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UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI MILANO-BICOCCA · anthropology carried out in the social context which...

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UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI MILANO-BICOCCA Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa” Corso di Laurea Magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche DARE RICEVERE CONVIVERE. L’OBBLIGATORIETÀ DEL DONO DECOSTRUITA ALL’INTERNO DEL PROGETTO TANDEM Relatore: Prof.ssa Barbara PINELLI Correlatore: Prof.ssa Chiara MARCHETTI Tesi di Laurea di: Eleonora Nicoletta BONARIVA Matricola 796642 Anno Accademico 2015/2016
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UNIVERSITÁDEGLISTUDIDIMILANO-BICOCCADipartimentodiScienzeUmaneperlaFormazione“RiccardoMassa”

CorsodiLaureaMagistraleinScienzeAntropologicheedEtnologiche

DARERICEVERECONVIVERE.

L’OBBLIGATORIETÀDELDONODECOSTRUITAALL’INTERNODEL

PROGETTOTANDEM

Relatore:Prof.ssaBarbaraPINELLI

Correlatore:Prof.ssaChiaraMARCHETTI

TesidiLaureadi:

EleonoraNicoletta

BONARIVA

Matricola796642

AnnoAccademico2015/2016

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Indice

Introduzione .................................................................................................. 5 Premessa sul dono ..................................................................................... 14 PARTE I: DARE .......................................................................................... 19 Capitolo primo: il dono concesso ................................................................ 19 1.1 Rifugiato ............................................................................................... 19 1.1.1 Precisazioni ..................................................................................... 22 1.1.2 Da eroe a vittima ............................................................................. 27 1.2 Una questione di status… .................................................................... 30 1.3 …e di confini ......................................................................................... 34 1.3.1 Esternalizzazione dei confini ........................................................... 36 1.3.2 Meccanismi e pratiche di confine .................................................... 40 1.4 La fortezza Europa ............................................................................... 45 1.4.1 La nuova politica della fortezza ....................................................... 47 1.5 Lo spettacolo della criminalizzazione ................................................... 57 1.6 Il dono concesso ................................................................................... 59 PARTE II: RICEVERE ................................................................................ 64 Capitolo secondo: il dono umanitario ......................................................... 64 2.1 L’accoglienza in Italia ........................................................................... 64 2.1.1 Protezioni ......................................................................................... 65 2.1.2 Voci .................................................................................................. 67 2.1.3 Tra attese e abbandono .................................................................. 70 2.1.4 Un puzzle di strutture ....................................................................... 73 2.1.5 Campo: tra controllo e assistenza…umanitaria? ............................. 76 2.2 Soggettività costruite ............................................................................ 81 2.3 Il dono umanitario ................................................................................. 85 PARTE III: CONVIVERE ............................................................................ 89 Capitolo terzo: Il dono decostruito .............................................................. 89 3.1 Parma e il Ciac ..................................................................................... 89 3.2 Tandem ................................................................................................ 93 3.3 La ricerca .............................................................................................. 96 3.4 Casa Rondani ..................................................................................... 100 3.4.1 Pedro ............................................................................................. 101 3.4.2 Ahmed ........................................................................................... 106 3.4.3 Tommaso ....................................................................................... 111 3.4.4 Lorenzo .......................................................................................... 113 3.5 Casa Saffi ........................................................................................... 114 3.5.1 Mahamadou ................................................................................... 114

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3.5.2 Giammarco .................................................................................... 117 3.5.3 Zadran ........................................................................................... 118 3.6 E le donne? ........................................................................................ 119 3.7 Agency ................................................................................................ 122 3.8 L’informalità della convivenza ............................................................. 130 3.9 L’obbligatorietà decostruita: incomprensioni, restituzioni e legami ..... 134 Conclusioni ............................................................................................... 139 Ringraziamenti .......................................................................................... 144 Riferimenti bibliografici ............................................................................. 146 Sitografia .................................................................................................. 151

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A Pedro, Tommi, Ahmed, Lore, Mahamadou, Giamma, Zadran,

Isa e Chiara. Grazie per dimostrare ogni giorno

che un mondo diverso è possibile e realizzabile.

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Introduzione

«Questi migranti, non per scelta ma per atroce destino, ci ricordano quanto vulnerabili siano le nostre vite e il nostro benessere. Purtroppo è nell'istinto umano addossare la colpa alle vittime

delle sventure del mondo. E così, anche se siamo assolutamente impotenti a imbrigliare queste estreme dinamiche della globalizzazione, ci riduciamo a scaricare la nostra rabbia su quelli che

arrivano, per alleviare la nostra umiliante incapacità di resistere alla precarietà della nostra società. E nel frattempo alcuni politici o aspiranti tali, il cui unico pensiero sono i voti che

prenderanno alle prossime elezioni, continuano a speculare su queste ansie collettive, nonostante sappiano benissimo che non potranno mai mantenere le loro promesse. Ma una

cosa è certa: costruire muri al posto di ponti e chiudersi in 'stanze insonorizzate' non porterà ad altro che a una terra desolata, di separazione reciproca, che aggraverà soltanto i problemi».

Zygmunt Bauman

Calais, Idomeni, Ventimiglia, Messico, Ceuta, Melilla, Orbàn, Israele e

ancora Zimbabwe, Iran e Marocco: sono solo alcuni dei luoghi dove sono estati

eretti muri per contrastare l’immigrazione. Questo tempo storico è attraversato

da un paradosso: alla mobilità delle persone, delle merci e dei capitali si

affianca una forte politicizzazione delle migrazioni e una progressiva

regolamentazione delle politiche di accesso e accoglienza ai paesi di approdo.

Il controllo degli ingressi, i tentativi di salvaguardia e di esternalizzazione dei

confini nazionali, la propaganda dell’emergenza e dell’invasione, insieme a

politiche di vera e propria chiusura che sfociano nell’innalzamento di muri, sono

tutti provvedimenti che disciplinano la libertà di movimento degli individui e dei

gruppi. Le politiche degli stati europei sono sempre più restrittive e imbrigliate

spesso con una retorica securitaria, culturalista e nazionalista1. Il 2016 ha visto

l’inasprimento di quella che è stata definita “la crisi dei rifugiati” alla quale si

sono accompagnati dei tentativi risolutori che hanno provocato un

peggioramento delle condizioni di vita e di godimento attivo di diritti, di milioni

di rifugiati e richiedenti asilo che ancora lottano per trovare giustizia. È stato,

infatti, l’anno dell’affermazione – politica ed elettorale – di movimenti populisti,

tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, che hanno fatto della lotta contro

rifugiati e migranti uno dei loro cavalli di battaglia. A livello locale, le

ripercussioni si sono concretamente mostrate con atti di discriminazione e

talvolta di aggressione diretta verso migranti e rifugiati. È stato un anno di 1 Barbara Pinelli, 2011, Donne come le altre. Soggettività, relazioni e vita quotidiana nelle migrazioni delle donne verso l’Italia, Ed.it, p.64

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azioni, immagini e discorsi violenti. Concentrandosi quasi totalmente

sull’irregolarità, sul numero, sull’invasione, sulla minaccia e sul costo dei

migranti; evitando di far parlare i diretti interessati e dando decisamente poco

spazio ai loro problemi e difficoltà; la stampa e il discorso pubblico hanno

contribuito a costruire un’immagine negativa dello “straniero” e del fenomeno

migratorio che ha alimentato una vera e propria cultura razzista e xenofoba. In

questo clima è necessaria, se non urgente, una nuova prospettiva, un nuovo

sguardo che permetta di mettere «in relazione esperienze private con forze

macrostrutturali» 2 . La prospettiva antropologica, inserendo le vicende dei

soggetti in spazi sociali complessi, riesce a coniugare i vari livelli di analisi

restituendo una prospettiva olistica del fenomeno: «le singole società sono

interdipendenti e le loro caratteristiche interne devono essere comprese in

rapporto al sistema globale»3. L’antropologia delle migrazioni, occupandosi

delle sorti di quanti affrontano l’esperienza migratoria alla ricerca di un rifugio e

di condizioni di vita migliori, «ha il dovere di chiedere uno spazio di

riconoscimento per tali persone che non sia quello strumentalizzato dalla

retorica ufficiale che tende a demonizzare o vittimizzare i migranti»4. Spesso,

invero, non si tiene conto del fatto che “i migranti” non sono una categoria

astratta con determinate caratteristiche, ma soggetti, ognuno dei quali con

storie, forze, debolezze e sensibilità propri. Per evitare stigmatizzazioni,

dunque, bisogna offrire una lettura degli eventi differente, ma, per far questo, è

necessario avere uno sguardo d’insieme sulla storia: uno sguardo che sappia

vedere bene da lontano e lontano, che parta dall’incontro, che diventi un modo

di stare al mondo. Imprescindibili per lo sguardo antropologico sono il tempo e

la soggettività. L’esperienza etnografica, così come la migrazione, hanno una

dimensione processuale. La prima è caratterizzata dal tempo, non unico né

immediato, della ricerca e della scrittura etnografica. «È una processualità

dinamica e pervasiva che segna le modalità specifiche dell’apprendimento della

2 P. Burgois, 2008, Sofferenza e vulnerabilità socialmente strutturate, in Ugo Fabietti (diretto da), Annuario di Antropologia n.9/10 Violenza, Le Edizioni, p.114 3 Ugo Fabietti, Roberto Malighetti, Vincenzo Matera, 2002, Dal Tribale al Globale. Introduzione all’antropologia, Mondadori Bruno, p.45 4 Daria Settineri, 2013a, Uomini di troppo. Illegalità ed eccedenza a Ballarò (Palermo), in De Lauri Antonio, (a cura di), 2013, Antropologia giuridica. Temi e prospettive di ricerca, Mondadori, p.110

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conoscenza antropologia»5. Le temporalità etnografiche sono infatti molteplici e

interrelate tra loro in maniera complessa, rispecchiando, in questo modo anche

il dialogo che il ricercatore ha con le sue fonti, con i soggetti, con se stesso e

con la scrittura. La seconda è fatta di una storia passata, di un tempo presente

e di prospettive future. Nonostante la migrazione sia spesso fossilizzata nella

sua dimensione presente, il suo è un tempo processuale, insieme storico,

geografico, sociale e biografico. «L’arrivo, dunque, non rappresenta la

conclusione di un processo. Al contrario, la migrazione è fatta di un tempo più

complesso e dilatato, di un prima, di una storia che precede l’arrivo, di rotture e

desideri, e altrettanto di uno sguardo verso il futuro, di nuovi inizi e progetti»6.

La dimensione processuale è strettamente legata a quella della soggettività: «il

tempo ha a che fare con il tema del riconoscimento»7. Una ricerca etnografica

che non tiene in conto la processualità del tempo della migrazione, lo rende uno

strumento di potere capace di ridurre i processi identitari a soggettività

spersonalizzate e appiattite al tempo e status attuale. La soggettività «non deve

essere concepita come un’identità singola e fissa; deve essere vista invece

all’incrocio di una serie di posizioni che il soggetto occupa, alcune tra loro in

rapporto conflittuale o mutuamente contradditorio, e a loro volta prodotte

attraverso differenti discorsi»8. L’etnografia, permettendo una visione che va al

di là dei linguaggi dominanti, riesce a cogliere fratture, ambiguità e

contraddizioni spesso fornite ed evidenziate dai soggetti stessi. Cogliere il

punto di vista dei soggetti coinvolti nella ricerca, i loro percorsi, la loro

quotidianità, ha permesso di trasformare le loro parole in un importante mezzo

di analisi non solo per la ricerca in sé ma in generale delle migrazioni

contemporanee e dei cambiamenti che esse comportano nelle vite delle

persone. Più la disciplina incontra e racconta l’uomo, più rende complessa la

situazione, si arricchisce e ribalta prospettive. La ricerca antropologica

contemporanea, come afferma Bruno Ricco, esplora i processi «dell’esclusione

5 Roberto Malighetti, 2004, Il Quilombo di Frechal. Identità e lavoro sul campo in una comunità brasiliana di discendenti di schiavi, Cortina Raffaello, p.1 6 Barbara Pinelli, 2011, Donne come le altre. Soggettività, violenza e vita quotidiana nelle migrazioni delle donne verso l’Italia, Ed.It, p.11 7 Ivi, p.35 8 Henrietta Moore, 1994, A passion for difference: essays in anthropology and gender, in Barbara Pinelli, Donne come le altre, p. 31

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come dell’accoglienza, del multiculturalismo come del transnazionalismo,

privilegiando la prospettiva dei soggetti migranti senza dimenticare come le

migrazioni costituiscano un riflesso (a volte impietoso, a volte non privo di

sorprese) della società di immigrazione nel suo complesso»9. L'effetto specchio

delle società di arrivo che Sayad attribuisce alla migrazioni sembra essere

ancor più pertinente nel descrivere le complesse interazioni tra richiedenti asilo,

rifugiati, istituzioni pubbliche e soggetti privati coinvolti nelle politiche e nella

pratiche dell'accoglienza, laddove rivela esperienze ambivalenti che oscillano

tra la dipendenza dalle istituzioni e il bisogno di ricostruire reti sociali ed amicali,

tra le richieste di immobilità di uno stato perennemente impegnato a rendere

stabili le persone all'interno di un territorio e la necessità di mobilità flessibile

costantemente avanzata dal mercato del lavoro ma anche dai soggetti stessi.

Come suggerisce Mauro Van Aken «i rifugiati parlano a noi e di noi: il loro

status legale infatti dipende dalle nostre categorie, dalle nostra forme di

riconoscimento, dai nostri modelli di ospitalità. Riconoscere ‘loro’, che arrivano

per diverse fughe da molteplici continenti, è allo stesso tempo un ridefinire ‘noi’

come comunità nazionale di fronte al globale e alle sue dinamiche locali»10. Per

il mio elaborato finale ho dunque deciso di intraprendere quella che Marylin

Strathern definisce un’antropologia in casa o autoantropologia, ossia «an

anthropology carried out in the social context which produced it, in fact has a

limited distribution»11. È opportuno chiarire che la familiarità o distanza tra

ricercatore e soggetti all’interno del contesto sociale non dipendono dalla

coincidenza tra luogo di ricerca e nazionalità del ricercatore ma dai processi di

produzione della conoscenza. Ancora oggi l’antropologia viene percepita come

una disciplina che studia lo straordinario, l’esterno, l’altro e fare ricerca “in casa

propria” suona strano, proprio perché si ribalta la percezione. Fare antropologia

a casa significa lavorare «in contesti di prossimità culturale che riconoscono

9 B. Riccio, 2014, Antropologia e Migrazioni: un'introduzione, in Id. (a cura di), Antropologia e Migrazioni, CISU, Roma, p. 20 10 Mauro Van Aken, 2008, Rifugio Milano. Vie di fuga e vita quotidiana dei richiedenti asilo, Carta, Roma, p. 13 11 Marylin Strathern, 1987, The limits of auto-anthropology, in Anthony Jackson (a cura di), Anthropology at home, Tavistock, London, p.17. Trad: “un’antropologia condotta nel contesto sociale che lo ha prodotta, ha infatti una distribuzione limitata”.

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legittimità all’impresa di rendere la società oggetto di studio, ma non comporta

automaticamente che la discontinuità ineliminabile che separa i due momenti

sia compresa o condivisa»12. Nel caso della mia ricerca, fare autoantropologia

ha significato fare un continuo richiamo alla mia dimensione di cittadina, oltre

che di studentessa-ricercatrice, poiché le politiche, il sistema di accoglienza, la

giustizia, le pratiche locali, «non sono isolate da, ma fanno parte del contesto

totale della vita vissuta in un particolare sistema». Ha significato una

conoscenza pregressa del sistema e, in qualche modo, una condivisione

implicita delle sue regole e meccanismi ma anche un coinvolgimento delle mie

opinioni politiche e le mie idee personali che sono state spesso condivise e

discusse con i soggetti della ricerca. Infine, nel suo significato più letterale,

antropologia in casa perché la mia ricerca si è svolta su un progetto di co-

housing tra studenti universitari e rifugiati in cui la condivisione di una casa, di

spazi, di ritmi, abitudini e gastronomia rappresenta un tema centrale.

La ricerca

Il progetto Tandem è stato promosso e realizzato dal Ciac – centro

immigrazione, asilo e cooperazione internazionale – Onlus di Parma e

provincia, un’associazione da decenni impegnata nell’accoglienza e

nell’inclusione sociale, lavorativa, giuridica e sanitaria di richiedenti asilo e

rifugiati. Tandem prevede la convivenza di rifugiati e studenti universitari

all’interno di due appartamenti dati con il comodato d’uso gratuito da parte di un

privato e dal Movimento dei Focolari. Ufficialmente ha preso il via ad inizio

febbraio 2016 quando Pedro, Tommaso, Ahmed e Lorenzo sono entrati nella

casa di Piazzale Rondani. Un mese dopo Mahamadou, Giammarco e Zadran

hanno iniziato la loro avventura nell’appartamento di via Saffi. Ho iniziato a

seguire il progetto quando ancora si cercavano i fondi e le case per svilupparlo,

questo mi è valso, almeno per i primi tempi, il soprannome di stalker. La ricerca

12 Barbara Sorgoni (a cura di), 2011, Etnografia dell’accoglienza. Rifugiati e richiedenti asilo a Ravenna, Cisu, Roma, p. 33

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è durata circa sette mesi e si è basata su interviste, incontri informali come

cene o merende e partecipazione alle attività, incontri e presentazioni dei

ragazzi. La mia osservazione partecipante è sempre stata temporanea e

limitata alle occasioni concordate, non ho mai vissuto con ragazzi poiché una

presenza femminile in casa avrebbe messo a disagio alcuni di loro. Tandem ha

da subito attirato la mia attenzione non solo per il suo essere una buona pratica

ma anche per la sua estrema semplicità: l’idea di fondo è vivere insieme. È

un’idea semplice perché già tantissime persone, soprattutto studenti fuori sede,

la praticano ogni giorno, eppure colpisce e crea confusione perché sfida quello

che Bourdieu definisce habitus13, quel senso comune che ci mostra come

“normale/naturale” il fatto che i rifugiati e i/le richiedenti asilo debbano vivere in

centri adibiti appositamente per loro. Il progetto crea dunque una frattura e un

ribaltamento di prospettiva perché dimostra che si può fare e, in fondo, non è

nemmeno così difficile. Inoltre, il fatto che gli unici partecipanti di origine italiana

siano studenti universitari, elimina qualsiasi forma di assistenzialismo, carità e

aiuto umanitario che, spesso, caratterizza la relazione tra operatore e

richiedente asilo. Ed è proprio su questo argomento che si focalizza la mia tesi:

riprendendo la teoria del dono di Mauss, basata sulle rigidi fasi del dare avere e

contraccambiare, e applicandola alle forme di accoglienza dei/delle richiedenti

asilo e rifugiati, vorrei riuscire a dimostrare che è possibile uscire da questo

circolo vizioso attraverso la convivenza, come la mia ricerca sul Progetto

Tandem ha dimostrato. Ho dunque suddiviso l’elaborato finale in tre parti che

riassumerò brevemente.

Dare: la Dichiarazione dei diritti umani e la Convenzione di Ginevra sono

prodotti della cultura occidentale europea. Il diritto d’asilo trova le sue origini in

una Europa devastata dalla Seconda Guerra Mondiale e dalle tensioni della

Guerra fredda che divenne terreno fertile per l’elaborazione di una serie di

principi che le hanno valso il titolo di “patria dei diritti”. L’immagine è quella di

13 Esso è il concetto cardine della ricerca sociologica di Bourdieu, in quanto pone fine alle consuete alternative tra individuo e struttura e conduce al pensiero innovativo per cui il senso pratico, attraverso cui gli agenti esplicano le azioni, è un principio naturalizzato, acquisito senza la mediazione di un ragionamento cosciente. L’habitus, funzionando come un automatismo, direziona le pratiche verso un avvenire sensato e assicura una prevedibilità nell’ordine sociale. L’habitus è a capo di uno schema interpretativo che comprende i rapporti dell’ordine oggettivo con le strutture soggettive.

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una Europa che accoglie, che protegge, che da perché è giusto. In realtà, fin

dall’inizio, il riconoscimento del diritto d’asilo era vincolato a interessi politici:

accolti erano dissidenti e oppositori a stati oppressivi, eroi che lottavano per

una causa giusta e per gli ideali democratici pienamente incarnati dalla politica

europea. Il problema è nato quando, alla figura eroica del rifugiato forte e

intellettuale, si è sostituita una “massa indistinta” di persone che scappavano

dalle atrocità della guerra, dell’oppressione, della povertà e della fame. Ecco

allora che l’Europa che riconosce si trasforma nell’Europa che concede, che da

ma malvolentieri. Quello che rappresentava un fiore all’occhiello per la

democrazia europea, diventa una limitazione alla sovranità, oltre che un vero e

proprio onere. L’esternalizzazione dei confini, i muri, gli accordi di

respingimento, i richiami alla sicurezza, i controlli alle frontiere, sono solo

alcune delle pratiche che mostrano come le politiche europee riguardanti la

migrazione forzata e l’asilo si debbano in realtà interpretare come politiche

protezionistiche. Il diritto che si occupa di rifugio e asilo ha come suo obiettivo

la sicurezza degli Stati stessi che lo hanno promulgato e non dei soggetti che

ne dovrebbero realmente beneficiare. È un dono dato, concesso, perché,

invece di riconoscere la legittimità di uno status, diventa strumento che

riconferma il potere dello Stato Nazione.

Ricevere: accettare un dono non è mai un atto privo di conseguenze. Chi riceve

infatti si trova sempre in una posizione di inferiorità e debito nei confronti di

colui che dona. Nel caso dei/delle richiedenti asilo e rifugiati, l’accoglienza

spesso coincide con un trattamento assistenzialistico, caritatevole e umanitario.

Un dono umanitario gratuito, a volte anche fortemente voluto e sponsorizzato,

ma che si traduce in una violenza poiché non mette il ricevente nelle condizioni

di poter attivamente contribuire al suo proprio sostentamento e di poter

restituire in qualche modo il dono. Come scrive Ivan Mei, chi riceve un dono e

non lo riesce a restituire corre il rischio di essere escluso dal legame sociale

che lo coinvolge. Infatti, se il riconoscimento della soggettività dell’altro avviene

attraverso la possibilità di restituire il dono, la vittimizzazione e

spersonalizzazione a nuda vita dei/delle richiedenti asilo e rifugiati li estromette

automaticamente da qualsiasi tipo di rivendicazione. La relazione che ne

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consegue è fortemente asimmetrica e costruita verticalmente: all’apice vi sono i

middle – un vario insieme di figure istituzionali come mediatori, educatori,

volontari etc – il cui compito è donare, in basso invece si trovano tutti quei

soggetti il cui unico compito è quello di ricevere, senza lamentarsi

possibilmente. Anche se inconsapevolmente, questa capacità di donare,

sancisce un potere molto forte sulla vita delle persone accolte. Il fatto che siano

trattati come meri corpi da proteggere, curare, accudire e ai quali insegnare

come stare al mondo, e che non vengano riconosciuti come soggetti politici,

storici e sociali, significa impedire a queste persone di avere una vita attiva,

autonoma e con dei legami alla pari e relegarli al margine della società.

Convivere: Mauss qui utilizzerebbe il termine contraccambiare o restituire ma

questo ricondurrebbe ancora alla dinamica del dare e avere del dono. Quella

che vorrei introdurre con la mia ricerca di campo sul Tandem è la dimensione

della convivenza, che va oltre ai progetti assimilazionisti, multiculturalisti o

integrazionisti poiché coinvolge in primo piano e direttamente i partecipanti che

si trovano ad abitare assieme condividendo la loro quotidianità. La convivenza

decostruisce l’asimmetria e le tensioni create dal dono poiché nasce come una

forma orizzontale e informale dell’abitare assieme, in cui nessuno è ospite

dell’altro. Questa dimensione prevede tre C:

- condivisione: di una casa, di spazi, di un frigorifero, delle spese, delle bollette, ma anche di abitudini, pensieri, canzoni, discussioni, paure, racconti, emozioni, lavori, cene, presentazioni e tanto altro. In questo caso essere coinquilini non ha significato abitare passivamente un appartamento, ognuno rinchiuso nella solitudine della propria stanza, anzi, è stato un vivere attivamente la casa e condividere con partecipazione, voglia ed interesse la propria quotidianità;

- comunità: rappresenta l’aspetto più importante, quello di creare reti e relazioni non solo tra i coinquilini ma anche tra i loro amici, conoscenti e ospiti esterni. Sapere di non essere mai soli e di poter contare sempre su qualcuno, anche durante le festività, è la parte più bella e significativa dell’abitare insieme. La dimensione casa che si estende all’esterno e lo coinvolge, lo spazio privato che si fa pubblico perché crea legami con tutti quegli enti e soggetti che gravitano attorno al progetto e ai partecipanti stessi.

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- cittadinanza dal basso: potrebbe sembrare un paradosso che degli stranieri – e utilizzo questo termine solo per sottolineare il fatto che non hanno documenti italiani – prendano parte ad iniziative di cittadinanza attiva e dal basso. Ma questo è accaduto: incontri nelle scuole, associazionismo, manifestazioni, volontariato, corsi di formazione, feste e presentazioni. Cantava Gaber che la libertà è partecipazione e questo progetto ha dato la possibilità a tutti di partecipare attivamente ad iniziative collettive che non solo li ha coinvolti ancora di più nel tessuto cittadino ma ha anche permesso di esprimere un loro attivismo.

Strettamente collegato a questi tre aspetti vi è la dimensione dell’agency, ossia

la capacità umana di agire all’interno delle dinamiche strutturali di un

determinato contesto. L’agentività, quindi, sottolinea i modi in cui le azioni delle

persone esercitano il proprio influsso sulle strutture sociali e politiche più vaste,

e al tempo stesso sono influenzate da queste. Utilizzo questo marco teorico per

smentire la vittimizzazione e la infantilizzazione, spesso messa in atto dagli

operatori dell’accoglienza, di/delle richiedenti asilo e rifugiati. Il fatto che

abbiano vissuto o siano ancora in situazioni vulnerabili non significa che la loro

identità debba essere appiattita a quella di vittima da soccorrere. Vivere in una

casa con altre persone, ha permesso loro di sviluppare e coltivare le proprie

inclinazioni in maniera del tutto autonoma e personale. Questo è accaduto

anche agli studenti universitari che, in più di un’occasione, hanno lamentato il

non essere stati presi in considerazione abbastanza nelle decisioni che

venivano “dall’alto”, ossia dal Ciac. L’aver fatto fronte comune durante alcuni

episodi, ha dimostrato l’orizzontalità e la reciprocità delle esperienze vissute

assieme come fratelli – così si chiamano l’un l’altro – piuttosto che come

operatori e clienti. Concludo aggiungendo che il Tandem è un progetto vincente

poiché, attraverso la convivenza, sviluppa l’informalità e la vicinanza e come

scrisse Bauman, riprendendo Richard Sennett, «abolito l’interesse, il gioco

politico e la superbia delle teorie, tutto diventa più umano» 14 . Una

collaborazione informale e senza limiti prefissati, è dunque la via migliore per

fare esperienza delle differenze, qualsiasi esse siano.

14 Zygmund Bauman commentando l’opera di Richard Sennett, 2012, Together. The Rituals, Pleasures and Politics of Cooperation, Allen Lane, London

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Premessa sul dono Quando si pensa al dono, ciò che ci viene in mente è la sua materialità, il

suo essere una cosa, un oggetto. Ed è frequente che questa immagine si leghi

ad una ricorrenza precisa durante la quale lo abbiamo ricevuto. Questo perché,

nella nostra società, i doni si fanno e si ricevono a Natale o in occasioni stabilite

come compleanni, anniversari o eventi particolari. Insomma, non è considerato

normale, nel senso che non rientra nell’abitudine, fare regali senza un motivo

che lo giustifichi. Anzi, un dono inaspettato, che arriva come una sorpresa, è

anche visto con sospetto, proprio perché si è abituati a conoscere sempre le

ragioni di un determinato comportamento. Il dono è quindi un’eccezione alla

regola, dove invece la regola è tenere le cose per sé e ottenerne altre tramite

l’acquisto o lo scambio esplicito.

Vi sono società invece dove la situazione è ribaltata: donare è la norma. «Nel

sistema melanesiano per essere un uomo prestigioso bisogna “avere”, certo,

come dappertutto. Il prestigio sta nel donare, donare molto e donare

dappertutto. Il contrario del mondo capitalista!»15. Visto il tema non posso non

citare Marcel Mauss e il suo Saggio sul Dono, una raccolta di ricerche

etnografiche in cui spicca anche la cerimonia del potlatch. Diffusa presso

alcune popolazioni di indiani che vivevano sulla costa del Pacifico dell'America

settentrionale, in particolare tra i Kwakiutl, la pratica del potlach si articola in

una complessa rete di prestazioni e controprestazioni di carattere circolare, utile

ad affermare e riaffermare le gerarchie sociali interne ai gruppi coinvolti, e a

determinare le gerarchie tra i gruppi in questione. La cerimonia consiste in un

banchetto durante il quale chi lo organizza, per dimostrare la propria ricchezza,

offre cibo e beni di prestigio agli invitati. Finalizzato semplicemente

all'affermazione del prestigio personale, il potlach è un’occasione di dispendio

gratuito che può giungere a forme particolarmente esasperate come la

distruzione di propri beni di fronte agli occhi degli altri capi villaggio, in modo da

riaffermare prestigio e potere sugli altri. Mauss definisce questa pratica un fatto

sociale totale, ossia un fatto capace di coinvolgere gran parte delle dinamiche

15 J. M. Tjibaou, 1997, La présence kanak, Odile Jacobs, Paris, p.108

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della comunità. Attraverso un singolo fatto, un solo fenomeno, si poteva cosi

spiegare la struttura e forma dei rapporti sociali nel suo complesso.

«For the potlatch is much more than a juridical phenomenon: it is one that we propose to call ‘total’. It is religious, mythological, and Shamanist, since the chiefs who are involved represent and incarnate their ancestors and the gods […]. The potlatch is also an economic phenomenon […].The potlatch is also a phenomenon of social structure: the gathering together of tribes, clans, and families, even of peoples, brings about a remarkable state of nerviness and excitement. One fraternizes, yet one remains a stranger; one communicates and opposes others in a gigantic act of trade and a constant tournament»16.

Nel suo saggio Mauss individua tre caratteristiche fondamentali del dono: “dare,

ricevere, ricambiare” e mostra come questi tre fondamenti del dono fossero

essenzialmente obbligatori all’interno delle comunità da lui studiate. Con questa

dinamica si stabilisce una vera e propria etica del dono basata sul principio

della reciprocità obbligatoria e vincolante: chi riceve un dono deve restituire un

altro dono, se non vuole restare assoggettato nei confronti di colui che per

primo ha generato il circuito di donazione. Gli oggetti donati e ricevuti, infatti,

presentano caratteristiche magiche, simboliche, mitiche, religiose, immaginarie,

che vincolano e influenzano la persona che le dona o le riceve. Essi

contengono una forza magica – mana – un’anima che incorpora l’identità del

donatore. Il donatario che non se ne libera, che non ricambia al dono, sarà

colpito e danneggiato dall’influsso dello spirito contenuto nell’oggetto. Si deve

donare quindi per non entrare in conflitto con lo spirito della cosa.

«The obligation is expressed in mith and imaginery, simbolically and collectively; it takes the form of interest in the object exchanged; the objects are never completely separated from the man who exchange them; the communion and alliance they establish are well-night indisoluble»17.

16 Marcel Mauss, 2002, The Gift. The form and reason for exchange in archaic societies, Routledge Classics, London and New York, p. 49. Trad: “il potlatch è molto più di un fenomeno giuridico: è ciò che proponiamo di chiamare un fatto totale. È un fenomeno religioso, mitologico e sciamanico dal momento che i capi che sono coinvolti rappresentano e incarnano i loro antenati e gli dei [...]. Il potlach è anche un fenomeno economico [...].Il potlatch è anche un fenomeno di struttura sociale: la raccolta delle tribù, clan e famiglie, anche del popolo, determina un notevole stato di nervosismo ed eccitazione. Uno fraternizza, ma rimane un estraneo; comunica e si oppone altri in un gigantesco atto di commercio e competizione costante”. 17 Ivi, p.42. Trad: “L'obbligo si esprime nel mito e immaginario, simbolicamente e collettivamente; esso prende la forma di interesse per l'oggetto scambiato; gli oggetti non sono mai completamente separati da l'uomo che li scambia; comunione e l'alleanza stabilita sono pressoché indissolubili”.

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Il dono diventa quindi il punto cardine di ogni intercambio economico, la

mancanza di moneta viene sopperita dalla reciprocità che obbliga il ricevente a

ricambiare. In questa sua caratteristica risiederebbe quella che Derrida

definisce l’impossibilità del dono. «Mauss is not at all bothered about speaking

of exchanged gifts, he even thinks there is gift only in exchange»18. Poiché la

peculiarità del dono è la sua gratuità, il fatto che generi obbligazione, vincolo e

debito smentisce la sua stessa essenza. Per il filosofo francese il dono è quindi

non solo impossibile, ma l’impossibile, la figura stessa dell’impossibilità. «These

conditions of possibility of the gift designate simultaneously the conditions of

impossibility of the gift […] These conditions define or produce the annulement,

the annihilation, the destruction of the gift»19. Il paradosso del dono si realizza

sul piano materiale e simbolico: materiale poiché il dono si concretizza e come

tale pretende una restituzione di pari o superiore valore al dono ricevuto;

simbolica perché il solo fatto di venire a conoscenza del dono crea debito, un

contratto dal quale non ci si può sottrarre.

«At the limit, the gift as gift ought not appear as gift: either to the donee or to the donor. It

cannot be gift as gift except by not being present as gift. Neither to the one nor to the other. If

the other perceives or receives it, if he or she keeps it as a gift, the gift is annulled. But the one

who gives it must not see it or know it either; otherwise he begins to pay himself with a symbolic

recognition»20.

Ruotando sul gioco di parole tra tempo-presente e dono-presente Derrida

associa il dono al tempo. Come il tempo sfugge all’occhio, così il dono, per

essere tale, deve sfuggire ad ogni tipo di identificazione: un dono visibile non è

mai un dono. Il dono è l’eccezione invisibile, e non quantificabile, all’indifferenza

umana, è un presente (tempo e/o regalo), e come tale sfugge. Il paradosso del

18 Jaques Derrida, 2002, Given Time: I. Counterfeit Money, The University of Chicago Press, London, p. 39. Trad: “Mauss non è affatto preoccupato di parlare di doni scambiati, addirittura pensa che ci sia dono solo nello scambio”. 19 Ivi, p.12. Trad: “Queste condizioni di possibilità del dono, designano contemporaneamente le condizioni di impossibilità di dono [...] Queste condizioni definiscono o producono l’annullamento, l'annientamento, la distruzione del dono”.20 Ivi, p. 14. Trad: “Al limite, il dono come dono non dovrebbe apparire come tale: né al donatario, né al donatore. Non può essere dono come dono se non per non essere stato presente come dono. Né per l'uno né per l'altro. Se l'altro percepisce o riceve, se lui o lei mantiene come un dono, il dono è annullato. Ma anche colui che dà non lo deve vedere o conoscere; altrimenti comincia a pagare se stesso con un riconoscimento simbolico”.

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dono Derrida lo risolve nel suo non essere dono. Non esiste dono se concepito

come tale – non è quando è – esiste solo quando è involontario e

inconsapevole – è quando non è –.

Un’ulteriore teoria del dono che cerca di superare le posizioni precedenti è

quella di Godbout, scrittore canadese, che definisce il dono come ogni

prestazione di beni e servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di

creare, alimentare o ricreare il legale sociale tra le persone.

«Il dono non viene più definito attraverso ciò che circola in una direzione o nell’altra, sia per considerarlo come unilaterale, intendendo che il fatto di ricevere dopo aver donato implica che non era un “vero dono, sia per affermare che in realtà c’è contraccambio equivalente, e dunque che il dono non esiste»21.

Ciò su cui Godbout si concentra sono dunque le relazioni. «Il dono ha sempre a

che fare con la trama delle relazioni sociali. Se qualcosa assume lo statuto di

dono è perché entra nel circuito della relazione»22. Questo significa che supera

l’empasse data dalla distinzione tra dono puro e scambio commerciale

attraverso il concetto di valore di legame che «esprime l’importanza della

relazione che esiste tra i partner, l’importanza dell’altro indipendentemente da

ciò che circola»23. Ciò su cui si concentra non sono più le cose scambiate, la

loro libertà di circolazione, ma sulla libertà del legame, sulla volontà e sul senso

che ciascuno dà ad esso. Ecco allora che

«bisogna separare il fatto del contraccambio dal senso che il gesto ha per il donatore […] Vietare il contraccambio significherebbe limitare la libertà dell’altro in modo altrettanto certo quanto lo sarebbe esigere un contraccambio»24.

Il dono dunque non viene più definito attraverso ciò che circola ma dai legami

che esso crea. «Se ciascuno dà per mantenere la relazione piuttosto che per

ricevere un ritorno dall’altro […] non c’è falsa ingenuità nel fare come se le

prestazioni fossero offerte gratuitamente al livello degli individui»25.

21 Jacques T. Godbout, 2007, Quello che circola tra di noi. Dare, ricevere, ricambiare, V&P, p. 129 22 Salvatore Currò, 2005, Il dono e l’altro. In dialogo con Derrida, Lévinas e Marion, Las, Roma, p.5 23 Jacques T. Godbout, p. 11724 Ivi, p. 135 25 Anspach, A buon rendere, p.89 in Ivi, p. 150

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Vicino alle teorie di Godbout è Allain Caillé che propone un terzo paradigma

che fa da ponte all’individualismo metodologico del primo e all’olismo del

secondo. Se il paradigma individualistico e quello olistico cercano di spiegare

entrambi il fatto sociale ponendosi su di un piano verticale – l’uno operando dal

basso verso l’alto, ovvero dagli individui al tutto, l’altro dall’alto verso il basso,

ovvero dal tutto agli individui – il paradigma del dono si colloca su di un piano

orizzontale, vedendo la società quale espressione della continua ed incessante

interrelazione di una pluralità di soggetti e delle interdipendenze che tale

interrelazione va a creare. Inoltre è soprattutto l’immaginario economicista

sotteso alla visione moderna dell’individuo e della società ad essere messo in

discussione da tale logica. Attraverso il dono i soggetti non si scambiano beni

materiali, come vorrebbe una certa sociologia incapace di liberarsi dal “martello

economico”. O meglio: non si scambiano innanzi tutto beni materiali, bensì, in

primis, “beni simbolici”: chi dona fa ciò perché intende stabilire dei legami,

fissare delle relazioni, ricorrendo a tal fine all’offerta di oggetti. Il primus è la

relazione, non l’interesse economico. Il bene viene ad assumere in questo

modo un valore del tutto nuovo: se il pensiero economico moderno, sia nella

variante liberista, sia in quella marxista, non ha saputo vedere nei beni che

oggetti atti o al soddisfacimento di bisogni materiali – il cosiddetto valore d’uso

o valore di scambio – il dono introduce anche in tal senso un nuovo paradigma,

quello del valore di legame, per cui il bene non soddisfa di per sé ed

immediatamente né un bisogno materiale né un interesse economico, ma prima

di tutto un bisogno ed un interesse umano e relazionale. «Nel dono – afferma

Caillé – […] il fatto fondamentale è che il legame è più importante del bene»26.

Il mio scopo in questo elaborato è proprio quello di guardare alle pratiche

poiché credo fermamente che il dono abbia una logica politica in sé: poiché lo

scopo del dare, ricevere, ricambiare – e la scelta di non farlo – è quello di

creare alleanze e discernere tra gli amici e i nemici.

26 Alain Caillé, 1998, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri, p.80

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PARTE I: DARE

Capitolo primo: il dono concesso

1.1 Rifugiato «Anche quando la vita sembra una lotta contro i mulini a vento, eroe è colui che non si arrende, che ogni volta si rimette in piedi e prosegue il suo viaggio, incurante degli ostacoli, incurante della sconfitta. Invincibili sono tutti coloro che hanno ereditato l'ostinazione di don Chisciotte. Invincibili sono, per esempio, i migranti, uomini e donne che attraversano il mondo a piedi per raggiungerci e non si fanno fermare da nessun campo di prigionia, da nessuna espulsione, da nessuna legge, da nessun annegamento, perché li muove la disperazione e vanno a piedi». (Erri De Luca).

Ahmed, Mahamadou, Pedro e Zadran sono rifugiati. Sono uomini cui è

stato concesso uno status giuridico che riconosce la loro impossibilità a vivere

nel paese in cui sono nati poiché la loro sicurezza e incolumità non sono

garantite. Sono persone costrette a vivere lontane dalla propria terra, dai propri

affetti, dalla propria casa, dalla vita che conoscevano. Un rifugiato è:

«una persona che a causa di un fondato timore di persecuzione, per motivi di razza, di religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale od opinione politica, si trova al di fuori del paese di cui ha la cittadinanza e non può oppure, a causa di tale timore, non vuole, avvalersi della protezione di tale paese ; oppure chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole tornarvi»27

Mahamadou è scappato dalla guerra civile in Mali, Pedro dalla repressione in

Nigeria, Ahmed dalla guerra in Somalia e Zadran da quella in Afghanistan. Non

sono clandestini, non sono illegali, non sono criminali né tantomeno ladri di

lavoro, donne o bambini. Non sono vittime, ma sopravvissuti. Essi fanno parte

di quei 65,3 milioni28di persone nel mondo forzate a scappare da persecuzioni,

conflitti, violenza generalizzata o violazioni dei diritti umani. Nel contesto delle

27 Art.1/a, Convenzione di Ginevra 1951. Riconosciuto dall’Articolo 10 della Costituzione italiana che recita quanto segue: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Lo status di rifugiato prevede il permesso di soggiorno che ha una durata di 5 anni ed è rinnovabile ad ogni scadenza. Il titolare dello status di rifugiato può richiedere ed ottenere il ricongiungimento dei suoi famigliari. Per effetto del d.lgs. n.12/14 può essere richiesto il rilascio di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, a condizione della dimostrazione di determinati requisiti. 28 UNHCR, Global trends: forced displacement in 2015.

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migrazioni forzate, centrale è la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo

del 1948, frutto di una presa di coscienza dopo le atrocità della seconda guerra

mondiale e le politiche di discriminazione razziale di molti Stati occidentali.

Questa dichiarazione, infatti, è la prima a sancire il diritto d’asilo come un diritto

fondamentale e inalienabile, dichiarando che «ogni individuo ha il diritto di

cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni»29. Essa segna la

partenza di un cammino normativo a livello internazionale, volto a promuovere

e tutelare il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. I 30 articoli che

la compongono sanciscono tra l’altro la libertà e l’uguaglianza come

caratteristiche proprie di ogni uomo fin dalla nascita; il principio di non

discriminazione; il divieto di sottoporre chiunque a tortura e a trattamenti o

punizioni crudeli, inumane o degradanti; la libertà di movimento e di residenza

entro i confini di ogni stato e il diritto di lasciare il proprio paese e di farvi ritorno;

la libertà di pensiero, di coscienza e di religione; la libertà di espressione e di

opinione. La sua importanza è ambivalente poiché, se la violazione dei diritti

umani in essa sanciti è proprio fra le principali cause di esodi forzati, è anche

vero che la dichiarazione ha più una valenza umanitaria piuttosto che giuridica.

Tuttavia, tutti i suoi articoli, i diritti e le libertà dichiarate, ispirarono e diedero

forma all’impianto della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo Status dei

Rifugiati, comunemente conosciuta come Convenzione di Ginevra del 1951. La

convenzione rappresentò un tentativo unico, nella storia della normativa

internazionale relativa ai rifugiati, di stabilire un codice dei diritti dei rifugiati che

coprisse tutti gli aspetti fondamentali della vita e che garantisse loro un

trattamento simile a quello dei cittadini dello stato d’asilo, per lo meno in settori

importanti quali la previdenza sociale, l’assistenza, l’istruzione secondaria. Uno

delle disposizioni fondamentali in essa contenuto è il principio di non

refoulement, sancito dall’articolo 33 della Convenzione.

«Nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche»30.

29 Art.14/1, Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo 194830 Art.33/1, Convenzione di Ginevra 1951

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Tale principio afferma il diritto di non respingimento, applicabile a ogni forma di

trasferimento forzato, compresi deportazione, espulsione, estradizione,

trasferimento informale e non ammissione alla frontiera. La forza di questo

divieto risiede nel fatto che è parte integrante del diritto internazionale

consuetudinario e, di conseguenza, vincolante anche per le parti non

contraenti. Sino ad oggi la Convenzione è stata ratificata da 148 Stati31, ma si

evidenzia che essa è espressione del clima storico di quando fu scritta,

influenzata dagli esiti della seconda guerra mondiale oltre che dalla tensione

creata dalla guerra fredda. In quel periodo, infatti, i rifugiati che entravano negli

Stati occidentali provenivano quasi esclusivamente dall’Europa dell’Est, e

quindi divennero uno strumento diplomatico e di propaganda anti-comunista di

grande rilievo poiché rappresentavano una testimonianza vivente dell’anti-

democraticità e degli abusi dei governi di provenienza, a cui, quindi, era di vitale

importanza strategica riconoscere asilo ed assistenza. La definizione di rifugiato

della Convenzione di Ginevra del 1951 pare tagliata su loro misura,

sull’immagine di un «rifugiato normale: bianco, maschio, anticomunista»32 .

