercio contribuı a diffondere nuove tecnologie
e prodotti, l’industrializzazione e lo sviluppo non si diffusero in modo uniforme.
Gia la prima ondata di globalizzazione segno l’aprirsi di un divario di reddito tra un Nord
a rapida industrializzazione ed un Sud fornitore di materie prime: ebbe inizio il periodo della
‘grande Divergenza’ (Pomeranz, 2000). I paesi che si andavano industrializzando crebbero molto
rapidamente, sia economicamente che tecnologicamente, rispetto al resto del mondo. Nel 1860, il
tre principali paesi industriali produssero piu di un terzo della produzione mondiale totale. Nel
1913 la loro quota era quasi di due terzi (di un totale molto piu grande) ed i piu ricchi paesi del
mondo avevano un PIL pro capite circa tre volte quello dei paesi poveri, rapporto che saliva a nove
a uno nel 1910 ed a quindici a uno nel 1925 (Maddison, 2001).
Prima del XIX secolo, la Cina ed alcune parti dell’India erano ritenute dagli Europei regioni
estremamente piu sviluppate dell’Europa: le loro produzioni dell’industria tessile cotoniera e della
seta, ma anche la loro porcellana, erano esportate in Europa in cambio di argento, in quanto i
prodotti europei erano di qualita troppo bassa per i mercati orientali. Alla fine della prima ondata
di globalizzazione, invece, la maggior parte del consumo tessile orientale era importato dall’Europa.
La Figura 3 mette in evidenza il processo di industrializzazione e de-industrializzazione che ha
interessato il mondo nella prima fase di globalizzazione, ponendo uguale a cento il valore del
Regno Unito nel 1900. Si noti come il mondo fosse nettamente diviso in due gruppi. Da un lato
(in alto nella figura), i paesi ‘inseguitori’ del Regno Unito, caratterizzati da crescenti livelli di
industrializzazione, dall’altro (in basso nella figura) i paesi che si andavano deindustrializzando,
rispetto al Regno Unito. Si noti anche come gli USA avevano, all’inizio del secolo scorso, superato
il grado di industrializzazione del Regno Unito, divenendo il paese piu ricco del mondo.
Il processo di industrializzazione fu sinonimo di crescita della ricchezza (cio e vero almeno fino
alla diffusione delle GVC). Al processo di divergenza in termini di livello di industrializzaizone si
11
accompagno pertanto un processo di divergenza in termini di PIL pro capite a livello mondiale. La
Figura 4, presa da Jones (1997), mostra la distribuzione mondiale del PIL pro capite nei paesi del
mondo al 1960 ed al 1993. Mentre, fino alla rivoluzione industriale, il mondo era stato equamente
ed omogeneamente povero ed agrario, gia nel 1960 la distribuzione dei redditi aveva assunto una
forma a ‘twin peaks’, caratteristica che si presenta piu accentuata nel 1960 e che continua a segnare
l’attuale distribuzione dei redditi a livello mondiale.
Alla fine della prima ondata di globalizzazione, ed ancora piu con la seconda ondata, il mondo
era dunque radicalmente diviso in due gruppi: paesi ricchi ed industrializzati e paesi poveri produt-
tori di materie prime. Cio si riflette anche sulla composizione del commercio mondiale. Mentre nel
periodo tra le due guerre la composizione del commercio si differenzio poco dal secolo precedente,
dominato dal commercio di materie prime e prodotti agricoli in cambio di merci manufatte, dal
1945 i principali flussi di commercio interessano il settore manifatturiero: dal 40% del commercio
mondiale nel 1900 al 75% nel 2000 (cfr. Figura 5). Al contempo, la quota di prodotti agricoli scese
notevolmente.
Come si vedra piu avanti, gli anni ottanta, e soprattutto gli anni novanta, vedono invece
la rapida industrializzazione dei PVS, accompagnata da un incremento delle loro esportazioni
di manufatti, accompagnata da un processo di de-industrializzazione nelle economie avanzate,
risultato delle attivita di offshoring ed outsourcing (v. sezione 1.5): se il XIX secolo fu segnato
dalla ‘grande divergenza’, il XX secolo potrebbe essere il periodo della ‘grande convergenza’.
1.5 La terza ondata di globalizzazione: le Global Value Chains
Il processo di integrazione produttiva a livello internazionale, avviatosi prima delle guerre, e raf-
forzatosi nel secondo dopoguerra, e, negli ultimi decenni, accompagnato da nuove e profonde
trasformazioni nelle strategie d’impresa. La frammentazione dei processi produttivi e un nuovo
assetto nella divisione internazionale del lavoro hanno portato alla nascita di sistemi di produzione
senza confini con un graduale cambiamento nel modello di commercio internazionale. I moderni
processi produttivi si sviluppano lungo ‘catene globali del valore’ (Global Value Chains - GVC),
che comportano lo scambio di beni intermedi e materie prime tra paesi diversi, sia all’interno di
grandi imprese multinazionali (fenomeno noto come intra-firm trade o commercio intra-gruppo)
sia tra imprese indipendenti (c.d. Arm’s length trade).
Le imprese sempre piu ristrutturano il proprio processo produttivo attraverso attivita di ou-
tsourcing e offshoring. Seguendo la visualizzazione della Figura 6, il termine outsourcing si riferisce
all’acquisto di beni e servizi intermedi da fornitori specializzati ‘esterni’ all’impresa, siano essi do-
mestici (i.e. domestic outsourcing) o stranieri (i.e. international outsourcing). Il termine offshoring
12
si riferisce ad acquisti, da parte delle imprese, di beni e servizi intermedi da fornitori stranieri. L’off-
shoring puo avvenire nella forma dell’international outsourcing, in cui le attivita sono affidate a
fornitori indipendenti all’estero, ma anche nella forma dell’international in-sourcing, cioe trasferen-
do compiti (tasks) o funzioni particolari (precedentemente svolti all’interno dell’azienda stessa) ad
una consociata estera (cioe un’impresa appartenente allo stesso gruppo multinazionale). Le attivita
di offshoring determinano la creazione di imprese multinazionali (MNE), che possono essere di tipo
orizzontale o verticale. Le MNE orizzontali si creano con lo scopo di produrre vicino ai mercati
di sbocco (c.d. market-seeking), in modo da minimizzare i costi del commercio. Le MNE verticali
nascono in genere dalla frammentazione dei processi produttivi attuata allo scopo di aumentare
l’efficienza produttiva (c.d. efficiency-seeking). Le imprese affiliate delle MNE possono dunque
servire i mercati locali del Paese ospitante oppure fungere da collegamento tra le varie fasi delle
GVC, producendo input per altre affiliate nella rete della MNE di appartenenza. Attraverso le loro
affiliate, e quindi l’attivita di offshoring, nonche attraverso le loro normali relazioni di mercato con
altre aziende/fornitori (outsourcing), le MNE organizzano i loro processi di produzione in diverse
localita geografiche. Le MNE sono dunque i principali attori nell’ambito delle GVC.
L’outsourcing di una specifica attivita coinvolge la sfera decisionale del cosiddetto ‘make or
buy’, cioe la scelta del se svolgere l’attivita ‘in-house’ ovvero ottenere la stessa (in outsourcing) da
un fornitore indipendente, sia esso estero o domestico. La decisione di fare o non fare offshoring e
dunque sempre il risultato di una strategia piu ampia legata alla ricerca della localizzazione ottimale
per le varie fasi del processo produttivo. Con l’affermarsi delle GVC, la scelta legata al ‘make or
buy’ e operata su una scala sempre piu globale e le imprese devono in maniera sempre piu decisa
cercare di ottimizzare la propria articolazione in senso geografico, da un lato, ed organizzativo,
dall’altro.
Un esempio da libro di testo relativo al fenomeno delle GVC e quello dell’iPhone (cfr. Figura
7). Prodotto in Cina e venduto a circa 600 dollari negli Stati Uniti, l’iphone 4 comportava per
Apple un margine di guadagno di 270 dollari per ogni pezzo venduto. Sebbene i numeri cambino
da modello a modello, si stima che, a fronte di un prezzo di fabbrica pari a circa 179 dollari,
solo 6.5 dollari fossero riconducibili a fattori di produzione cinesi, mentre il resto proveniva da
input giapponesi (circa 60 dollari), coreani (23 dollari), tedeschi (29 dollari) e cosı via, nonche
statunitensi (solo 10 dollari).
Questo processo di frammentazione della produzione lungo le GVC caratterizza la terza fase
della globalizzazione.
L’esternalizzazione delle attivita e la frammentazione della produzione non sono fenomeni nuovi.
Bertil Ohlin osservava gia nel 1933 che ‘la produzione, prevalentemente, non e divisa in due fasi -
materie prime e prodotti finiti - ma in molte’. Mentre ci sono esempi di GVC gia prima degli anni
13
’80, a costituire elemento di novita e senza dubbio l’entita del fenomeno.
La pratica della frammentazione, con esternalizzazione e delocalizzazione del processo produt-
tivo, ha avuto origine nell’industria manifatturiera. Le industrie elettronica ed automobilistica, le
quali producono beni composti da piccoli componenti prodotti separatamente, di facile trasporto
ed assemblati in Paesi con elevata disponibilita manodopera a basso costo, hanno subito raggiunto
elevati livelli di frammentazione.
Ben piu della meta del commercio mondiale e oggi costituito da scambi di beni intermedi e
servizi incorporati nelle varie fasi del processo di produzione di altri beni e servizi.
Come notato nel paragrafo 1.5, e innanzitutto la riduzione dei costi del commercio ad indurre
le imprese a frammentare il processo produttivo. Per costi del commercio ci si riferisce sia ai costi
relativi al trasporto delle merci sia ai costi di comunicazione, sia ai costi relativi alle barriere tarif-
farie (dazi e sussidi) e non tariffarie (ad es. regolamentazione degli standard relativi a determinate
tipologie di beni). Altri costi importanti, legati alle GVC, sono i costi di coordinamento, in quanto
le attivita geograficamente disperse devono essere gestite in modo coerente. Il livello di frammen-
tazione e dunque in larga misura legato ad un trade-off tra costi di produzione e transazione, da
un lato, e costi di coordinamento, dall’altro.
1.6 L’impatto delle Global Value Chains sul commercio in-
ternazionale
Per comprendere l’impatto delle GVC sui flussi di commercio, e innanzitutto necessario notare una
cosa: come mostrato nella Figura 8, la struttura produttiva delle GVC implica che il valore dei
beni che vengono via via incorporati lungo la catena, fino a giungere al prodotto finale, sia piu
volte oggetto di scambio lungo la catena stessa. In ogni fase, il valore dei beni esportati incorpora
non solo il ‘valore aggiunto’ prodotto, nell’ultima fase, dal paese esportatore, ma anche il valore
aggiunto prodotto nei paesi che hanno partecipato alle precedenti fasi del processo produttivo.
Cosı, nella figura, il paese A esporta materie prime per 2 al paese B, che acquista a 2 e, dopo aver
‘processato’ tali materie, vende al paese C al prezzo di 24. La differenza tra 24 e 2 costituisce
valore aggiunto prodotto dal paese B. Il paese C acquista dunque beni intermedi al prezzo di 26
e, dopo un processo produttivo, vende prodotti finiti, al paese D, al prezzo di 72. La differenza
tra 72 e 26 costituisce valore aggiunto prodotto nel paese C, mentre il prezzo d’acquisto dei beni
intermedi, 26, rappresenta il contenuto di valore aggiunto straniero nelle esportazioni (che qui
coincide con la produzione) del paese C. Cio genera un fenomeno cosiddetto di ‘double counting’,
o ‘multiple counting’, evidenziato nell’ultima colonna a destra della Figura 8. Ad ogni passaggio,
infatti, gli scambi internazionali sono misurati al loro prezzo di scambio, inclusivo del contenuto
14
di valore aggiunto straniero, il quale finisce per l’essere conteggiato piu volte dalle statistiche sul
valore complessivo degli scambi internazionali.
Il concetto chiave per la misurazione dell’apporto di ogni singolo paese alla GVC diventa percio
quello di ‘valore aggiunto’, inteso come incremento di valore creato in un determinato paese, in
una determinata fase del processo produttivo (i.e. una fase della catena del valore). Tale valore
e dato dalla differenza tra il prezzo finale dei beni venduti, a quella determinata fase del processo
produttivo, ed il prezzo pagato in termini di semilavorati e materie prime utilizzati per produrre
i beni stessi. Tale differenza e interamente attribuibile al paese in cui quella fase del processo
produttivo si svolge. Per quantificare quanta parte del valore finale di un bene e attribuibile ad
un determinato paese potremmo percio sommare il valore aggiunto prodotto da quel paese nelle
varie fasi del processo produttivo che hanno avuto luogo nel paese stesso. In ogni fase, dunque, e
possibile determinare il ‘domestic value added content of exports’ ed il corrispondente ‘domestic
value added content of exports’, che indicano la parte di valore, ascrivibile ad un determinato paese,
generata nell’ultima fase (nuovo valore) o nelle fasi precedenti (il valore aggiunto gia incorporato
nel prezzo pagato per i semilavorati utilizzati nella produzione) dal paese stesso.
L’OCSE, in collaborazione con il WTO, ha reso disponibile il database denominato TiVA
(Trade in Value Added database), che ricostruisce i flussi di valore aggiunto sfruttando un modello
comprendente la rete dei flussi input-output provenienti da 58 Paesi (oltre il 95% della produzione
mondiale). Sulla base di tali dati e possibile costruire indicatori che consentono l’analisi delle GVC
da una prospettiva globale.
Sulla base dei dati Tiva, la Figura 9 riporta il contenuto di valore aggiunto straniero nelle
esportazioni, espresso in % delle esportazioni totali, nei periodi 1995-1997 e 2009-2011, insieme al
tasso di variazione tra i due periodi.
La differenza con il grado di coinvolgimento nelle GVC calcolato senza tener conto della pro-
blematica del multiple counting puo essere valutata considerando la Figura 10, che riporta i valori
di un ‘indice di partecipazione’ nelle GVC (nei Paesi OCSE) calcolato a livello paese come quota
di input stranieri nelle esportazioni dei singoli Paesi (backward participation) e di input di pro-
duzione nazionale utilizzati nelle esportazioni di Paesi terzi (forward participation). Si tratta di
un primo indicatore di quanto i paesi siano coinvolti nel processo di creazione del valore a livello
internazionale, che pero non tiene conto del fenomeno del double counting.
In entrambe le figure, i valori dipendono molto dalle dimensioni delle economie e dai modelli
di specializzazione. Le esportazioni delle economie piu piccole tendono ad incorporare quote piu
elevate di valore aggiunto estero. Nelle economie piu grandi e invece disponibile una piu ampia
varieta di beni intermedi, il che le rende meno dipendenti dalle importazioni. I paesi con risorse
naturali importanti, come l’Australia, ma anche Cile ed Indonesia, mostrano infine un minor grado
15
di coinvolgimento, in quanto le attivita minerarie richiedono un utilizzo relativamente basso di beni
intermedi nel processo di produzione.
D’altro canto, e interessante notare come il quadro che emerge dalla Figura 9 sia piuttosto
differente da quello della Figura 10. Piccole economie aperte, come il Lussemburgo, la Repubblica
Ceca e la Repubblica Slovacca, utilizzano in maniera relativamente maggiore input provenienti dal-
l’estero, rispetto ai grandi Paesi, come gli Stati Uniti o il Giappone (dove, a causa delle dimensioni
dell’economia, una quota maggiore della catena del valore e nazionale). L’indice di partecipazione,
tuttavia, e meno correlato con la dimensione dei Paesi rispetto al contenuto importato delle espor-
tazioni, dal momento che si basa anche sull’utilizzo di input in Paesi terzi. Ad esempio, il contenuto
di valore aggiunto straniero nelle esportazioni degli Stati Uniti era nel 2009 di circa il 15%, mentre
l’indice di partecipazione della Figura 10 sale al 40%. Considerazioni simili valgono confrontando
le economie OCSE e non-OCSE. Economie di grandi dimensioni, come il Brasile o l’India, hanno
una minore quota di esportazioni relative agli input che partecipano a scambi verticali, al contrario
delle piccole economie, come Singapore e Taipei Cinese. Un maggiore valore aggiunto domestico
e riscontrato, inoltre, nei Paesi con quota significativa di risorse naturali nelle esportazioni (come
Russia e Arabia Saudita) o con un’alta esportazione di servizi (come l’India).
