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Altarozzi - L'Euro tra economia e politica

Date post: 01-Dec-2023
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FOCUS Giordano Altarozzi L’euro tra economia e politica Negli ultimi anni, almeno dall’inizio della crisi nel 2008 e con una radicalizzazione costante, la moneta unica è stata accusata – in modo più o meno fondato, più o meno ideologizzato – di costitui- re l’origine dei problemi economici con cui si confrontano diversi Paesi europei. A fronte di una Germania che ha avuto tutto da gua- dagnare dall’istituzione della moneta unica, stanno i Paesi dell’area mediterranea, che invece sembrano aver avuto tutto da perdere. Tra questi, soprattutto l’Italia che, privata dei classici strumenti di poli- tica monetaria, non ha avuto i mezzi tecnici per difendersi dagli ef- fetti della crisi, scaricando sulla moneta una parte delle problema- tiche economiche con cui si confronta. L’impossibilità di svalutare la moneta – sostengono taluni – ha determinato un’accentuazione degli effetti della crisi economica, che è divenuta così più difficile da gestire, trasformando l’Europa meridionale in un mercato privi- legiato per i prodotti tedeschi, in un processo definibile in termini di “dumping monetario”. Così, mentre il Sud del continente si è an- dato progressivamente impoverendo, perdendo in termini di com- petitività, la Germania ha beneficiato della mancata svalutazione monetaria che, insieme alla maggiore produttività tedesca, ha de- terminato una crescita del PIL e quindi della ricchezza a tutto dan- no di Paesi come Grecia, Spagna, Italia. Risultato scontato di una simile analisi: se vogliono rilanciarsi ed evitare il default, i Paesi dell’Europa meridionale devono abbandonare – costi quel che costi – la moneta unica e tornare alle divise nazionali, riappropriandosi 61 Rivista di Studi Politici - S. Pio V
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FOCUS

Giordano Altarozzi

L’euro tra economia e politica

Negli ultimi anni, almeno dall’inizio della crisi nel 2008 e con una radicalizzazione costante, la moneta unica è stata accusata – in modo più o meno fondato, più o meno ideologizzato – di costitui-re l’origine dei problemi economici con cui si confrontano diversi Paesi europei. A fronte di una Germania che ha avuto tutto da gua-dagnare dall’istituzione della moneta unica, stanno i Paesi dell’area mediterranea, che invece sembrano aver avuto tutto da perdere. Tra questi, soprattutto l’Italia che, privata dei classici strumenti di poli-tica monetaria, non ha avuto i mezzi tecnici per difendersi dagli ef-fetti della crisi, scaricando sulla moneta una parte delle problema-tiche economiche con cui si confronta. L’impossibilità di svalutare la moneta – sostengono taluni – ha determinato un’accentuazione degli effetti della crisi economica, che è divenuta così più difficile

da gestire, trasformando l’Europa meridionale in un mercato privi-legiato per i prodotti tedeschi, in un processo definibile in termini

di “dumping monetario”. Così, mentre il Sud del continente si è an-dato progressivamente impoverendo, perdendo in termini di com-petitività, la Germania ha beneficiato della mancata svalutazione

monetaria che, insieme alla maggiore produttività tedesca, ha de-terminato una crescita del PIL e quindi della ricchezza a tutto dan-no di Paesi come Grecia, Spagna, Italia. Risultato scontato di una simile analisi: se vogliono rilanciarsi ed evitare il default, i Paesi dell’Europa meridionale devono abbandonare – costi quel che costi – la moneta unica e tornare alle divise nazionali, riappropriandosi

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così della politica monetaria. A sostegno di tale tesi vengono spesso proposti modelli tratti da Paesi che, ricorrendo in particolare a una svalutazione calcolata e governata della propria moneta, sono riu-sciti prima e meglio dei Paesi dell’area euro a invertire la tendenza e a registrare – già nel 2013 – una seppur lieve crescita del prodotto interno lordo. È il caso, per esempio, della Gran Bretagna, il cui PIL nel 2013 ha registrato una crescita annua dell’1,7%, nettamen-te superiore a quella della Germania, la cui economia è cresciuta, nello stesso arco temporale, dello 0,4%, e incomparabile con quella dei Paesi mediterranei (Italia -1,9%; Grecia -3,9%; Cipro -5,4%)1. Dati simili sono riscontrabili anche nel caso di altri Paesi mem-bri che ancora non hanno aderito all’eurozona e che presentano una struttura economica e produttiva diversa da quella britannica: Bulgaria +0,9%, Lettonia +4,1%, Romania +3,5%, Polonia +1,6%, Ungheria +1,1%. Discorso simile per i Paesi scandinavi, tra i quali il solo caso di crescita negativa è rappresentato dalla Finlandia (-1,4%), unico Paese dell’area ad aver aderito all’euro. La situazione non presenta differenze significative se si compara l’eurozona con

casi extraeuropei: il PIL americano, in cui la Federal Reserve e il governo hanno adottato misure economiche tese a proteggere, anche tramite lo strumento monetario, il sistema economico, è in-fatti cresciuto, nel 2013, dell’1,9% rispetto all’anno precedente; il Giappone, da parte sua, ha registrato nello stesso periodo una inco-raggiante crescita dell’1,5%2.