Inoltre la Convenzione conteneva due gravi limitazioni. La prima, di carattere

temporale, limitava la protezione a individui che avevano subito persecuzioni

per fatti antecedenti al 1 gennaio 1951, implicando quindi, l’impossibilità di

invocare la protezione garantita dalla Convenzione per coloro i quali fossero

stati oggetto di persecuzioni successive a tale data. La seconda, di tipo

geografico, restringeva il campo di applicazione della stessa Convenzione ai

rifugiati europei, riconfermando lo stereotipo del rifugiato di Chimni. Le

conseguenze delle prime decolonizzazioni evidenziarono il carattere

problematico di tale restrizione e con l’accrescersi del numero dei rifugiati alla

fine degli anni cinquanta e nei primi anni sessanta la Convenzione si rivelava

quindi inadeguata a fornire un quadro giuridico internazionale avente delle

aspirazioni di universalità e capace di affrontare le nuove tipologie di crisi

generatrici di flussi migratori; è divenuto necessario ampliare il raggio d’azione

31 L’elenco degli Stati che hanno ratificato la Convenzione di Ginevra è consultabile alla pagina internet: http://www.unhcr.org/3b73b0d63.html 32 B.S. Chimni, 1998, The Geopolitics of refugee studies: a view from the south, in Journal of Refugee Studies, n.11/4, p. 18

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sia temporale che geografico della Convenzione sui rifugiati. Entrambe queste

anomalie vennero quindi eliminate attraverso il Protocollo di New York nel

1967. Esso ha disposto che la definizione di cui all’art. 1 della Convenzione

debba essere intesa come se le parole «a seguito di avvenimenti verificatisi

anteriormente al 1 gennaio 1951» fossero omesse e ha inoltre stabilito che il

Protocollo debba applicarsi senza alcuna limitazione geografica, fatte salve

però le dichiarazioni restrittive già rese in sede di ratifica e non modificate

successivamente.

1.1.1 Precisazioni «In principle, refugee protection is not about immigration. It is intended to

be a situation-specific human rights remedy: when the violence or other human

rights abuse that induced refugee flight comes to an end, so does refugee

status» 33 . Una delle maggiori critiche alla Convenzione di Ginevra deriva

proprio dal suo impianto umanitario. Ciò che rappresenta la sua forza maggiore,

in termini di risonanza, estensione e assolutezza, costituisce anche un serio

motivo di critica per quanto riguarda la mancanza di una vera e propria

protezione giuridica e politica per i rifugiati e i/le richiedenti asilo. In particolare,

vorrei sottolineare tre aspetti che sollevano alcune perplessità: l’individualità,

l’universalismo e l’eccessiva impostazione eurocentrica dei due documenti.

Il primo punto è forse quello più complesso e denso da analizzare proprio

perché implica numerosi fattori e situazioni ambivalenti. Sia la Dichiarazione

Universale dei Diritti dell’Uomo che la Convenzione di Ginevra affermano la

centralità dell’essere umano come titolare di diritti inalienabili e sacri. L’enfasi

viene posta, infatti, su quell’insieme di diritti inviolabili che dovrebbero essere

garantiti a ciascun essere umano, a prescindere dal suo rapporto con lo Stato

di appartenenza. L’individuale titolarità dei diritti è universale e coinvolge tutti in

33 James C. Hathaway, R. Alexander Neve, 1997, Making International Refugee Law Relevant Again: A Proposal for Collectivized and Solution-Oriented Protection, Harv. Hum. Rts. J. 10, p. 117. Trad: “In linea di principio, la protezione dei rifugiati non riguarda l’immigrazione. Essa è intesa come un rimedio ad una specifica situazione riguardante i diritti umani: quando la violenza o la violazione di altri diritti umani che inducono alla fuga dei rifugiati volge al termine, così fa lo status di rifugiato”.

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quanto esseri umani, senza distinzione alcuna «per ragioni di razza, di colore,

di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine

nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione»34. Per quanto

il suo contenuto sia di indubbia importanza, è anche vero che mostra delle

ambiguità che devono essere portate alla luce. Concepire i diritti come un

privilegio dell’uomo in quanto essere vivente significa mettere a rischio il suo

diritto ad avere diritti in quanto essere politico.

«Al centro dei nuovi impegni internazionali non sembra più esserci l’individuo-cittadino, con la possibilità se pur minima di negoziare diritti e doveri di cittadinanza con l’istituzione statale di riferimento; piuttosto sembra esserci l’individuo-essere umano, ovvero la persona spogliata di tutti i legami con il paese di provenienza o di elezione che si presenta quindi come “nuda vita naturale”35»36.

Queste considerazioni assumono una notevole rilevanza proprio nel caso dei

rifugiati. Hannah Arendt, nel suo studio sui totalitarismi, interroga proprio la

figura del rifugiato come colui che avrebbe dovuto incarnare l’“uomo dei diritti”

per eccellenza e che invece finisce col rappresentare la crisi dello stato-nazione

e della stessa idea di diritti umani.

«La concezione di diritti umani è naufragata nel momento in cui sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana. Il mondo non ha trovato nulla di sacro nell’astratta nudità dell’essere-uomo»37.

In questo senso l’enfasi posta sulla vita biologica, sulla nuda vita, mette

paradossalmente ancora più a rischio il rifugiato. L’idea stessa di diritti umani,

cui fanno riferimento anche i diritti dei rifugiati, così legati alla natura biologica

dell’uomo, al principio di nascita, non risultano quindi sufficienti a garantire a

queste persone vulnerabili la giusta protezione.

«I diritti dell’uomo rappresentano innanzitutto la figura originaria dell’iscrizione della nuda vita

naturale nell’ordine giuridico-politico dello Stato-Nazione. La nuda vita diventa qui per la prima

34 Art.2, Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo 1948 35 Giorgio Agamben, 1995, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino 36 Chiara Marchetti, 2014, I rifugiati: da eroi a profughi dell’emergenza, https://www.academia.edu/7602965/, p. 109 37 Hanna Arendt, 1996, Le origini del totalitarismo, Milano, p. 415

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volta il portatore immediato della sovranità»38.

La svolta umanitaria - data dalla titolarità di diritti per il solo fatto di

rappresentare una vita - sono ciò che sta corrodendo la protezione giuridica dei

rifugiati e contribuendo alla loro depoliticizzazione.

La seconda ambiguità riguarda l’universalismo insito delle dichiarazioni dei

due documenti. È importante sottolineare che i diritti dell’uomo sono un

concetto occidentale nato in epoca moderna. Non sono sempre esistiti e non

valgono affatto per tutte le società. Non sono verità metafisiche e metastoriche

anzi, corrispondono ad una decisione storica, politica e consensualistica. Per

quanto presentati come innati e inerenti alla natura umana, non esiste un

concetto di uomo e di dignità umana universalmente condivisibile, proprio

perché particolari di una determinata cultura. «La pregunta por la universalidad

de los derechos humanos es particular, de la cultura occidental»39. Boaventura

De Sousa Santos definisce i diritti umani come una specie di esperanto che

difficilmente può convertirsi in un linguaggio quotidiano globalmente

riconosciuto, senza, aggiungo io, percepirli come un’imposizione esterna,

estranea e di carattere imperialista. Non solo, anche se il primo articolo della

Dichiarazione recita che «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in

dignità e diritti»40, come affermò Abraham Lincoln, però è l'ultima volta in cui lo

sono. Mi riferisco, in particolare, alle donne, la cui situazione e realtà, senza

cadere in ulteriori generalizzazioni, non può essere paragonata a quella degli

uomini, in termini di privilegi, equità, stipendio, sicurezza. Le donne, infatti,

subiscono discriminazioni e violenze con modalità che spesso non toccano gli

uomini perché in larga misura i soprusi di cui sono vittime sono di natura

sessuale. Questi abusi si presentano in forme, modi e circostanze legali che,

pur rientrando in qualsiasi convenzione ufficiale sui diritti umani, non hanno

trovato nel corso degli anni giusta considerazione a livello internazionale, se

non raramente, anzitutto perché commessi proprio a danno delle donne. Inoltre, 38 Giorgio Agamben, 1996, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri editore srl., Torino, p. 1739 Boaventura de Sousa Santos, 2002 Hacia una concepción multicultural de los derechos humanos, in El Otro Derecho, n. 28, ILSA, Bogotá D.C., Colombia, p. 67. Trad: “la domanda di universalità dei diritti umani è in realtà particolare, della cultura occidentale”. 40 Art.1, Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo 1948

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dal momento che sono considerate un gruppo sociale debole, paradossalmente

meno facile è perseguire sul piano penale alcune condotte, poiché taluni

comportamenti vengono diffusamente percepiti e si configurano come elementi

della normalità.

«Per lungo tempo infatti, tanto nei momenti di guerra che di pace, in privato come in pubblico, la mancanza di umanità dell’uomo verso la donna è stata ignorata, o comunque sottovalutata, non solo sul piano sociale, ma anche sotto il profilo normativo»41.

Alcune tra le critiche più severe in questo senso sono venute da studiose

femministe che hanno letto nel testo della Convenzione una possibile

discriminazione nei confronti delle donne. Jacqueline Bhabha, per esempio,

sottolinea come la Convenzione descriva una forma di persecuzione che ha

prevalentemente luogo nella sfera pubblica dominata da individui di sesso

maschile, mettendo così in secondo piano le persecuzioni che possono

derivare da attività che afferiscono alla sfera privata.

«Il diritto dei rifugiati si è evoluto attraverso l’esame di richiedenti asilo maschi e delle loro attività: gli uomini sono stati considerati come agenti dell’azione politica e pertanto come legittimi beneficiari della protezione che deriva dalla persecuzione. I timori dei famigliari di sesso femminile degli attivisti sono stati considerati “personali” piuttosto che “politici”, escludendo pertanto le donne dalla protezione in qualità di rifugiate»42.

La terza e ultima ambiguità è strettamente legata alla seconda, ossia il

carattere prettamente eurocentrista dei diritti universali. Come già accennato,

essi sono un prodotto, una creazione tipica di una determinata cultura che, nel

corso della storia, ha avuto la forza necessaria per imporli come universali e

naturali nascondendo così la loro origine “artificiale”. Si misconoscono, quindi,

tutti quei rapporti di forza che hanno operato a favore dei paesi occidentali,

militarmente ed economicamente più forti.

«Mi argumento es que mientras los derechos humanos sean concebidos como derechos humanos universales, tenderán a funcionar como un localismo globalizado, como una forma de globalización desde arriba. Concebidos, como lo han sido, como universales, los derechos humanos siempre serán un instrumento del “choque de civilizaciones” descrito por Samuel

41 Paola Degani, 2000, Diritti Umani e Violenza contro le Donne: recenti sviluppi in materia di diritto internazionale, in Quaderni, Centro di studi e di formazione sui diritti della persona e dei popoli, n.1, pp.14-15 42 J. Bhabha, 1993, Legal Problems of Women Refugees”, Women: A Cultural Review, in Chiara Marchetti, Rifugiati: da eroi a profughi dell’emergenza, https://www.academia.edu/7602965/, 2014, pp. 111-112

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Huntington, es decir, de la lucha del Oeste contra los demás»43.

Infatti, non è un caso che

«When the 1951 UN Convention was written, only 35 states participated; most of the colonial empires were still in place, the eastern bloc had their own views of what caused refugees, and the atmosphereof the Cold War was the backdrop to UN deliberations (Weis n.d.). Consequently […] many of the new states in the developing world view the Convention definition of refugee rights as impositions of western values»44.

La Convenzione dell’Organizzazione Africana del 1969 e la Dichiarazione di

Cartagena sui Rifugiati del 1984, per esempio, hanno dato definizioni più

estese dello status di rifugiato, sottolineando che «the refugee situation in the

Third World was different from that which had prevailed in the West»45 e che,

spesso, la causa dei conflitti che causavano la fuga di numerose persone,

avevano radici nella presente o passata situazione coloniale. Sin dagli anni

sessanta i paesi Africani e dell’America Centrale soffrirono esodi di “externally

displaced persons”, cioè di coloro che scappavano dal proprio paese a causa di

guerre, instabilità politiche, rivolte civili, disastri naturali e che si trovavano in

una situazione molto simile a quella dei rifugiati, ma non riconosciuta come tale,

poiché queste cause non rientravano in quelle previste dalla Convenzione.

Anche se entrambi i documenti si ispirano alla definizione contenuta nel primo

articolo, essi introducono una novità: per determinare lo status di rifugiato non

serviva più un’analisi degli elementi soggettivi come il timore fondato, prevista

invece dalla Convenzione, ma era sufficiente analizzare la situazione politica

del paese d’origine del/della richiedente e accertare quindi i soli fatti oggettivi.

Ecco quindi che il termine rifugiato si applica:

43 Ivi, p. 66. Trad: “La mia tesi è che, se i diritti umani continueranno ad essere concepiti come diritti umani universali, essi tenderanno a funzionare come un localismo globalizzato, come una forma di globalizzazione dall'alto. Concepiti come tali, come universali, i diritti umani saranno sempre uno strumento di "scontro di civiltà" descritto da Samuel Huntington, ossia, di lotta dell'Occidente contro tutti gli altri”. 44 Barbara E. Harrel-Bond, E. Voutira, 1992, Anthropology and the study of refugees, in Anthropology Today, Vol. 8, N. 4, p. 8. Trad: “Quando la Convenzione ONU del 1951 è stata scritta, solo 35 Stati hanno partecipato; la maggior parte degli imperi coloniali erano ancora al loro posto, il blocco orientale aveva le proprie opinioni su ciò che provocava l’esistenza di rifugiati, e l’atmosfera della Guerra Fredda fece da sfondo ai lavori delle Nazioni Unite (Weis n.d.). Di conseguenza […] molti Stati del (cosiddetto) mondo in via di sviluppo, considerarono la definizione dei diritti della Convenzione come un’imposizione dei valori occidentali”. 45 B.S. Chimni, 1998, The Geopolitics of refugee studies: a view from the south, in Journal of Refugee Studies, n.11/4, p. 13. Trad: “la situazione dei refugiati del terzo mondo era differente da quella che prevaleva nel primo”.

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«ad ogni persona che, a causa di aggressione esterna, occupazione, dominio straniero o gravi turbamenti dell'ordine pubblico in tutto o in una parte del Paese di origine o di cittadinanza, è obbligata ad abbandonare la propria residenza abituale per cercare rifugio in un altro luogo fuori del Paese di origine o di cittadinanza»46.

«alle persone fuggite dal loro paese perché la loro vita, la loro sicurezza e la loro libertà erano minacciate da una violenza generalizzata, un’aggressione straniera, conflitti interni, una violazione massiccia dei diritti dell’uomo o altre circostanze che abbiano gravemente turbato l’ordine pubblico»47.

Queste due definizioni sono una chiara prova di quanto la Convenzione, ma

anche la Dichiarazione, siano due testi che abbiano una forte pretesa

universalistica che nasconde il loro carattere fortemente occidentale. Un altro

esempio è il ruolo eccessivo assegnato agli Stati in rapporto ai suoi cittadini.

Troppo spesso, infatti, i veri soggetti attivi sembrano essere proprio gli Stati e

non i singoli individui. Sono gli Stati nazionali che continuano a garantire i diritti

ai propri cittadini e la retorica dei diritti umani è destinata a rimanere lettera

morta fintanto che alcuni paesi non decidono in perfetta autonomia e sovranità

di metterla concretamente in atto.

«In questo senso, la sovranità degli Stati viene ulteriormente ribadita, implicando che chi rimane all’interno del proprio Stato d’origine difficilmente potrà godere di una protezione internazionale. L’ultima parola sul riconoscimento o la negazione dello status di rifugiato spetta a singole entità statali sovrane; il potere di decidere chi accettare e chi respingere fa quindi mantenere agli Stati un forte grado di discrezionalità. In questo senso, possiamo dire che la Convenzione è figlia della tradizione giuridica e politica europea e della progressiva affermazione dell’idea di Stato nazione»48.

1.1.2 Da eroe a vittima La storia della Convenzione di Ginevra49 è legata a Jean Henry Dunant, un

cittadino svizzero, premio Nobel per la Pace nel 1901, che nel 1859 fu

testimone delle tragiche conseguenze lasciate dalla Battaglia di Solferino, nella

guerra franco-sarda contro le truppe austriache di Francesco Giuseppe I.

Rimanendo inorridito alla vista di migliaia di soldati feriti, lasciati morire sul

46 Art.1/2 Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana 1969 47 Dichiarazione di Cartagena sui Rifugiati, 1984, sezione III.3 48 Chiara Marchetti, I rifugiati: da eroi a profughi dell’emergenza, pp. 108-109 49 Mi riferisco in particolare della prima Convenzione di Ginevra, quella del 22 agosto 1964, per il miglioramento delle condizioni dei militari feriti in guerra.

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campo senza che nessuno potesse prendersi cura di loro, decise di pubblicare

la sua esperienza in un libro Memorie di Solferino, che lo portò ad identificare

una nuova coscienza umanitaria e ad avviare un programma per

l’addestramento di volontari che avrebbero potuto assistere i feriti in tempo di

guerra. A questo avrebbe dovuto far seguito, così sosteneva, una convenzione

internazionale atta a regolare la protezione dei feriti in guerra. Fu proprio da

questa nuova coscienza che venne fondata anche la Croce Rossa nel 1963.

Questa piccola introduzione storica mi serve per sottolineare l’origine eroica e

valorosa della figura del rifugiato. Non per forza un soldato, ma un combattente

che crede nei valori della libertà e della democrazia.

«La definizione presentata nella Convenzione conterrebbe quindi un accento sull’individuo di sesso maschile che si contrappone con coraggio e fierezza al proprio Stato nel momento in cui questo manifesta intenti persecutori: la figura del rifugiato risulta come quella di chi «cerca eroicamente di affermare la propria individualità (tipicamente maschile) contro uno Stato oppressivo»50.»51.

Questa caratteristica appare ancora più evidente nell’espressione «giustificato

timore di essere perseguitato» contenuta sempre nell’articolo 1 della

Convenzione; secondo Peter Nyers, nella combinazione tra capacità di ragione,

da qui il termine giustificato, ed emozione vissuta, da qui il concetto di timore,

starebbe il cuore della definizione di rifugiato52. È in questo senso che l’essenza

del rifugiato si qualificherebbe: per il binomio coraggio-timore e lo status

riconosciuto rappresenterebbe di conseguenza una sorta di premio per

l’eroismo manifestato.

«Ecco quindi che «il Timore del rifugiato costituisce il prodotto di un Valore o di un Coraggio antecedenti». Da ciò risulta la costruzione sociale dei rifugiati come eroici “combattenti per la libertà” oppressi dai loro Stati (in origine tipicamente comunisti)»53.

Sulla base del saggio di Chiara Marchetti, si può evincere quindi come la figura

del rifugiato che si crea in questo periodo sia quella di un eroe: maschio,

bianco, anticomunista, valoroso protettore dei valori occidentali.

50 J. Bhabha, 1996, Embodied Rights: Gender Persecution, State Sovereignity, and Refugees, Public Culture, in Chiara Marchetti, I rifugiati: da eroi a profughi dell’emergenza, p.112 51 Ibid. 52 P. Nyers, 2006, Rethinking refugees. Beyond states of emergency, New York and London, p. 47. Ibid 53 Ibidem, 50. Ibid

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«Le immagini iconografiche dei rifugiati in Occidente erano quelle di figure forti ed eroiche, in lotta per la libertà e la giustizia sia politicamente che intellettualmente. Erano figure che dovevamo ammirare per la loro posizione ardita e il loro sacrificio personale»54.

Negli anni la figura eroica del rifugiato classico ha lasciato spazio ad un

immaginario che ne introdusse una diversa rappresentazione. Con la fine della

guerra fredda, con le relative trasformazioni dei conflitti mondiali, con gli scontri

interni causati dalla decolonizzazione, è andata emergendo un’immagine dei

rifugiati come vittime traumatizzate, sofferenti, bisognose di tutto. «Refugees

stop being specific persons and become pure victims in general: universal man,

universal woman, universal child, and, taken together, universal familiy»55.

«Anche se la sorte dei rifugiati ai tempi della guerra fredda e dei dissidenti politici non è stata sempre rosea e univoca, si può comunque rilevare una forte discontinuità tra il trattamento di quei migranti che potevano più facilmente dimostrare di essere oggetto di persecuzione individuale in virtù delle loro più o meno eroiche azioni nel paese di origine e il trattamento riservato a una massa più anonima di persone in fuga, non facilmente individuabili come soggetti politici. Come sottolineava con amara ironia Hannah Arendt, «le probabilità di sopravvivenza aumentano per il profugo famoso, come in fondo le probabilità di sopravvivenza del cane munito di un collare e di un nome rispetto al cane randagio che è soltanto un cane generico e nulla di più»56.»57.

Da eroe acclamato, riconosciuto e accolto, a una massa indistinta in fuga,

spesso dai paesi più poveri del mondo. Questo cambio di percezione e

rappresentazione ebbe conseguenze cruciali nella vita, nella partecipazione

attiva, nell’accoglienza e nello status dei rifugiati. Se durante la guerra fredda il

loro riconoscimento passava attraverso una politicizzazione della loro figura,

ora passa attraverso la cura e l’assistenza del loro corpo.

«Il rifugiato non ha accesso alla sfera della cittadinanza se non sotto la forma subordinata di vittima, di cittadino a metà, di non persona che la violenza passata ha degradato e disumanizzato talmente tanto da non permettergli di accedere ad una cittadinanza piena e attiva; anche Agier58 sostiene che “accolti in nome dei diritti umani dalle ONG nazionali, da quelle internazionali e dalle organizzazioni dell’ONU, i rifugiati sono assistiti in quanto pure vittime, come se la loro vita dipendesse unicamente dal loro non “essere (più) nel mondo”»59.

54 V. Pupavac in Chiara Marchetti, p.113 55 Roland Barthes, 1980, Mithologies, New York: Hill and Wang, in Lisa H. Malkki, 1996, Speechless Emissaries: Refugees, Humanitarianism, and Dehistoricization, Cultural Anthropology, Vol. 11, No. 3, p. 378. Trad: “I rifugiati smisero di essere persone specifiche e divennero pure vittime generalizzate: uomo universale, donna universale, bambino universale, e, messi insieme, famiglia universale”. 56 H. Arendt, cit., 398 in C. Marchetti, p. 115 57 Ibid. 58 Michel Agier, Ordine e disordini dell’umanitario. Dalla vittima al soggetto politico, in AA.VV, Antropologia, Rifugiati, n° 5, Meltemi, Roma 2005a; in Ivan Mei, Fare e disfare il ruolo di vittima, p. 10 59 Ibid.

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La svolta umanitaria segnò la supremazia del corpo sofferente sul soggetto

politico, della vittima sull’eroe, della pietà sulla giustizia. «Il corpo sofferente ha

imposto la propria legittimità laddove altre basi per il riconoscimento venivano

progressivamente messe in questione»60. I rifugiati, quindi, si presentano come

un simbolo universale, ma così generale da rendere impossibile un

riconoscimento singolare, storico, politico: essi sono talmente vittime da

legittimare ogni forma di aiuto, anche quella che si fa spersonalizzante o

infantilizzante. L’erosione della protezione politica, come spiegherò meglio nel

secondo capitolo, ha lasciato posto ad una protezione assistenzialistica, di

stampo caritativo e umanitario che, togliendo al soggetto la voce, ha causato

ancora più sofferenza e violenza.

1.2 Una questione di status… «Un po’ di temo fà mi capitò di segnalare all’Ufficio Speciale Immigrazione del Comune di Roma, che si occupa della gestione dei posti nei centri di accoglienza per richiedenti asilo, Samuel, altro ragazzo togolese sfuggito dal carcere e dalla tortura. La nostra segnalazione riguardava il fatto che, trattandosi di una persona che aveva passato buona parte dei suoi ultimi anni in carcere, dentro una cella dove non poteva nemmeno permettersi di alzarsi in piedi viste le sue dimensioni, potesse godere di un posto letto il prima possibile. Dopo pochi giorni l’assistente sociale che ha effettuato il colloquio con la persona in questione ci contatta per dirci che Samuel era sorridente e di buon umore, non aveva niente a che fare con una vittima di tortura, per cui non c’era bisogno di nessun trattamento particolare. Samuel, ragazzo pieno di vita e di energia, non ha indossato quel giorno l’abito da vittima e ha perso l’accesso a quello che dovrebbe essere un suo diritto»61.

Questo riferimento, preso da un articolo di Ivan Mei, ci mostra, parafrasando

una citazione di Simone De Beauvoir62, come rifugiato non si nasca, ma lo si

diventi. Esso, infatti, è uno status concesso dall’esterno, da Commissioni che

hanno il potere di decidere chi sia meritevole di protezione e chi no. Una

valutazione esterna basata su un’intervista, un colloquio, un questionario è

quindi sufficiente per attestare un’esperienza di dolore e violenza, spesso

troppo complessa e densa da poter raccontare con precisione. Accade poi che

60 Didier Fassin, 2006, La biopolitica dell’alterità: clandestini e discriminazione razziale nel dibattito pubblico in Francia, p. 305 in Ivo Quaranta (a cura di), Antropologia medica: i testi fondamentali, Raffaello Cortina Editore 61 Ivan Mei, Fare e disfare il ruolo di vittima, p. 14 62 Simone De Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore: «Donna non si nasce, lo si diventa»

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il paese di origine o le motivazioni originarie diventino l’elemento fondamentale

su cui le Commissioni basano la loro decisione, come se il viaggio, che spesso

dura anni, non avesse peso nel richiedere asilo.

«Mai dire che sei qui per avere un lavoro. Mai. Non importa che sia questa la verità. È come ad un colloquio di lavoro: mai dire che hai bisogno di soldi, bisogna dire che si è interessati all’azienda e al loro modo di operare. È così che passi i primi tempi, a modificare la tua storia e a prepararti al colloquio».

Come spiega Mursal Moalin Mohamed durante una lezione aperta tenutasi

all’Università di Parma, in questi casi non si può ragionare in termini di verità o

non-verità del racconto di sé, di autenticità o di finzione, piuttosto bisogna

andare ad indagare queste manipolazioni “agite” come effetti ma soprattutto

come resistenze ad un biopotere che agisce sempre più micro-fisicamente.

«Who is a refuge? It is one who conforms to institutional requirements. […] In the institutional setting, labels assume a much more powerful significance. They serve as a linguistic shorthand for policies, programmes and bureaucratic requiremets - practices which are instrumental in categorizing and differentiating beetween facets of an identity»63.

Come afferma Zetter: «labels not only are used to describe the world but also to

construct it»64 ed è questa una delle più grandi manifestazioni del potere: la

capacità di fratturare il continuum, ossia tutto ciò che costituisce la realità, per

marcare limiti, creandoli appunto. Il potere crea differenze e da loro un nome

per renderle naturalmente visibili con l’obiettivo finale di ordinarle e, in questo

modo, gestirle. In questa spiegazione vi sono due punti sui quali vorrei

soffermarmi: la capacità di definire e la capacità di generare differenze. Il potere

e la parola sono due concetti strettamente legati tra si loro. San Giovanni iniziò

il suo vangelo scrivendo come «in principio fu la parola» raccontando come, per

la creazione del mondo, fu sufficiente solo nominare le cose per assicurarsi che

apparissero. La parola quindi si fa promotrice attiva della creazione, crea vita

63 Roger Zetter, 1991, Labelling Refugees: Forming and Transforming a Bureaucratic Identity, in Journal of Refugees Studies, Vol 4. No.1, p. 51. Trad: “Chi è un rifugiato? È colui che è conforme ai requisiti istituzionali. Nel contesto istituzionale, le etichette assumono un significato molto più potente. Esse servono come scorciatoia linguistica per le politiche, i programmi e le esigenze burocratiche, ossia pratiche che sono strumentali nella categorizzazione e differenziazione tra sfaccettature di una identità. 64 Roger Zetter, More Labels, Fewer Refugees: Remaking the Refugee Label in an Era of Globalization, p. 173. Trad: “le etichette non solo sono utilizzate per descrivere il mondo ma anche per costruirlo”.

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perché può nominarla. Il linguaggio è un elemento che contribuisce, in maniera

decisiva, alla costruzione della realità che è essa stessa una pratica sociale.

Ciò che determina il potere delle parole, ossia l’efficacia performativa di un

discorso, non risiede tanto nelle parole stesse, ma in alcune condizioni che

possono riassumersi nel concetto di autorità. L’esito di questi enunciati, che

Bourdieu definisce come azioni di magia sociale, non dipende dal fatto che si

comprendano, ma dal fatto che siano pronunciati da persone autorizzate,

riconosciute, abilitate per farlo in situazioni legittime, davanti a interlocutori

legittimi e espresso in forme legittime. Il potere si approfitta di questa capacità

delle parole per denominare e definire il mondo che vuole controllare, o meglio,

è il potere stesso che crea questa capacità per utilizzarla secondo la sua

propria volontà.

«Labelling is a way of referring to the process by which policy agendas are established and more particularly the way in which people, conceived as objects of policy, are defined in convenient images»65.

La definizione è una forma di fissare confini e inculcare ripetutamente una

norma. La migliore espressione del potere è, infatti, l’appropriazione e il

controllo delle parole e del linguaggio per creare e imporre nuove possibilità,

manipolare il pensiero della gente e marcare differenze.

«Non ti accorgi che il principale intento della neolingua consiste proprio nel semplificare al massimo le possibilità del pensiero? Giunti che saremo alla fine, renderemo il delitto di pensiero, ovvero lo psicoreato, del tutto impossibile perché non ci saranno più parole per esprimerlo. Ognuna delle idee che sarà necessaria verrà espressa esattamente da una “unica” parola, il cui significato sarà rigorosamente definito, mentre tutti gli altri significati sussidiari verranno aboliti e dimenticati»66.

Definire non significa solamente attribuire un significato, ma anche dare forma

ad un senso e, quando si crea qualcosa che prima non esisteva, ecco che lo si

distingue da quello che non è o non dovrebbe essere. Il potere della definizione

contiene in sé la capacità di escludere e creare confini poiché, indicando

l’essenza di una cosa, si indica anche il suo contrario, spesso negativo. «The

65 G. Wood, 1985, Labelling in Development Policy, Sage, London, in Roger Zetter, Labelling Refugees: Forming and Transforming a Bureaucratic Identity, p. 44. Trad: “etichettare è un modo di fare riferimento al processo mediante il quale le agende politiche sono stabilite e più in particolare al modo in cui le persone, concepite come oggetti della politica, sono definiti in immagini convenienti”. 66 George Orwell, 1998, 1984, Milano, Mondadori, p.97

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concept of labelling produces a highly discriminate category designated to

mediate the interests of the State to control in-migration» 67 . Lo status,

l’etichetta, di rifugiato è fondamentalmente una definizione, quella della

Convenzione del 1951. Oltre a tutte le criticità già analizzate nei precedenti

paragrafi, vorrei soffermarmi anche sull’impossibilità di una definizione –

assegnata dall’esterno, con pretese universali e influenze prettamente

occidentali – di comprendere un vissuto senza risultare limitante, parziale e

incompleta. Lo status di rifugiato si utilizza quindi come una sineddoche, la

parte – l’emigrazione forzata – diventa il tutto; un fatto sociale totale che

interessa non solo la vita dei rifugiati, ma anche gli ambiti sociali, politici ed

economici delle società di partenza, transito e destinazione. Inoltre, non è solo

un problema di significante, ma anche di significato dell’etichetta, ossia

dell’elemento intrinseco, espressivo, concettuale e prettamente culturale. Da

eroe a vittima indifesa a, come si vedrà nei prossimi paragrafi, nemico. La

definizione è sempre quella eppure gli interessi cambiano, mostrando la realtà

processuale, storica, politica e culturale che vi è dietro.

«The label refugee, and its many sub-categories, reflect a political discourse on migration which has deconstructed and reinvented interpretations and meanings in order to legitimize state interests and strategies to regulate migration. Labels reveal the political in the apolitical»68.

Queste considerazioni portarono Abdelmalek Sayad ad elaborare la teoria del

“pensiero di stato”, ovvero di quel dispositivo che per il sociologo algero-

francese costringerebbe le strutture mentali dei cittadini a riflettere quelle dello

Stato, a prendere corpo negli attori sociali e ad essere naturalizzate fino a

diventare ovvie, nascondendo così la loro natura sociale e politica. Ciò vuol dire

che le categorie attraverso cui pensiamo riflettono le strutture nazionali e sono

alla base della nostra visione del mondo. Esse indicano:

«strutture strutturate nel senso che sono dei prodotti socialmente e storicamente determinati, ma anche strutture strutturanti nel senso che predeterminano e organizzano tutta la nostra

67Roger Zetter, More Labels, Fewer Refugees: Remaking the Refugee Label in an Era of Globalization, p. 184. Trad: “il concetto di etichettatura produce una categoria altamente discriminata e designata a mediare gli interessi dello Stato per quanto riguarda la im-migrazione”. 68 Ivi, p.188. Trad:” l’etichetta di rifugiato, insieme alle sue altre sottocategorie, riflette un discorso politico sulla migrazione che ha decostruito e reinventato interpretazioni e significati al fine di legittimare gli interessi e le strategie dello Stato per regolare la migrazione. Le etichette rivelano il politico anche nell’apolitico”.

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rappresentazione del mondo e, di conseguenza, questo stesso mondo»69.

Essendo costitutive del nostro stesso pensiero, tali categorie vengono

necessariamente ad influire anche sulla percezione, l’analisi e l’interpretazione

del fenomeno migratorio. Questo significa che anche la posizione del migrante

nella società di destinazione è determinata dalle categorie nazionali attraverso

cui la società nella sua interezza – dai comuni cittadini ai rappresentanti dello

Stato – pensa, percepisce e crea la realtà sociale; tali categorie sono all’opera

in maniera precipua nelle normative legislative, espressione dello Stato

nazionale e dell’istituzione sovranazionale europea. Il rifugiato, nella modalità

dell’essere emigrato-immigrato, si trova in una:

«posizione intermedia tra essere sociale e non-essere. Né cittadino né straniero, né dalla parte dello Stesso né dalla parte dell’Altro [...]. Fuori posto nei due sistemi sociali che definiscono la sua non- esistenza, il migrante, attraverso l’inesorabile vessazione sociale e l’imbarazzo mentale che provoca, ci costringe a riconsiderare da cima a fondo la questione dei fondamenti legittimi della cittadinanza»70.

1.3 …e di confini Come già accennato, l’eurocentrismo riscontrabile nella Convenzione di

Ginevra traduce in testo di legge il presupposto di un mondo diviso in nazioni, in

ciascuna delle quali sussista una corrispondenza biunivoca tra popolo e

istituzione, tra cittadino e diritti di cittadinanza. «È questo stesso approccio che

ci spinge a leggere come anomalia da correggere tutto ciò che devia

dall’«ordine nazionale delle cose»71, rifugiati per primi»72. L’idea centrale è

quella del confine, anzi, di molteplici confini. Condizione essenziale per

l’esistenza di un territorio è appunto la loro presenza. Lo Stato Nazione si fonda

su due elementi principali: una popolazione nazionale, caratterizzata da

un’identità unitaria e da un territorio circoscritto e delineato da confini chiari e

netti, come quelli delle cartine geopolitiche. Aspetto curioso è che, se i confini

69 Sayad Abdelmalek, 2002, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina, Milano, p. 368, in Ivan Mei, Fare e disfare il ruolo di vittima, p. 5 70 Pierre Bourdieu, Loïc Wacquant in Sayad, p. XI, Ivi, p. 6 71 L.Malkki, 1995, Refugees and exile: from «refugee studies» to the national order of things, in Annual Review of Anthropology, 24, 495-523, in Chiara Marchetti, I rifugiati: da eroi a profughi dell’emergenza, p. 108 72 Ibid.

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sono il presupposto necessario affinché uno Stato esista ed eserciti il suo

potere, è anche vero che non esisterebbero migrazioni senza confini, il loro è

un rapporto necessario e ineliminabile. Il concetto che utilizzerò di confine, non

si limita a definirlo come barriera, limite, non è per forza una linea, così come

non è per forza uno spazio, una zona, un luogo o un non luogo. Il confine è una

pratica di potere, una relazione dinamica, variabile, flessibile, inclusiva ed

esclusiva, permeabile ed impermeabile nello stesso tempo. Il confine, afferma

Simmel, «non è un fatto spaziale con effetti sociologici, ma è un fatto

sociologico che si forma spazialmente»73 , questo significa che esiste una

maggiore possibilità che esso si riproduca e manifesti in modi, luoghi e forme

diverse. Paolo Cutitta parla di «mondo-frontiera»74 proprio per far riferimento ad

una fase di riconfigurazione di confini territoriali, i quali sono sempre più

indistinguibili da quelli sovraterritoriali e sempre più legati a confini di status. Gli

status, analizzati nel precedente paragrafo, appaiono come elementi che

effettivamente consentono, ostacolano o impediscono l’accesso a reti, flussi,

«network of networks»75. Gli status, infatti, non solo hanno dei confini, ma sono

essi stessi dei confini che convivono e interagiscono l’uno al servizio degli altri

tipi di confine, al punto che

«è difficile distinguere in quale misura siano i nuovi confini di status a risultare funzionali al rafforzamento dei confini territoriali e in quale misura siano invece gli stessi confini territoriali a rendere più agevole la demarcazione di confini di status sempre più numerosi e netti»76.

L’immagine è quindi quella di una zona di frontiera universale e

omnicomprensiva, di un mondo in cui confini lineari e puntiformi, materiali e

immateriali, territoriali e sovraterritoriali si intersecano e sovrappongono, si

scompongono e ricompongono, si producono per poi proiettarsi nello spazio e

nel tempo per dare forma ad un reticolo tanto fitto e pervasivo quando elastico,

mobile e sfuggente. Quello dei movimenti migratori è uno dei campi dove gli

Stati rivendicano con più forza il diritto di mantenere il controllo dei loro confini.

73 G. Simmel, 1998, Sociologia, Comunità, Torino, p.531 74 Paolo Cutitta, 2007, Segnali di Confine. Il controllo dell’immigrazione nel mondo-frontiera, Eterotopie Mimesis, Milano 75 Peggy Levitt, Nina Glick Schiller, 2004, Conceptualizing Simultaneity: A Transnational Social Field Perspective on Society, Center for Migration Studies of New York, ZMR Volume 38 Number 3, p. 1009 76 Paolo Cutitta, Segnali di Confine. Il controllo dell’immigrazione nel mondo-frontiera, p. 156

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Le strategie e gli strumenti del controllo delle frontiere sono infatti una delle

manifestazioni più evidenti e significative di quel processo di ristrutturazione e

riconfigurazione dei confini, «il cui tratto essenziale è la compresenza diffusa di

diversi e multiformi “segnali di confine” nel contesto dello spazio globale»77.

Nell’ambito specifico dei controlli sull’immigrazione, si può notare come il potere

dello Stato intervenga, al fine di rafforzare i propri confini territoriali e lineari, in

due modalità distinte ma coese:

«per un verso, riproducendo lo stesso confine sotto nuove forme e delocalizzandolo,

proiettandolo al di qua o al di là del suo tracciato ufficiale di demarcazione, cioè distribuendone

nello spazio una pluralità di manifestazioni secondo dinamiche che verranno qui definite di

flessibilizzazione introversa o di flessibilizzazione estroversa; per un altro verso, attribuendo

significato a confini di status (individuali o di gruppo) già esistenti, ovvero creandone di nuovi,

moltiplicandone il numero e rafforzando la funzione separatrice»78.

1.3.1 Esternalizzazione dei confini Consultare una cartina politica è molto semplice: ad ogni stato è

assegnato un colore che lo differenzia dagli altri marcando un confine. Nessun

dubbio, nessuna incertezza. Ciò che ne risulta è un mosaico colorato, perfetto

nella sua staticità. L’equilibro rappresentato da questi due strumenti non trova

alcun corrispettivo in una realtà sempre più dinamica e in trasformazione. I

confini non sono immobili e, proprio perché costituiscono il risultato di una

pratica, li si può considerare come una specie di elastico: si espandono o

restringono a seconda dell’emergenza di turno.

«il luogo del confine è ormai, potenzialmente, il mondo intero: i paesi di destinazione dei movimenti migratori, infatti, non si limitano a sorvegliare in modo statico il tracciato ufficiale e lineare del confine; essi, invece, svolgono i relativi controlli in modo diffuso (sia direttamente, sia indirettamente) anche all’interno dei propri territori e all’esterno di essi (nei paesi di origine e di transito così come in acque internazionali)»79.

Quello a cui stiamo assistendo da anni è una pratica di esternalizzazione dei

77 Ivi, p. 58 78 Ibid. 79 Paolo Cutitta, 2012, Lo spettacolo del confine. Lampedusa tra produzione e messa in scena della frontiera, Mimesis, Milano, p. 43

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confini, ossia una delocalizzazione del controllo delle frontiere che non sono più

quelle ufficiali degli stati.

«Esso consiste nel prevedere una panoplia di misure volte ad impedire l’accesso al territorio dell’Unione ai “non-cittadini”, percepiti come “indesiderabili”, o definiti “illegali”. Esso restituisce l’immagine di un mondo-frontiera, onnicomprensivo, nel quale i confini di status vengono utilizzati a scopo preventivo, al fine di impedire o rendere più difficile l’ingresso indesiderato di “soggetti non autorizzati” in un determinato territorio»80

Per difendere i propri confini, l'Unione europea ha creato un sofisticato sistema

di sorveglianza, basato sul controllo e pattugliamento delle frontiere esterne,

aeree, marittime e terresti attraverso numerosi strumenti. Uno dei più noti è

certamente Frontex, l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione

internazionale delle frontiere esterne, istituita con il Regolamento CE n.

2007/2004, che ne ha determinato le linee guida. Essa è operativa dall’ottobre

del 2005 e ha la sua sede a Varsavia. Principalmente si occupa del

coordinamento della cooperazione operativa nella gestione delle frontiere

esterne, dello sviluppo e la ricerca sul controllo delle frontiere esterne, l’aiuto

tecnico e operativo nei casi più delicati e critici e il supporto necessario

all’organizzazione di operazioni congiunte di rimpatrio di immigrati irregolari.

Anche se «il controllo e la sorveglianza delle frontiere esterne ricade sotto la

responsabilità degli Stati membri»81, essi sono tenuti a non compromettere in

alcun modo l’esistenza dell’Agenzia, astenendosi da attività che potrebbero

compromettere il raggiungimento dei suoi obiettivi. Come previsto dal suo

mandato rinnovato, mediante il regolamento n. 1168/2011 del Parlamento

europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2011, Frontex ha visto le proprie

capacità operative rafforzate nonché un maggior accento posto sul rispetto dei

diritti fondamentali nelle sue operazioni. Ha anche aumentato le sue capacità di

sorveglianza, attraverso la creazione del Centro situazionale Frontex e

l'istituzione di Eurosur. L’obiettivo di Eurosur è quello di limitare il numero dei

cittadini di paesi terzi che entrano illegalmente nel territorio dell’Ue, di ridurre il

numero di decessi, di rafforzare la sicurezza interna in tutta l’Ue contribuendo a 80 Tiziana D’Acquisto, 2014, I processi di esternalizzazione dei controlli delle frontiere e la «deviazione istituzionalizzata dello sguardo», Rivista di Storia delle Idee 3:2, p. 98 81 Regolamento (CE) N. 2007/2004 del Consiglio del 26 ottobre 2004 che istituisce un'Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione europea, Introduzione par.4

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prevenire la criminalità. L’intento di ridurre le morti, soprattutto in mare, si

presenta come maschera umanitaria di un sistema fortemente anti-

immigratorio. Infatti, se originariamente l’Agenzia si rappresentava come un

organismo di intelligence, capace di individuare e gestire le minacce

incombenti, e in grado di disattivare il carattere illegittimo, coercitivo e poco

etico dei suoi interventi grazie ad un ampio vocabolario dominato dal binomio

rischio-emergenza, oggi si sono invece moltiplicati i riferimenti ai diritti umani e i

discorsi tipici delle agenzie di sicurezza sono quasi del tutto scomparsi.

L’approccio securitizzante ha lasciato spazio a nuove collaborazioni con Ong

umanitarie e l’immagine del migrante quale nemico pericoloso da neutralizzare

si è trasformata in quella di vittima a cui prestare soccorso e protezione:

Frontex diviene lo strumento grazie al cui provvidenziale intervento il migrante

viene protetto dai traffici clandestini. Pertanto, proprio questa retorica

umanitaria consente a Frontex da un lato di nascondere il carattere lesivo delle

sue operazioni, qualificando come umanitarie misure che in realtà ostacolano i

migranti nell’esercizio dei loro diritti, dall’altro, di circoscrivere le critiche

provenienti dall’opinione pubblica legittimando al contempo il proprio operato.