I fattori che influenzano la quota del valore aggiunto straniero delle esportazioni sono mol-
teplici: dimensione dei paesi, composizione delle esportazioni, struttura economica e modello di
esportazione. Tuttavia, se da un lato la quota di valore aggiunto del commercio globale detenuto
dai PVS e in aumento, in quanto le economie sviluppate fanno sempre piu affidamento su beni e
servizi importati per le loro produzioni/esportazioni, dall’altro, fatto uguale a cento il commercio
mondiale di valore aggiunto straniero, la quota contenuta negli scambi di paesi sviluppati quali
USA, Germania, Gran Bretagna, ed anche Italia, e in diminuzione. Al contrario, invece, la quota
della Cina e in forte crescita, in particolare dall’inizio del secolo, cosı come, anche se a tassi piu
contenuti, quella dell’India. Cio e mostrato nella Figura 11 ed e in parte spiegato dalla crescita
nel volume del commercio mondiale di valore aggiunto straniero, valutato rispetto al commercio
mondiale di beni e servizi. Come infatti mostra la Figura 12, il commercio mondiale di valore
aggiunto straniero ha superato la quota di un terzo del commercio totale di beni e servizi, tra il
1995 ed il 2011, giungendo a rappresentare circa il 35% di quest’ultimo (scala di destra) in un
contesto in cui il commercio mondiale di beni e servizi e costantemente cresciuto (scala di sinistra).
A dispetto del carattere sempre piu globale, le GVC hanno ancora un forte orientamento regio-
nale. Come evidenziato dalla Figura 13, il contenuto di valore aggiunto straniero delle esportazioni
proviene in gran parte da economie vicine: nella maggior parte dei paesi europei, tra il 60% e il 70%
del valore aggiunto proviene da altri paesi europei; Canada e Messico sono fortemente orientati
verso altri paesi NAFTA, in particolare gli Stati Uniti. Discorso analogo vale per l’Asia, circostanza
16
che sottolinea la grande concentrazione di produzione in quell’area (c.d. Factory Asia): compo-
nenti avanzate sono spesso prodotte da economie quali il Giappone e la Korea e poi esportate in
paesi emergenti, quali la Cina e, sempre piu, il Vietnam e la Cambogia, dove i beni intermedi sono
assemblati in prodotti finiti.
Interessante e la dimensione settoriale del fenomeno. La frammentazione della produzione e
infatti legata alle caratteristiche tecniche dei prodotti e tende ad essere maggiore (v. Figura 14)
nel settore manifatturiero rispetto ai servizi. Il processo di produzione dei servizi si presta infatti
meno ad essere frammentato, in particolare se si tratta di servizi che necessitano di un contatto
‘face-to-face’. Il contenuto di valore aggiunto estero e inoltre molto maggiore nelle industrie di
base che fanno largo uso di beni primari importati, come coke e petrolio raffinato, metalli di base,
prodotti chimici, gomma e plastica.
17
Capitolo 2
Commercio internazionale
2.1 Evoluzione storica
La valutazione dei dei flussi di commercio internazionale deve partire dalla distinzione nei tre
fondamentali macro-settori dell’attivita economica: il settore primario, il settore secondario ed il
settore terziario o dei servizi. La Figura 15 mostra che i servizi rappresentano una quota minoritaria
(circa il 22%) delle esportazioni mondiali lorde. Tuttavia, quasi meta (46%) del valore aggiunto
contenuto nelle esportazioni rientra nel settore dei servizi, dal momento che la maggior parte delle
attivita manifatturiere richiede servizi.
Secondo le statistiche del WTO, il valore delle esportazioni mondiali di merci e cresciuto da
poco piu di duemila miliardi di dollari, nel 1980, ad oltre 18000 miliardi, nel 2011: una crescita
media annua superiore al 7%. Nello stesso periodo, lo scambio di servizi commerciali ha registrato
una crescita media annua pari all’8.2% (da meno di quattrocento ad oltre quattromila miliardi di
dollari). Se considerato in termini di volumi (e dunque al netto dei cambiamenti dei prezzi e dei
tassi di cambio) anziche di valore, il commercio mondiale e piu che quadruplicato.
In percentuale del PIL, i flussi mondiali di esportazioni sono passati da poco piu del 10% nel
1960 ad oltre il 30% negli ultimi anni. Soltanto nella prima meta degli anni ’80 e nel periodo
immediatamente seguente la crisi economica, le esportazioni di beni e servizi sono cresciute meno
del PIL (cfr. andamenti decrescenti nella Figura 16).1
In tale processo, un ruolo importante, come gia discusso nel Capitolo 1, ha avuto la riduzione
dei costi del commercio. I costi del commercio comprendono (Anderson e Van Wincoop, 2004) tutti
i costi che gravano sulla commercializzazione di un bene, fino al raggiungimento del consumatore
finale: costi di trasporto (sia in termini di nolo che in termini di valore del tempo trascorso in
1In particolare, la recente crisi economica, pur avendo determinato una riduzione di entrambi i tassi di crescita,ha causato una contrazione degli scambi internazionali pari al -12,5%, contro il -2,4% della produzione mondiale.
18
viaggio), barriere commerciali tariffarie e non tariffarie (c.d. trade e non-trade barriers), costi di
transazione legati ad acquisizione di informazioni (c.d. information costs), a spese legali relative agli
adempimenti contrattuali (c.d. enforcement costs), procedure di sdoganamento, regolamentazione
in genere. Il WTO ed i Preferential Trade Agreements (PTA) hanno notevolmente ridotto l’impatto
delle barriere tariffarie incrementando, al contrario, il peso delle misure non tariffarie, sia in termini
di prodotti coperti, sia in termini di nazioni che le utilizzano. Per i paesi sviluppati, come mostrato
da Anderson e Van Wincoop (2004), l’impatto complessivo dei costi di commercio e quantificabile
in un 170% del costo del prodotto e puo essere decomposto come segue: 21% per costi di trasporto;
44% per barriere commerciali; 55% per costi di distribuzione al dettaglio e all’ingrosso.
Altri fattori, piu o meno collegati a tale caduta dei costi del commercio, che hanno amplificato la
crescita dei flussi di commercio internazionale sono la riallocazione di risorse liberatesi dal settore
militare con la fine della Guerra Fredda e la crescente frammentazione del processo produttivo
ed il fenomeno delle GVC. Fattore, quest’ultimo, che si traduce, quasi ‘meccanicamente’, in un
incremento dei flussi commerciali rilevati dalle statistiche per via del fenomeno del ‘doble counting’
(v. sezione 1.6).
In presenza di GVC, le politiche commerciali dei Paesi diventano sempre piu interdipendenti.
In un mondo semplice, in cui le merci sono interamente o in gran parte prodotte nei singoli Paesi,
i governi potrebbero essere tentati di metter in atto misure protezionistiche al fine di scoraggiare
il consumo di beni importati. Tale semplice scenario non si applica ad un mondo caratterizzato
da processi di offshoring e frammentazione della produzione. In tal caso, i dazi sull’importazione
di beni intermedi si traducono in una minore competitivita sui mercati esteri in termini di beni
esportati: un dazio sulle importazioni e una sussidio negativo alle esportazioni. Dazi e sussidi
possono dunque determinare conseguenze lungo la GVC, con ripercussioni sia sugli esportatori che
sugli importatori e sia nel settore tariffato che in altri settori.
E interessante notare come, in un’ottica di lungo periodo, l’incremento di commercio rispetto
al PIL non sia del tutto omogeneo rispetto alle varie aree del pianeta. In particolare, la Figura
16 mette in evidenza come la quota di esportazioni degli USA sia storicamente piu bassa sia
rispetto alla quota mondiale sia rispetto alle altre principali aree commerciali del mondo e come
tale tendenza vada rafforzandosi nel tempo: la crescita del rapporto esportazioni/PIL dalla seconda
meta degli anni ’80 ad oggi, cioe la fase di globalizzazione riconducibile all’affermarsi delle GVC (la
terza ondata di globalizzazione) e stata infatti sensibilmente minore di quella europea ed asiatica.
Si noti invece come l’andamento a livello mondiale degli anni successivi alla crisi del 2007-2008 sia
una media degli andamenti dei paesi UE e dei paesi Asiatici, che rappresentano gli uni il mercato
di sbocco degli altri.
Le Figure 17 e 18 mostrano il ranking e le quote di commercio mondiale in termini di espor-
19
tazioni (Figura 17) ed importazioni (Figura 18) per una serie di Paesi tra il 1980 ed il 2011. Le
Figure 19 e 20 riassumono tali informazioni concentrandosi sul livello di sviluppo dei paesi.
Le esportazioni dei PVS, che nel 1980 rappresentavano il 34% delle esportazioni globali, sono
salite al 47% nel 2011 (con una decrescita dal 66% al 53% nelle economie sviluppate). Una differenza
di rilievo tra i due periodi e, tra i PVS, la diminuzione di importanza dei paesi esportatori di
petrolio, a fronte di quote crescenti nelle economie in via di sviluppo dell’Asia. Nel 1980, la quota
di esportazioni della Cina ammontava ad appena l’1%, il che la rendeva (Figura 17) il trentesimo
paese esportatore del mondo ed il decimo tra le economie in via di sviluppo, nel 2011 tale quota
e salita all’11%. Se si considerano separatamente i singoli stati dell’UE, la Cina e oggi il primo
esportatore mondiale di prodotti manifatturieri. Corea, India e Tailandia, che non figuravano
tra i primi dieci Paesi esportatori nel 1980 (Figura 19), nel 2011 detengono quote di esportazioni
mondiali rispettivamente pari al 3%, 2% ed 1%. Nello stesso periodo, le economie sviluppate
hanno tutte registrato declini nelle loro esportazioni: l’Unione Europea (a 15 paesi) ha subito, in
complesso, una caduta della quota dal 37% al 30%, gli Stati Uniti hanno perso un 3% (arrivando
a quota 8%), il Giappone e sceso dal 6% al 5%. Tendenze analoghe a quelle delle esportazioni si
possono osservare dal lato delle importazioni. Come viene illustrato nella Figura 20, l’aumento
della quota delle importazioni delle economie emergenti ed in via di sviluppo e rilevante quanto
la crescita delle esportazioni: dal 29% nel 1980 al 42% nel 2011. La Cina e protagonista di una
rapida crescita in cui la quota di importazioni e salita dall’1% al 10%. L’India importa, nel 2011,
il 3% del totale mondiale. Le economie sviluppate, invece, vedono la loro quota di importazioni
scendere dal 71% nel 1980 al 58% nel 2011: la quota dell’Unione Europea scende dal 41% al 30% e
quella del Giappone dal 7% al 5%. Al contrario, gli Stati Uniti mostrano, in controtendenza con le
altre economie sviluppate, un aumento dell’1%. Un consistente declino dal lato delle esportazioni
si registra per la Francia, il Regno Unito, la Svizzera e soprattutto per il Sud Africa. La diminuita
importanza degli esportatori di materie prime (nonostante gli alti prezzi di carburanti e minerali)
e da imputare al fatto che i prezzi di tali risorse, aggiustati per l’inflazione, sono oggi piu bassi che
nel 1980.
Tali andamenti si riflettono sulla bilancia commerciale dei paesi (cioe sul saldo tra esportazioni
ed importazioni). La Figura 21 riporta il saldo della bilancia commerciale relativa ai beni e
servizi in percentuale del PIL (dal 1960 ad oggi) per gruppi di paesi. Da notare il crescente
saldo attivo dei Paesi Asiatici a partire dagli anni ’80. Al contrario, risulta evidente il progressivo
peggioramento del saldo di bilancia commerciale degli USA, che arriva a sfiorare il 6% del PIL
negli anni che precedono la recente crisi economica, per poi subire un parziale recupero, guidato
dal calo della domanda interna. Dal dettaglio a livello paese, riportato nella Figura 22 per alcuni
tra i principali paesi esportatori ed importatori (un dettaglio e anche riportato nella Figura 23
20
tenendo conto del fenomeno del ‘double counting’), risulta evidente il saldo positivo che da sempre
caratterizza paesi quali Cina, Germania ed Olanda (la Figura 22 riporta i saldi in dollari al valore
corrente, e permette dunque di confrontare direttamente i saldi in termi di grandezza). Il saldo
dell’Italia, in costante peggioramento a partire dalla meta degli anni ’90, torna positivo dal 2012
e mantiene una tendenza positiva, che si accompagna al progressivo deprezzamento dell’euro sui
mercati internazionali. Interessante notare, piu o meno con la stessa tempistica, il cambio di
tendenza in Giappone, che per la prima volta dal 1980 si trova ad avere, nel 2011, un saldo
negativo. Il saldo della bilancia commerciale del Regno Unito e, invece, tradizionalmente negativo
ma con variazioni sempre contenute.
La considerazione del commercio a valore aggiunto puo drasticamente cambiare anche il saldo
della bilancia commerciali tra i paesi. La Figura 23 mostra i saldi delle bilance commerciali
bilaterali di sei economie, misurate sia in termini lordi che in termini di valore aggiunto. Sia i beni
che i servizi sono inclusi. I saldi sono valutati rispetto a cinque partners selezionati. Emergono
risultati interessanti. Ad esempio, il surplus commerciale della Cina con gli Stati Uniti si riduce
di quasi il 30% se misurato in termini di valore aggiunto. Al contrario, il surplus della Germania
con gli Stati Uniti aumenta notevolmente. Emerge, inoltre, un importante deficit commerciale
dell’India nei confronti della Cina. Scompare il surplus commerciale della Korea nei confronti della
Cina.
Cosı come l’importanza relativa dei Paesi nel commercio internazionale e cambiata nel tempo,
anche il peso relativo dei diversi beni e servizi scambiati si e modificato. Guardando la dinamica
di lungo periodo dei macro-settori, si e gia visto (Figura 5) come la quota del commercio mani-
fatturiero sia a lungo cresciuta: nel 1900 i manufatti scambiati rappresentavano solo 40% degli
scambi mondiali, quota che successivamente e salita al 70% nel 1990 e al 75% nel 2000, prima di
scendere nuovamente al 65% nel 2011. In contrasto, la quota di commercio dei prodotti agricoli si
e progressivamente ridotta: dal 57%, nel 1900, al 12%, nel 1990, e infine al 9% nel 2011.
La dinamica di lungo periodo ad un livello di disaggregazione settoriale (SITC - Standard
International Trade Classification ad una cifra) maggiore e riportata nella Figura 24 per il settore
manifatturiero e nella Figura 25 per i servizi. Tra i settori manifatturieri, una quota mai inferiore
ad un terzo, che arriva a toccare il 45% alla fine degli anni ’90, del commercio mondiale di beni
manifatturieri e coperta dal settore dei macchinari e delle attrezzature di trasporto. Dopo una
fase di crescita che durava dall’inizio degli anni ’90, il settore mostra una flessione importante
a partire dall’inizio del secolo in corso. Tale flessione culmina negli anni della crisi economica
per poi tramutarsi in una nuova fase di espansione. A parte quella dell’industria petrolchimica
e mineraria (che pero era molto calata nei vent’anni precedenti), l’unica quota a crescere dal
2000 e quella del settore chimico (oltre al settore residuale di ‘Commodities and transactions not
21
classified elsewhere in the SITC’). Degna di nota e la progressiva perdita di peso del commercio di
beni manufatti classificabili nel settore dei ‘materiali’.