A prima vista, dunque, i dati relativi al prodotto interno lordo sembrerebbero confermare il fatto che l’adesione alla moneta unica abbia determinato una riduzione degli strumenti di politica moneta-ria capaci di rallentare ed eventualmente affrontare gli effetti della crisi economica.

1 I dati utilizzati sono disponibili all’indirizzo internet http://epp.eurostat.ec.europa.eu/tgm/table.do?tab=table&init=1&language=en&pcode=tec00115&plugin=1.

2 Ibidem.

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Se dai dati relativi al PIL si passa all’analisi di quelli relativi alla disoccupazione, la situazione non sembra cambiare. Mentre infatti, con l’eccezione pure importante della Germania (-0,4%), l’eurozo-na sembra soffrire, i Paesi che non hanno aderito alla moneta unica sembrano beneficiare di una boccata d’ossigeno che si traduce in

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una diminuzione della disoccupazione. È vero che in alcuni Paesi dell’area euro i dati relativi alla situazione lavorativa hanno regi-strato tenui miglioramenti, ma il livello particolarmente alto di di-soccupati continua a pesare gravemente su un sistema economico sull’orlo del collasso. Il Portogallo, per esempio, ha registrato una crescita dell’occupazione dell’1,2%, ma il livello di disoccupati ri-mane comunque nettamente superiore alla soglia del 10%. Stesso discorso, ma con ben altre cifre, nel caso spagnolo, che ha registrato una diminuzione del tasso di disoccupazione dello 0,7%, passando dal 26,5% del gennaio 2013 al 25,8% dello stesso mese dell’anno successivo. Per quanto riguarda la Grecia, la situazione è ancor più pesante: crescita della disoccupazione dell’1% tra gennaio e dicem-bre 2013, con una percentuale di disoccupati, alla fine del 2013, pari

al 27,5% della popolazione attiva. Senza registrare i dati pesanti di Spagna e Grecia, l’Italia sembra seguire lo stesso trend, con una crescita della disoccupazione pari all’1,1% (dall’11,8% del gennaio 2013 al 12,9% del gennaio 2014)3.

Rispetto alla pesante situazione dei Paesi dell’Europa meridiona-le, e in generale di quelli dell’eurozona, i Paesi che hanno mantenuto la moneta nazionale registrano situazioni meno “pesanti” anche dal punto di vista occupazionale, con evidenti ricadute sui consumi in-terni e quindi sulle capacità di ripresa economica. In tal senso, l’Un-gheria ha visto una riduzione sostanziale del numero di disoccupati, con una percentuale in calo dall’11,1% del gennaio 2013 all’8,8% del dicembre dello stesso anno (-2,3%); i Paesi dell’area scandinava hanno mantenuto una situazione pressocché stabile: la Danimarca ha conosciuto una riduzione della disoccupazione pari allo 0,4%; la Norvegia non ha subito alcuna variazione, attestandosi tra l’altro come il Paese con il più basso tasso di disoccupazione (3,6% del-la popolazione attiva); Finlandia e Svezia registrano una crescita del tasso di disoccupazione (+0,4% e, rispettivamente, +0,3%) tut-to sommato poco rilevante. La Gran Bretagna, beneficiando di una

3 I dati riportati sono il risultato di analisi effettuate sulla base dei dati forniti da Eurostat, disponibili all’indirizzo http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/employment_unemployment_lfs/data/database.

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situazione di crescita economica generale, registra a sua volta un miglioramento del tasso di disoccupazione, che passa dal 7,9% del gennaio 2013 al 7,1% del dicembre dello stesso anno.

I dati relativi alla situazione macroeconomica dei Paesi europei non risulterebbero però completi se non si tenesse conto di un altro

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dato fondamentale, ossia il tasso di indebitamento degli Stati. In situazioni di crisi, infatti, il rilancio dell’economia reale è possi-bile, tra l’altro, attraverso politiche volte all’espansione della base monetaria, possibile sia attraverso la stampa di moneta – e quindi attraverso la sua svalutazione – che attraverso il ricorso alla cresci-ta del debito pubblico. Da più parti, però, si denuncia il fatto che l’adesione all’euro si sia tradotta nella sostanziale rinuncia a questi due strumenti. Se infatti l’adozione della moneta unica ha significa-to la perdita di controllo sul deprezzamento della moneta, essa si è tradotta anche in una serie di limiti in merito al rapporto deficit/PIL.