Nel novembre del 2014 viene introdotta la missione Triton, originariamente

chiamata Frontex Plus, in sostituzione alla precedente missione di ricerca e

soccorso sostenuta dall’Italia Mare Nostrum82, che ha permesso all’Italia di

salvare numerose vite in mare, anche a molte miglia dalla costa. La principale

differenza tra le due, fatto salvo l’aspetto economico, è rappresentata dal fatto

che Triton è un’operazione di controllo delle frontiere, e non invece

un’operazione SAR – ricerca e soccorso – , che ha un raggio d’azione molto

limitato rispetto alla precedente, il che comporta il rischio di far diminuire

drasticamente il numero di salvataggi in mare e soprattutto di rendere difficile

individuare a chi spetti il compito di svolgere questa funzione.

82 L'operazione Mare nostrum è stata una vasta missione di salvataggio in mare dei migranti che cercavano di attraversare il Canale di Sicilia dalle coste libiche ai territori italiano e maltese, attuata dal 18 ottobre 2013 al 31 ottobre 2014 dalle forze della Marina Militare e dell'Aeronautica Militare italiane. In seguito al naufragio di Lampedusa - avvenuto il 3 ottobre 2013, in cui persero la vita 366 persone - il governo italiano, guidato dal presidente del consiglio Enrico Letta, decise di rafforzare il dispositivo nazionale per il pattugliamento del Canale di Sicilia autorizzando l'operazione Mare nostrum, una missione militare e umanitaria la cui finalità era di prestare soccorso ai migranti, prima che potessero ripetersi altri tragici eventi nel Mediterraneo.

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Un altro strumento di controllo è il sistema Eurodac83 ossia una banca dati

contenente tutte le impronte digitali dei richiedenti asilo e delle persone fermate

in relazione all’attraversamento irregolare di una frontiera esterna dell’Unione. Il

suo scopo è quello di verificare se un/una richiedente asilo o un cittadino

straniero, che si trova illegalmente sul suo territorio, ha già presentato una

domanda in un altro paese dell’UE o se un/una richiedente asilo è entrato

irregolarmente nel territorio dell'Unione. Eurodac è figlio della Convenzione di

Dublino, nato quindi come strumento utile ad individuare lo Stato membro

responsabile di un/una richiedente asilo, ma tramutato in una vera e propria

infrastruttura di sorveglianza dei confini. Questo sistema non solo lede la

privacy dei/delle richiedenti asilo ma è anche profondamente discriminatorio.

Raccogliendo dati e le impronte digitali, o le misure del polso in caso di minori,

si contribuisce a creare e a peggiorare l’immagine pericolosa dei rifugiati. La

schedatura sistematica dei soli cittadini dei paesi terzi ha infatti un significato

profondamente stigmatizzante, che finisce per associare il rischio terroristico

con la provenienza degli individui e la loro nazionalità. Lo scorso 6 aprile 2016

la Commissione ha presentato il suo nuovo Smart Border Package 84 ,

proponendo la creazione di quella che si candida a diventare la più vasta banca

dati esistente a livello europeo. Il cosiddetto Entry-Exit System (EES) dovrebbe

infatti registrare i dati biometrici ed alfanumerici di tutti i cittadini stranieri che

attraversano, tanto in entrata, che in uscita, la frontiera esterna dello spazio

Schengen, producendo un accumulo di informazioni che potenzialmente

riguarderà centinaia di milioni di persone ogni anno. A differenza delle banche

dati già esistenti 85 , che registrano gli stranieri in funzione del loro status

personale, l’EES riguarderà chiunque.

«Tale proposta persegue un ulteriore obiettivo che sembra piuttosto diretto a favorire la “governance esterna” della frontiera europea […] Il significato della proposta sull’EES va

83 Regolamento (CE) n. 2725/2000 del Consiglio, dell'11 dicembre 2000, che istituisce l'«Eurodac» per il confronto delle impronte digitali per l'efficace applicazione della convenzione di Dublino.84 Lo Smart border pack un pacchetto di proposte legislative (“frontiere intelligenti”) che dovrebbero accelerare, facilitare e rafforzare le procedure di controllo dei viaggiatori di paesi terzi alle frontiere dell’Unione europea. www.europa.eu 85 Sis per gli indesiderabili, Eurodac per ingressi irregolari e richiedenti asilo; Vis per coloro che sono soggetti all’obbligo di visto.

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interpretato anche e soprattutto in prospettiva. La nuova banca dati serve a creare l’infrastruttura di sorveglianza necessaria a gestire in un “ambiente sicuro” (EU Commission Fact Sheet, 6 aprile 2016) le politiche di liberalizzazione dei visti cui l’Europa sarà sempre più insistentemente costretta a piegarsi per coinvolgere i paesi terzi vicini nel controllo delle nostre frontiere. Essa riflette la dialettica tra libertà e sicurezza che ispira sin dalle origini la logica della governance di Schengen, dove ogni concessione in termini di maggiore libertà di movimento deve essere compensata attraverso la creazione di nuovi dispositivi di sorveglianza»86.

Infine, l’ultimo strumento di sorveglianza che prenderò in considerazione, è

Europol o Ufficio di polizia europeo, ossia l’agenzia di contrasto dell’Unione

europea. Il suo obiettivo ufficiale è «contribuire a rendere l’Europa più sicura

assistendo le autorità di contrasto negli Stati membri dell’UE» 87 . I settori

principali in cui coopera sono: lotta contro il terrorismo, contro la tratta di esseri

umani, il traffico illecito di stupefacenti e contro l’immigrazione clandestina. Ogni

Stato membro costituisce o designa un'unità nazionale incaricata di svolgere le

funzioni sopra descritte. La Commissione europea ha in progetto la creazione di

un vero e proprio corpo di polizia di frontiera (European border intervention

police force), composto da migliaia di agenti, che avrebbero la capacità

d’intervenire in caso di bisogno alle frontiere esterne dell’Unione. Gli agenti e i

funzionari del corpo europeo di polizia di frontiera potrebbero integrare o

sostituire quelli dei singoli stati membri nei punti di contatto per lo scambio di

informazioni lungo i confini esterni, nelle attività di pattugliamento congiunto con

agenti di pesi terzi, ovvero come ufficiali di collegamento comunitari di stanza in

un paese terzo. In tal modo il corpo comunitario si aggiungerebbe o si

sostituirebbe a quelli statali nell’opera di esternalizzazione e flessibilizzazione

dei confini.

1.3.2 Meccanismi e pratiche di confine La pratica di confine, e di controllo dello stesso, non solo è diventata più

flessibile nello spazio ma, soprattutto, nel tempo. È in atto, infatti, uno 86 Giuseppe Campesi, La frontiera europea come infrastruttura di sorveglianza, 11 maggio 2016, http://www.meltingpot.org 87 https://europa.eu/european-union/about-eu/agencies/europol_it

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spostamento dei controlli ben al di là delle frontiere, sempre più svincolato dai

limiti imposti dalle demarcazioni ufficiali e pertanto rigide dei confini. Si è giunti

al paradosso per cui il migrante tende ad incontrare o ad attivare la frontiera

ancora prima di mettersi in viaggio. Essa è basata sull’allontanamento

progressivo; Luca Rastello scrive a riguardo che la politica migratoria europea

«tende ad assumere sempre più la forma di un ciclo di smaltimento, con lo

spostamento fuori dai confini di tutto ciò che è possibile rimuovere»88. In tal

senso «Schengen appare come una nuova cortina di ferro pensata per

proteggere gli Stati membri dai poveri del mondo» 89 . Sulla base di tali

presupposti, non a torto, «possiamo osservare che i processi solitamente

compresi sotto la voce “sicurizzazione della migrazione” sono allo stesso tempo

una ri-sicurizzazione del confine» 90 . Tre sono le principali pratiche di

esternalizzazione dei confini: l’obbligo del visto e le sanzioni ai vettori, il

concetto di stato sicuro e gli accordi di riammissione.

L’obbligo del visto d’ingresso nei confronti dei cittadini di determinati paesi può

essere considerato «lo strumento primigenio di ogni politica di controllo

preventivo dell’immigrazione»91. Agendo quando «lo straniero si trova ancora

nel proprio paese di origine (cioè prima ancora che egli si trasformi da semplice

persona in migrante) o in un paese di transito»92 il visto diventa il requisito

primario sulla base del quale distinguere tra migranti legali e illegali, tra regolari

e irregolari, tra rifugiati e clandestini.

«Attraverso l’obbligo del visto, dunque, i confini del controllo vengono non solo anticipati temporalmente rispetto al momento del tentativo di attraversamento della linea di frontiera ma anche delocalizzati spazialmente rispetto alla linea stessa, dando vita a un fenomeno di flessibilizzazione estroversa del confine»93.

Il cittadino straniero è quindi costretto a confrontarsi con un primo tipo di

confine, fisicamente lontano rispetto alla linea del confine territoriale del paese

88 Luca Rastello, 2010, La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani, Laterza, Roma-Bari, pp. 92-93. 89 W. Walters, Weclome to Schengenland. Per un’analisi critica dei nuovi confini europei, in S. Mezzadra (a cura di), I confini della libertà, p. 73. 90 Ibidem, p.57 91 Paolo Cutitta, Segnali di Confine. Il controllo dell’immigrazione nel mondo-frontiera, p. 61 92 Ivi. 93 Ivi.

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di destinazione, ancora prima di mettersi in viaggio e senza nemmeno sapere

se mai potrà effettivamente partire, almeno in forma legale. Un altro

meccanismo legato all’obbligo dei visti è quello che prevede sanzioni pecuniarie

imposte ai vettori che trasportano nel territorio dei paesi dell’Unione europea

cittadini di paesi terzi privi dei documenti d’ingresso necessari94. I paesi di

destinazione possono infatti fare obbligo alle compagnie di trasporto aereo,

marittimo o terrestre, di verificare, prima della partenza, che ciascuno dei

passeggeri sia in regola con i documenti richiesti dalle normative vigenti in

materia di ingresso di cittadini stranieri. Il vettore che non ottempera tale

obbligo può essere privato della licenza ed è soggetto a pesanti sanzioni. Il

personale delle compagnie di trasporto è così tenuto ad acquisire competenze

e a svolgere attività proprie delle guardie di frontiera. In questo caso infatti, non

si tratta «soltanto di delocalizzare i controlli ma anche di delegarli; non si tratta

solo di spostare il confine ma anche di imporne parte della gestione a soggetti

esterni dall’autorità statale»95. Una grave conseguenza di questa pratica è

l’aver reso praticamente impossibile per i richiedenti asilo raggiungere in modo

legale il paese dove essi intendono presentare la domanda.

«Il vettore, non potendo prevedere se un determinato passeggero sarà o non sarà autorizzato dalle autorità del paese di destinazione a trattenervisi per ragioni umanitarie o per presentare domanda di asilo, troverà nell’esigenza di evitare qualsiasi rischio a proprio carico la motivazione sufficiente a impedire comunque l’imbarco a qualunque persona che non possieda i documenti richiesti per l’ingresso, compresi i potenziali richiedenti asilo. Si finisce così per compromettere l’effettività di un diritto soggettivo come quello all’asilo»96.

Il secondo meccanismo di esternalizzazione è dato dall’etichetta di stato sicuro:

«la definizione di stato (o paese) sicuro è utilizzata al fine di giustificare la non

ammissione a una procedura per il riconoscimento dell’asilo […] e il

conseguente eventuale rimpatrio (o respingimento in un paese terzo)

dell’interessato»97. Il concetto di sicurezza quindi si riferisce non solo al paese

di origine ma anche ad un altro paese, il cosiddetto stato terzo sicuro, con il

quale l’interessato abbia una relazione di altro tipo, per esempio che vi sia

94Direttiva (CE) n. 51/2001 del Consiglio, del 28 giugno 2001, che integra le disposizioni dell’articolo 26 della convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen del 14 giugno 198595 Paolo Cutitta, Segnali di Confine. Il controllo dell’immigrazione nel mondo-frontiera, p.70 96 Ibid. p. 69-70 97 Ibid. p.102

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transitato, regolarmente o no, prima di giungere al paese di destinazione.

Venne sancito a livello comunitario nel 1990 con la convenzione di Dublino e

nacque dalla volontà di porre dei limiti quanto più possibili ampi alle richieste

d’asilo. Le principali critiche si basano sul fatto che l’asilo deve essere concesso

su base individuale e che nessun paese può essere considerato a priori sicuro

al punto da potere escludere l’eventualità di una persecuzione individuale. Non

solo, il sistema si fonda sul presupposto che, in fondo, uno Stato membro vale

l’altro per i richiedenti asilo: sono tutti Stati sicuri, hanno tutti ratificato la

Convenzione di Ginevra, offrono tutti la stessa protezione. Purtroppo le cose

non stanno così.

«I tassi di riconoscimento divergono in modo sostanziale, in alcuni casi da 1% a 70% per la stessa nazionalità. Questo significa che lo stesso richiedente ha chances radicalmente diverse a seconda dello Stato a cui è "assegnato". Il che è palesemente aribitrario: i criteri di Dublino, che non hanno niente a che vedere con il merito delle domande di protezione, finiscono per incidere pesantemente sul loro esito»98. Un secondo problema da dover tenere in conto è il fatto che il sistema, se da un

lato sottrae la scelta dello Stato responsabile ai richiedenti, dall’altro si fonda

su criteri che non tengono sufficientemente in considerazione i legami che

un/una richiedente asilo può avere con uno o con l’altro Stato: legami familiari,

culturali, economici, derivanti da soggiorni precedenti. Di conseguenza,

l’applicazione del sistema genera risultati che troppo spesso pregiudicano

l’unità familiare o un’integrazione riuscita delle persone che poi otterranno

uno status di protezione. Per quanto riguarda il concetto di paese terzo sicuro,

la critica maggiore ricalca quella del concetto di sicurezza. Qualunque paese,

infatti, può rivelarsi non sicuro, anche a dispetto delle apparenze, e che nel

momento in cui ciò dovesse constatarsi sarebbe troppo tardi per porre rimedio.

Bisogna tenere conto che la valutazione della situazione del/della richiedente

asilo è affidata alla legislazione sul diritto d’asilo vigente in quel determinato

stato. Questo aspetto può determinare situazioni critiche per la tutela del

soggetto poiché, ad esempio, in numerosi stati la nozione di rifugiato non è

estesa alle ipotesi in cui la minaccia di persecuzione viene perpetrata da

98Alessandro Fiorini, Tutto quello che avreste voluto sapere sul Regolamento Dublino - Intervista a Francesco Maiani, 15 novembre 2011, http://www.meltingpot.org

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soggetti non statali o è connessa a situazioni di violenza indiscriminati durante

conflitti armati. L’evidente rischio di questa pratica è che col tempo porti al

manifestarsi del fenomeno dei rifugiati in orbita e dei respingimenti a catena,

ovvero situazione nelle quali nessuno stato provvede ad un esame sul merito

della domanda, che possono condurre, in ultimo, al rinvio dell’individuo presso

lo stato dove è possibile che sussista una persecuzione nei suoi confronti.

Questo concatenarsi di eventi determinerebbe quindi una violazione del divieto

di refoulement e aggraverebbe la situazione di vulnerabilità e instabilità dei

soggetti che si vedono impossibilitati a fare richiesta d’asilo.

Il terzo strumento chiave nelle strategie di esternalizzazione dei confini è dato

dagli accordi di riammissione, istituiti dal Trattato di Amsterdam del 1999,

prevedono che i paesi membri si impegnino a stipulare dei patti di riammissione

con i paesi d’origine o di transito dei migranti. Gli obiettivi di tali accordi sono, da

una parte, facilitare e velocizzare i respingimenti delle persone irregolari nei loro

paesi d’origine e, dall’altra, preservare gli interessi economici dei paesi membri

che, grazie alla manodopera a basso costo proveniente dai paesi considerati a

rischio di migrazione, danno nuova vita ad alcuni settori della loro economia.

Considerati dispositivi essenziali nella lotta all’immigrazione clandestina, questi

accordi prevedono una cooperazione tra i paesi firmatari che consiste nel

fornire sostegno finanziario, tecnologico e di competenze ai governi dei paesi

interessati, in modo da consentire la creazione delle necessarie infrastrutture,

l’ammodernamento delle dotazioni delle forze dell’ordine, l’adozione di nuovi

strumenti legislativi, la realizzazione di campagne di informazione volte a

dissuadere i potenziali migranti a mettersi in viaggio irregolarmente. Vengono

anche promosse attività di cooperazione pratica come i pattugliamenti marittimi

e transfrontalieri congiunti. In cambio lo stato membro dovrebbe ottenere la

piena collaborazione nelle operazioni di rimpatrio dei migranti irregolari

sottoposti a provvedimento di espulsione o di respingimento alla frontiera.

Questo tipo di cooperazione va considerato come una relazione asimmetrica tra

soggetti che hanno interessi e capacità contrattuali diversi. Grazie alla propria

posizione dominante dal punto di vista politico ed economico, l’Unione Europea

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riesce ad esternalizzare i propri confini fino ai territori dei paesi d’origine o di

transito condizionando così le loro politiche di emigrazione, immigrazione e

controllo delle frontiere. La gravità di questi accordi è che essi non garantiscono

in nessun caso che il ritorno forzato delle persone nel proprio paese avvenga

nel rispetto delle norme internazionali in materia di diritti umani. In molti casi,

infatti, i migranti vanno incontro a procedure legali o all’arresto, poiché in molti

dei paesi d’origine non vige nessuna norma che tuteli i diritti fondamentali

dell’uomo e, in alcuni casi, l’emigrazione è considerata un reato. Non solo, gli

accordi ledono anche il diritto a chiedere asilo poiché i migranti non riescono ad

esercitarlo essendo bloccati alle frontiere del proprio paese di origine o

riammessi senza aver potuto fare la richiesta. Questo è accaduto, per esempio,

con l’accordo di riammissione firmato dal governo italiano e la Libia di Gheddafi

che ha suscitato critiche per l’incostituzionalità, l’irregolarità e la mancanza di

senso civile ed etico delle sue pratiche.

1.4 La fortezza Europa

Creare muri, metterci delle guardie che li vigilino, respingere chi si

avvicina, controllare e schedare e detenere chi entra, usare il confine marittimo

come un fossato e quello aereo come una cupola impenetrabile, tutto questo

rimanda all’immagine di una Europa fortezza, chiusa in se stessa e invalicabile.

Ovviamente questa immagine non corrisponde alla realtà, come vedremo nei

prossimi paragrafi, ma non è detto che non sia l’obiettivo verso cui le politiche

comunitarie stiano spingendo. È il paradosso dell’Unione: patria dei diritti umani

che difficilmente si vogliono riconoscere. Una prima grande pietra miliare è la

Convenzione di Dublino, firmata il 15 giugno 1990 dai dodici Stati membri della

Comunità europea con l’obiettivo di armonizzare le politiche in materia di asilo.

In particolare, la Convenzione è finalizzata al raggiungimento di una

distribuzione più razionale delle competenze tra gli Stati membri per quanto

riguarda l’esame delle domande di asilo presentate. L’art.6 evidenzia che «il

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procedimento ha inizio quando tale domanda viene sottoposta ad uno Stato

membro per la prima volta»99. Nel caso in cui il/la richiedente sia in possesso di

un titolo di soggiorno o di un visto valido rilasciato da uno Stato dell’Unione,

sarà proprio questo Stato a doverne esaminare la domanda. Da qui si può

notare la costituzione di un binomio fra la concessione di visti e permessi di

soggiorno e il dovere dello Stato che li rilascia a procedere all’esame della

domanda di asilo presentata dal titolare del titolo in questione. Nel caso in cui

un migrante entri nel territorio comunitario in maniera irregolare per presentare

domanda di asilo, la Convenzione prevede che lo Stato che può provare

l’attraversamento delle proprie frontiere da parte del/della richiedente ne dovrà

esaminare la domanda. È interessante notare come in questo strumento venga

a formarsi il concetto di Stato responsabile del «controllo dell’entrata dello

straniero nel territorio degli Stati membri 100 »; la responsabilità dell’entrata

del/della richiedente ha come conseguenza il dovere di esaminare la sua

domanda di asilo. Questo rapporto di causa-effetto, ha fatto in modo che le

politiche degli Stati membri in materia di immigrazione mirassero a rafforzare il

controllo delle frontiere esterne dell’Unione per prevenire l’arrivo dei clandestini

e, al tempo stesso, fossero più parsimoniose nel concedere visti e permessi di

soggiorno, che avrebbero significato la possibilità di doversi occupare di una

quantità di richieste di asilo difficile da gestire. Anche se formalmente la

Convenzione ha come obiettivo principale quello di assicurare che ogni

domanda d’asilo presentata nell’Unione venga esaminata da uno Stato

membro, è anche vero che contiene anche il più velato obiettivo di sottrarre

al/alla richiedente asilo la scelta del paese che esaminerà la sua domanda.

Quello che la Convenzione vuole impedire è il cosiddetto asylum shopping,

ossia la prassi dei richiedenti asilo di presentare domanda nel paese che offrirà

le migliori condizioni di accoglienza, o di presentare una domanda in un altro

paese dopo essere stato respinto. Il termine shopping, rimandando ad una

pratica ludica che si fa per divertimento durante il tempo libero, costruisce

99 Art. 6, Convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l'esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri delle Comunità Europee, 1990, http://www.camera.it/_bicamerali/schengen/fonti/convdubl.htm 100 Art.7,Convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l'esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri delle Comunità Europee

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l’immagine negativa di richiedenti asilo consumatori dell’assistenza e

approfittatori dell’accoglienza europea. La rigidità della Convenzione crea una

contraddizione notevole: da una parte infatti sovraccarica i sistemi di

accoglienza degli stati che si trovano lungo i confini dell’Ue che, oberati dagli

arrivi, non forniscono un’adeguata assistenza, mentre dall’altra costringe i

richiedenti asilo a stare in un paese che consideravano solo di transito. Una

situazione che aggrava entrambe le parti. L’idea di un Europa fortezza è

dunque controproducente, ipocrita ed anacronistica, non solo contraddice

l’immagine di una terra democratica e liberale ma anche l’idea di una

globalizzazione alla portata di tutti. Oltretutto, la costruzione di una fortezza è il

risultato evidente di una crisi, non migratoria, ma di un’organizzazione

internazionale politica che non sa più chi è. Quella che si sta verificando in

questi anni è una crisi di identità di un Unione Europea che definisce se stessa

in base all’esclusione di un’alterità che le è necessariamente imprescindibile. La

costruzione di un nazionalismo europeo bianco e anti islamico ne è l’esempio,

peccato che crei fratture e discriminazioni interne. In questi casi, quindi, la

costruzione di frontiere esterne non serve, poiché il problema e la crisi vera è

dentro, peccato che sia più facile trovare il capro espiatorio.

1.4.1 La nuova politica della fortezza Il 13 maggio del 2015, la Commissione Europea ha presentato una

comunicazione intitolata l’Agenda Europea sulla Migrazione. Si tratta

essenzialmente di un piano di lavoro che anticipa future azioni e proposte

legislative della Commissione in questo campo. L’Agenda propone quattro

pilastri per gestire al meglio la migrazione:

1. ridurre gli incentivi alla migrazione irregolare: per quanto riguarda questo

punto, l’Unione Europea si impegna a collaborare con i paesi terzi per

affrontare a monte le cause profonde dell’immigrazione. Si ribadisce quindi

tutta la retorica dei programmi di cooperazione allo sviluppo che

personalmente considero iniziative eurocentriche ed entnocentriche,

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maschera buona del capitalismo. Credo che la principale causa

dell’immigrazione sia la povertà e credo anche che essa sia la

conseguenza di uno stile di vita insostenibile all’occidentale basato su

consumo, spreco e compravendita di risorse. Trovo quindi un paradosso,

nonché una forma di neo imperialismo, avviare programmi di sviluppo nei

paesi terzi quando la causa profonda della povertà è il nostro sistema

economico. Quello che questi programmi tentano di risolvere sono le

conseguenze e non le cause, e così facendo si continua ad alimentare un

circolo vizioso al quale non si vuole veramente porre fine perché non è ne

vantaggioso ne proficuo. In questo primo pilastro, inoltre, viene ribadita

l’importanza degli accordi di riammissione e dei rimpatri potenziando il ruolo

di Frontex;

2. gestire le frontiere: salvare vite umane e rendere sicure le frontiere esterne:

il secondo pilastro non introduce nulla di nuovo, rafforza e risalta l’operato

degli strumenti citati prima: Triton, Eurosur, Eurodac e l’iniziativa delle

frontiere intelligenti. Mi chiedo però se la costruzioni di muri con tanto di filo

spinato tra Bulgaria, Grecia, Ungheria e Turchia sia da considerare una

manovra intelligente e se l’accordo tra Unione Europea e Turchia, sancito il

18 marzo del 2016, abbia davvero come obiettivo quello di salvare vite

umane101;

3. Onorare il dovere morale di proteggere: una politica comune europea di

asilo forte: anche per quanto riguarda il terzo pilastro, si porta avanti una

politica di esternalizzazione dei confini. Viene ribadita infatti la necessità di 101 La Turchia, in cambio di 6 miliardi di euro, ha accettato di riprendere tutti i cosiddetti migranti irregolari giunti sulle isole della Grecia a partire dal 20 marzo. «I migranti che non faranno domanda d'asilo o la cui domanda sia ritenuta infondata o non ammissibile ai sensi della suddetta direttiva saranno rimpatriati in Turchia» (Dichiarazione UE-Turchia, 18 marzo 2016, http://www.consilium.europa.eu) impedendo così ai richiedenti asilo di raggiungere il paese di destinazione nel quale hanno famiglia o legami sociali e trattandoli come clandestini. «Per ogni siriano rimpatriato in Turchia dalle isole greche un altro siriano sarà reinsediato dalla Turchia all'UE tenendo conto dei criteri di vulnerabilità delle Nazioni Unite». Il testo fissa come tetto massimo il numero di 72mila persone (18mila più 54mila). Non solo, il sistema ha un che di perverso: chi ha provato a venire illegalmente sarà automaticamente escluso, ma i ricollocamenti non saranno avviati fintanto che non ci sarà un numero corrispondente di persone rimandate indietro. La giustificazione dell’accordo, da parte dell’Unione Europea, è che la Turchia sia a tutti gli effetti un paese sicuro in cui richiedenti asilo e rifugiati possono essere fatti tornare. In realtà il sistema d’asilo della Turchia, proprio perché saturo – con circa 3 milioni di rifugiati è il paese che ne ospita di più al mondo – non soddisfa i tre requisiti fondamentali previsti dal diritto internazionale per il ritorno dei richiedenti asilo: lo status, una soluzione duratura nel tempo e la disponibilità dei mezzi di sostentamento. I richiedenti asilo vanno così incontro ad anni di attesa prima che il loro caso venga esaminato. In quel periodo, l’assistenza per trovare un riparo e un sostentamento è scarsa, se non nulla, col risultato che bambini anche di nove anni sono costretti a lavorare per mantenere la famiglia.

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rafforzare le disposizioni sul paese di origine sicuro, di lottare contro gli

abusi del sistema di asilo e di promuovere l’identificazione sistematica e il

rilevamento delle impronte digitali; queste azioni dovrebbero favorire un

trattamento rapido delle domande;

4. Una nuova politica di migrazione legale: l’ultimo pilastro chiarisce che

l’unica migrazione legale è quella di lavoratori altamente qualificati 102 ,

soprattutto nei settori quali la scienza, tecnologia, ingegneria e sanità, tanto

necessari al mondo del lavoro europeo. In questo senso, la Commissione

europea si impegna sia a modernizzare la politica dei visti – introducendo il

visto di circolazione103 – sia a revisionare l’elenco di paesi i cui cittadini

devono possedere un visto per entrare nell’Ue.

Nella prima parte, l’Agenda illustra quelle che dovrebbero essere le azioni da

intraprendere immediatamente per rispondere alle tragedie in atto nel mar

Mediterraneo. In particolare introduce due importanti novità: un programma di

ricollocazione e uno di reinsediamento da un paese terzo verso uno stato

membro. «La “ricollocazione” è la distribuzione tra gli Stati membri di persone

con evidente bisogno di protezione internazionale» 104 e la chiave di

distribuzione sarà basata su «criteri obiettivi, quantificabili e verificabili che

riflettono la capacità degli Stati membri di assorbire e integrare i rifugiati»105.

Questi criteri sono: popolazione, PIL, tasso di disoccupazione, numero di

richiedenti asilo e numero di rifugiati reinsediati negli ultimi anni. Secondo

l’indice proposto dalla Commissione, Germania, Francia, Italia e Spagna sono i

paesi in cui verrà “redistribuito” il maggior numero di richiedenti asilo. È

importante chiarire che la proposta di cui si parla nell'Agenda non supera affatto

il Regolamento Dublino. L'Agenda propone di individuare, solo in casi di

«emergenza» o di «afflusso massiccio» e solo nei confronti di alcuni richiedenti

102 Direttiva carta blu, 2009/50/CE del 25 maggio 2009, sulle condizioni di ingresso e soggiorno di cittadini di paesi terzi che intendano svolgere lavori altamente qualificati 103 Si tratta di un nuovo tipo di visto che viene rilasciato ai cittadini di paesi terzi soggetti a obbligo di visto o esenti da tale obbligo, che hanno un legittimo interesse a circolare nello spazio Schengen per più di 90 giorni su un periodo di 180 giorni (COM(2014)163) 104 COM(2015) 240 final, Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni. Agenda europea sulla migrazione, Bruxelles, 13.5.2015, p.21 105 Ivi

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asilo, quelli che «chiaramente necessitano di protezione», un diverso Stato

responsabile per l'esame della loro domanda rispetto a quello di ingresso

irregolare. Ma lo fa, ancora una volta, senza tenere in conto delle volontà delle

persone coinvolte, dunque sempre nel solco tracciato dal Regolamento

Dublino. Ad un anno dalla proposta i numeri rimangono estremamente bassi,

secondo i dati pubblicati dalla Commissione europea, in un anno 5.651 persone

sono state ricollocate dalla Grecia, 4.455, e dall’Italia, 1.196. L'Agenda prevede

poi, sempre tra le azioni immediate, la proposta di uno schema di

reinsediamento di rifugiati da paesi terzi sul territorio europeo, secondo una

distribuzione analoga a quella vista per la ricollocazione. In questo caso viene

già fissato il numero dei rifugiati da reinsediare, 20mila, per quanto limitato

numericamente, questo programma è senz’altro positivo poiché contribuirà a

dare delle prospettive migliori a delle persone, oltre che offrire loro una

possibilità di accesso in Ue in maniera legale e sicura, sottraendo così ai

trafficanti delle potenziali fonti di guadagno. Tuttavia, anche in questo caso, la

volontà dei singoli non è presa in considerazione.

1.4.2 La fortezza Italia

«Nei canali di Otranto e Sicilia migratori senz’ali,

contadini di Africa e di oriente affogano nel cavo delle onde.

Un viaggio su dieci si impiglia sul fondo, il pacco dei semi si sparge nel solco

scavato dall’ancora e non dall’aratro. La terraferma Italia è terrachiusa.

Li lasciamo annegare per negare». (Erri De Luca).

Nonostante la Costituzione italiana sia uno dei testi più all’avanguardia nel

riconoscere il diritto di asilo, l’Italia non ha ancora una legge organica sull’asilo.

Di fatto, la normativa sull’asilo è sempre stata contemplata nelle disposizioni di

legge relative all’immigrazione in generale. Nel 1954, con la legge 722 del 24

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luglio, lo Stato Italiano ratifica la Convenzione di Ginevra, adottando però la

riserva geografica che ha mantenuto sino al 1990. Le motivazioni erano

essenzialmente economiche: definendosi unico Paese in Europa a confinare

con due aree geografiche da cui provenivano e provengono esodi di rifugiati e

continuando a ritenersi impossibilitato ad accogliere grandi numeri di migranti.

Non solo, l’Italia ha continuato per molto tempo a dichiararsi esso stesso un

paese di emigrazione106. Il primo cambiamento normativo in materia di asilo si

ha con il Decreto legge 416 del 30 dicembre 1989 “Norme urgenti in materia di

asilo politico di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di

regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio

dello Stato. Disposizioni in materia di asilo” convertito poi nella legge n. 39 del

28 febbraio 1990, detta anche legge Martelli107. Pur utilizzando il concetto di

asilo, la Legge Martelli non fa riferimento al diritto di asilo costituzionale ma

esclusivamente alla definizione di rifugiato dato dalla Convenzione di Ginevra.

La legge, oltre ad eliminare la dichiarazione di riserva geografica

nell’applicazione della Convenzione, ribadisce il principio di non refoulement e

prevede l’istituzione di organi e procedure per la presentazione e l’esame delle

richieste dello status di rifugiato, la creazione di centri di accoglienza ai valichi

di frontiera ed erogazione di contributi alle Regioni che predispongono

programmi per la realizzazione di centri di prima accoglienza e servizi per gli

immigrati in collaborazione con i maggiori comuni. Prevede inoltre la possibilità

di concedere un contributo economico ai richiedenti asilo privi di mezzi di

sussistenza o di ospitalità; contributo che, come stabilito nel Decreto del

Presidente della Repubblica 136/1990, si rileva fin da subito irrisorio, per soli 45

giorni, quando i tempi di attesa di definizione delle domande da parte dell’unica

Commissione Nazionale, istituita dallo stesso decreto, con sede a Roma, si

protraggono per molti mesi in più. Gli anni 90 rivelano l’inadeguatezza di questo

primo fragile sistema istituito dalla Legge Martelli. L’arrivo di migliaia di

richiedenti asilo che raggiungono l’Italia in seguito alla crisi dell’area balcanica,

106 Vedasi Sentenza della Corte di Cassazione n°18549 del 25 settembre 2006, consultabile al sito: http://www.cortedicassazione.it/Notizie/GiurisprudenzaCivile/SezioniUnite/SchedaNews.asp?ID=1334 107 Legge 39 del 28 febbraio 1990 è detta legge Martelli dal nome del suo promotore, l’allora vice presidente del Consiglio dei Ministri Claudio Martelli.

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agli esodi dall’Albania - nel 1991 e nel 1997 - e alla guerra in Somalia del 1992,

mostra la necessità di una nuova politica in materia di migrazione. La Legge

risulta incompleta ed inadeguata per affrontare la richiesta di asilo di persone

che non rientrano nelle caratteristiche previste dalla Convenzione, e che nello

stesso tempo, nella maggior parte dei casi, non possono essere rimpatriate per

il principio di non refoulement. L’Italia ha affrontato la situazione adottando

sempre provvedimenti ad hoc, che hanno cercato di superare le cosiddette

emergenze con risposte di protezione ed accoglienze temporanee con il rilascio

di permessi di soggiorno per motivi umanitari nei migliori dei casi, con

procedure di rimpatri forzati e accordi di riammissione nei peggiori. Un esempio

è il Decreto legislativo 286 del 1998, Testo Unico delle disposizioni concernenti

la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, che

introduce disposizioni riguardanti la materia d’asilo, quali: la conferma del

principio di non refoulement, l’introduzione della protezione temporanea «in

caso di eventi eccezionali per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di

conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non

appartenenti all’Unione europea», confermando la volontà di affrontare in

maniera temporanea e precaria l’inadeguatezza della Convenzione di Ginevra

alla realtà, e l’istituzione dei centri di prima accoglienza per stranieri

regolarmente sul territorio. Dalla fine degli anni ’90 iniziano a modificarsi i flussi

dei migranti forzati verso l’Italia: da est per anni continuano gli ingressi dall’area

balcanica che progressivamente si mischiano con gli arrivi dal Medio oriente e

dall’Asia, mentre da sud iniziano ad arrivare flussi sempre più frequenti

dall’Africa, in prevalenza dal Corno d’Africa ed dall’area sub-sahariana. Le

decisioni politiche nei confronti dell’immigrazione cominciano ad orientarsi

sempre più verso interventi di limitazione. Il fenomeno migratorio viene sempre

più criminalizzato e la realtà dei richiedenti asilo e rifugiati è confusa con quella

di migranti illegali. Si costruisce così l’immagine di un’invasione da parte di

“immigrati” che mettono a repentaglio la sicurezza dei cittadini italiani. In questo

clima, dopo le elezioni politiche del 2001, che portarono al governo i partiti di

destra insieme al movimento populista della Lega, viene emanata la legge 189

del 30 luglio 2002 detta Legge Bossi-Fini, che apporta significative modifiche

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alle precedenti leggi sull’immigrazione ed in particolare alle norme che regolano

le richieste di asilo. Questa legge decentra l’organo decisionale nei confronti

delle richieste di asilo istituendo le Commissioni Territoriali e introduce il

trattenimento per i richiedenti asilo attraverso la creazione di Centri di

Identificazione, veri e propri centri di trattenimento dove si limita la libertà

personale. Oltre all’inasprimento delle pene per i trafficanti di esseri umani in

violazione della legge, a una sanatoria per colf, assistenti ad anziani, malati e

portatori di handicap, all’uso delle navi della Marina Militare per contrastare il

traffico di clandestini, alla possibilità di entrare in Italia solo se in possesso di un

contratto di lavoro in regola, all’obbligo di rilevamento e registrazione delle

impronte digitali, la legge suscitò molte critiche per aver ammesso i

respingimenti al paese di origine in acque extraterritoriali, in base ad accordi

bilaterali fra l’Italia e altri paesi, ad esempio quello con la Libia di Gheddafi nel

gennaio 2009, che impegnano le polizie a cooperare per prevenire

l’immigrazione clandestina. L’obiettivo era quello di fare in modo che i barconi

non potessero attraccare sul suolo italiano e che l’identificazione degli aventi

diritto all’asilo politico o a prestazioni di cure mediche e assistenza avvenisse

direttamente in mare, impedendo così l’effettivo esercizio del diritto d’asilo e

contravvenendo al principio di non refoulement. Nel 2009 viene introdotto il

“Pacchetto Sicurezza” attraverso la legge 94 del 2 luglio 2009 che sancisce in

Italia il reato di immigrazione illegale e che va ad inasprire e respingere le

norme in materia di richiesta di asilo politico, di ricongiungimento, cittadinanza

ed espulsione. Nel 2011, in seguito alla guerra in Libia, che fece saltare gli

accordi con l’Italia di controllo delle migrazioni, e alla cosiddetta Primavera

araba, caratterizzata da rivolte in alcuni paesi del Nord Africa, scoppia

l’ennesima emergenza, quella Nord-Africa. Non voglio addentrarmi in una

spiegazione minuziosa di quello che è accaduto, ma vorrei sottolineare come

questa situazione abbia, ancora una volta, messo in luce la sistematica e quasi

strutturale incapacità dello stato italiano a far fronte a quella che non definirei

un’emergenza, in quanto i numeri delle persone sbarcate sulle coste italiane

erano si notevoli ma non certo così biblici come paventato dal Governo e

amplificato dai mass media. L’obiettivo politico era mirato a costruire

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un’emergenza allarmante per giustificare l’adozione di atti straordinari,

provvedimenti d’urgenza, spesso impropri e frammentari, volti ad aggirare la

normativa vigente e a sostenere una politica di forte contrasto all’immigrazione

illegale. Tutto questo ha aggravato non solo la disorganizzazione

dell’accoglienza ma anche, e soprattutto, la vulnerabilità delle persone accolte.

La carenza di norme e di strutture, spesso improvvisate, la corruzione che ha

pervaso l’enorme giro d’affari creato dall’emergenza, i respingimenti e la

lentezza dell’apparato burocratico per il riconoscimento dell’asilo, per

menzionarne solo alcuni, hanno aggiunto violenza alla violenza già subita

precedentemente. Il Mar Mediterraneo, da unica via per la salvezza, si è

trasformato in un cimitero nel quale centinaia e centinaia di persone, e bambini,

continuano tragicamente a perdere la vita. Un’ecatombe alla quale non si può

più rispondere attraverso provvedimenti dati da un’emergenza o da una crisi

umanitaria, ma nemmeno fortificando le frontiere esterne.

1.4.3 La Roadmap italiana

Il 28 settembre del 2015 il Ministero dell’Interno pubblica la tabella di

marcia italiana, un documento nato in conformità con la “Proposta di decisione

del Consiglio che istituisce misure provvisorie in materia di protezione

internazionale a beneficio di Italia e Grecia” stabilita dall’Agenda europea sulle

migrazioni. Il provvedimento più preoccupante è il cosiddetto approccio hotspot,

centri di identificazione, a Pozzallo, Porto Empedocle, Trapani e Lampedusa) in

cui gli stranieri appena sbarcati in Italia sono sottoposti a screening medico e a

rilievi fotodattiloscopici ai fini della loro identificazione. Le forze di polizia

italiane, supportate dai rappresentanti delle agenzie europee come Frontex,

Europol, Eurojust ed l’Agenzia europea per il Supporto all’asilo (EASO), sono

presenti per applicare una prima differenziazione tra i richiedenti asilo/coloro

che sono suscettibili di aderire alla procedura di ricollocazione, che saranno

registrati come CAT 1, e coloro che sono in posizione irregolare, foto-segnalati

come CAT 2. A seguito di questa sorta di catalogazione sommaria si biforcano

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due destini: le persone che richiedono protezione internazionale e che sono

suscettibili di aderire alla procedura di ricollocazione saranno trasferite nei

regional hubs108 entro 24-48 ore per proseguire le pratiche; a chi invece viene

notificato il foglio di respingimento differito, una sorta di espulsione dall’Italia,

non restano che i Cie ai quali segue il rimpatrio forzato o la strada o i servizi di

accoglienza e assistenza legale offerti dalle Caritas. Un punto critico su cui mi

vorrei soffermare riguarda la tempistica delle pratiche. Si legge:

«Immediatamente dopo lo sbarco i cittadini di Paesi terzi in una delle aree “hotspot”, il personale competente procederà con le operazioni di primo soccorso […] nonché con lo screening sanitario. Nel contempo Frontex ed Europol svolgeranno attività investigativa. Il personale del Dipartimento di Pubblica Sicurezza, insieme al personale di Frontex, porrà in essere le operazioni di prima identificazione; durante queste operazioni si accerterà anche la nazionalità delle persone suscettibili di rientrare nella procedura di ricollocazione. Tutte le persone sbarcate saranno sottoposte ad attività di registrazione, foto-segnalamento e di rilievi dattiloscopici da parte di personale di polizia, coadiuvato da operatori Frontex»109.

Il problema riguarda la quantità e la qualità dell’informazione che le persone

ricevono riguardo il loro futuro in un momento così critico che è quello dopo lo

sbarco. Bisogna considerare che le persone - dopo un viaggio che definire

dell’orrore è riduttivo - sono stanche, impaurite, affamate, assetate e bisognose,

se non di cure, di certo di riposo e calma. Invece di trovare ristoro sono

costrette a dover prendere decisioni non ponderate abbastanza, proprio perché

costrette dall’immediatezza delle pratiche, che hanno conseguenze nette sulla

loro vita.

«Sulla banchina del porto ricevono un foglio dove vengono invitati da un mediatore, non sempre della loro lingua, a compilare una delle voci in elenco che li vuole partiti per trovare lavoro, per raggiungere la famiglia, per altre ragioni e solo nell’ultima riga si pone la richiesta d’asilo. “Questo primo screening è quello che di fatto decide il futuro dei migranti – spiega Loredana Leo, avvocato Asgi ( Associazione studi giuridici sull'immigrazione) – che se ritenuti migranti economici, vengono trasferiti alla questura di Agrigento e muniti di un foglio di respingimento. Nonostante le sanzioni e i richiami della Corte europea dei diritti dell’uomo, vige la provvisorietà e la vulnerabilità” […]“In realtà - continua la Leo - sappiamo da alcuni migranti che funzionari dell’Europol o di Frontex sulle navi provvedono già ad una prima scrematura e a decidere sui rimpatri. Non è strano infatti che le capitanerie prima ancora che i migranti sbarchino ne conoscano perfettamente la nazionalità”»110.

108 Ex centri governativi facenti parte del sistema di prima accoglienza (CARA/CDA e CPSA) che ora si stanno riconfigurando come regional hubs. 109 Roadmap italiana, Ministero dell’Interno, 28 settembre 2015, p.9 110 Maddalena Maltese, I diritti negati ai migranti dagli Hotspot, 25 febbraio 2016, www.asgi.it

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Per chi viene considerato immigrato economico, quindi automaticamente

irregolare, non rimane altra scelta che il rimpatrio. Un semplice foglio scritto

troppo in fretta diventa un documento fondamentale con il quale si decide il

futuro di una persona. Non solo le tempistiche, ma anche lo strumento si rivela

inadeguato. A tutto questo bisogna anche aggiungere la discriminante della

nazionalità: al momento infatti i richiedenti provenienti da Siria, Iraq ed Eritrea

ottengono quasi automaticamente asilo. Questa pratica va contro il principio

fondamentale della Convenzione di Ginevra secondo cui lo status di rifugiato

deve essere riconosciuto su base individuale. Un paese in guerra non può

essere l’unico motivo per concedere l’asilo, è necessario considerare le

situazioni personali di ciascuno, anche se questo richiede tempo. L’istituzione di

questo “imbuto burocratico” preoccupa, anche per un’assenza di modalità di ingresso legali per le migliaia di rifugiati che premono ai confini europei. Non si

parla delle vie legali di accesso come: l’utilizzo di visti umanitari, un programma

di reinsediamento che dia risposte numeriche adeguate alle esigenze dettate

dalla crisi siriana, la possibilità di chiedere asilo dalle rappresentanze consolari.