Dal lato dei servizi (Figura 25), il settore dei ‘business services’ copre una quota oscillante tra
un quarto ed un quinto del commercio mondiale. Tale quota, pur oscillante nel breve periodo, non
mostra tendenze di medio periodo in aumento o in diminuzione. L’altro settore quantitativamente
rilevante e quello dei trasporti, che attraversa una fase calante che dura ormai dal 2008. Per ovvie
ragioni legate alla crisi economico-finanziaria, anche il settore dei servizi finanziari e interessato
da una fase calante che dura dal 2008, mentre segnali di stabilizzazione su livelli sensibilmente
piu bassi rispetto agli anni immediatamente precedenti la crisi si osservano dal 2013. Importante
notare il progressivo aumento di importanza del settore IT (‘computer and information services’),
che oggi rappresenta il 7.2% del commercio mondiale di servizi.
E altresı interessante chiedersi in quale misura la crescita del commercio di beni sia stata guida-
ta dall’introduzione di nuovi beni. La World Customs Organization gestisce l’Harmonized System
(HS): la piu ampia classificazione sul commercio internazionale. Si tratta di un sistema internazio-
nale standardizzato di codifica dei prodotti. Periodicamente (ogni cinque anni) la classificazione
e aggiornata introducendo nuovi codici ed eliminando i codici dei prodotti non piu commerciati.
Cio permette di scomporre la variazione totale del commercio in un margine intensivo (variazione
nel commercio di prodotti esistenti) ed un margine estensivo (variazione nei flussi di commercio
indotta dall’introduzione di nuovi codici e all’eliminazione di codici obsoleti). La Figura 26 mostra
come il margine estensivo copra una quota non trascurabile (24%) della variazione del commercio
mondiale, dunque circa un quarto del commercio mondiale e oggi riconducibile all’introduzione di
nuovi beni.
2.2 La dimensione geografica del commercio internazionale
Commercio interregionale
Un importante aspetto della mutevole composizione del commercio dei Paesi concerne la quantita
di scambi che avviene tra gruppi di Paesi ad un diverso livello di sviluppo economico, cosı come la
quantita di scambi che avviene, all’interno dei gruppi stessi, tra paesi ad un simile livello di sviluppo
economico. Dalla Figura 27, si puo osservare come la quota del commercio (di beni manifatturieri)
‘Nord-Nord’ (inteso come il commercio che avviene fra le economie sviluppate) sia scesa dal 56%
nel 1990 al 37% nel 2011, a vantaggio della quota di scambi ‘Sud-Sud’ (scambi tra i PVS), che e
aumentata dall’8% nel 1990 al 24% nel 2011. Il commercio ‘Nord-Sud’ e invece passato dal 33%
nel 1980 al 37% nel 2011.
22
Diversi fattori concorrono a determinare la crescente quota degli scambi Sud-Sud. Tra questi,
certamente compaiono i Preferential Trade Agreements (PTA) tra PVS che, da un lato, portano
i paesi a favorire il commercio all’interno dell’accordo, rispetto al commercio con paesi non ade-
renti all’accordo (c.d. ‘Trade diversion’) e, dall’altro, tendono a creare essi stessi commercio che
non avrebbe avuto luogo senza l’accordo (c.d. ‘Trade creation’). Dal momento che alcuni di tali
accordi non sono ancora stati messi in atto, c’e da attendersi che i PTA contribuiranno ancora, nel
prossimo futuro, all’aumento dei volumi di commercio mondiale. Un altro fattore e senz’altro la
moderna struttura internazionale dei processi produttivi: con l’affermarsi delle CGV, un numero
sempre maggiore di passaggi avviene tra paesi all’interno della cosiddetta Factory Asia. Un’ul-
teriore elemento da considerare e il fatto che i consumatori tendono a desiderare una varieta di
prodotti crescente al crescere del reddito: cio dovrebbe spingere i consumatori nei PVS, indotti
dalla globalizzazione dell’informazione ad una omogeneizzazione dei gusti (la rete web rappresenta
una ‘vetrina’ in grado di condizionare le scelte dei consumatori di tutto il mondo), verso la ricerca
di un maggiore commercio con i Paesi sviluppati.
Le Figure 28 e 29 mostrano come il totale degli scambi di merci tra determinate coppie di regioni
geografiche (ad esempio le esportazioni dell’Europa verso l’Asia piu le esportazioni dell’Asia verso
l’Europa) sia cambiato tra il 1990 e il 2011, esprimendo i flussi di commercio internazionale in
percentuale. La grandezza delle frecce indica l’importanza delle relazioni bilaterali delle regioni.
Dalla mappa e subito evidente la centralita dell’Asia nel commercio inter-regionale. Le tre piu
importanti relazioni bilaterali nel commercio mondiale sono quelle tra l’Asia e l’Europa, tra l’Asia
ed il Nord America e tra l’Asia ed il Medio Oriente, rispettivamente dell’8.8%, del 7.8% e del
5.1% del commercio mondiale nel 2011. Tra il 1990 ed il 2011 il commercio bilaterale dell’Asia con
tutte le regioni, eccetto con il Nord America (la cui quota e diminuita di 2.4%) e aumentato. I
flussi commerciali bilaterali Nord americani sono invece rimasti invariati (Nord America - Medio
Oriente) o, come nel caso di Nord America - Europa, persino diminuiti. La quota del commercio
Africa-Asia nel commercio mondiale e quasi triplicata, guidata dalle esportazioni di materie prime
verso la Cina contro le esportazioni di manufatti. Nonostante la forte crescita, questa quota resta
esigua.
Commercio intra-regionale
Nell’ultimo ventennio, il numero di PTA, sia tra paesi che tra gruppi di paesi, e notevolmente
aumentato. Secondo il WTO, il numero di tali accordi esso e piu che triplicato, portandosi da
circa 70, agli inizi del 1990, a circa 300, introno al 2010. Le espressioni ‘accordi commerciali
preferenziali’ (PTA) e ‘accordi commerciali regionali’ (RTA) sono state spesso utilizzate in modo
interscambiabile, dal momento che i PTA hanno tradizionalmente avuto un orientamento regio-
23
nale. Ci si chiede, dunque, se l’aumento di questi accordi non abbia regionalizzato il commercio
internazionale nel tempo. La risposta a questa domanda e tutt’altro che ovvia. Infatti, i PTA
negoziati recentemente sono stati sempre piu inter-regionali. A meta degli anni ’90 quasi tre quarti
degli accordi riguardava gli scambi interni ad una stessa regione (intra-regionali). Tale quota e
diminuita di circa la meta entro il 2010 (WTR, 2011). Coeteris paribus, piu accordi inter-regionali,
porterebbero il commercio ad essere meno regionalizzato; tuttavia altri fattori operano in direzione
opposta, come la diffusione delle GVC.
La Figura 30 mostra le quote di commercio intra-regionale ed extra-regionale, per area geo-
grafica, tra il 1990 ed il 2011. Tale informazione (in cui il Nord America, l’Europa e l’Asia sono
mostrate in un’unica scala mentre le altre regioni condividono una differente scala) e complemen-
tare a quella delle Figure 28 e 29, che si soffermano sulle quote di commercio tra le varie regioni
del mondo.
Risulta chiaro come il commercio intra-regionale rappresenti una larga e crescente quota delle
esportazioni totali nei Paesi asiatici. Tale quota e cresciuta dal 42%, nel 1990, al 52% nel 2011, di
un totale peraltro in forte crescita. Tale aumento e avvenuto (cfr. Figure 28 e 29) a discapito del
Nord America, la cui quota sul totale delle esportazioni delle merci asiatiche e scesa dal 10.2% al
7.8% tra il 2000 e il 2011; mentre la quota di commercio con l’Europa e leggermente aumentata.
La quota di commercio intra-ragionale europeo e scesa dal 35%, nel 1990, al 29% nel 2011,
escludendo il commercio intra-UE. Sebbene la quota del commercio inter-regionale dell’Asia sia la
piu grande tra le regioni, e comunque piu piccola di quella europea se al totale viene incluso il com-
mercio intra-EU (che nella rappresentazione e escluso): in questo caso il totale delle esportazioni
europee risulterebbe piu ampio di ogni altra regione, con una quota di commercio intra-regionale
stabile, tra il 1990 ed il 2011, al 72%. La quota di commercio intra-regionale nelle esportazioni
totali del Nord America (che includono il Messico) e cresciuta dal 41% nel 1990 al 56% nel 2000,
prima di retrocedere al 48% nel 2011. La diminuzione di questa quota e in gran parte spiegata
dalla crescita dei flussi di commercio con l’Asia.
Le altre regioni che esportano grandi quantita di risorse naturali hanno visto accrescere le
proprie quote di commercio intra-regionale negli ultimi 20 anni, rimanendo pero ancora piccole in
termini assoluti. Ad esempio, la quota di commercio intra-regionale africana e raddoppiata da 6%
al 12% tra il 1990 e il 2011, ma questa quota rimane relativamente piccola rispetto alle regioni
industrializzate.
L’aumento dei PTA puo spiegare alcuni dei cambiamenti delle quote di commercio intra-
regionale sopra descritti. Ad esempio la ridotta importanza del commercio intra-regionale nelle
esportazioni del Nord America puo essere in parte dovuto agli accordi commerciali conclusi, dagli
Stati Uniti, con i Paesi del Sud America e dell’America Centrale. Non osserviamo, pero, un simile
24
slittamento nella quota di commercio intra-regionale dell’Europa nello stesso intervallo di tempo
(almeno quando il commercio intra-UE e incluso), nonostante il fatto che l’UE abbia negoziato con
Paesi di altre regioni una serie di accordi commerciali dal 2000.
2.3 La dimensione settoriale del commercio internazionale
Commercio intersettoriale
Il ruolo del commercio intersettoriale puo essere misurato attraverso un’analisi del grado di diver-
sificazione e di specializzazione.
Per valutare il grado di diversificazione delle esportazioni, la Figura 31 mostra l’indice di
Herfindahl-Hirschmann (H) calcolato, per una serie di Paesi, al 1990 ed al 2010. Con riferimento
al generico paese i, ed alla linea di esportazione k, l’indice e calcolato come:
Hi =
√∑k(Xik/
∑k Xik)2 −
√1/K
1−√
1/K,
dove Xik/∑
k Xik e la quota di esportazioni nella linea k, e K rappresenta il numero totale
di linee di esportazione. L’indice e normalizzato per ottenere valori compresi tra 0 (completa
diversificazione) ed 1 (completa concentrazione).
I valori sono riportati nella Figura 31. La maggior parte dei Paesi e divenuta piu diversificata
dal punto di vista del commercio internazionale: tra il 1990 e il 2010, l’indice H e diminuito in gran
parte dei Paesi. L’indice H di quasi l’80% dei Paesi e stato inferiore a 0.4 nel 2010. I Paesi con piu
alta diversificazione sono principalmente situati in Europa, Nord America ed Asia. L’Italia risulta,
nel 2010, il Paese a piu alta diversificazione, seguito dagli USA. I PVS ricchi di risorse naturali
sono principalmente a bassa diversificazione: e il caso di Congo, Cile e Mozambico.
La Figura 32 considera la variazione nel grado di specializzazione commerciale di una serie di
Paesi sulla base di tre ampie categorie di prodotti (beni agricoli, minerari e manufatti) e sette
sottocategorie del settore manufatturiero, tra il 1990 ed il 2010. La specializzazione e misurata
mediante l’indice di Balassa (Balassa, 1965), per ogni settore-paese, come:
Bij =Xij/XWj
Xi/XW, (2.1)
dove Xi e XW rappresentano le esportazioni totali del paese i e del mondo; Xij sono le esportazioni
del Paese i nel settore j, XWj sono le esportazioni mondiali del settore j.
I valori riportati nella Figura 32 evidenziano un’interessante evoluzione del grado di specia-
lizzazione in vari Paesi e settori. Alcune economie sviluppate hanno visto ridursi il grado di
25
specializzazione nel settore manifatturiero in generale (Regno Unito, Canada), mentre altri han-
no registrato riduzioni in specifici settori manifatturieri (ferro e acciaio in Australia, chimico in
Norvegia, telecomunicazioni in Giappone, etc.). Alcuni aumenti nella specializzazione sono stati
registrati da economie sviluppate: nel settore agricolo in Nuova Zelanda, nel settore dell’acciaio in
Giappone e nel settore tessile negli Stati Uniti. Tra i PVS c’e una divergenza tra economie ricche
di risorse ed economie industrializzate. Paesi come la Cina, il Messico e la Turchia, che solitamente
hanno avuto forti vantaggi comparati nei prodotti primari, hanno recentemente ridotto il proprio
grado di specializzazione in quei settori, aumentando invece la specializzazione nel settore dei ma-
nufatti. Dall’altra parte, la Federazione Russa, il Brasile e l’India hanno registrato una riduzione
nella specializzazione nel settore manifatturiero, un aumento nel settore primario o entrambi.
Commercio intra-settoriale
Una quota rilevante del commercio e di tipo intra-settoriale. Molti paesi, cioe, esportano ed
importano, allo stesso tempo, beni appartenenti allo stesso settore merceologico. Un modo per
confrontare il peso del commercio intra-settoriale e quello di calcolare l’indice di Grubel-Lloyd (GL).
Questo e definito, per un dato settore j, come il rapporto tra il valore assoluto delle esportazione
nette (in quel settore) e la somma di esportazioni (X) ed importazioni (M) nel settore:
GLj = 1−[|Xj −Mj |Xj + Mj
]. (2.2)
Se un Paese esporta nel settore j senza importare, o viceversa, l’indice di GL in quel settore e pari
a 0. Se invece un Paese esporta la stessa quantita che importa, allora l’indice sara uguale ad 1.
Nella Figura 33 vengono riportate le medie 1996 e 2011 dell’indice GL per vari Stati (calco-
late come media semplice, per ogni paese, dell’indice calcolato per ogni settore e partner com-
merciale), distinguendo tra commercio con Paesi sviluppati e commercio con PVS. Il commercio
intra-settoriale e maggiore nelle economie sviluppate e nelle economie in via di sviluppo a rapida
industrializzazione come Cina, Singapore e Tailandia, mentre rimane limitato nei PVS che sono
ricchi di risorse naturali come Algeria, Venezuela e Nigeria. I cambiamenti nel periodo analizzato
sono per lo piu irrilevanti (ad eccezione di Egitto e Panama) ma si nota come il commercio intra-
settoriale avvenga maggiormente tra paesi molto simili tra loro: economie sviluppate con economie
sviluppate e PVS con PVS. Paesi come la Cina e la Corea, benche considerati tra i PVS, hanno
invece una struttura simile a quella dei paesi sviluppati. Anche il Giappone rappresenta un caso
particolare perche il suo indice GL e ridotto rispetto ad economie come quella statunitense ed
europea, probabilmente a cause delle elevate importazioni di materie prime.
26
Capitolo 3
Investimenti Diretti Esteri
3.1 Evoluzione storica
Il concetto di Investimenti Diretti Esteri si riferisce ad investimenti che comportano la creazione
di una relazione duratura di controllo da parte di un’entita, residente in un determinato Paese, di
un’impresa residente in un diverso paese (i.e. affiliata estera).
L’investitore puo essere una societa (in tal caso si parla di impresa madre), ma anche un singolo
individuo/famiglia o impresa individuale. Nelle statistiche internazionali, i flussi di FDI fanno
riferimento a tre componenti: il capitale proprio o azionario (i.e. equity capital), utili reinvestiti
(i.e. reinvested earnings) e prestiti ‘intra-company’ (i.e. intra-company loans).
La storia degli FDI (si veda ad esempio Godley, 1999) ha inizio nella seconda meta del XIX
secolo, con le attivita collegate all’industria manifatturiera britannica. Tale impostazione dura per
tutta la prima ondata di globalizzazione. Come mostra la Figura 34, alla vigilia della prima guerra
mondiale, quasi la meta degli FDI partiva infatti dal Regno Unito ed i flussi erano per lo piu diretti
verso i paesi meno sviluppati (il 62.8% nel 1914).