Per chi invece viene considerato richiedente asilo si apre la strada del

ricollocamento, anche in questo caso vi sono problematiche serie poiché non si

tengono in conto le esigenze personali. Ogni ricollocamento dovrebbe essere

obbligatoriamente legato o ai legami familiari e culturali delle persone o a un

chiaro progetto di integrazione personalizzato e non agli interessi degli stati

membri.

Il secondo nodo critico riguarda la coercizione a cui queste persone sono

sottoposte. Accade che tanti migranti sono restii al processo di identificazione e

oppongono resistenza alla forze dell’ordine, che si trovano talvolta a dover

forzare la rilevazione le impronte. Nessuna legge, infatti, prevede che negli

hotspot, le persone vengano trattenute per 3 o 4 giorni o anche una settimana

per prendergli le impronte, con una limitazione della libertà personale che sì è

prassi della polizia, ma non norma che autorizza anche la coercizione per

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portare a buon fine il processo identificativo. L’Asgi111 ha già avuto modo di

stilare un documento in cui dettagliatamente si evidenzia l’impossibilità da parte

delle forze dell’ordine di fare uso della forza per costringere i cittadini stranieri a

sottoporsi al rilevamento delle impronte. I comportamenti contrari a tale divieto

assumono un rilievo penale (maltrattamenti, lesioni o altro).

«Negli “hotspots”, l’ASGI ricorda che : 1. Ogni straniero soccorso in mare e sbarcato ha il diritto di ricevere informazioni complete e comprensibili sulla sua situazione giuridica e ha il diritto di manifestare in qualsiasi momento (anche quando già si trova da tempo in Italia) la volontà di presentare domanda di asilo. 2. Ogni straniero soccorso in mare e sbarcato in Italia e sprovvisto di titoli per il soggiorno non può essere respinto od espulso senza una valutazione completa della situazione della persona o soltanto perché le autorità di pubblica sicurezza presumono che la sua nazionalità o lo Stato di provenienza non abbia alcuna rilevanza ai fini di un’ipotetica domanda di asilo o sulla base di accordi bilaterali conclusi n forma semplificata con gli Stati di origine. 3. Ogni straniero soccorso in mare e sbarcato può essere sottoposto ad identificazione soltanto nei casi, nei modi e nei termini previsti dalle norme UE e dalle norme italiane, ma in generale non può essere sottoposto a misure coercitive per i rilievi fotodattiloscopici, né può essere trattenuto con misure coercitive al solo fine di essere identificato»112.

1.5 Lo spettacolo della criminalizzazione

«We are not dangerous, we are in danger!»

«In systematic and predictable way, asylum regimes disproportionately disqualify asylum seekers, and convert them into “illegal” and deportable “migrants”. All such officially “unwanted” or “undesiderable” non-citizens are stigmatized with allegations of opportunism, suplicity and

111 Asgi è un acronimo per Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, che ha stilato un documento intitolato “L’identificazione dei cittadini stranieri da parte delle forze di polizia e il divideto dell’uso della forza per i rilievi foto-dattiloscopici” consultabile alla pagina web http://www.asgi.it/wp-content/uploads/2014/12/IDENTIFICAZIONE.-OBBLIGHI-E-FACOLTA2.pdf e una richiesta al Ministero dell’Interno: “Modificare subito le prassi amministrative per garantire sempre i diritti di ogni straniero soccorso in mare e sbarcato: ricevere informazioni complete e comprensibili sulla sua condizione giuridica, manifestare la volontà di presentare domanda di asilo, non essere respinto o espulso soltanto per la sua nazionalità, non essere trattenuto soltanto per identificazione” consultabile alla pagina web http://www.asgi.it/wp-content/uploads/2015/10/2015_documento-ASGI-hot-spot-road-map-21-ottobre-def.pdf 112 ASGI al Ministero dell’Interno: la natura giuridica degli hotspots va chiarita, 22 ottobre 2015, www.asgi.it

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undeservigness»113.

Nelle parole di Pupavac: «il rifugiato come vittima traumatizzata, avendo

perso il suo status politico eroico, non è più così facilmente distinguibile

dall’immigrato illegale ed è visto come alieno alla comunità politica e come un

fardello sociale. Di conseguenza abbiamo l’aumento dell’oltraggiosa figura del

falso richiedente asilo»114. Questo scivolamento verso una figura di rifugiato

visto come potenziale pericolo, proprio in virtù della sua eccessiva somiglianza

con l’immigrato economico e della fragilità del suo statuto politico, finisce col

limitare pesantemente l’effettività e la legittimità del diritto d’asilo e con il porre

ogni rifugiato nella costante minaccia di deportabilità. Per il solo fatto di varcare

le frontiere senza i necessari documenti si è marchiati di illegalità. Mi preme

specificare il fatto che nessun uomo è illegale o irregolare, il reato di

clandestinità non dovrebbe riferirsi alla persona e alla sua mera esistenza e/o

presenza, ma solo alla contravvenzione di una norma amministrativa data dalla

sua mancanza di documenti. Il problema risiede nel connubio clandestinità e

criminalità che troppo spesso popola i discorsi pubblici e politici, rendendo e

naturalizzando, in questo modo, l’illegalità come «a self-evident “fact”»115. Il

linguaggio diventa così strumento essenziale delle politiche volte a

rappresentare il migrante come una minaccia per la sicurezza dei cittadini e per

l’ordine pubblico. Lo strumento linguistico, così, si inscrive nel fenomeno di

costruzione sociale del migrante come nemico, deviante, criminale da

respingere o da utilizzare come mano d’opera a basso costo. De Genova

utilizza il concetto di «spectacle of illegality» per riferirsi al potere delle frontiere

di mettere in scena i corpi trasgressivi dei migranti. Come ho tentato di

dimostrare nei paragrafi precedenti, stiamo assistendo ad una presenza

onnipresente delle frontiere che aumenta le occasioni di trasgressione delle

stesse e questo, a sua volta, conferma l’idea di invasione, emergenza ed

113 Nicholas De Genova, 2013, Spectacles of migrant “illegality”: the scene of exclusion, the obscene of inclusion, Ethnic and Racial Studies, Routledge, p. 2. Trad: “In maniera sistematica e prevedibile, i regimi di asilo disqualificano sproporzionalmente i richiedenti asilo e li convertono in migranti illegali e deportabili. Tutti questi non cittadini, ufficialmente non voluti e indesiderati, sono stigmatizzati con accuse di opportunismo, disonestà e immeritevolezza”. 114 V. Pupavac, p. 16 in Chiara Marchetti, I rifugiati: da eroi a profughi dell’emergenza, p. 117 115Nicholas De Genova, Spectacles of migrant “illegality”: the scene of exclusion, the obscene of inclusion, Ethnic and Racial Studies, p. 3. Trad: “un fatto evidente, ovvio”.

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irregolarità. Le pratiche e il linguaggio della politica insistono e fanno leva sulla

costruzione della paura non solo per ottenere consenso ma anche per

giustificare il suo operato e la sua apparente verifica dell’illegalità. Se il confine

è ovunque, la violazione rende l’illegalità onnipresente. Come in un teatro, il

confine mette in scena un gioco di luci e di ombre, di esclusione e di inclusione.

«The scene is nevertheless always accompanied by its shadowy, publicly

unacknowledged or disavowed, obscene supplement: the large-scale

recruitment of illegalized migrants as legally vulnerable, precarious, and thus

tractable labour»116.

«La presenza di stranieri nei paesi di immigrazione è almeno in certa misura essenziale – nella misura in cui essa assicura manodopera ricattabile e a basso costo – alla stessa sopravvivenza dei sistemi economici dei paesi nei quali cercano di inserirsi. Ma proprio per questo motivo l’esclusione sociale, politica e giuridica degli immigrati appare tanto più funzionale alla perpetuazione della loro marginalità e del loro sfruttamento da parte del nuovo ordine economico: la loro partecipazione politico-sociale deve rimanere talmente ridotta e passiva da non potersi tradurre in alcuna forma di potere contrattuale e conflittuale. […] La condizione di minorità in termini di dotazione di diritti sancisce e al tempo stesso aggrava la condizione di complessiva precarietà e ricattabilità che accomuna la stragrande maggioranza degli immigrati»117.

L’illegalità si presenta quindi come una relazione sociale transnazionale tra

migrante, stato ed economia. L’illegalità, creata e criticata dalla politica, diventa

strumentale allo sfruttamento da parte del capitale. L’oscenità si realizza

dunque attraverso un’inclusione escludente: subordinazione, sfruttamento,

mancanza di diritti. Bisogna allora chiedersi a chi servano realmente le politiche

securitarie: alla protezione dei cittadini comunitari o ai vari caporalati che si

assicurano un esercito di bisognosi.

1.6 Il dono concesso «It is in fact obvious—undeniable—that refugee flow imposes severe social and economic burdens on receiving states. Failing to pursue the legal implications of this, while insisting, as we must, on the principle of non-refoulement, ultimately undermines non-refoulemtnt. Potential

116 Ivi, p.2. Trad: ”La scena è ciò nonostantesempre accompagnata dal suo oscuro, pubblicamente ignorato o rinnegato, osceno supplemento: il reclutamento su larga scala di migranti illegali come mano d’opera legalmente vulnerabile, precaria e quindi docile”. 117 Paolo Cutitta, Segnali di Confine. Il controllo dell’immigrazione nel mondo-frontiera, p. 46

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receiving states see themselves being asked for one-sided sacrifices, while a state that allows or actually induces the flow remains wholly unburdened»118.

Come ribadito da questa citazione di Jack Garvey, gli stati sovente

percepiscono una limitazione alla loro sovranità a causa degli obblighi

internazionali sanciti dagli strumenti di tutela del regime dei rifugiati. Al di là di

interpretazioni più o meno liberali, rimane l’impegno a garantire o almeno a

professare il rispetto del diritto d’asilo e la salvaguardia della protezione

internazionale per le persone in fuga da persecuzioni.

«Mentre per le migrazioni cosiddette economiche gli Stati possono mantenere la presunzione di controllare gli ingressi e i soggiorni ed eventualmente sanzionare le presenze irregolari (si tratta per lo più di “presunzione” utile soprattutto per il discorso politico e il consenso che lascia comunque ampie falle e spazi di tolleranza non dichiarata), quando si tratta di asilo e rifugiati i vincoli diventano più stringenti»119.

Vorrei concludere questo capitolo proponendo un cambio di paradigma, o

meglio cercando di analizzare la situazione attuale attraverso un altro punto di

vista. Dopo tutto il percorso tratteggiato nei paragrafi precedenti il mio obiettivo

è quello di considerare tutti i provvedimenti sulle migrazioni forzate e la stessa

Convenzione di Ginevra, non solo come documenti che garantiscono dei diritti

effettivi nei confronti dei soggetti, ma anche come tentativi di preservare la

sicurezza, se non comunitaria, di certo nazionale. Quello che vorrei dunque

dimostrare è che la direzione in cui stanno andando le politiche europee

riguardanti la migrazione forzata e l’asilo, deve essere considerata, nonostante

la sua maschera umanitaria e buonista, in chiave securitaria, di protezione non

tanto delle persone, ma degli interessi politici ed economici. In questo modo, la

figura del rifugiato come titolare di diritti per il solo principio di nascita, e quindi

per la sua natura di essere umano, si presta all’arbitrarietà delle scelte sovrane

118 J. Garvey, 1988, The New Asylum Seekers: Addressing Their Origin, in Martin, D. (ed.) The New Asylum Seekers: Refugee Law in the 1980's, Dordrecht, Netherlands, Martinus Nijhoff Publishers in James C. Hathaway, Reconceiving Refugee Law as Human Rights Protection, p. 118. Trad: “E 'infatti evidente-innegabile-che il flusso di rifugiati impone gravi oneri sociali ed economiche sugli Stati riceventi. Non riuscendo a perseguire le implicazioni legali di questo, pur insistendo, come si deve, sulla base del principio di non-refoulement, in ultima analisi mina non respingimento. I potenziali Stati riceventi si vedono costretti a sacrifici unilaterali, mentre lo Stato che consente o addirittura induce i flussi ne rimane del tutto sollevato”. 119 Chiara Marchetti, 2014, I rifugiati: da eroi a profughi dell’emergenza, https://www.academia.edu/7602965/, p. 119

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degli Stati e contribuisce a legittimare l’idea del rifugiato come vittima che può

rivendicare solo diritti di assistenza materiale e umanitaria, piuttosto che diritti

politici propri alla tradizione della cittadinanza.

«The intention of the drafters was not to protect persons against any and all forms of even serious harm, but was rather to restrict refugee recognition to situations in which there was a risk of a type of injury that would be inconsistent with the basic duty of protection owed by a state to its own population»120.

Ecco allora che «the refugee law as it exists today is fundamentally concerned

with the protection of powerful states. It is also perceived by powerful states to

perform that role inadequately»121. Questa disciplina si presenta dunque come

un esercizio di controllo sui flussi migratori piuttosto che come una presa di

impegno e di riconoscimento verso chi fugge da guerre e persecuzioni.

Attraverso la creazione di quello che potremmo definire regime amministrativo e

politico, che pretende di definire oggettivamente quelli con un diritto di

preferenza per l'ammissione, il diritto che si occupa di rifugio e asilo in qualche

modo legittima la norma protezionista. La cosiddetta crisi dei rifugiati è tale

poiché evidenzia una crisi ancora più profonda, che è quella dello Stato-

Nazione, una costruzione moderna i cui capi saldi si stanno decostruendo per

lasciare posto a quella che Bauman definisce una società liquida, mentre Beck

una società del rischio. «Globalizzazione significa che lo Stato non ha più il

potere o la volontà per mantenere inespugnabile il suo matrimonio con la

società»122 e la sua reazione è quella di costruire ed esternalizzare frontiere

cercando di porre fine ad una crisi della sua stessa identità. Ciò che realmente

vuole proteggere non è un diritto dell’uomo inalienabile, ma un’idea di Stato e di

Nazione che si sta sgretolando sotto i suoi occhi. Va posta attenzione anche sul

linguaggio, spesso, infatti, si utilizza il termine “concedere” per riferirsi ad una

protezione o ad uno status. Questo sostantivo ha come significato quello di

120 James C. Hathaway, Reconceiving Refugee Law as Human Rights Protection, p.122. Trad: “l'intenzione dei redattori non era quella di proteggere le persone contro ogni e tutte le forme di danno grave, ma era piuttosto quello di limitare il riconoscimento dei rifugiati alle situazioni in cui vi era un rischio di un tipo di infortunio che sarebbe incompatibile con il dovere fondamentale di protezione che uno Stato ha nei confronti della sua popolazione”.121 Ivi, p. 114. Trad: “la legge sul rifugio così come esiste oggi si occupa fondamentalmente della protezione degli Stati più potenti. Viene anche percepita sempre di più dagli stessi Stati come incapace di svolgere quel ruolo in maniera adeguata”. 122 Z. Bauman, 2012, Intervista sull’identità, Editori Laterza, p.29

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permettere, dare per grazia o per liberalità ma anche quello di cedere su

qualcosa dopo insistenza o per pietà. Diverso è invece il significato del termine

“riconoscere”, più appropriato, che rimanda all’idea di dichiarare come legittimo

qualcosa o qualcuno, attribuirgli personalità ma anche ammettere l’esistenza di

un obbligo verso altri o di un diritto altrui. L’uso del verbo concedere

contribuisce ad affermare l’idea di superiorità e potenza degli stati membri che,

in virtù delle loro origini democratiche e liberali, sono costretti, proprio per

mantenere questa nomea, a cedere parte della loro sovranità che però, nello

stesso momento, viene riconfermata.

«International refugee law was established precisely because it was seen to afford states a politically and socially acceptable way to maximise border control in the face of inevitable involuntary migration»123.

Avere il potere di decidere chi ammettere o meno, di esternalizzare i propri

confini e di manipolare politiche di paesi extra europei significa essere in grado

di salvaguardarsi dall’esterno mascherando questa pratica in tutela dei diritti

altrui.

«Because developed states have the logistical capacity to prevent the arrivl of many, and sometimes most, refugees, they have been able to implement non-entrée practices that prevent refugees from even reaching their frontiers»124.

Visto questo tipo di relazione di potere così asimmetrica, che vede uomini,

donne e bambini confrontarsi con un intero apparato burocratico e

amministrativo, utilizzo il concetto di dono concesso. Dono lo utilizzo in chiave

ironica, poiché i diritti che dovrebbero essere loro riconosciuti, sono spesso

ostacolati, delegittimizzati e non si concretizzano in una pratica reale ed

effettiva. Dono quindi perché si è restii a concederlo, come se fosse un favore

dato controvoglia e solo a dei privilegiati. Dono perché non è una relazione

paritaria poiché chi lo concede ha un potere di controllo su chi lo riceve.

123 James C. Hathaway, R. Alexander Neve, Making International Refugee Law Relevant Again: A Proposal for Collectivized and Solution-Oriented Protection, p. 116. Trad: “La legge internazionale sui rifugiati fu stabilita precisamente perché si credeva che dotasse gli Stati di una maniera socialmente e politicamente accettabile di massimizzare il controllo delle frontiere a fronte di un’inevitabile migrazione involontaria”. 124 Ivi, p. 120. Trad: “siccome gli Stati sviluppati avevano la capacità logistica di prevenire l’arrivo di molti, se non quasi tutti, i rifugiati sono stati in grado di implementare pratiche di non entrata che impediscono ai profughi anche solo di raggiungere le loro frontiere”.

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Concesso invece perché sminuisce la valenza del riconoscimento, perché

mette su un piano inferiore l’altro ribadendo la propria forza ma anche

magnanimità. Dono concesso perché, invece di aderire ad un obbligo

internazionale che tutela e garantisce asilo e aiuto a chi scappa da

persecuzioni, si preferisce fare leva su un lato umanitario ed emergenziale che

in realtà nasconde la costruzione di una vera e propria fortezza.

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PARTE II: RICEVERE

Capitolo secondo: il dono umanitario

2.1 L’accoglienza in Italia L’accesso alle misure di accoglienza è disposto dl momento della

presentazione della domanda di asilo. Oltre che negli hotspots, lo status di

rifugiato può essere richiesto all'Ufficio di Polizia di Frontiera, al momento

dell'ingresso in Italia o all’Ufficio immigrazione della Questura competente per

territorio. La procedura per la richiesta d’asilo non viene avviata

immediatamente, la Questura, infatti, rilascia un documento che certifica la

richiesta e la data dell’appuntamento per la verbalizzazione. All’interno di

queste strutture i richiedenti asilo verranno foto-segnalati e dovranno compilare

un modulo già predisposto125 per fornire tutte le informazioni necessarie a

sostegno della richiesta. Dopo la presentazione della domanda, viene rilasciato

dal Questore della provincia, in cui è stata presentata la richiesta, un permesso

di soggiorno126 della validità di tre mesi, rinnovabile sino alla decisione della

Commissione Territoriale per il Riconoscimento dello Status di Rifugiato

competente. Al momento in Italia vi sono 10 Commissioni Territoriali 127

ciascuna delle quali è composta da quattro membri128 che si occupano di

verificare ogni richiesta e di decidere se riconoscere o meno lo status. Entro 30

giorni dalla presentazione della domanda al/alla richiedente asilo viene chiesto

di sostenere la sua domanda con un racconto della sua esperienza in

un’udienza davanti ai membri della Commissione. Entro invece tre giorni

successivi alla data dell’audizione, la commissione adotta tre decisioni:

riconoscere lo status di rifugiato, rigettare la domanda ma rilasciare un

125 Modello per il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra chiamato anche Modello C/3 126 Il permesso di soggiorno per richiesta di asilo viene rilasciato solo se il/la richiedente asilo produce una dichiarazione di ospitalità prodotto da un ente privato di assistenza. Senza questo permesso non è possibile accedere alle strutture di accoglienza. 127 La Legge 189/2002 ha sostituito la unica Commissione nazionale per il diritto di asilo con 7 territoriali a Gorizia, Milano, Roma, Foggia, Siracusa, Crotone e Trapani. A queste si sono aggiunte con specifico decreto legislativo

n. 25 del 28 gennaio 2008 altre 3 commissioni territoriali a Torino, Bari e Caserta.

128 Due membri del Ministero dell’Interno, un rappresentante del comune (o della provincia o della regione) e un rappresentante dell’UNHCR.

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permesso per protezione sussidiaria o per protezione umanitaria, rigettare la

domanda. Se quest’ultima ipotesi dovesse accadere, l’unica alternativa che ha

il richiedente d’asilo per rimanere in Italia e sospendere l’espulsione, è quella di

fare ricorso. Il ricorso si presenta presso il Tribunale ordinario. Il Tribunale

competente è quello che ha sede nel capoluogo del distretto della Corte

d’appello in cui ha sede la Commissione Territoriale. I termini per il ricorso

previsti dalla legge sono 30 giorni. In seguito al ricorso la legge dispone che sia

rilasciato un permesso di soggiorno per richiesta asilo. Per i richiedenti trattenuti

in CIE o nei CARA i tempi per il ricorso sono fissati in 15 giorni. Il ricorso può

essere fatto anche in caso di provvedimento di revoca o cessazione dello

status.

2.1.1 Protezioni Secondo i dati del Ministero dell’Interno l’Italia nel 2015 ha avuto 83.970

richieste d’asilo. Su un totale di 71.117 decisioni prese, dato che include

decisioni su casi pendenti degli anni precedenti, 29.548 sono state positive

(41%): a 3.555 persone (5%) è stato concesso lo status di rifugiato129; a 10.225

la protezione sussidiaria (14%); a 15.768 un permesso per ragioni umanitarie

(22%). Le richieste respinte sono state 41.503 (58%) 130 . Come appare

chiaramente dai dati,

La protezione sussidiaria è stata introdotta attraverso la direttiva

2004/83/CE, il cui scopo, oltre a promuovere una politica comune nel settore

dell’asilo, era anche quello di legiferare una nuova forma di protezione il cui

obiettivo era quello di rispondere ad una situazione fino ad allora fortemente

dibattuta, ovvero la necessità di dare una qualche forma di protezione a

persone che non rientravano nei criteri dello status di rifugiato, ma che si

trovavano comunque in condizioni di grave pericolo e impossibilitati a fare

129 Lo status di rifugiato viene formalmente riconosciuto attraverso il rilascio della protezione internazionale. 130 http://www.cir-onlus.org/it/comunicazione/news-cir/51-ultime-news-2016/2059-richiedenti-asilo-in-italia-nel-2015-quasi-84mila-32-rispetto-al-2014-58-di-richieste-respinte

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ritorno nel loro Paese di origine per vari motivi. Per tanto, ha diritto alla

protezione sussidiaria il:

«cittadino di un paese terzo o apolide che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno […] e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto paese»131.

La protezione sussidiaria permette al richiedente asilo di ottenere un permesso

di soggiorno della durata di cinque anni e consente il ricongiungimento

famigliare alle stesse condizioni del rifugiato. Il titolare del permesso di

soggiorno per protezione sussidiaria può richiedere altresì per sé e per i propri

famigliari il rilascio del permesso CE per soggiornanti di lungo periodo, previa

dimostrazione di determinati requisiti. Inoltre, al momento del rinnovo, può

essere chiesta la conversione in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

Come i dati previamente riportati dimostrano, più della metà delle richieste

che hanno avuto una risposta positiva sono legate ad una protezione

umanitaria. La protezione per motivi umanitari viene rilasciata a coloro che, pur

non essendo vittime di persecuzione individuale, hanno bisogno di protezione

e/o assistenza perché particolarmente vulnerabili sotto il profilo medico,

psichico o sociale o perché se fossero rimpatriati potrebbero subire violenze o

maltrattamenti. La prevalenza di questa cifra dimostra, ancora una volta, quanto

uno Stato, in questo caso l’Italia, sia molto più disposto ad accogliere e

riconoscere una persona sofferente, e quindi curabile, rispetto ad un soggetto

che non solo richiede asilo, ma anche un riconoscimento politico ed

internazionale.

«The legitimacy of the suffering body has become greater than that of the threatened body, and the right to life is being displaced from the political sphere to that of compassion. It is more acceptable and less dangerous for the state to reject an asylum claim, declaring it unfounded, than to go against medical expertise recommending a legal permit for health reasons»132.

131 Art.2, lett. e) Direttiva 2004/83/CE 132 Didier Fassin, 2005, Compassion and Repression: The Moral Economy of Immigration Policies in France, Cultural Anthropology, Vol. 20, Issue 3, p. 371. Trad: “La legittimità di un corpo sofferente è diventata maggiore rispetto a quella di un corpo minacciato, e il diritto alla vita sta venendo dalla sferapolitica per inserirsi in quella della compassione. È più accettabile e meno pericoloso per uno Stato

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La protezione umanitaria è sancita dall’Articolo 5 comma 6 del Testo Unico

delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla

condizione dello straniero (Dlgs 286/1998) che prevede il rilascio di un

permesso di soggiorno che ha la durata di un anno e che consente lo

svolgimento dell’attività lavorativa. È rinnovabile alla scadenza, ovvero

convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Non è prevista invece

la possibilità di richiedere il ricongiungimento familiare.

2.1.2 Voci Ciò che ho descritto nei paragrafi precedenti è stata un’asettica, quanto

chiara, spiegazione formale della procedura d’asilo e delle sue fasi. In questo

paragrafo invece vorrei dare un apporto critico facendo emergere un altro punto

di vista, quello dei soggetti implicati. Nelle richieste di protezione internazionale,

la relazione burocratica è quindi cruciale anche in quanto luogo di incontro e

connessione tra soggetti istituzionali e soggetti richiedenti asilo. Da una parte

quindi vi sono i middle ossia quell’universo variegato composto da figure

istituzionali «che attraverso differenti strategie tentano di applicare, e quindi

interpretare e tradurre a livello locale, ideologie giuridiche transnazionali

pensate come universali attraverso l’applicazione delle procedure d’asilo»133. In

questo caso specifico sono i funzionari di polizia, i pubblici ufficiali, personale di

prefetture e questure, esperti legali ed avvocati, traduttori linguistici, operatori

e/o assistenti sociali, personale medico, volontari. Dall’altra vi sono i/le

richiedenti asilo che, per la prima volta, si trovano immersi in un contesto

burocratico a loro estraneo. Dal primo istante in cui si decide di avanzare

richiesta di protezione internazionale, infatti, i/le richiedenti asilo si trovano

immessi in un percorso segnato dai ritmi delle varie istituzioni preposte a gestire

il fenomeno. Ritmi scanditi da periodici e ripetuti incontri con differenti attori

istituzionali in diversi contesti, i quali hanno il potere di definire in modo

respingere una richiesta d’asilo, dichiarandola priva di fondamento, rispetto al contraddire un esperto medico che raccomanda un permesso legale per motivi di salute. 133 Barbara Sorgoni, Chiedere asilo. Racconti, traduzioni, trascrizioni, in Ugo Fabietti (diretto da), Annuario di Antropologia n.15 Migrazioni e asilo politico, Le Edizioni, 2013, p. 140

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sostanziale le condizioni di vita presenti e soprattutto il futuro dei/delle

richiedenti stessi. È importante sottolineare come le interazioni tra i diversi

soggetti non si svolgano su un piano paritario. In questi contesti, infatti, tra attori

istituzionali e quelli che potremmo definire i loro “clienti” vi è un differenziale –

non solo linguistico o “culturale”, ma anche simbolico e di potere – che è bene

far emergere e analizzare.

«In ciascuno di questi incontri, l’interazione burocratica prende la forma di colloqui- interrogatori

durante i quali viene ripetutamente chiesto ai richiedenti asilo di (ri)produrre una narrazione della propria storia di vita i cui elementi centrali - ricapitolati ogni volta tutti o selettivamente, in forma orale oppure scritta – comprendono solitamente: la dichiarazione della propria identità individuale e familiare, la vicenda di fuga e le sue ragioni, il percorso di fuga e le sue modalità, l’eventuale produzione di prove a sostegno di quanto affermato»134.

Ed è proprio sulle narrazioni, e sulla questione della voce che vorrei

soffermarmi. Gli eventi comunicativi che hanno luogo all’interno di contesti

istituzionali si compongono di «affermazioni esplicite e apertamente espresse

ma anche di significati impliciti e non ufficiali, che rimandano ai ruoli sociali dei

partecipanti all’interno di campi di forza dove i soggetti si definiscono a vicenda

anche se non necessariamente a partire da posizioni paritarie»135. Citando

Bourdieu, «è l’accesso agli strumenti legittimi di espressione, dunque la

partecipazione all’autorità dell’istituzione, che crea tutta la differenza» 136 .

Bisogna infatti tenere conto che, non solo gli incontri e i colloqui sono

organizzati e gestiti dagli attori istituzionali, ma anche che essi, anche se

incoscientemente esercitano un potere, che è quello dello Stato. Questo potere

si manifesta soprattutto attraverso uno scrupoloso controllo delle narrazioni

richieste, dove le storie di vita – raccontate ripetutamente solo in alcuni

momenti stabiliti dai tempi amministrativi e solo ad alcuni soggetti di volta in

volta selezionati – assumono una centralità assoluta, poiché è la loro credibilità

e veridicità che determina l’esito di procedure dalle quali dipende la vita futura

dei/delle richiedenti, e in alcuni casi la vita in sé.

«Il sospetto crescente nell’incontro con i richiedenti asilo conduce a fare dell’esposizione del traumatismo una possibilità supplementare di attestare la realtà delle persecuzioni. Politica

134 Ivi, p. 135135 Ivi, p.137 136 P. Bourdieu, 1998, La parola e il potere. L’economia degli scambi linguistici, Guida, Napoli, p. 85.

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della riparazione, politica della testimonianza, politica della prova: in questi tre casi, non è solamente l’origine di una sofferenza ad essere curata, ma siamo di fronte anche ad una risorsa grazie alla quale si può far valere un diritto»137.

Vi è proprio un’asimmetria narrativa tra coloro che hanno il potere di raccontare

una storia e coloro che hanno il potere di decidere dove, quando, in che modo e

a chi una storia possa essere raccontata.

«La costituzione dell’individuo come oggetto descrivibile, analizzabile […serve per…]

mantenerlo sotto lo sguardo di un sapere permanente […che permette…] la misurazione dei

fenomeni globali, la descrizione dei gruppi, la caratterizzazione di fenomeni collettivi, la

valutazione degli scarti degli individui, gli uni in rapporto agli altri. […] L’esame fa di ogni

individuo un caso: un caso che costituisce, nello stesso tempo, un oggetto di una conoscenza e

una presa per un potere […] Il caso è l’individuo che sarà da addestrare o da correggere,

classificare, normalizzare, escludere etc»138.

Una delle grandi critiche è legata al modo in cui una storia debba essere

prodotta, ed uso questo termine con coscienza poiché il/la richiedente asilo,

sottoposto ad una pressione burocratica, è costretto ad una ricerca di coerenza,

logica e struttura cronologica di un’esperienza che è molto difficile da spiegare.

«Come ricorda Blommaert (2001), la procedura d’asilo si compone di una manciata di incontri nei quali il richiedente produce una storia, e di una frenetica produzione di testi su quella storia: una massa di comunicazioni scritte in un linguaggio legalistico che parlano per il richiedente asilo. Il Modulo burocratico non è pensato per accogliere la complessità delle storie e consente essenzialmente di inserire liste di nomi o eventi e relative cronologie»139.

L’«ideologia del testo fisso» 140 non solo è una forzatura e storpiatura

dell’esperienza raccontata, ma esercita anche una sorta di violenza nei

confronti dei soggetti poiché toglie loro la voce. Utilizzo il termine voce per

riferirmi alla capacità di un soggetto di stabilire un’autorità narrativa sulla propria

storia e con questa espressione non intendo quindi descrivere un soggetto

senza voce, incapace di articolare ed enunciare un discorso, «piuttosto, la

questione del silenzio rimanda ad un soggetto “privato della voce” o

137 Fassin Didier, Rechtman Richard, L’empire du traumatisme. Enquete sur la condition de victime, in Ivan Mei, Fare e disfare il ruolo di vittima, p. 13 138 M. Foucault, 1993, Sorvegliare e punire, Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino, p. 65 139 Barbara Sorgoni, Chiedere asilo. Racconti, traduzioni, trascrizioni, pp. 144-145 140 Ivi, p. 147

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“impossibilitato a parlare”»141 e rimanda anche alla responsabilità di un sistema

che sostituisce la loro parola con un testo che deve rispecchiare determinati

punti chiave.

«Refugees suffer from a particular kind of speechlessness […] their accounts are disqualified almost a priori, while the language of refugee relief, policiy science, and development claim the production of authoritative narratives about the refugees»142.

«Sono i documenti che parlano per me, quando li ho ricevuti non sapevo

nemmeno cosa ci fosse scritto, però parlavano per me» mi racconta Ahmed

durante un nostro incontro, mentre cerca di spiegarmi il suo percorso per

l’ottenimento della protezione sussidiaria. «Sono stato dieci minuti davanti alla

Commissione, ero in Italia da pochi mesi e ancora non parlavo la lingua»

continua, dandomi l’idea di come lui non fosse “pienamente cosciente e

responsabile” di ciò che stava succedendo ma, al contrario, trascinato e spinto

dalla macchina burocratica che gli imponeva ritmi, procedure, moduli e

strumenti a lui non famigliari ma che si presentavano come universali. Il fatto

che fosse un pezzo di carta a parlare per lui, a dichiarare una sua identità,

rimarca una depoliticizzazione della sua persona e delle sue parole, del suo

essere soggetto storico e politico dotato di voce per autodeterminarsi. E

aggiunge violenza a quella già subita, ma approfondirò l’argomento nei prossimi

paragrafi.

2.1.3 Tra attese e abbandono Riuscire a formalizzare la richiesta d’asilo, ad avere audizione davanti alla

Commissione territoriale e a ricevere risposta riguardo alla propria domanda

non è un iter facile, né tantomeno veloce. Anche se, come formalmente

descritto dalle norme, il tutto dovrebbe svolgersi in un mese e qualche giorno

141 Barbara Pinelli, Silenzio dello stato, voce delle donne. Abbandono e sofferenza nell’asilo politico e nella sua assenza, in Ugo Fabietti (diretto da), Annuario di Antropologia n.15 Migrazioni e asilo politico, Le Edizioni, 2013, p. 88 142 Liisa H. Malkki, Speechless Emissaries: Refugees, Humanitarianism, and Dehistorization, in Cultural Anthropology, Vol.11, No. 3, 1996, p. 386. Trad: “I rifugiati soffrono di un peculiare tipo di silenzio, le loroopinioni sono disqualificate quasi a priori, mentre i linguaggi dei soccorsi, della scienza politica, dello sviluppo, rivendicano la produzione di narrazioni autorevoli sui rifugiati stessi”.

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dall’avvio della procedura, la realtà è ben diversa e una persona si ritrova ad

attendere anche più di anno per ricevere una risposta alla sua richiesta d’asilo.

Chi è fortunato trova una sistemazione in una struttura di accoglienza, chi lo è

meno, nonostante le condizioni di indigenza in cui arriva, vive nel silenzio

dell’abbandono cercando modi per cavarsela in una quotidianità al limite della

sopravvivenza. È soprattutto l’attesa ad incidere sulla soggettività delle donne e

degli uomini, poste in condizione di sospensione rispetto ad un futuro incerto e

ad un presente vissuto nella marginalità sociale e nella povertà economica.

«Molte etnografie sulla marginalità sociale descrivono come lo stato governi i suoi margini abbandonando chi è esterno al corpo nazionale al proprio destino di sofferenza e alla propria sorte. L’assenza dello stato è considerata, così, una delle cause della marginalità e ancor più qualcosa che solidifica e nutre situazioni di già estrema vulnerabilità»143.

Ciò su cui mi vorrei soffermare in questo paragrafo è il fatto che le lunghe

attese, l’abbandono, la marginalità che molti/e richiedenti asilo e rifugiati vivono,

non sono situazioni dovute ad un’assenza dello Stato, ma anzi, trovano in esso

la causa e la responsabilità. Considerare, infatti, l’abbandono sociale come

un’assenza dello stato o come un’incuria delle istituzioni non permette di

rintracciare l’intenzionalità e la responsabilità politiche delle forme di quella che

si potrebbe definire come negligenza. Non è però l’assenza delle regole dello

stato o di regimi sovrastatali a rendere ancora più vulnerabili queste persone. Al

contrario, sono le stesse procedure dell’asilo politico – nazionali e internazionali

- a circoscrivere il perimetro in cui rintracciare forme di sopraffazione e di

controllo.

Pedro, attivista politico, scappa dalla Nigeria nel 2010 e, dopo varie vicissitudini

che approfondirò nei prossimi capitoli, arriva in Italia il 19 luglio del 2012,

precisamente all’aeroporto Ciampino di Roma dove si dirige immediatamente

all’ufficio immigrazione. Lì vuole avviare la procedura per la richiesta d’asilo ma

c’è un problema, per poter presentare la richiesta d’asilo, infatti, è necessario

indicare un domicilio, ovvero un indirizzo che sarà riportato poi sul permesso di

soggiorno. Per tutti coloro appena arrivati in Italia, che non conoscono nessuno,

143 Barbara Pinelli, Silenzio dello stato, voce delle donne. Abbandono e sofferenza nell’asilo politico e nella sua assenza, p.93

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non sanno la lingua, né tanto meno hanno un posto in cui andare, quello del

domicilio risulta essere un grave problema. La questione può essere risolta

attraverso alcune associazioni o enti che possono rilasciare una dichiarazione

di asilo. Pedro, infatti, dopo esser stato portato in Questura, scortato dalla

polizia, viene portato alla Caritas che però, per mancanza di posti letti liberi,

non può accoglierlo. La richiesta d’asilo non può essere portata avanti,

comincia quindi un andirivieni tra l’aeroporto e varie strutture che finisce con un

autobus diretto alla stazione Roma Termini dove Pedro ha vissuto tre mesi

abbandonato da tutti. «Non ricordo tanto di quel periodo, ma sono stati mesi

difficili e brutti: vivevo in strada, mangiavo e facevo la doccia alla Caritas. Non

mi ricordo nemmeno di Roma, quando ci sono ritornato mi sembrava

completamente una nuova città».

«Nel caso dei richiedenti asilo, parlare di abbandono […] significa mostrare

come lo stato con le sue istituzioni non sia esterno alla vita delle persone, ma

responsabile nel lasciar penetrare violenza e sofferenza nella vita quotidiana di

soggettività già marginali»144. È proprio sulle persone già trafitte dal dramma

della migrazione forzata che il contesto di arrivo agisce erodendo ancora più le

soggettività di chi cerca protezione. In questo sistema di abbandono e di

controllo, lo Stato e le sue istituzioni non sono però esterne alla vita delle

persone. Assenza, infatti, non vuol dire mancanza di responsabilità, anzi,

significa coscientemente lasciar penetrare forme di violenza strutturale e

istituzionale e sofferenza nella quotidianità di soggetti già vulnerabili. Assenza

diventa quindi una scelta arbitraria di voltare le spalle a chi ha bisogno di

sostegno, assenza significa pagare un autobus ad un/una richiedente asilo

verso la stazione e lavarsene le mani. «Se io avessi saputo prima tutto quello

che ho imparato ora, sarebbe stato molto più facile per me, ma lì non avevo

nessuno che potesse aiutarmi».

«La violenza che causa la fuga – sottoforma di repressione, miseria economica, terrore, morte – si ripresenta sotto altre forme nei contesti di approdo, che, almeno in teoria, dovrebbero garantire un sistema di protezione. Concatenate fra loro, diverse forme di violenza – strutturale, politica, simbolica, economica – producono una violenza quotidiana che va a “rafforzare le

144 Ibidem

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relazioni di potere diseguali e distorcere ogni tentativo di resistenza” (Bourgois 2001, 30), limita l’azione dei soggetti che colpisce e “stringe un cappio attorno ai loro colli” (Farmer 2006, 39)»145.

Ciò che questa violenza continuata e persistente provoca è sofferenza che però

non bisogna considerare solo nella sua dimensione più personale e privata, ma

anche nella dimensione che è socialmente e politicamente determinata. Una

sofferenza che è risultato di violenza strutturale che trova espressione

nell’organizzazione politica-burocratica-economica della società, sia nella sua

presenza che nella sua apparente assenza, e che eserciata la sua influenza

devastante soprattutto sulle categorie sociali più vulnerabili.

2.1.4 Un puzzle di strutture Chi è fortunato, invece, viene ospitato in un centro di accoglienza. Quella

delle strutture di accoglienza in Italia, è una realtà frammentata e confusa,

composta da numerosi centri recanti nomi diversi ma con simili funzioni.

Il sistema di accoglienza dei migranti in Italia è diviso tra strutture di prima e di

seconda accoglienza. Formalmente la prima accoglienza è gestita dalle

prefetture locali che rispondono al ministero dell’Interno, e ne fanno parte gli

hotspot e gli hub regionali – che sostituiranno i Cara, centri di accoglienza

dei/delle richiedenti asilo, e i Cda, centri di accoglienza – mentre la seconda

accoglienza è formata dagli SPRAR – Sistema di Protezione per Richiedenti

Asilo e Rifugiati –. Nella pratica invece il sistema di accoglienza si presenta

ancora più complesso e variegato, con numerose sovrapposizioni di compiti e

con procedure lente e disarticolate. Al momento in Italia si trovano le seguenti

strutture: Cda, Cpsa, Cara e Hub per la prima accoglienza, Sprar e Cas per la

seconda.

I Cda sono i primi centri creati dal governo nel 1995 dalla cosiddetta "Legge

Puglia" ed accolgono i migranti appena giunti sul territorio indipendentemente

dal loro status giuridico. Stando alla definizione data dal Ministero dell'Interno i

145 Ivi, p.105

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Cda sono strutture destinate all'accoglienza degli immigrati per il periodo

necessario alla definizione dei provvedimenti amministrativi relativi alla

posizione degli stessi sul territorio nazionale. I Cpsa invece sono centri di primo

soccorso e accoglienza e sono strutture che «ospitano gli stranieri al momento

del loro arrivo in Italia. Qui i migranti ricevono le prime cure mediche

necessarie, vengono foto-segnalati, possono richiedere la protezione

internazionale»146. Essendo localizzati vicini ai luoghi di sbarco, sono centri di

transizione, nei quali ai migranti viene fornito una prima assistenza e

accoglienza, per poi procedere al loro trasferimento presso altre tipologie di

centri. Sia per i Cda che per i Cpsa, la legge non fissa né i termini né le

modalità di accoglienza, limitandosi a stabilire che le operazioni di primo

soccorso e accoglienza debbono realizzarsi nel tempo strettamente necessario

a permettere l'adozione dei provvedimenti. I Cara sono centri di accoglienza per

richiedenti asilo e rifugiati e sono chiamati ad ospitare i/le richiedenti asilo

ammessi, o comunque presenti, sul territorio nazionale in attesa dell’esito della

procedura di richiesta della protezione internazionale. Questo tipo di struttura

ha assunto il carattere di centro aperto da cui gli ospiti possono – o devono –

uscire durante le ore diurne ed assentarsi, previa autorizzazione del prefetto,

per periodi più lunghi. Il periodo di accoglienza non dovrebbe eccedere i 35

giorni, oltre i quali il/la richiedente asilo dovrebbe ricevere un permesso di

soggiorno della durata di tre mesi. In realtà queste strutture sono state, e

ancora sono, oggetto di scandali dovuti non solo ai tempi di permanenza che si

aggirano attorno all’anno, al sovraffollamento che rende questi centri luoghi

simili a prigioni, ma anche a causa di irregolarità nella gestione, corruzione e

infiltrazioni mafiose. Per tutti questi motivi è stato raggiunto l'accordo tra la

Conferenza Stato Regioni e governo per riorganizzare il sistema di accoglienza

e sostituire questi centri con degli Hub regionali che avranno le stesse funzioni

dei Cara. Al momento però si sta verificando una moltiplicazione e

compresenza di strutture simili che rendono ancora più complicata, imprecisa e

costosa l’accoglienza.

146 Definizione reperibile nella sezione dedicata a "I centri dell'immigrazione" sul sito ufficiale del Ministero dell'Interno.