Nel periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, gli FDI iniziarono a cre-
scere grazie a fattori tecnologici quali il miglioramento delle infrastrutture dei trasporti e delle
comunicazioni, e storici, come l’iniezione di capitali statunitensi, destinati a finanziare la ricostru-
zione postbellica in Giappone ed in Europa. La crescita prosegue per tutto il decennio ma e a
partire dagli anni ottanta che i volumi di FDI iniziano ad essere davvero consistenti (come mo-
strato dalla Figura 35). Intanto, le direttrici principali erano cambiate: nel 1960 la quota di FDI
destinata ai PVS era scesa a 32.3%, mentre gli USA erano divenuti il principale investitore a li
vello mondiale (il 49.2% dei flussi aveva origine negli USA).
Durante gli anni Ottanta, gli Stati Uniti divennero anche la principale destinazione dei flussi
27
mondiali di FDI. Come mostrato nella Figura 39, che riporta la quota (sul totale mondiale) di FDI
in entrata negli USA e nel complesso dei paesi UE, dal 1970 ad oggi. Gli USA arrivarono, negli anni
’80, ad accogliere quasi la meta degli FDI mondiali. Alcune delle ragioni che portarono a questa
situazione furono il basso tasso di risparmio e la politica commerciale restrittiva statunitense.
Quest’ultima creo, tra l’altro, le condizioni per l’affermazione del Giappone come principale paese
di origine dei flussi di FDI in entrata nelle economie europee. La Figura 41 mostra infatti come
dal 1984 al 1989 i deflussi di FDI dal Giappone coincidano quasi totalmente con i flussi in entrata
dei Paesi europei.
Complice la svalutazione del dollaro, la seconda meta degli anni Ottanta segna un rallentamento
dei tassi di crescita degli FDI in entrata negli Stati Uniti ed un rafforzamento della posizione dei
Paesi europei come paesi di destinazione (v. Figura 39).
Nei primi anni Novanta, i flussi di FDI conobbero un lieve rallentamento, presto seguito da una
forte crescita. Tra le ragioni alla base di questa forte espansione, due rivestono un ruolo di primo
piano. Primo, alle grandi MNE si affiancarono sempre piu imprese di piccole dimensioni divenute
MNE; secondo, il crollo del bipolarismo a livello mondiale accrebbe notevolmente il numero dei
Paesi sia di origine che di destinazione. Inoltre, vi fu la presa di coscienza, da parte dei Paesi, dei
vantaggi economici associati agli FDI: i governi favorirono la rimozione degli ostacoli ai flussi di
FDI, sia in entrata che in uscita, e promossero politiche di deregolamentazione e di liberalizzazione
in diversi settori.
In questo scenario, un altro elemento che caratterizza gli anni Novanta e la perdita di im-
portanza del Giappone quale investitore a causa dello scoppio, nel 1991, della bolla speculativa
giapponese (che inizio a formarsi gia dal 1986).
Verso la fine degli anni ’90, tale scenario creo le condizioni perche le Cross-Border M&A
(i.e. Mergers and Acquisitions - in italiano fusioni ed acquisizioni transfrontaliere) divenissero
lo strumento privilegiato di realizzazione degli FDI.
L’andamento dei flussi di M&A a livello mondiale e mostrato nella Figura 35, come un sot-
toinsieme del valore complessivo degli FDI mondiali. Dopo il forte incremento degli anni ’90, che
culmina, tra il 2000 ed il 2001 in una situazione in cui le operazioni di M%A rappresentano la quasi
totalita dei flussi di FDI, negli anni immediatamente successivi si assiste ad un radicale cambia-
mento nell’articolazione degli FDI. Tra il 2001 ed il 2003, si verifica un crollo (sia in numero che
in valore) delle operazioni di M&A, accompagnato sı da una forte riduzione degli FDI in generale,
ma molto piu marcato di quest’ultimo. Gli Stati Uniti cominciarono ad assumere in questi anni
un ruolo piu marginale in termini sia di capacita di investire che di attrarre investimenti. Oltre
alla crisi legata allo scoppio della bolla giapponese, la crisi argentina (ed il conseguente timore di
contagio verso altri Paesi dell’America Latina) rappresento una delle principali cause della flessione
28
cosı pesante dei flussi mondiali di FDI.
Dopo la flessione riscontrata nei primi anni del 2000, si registra una forte ripresa degli FDI
che, pur con oscillazioni, dura fino al 2015 e disegna un trend marcatamente in aumento nei flussi
mondiali di FDI.
La Figura 36 mostra il peso dei macrosettori nella composizione dei flussi di FDI a livello
mondiale (prima riga) e per gruppi di paesi (dati del 2014). Sia nei Paesi Sviluppati che nei PVS,
la maggior parte degli flussi ha oggi luogo nel settore dei servizi. La situazione e diversa, invece,
nei paesi africani ed in America Latina, aree in cui il peso dei servizi si riduce a favore del settore
manifatturiero e del settore primario, che in queste aree copre circa un quarto dei flussi in entrata.
Il maggior peso dei servizi rispetto al settore manifatturiero rappresenta una differenza impor-
tante rispetto ai flussi di FDI che avevano caratterizzato la prima ondata di globalizzazione. In quel
periodo la maggior parte degli FDI avveniva all’interno del settore industriale ed i flussi, originati
nei paesi industrializzati, erano diretti per lo piu verso i paesi meno industrializzati. Come gia
detto, cio emerge con forza nella Figura 34, in cui la percentuale di FDI destinati ai PVS (ultima
riga) scende dal 62.8% alla vigilia della prima guerra mondiale a 32.3 nel 1960. La diffusione delle
GVC sta ora determinando una inversione di tendenza in tal senso, come testimoniato dalla Figura
37, in cui si osserva un trend decisamente crescente per i flussi diretti verso i PVS a partire dal
1990.
Dall’inizio del secolo in corso, la performance macroeconomica dei Paesi in forte espansione, in
primis delle economie asiatiche, e stata bilanciata dalla lenta crescita di altre regioni, quali l’Europa
continentale. L’indebolimento del dollaro ha poi modificato il processo di allocazione delle risorse
ed incentivato altre forme di investimenti esteri, ad esempio i prestiti intra-societari, i cui costi
avevano depresso l’attivita delle MNE fino al 2004. In questa fase, i flussi di FDI si sono indirizzati
verso Paesi che offrivano costi di produzione competitivi ed un bacino di consumo in espansione.
Le MNE con sede nei paesi emergenti ed in via di sviluppo hanno acquisito progressivamente
maggior importanza come investitori esteri. La Cina, ad esempio, ha incoraggiato le proprie
imprese pubbliche a realizzare investimenti al di fuori dei confini nazionali. Inoltre, una nuova
classe di investitori, quali gli hedge funds e le societa di private equity, si e affermata sui mercati
internazionali ricercando opportunita di investimento su scala globale.1
I riflessi di tale scenario sulle differenze interregionali nei flussi di FDI sono leggibili nelle
Figure 37 e 38, in cui i flussi di FDI, rispettivamente in entrata ed in uscita, sono rappresentati
per gruppi di paesi: economie sviluppate (Developed economies- essenzialmente i Paesi OCSE),
1Va sottolineato quanto nel tempo sia cambiato il peso stesso degli FDI nell’ambito del flussi internazionali dicapitali. Dunning (1993) stima che, durante la prima ondata di globalizzazione, gli FDI rappresentassero circa il35% dei flussi mondiali di capitali. Si ritiene che tale percentuale sia sempre stata ben al di sotto del 5% durantela seconda ondata.
29
PVS (Developing economies) e paesi in transizione (Transition economies). I grafici mettono in
evidenza come, a differenza di quanto accadeva nei decenni precedenti, il ruolo dei paesi sviluppati
sia diminuito a favore dei PVS durante la seconda ondata di globalizzazione. Come piu volte notato
(cfr. Figura 34), fino agli anni ’60-’70, il 100% degli FDI in uscita proveniva dai primi ed era diretto
per la maggior parte (circa il 70%) verso altri paesi sviluppati. A partire dagli anni ’90, il peso dei
PVS e invece decisamente crescente. I flussi in entrata si ripartiscono oggi equamente tra economie
sviluppati e PVS (cfr. 37), sebbene continuino a provenire (cfr. 38) per la maggior parte (circa il
70%) dai primi. Le economie di transizione continuano a rivestire un ruolo marginale, seppur in
crescita.
Le Figure 39 e 40 mettono in evidenza il ruolo delle singole economie all’interno della bipar-
tizione tra paesi sviluppati e PVS, mostrandone le quote di FDI (in entrata) rispetto ai flussi
mondiali. Per quanto riguarda i paesi sviluppati, e interessare confrontare il ruolo degli Stati Uniti
con i paesi dell’Europa a 15 (Figura 39). Nel complesso, a parte la parentesi degli anni ’80, il peso
complessivo dell’UE e superiore a quello degli USA. Mentre, pero, negli anni duemila, la capacita
di attrazione degli USA e rimasta pressoche stabile (in una banda di oscillazione introno al 15%),
i paesi dell’UE hanno marcatamente ridotto il proprio ruolo. Dunque, il travaso di FDI dai paesi
sviluppati ai PVS (cfr. Figura 37 in particolare) e da spiegarsi in termini di una riduzione dei flussi
in entrata in Europa, piuttosto che negli USA.
Allo stesso tempo, la Figura 40 mostra che, seppur con andamento altalenante, la quota degli
FDI in entrata in Cina e marcatamente crescente gia a partire dagli anni ’80. Dall’inizio degli anni
’90, la Cina ha poi incrementato notevolmente il proprio ruolo, arrivando ad accogliere oltre il 13%
degli FDI mondiali nel 1993. Considerazioni simili valgono per l’India, che fino all’inizio degli anni
’90 giocava un ruolo piu importante di quello della Cina in termini di flussi in entrata. Da notare,
nell’ultimo decennio, il notevole rafforzamento della posizione dell’India, giunta ad accogliere circa
il 15% degli FDI mondiali, na quota maggiore di quella cinese. In netta crescita anche il ruolo
delle Tigri Asiatiche.
3.2 L’impatto della crisi economico-finanziaria del 2007-2008
La crisi economico-finanziaria del 2007-2008 e associata ad una fase di calo nei flussi mondiali di
FDI, in particolare in quelli di M&A, che, come visto, erano notevolmente cresciuti nel decennio
precedente (cfr. Figura 35). Nel complesso, i flussi di FDI sono infatti scesi del 39% nel 2009
rispetto al 2008, passando da piu di 1800 miliardi di dollari a poco piu di 1200 miliardi.
A causa della crisi globale, la capacita delle imprese di investire e stata compromessa da un
accesso limitato al credito (c.d. credit crunch), sia all’interno sia all’esterno dei Paesi d’origine e,
30
sebbene la flessione a livello globale non sia paragonabile al crollo registrato in termini di commercio
estero, e interessante notare come i Paesi sviluppati (l’epicentro della crisi) abbiano visto la propria
quota di flussi in entrata passare da circa il 70% nel 2007 a circa il 40% nel 2014 (Figura 37) e
quella di flussi in uscita da oltre l’80% a circa il 60%.
Il calo degli FDI non ha interessato tutti i paesi nella stessa misura. Come gia detto, all’interno
della riduzione a livello mondiale, la quota dei PVS e aumentata, sebbene l’impatto della crisi
finanziaria abbia inizialmente contagiato (ma in misura relativamente lieve) anche gli investimenti
verso economie in via di sviluppo e di transizione. Nell’ambito delle economie sviluppate, i paesi
UE, nel loro complesso, hanno visto piu che dimezzarsi la propria quota di FDI in entrata (cfr.
Figura 39) tra il 2007 ed il 2008. La stessa cosa non e accaduta per gli USA, il vero epicentro della
crisi.
La ripresa si osserva gia dal 2010, anno in cui i flussi mondiali di FDI sono aumentati del 16%,
passando da 1220 a piu di 1420 miliardi di dollari (Figura 35). La ripresa e soprattutto associata
ai flussi di FDI verso l’Asia (v. Figura 40) e l’America Latina, che hanno compensato un’ulteriore
flessione verso i Paesi sviluppati. In questa fase, i maggiori profitti delle societa controllate nei
PVS si sono in larga misura trasformati in utili reinvestiti, a causa delle incertezze sui mercati
valutari e del debito sovrano europeo.
Il trend negativo in termini di flussi sia in entrata sia in uscita che interessa i paesi sviluppati
continua fino al 2014, anno che vede aumentare il peso relativo dei flussi verso la maggior parte
dei paesi emergenti (cfr. Figura 40), negli USA e, seppur molto piu contenuto, nei Paesi UE (cfr.
Figura 39).
Nel 2011, i flussi verso le economie sviluppate crescono ancora sensibilmente, mentre in Europa
si registra un’intensa attivita di M&A da parte di MNE straniere. Cio e legato a politiche di
riassetto societario e di razionalizzazione delle operazioni rivolte alla riduzione dei costi ed all’otti-
mizzazione dell’impiego delle risorse nell’ambito delle ristrutturazioni societarie e industriali legate
alla crisi. Tale trend dura fino al 2013.
3.3 Le operazioni di M&A
Le cross-border M&A, pur rappresentando oggi poco meno del 40% degli FDI mondiali, rivestono
particolare interesse, essendo strettamente legate al fenomeno delle GVC.
Come indica la Figura 35, gli anni novanta rappresentano un momento di profondo cambiamento
nella composizione degli FDI a livello mondiale. Nell’arco di un decennio, infatti, le operazioni
di M&A diventano la forma di FDI piu diffusa al mondo, tanto che, all’inizio del secolo corrente,
31
oltre i tre quarti degli FDI ha luogo sotto forma di M&A. Si tratta pero di un momento particolare
nella storia degli FDI, in quanto tale percentuale si ridimensiona poi gradualmente negli anni.
Le Figure 42 e 43 riportano l’andamento, rispettivamente, del valore e del numero delle opera-
zioni di M&A in entrata (i.e. vendita di imprese domestiche ad imprese estere) ed in uscita (i.e.
acquisti di imprese estere da parte di imprese domestiche) distinguendo tra paesi sviluppati e paesi
emergenti (in percentuale del totale mondiale). Un aspetto interessante da cogliere e il progressivo
aumento del peso relativo dei PVS in termini di acquisti di imprese estere fino al 2013, anno in cui
i paesi emergenti giungono ad accogliere il 50% dei flussi di M&A in uscita.
In anni recenti, la crisi nell’eurozona ed il rallentamento della crescita economie emergenti
hanno disincentivato le iniziative di M&A. Il calo generalizzato di domanda e l’aumentata pressione
competitiva proveniente dai paesi emergenti hanno spinto gli operatori a concentrarsi piu sulla
solidita patrimoniale che sugli investimenti e la crescita. Questa tendenza ha interessato sia gli
investimenti greenfield che i progetti di M&A.
Le Figure 44 e 45 si soffermano rispettivamente sul peso di USA ed Unione Europea, la prima,
e di Cina, India, Tigri Asiatiche e Giappone, la seconda. E interessante notare, nel 2015, l’au-
mento delle M&A da parte dei paesi europei (in qualita di paesi acquirenti). Cio e associato in
parte a condizioni finanziarie piu favorevoli (le politiche della Banca centrale Europea) ed in parte
all’aumento della competizione in settori, quali quello farmaceutico, in cui le M&A sono spesso
indotte da considerazioni di natura fiscale.
Il declino in termini di M&A spiega gran parte della riduzione dei flussi di FDI in entrata negli
USA che emerge dalla Figura 39, sebbene il paese rimanga il piu grande destinatario di flussi di
FDI in tutto il mondo. Secondo il WIR 2016, il 18% delle M&A intra-G20 (che coprono circa la
meta delle operazioni mondiali di M&A) ha luogo con gli Stati Uniti.
Infine, la Figura 46 si sofferma sulla dimensione settoriale delle operazioni di M&A all’interno
del settore manifatturiero, riportandone il valore (in miliardi di dollari). Emerge il peso del settore
Chimico e Farmaceutico nei paesi sviluppati, mentre il settore ‘Furniture’ ha un peso rilevante,
insieme anche al settore alimentare, nei PVS.
3.4 Imprese multinazionali e commercio intra-gruppo
Le MNE sono societa (non necessariamente societa per azioni) che comprendono una impresa madre
(i.e. parent enterprises) ed imprese affiliate estere (i.e. foreign affiliates). La prima controlla il
capitale delle affiliate (non necessariamente detenendone la maggioranza).
Allo sviluppo delle MNE e all’emergere delle GVC sono associati cambiamenti importanti sulla
struttura del commercio internazionale.
32
Un primo aspetto (cfr. Figura 15) concerne il fatto che le GVC fanno ampio uso dei servizi:
mentre la quota di servizi nelle esportazioni lorde mondiali rappresenta soltanto il 20% circa, quasi
la meta (46%) del valore aggiunto delle esportazioni deriva dal contributo dei servizi, dato che la
maggior parte delle esportazioni manifatturiere ne necessita. Allo stesso modo, i due terzi dello
stock mondiale di FDI e legato ad attivita di servizi. Questa immagine e essenzialmente la stessa
per paesi sviluppati e PVS.
In secondo luogo, allo sviluppo delle MNE si accompagna la diffusione del commercio intra-firm,
cioe del commercio di beni e servizi tra societa madre ed affiliate o tra queste ultime. Gli scambi
intra-firm, o intra-gruppo, si contrappongono al cosiddetto ‘arm’s length trade’, che si riferisce al
commercio tra ‘unrelated parties’ (cioe tra tra imprese tra loro indipendenti). Dunque, mentre
il fenomeno dell’offshoring e associato sia commercio intra-firm che a commercio di tipo ‘arm’s
length’, il commercio internazionale di tipo intra-firm si presenta solo quando le imprese operano
in international outsourcing/insourcing (cfr. Figura 6).
Vanno dunque tenuti presenti due livelli: in primo luogo, l’importanza delle MNE nell’ambito
del commercio di beni e servizi; in secondo luogo, l’importanza del commercio intra-firm nell’ambito
del commercio di beni e servizi che fa capo alle MNE.
Nonostante la rilevanza del fenomeno, la disponibilita di dati sul commercio intra-firm e ancora
piuttosto limitata e molti Paesi non dispongono affatto di statistiche in tal senso.
La Figura 47 riporta la quota intra-firm nelle esportazioni e nelle importazioni di beni e ser-
vizi degli USA per il periodo 2008-2011 (non esistono ancora dati per anni anni piu recenti),
evidenziando alcuni fatti importanti.
Primo, una quota importante, compresa tra il 10 ed il 12 per cento, del commercio degli USA,
e per estensione del commercio mondiale, fa capo alle MNE. Una quota importante della quale
(compresa tra l’8.5 ed il 10 per cento) e di tipo intra-firm.
Secondo, tra il 2008 ed il 2011, il ruolo sia delle MNE sia del commercio intra-firm non e
aumentato.
Terzo, nel complesso, le quote complessive di commercio intra-gruppo nell’ambito del commercio
che coinvolge le MNE, riportate nella Figura 47, sono cresciute ma non di molto. Una delle ragioni
di cio e da rinvenire nel fatto che a crescere e stata prevalentemente l’importanza della quota
intra-firm del commercio di servizi.2
Quarto, il fenomeno commercio intra-gruppo presenta, nell’ambito del commercio delle MNE,
una certa variabilita geografica. Tuttavia, si individuano direzioni chiare soltanto nel caso delle
importazioni. In generale, infatti, le importazioni intra-group dai paesi emergenti ed in via di
2Il commercio intra-firm e importante non solo lungo il processo produttivo, ma anche in termini di commerciodi beni finali. Su tali aspetti e utile la lettura di Lanz e Miroudot (2011).
33
sviluppo sembrano essere maggiori rispetto a quelle dai paesi sviluppati, ad esempio quelli europei.
Cio puo essere interpretato alla luce di elementi che vanno dai differenziali nel costo dei fattori ai
differenziali nella tassazione dei profitti d’impresa.
La crescente importanza della quota di commercio intra-gruppo porta ad interrogarsi sugli
effetti di tale fenomeno sui meccanismi di propagazione degli shock macroeconomici internazionali.
Ad esempio, le GVC potrebbero aver amplificato il crollo del commercio mondiale indotto dalla
crisi del 2008-09 (cfr. Figura 16). Il commercio mondiale diminuı infatti di 3 o 4 volte piu del PIL,
durante la crisi. Tuttavia, i dati USA sull’intra-firm trade mostrano che il commercio intra-firm
di beni intermedi e diminuito meno di quello tra imprese indipendenti. Una spiegazione di cio puo
risiedere nel fatto che, sebbene, in risposta a shock di domanda, il commercio di beni intermedi
possa diminuire piu del commercio di beni finali, la diminuzione puo essere meno grave per i beni
intermedi scambiati intra-gruppo se le reti di produzione verticalmente integrate sono in grado
di anticipare meglio l’impatto della caduta della domanda adeguando la gestione delle scorte.
Inoltre, nella misura in cui il commercio intra-firm e strettamente legato alle GVC, rispetto al
commercio Arm’s length, le esportazioni statunitensi intra-firm potrebbero avere beneficiato meno
del deprezzamento reale pre-crisi del dollaro ed essere state danneggiate meno dall’apprezzamento
reale post-crisi.
In definitiva, sembrerebbe dunque che il commercio intra-firm possa ridurre, piuttosto che
amplificare, gli effetti di propagazione degli shock macroeconomici sui flussi di commercio interna-
zionale.
34
Capitolo 4
Focus sull’economia italiana
Questa sezione si sofferma sul processo di internazionalizzazione che ha caratterizzato l’economia
italiana negli ultimi decenni, ripercorrendo gli argomenti fin qui trattati nello stesso ordine seguito
nei capitoli.
4.1 Partecipazione nelle Global Value Chains
La Figura 9 mostra la quota di valore aggiunto straniero nelle esportazioni di beni e servizi di un
certo numero di Paesi, nei periodi 1995-1997 e 2009-2011; nell’ultima colonna e riportato il tasso
di crescita tra i due periodi. La quota media italiana e passata dal 16.5% nel primo periodo al
24.1% nel secondo, con un tasso di variazione pari al 7.7%. Cio denota un aumento nel grado
di integrazione a monte (backward participation) nella GVC. Si tratta di valori molto simili ad
economie di riferimento quali Francia e Germania, anche se la maggior dimensione di queste ultime
tende, di per se (come spiegato nella Sezione 1), a generare valori piu contenuti. D’altro canto, la
diminuzione del commercio di valore aggiunto straniero inglobato negli scambi internazionali che
coinvolgono l’Italia, rispetto al commercio mondiale di valore aggiunto straniero, e assolutamente
in linea (Figura 11) con la riduzione della maggior parte dei paesi sviluppati. Nel 1995, circa il
15%, una quota relativamente importante, del valore aggiunto straniero incorporato negli scambi
internazionali faceva capo all’Italia. Nel 2011, ultimo anno per il quale i dati sono disponibili, la
quota era scesa ben al di sotto del 10%, grosso modo la stessa quota della Corea.
Piu nel dettaglio, la Figura 48 mostra le componenti di valore aggiunto sul totale delle esporta-
zioni lorde italiane nel 1995 e nel 2011, espresse rispetto alle esportazioni totali lorde, nel pannello
superiore, ed in variazione media annua, nel pannello inferiore.1 E’ interessante notare (pannello
1L’OECD scompone il commercio di valore aggiunto nelle esportazioni lorde in quattro parti. Valore aggiuntodomestico inviato al paese importatore (domestic value added sent to consumer economy): il valore aggiunto in-
35
inferiore) come tutte le componenti siano aumentate in media (sebbene il valore aggiunto dome-
stico consumato direttamente dal paese importatore nel 2011 sia in effetti inferiore a quello del
1995) e come, pero, i tassi di crescita siano sensibilmente inferiori a quelli dei PVS in generale.
Cio e particolarmente vero per la componente di valore aggiunto reimportata. Le imprese italiane,
infatti, partecipano alle GVC soprattutto come imprese intermedie, vale a dire come imprese sub-
fornitrici che realizzano una larga parte del loro fatturato mediante la vendita ad altre imprese.
Dunque, piuttosto che vendere al consumatore un bene finito, la produzione di queste aziende e
orientata a prodotti intermedi e semilavorati.
La Figura 49 propone una riesposizione del confronto internazionale in termini di partecipazione
‘backward’ riportato nella Figura 9, soffermandosi sul contenuto di valore aggiunto straniero delle
esportazioni italiane e mostrando come questo sia costantemente cresciuto dal 1995, a parte un
breve periodo post-crisi, raggiungendo il 26,4% delle esportazioni lorde nel 2011: una crescita 9.2
punti percentuali rispetto al 1995.
In termini di partecipazione ‘forward’, la Figura 50 consente di confrontare il valore aggiunto
domestico inglobato nella domanda finale straniera con riferimento al settore manifatturiero. Anche
questa dimensione e costantemente cresciuta nel tempo. Nel 2011, il 55% del valore aggiunto incluso
nella domanda finale estera di esportazioni italiane era costituito da valore aggiunto domestico.
Nel 1995, tale quota era intorno al 40%.
Entrando nel dettaglio della composizione settoriale, la Figura 51 informa del fatto che, nel-
l’ambito del manifatturiero, i valori piu elevati sono attribuibili ai settori dei metalli di base, dei
veicoli a motore e dei macchinari. La Figura 51 mostra piuttosto chiaramente come la componente
di valore aggiunto domestico sia nel complesso nettamente piu alta nel settore manifatturiero che
in agricoltura e nei servizi. Cio rende i valori totali, relativi all’economia nel suo complesso (ultime
colonne a destra), sensibilmente piu bassi dei totali relativi al solo settore manifatturiero.
Infine, la Figura 52 mostra i paesi di origine del valore aggoiunto straniero incorporato nel
consumo domestico dei Paesi. In Italia, circa il 20% dei consumi domestici ha origine estera. Oltre
la meta di tale quota proviene da Paesi europei.
terno (in beni o servizi finali o intermedi) che viene direttamente consumato dall’economia che importa. Valoreaggiunto domestico inviato a paesi terzi (domestic value added sent to third economies): il valore aggiunto prodottointernamente contenuto nei beni intermedi (beni o servizi) esportati in una prima economia che li riesporta in unterzo Paese incorporati in altri beni o servizi. Questa componente individua la ‘Forward GVC participation’ delPaese. Valore aggiunto interno reimportato nell’economia (domestic value added re-imported in the economy): rap-presenta il valore aggiunto domestico contenuto nelle esportazioni di beni intermedi, o inputs, che vengono restituitiall’economia di origine incorporati in altri beni intermedi e utilizzati per produrre le esportazioni. Contenuto divalore aggiunto straniero nelle esportazioni (foreign value added content of exports): il valore aggiunto degli inputsimportati per produrre intermedi o beni e servizi finali da esportare. Questa componente individua la ‘BackwardGVC participation’ del Paese.
36
4.2 Commercio estero
Nel 2011, l’Italia era (cfr. Figure 17 e 18) l’ottava economia sia per esportazioni che per importa-
zioni, con quote intorno al 3%. Nel 1980, era la settima per esportazioni e la sesta per importazioni,
con una quota import che si avvicinava al 5%.
La Figura 53 entra nel dettaglio temporale relativo alle esportazioni ed alle importazioni com-
plessive di beni e servizi (in percentuale del PIL), mentre Figura 54 mostra riporta la relativa serie
temporale del saldo della bilancia commerciale (sempre in percentuale del PIL) tra il 1960 ed il
2015. Esportazioni ed importazioni sono cresciute di circa 20 punti del PIL, nonostante il forte
rallentamento di entrambe, tra il secondo shock petrolifero ed i primi anni ’90. Gli shock petroliferi
del ’73 e del ’79 sono entrambi associati a forti peggioramenti della bilancia commerciale legati alla
rigidita della domanda di importazione di materie prime. Se le oscillazioni intorno al pareggio di
bilancia commerciale (saldo nullo) sono state relativamente brevi fino alla meta degli anni ’90, il
periodo di progressivo peggioramento iniziato nella seconda meta degli anni ’90 e stato decisamente
piu lungo. Fino all’inizio del decennio in corso, infatti, il forte rallentamento delle esportazioni
non e stato accompagnato da un rallentamento delle importazioni. Soltanto negli ultimi anni, il
relativo calo delle importazioni ha determinato le condizioni per un miglioramento del saldo. Se
quest’ultimissima fase e facilmente attribuibile al deprezzamento dell’euro sui mercati internazio-
nali, le cause del precedente, relativamente lungo, rallentamento delle esportazioni sono dibattute.
Il forte rallentamento dell produttivita italiana, iniziato proprio nella meta degli anni ’90, l’intro-
duzione del mercato unico europeo prima e dell’Euro poi, con il progressivo apprezzamento della
nuova valuta, hanno sicuramente concorso.
Entrando in un dettaglio settoriale, le Figure da 55 a 58 si soffermano sul tipo di specializzazione
del commercio internazionale italiano (pannello superiore) e sulle quote export ed import sui totali
settoriali (pannello inferiore). In particolare, la Figura 55 mostra l’andamento delle esportazioni
dei comparti del settore manifatturiero nel periodo 1978-2015. Il settore dei macchinari ed attrez-
zature di trasporto e quello che storicamente offre il maggior contributo alle esportazioni nazionali
(pannello superiore). Il contributo e superiore al 35% dal’inizio del periodo e si mantiene tale, anzi
mostra segnali di crescita, fino agli anni piu recenti, con una crescita importante avvenuta nella
seconda meta degli anni ’80. Nel pannello inferiore, e interessante notare come, a livello mondiale,
le quote di mercato italiane, valutate rispetto alle esportazioni mondiali del settore, si siano quasi
dimezzate tra il 1978 ed il 2015, rappresentando ora meno del 3% delle esportazioni mondiali. Cio
va letto alla luce della flessione che ha caratterizzato il settore a partire dall’inizio del secolo, ma
anche alla luce della sua ripresa post-crisi (cfr. Figura 24).
Soltanto altri due settori mostrano valori stabilmente superiori al 10%: il settore dei materiali
37
e quello dei ‘Miscellaneous manufactured articles’. Tali settori rappresentano quote simili delle
esportazioni italiane, ma tale quota e, per entrambi i settori, in diminuzione da oltre il 20% (il 25%
nel caso del settore chimico) a meno del 18% nel 2015. A livello di quote di mercato, il setore dei
‘Miscellaneous manufactured articles’, che include molti dei beni del cosiddetto ‘Made in Italy’ (ad
esempio abbigliamento ed arredamento), arrivava a coprire circa il 14% delle esportazioni mondiali
del settore stesso. Il pannello inferiore della figura mostra pero la repentina perdita di terreno sui
mercati internazionali. Oggi il settore non copre piu del 4% delle esportazioni mondiali. La discesa
del settore dei materiali e molto meno marcata ma di dimensioni importanti: tre punti percentuali
in meno.
Un settore che ha invece accresciuto il suo peso nelle esportazioni italiane e quello della chimica:
e l’unico a mostrare un trend decisamente positivo con valori relativamente importanti.2
Nel complesso, le quote export dell’Italia variano in un range che va dall’1 al 7%. Dal punto
di vista dell’import, si osserva ancor minore variabilita, con quote import comprese, attualmente,
tra il 2% circa ed il 51% circa.
Il comparto dei macchinari e quello dei ‘Miscellaneous manufactured articles’ sono i principali
settori anche dal punto di vista delle importazioni (cfr. Figura 56), sebbene in tal caso si ravvisi
maggiore diversificazione. Anche in questo caso e interessante notare la crescita del settore chimico.