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Gli Sprar costituiscono a livello territoriale il sistema di protezione per richiedenti

asilo e rifugiati finalizzato a realizzare una forma di accoglienza integrata, che

mira alla predisposizione di misure di orientamento e accompagnamento legale

e sociale, nonché alla costruzione di percorsi individuali di inclusione e

inserimento socio-economico. Essendo strutture più piccole, con un numero

limitato di persone che risiedono all’interno, spesso situate nei centri urbani e il

fatto che siano gestiti da enti locali, dovrebbe facilitare e promuovere

un’accoglienza più individualizzata che permetta un coinvolgimento diretto tra i

beneficiari di questo progetto e la cittadinanza. Affianco agli Sprar vi sono i Cas,

centri di accoglienza straordinaria che, come già richiamato dal nome, sono, o

meglio, dovrebbero essere, delle strutture temporanee, complementari al

sistema di accoglienza strutturale e ordinario, nate per ospitare i/le richiedenti

d’asilo che attendono la loro accoglienza in uno Sprar. Il problema è che lo

Sprar ha finito per essere marginale nel panorama dell’accoglienza mentre

l’accoglienza prefettizia, che dovrebbe far fronte alle emergenze, è diventato il

modello di riferimento. Ciò che avrebbe dovuto essere temporaneo è diventato

l’asse portante dell’accoglienza, i Cas, infatti, in questo momento, ospitano oltre

il 72%147 di tutti i migranti accolti nei centri di accoglienza italiani, confermando

l’idea di un’emergenza perenne e ostacolando una seria progettualità all’interno

del sistema di accoglienza.

La disomogeneità e sovrapposizione delle funzioni delle strutture, l’offerta di

“pacchetti accoglienza” già preconfezionati, le attese, il sovraffollamento, la

mancanza di una progettualità, sono tutte problematiche che rientrano in un

sistema volto a tamponare un’emergenza. Le scelte organizzative sono quelle

che determinano le caratteristiche emergenziali del sistema di accoglienza ma

vorrei sottolineare il fatto che esse non sono mai neutre, anzi, sono dettate da

scelte politiche. E in questo caso a monte di tutto il sistema vi è un approccio

politico emergenziale al tema dell’accoglienza dei/delle richiedenti asilo. Visione

questa che risulta del tutto coerente con le letture e le scelte che l’Europa sta

mettendo in campo relativamente al passaggio delle persone attraverso i suoi

147 Marco Magnano, Centri di accoglienza straordinaria, un sistema sbilanciato, 6 maggio 2016 in http://www.riforma.it/it/articolo/2016/05/03/centri-di-accoglienza-straordinaria-un-sistema-sbilanciato

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confini. Il risultato è un’accoglienza forzata che accoglie perché deve farlo, ma

appena può abbandona creando marginalità, irregolarità giuridica, materia

prima per la criminalità, lo sfruttamento, alimentando l’immaginario xenofobo e

razzista più radicale.

«Nonostante l’aspetto provvisorio e il trattamento d’urgenza di ogni situazione osservata, i siti

umanitari sono caratterizzati da un certo grado di perennità. Possiamo pensare, d’altra parte,

che l’aspetto provvisorio e incompiuto della gestione della vita nell’urgenza, i rimedi che

l’umanitario cerca sistematicamente di porre ai danni umani causati dalle politiche di guerra o di

esclusione e, infine, il controllo esercitato sulle popolazioni indesiderabili abbiano un carattere

sperimentale e siano destinati alla società nel suo insieme. Le tecniche di cura e di controllo

applicate in questi spazi d’eccezione possono essere trasferite e impiegate per la gestione dei

vari “resti” del sistema economico e sociale mondiale»148.

2.1.5 Campo: tra controllo e assistenza…umanitaria? «Se il rifugiato rappresenta, nell’ordinamento dello Stato-Nazione, un elemento così inquietante, è innanzitutto perché, spezzando l’identità tra uomo e cittadino, fra natività e nazionalità, esso mette in crisi la funzione originaria della sovranità. Esibendo alla luce lo scarto fra nascita e nazione, il rifugiato fa apparire per un attimo sulla scena politica quella nuda vita che ne costituisce il segreto presupposto»149.

Secondo Agamben la figura del rifugiato è difficile da definire

politicamente poiché rappresenta un’eccezione. Il rifugiato, infatti, mette in luce

un’aporia, una finzione su cui lo Stato-Nazione ha posto i suoi fondamenti. Il

potere sovranità nazionale si basa, infatti, su un’esclusione includente della

nuda vita. Lo Stato-nazione ha fatto della nascita – la zoé – intesa come nuda

vita umana, il fondamento ultimo della propria sovranità, incarnandola in questo

modo nella figura del cittadino – bios –. La finzione qui implicita è che la nascita

diventi immediatamente nazione, in modo che non possa esservi alcuno scarto

fra i due momenti. I diritti sono, cioè, attribuiti all’uomo, solo nella misura in cui

egli è il presupposto immediatamente dileguante del cittadino. Il rifugiato rompe

e disvela questo meccanismo mostrandone la sua paradossalità poiché, pur

148Michel Agier, Ordine e disordini dell’umanitario. Dalla vittima al soggetto politico, in Ugo Fabietti (diretto da), Annuario di Antropologia n.5 Rifugiati, Le Edizioni, 2005, p.52149 Giorgio Agamben, Mezzi senza fine. Note sulla politica, p. 17

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incarnando “l’uomo dei diritti”, egli spezza l’identità forzosa tra uomo e cittadino,

tra natività e nazionalità, mostrando come ad essere tutelato e soggetto di

diritto nello Stato-nazione non sia in realtà affatto l’uomo in sé, che come tale

non è nemmeno contemplato, ma solamente il cittadino. Colui che eccede il

politico viene nuovamente incluso attraverso l’eccezione: l’inclusione della nuda

vita all’interno del diritto, attraverso la sua esclusione, trasforma la politica in

biopolitica. E la manifestazione più visibile e significativa della trasformazione

dell’eccezione in un paradigma del governo è la diffusione del campo, il più

puro, assoluto, intransitabile spazio biopolitico.

«A un ordinamento senza localizzazione (lo stato d’eccezione, in cui la legge è sospesa) corrisponde ora una localizzazione senza ordinamento (il campo come spazio permanente d’eccezione). Il sistema politico (...) contiene una localizzazione dislocante che lo eccede, in cui ogni forma di vita e ogni norma possono virtualmente essere prese»150.

Uno spazio che demarca una netta separazione dalla polis, sede della norma e

di coloro che ne sono beneficiari, di indeterminatezza tra inclusione ed

esclusione, eccezione e regola. Se della polis e della bios se ne occupa la

politica, del campo e della zoé se ne occupa l’umanitario. «La separazione fra

umanitario e politico, che stiamo oggi vivendo, è la fase estrema dello

scollamento fra i diritti dell’uomo e i diritti del cittadino»151. Nel suo saggio

Compassion and repression, Fassin mostra come, in realtà, questi due ambiti

non si possano distinguere in maniera così chiara e precisa, anzi, esiste una

continua confusione tra i due: l’umanitario riproduce e alimenta l’isolamento

della vita nuda su cui si fonda il potere sovrano dello Stato-Nazione. Il punto è

che esiste pur sempre una linea di demarcazione: il confine della nazione è la

figura simbolica di una soglia che ha senso nella misura in cui alcuni possono

liberamente attraversarla mentre ad altri è impedito il transito. Sia uno che

l’altro, la nuda vita e il potere nazionale, continuano a necessitarsi: l’assistenza

e l’aiuto umanitario infatti non sono processi neutrali, ma altamente politicizzati

che rispondono ad una determinata scelta derivante dall’alto. L’umanitario si è

convertito in uno strumento dello Stato, nel suo lato buonista, «elemento

150 Giorgio Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, p. 197. 151Ivi, 147-148

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indispensabile dell’edificazione sociale e morale dell’Impero»152, permettendogli

in questo modo di estendere il suo controllo ad un livello maggiore. Nel farsi

carico di quelle che vengono definite vittime, l’umanitario assume

simultaneamente una funzione di cura e di controllo: nei campi, nelle strutture e

nei centri di accoglienza, si applica il principio «care, cure and control. Le

vittime sono mantenute “al minimo” della vita, ossia nutrite rispettando le norme

della mera sopravvivenza, ma sono anche tenute sotto controllo»153. I campi,

sotto questo aspetto, sono soltanto un aspetto delle molte ramificazioni della

società di controllo.

«By actively promoting the image of accomodation centres as benign places, the state also controls the dominant representation of refugee reception. In everyday practices in the centres, control and assistance are closely interwined and produce an oppressive enviroment that engenders asylum seekers’ dependency»154.

«Nel campo perfetto, tutto il potere viene esercitato col solo gioco di una

sorveglianza precisa, e ogni sguardo sarà una tessera nel funzionamento

globale del potere. Il campo è il diagramma di un potere che agisce per mezzo

di una visibilità generale»155. Grazie alle tecniche di sorveglianza e di controllo, il

potere esercita la sua forza sul corpo stesso senza però utilizzare violenza

fisica, diretta. Non poter cucinare, non poter lavorare, non poter abbellire la

stanza, doverla condividerla con altri, avere orari precisi in cui mangiare o fare

la doccia, dover stare fuori tutto il giorno, non poter disporre dei propri soldi e in

alcuni casi anche del telefono cellulare, il controllo degli spazi e delle visite

familiari, i percorsi formativi e di inserimento decisi per genere e per età, la

separazione delle famiglie, il fatto di dover avvisare se si rientra dopo l’orario

fissato, tutto questo rientra in quello che Foucault chiama la microfisica del

potere, un potere che si esercita direttamente sulla e nella vita quotidiana delle

persone.

152 Michel Agier, Ordine e disordini dell’umanitario. Dalla vittima al soggetto politico, p. 50 153 Ibidem 154 Alice Szczepanikova, Between Control and Assistance: The Problem of European Accommodation Centres for Asylum Seekers, in International Migration Vol. 51 (4), 2013, p.2. Trad: “Promuovendo attivamente l’immagine dei centri di accoglienza come luoghi benigni/innocui, lo stato, inoltre, controlla la rappresentazione dominante dell’accoglienza dei rifugiati. Nelle pratiche quotidiane dei centri, controllo e assistenza sono strettamente interconnessi e producono un’ambiente oppressivo che genera e promuove la dipendenza dei richiedenti asilo”. 155M. Foucault, Sorvegliare e punire, p. 58

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«Nei campi rifugiati il potere viene esercitato sia attraverso la coercizione che la disciplina. La polizia keniota controlla i campi (…) mentre l’umanitario internazionale” organizza il territorio nel senso letterale del termine: costruisce campi in una struttura a griglia; genera sistema capaci di soddisfare in modo ordinato i bisogni di base dei rifugiati; e controlla le tessere di razionamento alimentare dei rifugiati per assicurare che vi sia una corrispondenza tra le dimensioni della famiglia e le razioni date»156.

Un biopotere orizzontale e pervasivo che, oscillando «between sentiments of

sympathy on the one hand and concern for order on the other hand, between a

politics of pity and policies of control» 157 , opera sui/sulle richiedenti asilo

trasformandoli in vittime silenziose, corpi sofferenti e bisognosi, nude vite che

hanno bisogno di assistenza, carità, aiuto e disciplina.

«Un rifugiato non è semplicemente una persona che è stata dislocata e che ha perso tutti o quasi tutti i propri beni. Un rifugiato è in effetti più simile ad un bambino: indifeso, privo di iniziativa, qualcuno a cui può essere offerta qualsiasi tipo di carità, in breve, una creatura completamente malleabile»158.

L’umanitario, dietro la sua apparenza caritatevole, disciplina, paragona,

differenzia, gerarchizza, omogeneizza, esclude e crea corpi docili. «E' docile un

corpo che può essere sottomesso, che può essere utilizzato, che può essere

trasformato e perfezionato»159. Quello del ridurre una soggettività storica a un

mero corpo anonimo rientra però nell’intenzione e nell’obiettivo politico dello

Stato di cui l’umanitario ne è l’espressione edulcorata e buonista. Un corpo

senza storia, infatti, è più facile da espellere ai margini per rafforzarli e ribadire

la potenza dello Stato-Nazione.

«The refugee camps are outside the place and time of commonplace, ordinary and predictable world. They apply an exceptional regime, normally reserved for a margin, and edge of the world kept apart, just kept alive so it does not have to be thought, so that no overall consideration of it needs to be elaborated»160.

156 M. J. Hyndman, Geographies of displacement: gender culture and power in ACNUR refugees camps, Kenya, in Barbara E. Harrel-Bond, L’esperienza dei rifugiati in quanto beneficiari di aiuto, in Ugo Fabietti (diretto da), Annuario di Antropologia n.5 Rifugiati, Le Edizioni, 2005, p. 17 157Didier Fassin, Compassion and Repression: The Moral Economy of Immigration Policies in France, p.366. Trad: ”oscillando tra sentimenti di compassione da un lato e preoccupazioni per l’ordine dall’altro, tra politiche di pietà e polizie di controllo”. 158M. Mandani, From Citizens to Refuge: Ugandan Asians Come to Britain, in Barbara E. Harrel-Bond, L’esperienza dei rifugiati in quanto beneficiari di aiuto, p. 24 159M. Foucault, Sorvegliare e punire, p. 46 160 Michel Agier, 2008, On the Margins of the World. The Refugee Experience Today, Polity Press, p.40. Trad: “I campi dei rifugiati si trovano fuori dal luogo e dal tempo di quello che è il mondo comune, ordinario e prevedibile. Essi applicano un regime eccezionale, normalmente riservato per un margine, e un confine

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Tutto questo rientra in quella che Foucault chiama governamentalità, ossia

«quella specifica forma di potere “che ha nella popolazione il bersaglio

principale, nell’economia politica la forma privilegiata di sapere, nei dispositivi di

sicurezza lo strumento tecnico essenziale”»161. La governamentalità è quindi un

potere che agisce in maniera non repressiva, orizzontale, basato sulle reti

sociali ma non per questo non violento. È dunque «l’insieme delle relazioni che

regolano la condotta dei soggetti come popolazione e come individui

nell’interesse di assicurare la sicurezza dello stato-nazione»162 . La tecnica

governamentale, soprattutto per quanto riguarda le migrazioni forzate, appare

come un gigantesco generatore di eccezioni. Eccezioni che, sospendendo la

norma, fanno risorgere la sovranità: «la sovranità viene reintrodotta proprio in

quegli atti attraverso i quali lo stato sospende il diritto e lo piega ai propri

fini»163. Ciò che giustifica il ricorso allo stato d’eccezione è il principio della

sicurezza nazionale: ogni Stato sovrano ha diritto di difendere la propria

territorialità, anche venendo meno agli accordi internazionali. Il potere sovrano,

infatti, attraverso l’arte del governo, agisce circolarmente in rapporto a se

stesso: il suo obiettivo è sempre quello di conservarsi e riaffermarsi. «Quel

potere che ha un ruolo importante nel modellare gli atteggiamenti, i

comportamenti e le aspirazioni che le persone manifestano in merito

all’appartenenza a una società liberale moderna»164. Ecco allora che, potendo

gestire la vita delle persone presenti sul suo territorio, i dispositivi

governamentali decidono, in via preventiva, anche quali vite vadano protette e

quali invece non superino neanche la soglia di visibilità; quali gruppi vadano

tutelati e quali invece rappresentino un pericolo potenziale; quali morti vadano

vendicate e quali invece non meritino il pubblico cordoglio.

del mondo viene mantenuto separato, solo mantenuto in vita così da non dover essere pensato, in modo che nessuna considerazione complessiva di esso deve essere elaborata”. 161 M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France, in Mauro Van Aken (a cura di), Rifugio Milano. Vie di fuga e vita quotidiana dei richiedenti asilo, Carta, Roma, 2008, p. 102 162 Ahiwa Ong, 1996, Cultural Citizenship and the Subject-Making: Immigrants Negotiate Racial and Cultural Boundaries in the United States, «Current Anthropology», 37(5), p. 738 163 J. Butler, Precarious Life: The Powers of Mourning and Violence, in O.Guaraldo (a cura di), 2004, Vite precarie, Meltemi, Roma, p. 78.164Aihwa Ong, 2005, Da rifugiati a cittadini. Pratiche di governo nella nuova America, Raffaello Cortina Editore, p. 39

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2.2 Soggettività costruite Governare significa strutturare il campo di azione degli altri. Significa agire

su delle azioni fornendo a esse mezzi, punti di appoggio e limiti. Ma la

governamentalità non coinvolge solamente le azioni dei soggetti, ma li struttura,

li fabbrica in quanto soggetti diversificati dalle loro capacità, dai loro corpi, dalle

loro particolarità, dalla loro utilità dando loro uno spazio e funzione. Ecco

perché per parlare di governamentalità non si può non fare riferimento anche a

quelle tecniche e processi di assoggettamento, ossia di costruzione e

posizionamento sociale dei soggetti.

« […] tecnologie di governo – cioè le politiche, i programmi, i codici e le pratiche che tentano di installare nei soggetti-cittadini determinati valori in molteplici ambiti. In gioco è la definizione dell’anthropos o essere umano moderno attraverso forme e tecniche razionale che convergono in uno spazio problematico identificabile»165.

Foucault scrive che «un assoggettamento reale nasce meccanicamente da una

relazione fittizia»166ossia da una relazione artificiosa, meccanica, ancora più

pervasiva se considerata normale, facente parte dell’habitus, proprio come può

essere la relazione d’aiuto. In uno dei nostri incontri Pedro, parlando proprio di

questi centri che lui conosce non solo in quanto è stato ospite ma anche come

operatore, mi dice: « Sono delle strutture verticali che dall’alto ti dicono cosa

devi o non devi fare e tu non hai scelta. Tutto questo non facilita le relazioni. Le

aspettative impediscono le relazioni». All’interno dei centri e del sistema di

accoglienza, i rapporti sono basati su servizi di assistenza, aiuto, compassione

che hanno creato lo stereotipo della vittima. L’aiuto umanitario, infatti, offrendo

soccorso, mette in moto processi e pratiche sociali che producono un

«universalismo destoricizzato»167 che etichetta le persone senza riconoscere la

loro soggettività storica, biografica e politica e creando così una massa

omogenea e indifferenziata.

«Coloro che offrono servizi sociali creano solitamente un’immagine del “rifugiato” tale per cui, in quanto “esperti”, se ne possono prendere cura. Gli individui sono trasformati in “clienti” attraverso un loro etichettamento impersonale. La linea di condotta è decisa in modo deduttivo e unilaterale, con pochi contributi da parte degli stessi rifugiati. Questo crea “un’epistemologia 165Aihwa Ong, Da rifugiati a cittadini. Pratiche di governo nella nuova America, p. 39 166 M. Foucault, Sorvegliare e punire, p.69 167 Liisa H. Malkki, Speechless Emissaries: Refugees, Humanitarianism, and Dehistorization, p.378

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causale non-reciproca” tra professionisti, dove i rapporti di causa ed effetto (…) sono ovvi, dove il fatto di essere rifugiati è costruito come un problema sociale e dove esiste una prescrizione standardizzata di come gli esperti dovrebbero agire per assicurare la salvezza dei loro clienti»168.

Quando questo tipo di relazione tende a riconoscere il bagaglio di esperienze

precedenti che un soggetto ha vissuto come un passato dal quale deve essere

emancipato attraverso tecniche di controllo e suggerimenti che esprimono un

forte intento educativo e pedagogico.

«Insegnare a diventare responsabili e capaci di provvedere a sé e ai luoghi in cui si vive è un’idea di emancipazione che spesso attraversa le politiche dell’accoglienza e che mostra un’immagine dei/delle richiedenti rifugio come persone incapaci di provvedere a sé o vittime da educare ad un vivere sociale che si presume completamente diverso rispetto al loro»169.

Questo insieme di pratiche non solo impongono un modello di emancipazione

ma anche una categoria di rifugiato, alla quale i/le richiedenti asilo devono

adeguarsi, e che definisce i loro stessi bisogni e i servizi adatti per essere

soddisfatti. In queste relazioni di assistenza, le identità dei/delle richiedenti

subiscono un processo di spersonalizzazione e destoricizzazione: le biografie si

perdono e i desideri, le tattiche per agire sulla propria esistenza e sul proprio

futuro svaniscono nei percorsi pensati per la categoria rifugiato. «L’aiuto può

depersonalizzare, proprio perché toglie l’altro dal riconoscimento sociale e dal

suo tentativo di ricerca di autonomia» 170 . Judith Butler definisce

l’assoggettamento come una pratica paradossale, questo poiché il processo in

cui si diventa subordinati al potere e il processo di diventare soggetti

coincidono. Il potere «forma il soggetto e al contempo delinea le condizioni

stesse della sua esistenza e la traiettoria del suo desiderio, allora esso non è

più semplicemente ciò a cui ci opponiamo, ma anche, in un senso forte, ciò da

cui dipendiamo»171.

«Tutti che parlano di autonomia. I rifugiati devono essere autonomi. Io devo essere autonomo. Il loro compito è insegnarmi l’autonomia. Come se non sapessi cos’è. Come se prima di arrivare 168D. Indra, The spirit of the gift an the politics of resettlement: the Canadian private sponsorship of South East Asians, in Barbara E. Harrel-Bond, L’esperienza dei rifugiati in quanto beneficiari di aiuto, p. 19 169 Mauro Van Aken (a cura di), Rifugio Milano. Vie di fuga e vita quotidiana dei richiedenti asilo, p. 99 170 Ivi, p. 116 171 Judith Butler, La vita psichica del potere. Teorie del soggetto, in Barbara Pinelli, Soggettività, assoggettamento e violenza nelle migrazioni forzate delle donne verso l’Italia, in Franca Balsamo (a cura di), World Wide Women. Globalizzazione, generi, linguaggi, Vol.2, CIRSDe, Università degli studi di Torino, 2011, p. 142

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qui fossi un bambino. Come se non fossi scappato da un paese pericoloso per me. Ero autonomo e lo sono tutt’ora, nessuno mi deve insegnare niente»172.

Le strutture per i rifugiati, nonostante dichiarino e sostengano il valore

dell’autonomia, creano dipendenza. Creano questa situazione poiché, non

riuscendo effettivamente a incentivare delle condizioni di indipendenza e

stabilità e direzionando, quindi, la loro azione solo verso delle esigenze basiche

ed elementari, alimentano il contrario. «La governamentalità comporta quindi

due processi intrecciati di soggettivazione: ogni individuo è “assoggettato agli

altri individui attraverso il controllo e la dipendenza, ed è legato alla propria

identità attraverso una coscienza di autocoscienza»173. La loro disciplina e i loro

regolamenti, organizzando la vita quotidiana delle persone che risiedono al loro

interno, evidenziano una grande contraddizione: partono dal presupposto,

infatti, che i/le richiedenti asilo siano persone sprovviste di qualsiasi “capacità di

stare al mondo” e pertanto bisognose di tutto l’aiuto e l’insegnamento possibile,

anche se questo significa allontanarli ancora di più dalla realizzazione di un loro

progetto di vita autonomo. Questa situazione è ancora più pesante quando si

tratta del sistema di accoglienza delle donne richiedenti asilo il cui

l’insegnamento è utilizzato come tecnica disciplinare. Questo tentativo

pedagogico coinvolge tutte le sfere della vita delle donne, anche quelle più

intime e personali. Vengono date loro regole sul come accudire e svezzare i

bambini, come lavarli, oppure vengono dati loro orari entro i quali rientrare nel

centro, devono sempre avvisare ed essere rintracciabili quando escono,

vengono separate dal marito e la maggior parte delle volte vengono indirizzate

verso lavori di assistenza e cura, senza chiedere la loro preferenza. Tutto

questo, invece che emancipare, comporta una deresponsabilizzazione e

un’erosione del controllo che le donne hanno della propria vita. Ad una violenza

diretta, fisica, tangibile come può essere quella vissuta nel paese di origine e/o

transito, si aggiunge una violenza che vari autori hanno definito «dolce o

simbolica»174 , «invisibile»175 o strutturale, intesa come

172 Pedro durante una cena 173 M. Foucault, 2005, La governamentalità, in Aihwa Ong, Da rifugiati a cittadini. Pratiche di governo nella nuova America, Raffaello Cortina Editore, p. 39 174 Pierre Bourdieu

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«una violenza esercitata in modo sistematico – ovvero, in modo indiretto – da chiunque appartenga a un certo ordine sociale: da cui deriva il disagio che queste idee provocano in un’economia morale ancora legata all’attribuzione degli encomi o delle colpe ad attori individuali»176.

È una violenza che si riproduce attraverso l’indolenza delle burocrazie , il

diniego delle amministrazioni, il controllo e l’oppressione delle istituzioni e dei

suoi agenti. È una violenza insita in un sistema, indiretta ma che agisce,

generando marginalità e sofferenza, in modi non così differenti da quelli

sperimentati prima della migrazione. «Ciò che colpisce nelle parole e nei

racconti di molti rifugiati è il senso di straniante continuità che l’esperienza della

violenza assume nel passaggio fra paesi d’origine e contesti d’accoglienza»177.

«Uno dei più mistificanti risvolti della categoria passivizzante di rifugiato consiste nel permettere di pensare che la guerra, in fondo, sia ben peggio di tutto ciò che l’Occidente, pur nella sua perfettibilità, sarebbe in grado di offrire. È come se questo assunto autorizzasse a pensare che la possibilità di espatriare verso il Nord costituisca già una garanzia automatica di sicurezza e di riscatto»178.

Questo continuum di violenze, spesso simultanee, si perpetuano lungo tutto la

traiettoria della migrazione – prima, durante ma anche dopo – e agiscono

direttamente sulla costruzione dei soggetti.

«La violenza che incontrano nel nostro paese nel nostro paese, che li incastra in stereotipi della vittima, del bisognoso, del povero, dell’assistito, non è forse meno strutturale di quella da cui scappano. È sorprendente sentire come molte persone scappate da contesti di violenza generalizzata avvertano la loro vita nel nostro paese ancora una volta, e per questo ancora di più, disumana degradante, offensiva»179.

È una violenza strutturale ma anche strutturante poiché produce soggetti

assoggettati e come tale presenta due dimensioni: quella privata e quella

politica. È una violenza privata poiché personale, che tocca l’intimità più

profonda delle persone, che agisce sulla loro vita e sul loro benessere, ma è

anche politica e pubblica poiché è effetto delle istituzioni, di cui le strutture

d’accoglienza fanno parte, che, anche involontariamente o incoscientemente,

175 Slavoj Žižek 176 Paul Farmer, Un’antropologia della violenza strutturale, in Ugo Fabietti (a cura di), Annuario di Antropologia n. 8 Sofferenza sociale, Meltemi, 2006, pp. 21-22 177 Francesco Vacchiano, Cittadini sospesi: violenza e istituzioni nell’esperienza dei richiedenti asilo in Italia, in Ugo Fabietti (a cura di), Annuario di Antropologia n.5 Rifugiati, Le Edizioni, 2005, p.97 178 Ivi, p. 98 179 Ivan Mei, Fare e disfare il ruolo di vittima, p. 21

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contribuiscono ad aumentare la vulnerabilità, la marginalità e la sofferenza di

queste persone.

Per concludere questo paragrafo mi preme evidenziare il fatto che i/le

richiedenti asilo e uomini e donne rifugiati non sono soggetti privi di potere,

identità e capacità di agire; così come non tutte le strutture di accoglienza sono

“colpevoli” di violenza. Esistono delle buone pratiche che riconoscono i soggetti

come tali e non come uno status, ma di questo ne parlerò nel prossimo

capitolo.

2.3 Il dono umanitario «L’atto di donare non è un qualcosa di semplicemente meccanico: il dono definisce le relazioni di status e di potere che esistono tra il donatore e colui che riceve il dono»180.

Donare non è un atto individuale anzi, si configura sempre come una

relazione sociale. Esso perciò non è mai fine a se stesso, non è per nulla

gratuito e disinteressato, esso, infatti, consente di affermare la propria

soggettività verso l’altro senza diventarne ostaggio. L’assistenza e l’aiuto

umanitario si presentano e costituiscono, a tutti gli effetti, un dono offerto, ma

non imparziale. La particolarità, infatti, è che è un regalo ad estranei, a soggetti

che non si trovano in una vera e propria relazione paritaria con il donatore. Gli

aspetti materiali e simbolici del dono, in questo caso, non personalizzano ma

tengono a distanza. I destinatari del dono-aiuto, non solo rimangono estranei al

rapporto, distanti e altri rispetto a coloro che danno, ma sono anche resi

impotenti nel restituire attivamente il dono. «Anything that impedes the

appearance of fully equivalent exchange [reciprocity] therefore can result in the

receiver ceding status or power to the giver»181.

«Il dono però è un gioco sociale complesso, perché mentre espone chi dona alla perdita (il donatore potrebbe non venire corrisposto), esso coinvolge il beneficiario nello stesso rischio: in

180 Barbara E. Harrel-Bond, L’esperienza dei rifugiati in quanto beneficiari di aiuto, p.30 181 Doreen Indra, 1993, The Spirit of the Gift and the Politics of Resettlement: The Canadian private sponsorship of South East Asians, in The International Refugee Crisis: British and Canadian Responses, p. 243. Trad: “Tutto ciò che impedisce la comparsa di uno scambio del tutto equivalente [reciprocità], può comportare la cessione dello stato o della potenza del ricevente al donatore”.

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tutte le società chi non ricambia il dono è escluso dal legame sociale. Segue che il donatario è condotto al contro-dono pena l’annientamento sociale conseguente al fatto di non essere stato al gioco. Lo scambio conduce cioè verso il punto in cui può innestarsi la dinamica del dono: riesce a donare solo chi non necessita di una risposta immediata, chi sovrabbonda di qualcosa»182.

I rapporti del dono umanitario non sono quindi neutri ma «costruiscono l’altro in

un ordine vittimale, connesso a passività, dipendenza, infantilizzazione,

asimmetrie di potere legittimate proprio dall’urgenza dell’intervento»183 . Un

dono quindi che non vive di reciprocità ma che invece si traduce in un gesto di

carità offerto indistintamente ad una categoria fissa e prefissata di bisognosi.

Ciò che si crea è quindi una relazione asimmetrica e diseguale che richiama

quella tra «patrono/cliente»184. «Humanitarian workers stand in an asymmetrical

relationship to refugees who are symbolically disempowered through becoming

clients of those upon whom they are dependent fot the means of survival and

security» 185 . Questo meccanismo è fondamentale per comprendere i

meccanismi di vittimizzazione che agiscono sui/lle richiedenti asilo e rifugiati: se

il riconoscimento della soggettività dell’altro avviene attraverso la possibilità di

restituire il dono, l’alterità è dalla partenza estromessa da questo gioco di

riconoscimenti, sia in termini economici che sociali. «La perdita del luogo viene

spesso fatta coincidere con la perdita di cultura, di risorse proprie, di proprie

istituzioni e reti di assistenza, e questa assenza presupposta è alla base

dell’asimmetria e della passività forzata di molte relazioni d’aiuto»186. Colui che

riceve il dono-aiuto non ha possibilità di ricambiarlo perché non è messo nelle

condizioni per farlo, in quanto, da vittima e da nuda vita è più facile plasmarlo a

proprio piacimento riducendo il suo corpo a oggetto da proteggere, curare,

sfruttare ma non riconoscere, perché ciò implicherebbe un cambiamento

dell’ordine sociale e quindi la destabilizzazione dei poteri, centrali nello scambio

del dono. Infatti, «there is a special relationship of the power of the person who

182 Ivan Mei, Fare e disfare il ruolo di vittima, p. 9 183 Mauro Van Aken, Introduzione, in Ugo Fabietti (diretto da), Annuario di Antropologia n.5 Rifugiati, Le Edizioni, 2005, p. 8 184 Mauro Van Aken, Il dono ambiguo: modelli d’aiuto e rifugiati palestinesi nella valle del Giordano, in Ugo Fabietti (diretto da), Annuario di Antropologia n.5 Rifugiati, Le Edizioni, 2005, p. 108185 Barbara E. Harrell-Bond, 2002, Can Humanitarian Work with Refugees be Humane?, Human Rights Quarterly 24, p. 55. Trad: “Gli operatori umanitari si trovano in un rapporto asimmetrico rispetto i rifugiati che sono simbolicamente impotenti nel diventare clienti di coloro dai quali dipendono per i mezzi di sopravvivenza e sicurezza”. 186 Mauro Van Aken, Introduzione, p.8

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distributes the “handouts” with the refugee who must passively receive. The

power of the helper is further legitimized by its implicit association with altruistic

compassion»187. La passività del ricevere fonda le sue radici nel pretendere che

i/le richiedenti asilo e rifugiali accettino l’aiuto e l’assistenza senza mettere in

discussione non solo l’adeguatezza del dono ma anche la competenza del

donatore. «Unfortunately, however, the humanitarian regime behaves as

though through the act of receiving, the refugee has accepted a contractual

obligation to consume whatever has been given, regardless of the adequacy or

appropriateness of the gift» 188 . Essi devono essere “per contratto” grati,

riconoscenti, soddisfatti e dipendenti dal/del dono ricevuto, pena l’essere

accusati di non essere veri rifugiati o addirittura cattivi rifugiati.

«An interesting paradox thus arises. The donor borrows from the idea of charity the concept of non-reciprocation or, better, not necessary reciprocation, and, in turn, uses it in order to impose a condition on the donations: desert or merit which is construed in terms of absolute destitution on the part of the recipient»189.

Secondo la teoria del dono, il suo potere non si esaurisce una volta passato

nelle mani di colui che lo riceve, esiste, infatti, una norma sociale sottintesa che

consente al donatore di decidere come il destinatario debba utilizzare o

disporre del dono. Ecco perché, se il comportamento del ricevente non

corrisponde alle aspettative del donatore, lo si accusa di ingratitudine.

«Non è dignitoso ricevere cibo senza pagarlo. Nemmeno i vestiti. Se uno ha un po’ di soldi,

deve procurarsi da sé questi generi di necessità […] Non mi piace andare là perché il cibo non

è commestibile. Io lavoro, cosa ci faccio lì? Perché mangio lì? Quel posto è per gli anziani, gli

invalidi, non per me! Sono venuto qui non per mangiare ma per l’asilo politico. Capisci?»190.

187 Mark Walkup, Policy and Behavior in Humanitarian Organizations: The Institutional Origins of Operational Dysfunction, in Barbara E. Harrell-Bond, Can Humanitarian Work with Refugees be Humane?, p. 56. Trad: “esiste un rapporto speciale tra il potere della persona che distribuisce la "carità" e il rifugiato che deve ricevere passivamente. La potenza del soccorritore è ulteriormente legittimata dalla suo implicito legame con la compassione altruista”. 188 Barbara E. Harrel-Bond, Eftihia Voutira and Mark Leopold, 1992, Counting the Refugees: Gifts, Givers, Patrons and Clients, in Journal of Refugee Studies Vol. 5. No. 3/4, p.210. Trad: “Purtroppo, però, il regime umanitario si comporta come se, attraverso l'atto della ricezione, il rifugiato abbia accettato l'obbligo contrattuale di consumare ciò che gli è stato dato, a prescindere dalla adeguatezza o appropriatezza del dono”. 189 Ivi, p. 207. Trad: “Un interessante paradosso si pone in tal modo. Il donatore prende in prestito dall'idea di carità il concetto di non-reciprocità o, meglio, di non necessaria reciprocità, e, a sua volta, lo usa per imporre una condizione sulle donazioni: merito che viene interpretato in termini di povertà assoluta da parte del destinatario”. 190 Mauro Van Aken (a cura di), Rifugio Milano. Vie di fuga e vita quotidiana dei richiedenti asilo, p. 117

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Il tema del cibo è una questione molto spinosa, numerose sono state le

proteste da parte di/delle richiedenti asilo e rifugiati dovute ad una mancanza di

qualità del cibo a loro offerto (ricordo che nei centri d’accoglienza non gli è

permesso cucinare) che, agli occhi dell’opinione pubblica, sono stati interpretati

come gesti irrispettosi e da ingrati. Invece che interrogarsi sui motivi delle

proteste e sulle condizioni in cui sono accolti, «refugees cease to be people

with problems; refugees become the problem»191. Queste situazioni mostrano

tutte le ambiguità e i rischi dell’accoglienza, dell’aiuto e dell’assistenza pensati

come dono: da una parte l’asimmetria delle relazioni che pone in una

condizione di sottomissione coloro che lo ricevono, dall’altra l’accusa di

ingratitudine se si cerca di stabilire un rapporto alla pari. In un modo o nell’altro

il/la richiedente asilo e/o rifugiato/a ne escono in una posizione svantaggiata: o

muta vittima o pericoloso irriconoscente, questo perché, in entrambi i casi, il

dono li taglia fuori da una costruzione attiva di una relazione reciproca.

«Only when refugees are actively involved in gift-giving exchanged for aid and development, it is argued, does institutionally supported refugee self reliance occur»192.

191Mark Walkup, Policy and Behavior in Humanitarian Organizations: The Institutional Origins of Operational Dysfunction, p. 73. Trad: “I rifugiati smettono di essere persone con problemi per diventare loro stessi il problema”.192 Evan Elise, Refugee Self-Reliance and the Gift Exchange: a contemporary examination of refugee aid and development, www.impoderabilia.socanth.cam.ac.uk, p.30. Trad:”Solo quando i rifugiati saranno attivamente coinvolti nello scambio del dono per quanto riguarda l’aiuto e lo sviluppo, si verificherà l’autosufficienza/indipendenza dei rifugiati istituzionalmente sostenuta”.

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PARTE III: CONVIVERE

Capitolo terzo: Il dono decostruito

3.1 Parma e il Ciac «Il Ciac, ispira il proprio operato ai principi della pace e della nonviolenza, della cooperazione e

della solidarietà internazionale, dei diritti umani e della giustizia, della convivenza e della democrazia, del dialogo interculturale».

L’Emilia Romagna è la regione più multietnica d’Italia193, registrando una

maggiore presenza di residenti stranieri, sia in termini assoluti che in termini

d’incidenza sul totale della popolazione. La regione è stata e continua ad

essere una tra le aree più attrattive per gli immigrati per l’offerta di lavoro stabile

e di una rete di servizi meglio rispondenti alle esigenze di tipo familiare. Il tasso

d’incidenza è infatti del 12,1%194, a fronte del dato medio nazionale che è

dell’8,2%. I cittadini stranieri residenti al 1° gennaio 2015 sono stati 538.236, in

crescita rispetto ai 536.022 dell’anno precedente. Questi dati sottolineano due

aspetti fondamentali. Il primo è che le migrazioni sono una componente

strutturale della nostra epocae che non possono più essere considerate come

un’emergenza e quindi come un elemento provvisorio e temporaneo, ma come

parte della società italiana. Il secondo aspetto è che si tratta di processo

irreversibile, di un mutamento sociale in divenire da cui non si torna indietro,

nonostante non sia privo di costi sia per gli immigrati che per le società di

accoglienza, ma anche di potenziali opportunità di progresso e crescita

comune.

«L’Emilia-Romagna si è dotata di una legge (L.R. 5/2004) che ha questa visione strategica e definisce ogni tre anni un Programma trasversale di azioni: l’ultimo 2014-2016 si chiama “Per una comunità interculturale” e intende proprio sottolineare che una popolazione regionale sempre più eterogenea (per provenienze, lingue, culture, religioni, condizioni socio-economiche) pone il tema cruciale della necessità di ridefinire un nuovo patto di cittadinanza tra

193 Secondo un dossier pubblicato da Idos: http://www.dossierimmigrazione.it 194 Osservatorio regionale sul fenomeno migratorio (art. 3, L.R. n. 5, 24 marzo 2004) (a cura di), L'immigrazione straniera in Emilia-Romagna, Edizione 2016

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migranti e nativi, tra nuovi residenti e amministrazioni locali, e la necessità di potenziare le politiche pubbliche volte a investire nella diversità e nel dialogo culturale»195. La regione, negli ultimi anni, si è caratterizzata per un approccio dal basso nel

quale i comuni sono stati protagonisti delle funzioni di programmazione e

realizzazione degli interventi, coinvolgendo e costruendo reti istituzionali e non

(enti periferici dello Stato, terzo settore, scuole, imprese) e puntando sempre

sul protagonismo attivo degli stessi migranti. A fare della dimensione locale il

caposaldo dei suoi interventi è certamente il comune e la provincia di Parma,

considerata la seconda provincia più accogliente della regione dopo Bologna.

Parma si caratterizza infatti per l’alta incidenza di stranieri regolari residenti in

città, circa il 15,9%196 a livello comunale.

«L’accoglienza dei richiedenti asilo è un dovere. Va esercitato nel rispetto di tutti – italiani e migranti – ma garantendo in ogni caso alle persone accolte standard di qualità e di diritti, monitorati e valutati in tutte le loro fasi. L’accoglienza di qualità e tempestiva è una condizione necessaria per permettere l’integrazione. Per questo deve avvenire fin dalle sue prime fasi attraverso un contatto diretto e positivo con la comunità locale. Un richiedente asilo che impara l’italiano, che conosce i servizi del territorio, che apprende quali sono i suoi diritti e i suoi doveri non da un regolamento ma dalla frequentazione con gli operatori e i cittadini del luogo in cui si trova, sarà una persona che – pur a partire dalle sue vulnerabilità e da una storia magari traumatica – potrà radicarsi nel territorio e non rimanere un passivo “recettore” di accoglienza. L’accoglienza funziona meglio, quindi, se è in piccoli numeri, inserita nel tessuto sociale, non una bolla che separa e crea mondi che non comunicano. Ma i piccoli numeri, l’accoglienza negli appartamenti – che come CIAC perseguiamo come modalità unica di accoglienza nell’ambito del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati – è possibile solo se ciascun Comune, ciascun territorio per quanto piccolo si impegna a partecipare e dare il proprio contributo. L’alternativa quindi non è tra “accoglienza sì” o “accoglienza no”, o ancora tra “profughi che qui non vogliamo” e “profughi che starebbero meglio altrove, lontano da casa mia e comunque meglio se controllati in un luogo chiuso”. Secondo noi la vera alternativa che promuoviamo è la scelta di un’accoglienza diffusa, che superi il concetto di emergenza e che rimetta al centro il valore della comunità e della responsabilità»197. Il Centro immigrazione asilo e cooperazione onlus, da tutti conosciuto e

denominato Ciac, nasce formalmente a Parma nel gennaio del 2001. In realtà

la sua storia ha radici ben più profonde e lontane nel tempo che si collegano

alla guerra civile nell’ex Jugoslavia. Nel 1993 infatti, l’attuale presidente Emilio

Rossi insieme ad altri attivisti, lanciò la campagna Fermiamo un fucile per volta 195 Elisabetta Gualmini, Vicepresidente e Assessore al welfare e alle politiche abitative, in L'immigrazione straniera in Emilia-Romagna, p.7 196 Anno 2014 - Bilancio demografico, www.statistica.comune.parma.it. 197 Chiara Marchetti, L’accoglienza è un dovere di cittadinanza, in www.ciaconlus.org

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per l’accoglienza e il sostegno dei disertori della guerra. Grazie alla

concessione di un appartamento da parte del Comune, che il gruppo

autofinanziava. Dal 1994 al 1995 riuscirono ad ospitare disertori e obiettori

provenienti da ogni regione della ex Jugoslavia, di ogni etnia, di ogni religione

«e tra di loro la convivenza pacifica si realizzava sempre come a dimostrazione

di un teorema». Quell’esperienza segnò una pietra miliare e da allora in avanti

continuarono ad accogliere.

«Prendevano corpo alcune evidenze: l’assenza in Italia di una legge organica

sull’asilo spiegava la mancanza di strutture statali per l’accoglienza e pertanto i

richiedenti asilo venivano abbandonati a se stessi. Non era sufficiente

l’impegno del volontariato, occorreva far pressione affinché lo Stato assolvesse

al proprio dovere di ospitalità. Le associazioni potevano riuscire a coinvolgere le

istituzioni più raggiungibili: i comuni, le province» 198 . Ecco che, Ciac si

costituisce attraverso i suoi primi due progetti importanti:

– Immigrazione asilo e cittadinanza, in collaborazione dapprima con sette

comuni del parmense. L’obiettivo del rispetto dei diritti degli stranieri

prevedeva la diffusione delle competenze giuridiche in materia tra i

dipendenti comunali e l’apertura (ex novo) di uno sportello rivolto agli

stranieri in ciascuno dei sette comuni, a gestione diretta, con il supporto

e la consulenza dei legali di Ciac per i casi più complessi;

– Accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati in stato di necessità, con il

comune di Sala Baganza.

Nel 2004 viene avviato il progetto Sprar Terra d’Asilo che coinvolge due interi

distretti intercomunali realizzato dal Ciac. Al momento i posti autorizzati sono

settanta, attivati presso strutture abitative dislocate in vari comuni della

Provincia. Da anni Ciac, con la Provincia di Parma, i Comuni, Amnesty

International, svolge, infatti, un’intensa opera di sensibilizzazione sul diritto

d’asilo verso l’intero territorio cercando un coinvolgimento di un numero

crescente di comuni nell’impegno per l’accoglienza, l’integrazione di richiedenti

asilo, rifugiati, titolari di protezione umanitaria e la riabilitazione nel caso di

vittime di tortura.