Il settore dei macchinari, che nel 1977 rappresentava circa il 18% degli acquisti dall’estero, ne copre
oggi circa il 30%.
Nell’ambito dei servizi (cfr. Figura 57), il maggiore contributo alla esportazioni nazionali e
fornito dal settore degli ‘Other business services’: servizi di business e management, servizi di
ricerca e sviluppo, servizi legali e servizi per l’ambiente. e interessante notare come la quota
relativa di tale aggregato settoriale sia rimasta alta, seppur con oscillazioni, dal 2000 ad oggi, e
sempre superiore al 24%. Tra i servizi, e questo il settore con il maggior peso sulle esportazioni
mondiali: oggi il 2% circa.
L’altro comparto di servizi di rilevo nell’ambito della specializzazione settoriale e quello dei
trasporti. Questo settore si e mantenuto stabile nel corso del tempo, con un contributo oscillante
in un range molto stretto: tra il 17% ed il 14%.
Alcuni settori, seppure caratterizzati da un contributo piuttosto esiguo al totale delle espor-
tazioni, non hanno risentito della crisi del 2007-2008 e sono cresciuti di importanza: si tratta del
comparto delle comunicazioni e di quello IT (‘computer and information services’).
Come nel caso del manifatturiero, la partecipazione dei comparti dei servizi al totale delle
importazioni riflette molto da vicino quella delle esportazioni (cfr. Figura 57). Anche in questo
2Un’evidenza che risalta dalle Figure 55 e 56 e il crollo della quota relativa al settore dei materiali grezzi e deiderivati del petrolio alla fine degli anni ’70, da legarsi alla seconda crisi petrolifera.
38
caso, il settore degli altri servizi business e quello che offre il maggiore contributo, anche se la
relativa quota e scesa notevolmente dal 2007 (-12%). Il comparto dei servizi di trasporto si rivela
molto stabile anche in termini di importazioni.
4.3 Investimenti Diretti Esteri e commercio intra-gruppo
La Figura 59 mostra l’evoluzione dei flussi di FDI in entrata ed in uscita dell’Italia nel periodo
1970-2015, in percentuale del PIL. Le Figure 60 e 61 confrontano i flussi in entrata con quelli
USA ed UE, in termini percentuali rispetto ai flussi mondiali di FDI in entrata. Le serie mettono
in evidenza una tendenza ad un saldo negativo che perdura, con brevi interruzioni, dagli anni
ottanta e valori percentuali molto inferiori a quelli europei e molto vicini a quelli USA. Dunque, a
prescindere dalla dimensione (essendo i valori presi in percentuale del PIL), i valori italiani sono
ben al di sotto alle principali economie europee.
I dati registrano un segnale di inversione di tendenza nel 1998, durato pero molto poco, da
valutarsi all’interno di uno scenario mondiale in cui le operazioni di M&A divenivano lo strumento
principale per la realizzazione di investimenti esteri. La riduzione legata alla crisi economico-
finanziaria degli anni 2007-2008 si inquadra nel crollo generalizzato dei flussi di FDI a livello
mondiale: nel giro di poco piu di un anno, i flussi di FDI in uscita dall’Italia perdono piu di 3
punti percentuali, mentre quelli in entrata divengono addirittura negativi.
Un discorso analogo vale per le operazioni di M&A, che, come evidenziato nel capitolo 3,
hanno rappresentato negli anni ’90 la principale forma di FDI a livello mondiale. Le Figure 62 e
63 confrontano il trend delle operazioni di M&A in entrata (vendite) in Italia con, rispettivamente,
quello EU e quello di Germania e Regno Unito, mettendo in evidenza come, a differenza dei
Paesi di tradizione anglosassone, le imprese italiane continuano ad essere soltanto marginalmente
interessate dalle operazioni internazionali di M&A.
In termini di oscillazioni, Italia ed UE sembrano aver seguito trend simili, con fasi alterne di
crescita (agli inizi e alla fine degli anni ’90, nei primi anni del nuovo millennio e, in parte, dal 2010
ad oggi) e fasi di calo (anni ’94-’95 e dal 2005 fino agli anni dopo la crisi). La fase di ‘declino’ e
dunque iniziata prima dello scoppio della crisi finanziaria e si e accentuata durante quegli stessi
anni (-6% per l’Italia e -35% l’UE).
Avendone sottolineato l’importanza nella sezione 3.4, e infine utile soffermarsi sul ruolo del
commercio intra-firm in Italia. Benche, come detto, le informazioni a disposizione siano limitate, i
dati TiVA permettono di delineare la rilevanza del fenomeno negli ultimi anni. La Figura 64 mostra
come la quota di commercio italiano di beni e servizi facente capo alle MNE sia sostanzialmente
maggiore per le esportazioni, rispetto alle importazioni, e come, tendenzialmente, la prima sembri
39
essere in crescita mentre la seconda no. Tale quota e infatti passata dal 20.7% nel 2008 al 25.8%
nel 2014, per le esportazioni, e dal 6.4% nel 2008 al 6.0% nel 2014 per le importazioni. All’interno
di tale fenomeno, anche l’importanza del commercio intra-gruppo sembra essere maggiore per
le esportazioni, rispetto alle importazioni, e crescente soltanto nel primo caso. Tale tendenza
accomuna settore manifatturiero e settore dei servizi.
Dal confronto con i dati relativi agli USA (cfr. Figura 47) emerge, per l’Italia, un’incidenza
maggiore delle esportazioni delle MNE e minore delle importazioni intra-gruppo rispetto ai flussi
totali. Inferiori a quelli degli USA sono le quote di commercio intra-gruppo nell’ambito del com-
mercio complessivo delle MNE. Cio rivela una minore propensione all’offshoring da parte delle
imprese italiane, sia nella manifattura sia nei servizi.
40
Bibliografia
[1] Anderson, J. E. and E. van Wincoop (2004), Trade Costs, Journal of Economic Literature
42(3), 691-751.
[2] Backer, K. D. and Miroudot S. (2013), Mapping Global Value Chains, OECD Trade Policy
Papers, 159, OECD Publishing.
[3] Bairoch, P. (1982), International industrialisation levels from 1750 to 1980, Journal of
European Economic History, 2, 268-333.
[4] Balassa, B. (1965), Trade liberalization and revealed comparative advantage, Manchester
School of Economic and Social Studies, 33(33), 99-123.
[5] Baldwin R. E. and Martin P. (1999), Two Waves of Globalisation: Superficial Similarities,
Fundamental Differences, NBER Working Paper, 6904.
[6] Cairncross F. (1977), The Death of Distance, Londra, Orion.
[7] De Benedictis L. and Helg R. (2002), Globalizzazione. Rivista di Politica economica, 92(3/4),
139-210.
[8] Dunning, J. (1983), Changes in the level and structure of international production: the last
one hundred years, in M. Casson (ed.) The growth of international business, Allen & Unwin,
London.
[9] Frieden, J. A. (2006), Global Capitalism: Its Fall and Rise in the Twentieth Century, New
York, WW Norton.
[10] Gallagher, J. and R. Robinson (1953), The Imperialism of Free Trade, The Economic History
Review, VI(1).
[11] Irwin, D. (2002), Long-Run Trends in World Trade and Income, World Trade Review, 1(1),
89-100.
41
[12] Jones, C. (1997), On the evolution of world income distribution, Journal of Economic
Perspectives, 11(3), 3-19.
[13] Lanz, R. and S. Miroudot (2011), Intra-Firm Trade: Patterns, Determinants and Policy
Implications, OECD Trade Policy Papers, 114, OECD Publishing, Paris.
[14] Lundgren, N. G. (1996), Bulk Trade and Maritime Transport Costs: The Evolution of Global
Markets, Resources Policy, 22(1-2): 5-32.
[15] Maddison A. (2001), The World Economy: A Millennial Perspective. Paris: Organisation for
Economic Co-operation and Development
[16] OECD (2013), Interconnected Economies. Benefiting from global value chains, OECD
Publishing.
[17] OECD (2015), Trade in Value Added: Italy, https://www.oecd.org/sti/ind/tiva/CN_
2015_Italy.pdf.
[18] OECD (2017), Trade in Value Added and Global Value Chains. Italy, https://www.wto.org/
english/res_e/statis_e/miwi_e/IT_e.pdf.
[19] Pomeranz, K. (2000), The Great Divergence: China, Europe, and the Making of the Modern
World Economy, Princeton, New Jersey, Princeton University Press.
[20] UNCTAD (2013), World Investment Report 2013. Global Value Chains: Investment and trade
for development, New York and Geneva: United Nations.
[21] UNCTAD (2016), World Investment Report 2016. Investor Nationality: Policy Challenges,
New York and Geneva: United Nations.
[22] World Bank (1995), World Bank Development Report, World Bank, Washington, D.C.
[23] World Bank (2002), Globalization, growth, and poverty: building an inclusive world economy,
Oxford University Press, New York.
[24] WTO (2013), World Trade Report 2013: Factors shaping the future of world trade, World
Trade Organization.
42
Figura 1: Ondate di globalizzazione
Fonte: World Bank (2002) su dati Maddison (2001) e U.S. Immigration and Naturalization Service (1998).
Figura 2: Costi di Trasporto vs Costi di Comunicazione, 1920-1950.
Fonte: Baldwin and Martin (1999) su dati World Bank (1995).
44
INDUSTRIALIZZAZIONE / DE-INDUSTRIALIZZAZIONE
Figura 3: Livelli di industrializzazione pro capite, 1750-1913.
Fonte: Bairoch (1982) su dati e stime Bairoch; Baldwin and Martin (1999).
8
CONVERGENZA / DIVERGENZA DEL REDDITO
Figura 4: Distribuzione mondiale del reddito nel 1960 e nel 1988.
Fonte: Jones (1997) su dati Penn World Tables; Baldwin and Martin (1999).
45
Figura 5: Quote settoriali nelle esportazioni mondiali di beni dal 1990 (valori %).
Fonte: WTO (2013).
23
Strategie di Outsourcing ed Offshoring«Make or buy» decision
Figura 6: Strategie di outsourcing ed offshoring.
Fonte: OECD (2013).
46
22
TERZA ONDATA: LE GLOBAL VALUE CHAINS (GVC)
Figura 7: Esempio di GVC nell’industria elettronica: l’iPhone 4.
Fonte: OECD (2013).
25
Formazione del valore aggiunto straniero lungo la GVC e fenomeno del «double counting»
Figura 8: ‘Trade in Value Added’ e fenomeno del ‘double counting’.
Fonte: UNCTAD (2013).
47
Country avg 1995‐1997 avg 2009‐2011 growth rate
AUS: Australia 12.6% 13.2% 0.6%
AUT: Austria 22.9% 26.1% 3.2%
BEL: Belgium 31.5% 31.8% 0.4%
CAN: Canada 25.4% 23.1% ‐2.3%
14.9% 19.0% 4.0%
30.5% 43.0% 12.4%
23.5% 31.2% 7.8%
37.1% 32.1% ‐5.0%
25.2% 32.3% 7.1%
18.0% 23.4% 5.4%
15.5% 23.6% 8.0%
17.6% 22.5% 4.9%
32.0% 47.3% 15.2%
19.4% 31.6% 12.2%
37.1% 43.0% 5.9%
21.9% 23.4% 1.5%
16.5% 24.1% 7.7%
6.4% 12.9% 6.5%
24.6% 39.4% 14.8%
25.1% 25.7% 0.6%
43.3% 57.2% 14.0%
28.7% 33.2% 4.5%
27.3% 29.3% 2.0%
17.1% 16.1% ‐1.0%
19.5% 17.5% ‐2.0%
17.4% 30.2% 12.8%
27.4% 30.8% 3.3%
35.5% 45.3% 9.7%
32.3% 34.0% 1.7%
19.9% 24.6% 4.7%
26.2% 28.8% 2.6%
18.1% 21.6% 3.5%
9.2% 23.3% 14.1%
18.1% 20.9% 2.8%
11.4% 13.3% 1.9%
6.3% 13.0% 6.7%
8.2% 10.5% 2.3%
7.3% 4.7% ‐2.6%
34.9% 37.4% 2.6%
17.1% 36.4% 19.3%
31.2% 31.6% 0.4%
8.6% 8.2% ‐0.4%
23.2% 27.7% 4.6%
20.1% 19.4% ‐0.6%
22.4% 21.5% ‐0.9%
19.9% 19.9% ‐0.1%
9.6% 22.4% 12.8%
12.0% 11.4% ‐0.6%
24.6% 22.8% ‐1.9%
31.9% 40.7% 8.8%
47.9% 39.4% ‐8.5%
17.7% 23.7% 6.0%
9.9% 11.8% 1.9%
32.6% 26.0% ‐6.6%
22.8% 23.1% 0.3%
12.8% 13.1% 0.3%
4.1% 3.9% ‐0.1%
41.3% 41.6% 0.2%
13.8% 18.7% 5.0%
30.1% 41.0% 10.9%
23.9% 36.7% 12.8%
24.1% 30.6% 6.6%
CHL: Chile
CZE: Czech Republic
DNK: Denmark
EST: Estonia
FIN: Finland
FRA: France
DEU: Germany
GRC: Greece
HUN: Hungary
ISL: Iceland
IRL: Ireland
ISR: Israel
ITA: Italy
JPN: Japan
KOR: Korea
LVA: Latvia
LUX: Luxembourg
MEX: Mexico
NLD: Netherlands
NZL: New Zealand
NOR: Norway
POL: Poland
PRT: Portugal
SVK: Slovak Republic
SVN: Slovenia
ESP: Spain
SWE: Sweden
CHE: Switzerland
TUR: Turkey
GBR: United Kingdom
USA: United States
ARG: Argentina
BRA: Brazil
BRN: Brunei Darussalam
BGR: Bulgaria
KHM: Cambodia
CHN: China (People's Republic of) COL: Colombia
CRI: Costa Rica
HRV: Croatia
CYP: Cyprus
HKG: Hong Kong, China
IND: India
IDN: Indonesia
LTU: Lithuania
MYS: Malaysia
MLT: Malta
MAR: Morocco
PER: Peru
PHL: Philippines
ROU: Romania
RUS: Russian Federation
SAU: Saudi Arabia
SGP: Singapore
ZAF: South Africa
TWN: Chinese Taipei
THA: Thailand
TUN: Tunisia
VNM: Viet Nam 24.0% 34.7% 10.7%
Figura 9: Contenuto di valore aggiunto straniero nelle esportazioni (in % delle esportazioni totalidel Paese). Settore manifatturiero.
Fonte: elaborazione su dati TiVA (OECD-WTO).
48
25
Figura 10: Indice di partecipazione nelle GVC nei paesi OECD (nel 2009).
Quota % di inputs stranieri nelle esportazioni domestiche lorde (backward participation) ed input domestici nelleesportazioni lorde dei paesi terzi (forward participation).
Fonte: Backer e Miroudot (2013).
49
0,0%
5,0%
10,0%
15,0%
20,0%
25,0%
30,0%
35,0%
40,0%
45,0%
50,0%
1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011
CHN: China (People's Republic of) DEU: Germany IND: India
ITA: Italy JPN: Japan KOR: Korea
NLD: Netherlands GBR: United Kingdom USA: United States
Figura 11: Commercio di valore aggiunto straniero in % del commercio mondiale di valore aggiuntostraniero.
Fonte: elaborazione su dati TiVA (OECD-WTO).
0%
5%
10%
15%
20%
25%
30%
35%
40%
0
5000000
10000000
15000000
20000000
25000000
1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011
World Trade in foreign value added (milioni di $) World Trade (milioni di $) % of World Trade
Figura 12: Commercio mondiale di valore aggiunto straniero e commercio totale di beni e servizi.
Fonte: elaborazione su dati TiVA (OECD-WTO) e World Development Indicators (World Bank).
50
Figura 13: Contenuto di valore aggiunto straniero nelle esportazioni (in % delle esportazioni totali),per aree geografiche.
Fonte: OECD (2013) su dati TiVA (OECD-WTO).
51
29
Contenuto di valore aggiunto straniero nelle esportazioni (in % delle esportazioni totali)
Source: OECD/WTO (2013), OECD-WTO: Statistics on Trade in Value Added, (database), accessed April 2013.
Figura 14: Contenuto di valore aggiunto straniero nelle esportazioni (in % delle esportazioni totali),per settore.
Fonte: OECD (2013) su dati TiVA (OECD-WTO).
52
32Source: UNCTAD-Eora GVC Database, UNCTAD FDI Database.
Sector composition of global gross exports, value added trade, and FDI stock, 2010
Figura 15: Composizione settoriale di esportazioni lorde totali, commercio di valore aggiunto estock di FDI (2010).
Fonte: UNCTAD (2013) su dati UNCTAD-Eora GVC Database, UNCTAD - FDI database.
53
0
5
10
15
20
25
30
35
40
45
50
1960
1961
1962
1963
1964
1965
1966
1967
1968
1969
1970
1971
1972
1973
1974
1975
1976
1977
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
2016
East Asia & Pacific European Union World United States
Figura 16: Esportazioni di beni e servizi (in % del PIL), 1960-2016.
Fonte: elaborazione su dati World Bank - World Development Indicators.
54
Tabella B.3 Figura 17: Principali paesi esportatori di beni (miliardi di dollari), 1980-2011.
Fonte: WTO (2013).
55
Tabella B.4 Figura 18: Principali paesi importatori di beni (miliardi di dollari), 1980-2011.
Fonte: WTO (2013).
56
Figura B.5
Figura 19: Quote % nelle esportazioni mondiali di beni, 1980-2011.
Fonte: WTO (2013).
Figura B.6 Figura 20: Quote % nelle importazioni mondiali di beni, 1980-2011.
Fonte: WTO (2013).
57
‐8
‐6
‐4
‐2
0
2
4
61960
1961
1962
1963
1964
1965
1966
1967
1968
1969
1970
1971
1972
1973
1974
1975
1976
1977
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
East Asia & Pacific European Union United States
Figura 21: Bilancia commerciale beni e servizi (% del PIL).
Fonte: elaborazione su dati World Bank - World Development Indicators (2017).
‐1000000
‐800000
‐600000
‐400000
‐200000
0
200000
400000
600000
1960
1961
1962
1963
1964
1965
1966
1967
1968
1969
1970
1971
1972
1973
1974
1975
1976
1977
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
China Germany India Italy Japan Korea, Dem. People’s Rep. Netherlands United Kingdom United States
Figura 22: Bilancia commerciale beni e servizi (% del PIL).
Fonte: elaborazione su dati World Bank - World Development Indicators (2017).
58
world trade report 2013
86
FigureB.23:Bilateral trade balances measured in gross and value-added terms, 2008
United States
-10 -5 0 5US$ billions
10 15 20
Mexico
China
France
Germany
Brazil
United States
-100 -50 0 50US$ billions
150 200 250
UnitedKingdom
Germany
Japan
Korea, Rep. of
100
China
United States
-20 -10 0 10US$ billions
30 50 70
Canada
Spain
France
Germany
20 40 60
Mexico
Spain
-250 -200 -150 -100US$ billions
0 50
Korea, Rep. of
Japan
Mexico
China
-50
United States
Trade balance in value-added termsTrade balance in gross terms
United States
-6 -4 -2 0US$ billions
4 8
Netherlands
China
Hong Kong,China
Singapore
2 6
India
UnitedKingdom
-8 -6 -4 -2US$ billions
2 4
Japan
Germany
United States
China
0
South Africa
Italy
0 5 10 15US$ billions
20 25 30
Spain
France
United States
UnitedKingdom
Germany
China
-30 -20 -10 0US$ billions
40 50 60
Taipei, Chinese
United States
Germany
Japan
20 3010
Republic of Korea
Sources:WTOSecretariatestimatesbasedonOECDICIOdata.
Figura 23: Bilancia commerciale bilaterale misurata in termini di valore aggiunto lordo e netto,2008.
Fonte: WTO (2013).
59
00%
05%
10%
15%
20%
25%
30%
35%
40%
45%
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
Beverages and tobacco
Crude materials, inedible, except fuels
Mineral fuels, lubricants and related materials
Animal and vegetable oils, fats and waxes
Chemicals and related products, nes
Manufactured goods classified chiefly by materials
Machinery and transport equipment
Miscellaneous manufactured articles
Commodities and transactions not classified elsewhere inthe SITC
Figura 24: Quote settoriali nel commercio mondiale di beni manifatturieri.
Fonte: elaborazione su dati Comtrade (United Nations).
00%
05%
10%
15%
20%
25%
2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015
Transportation
Communications services
Construction services
Insurance services
Financial services
Computer and information services
Other business services
Personal, cultural, and recreational services
Figura 25: Quote settoriali nel commercio mondiale di servizi.
Fonte: elaborazione su dati Comtrade (United Nations).
60
Figura B.12
Figura 26: Contributo % del margine estensivo e del margine intensivo alla crescita del commerciomondiale di beni manifatturieri.
Fonte: WTO (2013).
Figura B.8
Figura 27: Quote % di esportazioni ‘Nord-Nord’, ‘Sud-Sud’, e ‘Nord-Sud’ rispetto esportazionimondiali, 1980-2011.
Fonte: WTO (2013).
61
Figura B.15a
Figura 28: Quota % del commercio mondiale tra regioni geografiche, 1990.
Fonte: WTO (2013).
Figura B.15b
Figura 29: Quota % del commercio mondiale tra regioni geografiche, 2011.
Fonte: WTO (2013).
62
Figura B.14
Figura 30: Esportazioni intra-regionali ed extra-regionali di beni manufatti nelle regioni del WTO(miliardi di dollari e %), 1990-2011.
Fonte: WTO (2013).
63
Tabella B.9 Figura 31: Grado di diversificazione delle esportazioni del settore manifatturiero (indice diHerfindahl-Hirschmann): 0 = diversificazione nulla, +1 = completa diversificazione.
Fonte: WTO (2013).
64
Sector Countries that increase in specialization Countries that decrease in specialization
(1990-2010) (1990-2010)
Agricultural productsBrazil; Germany; Greece; Indonesia; Italy; Japan; New Zealand; Spain; Switzerland
Australia; China; Czech Republic; Hong Kong, China; Hungary; Ireland; Mexico; Singapore; Turkey
Fuels and mining productsAustralia; Brazil; Canada; Denmark; Finland; Iceland; India; Thailand; United States
China; Czech Republic; Indonesia; Ireland; Hungary; Malaysia; Mexico; Poland; Singapore; Slovak Republic
ManufacturesChile; China; France; Hungary; Malaysia; Mexico; Poland; Singapore; Thailand; Turkey
Australia; Brazil; Canada; Finland; India; Norway; Russian Federation; South Africa; Sweden; United Kingdom
Iron and steelCanada; Estonia; Finland; India; Italy; Japan; Malaysia; Portugal; Thailand; United States
Australia; Brazil; Czech Republic; Hungary; Ireland; Mexico; Norway; Poland; Russian Federation; Slovak Republic
ChemicalsGreece; Iceland; Indonesia; Ireland; Italy; Japan; Republic of Korea; Malaysia; Singapore; Thailand
China; Czech Republic; Estonia; Hong Kong, China; Hungary; Mexico; Norway; Russian Federation; Slovak Republic; South Africa
Office and telecom equipment
Chile; China; Czech Republic; Greece; Hungary; Hong Kong, China; Indonesia; Mexico; Poland; Slovak Republic; Chile; Czech Republic; India; Indonesia; Republic
Australia; Austria; Brazil; Canada; Ireland; Italy; Japan; Russian Federation; Switzerland; United Kingdom
Automotive productsof Korea; Poland; Slovak Republic; South Africa; Thailand; Turkey
Australia; Canada; China; Estonia; Netherlands; Norway; Russian Federation; Sweden
Other machineryChile; China; Estonia; Greece; Iceland; Indonesia; Republic of Korea; Mexico; Thailand; Turkey
Australia; Germany; Ireland; Israel; Poland; Russian Federation; Spain; Sweden; Switzerland; United Kingdom
TextilesCanada; Chile; Israel; Italy; Malaysia; New Zealand; Slovenia; Spain; Turkey; United States; Canada; Chile; Denmark; France; Mexico;
Australia; Brazil; Estonia; Ireland; Republic of Korea; Russian Federation; Singapore; Slovak Republic; South Africa; Switzerland; Brazil; Hungary; Iceland; Israel; Republic of Korea;
ClothingNetherlands; New Zealand; Spain; Sweden; United Kingdom
Russian Federation; Singapore; Slovenia; South Africa; Thailand
Figura 32: Evoluzione del grado di specializzazione (indice di Balassa), 1990-2010.
Fonte: WTO (2013).
65
Tabella B.8
Figura 33: Indice medio di Grubel-Lloyd (GL) tra settori per economie selezionate, 1996-2011:0 = assenza di commercio intra-settoriale, +1 = massimo livello di commercio intra-settoriale.
Fonte: WTO (2013).
66
Figura 34: Distribuzione Geografica degli FDI, 1914-1996.
Fonte: Baldwin and Martin (1999) su dati Dunning (1983) e UNCTAD - FDI database.
0
200000
400000
600000
800000
1000000
1200000
1400000
1600000
1800000
2000000
1970
1971
1972
1973
1974
1975
1976
1977
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
FDI M&A
Figura 35: Flussi mondiali (in valore) di FDI e M&A.
Fonte: elaborazione su dati UNCTAD - FDI database.
67
Global inward FDI stock, sectoral distribution by grouping and region, 2014 (Per cent)
Figura 36: Stock mondiale di FDI (in valore) in entrata, distribuzione settoriale-regionale (valori%), 2014.
Fonte: UNCTAD (2016).
Inward FDI
0
10
20
30
40
50
60
70
80
90
100
1970
1971
1972
1973
1974
1975
1976
1977
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
Developing economies Transition economies Developed economies
Figura 37: Flussi di FDI in entrata in % dei flussi mondiali.
Fonte: elaborazione su dati UNCTAD - FDI database.
68
Outward FDI
0
20
40
60
80
100
120
1970
1971
1972
1973
1974
1975
1976
1977
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
Developing economies Transition economies Developed economies
Figura 38: Flussi di FDI in uscita in % dei flussi mondiali.
Fonte: elaborazione su dati UNCTAD - FDI database.
69
0
10
20
30
40
50
60
1970
1971
1972
1973
1974
1975
1976
1977
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
United States EU15
Figura 39: Flussi di FDI in entrata in % dei flussi mondiali. US e EU.
Fonte: elaborazione su dati UNCTAD - FDI database.
70
‐2
0
2
4
6
8
10
12
14
16
18
1970
1971
1972
1973
1974
1975
1976
1977
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
China India ASIAN TIGERS Japan
Figura 40: Flussi di FDI in entrata in % dei flussi mondiali. Paesi asiatici.
Fonte: elaborazione su dati UNCTAD - FDI database.
0
10000
20000
30000
40000
50000
60000
70000
1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990
Japan (FDI outward) European countries (FDI inward)
Figura 41: Flussi di FDI in Giappone ed Europa negli anni ’80.
Fonte: elaborazione su dati UNCTAD - FDI database.
71
0%
10%
20%
30%
40%
50%
60%
70%
80%
90%
100%
0%
20%
40%
60%
80%
100%
120%
Developed economies Developing economies
Figura 42: Flussi di M&A (in valore) in entrata - i.e. vendite - (riquadro superiore) ed in uscita -i.e. acquisizioni - (riquadro inferiore) in % del totale mondiale.
Fonte: elaborazione su dati UNCTAD - FDI database.
72
0%
10%
20%
30%
40%
50%
60%
70%
80%
90%
100%
0%
10%
20%
30%
40%
50%
60%
70%
80%
90%
100%
Developed economies Developing economies
Figura 43: Flussi di M&A (in numero) in entrata - i.e. vendite - (riquadro superiore) ed in uscita- i.e. acquisizioni - (riquadro inferiore) in % del totale mondiale.
Fonte: elaborazione su dati UNCTAD - FDI database.
73
0%
10%
20%
30%
40%
50%
60%
70%
80%
‐20%
‐10%
0%
10%
20%
30%
40%
50%
60%
70%
80%
European Union United States
Figura 44: Flussi di M&A (in valore) in entrata - i.e. vendite - (riquadro superiore) ed in uscita -i.e. acquisizioni - (riquadro inferiore) in % del totale mondiale. US e EU.
Fonte: elaborazione su dati UNCTAD - FDI database.
74
‐4%
‐2%
0%
2%
4%
6%
8%
10%
12%
14%
‐5%
0%
5%
10%
15%
20%
25%
30%
35%
China India ASIAN TIGERS Japan
Figura 45: Flussi di M&A (in valore) in entrata - i.e. vendite - (riquadro superiore) ed in uscita -i.e. acquisizioni - (riquadro inferiore) in % del totale mondiale. Paesi asiatici.
Fonte: elaborazione su dati UNCTAD - FDI database.
75
Developed CountriesDeveloping Countries
Figura 46: Valore delle cross-border MA nel settore manifatturiero, per gruppi di paesi, 2015(miliardi di dollari).
Fonte: UNCTAD (2016).
76
2008 2009 2010 2011 2012 2013
World 78.9% 79.5% 79.2% 83.8% 85.0% 85.5%
Italy 84.6% ‐ ‐ 89.7% ‐ 91.7%
Europe 80.1% 80.9% 80.7% 82.5% 82.1% 81.8%
South America 73.5% ‐ 75.5% ‐ ‐ ‐
Brazil 71.3% 65.8% 73.6% 83.2% 84.9% 83.0%
Near and Middle East 72.1% 75.0% 78.6% 85.2% ‐ ‐
Other Asian countries 87.6% 85.8% 86.5% 85.8% 86.7% 85.4%
China 84.9% 79.4% 80.1% 83.0% 85.1% 83.2%
Africa 85.3% 89.1% 71.4% 77.8% ‐ ‐
World 9.8% 10.1% 9.7% 9.4% 9.5% 9.3%
World 12.4% 12.7% 12.2% 11.3% 11.2% 10.8%
World 81.7% 83.4% 84.3% 81.9% 84.7% 84.1%
Italy 80.5% 79.8% 88.7% - 82.5% 88.4%
Europe 80.0% 81.5% 84.8% 79.7% 81.0% 78.3%
South America 82.0% ‐ 90.2% ‐ ‐ ‐
Brazil 85.1% 77.3% 80.3% ‐ ‐ 85.0%
Near and Middle East 88.4% ‐ ‐ ‐ ‐ ‐
Other Asian countries 86.0% ‐ ‐ 80.4% ‐ ‐
China 87.8% 86.6% ‐ 82.2% 81.7% ‐
Africa 99.3% ‐ ‐ ‐ ‐ ‐
World 8.6% 9.8% 9.2% 8.6% 8.8% 8.6%
World 10.5% 11.7% 10.9% 10.5% 10.4% 10.2%
Esportazioni intra-gruppo (verso) in % delle esportazioni totali delle MNE (verso):
Esportazioni intra-gruppo in % delle esportazioni totali US
Esportazioni delle MNE in % delle esportazioni totali US
Importazioni intra-gruppo (da) in % delle importazioni totali delle MNE (da):
Importazioni intra-gruppo in % delle esportazioni totali US
Importazioni delle MNE in % delle esportazioni totali US
Figura 47: Gli scambi intra-gruppo nell’ambito del commercio internazionale di beni e servizi degliUSA.
Fonte: elaborazione su dati OECD.
77
40
Figura 48: Componenti di valore aggiunto nelle esportazioni lorde italiane in % delle esportazionilorde totali (pannello superiore) ed in variazione % annua (pannello inferiore).
Fonte: OECD (2017).