198 www.ciaconlus.org/lastoria

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Oggi il Ciac è:

– un archivio giuridico, quindi un centro di studio aperto; – un centro di competenze di supporto agli immigrati e alle associazioni di

solidarietà, con una rete di sportelli su tutto il territorio provinciale; – un luogo di elaborazione e sperimentazione di pratiche innovative

nell’ambito dell’accoglienza, della presa in carico e della tutela di migranti e rifugiati, in una stretta sinergia con altri soggetti pubblici e del privato sociale che operano sul territorio;

– un luogo di accesso per gli stranieri al diritto, ovvero un luogo di conoscenza, ove è possibile vedere stranieri e giuristi che insieme studiano la materia, ove gli stranieri possono in prima persona usare la legge a tutela della loro condizione;

– un luogo di auto-aiuto; – un luogo di orientamento ai servizi del territorio; – un luogo d’incontro per gli stranieri: di riunione delle comunità (cinque

comunità di immigrati hanno anche sede presso Ciac), di possibilità di espressione culturale, ove (centro multimediale) è possibile leggere libri o vedere videofilmati nelle lingue originali.

Ciac è tutto e questo e molto altro, vuole essere un punto di riferimento per tutti

coloro che hanno bisogno di un appoggio, consulenza, formazione. Credendo

fortemente nell’accoglienza diffusa e integrata, ha al suo attivo numerosi

progetti basati su un coinvolgimento attivo dei protagonisti. Per esempio, ha

preso il via il secondo anno del progetto Rifugiati in Famiglia, che prevede

l’accoglienza in famiglia per la durata di nove mesi di rifugiati che abbiano già

completato il percorso di riconoscimento giuridico. Al momento sono sedici le

famiglie coinvolte nel progetto, una delle quali è una famiglia allargata,

composta dalla comunità parrocchiale dell’Oratorio di via Bandini.

«C’è un appartamento proprio qui in oratorio che è stato dato ad una mamma con due bambine, la più grande ormai si è così tanto affezionata al Don che lo chiama papà. Puoi immaginare le risate!» mi racconta Chiara Marchetti, responsabile del progetto. «Pensavamo a come offrire non tanto un prolungamento dell’accoglienza, ma un cambio di passo, offrendo ai rifugiati accesso a quel tessuto sociale che spesso nei progetti rimane sullo sfondo ma che può rappresentare una forte spinta non solo per trovare casa e lavoro, ma anche per estendere le proprie reti sociali e spingersi in una maggiore immersione nella comunità locale. E attraverso questo progetto ci stiamo anche impegnando a rivitalizzare un’accoglienza diffusa che ha la potenzialità di facilitare il contatto, ma che senza un incontro reale rischia di issare muri invisibili tra un “noi” e un “loro” che ci allontanano, tanto dalla scoperta quanto dalla soluzione dei problemi comuni».

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3.2 Tandem «Il progetto di convivenza tra rifugiati e studenti italiani chiamato Tandem prende vita nel 2016 dopo una gestazione che ha visto l'associazione CIAC Onlus, promotrice e ideatrice, impegnata per anni nel porne le basi. Ricercando contatti e le case necessarie (tutt'altro che semplici da trovare, non essendo fino ad ora possibile pagarne i proprietari e appellandosi a disponibilità e buon cuore) e diffondendo una cultura dell'accoglienza necessaria a creare un terreno fertile, l'associazione ha potuto avviare, nel febbraio 2016, questa prima sperimentazione sul territorio italiano. Ultimogenito di un famiglia di progettualità sempre più ricca, il progetto Tandem nasce come fratello minore e in continuità con il progetto Rifugiati in famiglia che, ad oggi, permette a sempre più rifugiati di trovare casa, per 9 mesi, ospitati da famiglie italiane. I due appartamenti, composti rispettivamente da Mamadou dal Mali, Zadran dall'Afghanistan e Giammarco in uno e da Pedro dalla Nigeria, Ahmed dalla Somalia, Lorenzo e Tommaso nell'altro, vorrebbero rappresentare solo il trampolino di lancio di sempre più progettualità simili. Come testimonia l'attenzione datagli dalla stampa che ci ha addirittura portati a comparire, a meno di due mesi dall'inizio, in un servizio della TV belga. Oggi noi che scriviamo e che viviamo questo progetto grazie a coloro che si sono spesi per crearlo, al Movimento dei Focolari e alla signora Marina Cristoforini - che hanno messo a disposizione gli appartamenti in comodato d'uso - dobbiamo un grande ringraziamento a queste persone. L'esperienza che ci è stato dato la possibilità di vivere è risultata essere incredibilmente ricca, formativa e umanamente inimitabile, già dopo solo cinque mesi dal suo inizio. La crescita derivante dal contatto diretto e giornaliero tra diverse esperienze di vita, culture e punti di vista sul mondo è un’opportunità preziosa quanto rara, per “italiani” e “rifugiati” (tra virgolette perché vorremmo andar oltre queste categorie, vedendoci semplicemente come cittadini del mondo). Per gli studenti italiani, pur se con l'intenzione di seguire gli avvenimenti sociali attraverso i media, è molto difficile sviluppare una vera comprensione delle dinamiche migratorie, delle condizioni di vita dei rifugiati e, di conseguenza, dotarsi di mezzi per empatizzare con quest'ultimi. Proprio in questo è consistito il carattere innovativo del progetto Tandem: creare ponti che altrimenti, per percorsi e situazioni di vita troppo differenti, non avrebbero mai permesso a questi cittadini europei di venire realmente in contatto, conoscere ed imparare da coloro che, ancora troppo spesso, anzi sempre più discriminati, vivono una condizione di marginalità sociale. Coloro intorno ai quali si fanno sempre più strette le politiche securitarie europee, in questo periodo di grande confusione propagandistica tra “tipologie” di migrazione, come se scappare dalla fame o dalle bombe fosse poi, in fondo, così diverso. Parliamo infatti, è bene ricordarlo, di esseri umani costretti a fuggire lontanissimo dal proprio paese d'origine, che si trovano ad avere a che fare con povertà, lingue sconosciute e governi, come quello italiano, che vaneggiano addirittura, forse per colpa del caldo estivo, di hotspot galleggianti al fine di impedire a queste persone di mettere piede su una terra più sicura. In questo contesto politico, caratterizzato da un preoccupante rinvigorimento delle estreme destre europee che utilizzano la paura per diffondere ideologie razziste e xenofobe, oltre che alla luce della sempre più diffusa tendenza europea alla chiusura dei confini, è possibile comprendere l'importanza da noi attribuita al progetto Tandem. Contro la paura del diverso, per la reciproca accettazione, comprensione e ascolto, nessuno strumento sembra essere più efficace che quello della convivenza spontanea, la sola in grado di generare una vera sensazione d'unità tra “categorie” sociali apparentemente lontane, in grado di porre solide basi per una società meticcia. Quale migliore antidoto alla paura del diverso se non la conoscenza di quest'ultimo e l'evidenza creata da coloro che, pacificamente e felicemente, convivono mantenendo i loro usi, abitudini e costumi? Per quale ragione, inoltre, dovrebbe far strano, come più volte abbiamo avuto la sensazione che fosse, il semplice fatto di vedere convivere italiani e somali, nigeriani o

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maliani piuttosto che non canadesi o olandesi? Le nostre reazioni istintive rivelano qualcosa di noi, e la reazione di tanti all'idea del nostro progetto rivela come, anche chi non discrimina nella propria vita ed è disposto ad aiutare e ad accogliere, tenda, forse per paura o per abitudine, a stranirsi di fronte all'idea di convivere e condividere ogni giorno della propria vita. Proprio per questo, oggi ancor più di quando iniziammo, percepiamo l'importanza di ciò che stiamo facendo. Tandem ci sta permettendo di riscrivere l'immaginario collettivo di ciò che viene considerato “normale”: se, fino ad oggi, il rifugiato somalo aveva sì diritto ad essere assistito durante il suo percorso integrativo, rimanendo però, per condizioni strutturali della società italiana, al margine di essa e prevalentemente a contatto con persone nella sua condizione, mediante il nostro progetto tutto ciò, finora considerato normale, sta smettendo di esserlo. Tutto ciò, andando oltre le categorie che ci distinguono: oltre l'immaginario di un mondo privilegiato e benestante che, per mantenere il proprio status, debba difendersi dalla fuga dei figli di un altro mondo, devastato da guerre e sfruttamento, che si vedono ad oggi ancora negati i diritti umani più fondamentali. Le migrazioni, come testimonia la storia, sono un fenomeno umano che non può (e non deve) essere fermato; le nostre stesse caratteristiche, da italiani, sono il frutto di immeticciamenti millenari e delle migrazioni che ci hanno preceduto: per questo motivo è oggi più che mai necessario sviluppare nuovi modelli di convivenza e socialità, che permettano di valorizzare tutto ciò che, di assolutamente unico, l'incontro tra popoli e culture può generare. Il nostro augurio di cuore è che Tandem possa rappresentare un piccolo quanto significativo primo passo in questa direzione. Per un'accoglienza veramente orizzontale, che possa aiutare i migranti semplicemente ponendoli in condizione di conoscere e farsi conoscere da coloro che, cresciuti nel luogo che li ospita, potranno star spontaneamente al loro fianco, da conviventi, introducendoli al loro nuovo mondo e scoprendo, confrontandosi, insieme a loro come migliorare ciò che non va».

Ho deciso di iniziare questo paragrafo con un testo dei ragazzi, scritto

appositamente per la Festa Multiculturale di Collecchio, giunta alla sua

ventesima edizione, perché il progetto sarebbe solo un documento scritto senza

la loro presenza e le dinamiche che si sono create tra i partecipanti, tanto che

Casa Saffi e Casa Rondani sono molto diverse tra di loro. Tandem è ogni

singolo partecipante che lo compone e perciò non è qualcosa di fisso né di

precostituito come potrebbe essere un centro di accoglienza o uno Sprar dove

vi sono regole e procedure da seguire. Definisco Tandem un processo in atto,

che si evolve e cambia a seconda delle persone e delle dinamiche che si

creano tra di loro. Ecco allora che si può considerare ogni casa Tandem come

un’organizzazione particolare, all’interno delle quali si possono cogliere i

«processi di costruzione e negoziazione di significati che si verificano tra i

membri»199. Alla base vi è la convinzione che Tandem non è un progetto di

199 Barbara Sorgoni (a cura di), 2011, Etnografia dell’accoglienza. Rifugiati e richiedenti asilo a Ravenna, p. 26

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assistenzialismo né di integrazione ma di amicizia. Spesso i ragazzi parlano di

interazione o immeticciamento proprio per sottolineare una volontà di fondo,

unita a curiosità, di conoscersi, imparare l’uno dall’altro e di sperimentare

un’esperienza comunitaria. Accompagnandoli durante questi mesi nei vari

incontri per far conoscere il progetto, mi sono accorta che esso è molto di più di

quello che dicono. Proprio fondando le sue basi nella condivisione della

quotidianità, Tandem è fatto di piccoli momenti che non vengono quasi mai

raccontati perché, proprio nella loro semplicità e spontaneità, potrebbero essere

considerati insignificanti. Momenti che ho potuto osservare solo stando con

loro, senza nemmeno riuscire a coglierli tutti. Tandem allora sono Tommaso,

Pedro, Ahmed e Lorenzo che si chiamano fratelli; Lorenzo che dice

apertamente loro quanto gli vuole bene; Tommaso indaffarato in cucina; Ahmed

che fa i video in diretta su Facebook dal divano di casa mentre guarda i canali

Mediaset; le discussioni su Berlusconi e Trump; la musica raggae che proviene

dalle casse; Ahmed che ogni tanto beve birra anche se musulmano così come

Lorenzo che ogni tanto mangia la mozzarella o il miele anche se vegano; è

Ahmed che gioca a carte con i suoi amici a tavola parlando somalo ma le

parolacce sono italiane; è Pedro che festeggia il suo compleanno ogni volta che

si mangia tutti assieme. Tandem è Mahamadou, Giammarco e Zadran e la

difficoltà di trovarsi tutti insieme a mangiare e le paradossali discussioni perché

tutti vogliono lavare i piatti; Mahamadou che studia italiano in salotto e

Giammarco che dorme sul letto accanto; è Zadran con gli orari di lavoro

impossibili e i suoi discorsi accorati sulla situazione in Afghanistan con

Giamma; è Mahamadou e Giammarco che leggono il Corano con la traduzione

e che si svegliano alle cinque del mattino per andare a lavorare insieme

all’Ikea, loro tre che fanno spazio in casa per accogliere Arif. Tandem è quindi

una pratica costante di convivenza e conoscenza dell’altro e di se stessi. I tre

obiettivi fondamentali sono:

1. Favorire situazioni di integrazione e di scambio, volte a sviluppare legami

sociali solidali e interculturali;

2. Favorire situazioni di scambio e conoscenza del territorio anche

attraverso l’impegno in azioni di volontariato e di prossimità;

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3. Favorire l’autonomia sociale ed economica delle persone coinvolte nel

progetto.

«Tandem è un salto nel vuoto. Non c’è una ricetta né tantomeno un modello da

seguire. Ci sono solo dei pezzetti da mettere insieme, ci sono sogni che danno

energie. Sono proprio i sogni che ci aiutano a rifondare le nostre comunità, a

partire da quelle più piccole come sono le case Tandem»200.

3.3 La ricerca «La specificità del metodo etnografico e la sua centralità nello studio della

modernità, risiede nella capacità di restare vicini alle pratiche o di muoversi

rasoterra»201. Ecco perché a fine luglio 2016 ho deciso di trasferirmi a Parma

per intraprendere la mia ricerca sul Progetto Tandem. Convinta che per fare

antropologia sia necessaria un’esperienza di campo il cui metodo fondante è

l’osservazione partecipante, ho cercato una stanza in affitto sperando che, un

domani, sarei riuscita, riprendendo le parole di Malinowski, «a diventare

nativa», ossia a vivere all’interno di una delle due case Tandem. Così non è

stato, poiché, come spiegherò nei prossimi paragrafi, una presenza femminile

avrebbe non solo alterato gli equilibri delle due case messe a disposizione del

progetto ma messo a disagio alcuni dei partecipanti che sono sposati e hanno

dei figli nel loro paese di origine. I primi mesi di ricerca sono trascorsi a rilento,

sia a causa del lavoro che ho trovato per mantenere il mio soggiorno, sia

perché i partecipanti erano irrintracciabili: sempre in giro, sempre impegnati,

mai che rispondessero al telefono. Questo, insieme ad una mia difficoltà iniziale

ad ambientarmi in una città in cui non conoscevo nessuno, ha fatto sì che

mettessi spesso in dubbio l’utilità della mia presenza lì. Avrei potuto fare avanti

e indietro in treno, o intervistarli via Skype. Per fortuna ho resistito perché ho

capito qualcosa di molto importante. Le mie aspettative non solo non

corrispondevano a ciò di cui stavo facendo esperienza, ma mi stavano portando

200 Chiara Marchetti 201 Barbara Sorgoni (a cura di), 2011, Etnografia dell’accoglienza. Rifugiati e richiedenti asilo a Ravenna, p.27

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a darle un giudizio, proprio perché non combaciavano. Le continue assenze dei

ragazzi alle riunioni, la difficoltà nel contattarli, il fatto di non averli mai visti tutti

insieme, la poca partecipazione ed entusiasmo nell’accogliere le nuove

proposte, la mancanza di una frequente comunicazione tra le due case mi

avevano deluso. Immaginavo di trovare le porte spalancate e una totale

disponibilità, così come mi aspettavo di dover solo constatare la validità della

mia tesi. Nulla di più sbagliato. Ho effettivamente dovuto fare anche un lavoro

su me stessa, accettare che non sono «un’istanza paradigmatica, un ente

neutro o una tavola bianca, ma anche io sono un soggetto storico, inserito in

una forma di vita, ontologicamente fondato sulla mia cultura»202, sul mio sapere

e quindi anche sulle mie forme di pre-giudizi. E partendo da quest’accettazione,

ho imparato, nella pratica, che il lavoro etnografico è una continua negoziazione

di significati, un’interpretazione di interpretazioni, un processo dinamico in

continua evoluzione. Nulla è precostituito, nulla è indiscutibile, nulla è fisso,

nemmeno noi stessi e i nostri pre-concetti. Riprendendo il testo di Roberto

Malighetti, l’etnografia rappresenta un accordo temporaneo sul significato tra

l’antropologo e i suoi interlocutori in una relazione contingente e transitoria che

inevitabilmente produce una comprensione parziale ed essenzialmente

contestabile. Il lavoro etnografico diventa quindi inevitabilmente ironico,

riducendo, fino a deriderli, i grandi atteggiamenti e verità. Le conclusioni

teoriche a cui giunge si fondano inesorabilmente su un limite che configura, in

senso kantiano, lo spazio della possibilità di conoscenza mostrando come

l’esperienza dell’altro si realizzi solamente partendo da se stessi. La riflessività

diventa in questo modo, caratteristica intrinseca al discorso antropologico

radicando l’antropologo alla propria cultura ed esibendo il carattere negoziale e

processuale della costruzione della conoscenza203. Con il procedere del lavoro

di campo ho dunque modificato il mio modo di analizzare l’esperienza. All’inizio,

infatti, davo molta più importanza al “Progetto”, che avevo idealizzato e quasi

personificato, tanto che mi focalizzavo di più sulla maniera in cui i ragazzi si

rapportavano ad esso invece che sul modo in cui i partecipanti interagivano tra

202 Appunti della classe di Metodologia della Ricerca Antropologica, 2014-2015, tenuta dal Professor Roberto Malighetti 203 Appunti sui testi di Roberto Malighetti, Il Quilombo di Frechal e Il lavoro dell’antropologo

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di loro. Questo errore, paradossalmente, mi portava a smentire la mia stessa

tesi poiché, pur decostruendo l’obbligatorietà del dono, dare priorità al

“Progetto” significava porre in una posizione inferiore chiunque si rapportasse

ad esso. In quest’ottica quindi, non solo il “Progetto” alimentava relazioni

asimmetriche ma i ragazzi erano da “criticare” poiché, con i loro ritardi e la

mancanza d’entusiasmo ed impegno, non lo “rispettavano” abbastanza. Poi,

fortunatamente, ho capito che i ragazzi erano il progetto stesso e che esso non

sarebbe mai esistito senza di loro, senza la loro quotidianità, il loro tempo e le

loro relazioni. Focalizzarmi sulla formalità del progetto avrebbe ribadito, ancora

una volta, l’importanza istituzionale fronte a quella informale e dal basso, cosa

che io volevo evitare ad ogni costo. Il problema è stato risolto con una frase

provvidenziale di Diego Montemagno, presidente di Acmos, associazione

torinese impegnata in numerosi progetti di educazione alla cittadinanza attiva e

all’inclusione democratica, mentre commentava le attività di Tandem: «siete

una risposta senza aver fatto la domanda». Diego è riuscito a riassumere in

una semplice affermazione quello su cui riflettevo da tempo: una buona pratica

e un esempio positivo, senza un’effettiva e mirata condivisione esterna, sono

sufficienti? Confrontandomi con Isabella e con i ragazzi, le risposte che ho

ricevuto sono state più o meno sulla stessa lunghezza d’onda, ossia che

effettivamente c’è stata un po’ di fatica nell’esternalizzare il progetto per creare

conoscenza e che, in ogni caso, non era quello il suo obiettivo primario. Mi dice

Lorenzo: «quello che stiamo facendo è semplicemente dimostrare che questa

cosa si può fare, non stiamo facendo niente di attivo, inteso come niente più

che vivere insieme, che io non vedo una cosa attiva anche se, nella situazione

in cui siamo, lo è e stiamo dimostrando qualcosa. In maniera molto semplice è

l’idea del riuscire, attraverso il progetto, a far rendere conto alla gente che il

progetto non dovrebbe nemmeno esistere. Se lui fosse canadese questo non

sarebbe un progetto e tu non saresti qui a farci un’intervista, o forse si perché

sei antropologa, però Mahamadou viene dal Mali allora è un progetto. Quindi

l’idea è fare questo progetto nell’ottica del non doverlo fare più. Eliminare il

progetto è l’obiettivo stesso del progetto secondo me». Continua Pedro:

«politica non è votare un partito, essere di destra o di sinistra, politica significa

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agire. Ecco per me vivere qui, con loro, è un atto politico e quindi noi stiamo

facendo già dell’attivismo». «In ogni caso forse hai ragione anche tu, dovevamo

tenere un diario e coinvolgere di più almeno i nostri vicini, e in questo potevamo

impegnarci di più» ammette Giammarco «ma questo anno ce lo siamo preso

per stare tra di noi, conoscerci, parlare. Ed è andata bene così, io sono

soddisfatto». Uscita da questo impasse ho potuto finalmente concentrarmi su i

due aspetti fondamentali che erano emersi durante l’osservazione e che

andavano a decostruire la coercizione creata dall’atto di donare: l’agency e

l’informalità della convivenza. Inizialmente non ho voluto rivelare ai ragazzi

l’obiettivo della mia tesi, sia perché si stava ancora delineando nella mia mente,

sia perché non volevo influenzarli in alcun modo. Durante i primi mesi ho

seguito un approccio più strutturato, cercando di conoscerli attraverso delle

interviste, munita di registratore e diario di campo. Era un metodo poco efficace

però perché creava distanza e disagio, l’uso del registratore infatti rendeva le

interviste degli interrogatori. Con il tempo ho abbandonato questo metodo

privilegiando quello dell’osservazione partecipante, o meglio, della

partecipazione osservante poiché – come dicevano scherzando – li ho “seguiti

in tour” ossia in tutti gli incontri a cui hanno partecipato. Questo mi ha dato

modo di stabilire un rapporto di empatia che andasse oltre quello di

“ricercatrice-soggetto di studio”. Ancora una volta l’informalità ha dimostrato

essere la carta vincente poiché ha permesso il passaggio da “osservante” a

“partecipante” e da quello a “interlocutrice”, il ruolo in assoluto più interessante

e stimolante. Questo per me ha significato fare antropologia in casa: essere

coinvolta direttamente dai processi locali di produzione di conoscenza per poter

essere allo stesso tempo testimone e critica.

«Di fronte alle forze globali che costringono allo spostamento e al viaggio, lo stare a casa (o costruirla) può essere una scelta politica, una forma di resistenza. La patria comunque non è un sito d'immobilità. Queste poche indicazioni [...] dovrebbero bastare per mettere in discussione i presupposti antropologici del lavoro di campo come viaggio, come andare fuori alla ricerca della differenza. In una certa misura questi presupposti continuano ad essere applicati nella pratiche di lavoro 'rimpatriato' e di 'studio a ritroso'. Il campo rimane da qualche altra parte, anche se entro il contesto linguistico o nazionale cui lo studioso appartiene»204.

204 James Clifford, 2008, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino

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3.4 Casa Rondani

Casa Rondani si trova in un condominio piuttosto anonimo a ridosso del

fiume Parma. La vista è bellissima, soprattutto al tramonto. Si trova nel

quartiere Oltretorrente, la zona forse più bella e autentica della città, fatta di

antiche case colorate e piccoli negozi. La strada principale, Via D’Azeglio, è la

zona Universitaria, della Biblioteca, dell’Ospedale Vecchio. Qui convivono il

vecchio e il nuovo, sopravvivono luoghi di aggregazione sociale in cui le

persone hanno ancora storie da raccontare. Storie che sembrano trovare un

naturale proseguimento in quelle dei nuovi arrivati, poiché questo quartiere ha

da sempre ospitato gli abitanti più lontani e diversi. Tangibile è la loro presenza,

data dai numerosi ristoranti etnici, dai minimarket indiani, asiatici e africani,

dalle sartorie e sedi di associazioni. Oltretorrente ha inoltre una storia

importante di resistenza al fascismo, celebre sono i “Fatti di Parma”205. In casa

Rondani si vive lo spirito del Quartiere. Qui ci vivono Lorenzo e Tommaso, due

anarchisti rastafariani, Pedro, attivista per i diritti della comunità LGBT, e

Ahmed che lavora alla mensa della Caritas. Tutti e quattro hanno una dieta

diversa: Lorenzo è vegano, Tommaso vegetariano e astemio, Ahmed non

mangia carne e non beve alcolici mentre Pedro mangerebbe qualsiasi cosa

commestibile ma non cucina quasi mai, se non i noodles o del riso. «Siamo

energie diverse e con diversi modi di pensare. Sarebbe comodo e facile essere

tutti uguali, tutti allineati allo stesso modo ma non ci sarebbe dialogo che è di

vitale importanza ora»206.

205 Il 3 agosto del 1922 gli squadristi fascisti, comandati da Italo Balbo, assediarono la città per porre fine allo sciopero legalitario "contro le violenze fasciste" e "l'indifferenza dello Stato verso di esse" promosso da l'Alleanza del Lavoro guidato da Guido Picelli, unione di quelli che erano i sindacati di sinistra prima dell'avvento del regime. La vicenda passa alla storia proprio perché, mentre le altre città cedevano, Parma, e in particolare Oltretorrente, resistettero all’assedio tanto che la frase “Balbo t'è pasè l'Atlantic ma miga la Pèrma" ("Balbo, hai attraversato l'oceano ma non il Torrente Parma") è diventata molto famosa. 206 Tommaso

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3.4.1 Pedro Parlare con Pedro è come parlare con un gentlemen inglese, non solo per

il suo accento e la mescolanza tra italiano e inglese, ma proprio per la sua

pacatezza e moderazione. In tutti i discorsi che abbiamo fatto o a cui ho

assistito, non ha mai alzato la voce e anche se era in disaccordo con qualcuno,

di certo non lo faceva notare dall’atteggiamento o dai toni. Il suo aplomb e la

sua calma fanno di lui una persona con cui è davvero piacevole farsi due

chiacchere, su qualsiasi argomento: dalle donne italiane all’elezione di Trump.

La cucina invece non è il suo forte, per nulla, se la cava meglio a mangiare «in

questa casa c’è un vegano, un vegetariano, un musulmano che non mangia

carne e Pedro che si mangerebbe anche i sassi, senza cucinarli». Ha trentatré

anni, anche se è stato difficile decretare il compleanno, poiché lo festeggiava

ogni volta che si mangiava tutti insieme ed è nato in Nigeria, anche se «io non

sono Nigeriano, sono del Biafra, non accetterò mai il governo del mio paese,

ma rivendico la mia storia». Quando parla della guerra d’indipendenza usa

l’aggettivo mia, come se l’avesse veramente combattuta lui, infatti il Biafra è il

suo paese di appartenenza e di identificazione. Quando ti racconta dello

sfruttamento di risorse ai danni del Delta del Niger, dei politici corrotti, delle

ingiustizie quotidiane che ha vissuto e che ora vivono i suoi connazionali

emerge non solo tutto il suo senso critico, ma anche tutto quel legame

inscindibile che ha con la sua terra, nella quale però non ritornerebbe. «Quando

il popolo di un paese, come lo è il nostro, non ha i diritti di esprimersi e la libertà

di essere chi si vuole essere, quando i cittadini non hanno scelta sulla loro vita,

è questo che a me non piace ed è per questo che ho provato a dare un mio

contributo». Pedro ha frequentato l’università, si è laureato in Business

Administration e ha preso una specialistica in Risorse Umane, ed è proprio in

questo ambiente, tramite un’assemblea studentesca, che entra a far parte del

Civil Liberty Association of Nigeria, un gruppo di attivisti che faceva promozione

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dei diritti umani, in particolare contro le discriminazione per orientamento

sessuale e lotta per i diritti della comunità LGBT. Il gruppo era molto attivo,

organizzavano manifestazioni, proteste, incontri di sensibilizzazione e

lavoravano molto con i giovani, andando a parlare nelle scuole superiori. La

questione dell’omosessualità in Nigeria è rifiutata non solo a livello culturale, ma

soprattutto dal punto di vista legale e politico. L'articolo 21 della Costituzione

nigeriana, infatti, in combinato disposto con gli articolo 214 e 217 del codice

penale, dichiarano che ogni persone che abbia congiungimento carnale con

altra persona contro l'ordine naturale o permetta ad un uomo di avere

congiungimento carnale con un uomo o donna contro l'ordine naturale è

colpevole di un delitto grave ed e perseguibile di imprigionamento per 14 anni.

Non solo, vengono condannati a tre anni di carcere anche coloro che non

denunciano persone che sanno essere omosessuali. A causa di questa sua

militanza ha ricevuto numerose minacce di morte, insulti per strada, è stato

trattenuto innumerevoli volte dalla polizia, senza però essere mai arrestato. Ha

avuto problemi anche nel trovare lavoro, mi ha spiegato, infatti, che i datori di

lavoro avevano paura ad assumerlo per superstizione, si pensa infatti che

coloro che sostengono i diritti degli omosessuali, portassero sfortuna e

maledizioni alle imprese e alle persone che vi lavorano. Viste le tensioni e gli

scontri, sua mamma gli consiglia di allontanarsi, di lasciare il paese per un

periodo. Ad ottobre 2010 parte per Cipro con un visto per studenti, quella di

Cipro è una scelta che lui definisce burocratica poiché è stato l’unico paese, tra

tutte le ambasciate a cui aveva fatto richiesta, a concedergli i documenti. A

Cipro frequenta l’università ma non riesce a trovare lavoro, legalmente non

poteva nemmeno dal momento che aveva un visto per studenti. Quando sua

mamma si ammala di cancro al seno non riesce più a sostenerlo

economicamente e nel giugno del 2011 ritorna in Nigeria per starle accanto

durante un intervento. Rimane solo due mesi, ad agosto riparte per l’isola ma ci

rimane poco, a causa della salute di sua mamma a novembre ritorna a casa per

l’ultima volta. Disgraziatamente il 5 febbraio del 2012 sua madre muore, lo

stesso giorno suo fratello decide di andarsene, poiché non riusciva più a

sopportare la situazione nel loro paese. A maggio la sua associazione

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organizza un’altra manifestazione, una protesta contro l’articolo 21 della

costituzione. La notte stessa un gruppo di uomini, appartenenti al partito del

leader del paese, fanno irruzione in casa sua, lo aggrediscono, lo picchiano con

un bastone e, credendolo morto, lo gettano fuori dalla finestra del suo

appartamento. Ciò che è successo dopo non me l’ha raccontato, so solo che si

è rivolto a degli amici, ex compagni dell’università, i quali sono riusciti a pagargli

un biglietto aereo per ritornare a Cipro, «è una cosa che ha salvato la mia vita

perché se il visto fosse scaduto forse non sarei vivo oggi». La vita a Cipro è

sempre molto difficile, non solo per la mancanza di soldi ma per problemi di

razzismo e di discriminazione. Mi racconta, infatti, che gli lanciavano oggetti per

strada e lo deridevano insultandolo e chiamandolo scimmia. Fortunatamente

incontra e stringe amicizia con dei ragazzi del Rainbow Group, riesce ad aprirsi

e a confidarsi con loro raccontandogli la sua storia. Un ragazzo, in particolare,

decide di aiutarlo, dal momento che lavorava in aeroporto, riesce a procurargli

non solo una carta d’identità cipriota ma anche un biglietto aereo per l’Italia.

«Non ho mai pensato nella mia vita di vivere in Italia, ti dico la verità, ho preso

l’aereo senza sapere la destinazione, sapevo solo che non tornavo in Nigeria.

Sono arrivato in Italia il 19 luglio del 2012, senza documenti perché il mio amico

me li aveva ritirati prima del decollo». I primi tre mesi vissuti nel nostro paese,

come già descritto nel capitolo precedente, sono un periodo che lui definisce di

«disordine e confusione», fatto di abbandono, file alla mensa della Caritas,

spaesamento e vita in strada. La casualità e l’imprevedibilità che caratterizzano

il suo percorso gli fanno conoscere un uomo d’affari nigeriano appena arrivato

in stazione. Dopo aver ascoltato la sua storia decide di contattare sua sorella

che vive in provincia di Parma, a Mezzani, che decide di accoglierlo in casa sua

ma che, non volendo aver niente a che fare con la polizia, mette subito in chiaro

che non lo assisterà con i documenti per la richiesta d’asilo. «Non ho pensato a

niente, non mi sono proprio posto nessun problema, ero solo stanco di vivere lì

quindi ho detto “boh…andiamo!”. Vivere in casa sua non è stato facile, non si

fidava molto di me, quando usciva dovevo rimanere fuori casa finché non

tornava e io non conoscevo nessuno e non sapevo dove andare o cosa fare

visto che non avevo soldi». Un giorno, verso fine ottobre, la donna che lo

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ospitava riceve una visita da un’amica di Genova. La donna rimane colpita

dall’inglese perfetto di Pedro e decide di metterlo in contatto con il suo datore di

lavoro, un ristoratore che cerca personale che sappia attirare i turisti stranieri

nel suo locale. Si trasferisce quindi a Genova dove vi rimane fino a fine gennaio

del 2013. «Avevo sempre paura, paura dei poliziotti, paura che scoprissero che

ero senza documenti. Mi ero confidato con il mio datore di lavoro che mi aveva

detto che mi avrebbe aiutato lui con le carte se io avessi lavorato bene. Io ci ho

creduto». Pedro in realtà mi racconta che i documenti che riceve da quest’uomo

sono solo fogli stampati da internet e privi di qualsiasi tipo di validità legale.

Ovviamente lui non poteva saperlo, ancora non aveva imparato l’italiano ne

sapeva come funzionassero le leggi e l’iter burocratico qui in Italia. A gennaio i

clienti cominciano a diminuire, la stagione volge al termine, il datore di lavoro gli

dice di tornare a Parma e che lo avrebbe richiamato in primavera. Non solo non

l’ha mai aiutato dal punto di vista legale, non gli ha nemmeno mai pagato i mesi

di lavoro lì a Genova. Torna a Parma dove, grazie ad un incontro sempre

casuale con un uomo che lavora in un supermercato africano, scopre la scuola

d’italiano di Artlab, un centro sociale molto conosciuto e attivo nella città. Le sue

condizioni di salute iniziano però a peggiorare, dall’aggressione, infatti, non si

era ancora fatto visitare da nessuno, né si era recato in ospedale per paura che

lo denunciassero. «Un giorno febbraio mi sveglio e non riesco a mettermi in

piedi, stavo malissimo. La donna, per paura che morissi in casa sua, decide di

chiamare l’ambulanza. Vengo operato di ernia discale dovuta ai colpi di bastoni

ricevuti, rimango in ospedale tre settimane. Ho davvero avuto paura di morire o

di rimanere paralizzato. Come persona di colore, come rifugiato, come

Nigeriano la mia vita non è semplice, pensa se fossi stato anche disabile.

Quando vengo dimesso non sapevo dove fossi, mi avvicino ad una fermata

dell’autobus dove chiedo informazioni ad una donna nigeriana che mi ha

portato allo Spazio Salute Migrante che mi ha indirizzato al Ciac. È solo con il

Ciac che ho avviato la mia procedura per la richiesta d’asilo». Inizia per Pedro

un altro periodo difficile e faticoso, anche fisicamente. Lui al tempo viveva a

Mezzani, un comune a circa 30 km da Parma, e per le visite mediche in

ospedale o gli appuntamenti con il Ciac non prendeva l’autobus perché troppo

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costoso. «Se avevo un appuntamento alle 12.30, partivo alle 6 del mattino. È

stata un’esperienza più pesante per me qui che lì. In Nigeria c’era la paura e la

minaccia di morte è vero, ma quando sono arrivato in Europa, credevo che

avrei salvato la mia vita e che sarebbe migliorata. Per me qui è stato davvero

difficile». Il primo luglio del 2013, dopo un anno dal suo arrivo, finalmente viene

inserito nel progetto Sprar gestito da Ciac dove vi rimarrà per un anno e mezzo,

fino a dicembre del 2014. Solo il dieci marzo del 2014 gli viene riconosciuta

ufficialmente la protezione internazionale. Pedro è un rifugiato ma ci sono voluti

quasi due anni per avere un po’ di stabilità nella sua vita. Al momento Pedro

lavora al Ciac, assunto con contratto a tempo indeterminato, nell’area sanitaria,

assiste le persone accolte per quanto riguarda il loro percorso sanitario,

«spiego loro come funziona il servizio sanitario nazionale, dove ci sono gli

ospedali e i punti strategici, come si trattano le malattie e come si accede alle

visite. Sono contento e fortunato di essere in vita e il mio lavoro mi ha dato

l’opportunità di continuare con il mio attivismo. Ho iniziato con il segretariato

sociale, dove davo informazioni utili alle persone appena arrivate. Da lì ho

notato una cosa che mi ha colpito molto: le informazioni che avevo e che do

alle persone servono non solo alle persone appena arrivate, ma anche per le

persone che sono nate qui. È un vero attivismo nel senso che se qualcuno è

arrivato qui e non ha documento e non sa che può curarsi almeno per le cose

urgenti, se qualcuno non gli dice nulla non si sa. Se qualcuno mi avesse

avvisato appena arrivato forse non avrei fatto il percorso fino qui. Ci sono alcuni

impiegati asl che purtroppo non sono ancora aggiornati dei decreti e delle

agevolazioni per le persone che non hanno ancora documenti e hanno

necessità di accedere ai servizi sanitari. Ci sono alcune malattie infettive e se

qualcuno non si cura immediatamente è un peccato per lo stato. Quindi lo stato

ha messo a disposizione alcuni misure per controllare alcune situazioni. Non

c’entra essere cittadino italiano o no, ci sono alcune malattie che mettono in

pericolo tutti quindi facciamo qualcosa per il bene comune. È un attivismo reale

perché sono io che spiego a gente nata qui e per loro è strano. È un aiuto

bifacciale e bidirezionale: impiegati e persona che ha bisogno di avere accesso

ai servizi. La mia esperienza migratoria mi ha dato una mano in più, chi arriva è

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quasi distrutto devono ricominciare a ricreare ancora le loro prospettive di vita e

mica è cosi facile e la metto nel mio lavoro, mi aiuta a relazionarmi con loro,

avere un’empatia, capacità di vedere le cose, anche se non necessariamente

dal loro punto di vista, che però mi aiuta».

3.4.2 Ahmed Ahmed è sempre elegante, in ogni situazione possibile, anche con gli abiti

comodi da casa riesce ad esprimere un’eleganza innata. Dei quattro coinquilini

è politicamente la “pecora nera” poiché ha una grande ammirazione per Silvio

Berlusconi, una stima incomprensibile e un po’ contradditoria agli occhi di tutti

gli altri, me compresa. Questo suo apprezzamento nasce dal fatto che secondo

lui Berlusconi sia stato uno dei pochi politici in grado di far fiorire l’economia del

paese dato che, oltre ad essere stato un buon Presidente del Consiglio, è un

ottimo imprenditore. Di fatto si diverte molto anche a guardare tutti quei

programmi, che si potrebbero definire “spazzatura”, tipici delle reti dell’ex

cavaliere. Nato in Somalia a Mogadiscio, la capitale, 12 gennaio 1983, in una

famiglia molto numerosa, composta da sei fratelli e una sola sorella che vivono

ancora lì. Purtroppo non è mai riuscito a studiare a causa della guerra civile

scoppiata nel 1991, quando aveva solo otto anni. Compiuti sedici anni inizia a

lavorare con il padre nel ristorante di famiglia, chiamato fortuna, un paradosso

se si pensa a tutti i problemi che ha causato questa attività a lui e alla sua

famiglia. La clientela del suo ristorante, infatti, non solo era conosciuta a livello

politico e sociale, ma anche internazionale: erano ambasciatori, polizia, capi del

commissariato e delle forze armate etc. Pur essendo un ristorante tradizionale,

che serviva pietanze tipiche somale, accoglieva ogni tipo di clientela offrendo

loro servizi che li distinguevano dagli altri tipi di locali. Per esempio avevano

adibito una stanza del ristorante a sala cinema dove trasmettevano numerose

trasmissioni estere ma soprattutto le partite di calcio. «Pagavamo novanta

dollari al mese per avere il decoder che ci permetteva di vedere i campionati di

calcio. Questo attirava la clientela che veniva a consumare e a pagare per

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vedere la televisione, il calcio e il cinema occidentale e non. Ma a loro non

andava bene». Il loro a cui Ahmed si riferisce, sono i gruppi islamici integralisti

facenti parte dell’Unione delle Corti Islamiche, guidata da Sheikh Sharif Sheikh

Ahmed, nata nel 2006 in contrapposizione al governo federale di transizione

somalo. In quell’anno l'Unione prese il comando di Mogadiscio cercando di

imporre non solo un controllo politico, ma anche religioso introducendo la

Sharia. Un membro delle corti islamiche è proprio un cugino di Ahmed,

«conduceva una doppia vita, di giorno studiava mentre la notte partecipava alle

milizie di ordine. Anche io sono islamico ma non un estremista, non credo alla

guerra santa e quindi non c’era nulla di male per me ad avere clienti occidentali

e ad avere un decoder». Inizialmente il cugino cerca di coinvolgerlo per

stringere un’alleanza tra la corte e il personale del ristorante, il piano era quello

di permettere una strage di tutti coloro che erano considerati infedeli. «Io però

gli avevo risposto che il nostro era un ristorante di pace, aperto a tutti e che tutti

erano liberi di venire a mangiare, anche loro. Noi non c’entriamo niente con la

politica, non vogliamo schierarci da una parte piuttosto che dall’altra. Vogliamo

continuare a lavorare tranquillamente. Cibo somalo, cultura somala, siamo tutti

somali. Ma loro sono conservatori. Fanno parte dello schifo della politica». Non

ottenendo l’aiuto sperato e considerando la mentalità di Ahmed troppo

occidentale, il cugino, insieme ad altri membri della corte, decide di vendicarsi.

«Era l’una meno un quarto di notte, ero appena uscito dal ristorante e mi stavo

avviando verso casa quando mi si avvicinano certe persone da dietro. Mi hanno

sparato tre colpi alla gamba ma non ce l’hanno fatta ad uccidermi, il mio tempo

non era ancora finito. Per fortuna mio fratello, che era ancora all’interno del

ristorante, sentendo gli spari, prende un’arma e spara in alto per spaventarli.

Sono rimasto in ospedale tutto il 2007, i medici volevano amputarmi la gamba

perché non avevano abbastanza esperienza ne strutture adeguate per

rimettere a posto l’osso. Per fortuna ho preso la decisione di tenermi la gamba

e me ne sono andato». Ahmed lascia la moglie e suo figlio di appena un anno

e, in stampelle, scappa dalla Somalia per andare in Etiopia dove, non riuscendo

a trovare lavoro ne cure adeguate, rimane solo un mese e mezzo. È ormai

gennaio del 2008 quando arriva in Sudan, un paese nel quale non riesce ad

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ambientarsi, troppo diverso dal punto di vista linguistico, culturale e climatico.

«Scopro che a Khartum ci sono numerosi giovani somali che scappavano dalla

città per poi attraversare il mare. È in quel momento che mi è nata l’idea di

andare in Italia. Prima non ci pensavo nemmeno, volevo solo curare la mia

gamba e rimanere in Africa, però ho creduto a chi mi diceva che sarei stato

meglio e più felice. Mi sono detto, porca miseria, qui non c’è possibilità di curare

la tua vita e la tua gamba, che è a rischio di infezione, ho chiamato mio padre

che mi ha mandato 500 dollari e così ho pagato il mio passaggio verso la Libia.

Eravamo quaranta persone e la macchina era davvero piccola, abbiamo

attraversato il deserto e ci siamo rimasti 27 giorni perché l’auto si era rotta.

Eravamo disperati, l’acqua era finita, il cibo era finito, due persone sono morte.