78
45
Figura 2.1: Contenuto di valore aggiunto straniero nelle esportazioni lorde dei principali paesi, anni 2008,2009 e 2011
(inserto in alto a destra = serie temporale per l’Italia dal 1995 al 2011) Fonte: OECD - WTO (2015) Figura 49: Valore aggiunto straniero nelle esportazioni lorde (valori percentuali). Riquadro: serietemporale Italia.
Fonte: OECD (2015).
50
Figura 3.1: Produzione interna di valore aggiunto nella domanda finale estera per i principali paesi, anni 2008,2009 e 2011
(in % sul totale della produzione di valore aggiunto) (inserto in alto a sinistra = serie temporale per l’Italia)
Fonte: OECD – WTO (2015)
Figura 50: Valore aggiunto italiano nella domanda finale straniera (valori percentuali, settoremanifatturiero). Riquadro: serie temporale Italia.
Fonte: OECD (2015).
79
51
Figura 51: Valore aggiunto domestico nella domanda finale straniera (valori percentuali), persettore.
Fonte: OECD (2015).
80
Figura 52: Valore aggiunto straniero nei consumi finali domestici (valori percentuali, 2011).
Fonte: OECD (2015).
8
13
18
23
28
33
1960
1961
1962
1963
1964
1965
1966
1967
1968
1969
1970
1971
1972
1973
1974
1975
1976
1977
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
Exports of goods and services (% of GDP) Imports of goods and services (% of GDP)
Figura 53: Esportazioni ed importazioni di beni e servizi in Italia.
Fonte: elaborazione su dati World Development Indicators (World Bank).
81
‐5
‐4
‐3
‐2
‐1
0
1
2
3
4
5
1960
1961
1962
1963
1964
1965
1966
1967
1968
1969
1970
1971
1972
1973
1974
1975
1976
1977
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
Figura 54: Bilancia commerciale italiana di beni e servizi.
Fonte: elaborazione su dati World Development Indicators (World Bank).
82
00%
05%
10%
15%
20%
25%
30%
35%
40%
45%
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
00%
02%
04%
06%
08%
10%
12%
14%
16%
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
Beverages and tobacco Crude materials, inedible, except fuels
Mineral fuels, lubricants and related materials Animal and vegetable oils, fats and waxes
Chemicals and related products, nes Manufactured goods classified chiefly by materials
Machinery and transport equipment Miscellaneous manufactured articles
Figura 55: Esportazioni italiane nel settore manifatturiero in % delle esportazioni manifatturiereitaliane (pannello superiore) ed in % delle esportazioni manifatturiere mondiali (pannello inferiore).
Fonte: elaborazione su dati Comtrade (United Nations).
83
00%
05%
10%
15%
20%
25%
30%
35%
40%1
97
81
97
91
98
01
98
11
98
21
98
31
98
41
98
51
98
61
98
71
98
81
98
91
99
01
99
11
99
21
99
31
99
41
99
51
99
61
99
71
99
81
99
92
00
02
00
12
00
22
00
32
00
42
00
52
00
62
00
72
00
82
00
92
01
02
01
12
01
22
01
32
01
42
01
5
00%
02%
04%
06%
08%
10%
12%
14%
19
78
19
79
19
80
19
81
19
82
19
83
19
84
19
85
19
86
19
87
19
88
19
89
19
90
19
91
19
92
19
93
19
94
19
95
19
96
19
97
19
98
19
99
20
00
20
01
20
02
20
03
20
04
20
05
20
06
20
07
20
08
20
09
20
10
20
11
20
12
20
13
20
14
20
15
Beverages and tobacco Crude materials, inedible, except fuels
Mineral fuels, lubricants and related materials Animal and vegetable oils, fats and waxes
Chemicals and related products, nes Manufactured goods classified chiefly by materials
Machinery and transport equipment Miscellaneous manufactured articles
Figura 56: Importazioni italiane nel settore manifatturiero in % delle importazioni manifatturiereitaliane (pannello superiore) ed in % delle importazioni manifatturiere mondiali (pannello inferiore).
Fonte: elaborazione su dati Comtrade (United Nations).
84
00%
05%
10%
15%
20%
25%
30%
35%
2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015
00%
01%
02%
03%
04%
05%
06%
07%
2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015
Transportation Communications services
Construction services Insurance services
Financial services Computer and information services
Other business services Personal, cultural, and recreational services
Figura 57: Esportazioni italiane di servizi in % delle esportazioni italiane di servizi (pannellosuperiore) ed in % delle esportazioni mondiali di servizi (pannello inferiore).
Fonte: elaborazione su dati Comtrade (United Nations).
85
00%
05%
10%
15%
20%
25%
30%
35%
40%
2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015
00%
01%
02%
03%
04%
05%
06%
07%
08%
09%
2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015
Transportation Communications services
Construction services Insurance services
Financial services Computer and information services
Other business services Personal, cultural, and recreational services
Figura 58: Importazioni italiane di servizi in % delle importazioni italiane di servizi (pannellosuperiore) ed in % delle importazioni mondiali di servizi (pannello inferiore).
Fonte: elaborazione su dati Comtrade (United Nations).
86
37
( per esempio il +12% del 2006 e il -18% del 2007 dell’Olanda), arrivando nel 2015 pressocchè agli
stessi livelli del 2-3% (Grafico 1.10).
‐1
0
1
2
3
4
5
Foreign direct investment, net inflows (% of GDP)
Foreign direct investment, net outflows (% of GDP)
Figura 59: Flussi netti di FDI in entrata ed in uscita in Italia (% del PIL).
Fonte: elaborazione su dati World Development Indicators (World Bank).
‐2
0
2
4
6
8
10
1970
1971
1972
1973
1974
1975
1976
1977
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
EUU ITA USA
Figura 60: Flussi netti di FDI in entrata (% del PIL): confronto ITA con EU ed USA.
Fonte: elaborazione su dati World Development Indicators (World Bank).
87
0
2
4
6
8
10
121970
1971
1972
1973
1974
1975
1976
1977
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
EUU ITA USA
Figura 61: Flussi netti di FDI in uscita (% del PIL): confronto ITA con Unione Europea ed USA.
Fonte: elaborazione su dati World Development Indicators (World Bank).
‐10%
0%
10%
20%
30%
40%
50%
60%
70%
80%
European Union Italy
Figura 62: Flussi (in valore) di M&A in entrata (vendite) in % del PIL: confronto ITA con EU.
Fonte: elaborazione su dati UNCTAD.
88
‐5%
0%
5%
10%
15%
20%
25%
30%
35%
Italy Germany United Kingdom
Figura 63: Flussi (in valore) di M&A in entrata (vendite) in % del PIL: confronto ITA con Germaniae Regno Unito.
Fonte: elaborazione su dati UNCTAD.
2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014
Esportazioni intra‐gruppo in % delle esportazioni totali delle MNE ‐ manufacturing 44.6% 46.0% 42.9% 45.2% 43.0% 40.9% 46.2%Esportazioni intra‐gruppo in % delle esportazioni totali delle MNE ‐ services 33.1% 39.0% 43.7% 34.3% 22.6% 26.3% 21.4%
Importazioni intra‐gruppo in % delle importazioni totali delle MNE ‐ manufacturing 50.9% 44.1% 46.7% 49.3% 50.1% 58.5% 53.5%Importazioni intra‐gruppo in % delle importazioni totali delle MNE ‐ services 75.9% 60.0% 56.3% 63.2% 60.0% 55.4% 61.8%
Esportazioni intra‐gruppo in % delle esportazioni totali ITA 8.9% 10.8% 10.1% 10.4% 9.6% 9.7% 11.0%Importazioni intra‐gruppo in % delle importazioni totali ITA 4.2% 4.1% 3.8% 4.0% 3.5% 3.6% 3.5%
20.7% 24.2% 23.4% 24.1% 24.4% 24.7% 25.8%Esportazioni delle MNE in % delle esportazioni totali ITA Importazioni delle MNE in % delle importazioni totali ITA 6.4% 7.7% 7.3% 7.0% 6.4% 6.2% 6.0%
Figura 64: Gli scambi intra-gruppo nell’ambito del commercio internazionale di beni e servizidell’Italia.
Fonte: elaborazione su dati OECD.
89
Elenco delle figure
1 Ondate di globalizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45
2 Costi di Trasporto vs Costi di Comunicazione, 1920-1950. . . . . . . . . . . . . . . 45
3 Livelli di industrializzazione pro capite, 1750-1913. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46
4 Distribuzione mondiale del reddito nel 1960 e nel 1988. . . . . . . . . . . . . . . . . 46
5 Quote settoriali nelle esportazioni mondiali di beni dal 1990 (valori %). . . . . . . 47
6 Strategie di outsourcing ed offshoring. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47
7 Esempio di GVC nell’industria elettronica: l’iPhone 4. . . . . . . . . . . . . . . . . 48
8 ‘Trade in Value Added’ e fenomeno del ‘double counting’. . . . . . . . . . . . . . . 48
9 Contenuto di valore aggiunto straniero nelle esportazioni (in % delle esportazioni
totali del Paese). Settore manifatturiero. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49
10 Indice di partecipazione nelle GVC nei paesi OECD (nel 2009). . . . . . . . . . . . 50
11 Commercio di valore aggiunto straniero in % del commercio mondiale di valore
aggiunto straniero. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51
12 Commercio mondiale di valore aggiunto straniero e commercio totale di beni e servizi. 51
13 Contenuto di valore aggiunto straniero nelle esportazioni (in % delle esportazioni
totali), per aree geografiche. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52
14 Contenuto di valore aggiunto straniero nelle esportazioni (in % delle esportazioni
totali), per settore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53
15 Composizione settoriale di esportazioni lorde totali, commercio di valore aggiunto e
stock di FDI (2010). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54
16 Esportazioni di beni e servizi (in % del PIL), 1960-2016. . . . . . . . . . . . . . . . 55
17 Principali paesi esportatori di beni (miliardi di dollari), 1980-2011. . . . . . . . . . 56
18 Principali paesi importatori di beni (miliardi di dollari), 1980-2011. . . . . . . . . . 57
19 Quote % nelle esportazioni mondiali di beni, 1980-2011. . . . . . . . . . . . . . . . 58
20 Quote % nelle importazioni mondiali di beni, 1980-2011. . . . . . . . . . . . . . . . 58
21 Bilancia commerciale beni e servizi (% del PIL). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59
90
22 Bilancia commerciale beni e servizi (% del PIL). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59
23 Bilancia commerciale bilaterale misurata in termini di valore aggiunto lordo e netto,
2008. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 60
24 Quote settoriali nel commercio mondiale di beni manifatturieri. . . . . . . . . . . . 61
25 Quote settoriali nel commercio mondiale di servizi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61
26 Contributo % del margine estensivo e del margine intensivo alla crescita del com-
mercio mondiale di beni manifatturieri. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 62
27 Quote % di esportazioni ‘Nord-Nord’, ‘Sud-Sud’, e ‘Nord-Sud’ rispetto esportazioni
mondiali, 1980-2011. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 62
28 Quota % del commercio mondiale tra regioni geografiche, 1990. . . . . . . . . . . . 63
29 Quota % del commercio mondiale tra regioni geografiche, 2011. . . . . . . . . . . . 63
30 Esportazioni intra-regionali ed extra-regionali di beni manufatti nelle regioni del
WTO (miliardi di dollari e %), 1990-2011. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 64
31 Grado di diversificazione delle esportazioni del settore manifatturiero (indice di
Herfindahl-Hirschmann): 0 = diversificazione nulla, +1 = completa diversificazione. 65
32 Evoluzione del grado di specializzazione (indice di Balassa), 1990-2010. . . . . . . . 66
33 Indice medio di Grubel-Lloyd (GL) tra settori per economie selezionate, 1996-2011:
0 = assenza di commercio intra-settoriale, +1 = massimo livello di commercio intra-
settoriale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67
34 Distribuzione Geografica degli FDI, 1914-1996. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68
35 Flussi mondiali (in valore) di FDI e M&A. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68
36 Stock mondiale di FDI (in valore) in entrata, distribuzione settoriale-regionale (va-
lori %), 2014. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 69
37 Flussi di FDI in entrata in % dei flussi mondiali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 69
38 Flussi di FDI in uscita in % dei flussi mondiali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 70
39 Flussi di FDI in entrata in % dei flussi mondiali. US e EU. . . . . . . . . . . . . . 71
40 Flussi di FDI in entrata in % dei flussi mondiali. Paesi asiatici. . . . . . . . . . . . 72
41 Flussi di FDI in Giappone ed Europa negli anni ’80. . . . . . . . . . . . . . . . . . 72
42 Flussi di M&A (in valore) in entrata - i.e. vendite - (riquadro superiore) ed in uscita
- i.e. acquisizioni - (riquadro inferiore) in % del totale mondiale. . . . . . . . . . . 73
43 Flussi di M&A (in numero) in entrata - i.e. vendite - (riquadro superiore) ed in
uscita - i.e. acquisizioni - (riquadro inferiore) in % del totale mondiale. . . . . . . . 74
44 Flussi di M&A (in valore) in entrata - i.e. vendite - (riquadro superiore) ed in uscita
- i.e. acquisizioni - (riquadro inferiore) in % del totale mondiale. US e EU. . . . . . 75
91
45 Flussi di M&A (in valore) in entrata - i.e. vendite - (riquadro superiore) ed in uscita
- i.e. acquisizioni - (riquadro inferiore) in % del totale mondiale. Paesi asiatici. . . 76
46 Valore delle cross-border MA nel settore manifatturiero, per gruppi di paesi, 2015
(miliardi di dollari). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77
47 Gli scambi intra-gruppo nell’ambito del commercio internazionale di beni e servizi
degli USA. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 78
48 Componenti di valore aggiunto nelle esportazioni lorde italiane in % delle esporta-
zioni lorde totali (pannello superiore) ed in variazione % annua (pannello inferiore). 79
49 Valore aggiunto straniero nelle esportazioni lorde (valori percentuali). Riquadro:
serie temporale Italia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 80
50 Valore aggiunto italiano nella domanda finale straniera (valori percentuali, settore
manifatturiero). Riquadro: serie temporale Italia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 80
51 Valore aggiunto domestico nella domanda finale straniera (valori percentuali), per
settore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81
52 Valore aggiunto straniero nei consumi finali domestici (valori percentuali, 2011). . . 82
53 Esportazioni ed importazioni di beni e servizi in Italia. . . . . . . . . . . . . . . . . 82
54 Bilancia commerciale italiana di beni e servizi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83
55 Esportazioni italiane nel settore manifatturiero in % delle esportazioni manifattu-
riere italiane (pannello superiore) ed in % delle esportazioni manifatturiere mondiali
(pannello inferiore). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 84
56 Importazioni italiane nel settore manifatturiero in % delle importazioni manifattu-
riere italiane (pannello superiore) ed in % delle importazioni manifatturiere mondiali
(pannello inferiore). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 85
57 Esportazioni italiane di servizi in % delle esportazioni italiane di servizi (pannello
superiore) ed in % delle esportazioni mondiali di servizi (pannello inferiore). . . . . 86
58 Importazioni italiane di servizi in % delle importazioni italiane di servizi (pannello
superiore) ed in % delle importazioni mondiali di servizi (pannello inferiore). . . . 87
59 Flussi netti di FDI in entrata ed in uscita in Italia (% del PIL). . . . . . . . . . . . 88
60 Flussi netti di FDI in entrata (% del PIL): confronto ITA con EU ed USA. . . . . 88
61 Flussi netti di FDI in uscita (% del PIL): confronto ITA con Unione Europea ed USA. 89
62 Flussi (in valore) di M&A in entrata (vendite) in % del PIL: confronto ITA con EU. 89
63 Flussi (in valore) di M&A in entrata (vendite) in % del PIL: confronto ITA con
Germania e Regno Unito. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 90
64 Gli scambi intra-gruppo nell’ambito del commercio internazionale di beni e servizi
dell’Italia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 90
92