Per fortuna è arrivata un’altra macchina che ci ha portato in Libia, era marzo del

2008». Anche se ancora il Trattato Bengasi non era stato formalmente siglato, i

rapporti di nuova amicizia e cooperazione tra Gheddafi e il governo di

Berlusconi erano già avviati. Questa politica di riavvicinamento dei due paesi

era basata non solo su interessi economici ma soprattutto su quelli politici di

lotta all’immigrazione clandestina. In cambio del “grande gesto”, ossia della

messa in opera di grandi infrastrutture, infatti, la Libia si sarebbe impegnata a

frenare quello che è stato descritto come un vero e proprio flusso di migranti

pronti ad invadere le coste italiane. «A quel punto volevo partire per l’Italia ma

la situazione in Libia era cambiata, Gheddafi era contrario e ha chiuso ogni tipo

di rotta. Sono stato in carcere, per due mesi, da maggio a giugno, e ho dovuto

pagare 300 dollari per uscire». Dopo sei mesi lontano da case e più di un

giorno di navigazione su una barca costato 900 dollari, Ahmed arriva a

Lampedusa. «Quando siamo arrivati sull’isola io ero convinto che fossimo

ancora in Libia, era uguale! Solo quando ho letto il menù di un ristorante,

perché qualche parola italiana già la sapevo, mi sono reso conto di essere

veramente arrivato! Siamo rimasti per strada, nessuno ci ha aiutato, non c’era

nessuno ad accoglierci, non è come adesso. Siamo stati nel centro di Trapani

dove ci hanno preso le impronte delle dita. Ho ricevuto i documenti dopo

neanche un mese e mezzo però non è cambiato nulla, non sapevo dove

andare, non sapevo nemmeno come chiedere in italiano dove poter comprare i

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biglietti. Questo sistema europeo è proprio uno schifo, il diritto d’asilo non è

rispettato, non puoi lasciare per strada le persone, devi aiutarle. Quando ho

avuto i documenti sono rimasto per strada e fa freddo in strada. Mi hanno

riconosciuto la protezione sussidiaria, perché c’era la guerra. Spiegami però

cosa significa? Dimmi tu cosa cambia con lo status di rifugiato! E poi protezione

di cosa? Quei documenti non mi hanno protetto da nulla!». Ahmed è molto

critico rispetto alla (non)accoglienza ricevuta appena sbarcato e, pur giudicando

inutili i documenti ricevuti, noto che durante tutto il suo racconto si appella ad

essi quando vuole enfatizzare la verità di ciò che gli è successo. Come se, per

conferire senso e peso alla sua esperienza, dovesse ricorrere a delle fonti

ufficiali che hanno più legittimità della sua stessa storia autobiografica. All’inizio

ho pensato che fosse in qualche modo “colpa” mia, incapace di instaurare con

lui una «simmetria narrativa», poi mi sono resa conto che nelle varie situazioni

di confronto, dalle cene a momenti passati insieme anche con gli altri ragazzi,

Ahmed, per ribadire la sua posizione, fa quasi sempre riferimento a documenti

scritti, siano quelli della protezione internazionale o quelli del medico che lo ha

operato. Vorrei riprendere il termine coniato da Silverstein, “monoglot ideology”

per sottolineare come delle costruzioni culturali vengano imposte come le

uniche possibili e adatte perché naturali, normali e di senso comune.

«A monoglot ideology makes time and space static, suggests a transcendent phenomenology for things that define the nation-state, and presents them as natural, neutral, acontextual, and nondynamic: as facts of nature. A monoglot ideology imposes a particular regime on languages: the regime of clarity, transparency, and officialdom outlined above»207.

In questa prospettiva, ciò che mi ha creato sgomento o stupore iniziale, è stata

la misura in cui la burocrazia, fatta di categorie torbide, firme richieste, fogli e

documenti, presenti una pervasività inattesa. Ben presto, infatti, i/le richiedenti

asilo e rifugiati riconoscono la densità dei dispositivi burocratici nella loro

capacità di avere ripercussioni ed implicazioni immediate per la propria

esistenza, proprio come è accaduto ad Ahmed. La necessità di capire e

207 Jan Blommaert, (2009), Language, Asylum, and the National Order, in Current Anthropology volume 50, Number 4, p 421. Trad: “Una ideologia monoglotta rende il tempo e lo spazio statico, suggerisce una fenomenologia trascendentale per le cose che definiscono lo stato-nazione, e le presenta come naturali, neutre, a-contestuali, e non dinamiche: come fatti della natura. Un’ideologia monoglotta impone un particolare regime sulle lingue: il regime di chiarezza, trasparenza e ufficialità sopra delineato.”

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manipolare questo meccanismo diventa così simultaneamente impellente e

ineluttabile che, gli atti burocratici o il continuo richiamo ad essi, si possono

quasi considerare come rituali. I primi tempi passati in Italia sono caratterizzati

da proseguirsi di violenze strutturali causate da un totale abbandono da parte

dello Stato. Nonostante il dolore alla gamba, Ahmed si sposta in tutta Italia in

cerca di un luogo in cui stare. «Sono stato a Trapani, Napoli, Roma, Firenze,

Torino, sempre in autobus o in treno ma senza mai pagare il biglietto, non

avevo più soldi. Se qualcuno mi scopriva, scendevo e cambiavo mezzo».

Sconfortato dalla situazione e deluso dalla mancanza di una vera e propria

accoglienza, nel 2009 decide di emigrare in Olanda dove spera di ricevere

assistenza medica per la sua gamba. «Sono stato dai medici ma non avevo

documenti per rimanere li, ero un “caso dublino”. Il 19 gennaio del 2010 due

poliziotti olandesi mi hanno scortato su un aereo che mi avrebbe riportato in

Italia, a Malpensa. Quella è stata l’unica volta in cui ho preso l’aereo in vita

mia». A Milano viene ospitato nel centro di accoglienza di Via Gorlini, zona

Bonola, dove rimarrà per circa otto mesi. «lì grazie ad altri somali sono riuscito

a mettermi in contatto con un ortopedico somalo che lavorava da quarant’anni a

Pavia. L’ho chiamato e gli ho spiegato la mia situazione, lui mi ha detto di non

preoccuparmi e che mi avrebbe dato il numero di un altro medico bergamasco.

È stato lui ad operarmi, al Gaetano Pini, l’intervento è durato dodici ore. Avevo

la gamba destra più corta di dodici centimetri, il ginocchio e il femore storti e

sono pensa che ci sono stato quattro anni in quelle condizioni». Dopo

l’intervento è rimasto sei mesi in una casa di riabilitazione in piazzale Lotto e

altri sei ospite in un dormitorio di una Chiesa. È proprio in quel periodo che

matura l’idea di andarsene da Milano, tramite una pubblicità di youtube scopre

Kaleidos, una cooperativa che si occupa di accoglienza nel territorio di Parma.

Decide quindi di trasferirsi e di chiedere ospitalità in quella struttura. Kaleidos

riesce ad inserirlo nel progetto Sprar dove rimarrà da dicembre 2013 a febbraio

2015. Nel frattempo la cooperativa fallisce e tutti i progetti che aveva in corso

vengono assorbiti da Ciac tramite il quale riesce a trovare lavoro alla mensa

della Caritas, la stessa dove andava a mangiare appena arrivato a Parma, e ad

entrare a far parte di Tandem. Il racconto di Ahmed è frammentato, pieno di

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deviazioni come quelle che ha preso nella vita. La sua storia dimostra una

grande tenacia nel far fronte ad una situazione di vulnerabilità temporanea. La

casualità delle sue esperienze, gli incontri, le reti sociali che ha saputo creare in

un contesto a lui sconosciuto sono la dimostrazione pratica del marco teorico

del transnazionalismo delineato in particolare da Nina Glick Schiller. Secondo

l’antropologa, quello a cui stiamo assistendo è una nuova forma di connessione

culturale, economica e sociale che supera i confini nazionali per svilupparsi

all’interno di reti che collegano paesi e persone in tutto il mondo. Il campo di

Agamben o di Foucault non è così rigido e chiuso in se stesso ma ha un

potenziale globale. E analizzare come «transmigrants use their social

relationships and their varying and multiple identities generated from their

simultaneous positioning in several social locations both to accomodate to and

resist the difficult circumstances and the dominant ideologies they encounter in

their transnational fields» 208 è di fondamentale importanza non solo per

riconoscere la loro soggettività e agency ma anche per promuovere

un’accoglienza che promuova e rispetti queste reti.

3.4.3 Tommaso Tommaso ha ventiquattro anni, studia matematica e ha questa particolare

abilità di riuscire a tradurre il mondo delle parole in formule complicate, e

viceversa. È infatti dotato anche di una grande capacità comunicativa il che

rende davvero facile e piacevole parlare con lui di qualsiasi cosa. Tra tutti è

forse quello che si è reso più disponibile nell’aiutarmi con la ricerca e nel tempo

ho notato che gli piaceva raccontarmi di se stesso e dei suoi pensieri. Tra me e

lui si è creata una bella confidenza che spero continui nel tempo. È una

persona estremamente attenta e cortese, riflessiva ma non introversa. Scrive

poesie impegnate, gioca in una squadra di freesbe e cucina benissimo,

208 Nina Glick Schiller, Linda Basch, Cristina Blanc-Szanton, 1992, Transnationalism: A New Analytical Framework fot Understanding Migration, Annals New York Accademy of sciences, p. 4. Trad: “trasmigranti usano le loro relazioni sociali e le loro diverse identità multiple, generate dal loro posizionamento simultaneo in diverse posizioni sociali, sia per adattarsi che per resistere alle difficili circostanze e alle ideologie dominanti che incontrano nei loro campi transnazionali.”

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soprattutto piatti a base di zucca. Con Lorenzo e Giammarco faceva parte di

ArtLab, il centro sociale di Parma che gli ha fatto conoscere Tandem e dal

quale però, dopo l’estate, si è lentamente distaccato per mancanza di un vero

dialogo che dovrebbe caratterizzare un gruppo di giovani che provano a

proporre un’idea diversa di società. «La politica che mi piace è una politica

quotidiana. Politica significa vivere ogni istante di ogni giorno il cambiamento

che si vuole in qualche modo. Per me decidere di partecipare al Progetto è

stato abbastanza immediato perché vivevo in casa con mia madre e stavo

pensando ad un modo per uscirne e questo modo che mi è stato proposto era

economico e ideologicamente positivo, quindi perché no. La potenza di questo

progetto è proprio la rottura che crei e di cui ti ne accorgi dallo stupore delle

persone che ti fanno i complimenti per star vivendo questo progetto. E là tu dici:

mah..io sto vivendo in una casa, in una condizione privilegiata perché pago un

affitto irrisorio, pago solo le bollette, vivo con delle persone simpatiche, non

abbiamo problemi in casa, voglio dire, sono contento che tu mi stia facendo i

complimenti ma me li stai facendo perché c’è un pregiudizio nel nostro modo di

pensare, sul fatto che sia molto più difficile e laborioso vivere in una condizione

del genere piuttosto che vivere con una persona che viene dal cosiddetto primo

mondo». Anarchico, femminista, vegetariano ed astemio, Tommi è anche

rastafariano. Abbiamo parlato un pomeriggio intero su quello che non sapevo

se definire un movimento politico di resistenza contro Babilonia, una religione

che auspica il ritorno nella terra santa o, come sta sempre più diventando, un

prodotto da vendere perché di moda. «I miei dread non sono una moda, così

come non lo è il mio essere vegetariano o fumare. Essere rastafariano è

semplice, significa credere nella giustizia, nella solidarietà, nell’amore e nel

rispetto verso il prossimo. Tutto qui». Ha fatto parte di numerosi collettivi e

crede nel coinvolgimento e nell’educazione dei giovani ad un attivismo politico,

alla discussione e al confronto: «viviamo in un mondo che tende ad emarginare

e a creare ghetti. Parlare con i ragazzi è fondamentale per fornirgli la possibilità

di pensare fuori dai dogmi, per collettivizzare le esperienze e così per rifondare

e stravolgere il sistema».

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3.4.4 Lorenzo Lorenzo è una saetta, pensa e fa diecimila cose al momento ed è una di

quelle persone che ti trasmettono energia e positività non appena gli stringi la

mano. È un vulcano di parole, parla di tutto e con tutti, dalle cose meno

impegnative come gli ufo a grandi discorsi sull’anarchia e sull’amore. Forse

ama un po’ stare al centro dell’attenzione, ma lo fa in maniera inconsapevole e

ho notato che molto spesso, dopo un suo intervento, chiede un parere a

Tommaso. Si sostengono molto a vicenda e praticamente si conoscono da una

vita, da quando erano all’asilo, anche se è solo da qualche anno che hanno

riallacciato i rapporti. Il suo legame con ArtLab era un po’ più forte rispetto a

quello di Tommaso, questo perché ci viveva anche dentro come esperienza

comunitaria, ecco perché per lui il passaggio a Tandem è stato semplice.

«Passare da vivere in un centro sociale a un appartamento normale, per il

pensiero comune è un miglioramento, per la gente è peggio vivere in un centro

sociale che cosi. Sto facendo qualcosa in accordo con quello che penso da un

po’ e io ragiono al contrario: se non trovo nessun contro nelle cose le faccio. E

qui non ne ho trovate perché di base non ce ne erano. È il progetto della vita! È

un’opportunità per smontare alcuni concetti sociali molto pericolosi e aprire la

strada ad un’idea di società diversa basata su un’integrazione di tipo differente

e con l’idea generale di base che i confini sono una pagliacciata che non

dovrebbe esistere». È un libro aperto, di una sincerità unica, quello che pensa

dice, anche all’improvviso e in maniera un po’ confusionaria, e cerca sempre il

dialogo con qualcuno per poi affermare che quella persona «mi ha svoltato la

giornata!». Chiama tutti fratello e sorella e ha amici praticamente ovunque nel

mondo, tanto che, ad inizio novembre è partito per la California dove, proprio

grazie ad un’amica, riesce a trovare lavoro in una piantagione di Marijuana, la

cui coltivazione lì è legale. Idealista, sognatore, attivista Lorenzo «è un ragazzo

che vuole cambiare il mondo» mi dice Pedro, e per farlo ha trovato un modo

abbastanza contradditorio: il trading. «Sono sempre stato portato per il calcolo

e il gioco delle probabilità. Sfrutto un sistema che non sopporto ma a mio

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vantaggio e se mai dovesse andarmi bene lo farei per avere una base

monetaria per fare del bene e chissà, magari aprire una mia etichetta

indipendente».

3.5 Casa Saffi Casa Saffi si trova in una traversa di Via Repubblica, una delle vie centrali

e più conosciute di Parma che taglia in lungo il centro storico. La palazzina si

trova in una corte e anche in questo caso la vista è molto bella poiché da

direttamente sulla Chiesa S. Benedetto. Si trova nel quartiere della Parma

Centro, quella dei negozi, delle boutique, dei piccoli borghi e dei monumenti

storici più importanti. In casa Saffi vivono Mahamadou, dal Mali, Giammarco e

Zadran, dall’Afghanistan, a differenza del fermento di Casa Rondani, qui si

respira un’atmosfera più tranquilla e accogliente. Nonostante la frenesia delle

loro vite, forse Casa Saffi è più vissuta come luogo di appartenenza.

3.5.1 Mahamadou Mahamadou è una persona estremamente silenziosa e riservata ma con

uno dei sorrisi più aperti e calorosi che si possa avere. L’ho soprannominato il

gigante buono poiché, nonostante la sua altezza, è un ragazzo dolce, delicato,

sempre pronto ad offrire caramelle che si nasconde nelle tasche. È nato a

Kassaya, un villaggio del Mali sudoccidentale, in una famiglia composta

praticamente da tutte donne, ha infatti tre sorelle più grandi. A diciassette anni

inizia a lavorare come contadino nel campo agricolo della famiglia, coltivava

mais e arachidi. Non è mai andato a scuola, non ha mai imparato a scrivere e a

leggere il Bambara, la sua lingua materna, mentre ha imparato da piccolo a

riconoscere le scritture del Corano e a leggerlo. La fede è una parte

fondamentale della sua vita ma ci tiene a spiegarmi che la sua è una religione

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di pace e come tale contraria ad ogni tipo di estremismo e violenza. «Il Corano

dice di comportarsi bene, di non fare del male a nessuno, di vivere bene la

propria vita. Se fai casino non sei un vero musulmano perché non fai il bene

verso gli altri». Nel 2008, all’età di venti anni, sposa Sokona, una donna di cui è

profondamente innamorato e verso la quale nutre un grande rispetto, tanto che

solo l’idea di dormire in una stanza con un’altra ragazza lo mette a disagio e lo

imbarazza: «una ragazza nel progetto solo se ha una camera sua, nella mia no,

non è giusto, sono sposato!». Giammarco mi racconta che quando riescono a

sentirsi al telefono Mahamadou poi non riesce a smettere di sorridere, «dovresti

vederlo quando le parla al cellulare, si illumina tutto, nonostante la distanza, è

incredibile da guardare, la ama tantissimo». Nel 2011, qualche mese prima

dello scoppio della guerra civile, nasce Arima, che ora a cinque anni e che è

cresciuto senza di lui: «lo voglio rivedere, mi manca tanto, mi manca la mia

famiglia». L’inizio della guerra coincide con il colpo di stato da parte dei soldati

dell’esercito dei ribelli, una fazione di militari scontenti per l’andamento del

conflitto con i Tuareg nel nord del paese, Azawad. In realtà poi la guerra civile

si sviluppò su vari fronti: da una parte il governo, dall’altra l’esercito dei ribelli, i

Tuareg riuniti all’interno del Movimento Nazionale di Liberazione dell'Azawad

che aveva dichiarato indipendente Azawad e tre gruppi islamisti tra cui il Movimento per l'Unicità e il Jihad nell'Africa Occidentale e al-Qaeda nel

Maghreb Islamico. In guerra quindi vi erano più gruppi ognuno schierato contro

l’altro. «Era difficile vivere in una situazione così, molto difficile. Avevo paura

perché erano estremisti e violenti. Io sono musulmano perciò cerco di

comportarmi bene, loro no, uccidevano e facevano la guerra. Hanno fatto del

male a tante persone. Questo non è islam. I terroristi e chi fa del male non sono

veri musulmani». Mahamadou decide quindi di scappare in Libia. Ha viaggiato

a bordo di un furgone per il Sahel insieme a tante altre persone che sfuggivano

dagli orrori di una guerra. È stato un viaggio lungo, terrificante, ha patito il caldo

del giorno e il freddo pungente della notte. Sono rimasti per giorni senza acqua,

senza sapere dove fossero e quando sarebbero finalmente arrivati in salvo.

Ogni tanto il furgone si fermava, nel mezzo del nulla e l’autista minacciava di

abbandonarli lì se non avessero pagato. Ciò che si è ritrovato davanti una volta

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arrivato in Libia non era ciò che si aspettava. Era un altro paese stravolto dalle

tensioni del conflitto civile, «c’era troppo casino, non si poteva vivere bene e in

pace. Non potevo vivere la città, avevo paura anche lì. Non ero libero nemmeno

di fare una passeggiata». È rimasto in Libia per un anno e mezzo, mi racconta

che viveva in un appartamento con altre quattro persone dal quale usciva solo

per andare a cercare lavori saltuari come manovale o imbianchino. Era lontano

dalla famiglia e in un posto che non gli piaceva, decide quindi di partire per

l’Italia. «Sono partito alle dieci di sera, la barca era piccola, c’erano tante

persone e tutto era buio. Ho avuto tanta paura. Dopo dodici ore una nave

italiana ci ha raggiunto e ci hanno portato a Siracusa. Li ho dormito in un letto,

mi sono sentito tranquillo». Mahamadou rimane nel centro di Siracusa per circa

due settimane, in quel periodo procede con la richiesta d’asilo, gli verrà

riconosciuta la protezione umanitaria. Prende anche lui la prima volta l’aereo

quando viene trasferito da Siracusa a Bologna dove raggiungerà Parma, o

meglio un ostello situato a Pellegrino Parmense, un piccolo comune situato

nella parte nord della Valle del Ceno. «Era molto bello lì, mi piace tanto la

montagna, è tranquilla, si sta bene, ero finalmente calmo». Grazie a Francesco,

un operatore di Ciac, si trasferisce in città, ospite all’Aurora Domus,

un’associazione che si occupa più che altro di servizi agli anziani, e da lì inizia

la scuola di italiano e i suoi rapporti con l’associazione. Mahamadou è l’unico

dei partecipanti di Tandem a non aver fatto il percorso Sprar, nonostante la sua

iniziale difficoltà con la lingua e il suo arrivo recentissimo in Italia, ha convinto

Isabella ad inserirlo per il suo essere una persona estremamente buona. «Mi

piace vivere qui perché c’è gente, quando tu sei da solo, la vita in casa è

pesante, non fai niente, mangi da solo, guardi la televisione. Qui è diverso,

parliamo, facciamo qualcosa, quello è giusto, mi piace. Due persone è meglio,

una sola non vale, non basta. Due, tre, quattro, cento, mille si può fare

qualcosa, da solo non si può fare niente».

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3.5.2 Giammarco Giammarco ha ventiquattro anni e studia filosofia. È una persona

estremamente cordiale e aperta, conosce un sacco di persone ed è impegnato

in mille situazioni diverse. Una delle sue più grandi passioni è il calcio, fa parte

della squadra antirazzista chiamata La Paz, una squadra multiculturale di calcio

a 11, nata per promuovere l’incontro e la relazione tra culture e persone

diverse, e in più allena una squadra juniores di ragazzini di diciassette anni

provenienti da molte realtà diverse: rifugiati, seconde generazioni, migranti etc.

«Fin da piccolo ho ricevuto un’educazione antirazzista che non vuol dire che i

miei mi abbiano educato direttamente all’antirazzismo, mi hanno

semplicemente insegnato il rispetto verso tutti. Da quando poi ho iniziato a

giocare per La Paz e ad allenare una squadra juniores, ecco che, pian piano,

con il tempo, mi sono ritrovato a scoprirmi molto più capace e più volenteroso

di avere contatti con persone che non sono italiane, non di Parma, perché

secondo me mi possono dare molto di più. Quando mi hanno proposto questo

progetto qua mi sono detto: “ cazzo che figo, si! Questa è una delle svolte che

cerco nella mia vita!”. Conta che vivevo in una situazione di occupazione e che

avevo avvisato i miei di questo il giorno prima. Non è che mi faccia trascinare

però sono cambiamenti netti della tua vita, ovviamente questa è una situazione

diversa perché non mi trovo in una situazione di illegalità, è tutto molto più

tranquillo insomma. Non mi sono fatto troppi problemi o troppi ragionamenti.

Rispetto a quando vivevo ad ArtLab sono cambiato molto, sono più tranquillo,

pacifico, prendo le cose in maniera diversa». Come Lorenzo e Tommaso,

anche lui si è allontanato dalla realtà di Artlab perché non più affine ai suoi

ideali e ad una mancanza di reale confronto alla pari. Anche se, proprio con

questo collettivo, ha vissuto un’esperienza molto importante e forte, quella ad

Idomeni, una cittadina al confine tra Grecia e Serbia tristemente famosa per

essere diventato un enorme campo profughi autorganizzato e non-governativo.

Sotto Over The Fortress sono partiti con un pullmino e sono rimasti nel campo

una settimana, costruendo docce e montando tende. «Il primo impatto non lo

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puoi spiegare a parole, è una sorta di sbalordimento in senso del tutto negativo.

Appena poi ti muovi un po’ per il campo ti accorgi dell’accoglienza della gente.

È paradossale come siano gli stessi migranti che per primi ti danno conforto,

come se comprendessero il tuo disorientamento. C’è sempre molta

collaborazione. Appena le persone che abitano il campo ti vedono fare

qualcosa, come dei lavori manuali, ti aiutano. Questo fa sì che i rapporti umani

si creino immediatamente e si cementino nel giro di poche ore. Tutti ti salutano,

ti offrono qualcosa da mangiare e hanno voglia di raccontarti delle storie.

Creare dei legami è fondamentale perché puoi capire meglio i bisogni veri e

propri della gente e dargli le giuste informazioni. I legami poi superano ogni

barriera, anche quella dei confini che sono una vera e propria vergogna».

Proprio per questa sua empatia e facilità nel creare rapporti alla pari con tutti,

Giammarco sta collaborando al momento con Ciac per lo sviluppo di un nuovo

progetto che lo vedrà protagonista nell’accompagnamento di richiedenti asilo e

rifugiati nel loro percorso, non per forza istituzionale.

3.5.3 Zadran Zadran è nato in Afghanistan e si trova in Italia da sette anni. Ha un

contratto a chiamata con una cooperativa che lo chiama a tutte le ore del

giorno, ecco perché è davvero difficile incontrarlo o fissare con lui un

appuntamento: non ha né giorni né orari fissi. Non solo, è una persona

estremamente riservata sul suo privato e sulla sua storia, ecco perché, in

questo paragrafo dedicato a lui ho davvero poco da scrivere. Ho cercato di

incontrarlo per mesi, scrivendogli e chiamandolo, non si è mai negato

direttamente ma il lavoro non gli lasciava tempo. In realtà credo che sia una

persona troppo educata per rifiutare esplicitamente un incontro e con il senno di

poi avrei dovuto insistere meno. Avevo ansia di dover riempire una pagina di

tesi, poi ho capito che non era quello che avrebbe dovuto motivarmi a

conoscere una persona. Questo mi ha fatto anche riflettere su quanto sia

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delicato e potenzialmente violento il lavoro etnografico: Pedro, Ahmed e

Mahamadou mi hanno raccontato le loro storie, è vero, ma mi rendo conto che

sono racconti parziali, quasi standard, ed è giusto così. Non ho voluto né voglio

imporre la mia presenza, né tantomeno anteporre le esigenze della mia ricerca

ad una loro volontà, o meno, di aprirsi nei miei confronti. Rispetto quindi

totalmente la decisione di Zadran ma voglio comunque raccontare un episodio

su di lui. Era il 25 novembre, ed ero ancora in centro città perché era da poco

finita la manifestazione contro la violenza sulle donne, era comunque già buio e

stavo percorrendo una Via Repubblica stranamente vuota parlando al cellulare.

Non mi sono accorta che c’era una persona ferma sul marciapiede fin quando

non mi sono sentita strattonare per il braccio. Sarebbe stato un vero paradosso

che mi fosse successo qualcosa proprio nella giornata internazionale contro la

violenza sulle donne ma al forte spavento si è subito sostituito il sollievo quando

ho riconosciuto Zadran che trafficava con la mia mano per darmi una manciata

di pinoli da mangiare. Non lo conosco bene, spero di conoscerlo meglio in

futuro, però questo episodio mi ha fatto capire che è sì una persona silenziosa,

riservata ma estremamente gentile, anche se lo esprime in maniera un po’

burbera.

3.6 E le donne? Tranne Isabella e Chiara, le due responsabili Ciac del Progetto, non ci

sono donne che vi partecipano. È un aspetto che da subito mi ha creato

stupore, sia perché avrei voluto farne parte, sia perché non capivo come, nel

promuovere «situazioni di scambio, conoscenza e integrazione», si

escludessero le donne, studentesse o rifugiate che siano. Di questo ne ho

parlato subito con Isabella, anche per capire se avessi realmente potuto

svolgere un periodo di osservazione partecipante nelle due case. «Anche se

alcuni di loro erano entusiasti all’idea di avere una ragazza nel progetto, una

presenza femminile avrebbe messo a disagio gli altri. Credo che aggiunga un

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fattore di complessità al progetto che al momento non è pronto a fare questo

salto. Considera che alcuni di loro sono sposati e hanno figli».

Giammarco infatti ribadisce: «quando ho accettato il mio primo pensiero è stato “però dai non facciamo una roba solo

maschile, cerchiamo di abbattere tutti i pregiudizi possibili” ma alla fine mi sono trovato a

condividere l’idea dell’aspettare un pochino. Secondo me adesso potrebbe essere un ottimo

momento per inserire una ragazza. Farlo dall’inizio, soprattutto perché io non conoscevo la

mentalità, il punto di vista dei miei coinquilini, sarebbe stato sciocco. Bisogna tenere in conto

tante cose: della privacy, della loro situazione famigliare e matrimoniale. Zadran è un ragazzo

intelligentissimo, sveglissimo e per niente fondamentalista, però la religione musulmana ha una

componente maschilista. Il fatto che puoi avere sette mogli e che una donna vale l’altra; dal mio

punto di vista, che devo ancora sviluppare e approfondire bene, ti sto dicendo qualcosa a caldo,

credo ci sia un forte grado di sottomissione della donna. Non dico che l’Occidente non sia

maschilista, anzi, ma c’è più orizzontalità nelle relazioni. La donna italiana la vedono come

emancipata, e questo può causare qualche problema. Una donna che vive da sola, che è

indipendente, che si prende una birra con un ragazzo per il gusto di farlo, è un concetto un po’

strano per loro. A questa nostra amica che ha già un figlio e che vive da sola con lui, le

chiedono sempre: “ma chi ti mantiene?” “Hai bisogno di un uomo!”. Sono entrambi intelligenti e

tolleranti e sto vedendo che con il tempo stanno cambiando un po’ idea, sono meno rigidi, però

far partire il progetto con una donna sarebbe stata una grande forzatura. Chiaramente dipende

da persona a persona, Pedro per esempio non vedeva l’ora, ma lui non è musulmano. A me

inizialmente è spiaciuto tantissimo, spaccavo proprio i coglioni su questa cosa qua a Isa e

Chiara, “perché”, dicevo io, “stiamo facendo una cosa che ha un potenziale rivoluzionario

potentissimo…e facciamolo fino in fondo! Perché si può fare, perché l’ambiente è buono,

perché c’è tolleranza, c’è pace”. Però è stato meglio così: non credo che avrebbe creato troppi

problemi ma di sicuro avrebbe creato più problemi. Ad oggi non abbiamo mai avuto problemi,

personali di vita si, ma non di convivenza. Quello sarebbe stato spingere da 0 a 1000 in un

nano secondo, meglio fare le cose gradualmente». Della stessa opinione è Lorenzo, che aggiunge: «a me va bene tutto, per me non è una questione uomo o donna, non avrei alcun problema in quel senso, anzi vedrei bene delle ragazze dentro il progetto. L’unico punto da difendere, oltre a come decidere, è che siano tutti d’accordo, quindi se a tutti i partecipanti va bene convivere con una ragazza, che sia una ragazza. Va a seconda delle sensibilità. Chiaro, se fai un progetto con i migranti e parli con quelle persone che vengono da una cultura dove vivere con una ragazza mentre sei sposato è un problema, per me allora si applica il ragionamento di non forzare, e si avvia invece un progetto con persone che non hanno problemi in quel senso o altri magari con solo uomini. Per me questa deve essere la regola generale per progetti come questo, se anche uno solo dice che a lui non va bene allora si formano case in base alle esigenze comuni».

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Mentre Ahmed è sempre stato irremovibile su questa questione, proprio per il

rispetto che prova nei confronti di sua moglie, Mahamadou si è sbilanciato nel

dire «se una ragazza viene a qua per me non è un fastidio, se ha una sua

stanza non c’è problema, ma una ragazza con il letto di qui e io il letto di

li…impossibile! (riferendosi a due letti nella stessa stanza) Non va bene, proprio

no. Se ha una stanza come Zadran (quindi singola) allora va bene. Con spazi

diversi mi piacerebbe avere nel progetto anche una ragazza. Non c’è problema.

Perché sono sposato. Quando non c’è mia moglie non puoi».

Di opinione diversa e forse più netta è Tommaso: T: «questo per me è uno dei punti cruciali. Secondo me, per come viene interpretata la cosa, da Ciac almeno, è che c’è paura di discriminazione più magari da parte di un rifugiato che viene da una cultura diversa, ma nemmeno troppo, nei confronti di una ragazza. Secondo me la sensazione è questa. Per come vedo le cose, questa difficoltà è facilmente superabile, nel senso che se io penso alle ragazze con cui ho parlato e che vorrebbero partecipare al progetto e penso a casa nostra, l’unica persona che avrebbe qualche problema magari è Ahmed che è sposato. L’unica cosa è che ci devi stare attento, magari non vai in giro in mutande, o cose di questo tipo. Non sto dicendo che sono problematiche che non esistono, però secondo me, proprio nell’ottica del Tandem, è fondamentale risolverle perché non possiamo pensare ad una occasione mancata, cioè non possiamo pensare ad una integrazione che funzioni sono a metà e che funzioni solo tra uomini. Ovviamente non deve essere una forzatura con il rischio che crei esclusione. Deve essere una proposta ma non possiamo pensare solo ad abbattere le discriminazioni razziste lasciando fuori quelle sessiste». In generale l’idea è che, per essere un progetto che vuole abbattere ogni tipo di

discriminazione e chiusura verso l’altro, Tandem manchi della presenza

femminile. Mi è stato spiegato che creare un Tandem di solo donne sarebbe

stato molto complicato: il numero di rifugiate donne è molto residuale, spesso

sono vittime di tratta e hanno dei figli a carico; tutti fattori estremamente delicati

che renderebbero una convivenza molto complessa, ma non impossibile. Per

quanto riguarda l’idea di case miste invece, la realizzazione sarebbe più

fattibile. Mi preme sottolineare come la difficoltà di vivere in un appartamento

con ragazzi e ragazze non sia solo degli “stranieri”, come ha ribadito Tommaso,

«se andassimo ora in strada a chiedere a gente parmigiani e gente parmigiane

di andare a vivere in una casa di studenti con uomini e donne…non so in quanti

ci risponderebbero di si, anzi». La base di una convivenza è il compromesso, il

venirsi incontro a vicenda per far funzionare le cose, una presenza femminile

imposta dall’alto sarebbe stata non solo controproducente ma negativa per tutti,

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ragazza compresa. Quest’anno il Tandem è stato un progetto vincente, anche

se tutto al maschile, perché l’aspetto fondamentale è stato il dialogo. I continui

confronti su questo argomento hanno rappresentato una base solida non solo

per il futuro del progetto, ma per una conoscenza e rispetto positivo delle

differenze di tutti i partecipanti.

3.7 Agency Il concetto di agentività ha iniziato ad avere una certa diffusione in

antropologia a partire dagli anni’70, ponendosi in dialettica con l'analisi

strutturalista dei processi sociali, che iniziava ad apparire scarsamente capace

di tener conto delle azioni dei singoli individui. Nel tentativo di assegnare il

giusto ruolo ai potenziali effetti dell’azione umana, vari studiosi di numerose

discipline e in particolare - come afferma Ahearn - le teoriche del femminismo

«analizzarono i modi in cui la sfera personale è anch’essa politica - in altre

parole i modi in cui le azioni delle persone esercitano il proprio influsso sulle

strutture sociali e politiche più vaste, e al tempo stesso sono influenzate da

queste»209. Sherry Ortner afferma:

«per soggettività intendo sempre una forma di coscienza specificamente culturale e storica. Con ciò non intendo escludere le dinamiche inconsce come le si può vedere nell'inconscio freudiano e nell'habitus bourdieusiano. Ma sostengo che la soggettività è sempre qualcosa in più rispetto ad esse, in un duplice senso: a livello individuale sostengo, con Giddens, che gli attori sociali sono sempre - almeno parzialmente - ‘soggetti che conoscono’, che hanno un certo grado di riflessività su di sé e sui propri desideri, e una certa qualche ‘penetrazione’ delle modalità tramite cui sono plasmati dalle circostanze [...]. Vedo la soggettività come alla base della agency, un elemento necessario alla comprensione di come le persone provino ad agire sul mondo, essendone loro stesse agite. L'agency non rappresenta una sorta di volontà naturale o originaria; essa prende forma attraverso specifici desideri e intenzioni inseriti in una matrice di soggettività di (culturalmente costituiti) sentimenti, pensieri e significati»210.

Questa prospettiva è base di partenza utile nella lettura delle traiettorie di vita

di/delle richiedenti asilo e rifugiati che, giorno dopo giorno tentano di rinegoziare

il proprio posizionamento da tutte quelle categorie sociali, culturali, giuridiche ed

209 Aheran L.M., 2002, “Agentitità / Agency”, in Duranti A. (a cura di), Culture e discorso. Un lessico per le scienze umane, Meltemi, Roma, p.19 210 Ortner, S. B., 2005, “Subjectivity and cultural critique”, Anthropological Theory, 5, 1, p. 33

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economiche e da quell’insieme di pratiche, saperi e immaginari attraverso cui

gli apparati istituzionali tentano di definirli. La forme di agency non hanno

semplicemente a che fare con una dimensione di razionalità consapevole che si

orienta strategicamente nella realtà, ma piuttosto con un intreccio di affetti,

desideri, motivazioni implicite ed esplicite, che nel medesimo tempo istituiscono

e muovono i soggetti. Questo posizionamento non vuole però correre il rischio

di riattualizzare una visione antropocentrica del soggetto agente che occulti la

centralità che conservano i processi storici e socio-politici. L'idea di soggettività

che è utile mettere al lavoro, al medesimo tempo come categoria analitica e

come strumento etnografico, diventa «il terreno per indagare gli effetti del

potere e le pratiche di rimodellamento del sé come risposte messe in atto dai

soggetti»211 . Tali risposte difficilmente saranno espressione di un progetto

lineare e razionale, al contrario la stessa persona può esprimere differenti forme

di soggettività e di posizionamento, tra di loro potenzialmente contraddittorie.

Come afferma Henrietta Moore «gli individui sono soggetti molteplici che

prendono posizioni differenti dentro a una varietà di discorsi e pratiche sociali.

Alcune di queste posizioni soggettive possono essere fra loro contraddittorie e

conflittuali»212. In questo senso, il concetto di soggettività è in dialogo con la

nozione di desiderio e di fantasia: «qualsiasi dibattito sull’agency deve includere

una considerazione sul ruolo di fantasia e del desiderio […] perché entrambi

sono connessi con la costruzione del senso di sé» 213 . Daniela Giudici

considera il desiderio «come categoria analitica con cui esplorare le modalità

attraverso cui i soggetti occupano, si identificano o resistono ai differenti

posizionamenti in cui sono collocati»214. La nozione di fantasia è strettamente

legata a quella di immaginazione di Appadurai. Per l’antropologo,

l’immaginazione costituisce un vero e proprio impulso per l’azione: crea un

desiderio di spostamento e interviene sulle strategie di ricostruzione di una

nuova vita, ha una dimensione sociale, collettiva e condivisa. La fantasia invece 211 Barbara Pinelli, 2013, “Introduzione”, in Id (a cura di), Migrazioni e Asilo Politico, Antropologia Annuario, 8, 15, Meltemi, Roma, p.11 212 Henrietta, L., Moore, 1994, A passion for difference: essays in anthropology and gender. Bloomington, Indiana: Indiana University Press, p. 53. 213 Ivi, p.5214 Daniela Giudici, 2014a, Dove finisce la paura, dove comincia il desiderio. Politiche della memoria e margini di azione di rifugiati e richiedenti asilo, tesi di dottorato presso Università degli Studi di Bergamo, pp.16-17

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ha una dimensione più privata e personale, slegata dall’azione sociale. Per

l’antropologia femminista questa contrapposizione non è così marcata poiché

entrambe sono cariche di progettualità e incidono sulla rappresentazione e

costruzione di sé ed esprimono una spinta per il cambiamento. In questa

prospettiva si tratta di andare oltre una comprensione in senso foucaultiano

della teoria del soggetto e della governamentalità: si tratta quindi di cercare di

cogliere non solo come le relazioni di potere producono i soggetti, ma anche

come le soggettività si materializzano e prendono forma nei mondi sociali, in

maniere sempre indeterminate, parziali, non-lineari. Questa prospettiva

permette quindi di prendere in considerazione e studiare la possibilità della

trasformazione sociale e il ruolo attivo dei soggetti. Di come la soggettività

«nella sua complessità, si identifica, resiste o trasforma diversi posizionamenti

disponibili dentro a particolari contesti sociali, culturali, economici e politici»215. Il

dono, proprio per la sua obbligatorietà, vincola il ricevente a conformarsi ad un

tipo di relazione che è fortemente coercitiva. Infatti, chiunque manchi di

sottostare alle tre obbligazioni del dare, ricevere, contraccambiare, rimane in un

rapporto di assoggettamento nei confronti di colui che per primo ha generato il

circuito di donazione. Essendo quindi una vera e propria istituzione, il dono ha il

potere di posizionare i soggetti in una gerarchia basata sul valore e la

frequenza delle donazioni. Chi è impossibilitato a donare, o reso impotente,

rimane in un rapporto asimmetrico di debito e dipendenza con il donatore. Il

dono umanitario segue questa logica: considerando continuamente

l’accoglienza come un’emergenza a cui dover far fronte, gli operatori assolvono

il loro compito distribuendo doni basilari come cibo, cure e una struttura in cui

stare. È un dare solo all’apparenza gratuito, poiché è in realtà una pratica che si

inserisce all’interno di quelli che Foucault chiama dispositivi di governabilità. Il

dono diventa strumento di controllo e assoggettamento di persone rese mute

vittime e corpi sofferenti. Non è mia intenzione affermare che, all’interno del

sistema di accoglienza, i/le richiedenti asilo e rifugiati siano soggetti privi di

215 Henrietta, L., Moore, 2007, The Subject in Anthropology. Gender, Symbolism, and Psychoanalysis, Polity Press, Cambridge, p.41

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agency, poiché essi, pur nella precarietà della loro condizione materiale ed

esistenziale, sono quotidianamente impegnati a costruire attivamente strategie

possibili di inserimento effettivo nel contesto di approdo e a districarsi tra i

vincoli che tale contesto impone nelle forme più eterogenee, da quelle della

compassione, a quelle della repressione. Vale la pena però, fare un confronto,

anche se parziale, tra l’ospitalità in una seconda casa di accoglienza (1) e la

convivenza all’interno del Progetto Tandem (2), entrambi gestiti da Ciac.

1) La persona accolta che si allontana dalla Casa per più di una notte, deve avvisare i Responsabili. Le assenze prolungate devono essere concordate con i Responsabili; per conservare il posto, il rimborso spese deve essere pagato in anticipo, prima della partenza. 2) Nella casa possono abitare solo le persone che partecipano al progetto Tandem. Durante la giornata e la sera, è possibile ricevere la visita di altre persone concordandone la presenza con gli altri ospiti della casa. 1) Ogni ospite è responsabile ogni giorno della pulizia e dell’ordine della sua stanza. Deve inoltre lasciare pulito dopo l’uso il bagno, la doccia e la cucina. Gli ospiti concordano autonomamente i turni settimanali per la pulizia generale ed il riordino della Casa. 2) Tutti collaborano alla buona riuscita del progetto e della convivenza, così come alla cura e alla pulizia della Casa. Gli ospiti si accordano per un’equa divisione dei compiti nella gestione dei lavori domestici. Ogni ospite è responsabile della pulizia e dell’ordine della sua stanza. Deve inoltre lasciar pulito dopo l’uso del bagno, la doccia, la cucina e gli spazi comuni. 1) In caso di guasti agli impianti (luce, acqua, gas) o agli elettrodomestici (frigorifero, stufa ecc.) è obbligatorio avvisare immediatamente i Responsabili. Tutti gli ospiti devono usare con attenzione e correttezza acqua, luce e gas. E' vietato modificare le impostazioni della caldaia o del termostato. Tutti devono usare correttamente i mobili, gli elettrodomestici e gli oggetti di uso comune. Chi rompe o danneggia qualcosa paga il danno. E' vietato introdurre mobili personali. 2) Gli ospiti sono responsabili di eventuali danni recati a cose presenti nella casa. Dovranno per tanto comunicare immediatamente eventuali guasti o rotture al referente del progetto. Tutti gli ospiti devono usare con attenzione e correttezza acqua, luce e gas. 1) E’ assolutamente vietato fumare dentro la Casa. E’ assolutamente vietato introdurre nella Casa armi o stupefacenti o alcolici, pena l’allontanamento immediato.

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2) Gli Ospiti della casa si accordano rispetto al fumo e all’alcool che potranno essere consumati nel rispetto reciproco e della propria persona. In ogni caso è assolutamente vietato introdurre nella Casa armi o stupefacenti, pena l’allontanamento immediato. 1) Nella Casa le persone devono rispettarsi ed aiutarsi, collaborando con i Responsabili per il buon andamento generale. Per qualunque problema di convivenza, gli ospiti devono avvisare i Responsabili, per trovare con loro una soluzione. 2) La casa è un luogo di costruzione di relazioni e di comunità. Pertanto si favoriscono occasioni di convivialità con i vicini, con ospiti di altre case e con altri soggetti da coinvolgere, attraverso l’organizzazione di cene con degustazioni di piatti tipici, incontri tematici, visione di film e altre iniziative proposte dagli stessi ospiti o associazione. Gli ospiti inoltre si impegnano a favorire situazioni di scambio e di conoscenza del territorio, anche attraverso azioni di volontariato e di prossimità. Tali azioni sono proposte dagli stessi ospiti , sulla base delle inclinazioni e delle competenze di ciascuno, o dall’associazione in modo concordato. L’Associazione riconosce il valore dell’attivazione e dell’iniziativa personale e/o in comune con gli altri ospiti. L’associazione chiede di essere aggiornata e informata sulle attività che si intendono realizzare, così da poter supportare e favorire i percorsi in atto.

La decisione di inserire questo breve confronto tra alcuni aspetti del

regolamento dei due diversi progetti nasce da un mio errore. Avevo infatti letto

ai ragazzi alcuni passaggi del regolamento delle case di seconda accoglienza

pensando che fosse il loro, suscitando proteste e fervore. Riporto qui di seguito

uno stralcio della conversazione che ho registrato.

Tommaso: «Cosa? No, questo non è il nostro. Da noi è possibile introdurre alcol e stupefacenti purché se ne parli e siano tutti d’accordo. Sul fatto di ospitare si, ma non per lunghi periodi, da qui era nato un problema. Per il fatto di rimanere fuori una notte è assolutamente permesso e non dobbiamo avvisare nessuno, altrimenti io sarei già fuori dal progetto». Lorenzo: «Avere queste tipo di regole ci avrebbe letteralmente scacciato dalla casa, ci sarebbe stata una vera e propria insurrezione». Kay (amica dei ragazzi e tirocinante del Ciac): «Considerate che queste sono le regole Sprar: non puoi ospitare, non puoi introdurre niente…». Lorenzo: «Sono due progetti totalmente diversi, lo Sprar è: io Stato italiano devo dare a te singolo individuo delle regole ferree se no succede un casino. Qua siamo autonomi, persone indipendenti che si organizzano tra di loro. Sarebbe una tragedia che quella roba succedesse qua dentro, proprio perché il progetto dovrebbe rappresentare dei cambiamenti in quel senso, cioè il migrante non è più un pezzo di carta, un pacco che sballottolano e a cui danno regole, ma una persona come le altre. Sarebbe una tragedia perché qua non c’è un capo, non c’è un rappresentante, la figura di riferimento a cui chiedere le cose o andare a battagliare, inteso come dialogare».

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Giammarco: «Il nostro è un rapporto alla pari. A me non piace la parola integrazione proprio perché mi fa venire in mente, appunto, lo Sprar o modelli simili: dei contenitori già ben costruiti all’interno dei quali tu ti puoi muovere ma sei molto limitato. Invece questo non lo è. È vero abbiamo delle regole ma le abbiamo discusse e sono state messe in discussione quando si sono presentati casi limite, in maniera davvero democratica. In uno Sprar non è possibile, là ci sono dei fondi europei che vanno al Ministero dell’Interno che poi li distribuisce tra i vari enti o associazioni, però è chiaro che lì c’è una vera imposizione, c’è una regola ed è inflessibile, non tiene conto della contingenza o del particolare». Tommaso: «In casa tua, tua tua, non hai regole. Qui sei dentro con un regolamento, nel senso che c’è proprio un insieme di regole che logicamente non ti dai istituzionalizandole, cioè tu hai messo la firma su quei tot punti del regolamento, se vieni meno a uno dei punti ci sono conseguenze legali. La cosa importante però è che ci siamo confrontati su questo, l’abbiamo modificato e siamo giunti ad un accordo insieme. C’è il regolamento, va bene, ma ci siamo anche noi che ci gestiamo in piena autonomia e senza dover fare riferimento ogni volta a qualcuno». Rileggendo l’ultima affermazione di Tommaso si evince quanto il progetto, nella

sua stessa costituzione, promuova – senza insegnare – una vera e propria

autonomia e una riappropriazione di se stessi, dei propri spazi, dei propri tempi,

dei propri gusti e delle proprie scelte. Il regolamento è una linea guida per

evidenziare i principi che guidano il progetto, però in casa non c’è nessun

operatore a controllare o a mediare la convivenza. Ecco allora che nella

tranquillità – se non banalità ma nel senso più bello – di una co-abitazione, la

dimensione del futuro, della fantasia, del sogno riprende il sopravvento e nuovi

progetti iniziano a svilupparsi.

L’obiettivo più grande di Mahamadou è quello di ottenere il ricongiungimento

familiare. La difficoltà è quella di avere a disposizione un reddito sufficiente per

dimostrare di poter mantenere se stesso, la moglie e loro figlio216. Insieme a

Giammarco ha svolto alcuni lavoretti, soprattutto durante l’estate

nell’agriturismo della cugina. La sua difficoltà era legata alla lingua, non

essendo mai andato a scuola, non è mai stato alfabetizzato. Da quando l’ho

conosciuto ha fatto grandi passi in avanti, frequenta ben due corsi di lingua: uno

216 Reddito minimo annuo derivante da fonti lecite non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale aumentato della metà dell’importo dell’assegno sociale per ogni familiare da ricongiungere. Richiedente - 5.825 € annui n. 1 familiare da ricongiungere €. 8.737,50 n. 2 familiare da ricongiungere €. 11.650

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organizzato dal Ciac e uno da ArtLab, entrambi gratuiti. In più si esercita da

solo, sia con il libro di grammatica, sia leggendo il Corano in italiano.

Giammarco mi ha confidato che molto spesso lo ha trovato addormentato a

letto con le cuffie nelle orecchie mentre ascoltava dei telegiornali italiani per

migliorare la pronuncia. Tutti questi sforzi gli hanno permesso di fare un’ottima

impressione ad un colloquio di lavoro per un tirocinio pagato con Ikea, colloquio

ottenuto tramite l’intervento dell’ufficio del Ciac che ha coinvolto anche

Giammarco. Mentre Giammarco ha deciso di non continuare più, a Mahamadou

è stato appena rinnovato il contratto, anche se solo per qualche mese.

Giammarco è sempre impegnato in tante attività che non gli lasciano mai tempo

di finire l’università, gli manca poco per finire la triennale di filosofia, poi

vorrebbe fare la specialistica in sociologia, forse in Francia. Il progetto non solo

lo ha aiutato, parole sue, ad essere più ordinato, «ora invece so che ci sono

degli spazi comune da dover gestire assieme e che loro lo sapevano fare molto

meglio di me». Sia perché ha amplificato questa sua predisposizione all’ascolto,

a farsi coinvolgere nelle e dalle persone, questa sua disponibilità a partecipare

a situazioni che nemmeno gli piacevano: «lavorare all’Ikea era quanto di più

lontano dalle mie convinzioni potesse esserci. Un bell’ambiente, anche con

rapporti orizzontali, ma sempre una multinazionale è. L’ho fatto per

Mahamadou, però non potevo continuare ancora». Queste sue qualità gli

hanno permesso di entrare a far parte di un altro progetto pensato da Ciac, nel

quale avrà il ruolo di “tutor”, ossia di una persona che si prende la

responsabilità di diventare amico di un richiedente asilo o rifugiato per

coinvolgerlo all’interno del suo tessuto sociale e aiutarlo nell’iter burocratico e

sanitario.

«Una cosa che mi ha aiutato molto qui in Italia è il fatto che io non abbia

cominciato a creare il mio profilo come persona qui, ma già prima, non so come

posso spiegare, sapevo già chi sono prima di arrivare qui, anche se è stato

difficile, sono rimasto me stesso, ho una mia soggettività, e questo mi ha

aiutato a non prendere alcune strade, perché ci sono sempre tante proposte

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non sempre legali. Io vedo il mio futuro qui, in Italia, il fatto di non essere morto

mi ha permesso di fare le cose che sto facendo ora e sono soddisfatto». Pedro

continua il suo essere attivista non solo con il lavoro e la partecipazione al

progetto, ma facendo parte del gruppo “Uomini che si Immischiano”, un

collettivo maschile contro la violenza sulle donne. Durante questo anno, non

solo è riuscito ad ottenere un contratto a tempo indeterminato con il Ciac, ma

ha conseguito un attestato come mediatore linguistico e culturale ed è riuscito a

farsi riconoscere i documenti che attestano il suo diploma delle scuole superiori.

A settembre vuole iscriversi a psicologia perché «voglio capire cosa porta le

persone a pensare come pensano». Gli ho consigliato allora antropologia,

vedremo cosa deciderà di fare.

«Uscendo di casa per la prima volta, forse c’è stato di più un cambiamento da

parte mia di capacità di relazionarmi con i miei famigliari sullo stesso piano.

Poter dialogare magari di quello che voglio fare nella mia vita con mia madre,

con mia nonna o con mio nonno, in maniera un po’ più orizzontale, senza

chiedere il permesso. In qualche modo, partecipare al progetto, mi ha dato

quella sensazione di avere un po’ più di indipendenza». Tommaso mi ha

raccontato anche che gli piacerebbe diventare insegnante di matematica, stare

a contatto con i giovani, senza dover necessariamente spiegare solo nozioni

algebriche. Il fatto di aver partecipato a numerosi incontri con le scuole, aver

portato la sua testimonianza ed essersi confrontato con loro, ha consolidato

questo suo obiettivo.

Ahmed lavora alla mensa della Caritas, la stessa alla quale andava a mangiare

appena arrivato a Parma. A differenza di Pedro lui non vuole rimanere in Italia,

un paese che l’ha deluso troppo. Se la guerra finisse, sarebbe il primo a voler

tornare a casa. La sera si connette sempre su Skype o su Facebook per

mantenere i contatti con la sua famiglia e ho notato che questo legame così

forte con la sua terra lo esprime anche con completi sconosciuti: ovunque vada,

infatti, se riconosce che una persona è somala, si ferma a parlare con lui. Al

momento è molto preoccupato per la salute di suo figlio che ha problemi al

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cuore. Vorrebbe farlo curare qui in Italia ma deve trovare prima un dottore che

si assuma la responsabilità del bambino.

3.8 L’informalità della convivenza

«Diventiamo tutti stranieri E insegniamoci l’un l’altro tutto ciò che sappiamo».

Bob Hicok, a Primer

Quello dell’integrazione è forse uno dei concetti più centrali della tradizione

sociologica ed antropologica. Uno dei modelli, che per vari decenni ha goduto

di una sostanziale egemonia, è quello dell’assimilazione che sosteneva che

«grazie all’interiorizzazione dei valori e dei modelli di comportamento della

società ospite, i migranti ne sarebbero divenuti membri a pieno titolo e

avrebbero goduto di tutte le possibilità di mobilità sociale da essa offerti»217.

Impliciti in questo modello sono l’idea di superiorità della cultura ospitante e la

necessità di disapprendere «i caratteri culturali inferiori»218 per assumere su di

sé i valori, le norme e i modelli di comportamento del gruppo maggioritario.

Fortemente criticato per il suo carattere estremamente etnocentrista, è stato

proposto il modello multiculturale che propone un’accettazione acritica del

pluralismo concepito come un puzzle di culture che vivono una accanto all’altra

senza però incontrarsi. Fallace nella sua teoria, il modello multiculturalista è

stato dichiarato fallimentare proprio per il suo impianto fisso e immobile, che

non tiene conto della plasticità e della transnazionalità delle reti e delle relazioni

che le persone creano e mantengono quotidianamente. Viene quindi sostituito

con il modello interculturale propone un dialogo tra differenti culture, con la loro

conseguente apertura reciproca e con un’attenzione particolare alle

trasformazioni culturali in atto. L’interculturalismo guarda ai rapporti tra culture

differenti e si fonda sullo scambio bidirezionale, simmetrico e personale,

comprende dunque la possibilità di apprendere elementi culturali altrui nel

rispetto della propria e delle altrui identità. Pur avvicinandomi all’ultimo modello,

217 Laura Zanfrini, 2004, Sociologia della convivenza interetnica, Editori Laterza, Como, p.4 218 Ibid.

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lo considero come tale: un paradigma teorico spesso imposto dall’alto, una

ricetta, un dogma istituzionalmente confezionato che però non tiene conto dei

processi che avvengono a livello micro. Ragionare quindi in termini astratti di

modelli di integrazione non permette di vedere da vicino in quali forme si

traducono le decisioni politiche, poiché si tende ad interpretare lo sviluppo delle

relazioni interetniche da una prospettica macro. Si pensa in termini di culture

che si adattano, si toccano, si respingono, si influenzano ma non si mostrano i

meccanismi reali di integrazione. La dimensione locale acquista così un valore

centrale nella definizione delle strategie di inclusione, esercitando un ruolo

attivo nella promozione di rapporti pacifici e reciprocamente benefici219.Negli

ultimi anni, queste intuizioni scettiche sulla validità di applicazione dei modelli

hanno prodotto un’affermazione crescente dell’autonomia delle politiche locali

da quelle più complessive a livello nazionale220, che affrontano in prima linea la

gestione delle interazioni e dei contatti tra migranti e comunità autoctone. La

constatazione di distanze notevoli tra retoriche nazionali e politiche locali ha

infatti indotto una rilettura della prassi dell’integrazione in una prospettiva più

focalizzata a livello locale. Partendo da questo presupposto, ho deciso di

focalizzarmi sulle pratiche locali in un contesto davvero micro: quello della casa.

«Nessuna legge può dare a una persona il sentimento di essere integrata in

una società»221, afferma Richard Sennet, sociologo statunitense, sottolineando

come le leggi, i codici di condotta, le procedure e i modelli conducano ad una

formalità che «favours authority and seeks to prevent surprise»222. L’informalità,

al contrario, significa che non vi sono regole prestabilite: si ha fiducia che si

autosviluppino mano a mano che aumenta la portata, la profondità e la

significatività della conoscenza e del dialogo. «Informal relations are by

definition fluid and unpredictable»223. Afferma Bauman:

«Il sociologo Richard Sennett ha cercato di elaborare una riedizione dell’Umanesimo contestualizzata nel nostro secolo e la sua risposta è tripartita: parla della necessità, per un

219 Stephen Castles, 2002, Migration and Community Formation under Conditions of Globalization, in «International Migration Review», vol. 36, n. 4, pp. 1143-1168. 220 M. Ambrosini, L. Queirolo Palmas, 2005, I Latinos alla scoperta dell’Europa, Milano, Franco Angeli. 221 Livia Manera, 2014, «Dobbiamo restare stranieri per integrarci meglio», in www.vita.it222 Richard Sennet, 2012, Together. The Rituals, Pleasures and Politics of Cooperation, Allen Lane, London 223 Ibid.

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umanista dei nostri tempi, di una cooperazione informale ed aperta. Informale, perché le regole devono uscire dal dialogo stesso; aperta, perché senza aspettative predeterminate, ha apertura verso chiunque voglia partecipare. Infine, Sennet parla di cooperazione perché bisogna abbandonare il sogno di vedersi vincitori davanti ad un perdente: tutti escono arricchiti dalla collaborazione»224. La casa, come luogo informale per eccellenza, si fa promotrice di relazioni

orizzontali, confidenziali e paritetiche, andando a smontare quei preconcetti che

profetizzano uno scontro di culture. Mi preme sottolineare il fatto che la cultura

non è un contenitore statico e fisso che impedisce ad una persona di incontrare

l’altro, anzi, è un bagaglio di pensieri, comportamenti, valori, soggetti ad un

cambiamento continuo che avviene attraverso un’apertura mentale e dialogo.

«Gli incontri tra persone, portatrici di interessi diversi, più sono disordinati e

senza limiti prefissati, più saranno portatori di confronti maturanti. Permettendo

a tutti di guadagnare in egual modo, parificando le opportunità»225. L’informalità

della convivenza diventa quindi la via migliore per fare esperienza delle

differenze, qualsiasi esse siano. «The challenge now is living permanently the

difference, it doesn’t matter which kind of difference, it could be religious

difference, linguistic difference, it could be way of life. As Hannah Harend had

already said: differences are here to stay»226. La bellezza del Progetto Tandem

risiede nella sua totale informalità che rende semplice la vita quotidiana.

Tommi: «in casa tutto è di tutti, poi effettivamente capita molto poco che io, non so, abbia comprato 5 peperoni e che me ne siano rimasti 2. Tutti abbiamo voglia di indipendenza, di non privare gli altri in qualche modo, se capita prendiamo tranquillamente senza chiedere, ma se sta finendo lo ricompro in modo da rimetterlo a disposizione. L’altra volta ho trovato un pesto alla genovese e siccome non avevo niente e avevo voglia di un pasto veloce, l’ho utilizzato, dopo l’ho ricomprato. Non c’è nessun problema». Lore: «tandem significa pedalare insieme! O ci rallentiamo a vicenda o andiamo avanti insieme. Questo vuol dire che siamo tutti sulla stessa barca che smuove la società nella direzione in cui vogliamo smuoverla». Pedro: «vivere con loro ha ridato tranquillità alla mia vita e ho ricominciato a crederci. La discriminazione è una malattia della nostra società ma è curabile attraverso la volontà. Tandem

224 Bauman a greenreport: «La società dei consumi è ostile, avversa alla sostenibilità»in http://www.greenreport.it 225 Zygmunt Bauman, 2012, in Frezza Elisa , Mazza Cristina, Mazzi don Antonio , 2015, Educatori senza frontiere. Diari di esperienze erranti, Edizioni Centro Studi Erickson 226Zygmunt Bauman, La difficile arte del convivere, in www.youtube.it. Trad: “La sfida ora è vivere in modo permanente la differenza, non importa quale tipo di differenza, potrebbe essere religiosa, linguistica, di stile di vita. Come Hannah Harend aveva già detto: Le differenze sono qui per restare”.

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è una voce altissima e bellissima che dice che è veramente possibile».

Giamma: «io non sono una figura istituzionale come assistente sociale, operatore o educatore, siamo completamente allo stesso livello se non addirittura, non so, io mi sento più indietro nel senso che, anche per quanto riguarda la gestione degli spazi comuni, io ho dovuto adeguarmi, perché l’unica volta che ho vissuto fuori di casa è stata in una stanza singola e per i ritmi di vita che ho, ho dovuto fare attenzione».

Vorrei soffermarmi sulle parole di Giammarco per sottolineare come è proprio

l’aspetto informale della convivenza che decostruisce ogni tipo di obbligatorietà

che l’atto di donare innesca. La relazione tra utenti e operatori – tra riceventi e

donatori – è innanzitutto artificiale ed obbligata: la formalità della procedura è

organizzata di modo che né gli uni né gli altri si possano sottrarre

all’instaurazione di questa strana forma di fiducia, che è impostata in modo del

tutto unidirezionale, come se fosse un dovere dell’ospite. «Questo tipo di aiuto

non è tanto altruista quanto opprimente, poiché crea obblighi incerti, anche se

percepiti»227. Mentre la burocrazia seleziona e cataloga solo alcuni aspetti

rilevanti delle persone e delle loro vite, la convivenza coinvolge l’intera

soggettività di una persona. «Per me il Progetto Tandem non è la soluzione per

la casa, ho delle alternative, saprei dove andare» mi dice Ahmed «non sono un

bambino da dover gestire, ho scelto io di partecipare». Partecipare a Tandem

significa quindi aderire ad una comunità che nasce e che può prendere la forma

che più gli piace. Una comunità composta non solo dai coinquilini, ma dai loro

amici, i parenti, le persone che conoscono ai vari incontri e così via. È un

progetto sempre aperto e pronto all’incontro proprio perché nasce con

l’obiettivo di creare reti, per non essere mai soli. La dimensione casa che si

estende all’esterno e lo coinvolge, lo spazio privato che si fa pubblico perché

crea legami con tutti quegli enti e soggetti che gravitano attorno al progetto e ai

partecipanti stessi. «Siamo molto più connessi ma molto meno comunicanti, è il

paradosso odierno» afferma Emilio Rossi, presidente del Ciac, «il progetto è

molto semplice, eppure crea scalpore, perché abbatte dei muri e crea dialogo».

227 De Voe, 1981, Framing Refugees as Clients, in Barbara Sorgoni (a cura di), Etnografia dell’accoglienza, p. 101

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3.9 L’obbligatorietà decostruita: incomprensioni, restituzioni e legami In alcuni paragrafi precedenti è stato menzionato un episodio spiacevole,

l’unico che ha creato vere e proprie tensioni e che ha coinvolto casa Rondani.

Purtroppo, o per fortuna, non ero ancora arrivata a Parma in quel periodo,

quello che riporto qui di seguito è solo un resoconto che mi è stato raccontato

dalle varie parti. Era da un po’ di mesi che Ahmed stava cercando di far venire

sua moglie Amina in Italia, senza ricorrere al ricongiungimento familiare poiché

non vedeva – e non vede tuttora – il suo futuro in questo paese. L’obiettivo era

quello di accompagnarla a fare la richiesta d’asilo in Olanda. Il tutto avviene

molto in fretta, Ahmed scopre che la moglie ha ottenuto il visto e comprato il

biglietto poco tempo prima del suo effettivo arrivo, nasce quindi la premura di

trovare un posto dove farla stare. Parla con i suoi coinquilini e tutti sono

concordi nell’ospitarla a casa per un periodo che poteva variare dalla ventina di

giorni al mese. Sua moglie arriva a fine giugno, la va a prendere in aeroporto, la

fa sistemare in casa e decidono di recarsi in Via Bandini – la sede del Ciac –

per parlare con Isabella della situazione. «Andiamo lì, le spiego la situazione, le

dico che è un’emergenza e che mi serve tempo per cercarle un posto dove farla

stare e Isabella mi dice che va bene. Era un venerdì, me lo ricordo» mi

racconta Ahmed «torniamo a casa allora e proprio mentre sono sul ponte

(quello che porta a Piazzale Rondani) mi chiama Isabella e mi dice che non

posso ospitare mia moglie in casa e che lei la settimana prossima sarebbe

andata in ferie e che non poteva prendersi la responsabilità». La situazione

precipita in quel momento e anche la ricostruzione di ciò che è successo è

difficile. Ahmed riceve una telefonata da Emilio Rossi che gli dice di non

preoccuparsi e che ha già contattato la Casa della Giovane – una casa gestita

dall’ ACISJF il cui scopo è dare ospitalità a tutte quelle giovani che sono

lontane dal proprio ambiente familiare o che ne sono allontanate o che ne sono

addirittura prive – ma che gli avrebbe dato una conferma passato il fine

settimana. Ahmed, ormai preso dall’agitazione, senza confrontarsi con nessuno

– durante quella settimana erano tutti in vacanza – prenota una stanza nel

primo hotel nelle vicinanze, la sfortuna vuole che sia anche uno dei più cari.

Una settimana e quasi 750 euro dopo partono per l’Olanda con l’autobus.

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Verranno fermati in Germania, sua moglie infatti aveva il visto solo per l’Italia, e

mentre lei deciderà di richiedere asilo lì, Ahmed ritorna a Parma. «Anche se

non l’abbiamo vissuto direttamente, questo è stato l’unico episodio che ci ha

fatto sentire estranei in casa nostra» racconta Tommaso «quella settimana non

abbiamo smesso di discutere un attimo, ci siamo confrontati molto anche

perché io e Lorenzo abbiamo partecipato a tanti picchetti per protestare contro

lo sfratto e manifestare solidarietà alle persone che stavano per buttare fuori

casa senza una soluzione. È stato tutto un gran fraintendimento». Aggiunge

Pedro: «Isabella si è sentita legittimata in virtù delle regole che insieme ci siamo

dati e le regole servono per vivere insieme in pace, non possono essere vissute

come un problema». «Ed è nelle emergenze che si capiscono se le regole

funzionano bene o vanno migliorate» afferma Ahmed «non ci si può

dimenticare della realtà, è un progetto che abbiamo creato, è vero, ma è anche

un percorso, e come tale può cambiare perché siamo persone e abbiamo

legami al di fuori di qui».

La mancanza di una vera e sincera comunicazione, da entrambe le parti, è

stato il vero problema. Il non confrontarsi seriamente e con tranquillità sul come

affrontare una situazione imprevista ha causato forti tensioni, dispiaceri e una

mancanza di fiducia da entrambe le parti. Questo forse è l’unico aspetto sul

quale il progetto deve migliorare: la comunicazione tra case e Ciac. Il

regolamento prevede un incontro mensile tra tutti i partecipanti e i responsabili

che serve a fare il punto della situazione, a proporre idee e a conoscersi meglio

tra tutti. Da quando è iniziata la mia ricerca non credo di aver mai visto i ragazzi

tutti assieme ad un incontro e una partecipazione così incostante rende difficile

l’organizzazione e la gestione di tutte le cose in programma. Dall’altra parte i

ragazzi lamentano spesso di non essere abbastanza coinvolti a livello

decisionale, mi spiega Tommaso: «quello che non mi piace è che spesso le

cose non vengono costruite insieme, ma proposte dall’alto, quasi fossero dei

compiti da fare a casa». Continua Giammarco: «le cose le sappiamo sempre

all’ultimo e ci dobbiamo adattare. Dobbiamo partecipare a questi eventi e

spesso mi sono trovato nella situazione in cui non sapevo cosa dire o cosa fare,

sinceramente non sapevo nemmeno lo scopo della serata. Mi sono sentito

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come un cartellone pubblicitario vivente».

Ho rivelato l’obiettivo della mia tesi solo ai ragazzi di casa Rondani – o meglio,

solo a Pedro, Tommaso e ad Ahmed dal momento che Lorenzo era in

California – perché la loro convivenza stava per finire e volevo avere con loro

un confronto. «Mi piace l’idea di decostruire il dono, la convivenza elimina

questo meccanismo effettivamente, ma lo fa sono a dovute condizioni: solo se

vivi le cose curiosamente e personalmente» mi dice Tommaso «ti lancio una

provocazione però: se davvero il dono non esiste, perché dobbiamo partecipare

a serate di restituzione?». «È vero, la serata dai focolarini, i progetti nelle

scuole, l’evento a teatro o al cinema, vengono chiamati tutti incontri di

restituzione, come se noi dovessimo restituire qualcosa a qualcuno» conferma

Pedro «questa parola non mi piace, non mi piace l’idea che ci sta dietro, è

scomoda per me. Partecipo al progetto ma non sono in debito con nessuno».

Ne abbiamo parlato molto quella sera e mi sono portata a casa quella

provocazione, riflettendoci sopra. Credo che il problema risieda non tanto nel

dover partecipare a questi incontri, quanto il chiamarli “di restituzione”. Come ha

spiegato Isabella: «sono serate di testimonianza che ci vengono richieste per

far conoscere e diffondere quello che facciamo. Sono di vitale importanza se

vogliamo che il progetto continui e si replichi. Non obblighiamo nessuno a

partecipare ma se proprio devo fare la fiscale, cosa che non mi piace, è uno dei

punti del regolamento del contratto che i ragazzi hanno firmato». Il termine

restituzione, in questo caso, non ha l’accezione del dover dare indietro

qualcosa, è più un sinonimo di condivisione di un’esperienza con coloro che

non l’hanno mai vissuta. È un mettere a disposizione degli altri una buona

pratica più che un modo di sdebitarsi. È il fare politica grazie all’esempio

positivo invece che una forma di obbligazione generata dal dono. Riprendendo

le parole di Caillé, «nel dono, il fatto fondamentale è che il legame è più

importante del bene»228. Lo scopo della mia tesi era quello di decostruire

l’obbligatorietà del dono – spesso da considerarsi come vincolo invece che

come atto di generosità – guardando le pratiche. Mi sono accorta che qualsiasi

228 Alain Caillé, 1998, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, p.80

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cosa, gesto, invito può essere considerato dono nell’accezione di Mauss poiché

qualsiasi nostro atto, potenzialmente, può generare debito e riconoscenza. Non

voglio addentrarmi in discorsi filosofici sull’«intenzione»229 che precede il dono,

vorrei soffermarmi invece sulle sue conseguenze tralasciando l’aspetto più

economico, individualista e vincolante. L’obbligatorietà del dono viene

decostruita nelle relazioni che coinvolgono gli individui in legami sociali che

salvaguardano la loro libera autodeterminazione. «Il dono può dirsi certamente

“interessato”, ma interessato a stabilire un rapporto, un legame vissuto come

primario in base alla natura stessa dell’uomo, quindi “buono” in sé e non quale

strumento utile al conseguimento di qualcosa d’altro – il bene materiale rispetto

a cui è invece “disinteressato” - come vuole la logica utilitarista»230. Il dono così

inteso si fa quindi promotore dell’inserimento dell’individuo all’interno del

tessuto sociale ma in maniera orizzontale e sociale. Una tale logica de dono va

ad investire direttamente il dominio della socialità nel suo complesso,

circoscrivendo il suo campo d’azione non solo alla sfera della socialità primaria

– come famiglia e amicizie – ma si apre anche agli ambiti della socialità

secondaria – economia, lavoro, amministrazione, burocrazia – attualmente

dominati da prestazione di tipo impersonale. L’impersonalità è dunque la chiave

dell’obbligatorietà del dono poiché l’unico legame che sviluppa è dato dal valore

d’uso del bene o del gesto. L’impersonalità e la formalità dello scambio

generano rapporti asimmetrici, verticali, di debito. La formalità crea muri e

falsifica i gesti, favorendo l’autorità e l’osservanza della condotta. Come scrive

Sennett: «moments of crisis reveal the fragility of formal organization and

correspondingly the strenghth of informal collaboration» 231 . Collaborazione

informale che si esprime nelle relazioni comunitarie tra pari, sempre Sennet

afferma che: «community is a process of coming into the world» 232

sottolineando come siano le reti sociali e l’incontro con l’altro a marcare

l’identità di un individuo come soggetto sociale. Ecco perché, quelli che

vengono chiamati incontri di restituzione, possono essere considerati occasioni 229Jacques T. Godbout, Quello che circola tra di noi. Dare, ricevere, ricambiare,230 Alain Caillé, 1998, p.75231 Richard Sennet, Rituals, 2012, Together. The Rituals, Pleasures and Politics of Cooperation. Trad: “i momenti di crisi rivelano la fragilità di un’organizzazione formale e corrispondentemente la forza della collaborazione informale” 232 Ibid

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di comunità. Occasioni costruite all’interno di una cornice formale certo, che

però generano reti di conoscenze informali che prevengono l’isolamento e

permettono un inserimento positivo all’interno del tessuto sociale. È l’esempio

di Pedro che tutt’ora partecipa ad incontri e a campi organizzati dal Movimento

dei Focolari e che frequenta alcuni di loro anche solo per bere qualcosa. Per

quanto, soprattutto gli studenti, le vivano come imposizioni istituzionali, la

partecipazione a queste reti è ciò che aiuta a sancire l’appartenenza ad un

luogo. Attivismo, cittadinanza dal basso, associazionismo, nuove conoscenze,

appartenenza, impegno e comunità è tutto ciò che gravita attorno al progetto.

Giorgio Gaber cantava che «la libertà è partecipazione» e la partecipazione al

Progetto Tandem ne è una forma.

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Conclusioni Sconosciuto: «Io non sono razzista però i negri devono starsene a casa loro» Io: «Credo che anche loro vorrebbero rimanere con le loro famiglie ma evidentemente non possono vivere in paesi in guerra dove…» Sconosciuto (interrompendomi): «Eccone un’altra, tutti buonisti voi, perché non te ne porti uno a casa tua?» Io: «In realtà ci vivo, faccio parte del Progetto Tandem del Ciac che…» Sconosciuto (interrompendomi ancora): «(bestemmie e insulti vari) non me lo devi nominare! Abbiamo una causa aperta contro di loro! » Io: «Noi chi?» Sconosciuto: «Io e il mio comitato» (Barista da dietro che mi mostra un foglio con scritto Casa Pound) Sconosciuto: «Almeno ti pagano?» Io: «No. Siamo coinquilini, non sono nessuno per…» Sconosciuto (interrompendomi un’altra volta): «mi sembri una ragazza intelligente, ti offro un patronato da noi, ti sei mai occupata di pensioni?»

Questo breve stralcio di una discussione – sfortunatamente, durata quasi

un’ora – è un episodio realmente accaduto e, proprio come avviene con i film

horror, è un fatto che mette ancora più paura. Questa triste vicenda, finita

anche con minacce, mi torna utile per introdurre due nuovi aspetti. Il primo

riguarda la manifestazione di un disagio, non poi così latente, reso visibile dalla

crescente adesione dei parmigiani a partiti di estrema destra come Casa

Pound. Mi ha spiegato Isabella, infatti, che la sede del partito si trova nel

Quartiere Montanara di Parma, quello delle case popolari caratterizzato da

episodi di piccola e quotidiana delinquenza. Non è una novità che partiti come

questi riscuotano la maggioranza delle adesioni proprio tra coloro che si

trovano più in difficoltà e che hanno bisogno di certezze immediate: chi è il

nemico e come fare per sconfiggerlo per migliorare una situazione di disagio.

Mi rendo conto che è una spiegazione molto semplicistica, eppure è così che il

populismo funziona. Di recente Casa Pound ha acquisito molte più adesioni,

proprio puntando sul fatto che la città di Parma è satura, che non ha più posto

per accogliere “gli immigrati” e che in ogni caso la priorità va data agli italiani,

soprattutto a coloro che vivono nelle case popolari e che hanno difficoltà a

trovare un lavoro. Ne sono la dimostrazione le recenti manifestazioni, gli slogan

e una chiusura al dialogo da parte dei rappresentati del partito durante gli

incontri istituzionali che rispecchiano un clima politico sempre più teso. «Io sono

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un rifugiato nigeriano ok? Però se mi mettessi nei panni di un italiano, adesso,

sarei spaventato anche io. Avrei paura perché il mio paese affronta una crisi

economica da tanti anni e i miei politici non mi danno certezze. Avrei paura di

perdere il poco che ho e magari non conosco nessuno straniero e tutto ciò che

so di loro lo sento al telegiornale. Allora la paura potrebbe diventare rifiuto» mi

spiega Pedro «E hai fatto bene a parlare con quella persona lì, perché il dialogo

è fondamentale. È facile parlare con chi è d’accordo con te, fare incontri con chi

sai che ti darà ragione. Ma è davvero utile allo scopo? Mi piacerebbe tanto fare

un incontro solo con chi vota Casa Pound o la Lega, per capire come la

pensano e cercare un punto in comune sul quale costruire qualcosa». Come

sempre Pedro riesce a centrare il punto e infatti, parlando con Isabella, si

commentava quanto sarebbe importante fare mediazione territoriale in un

quartiere del genere o addirittura un Progetto Tandem per dimostrare quanto

sia necessaria, riprendendo le parole di Bauman, «una fusione di orizzonti».

«Questi migranti, non per scelta ma per atroce destino, ci ricordano quanto vulnerabili siano le nostre vite e il nostro benessere. Purtroppo è nell'istinto umano addossare la colpa alle vittime delle sventure del mondo. E così, anche se siamo assolutamente impotenti a imbrigliare queste estreme dinamiche della globalizzazione, ci riduciamo a scaricare la nostra rabbia su quelli che arrivano, per alleviare la nostra umiliante incapacità di resistere alla precarietà della nostra società. E nel frattempo alcuni politici o aspiranti tali, il cui unico pensiero sono i voti che prenderanno alle prossime elezioni, continuano a speculare su queste ansie collettive, nonostante sappiano benissimo che non potranno mai mantenere le loro promesse. E poi alle aziende occidentali il flusso di migranti a bassissimo costo fa sempre comodo. E molti politici sono allo stesso modo tentati di sfruttare l'emergenza migratoria per abbassare ancor più i salari e i diritti dei lavoratori. Ma una cosa è certa: costruire muri al posto di ponti e chiudersi in "stanze insonorizzate" non porterà ad altro che a una terra desolata, di separazione reciproca, che aggraverà soltanto i problemi»233.

Il contatto quotidiano, anche dato semplicemente dalla conoscenza

dell’esistenza del progetto, potrebbe, quanto meno, stimolare curiosità: la

miglior arma contro l’indifferenza e la chiusura. È per questo che ritengo che

Tandem sia un progetto di estrema importanza, non solo per chi lo vive da

dentro. Nasce dal basso e dal basso provoca cambiamenti, o per lo meno

qualche domanda. Ecco perché ho deciso di entrare a farne parte, sono

ufficialmente la prima ragazza Tandem e questo non potrebbe rendermi più

233 Zygmunt Bauman in Antonello Guerrera, "I migranti risvegliano le nostre paure. La politica non può rimanere cieca", www.repubblica.it

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orgogliosa. Questo mi permette di introdurre anche il secondo aspetto su cui

riflettere: l’antropologia è una questione di responsabilità. Pierre Bourdieu, in

un’intervista rilasciata a Lanzmann e Redeker su “Le Monde” il 18 settembre

del 1998 – citata anche in Bauman234 – sosteneva che non fosse pensabile, per

chi si occupa di scienze sociali, restare in una «posizione neutrale e

indifferente, distaccata dalle lotte che hanno come posta in gioco le sorti stesse

di questo mondo». Anche Bauman ha sottolineato più volte nei suoi scritti

questo particolare statuto del ricercatore come “soggetto responsabile”.

Responsabile delle sue parole, dei suoi scritti, della conoscenza da lui prodotta

e dalle sue prese di posizione. L’atteggiamento che si assume nei confronti del

fenomeno migratorio diventa infatti la lente con cui è possibile leggere il modo

in cui ognuno di noi si colloca dal punto di vista sociale e politico. La

responsabilità del ricercatore consiste, come sempre, anche nella capacità di

mettere in crisi il proprio sistema e nel non contribuire all’edificazione di un

discorso preconfezionato che contribuisce a reificare uno status. A questo

proposito, Bourdieu scriveva:

«mi avvilisce [...] vedere come chi si incarica, per professione, di oggettivare il mondo sociale raramente si mostri poi capace di oggettivare se stesso, senza nemmeno accorgersi che il suo discorso apparentemente scientifico non parla tanto dell’oggetto quanto del suo rapporto con l’oggetto»235.

Il testo etnografico, dunque, non è valido nella misura in cui offre una

narrazione, quanto nella capacità di offrire una lettura della narrazione, una

lettura che tenga in conto, e sullo stesso piano, le istanze di tutti gli attori. Al

ricercatore spetta anche una presa di posizione netta, cioè una disponibilità

«alla responsabilizzazione delle azioni e delle conseguenze implicite nel suo

lavoro»236,occuparsi di migrazioni forzate significa, infatti, andare contro un

discorso pubblico dominante. Mi rendo conto che il mio lavoro etnografico è

imperfetto, forse troppo poco scientifico, ma è frutto di una presa di

responsabilità che mi ha portato poi ad entrare a far parte di un progetto a cui

tengo e credo molto. Ho deciso di mettermi in gioco in prima persona –

234Zygmunt Bauman, 2003, Una nuova condizione umana, Vita e pensiero, Milano, p. 48 235 Pierre Bourdieu, 1992, Risposte. Per un’antropologia riflessiva, Bollati-Boringhieri, Torino, p.280 236 Antonio De Lauri, Luigi Achilli (a cura di) 2008, Pratiche e politiche dell’etnografia, Meltemi, Roma, p.17

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nonostante i numerosi tentativi di farmi cambiare idea – perché volevo esser

parte attiva di una sfida al cambiamento. Durante tutto il mio soggiorno a

Parma, ho considerato il mio lavoro di campo non solo come un “dovere

universitario” ma anche, e forse ingenuamente, come un modo per dar

risonanza al progetto. Ecco perché ho voluto sottolineare più volte il concetto di

responsabilità, perché ho raccolto le loro voci per dar loro spazio, anche se solo

in una tesi o in sede di laurea. Ho voluto aggiungere anche la mia di voce, e

non solo nella scrittura; mi aspettano, infatti, numerosi incontri con gli studenti e

per quanto non sia per nulla a mio agio a parlare in pubblico, so che sarà

un’esperienza importante e arricchente. Ora vivo in Casa Rondani con Jerreh,

Daniele e Pedro che però ormai ha trovato casa e sta per trasferirsi, al suo

posto, tra qualche settimana, verrà Favour.

Jerreh ha diciannove anni, è arrivato in Italia dal Gambia quando ne aveva

appena sedici. È un cuoco eccezionale anche se la maggior parte dei suoi piatti

hanno come base il riso, che ormai stiamo mangiando ininterrottamente da

settimane. Scrive libri, canzoni, poesie. La mattina fa servizio civile e capita

spesso che vada nelle scuole a raccontare la sua storia e a spronare gli

studenti allo studio. La sera invece va alla scuola serale, quest’anno ha l’esame

di terza media. Il prossimo anno vorrebbe iscriversi all’alberghiero, così poi da

poter aprire un ristorante tutto suo in Gambia e dare lavoro ai suoi amici. Mi

chiama “princess” perché sono l’unica ragazza e si stupisce nel constatare

quanto io sia disordinata rispetto ai “maschi di casa”.

Daniele ha ventisette anni ed è uno specializzando di ematologia all’ospedale di

Parma. È di Alba e ha conosciuto Tandem grazie al Movimento dei Focolari.

Fissato con il cibo integrale e biologico, è quello che tenta di compensare la

cucina ricca di olio e piccante di Jerreh con piatti più salutari. Ci troviamo

spesso a chiaccherare e a raccontarci le nostre vite la sera, anche il sabato,

quando Jerreh va a ballare in discoteca, e noi ci troviamo sul divano a bere

tisane rilassanti sentendoci anziani. Ci siamo accorti di quanto, in realtà, siano

Jerreh e Pedro a doverci “integrare” nel territorio e a farci conoscere persone

nuove, non il contrario.

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Questo mi porta ad un’ulteriore riflessione conclusiva: l’importanza del sapere il

nome di un rifugiato e che lui/lei sappia il tuo. Può sembrare banale ma credo

che sia di vitale importanza non solo per eliminare la ghettizzazione e

l’isolamento ma anche per sostituire alle etichette di “rifugiato/a”-“immigrato/a”-

“clandestino/a”-“irregolare” dei volti, dei nomi e magari anche delle storie. La

formalità del “sentito dire al tg” crea solo distanza, diffidenza, muri e

impermeabilità all’empatia. L’informalità della conoscenza crea vicinanza

perché l’ingiustizia che una persona sta vivendo ti investe direttamente e ti fa

riflettere, ti chiama in causa, ti invita ad agire. Il non utilizzo di pronomi

impersonali mi serve proprio allo scopo di sottolineare il valore della

conoscenza del nome per far sì che l’esistenza di una persona sia ridotta ad un

pregiudizio. Credo fermamente in questa responsabilità che diventa sfida e

critica ai discorsi dominanti.

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Ringraziamenti Mi avevano assicurato tutti che la parte dei ringraziamenti sarebbe stata la più

facile e che, addirittura, c’era chi l’aveva scritta per prima. Per me non è così

ovviamente. Mi viene difficile – e un po’ mi imbarazza – dover ringraziare uno

per uno le numerose persone che, in un modo o nell’altro, sono parte del mia

vita. Ecco perché inizierò agendo d’astuzia: grazie a te che stai leggendo,

anche se non ho citato il tuo nome ti ringrazio perché ti interessa la mia ricerca

e mi stai sostenendo.

Ringrazio mamma e papà, le due persone più importanti della mia vita, vi

ringrazio per il continuo supporto e la fiducia incondizionata che ogni giorno mi

dimostrate. Vi voglio bene più di quanto possiate immaginare e, per quanto

possa sembrare banale o sdolcinato, sono quello che sono grazie a voi e a tutte

le esperienze che mi avete permesso di fare. Siete le mie radici mobili, la mia

sicurezza e la mia casa. Grazie.

Ringrazio nonna e nonno, i miei due pilastri. Non so cosa farei, o cosa sarei,

senza voi due. Vi voglio bene immensamente e sono davvero orgogliosa di

avere due persone così forti e belle nella mia vita. Siete il mio punto di

riferimento e un esempio positivo a cui assomigliare. Grazie.

Ringrazio le Winx, le amiche di una vita. Ringrazio la Gine per la tua

determinazione e la tua dolcezza, per amare gli stessi libri per ragazzine che

piacciono a me, per essere sempre pronta a stare dalla mia parte. Ringrazio la

Giuli perché ne abbiamo passate tante assieme, per la tua sicurezza e capacità

di ascolto, non ti ringrazio per avermi raccontato troppo nei dettagli l’esperienza

del parto però. Ringrazio la Me perché sei la mia amica del cuore e, per quanto

suoni da dodicenni, l’immagine del cuore è azzeccata perché fai parte di me,

anche se a distanza. Sei la mia confidente, la parete contro cui ho bisogno di

andare a sbattere, la mia personal shopper, la sorella che non ho (ma se ti

adottano i miei allora ci siamo vicine). Grazie donne.

Ringrazio la Ila e la Giuli, perché siete bellissime. Belle dentro e fuori, sempre

pronte a farmi ridere e a rassicurarmi. Le avventure più matte le ho vissute con

voi e non avete idea di quanto la vostra amicizia sia importante per me. Ili,

anche se tu e l’alcool dovete stare lontani, ti ringrazio per la tua solarità, per le

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tue espressioni così buffe, per il tuo essere gattara e per indovinare sempre i

regali perfetti. Giuli, ti ringrazio per la tua risata contagiosa, per il tuo essere un

vulcano, per l’essere così semplice confidarmi con te, per dimostrarmi il tuo

affetto prendendomi in giro costantemente. Grazie pastorizie mie.

Ringrazio Ric, che è il mio migliore amico, anche se sarà contrariato nel

leggerlo. Sei un brontolo rompi scatole, competitivo al massimo, sai come

smontare il mio ottimismo, mi conosci così bene da farmi perdere a Dixit,

passiamo anche mesi senza sentirci ma ti voglio bene perché so che posso

contare su di te in ogni momento. Grazie antipatico.

Ringrazio Barbara, la mia amica più recente, alla quale sono legata come se ci

conoscessimo da una vita. Siamo completamente diverse io e te ma abbiamo

saputo convertire questa diversità in affetto e rispetto. Ti ringrazio per esserti

aperta così tanto con me, per ascoltarmi ed essermi vicina anche se lontane,

per non indorarmi la pillola ed essere sempre sincera. Gracias chica.

Ringrazio Giulio e Anael, per la vostra sopportazione e il continuo confronto.

Non sapete quanto vi ammiri per la vostra profonda conoscenza, per farmi fare

esperienze sempre nuove e offrirmi ogni volta uno spunto di riflessione. Grazie

per essere così maledettamente interessanti, per essermi accanto, per impormi

la vostra gentilezza – già! – e farvi i chilometri solo per rendermi più

sopportabile Parma. Grazie davvero.

Grazie a tutti coloro che hanno reso possibile questa tesi: grazie a Mahamadou,

Ahmed, Tommaso, Pedro, Zadran, Giammarco, Lorenzo, Arif, Daniele, Jerreh.

Grazie al vostro esempio quotidiano. Grazie al Ciac e in particolare a Isabella e

Chiara, per la loro disponibilità e aiuto. Grazie alla mia relatrice, la

Professoressa Pinelli per avermi seguito in tutto il percorso di ricerca. Gracias

también a Puri, unas de las mejores profesoras que conozco, gracias por tu

ayuda y estìmulo continuos.

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