Con poche eccezioni – tra cui quello, significativo, della Spagna,

che registra una crescita di tale rapporto dell’1%, passando dal 9,6% al 10,6% tra il 2011 e il 2012 – i Paesi dell’eurozona hanno cono-sciuto politiche di austerità che si sono tradotte in una riduzione del rapporto deficit/PIL, mentre i Paesi che non hanno aderito alla

moneta unica hanno avuto politiche divergenti, che vanno dal caso danese con una crescita del deficit del 2,3% a quello inglese con una

riduzione dell’indebitamento pubblico pari all’1,6%, ma pur sempre entro limiti elevati (6,1%)4.

Tirando le somme, a prima vista i dati riportati sembrerebbero dare ragione a quanti sostengono che, per i Paesi più deboli dell’eu-rozona, la cosa giusta da fare sarebbe rinunciare alla moneta uni-ca per riappropriarsi così di quegli strumenti di politica monetaria che, opportunamente usati, potrebbero favorire l’uscita dalla crisi o comunque riuscirebbero a meglio contenerne gli effetti negativi, soprattutto sociali. Nella particolare congiuntura storica, infatti, un euro forte rischia di erodere gli effetti positivi che la politica di au-sterità varata dai Paesi dell’eurozona – e non solo – avrebbe potuto produrre, facendo perdere a questi ultimi competitività sul mercato internazionale. E gli effetti positivi, da parte loro, non sembrano sufficienti a controbilanciare quelli negativi. L’arrivo di capitali

stranieri nell’area euro hanno infatti rafforzato la moneta unica e abbassato leggermente gli spread, ma non sono valsi a risolvere il

4 Dati disponibili all’indirizzo http://epp.eurostat.ec.europa.eu/tgm/table.do?tab=table&init=1&language=en&pcode=tec00127&plugin=1.

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problema di fondo, che è insieme strutturale e politico, ossia quello della discrepanza tra gli Stati dell’area5.

Si giunge in tal modo al nocciolo del problema. Appare infatti lecito chierdersi se sia proprio l’euro l’origine di tutti i mali, così come affermano tanti think tanks nonché prestigiosi economisti, ol-tre che un nutrito numero di esponenti politici pronti a cavalcare gli orientamenti di un’opinione pubblica non sempre adeguatamente informata. E la risposta, a nostro avviso, è negativa. Anche tenendo conto dei singoli fattori macroeconomici, non è affatto scontato af-fermare che la moneta unica abbia costituito, in una prospettiva di lunga durata, un elemento di instabilità e addirittura di crisi. Secondo uno studio effettuato nel dicembre 2013 e inerente l’evoluzione del-l’economia italiana, infatti, risulta come l’adesione alla moneta uni-ca abbia favorito il commercio con l’estero, non abbia avuto effetti significativi su inflazione e spread e abbia generato effetti negativi in termini di crescita e produttività6. La moneta unica di per sé non costituisce la causa dei problemi con cui si confrontano le economie dell’eurozona, che sono problemi di natura principalmente politica. Essa è e rimane pur sempre uno strumento economico uguale in tutto e per tutto alle singole monete nazionali che ha sostituito, e quindi le politiche che potrebbero essere applicate dai singoli Stati, potrebbero esserlo anche a livello di unione monetaria. Ovviamen-te, ciò presupporrebbe la volontà politica di identificare e applicare

quelle politiche necessarie a ridurre la forbice esistente tra Paesi che – come la Germania – hanno una situazione economica positiva e quelli che invece, come i cosiddetti “pigs” (Portogallo, Irlanda, Gre-cia, Spagna, cui si aggiunge l’Italia), soffrono anche in ragione della politica monetaria adottata da una Banca Centrale Europea spesso percepita come eccessivamente “germanocentrica”. Tradotto in altri

5 Cfr. Carlo Bastasin, Un euro troppo forte e un’economia troppo debole, in «Il Sole 24 Ore», 8 marzo 2014, disponibile all’indirizzo http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-03-08/un-euro-troppo-forte-e-economia-troppo-debole-081553.shtml?uuid=AB3PRe1.

6 Cfr. Paolo Manasse, Tommaso Nannicini, Alessandro Saia, Euro sì, euro no:

ecco i veri effetti sull’Italia, disponibile all’indirizzo internet http://www.linkiesta.it/sites/default/files/linktank_-_effetti_euro_0.pdf.

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termini, ciò significa che in primis la Germania dovrebbe accettare di farsi carico di una parte delle difficoltà economiche registrate dai

Paesi dell’area euro consentendo una politica monetaria che prenda in calcolo la possibilità di svalutazione della moneta unica, a pro-prio danno ma a beneficio delle altre economie della regione.

In tal modo calcolo politico e interessi economici finiscono per

sovrapporsi, ed è inutile dire che, in un contesto di euroscetticismo dilagante, a primeggiare dovrebbe essere il primo. La moneta uni-ca non è, infatti, un semplice strumento economico, ma costituisce anche un elemento identitario e quindi politico, “un potente sim-bolo dell’unità e dell’identità europea”7, come riconosce la stessa Commissione Europea. Al di là del semplice calcolo economico, dunque, l’uscita di uno o più Paesi dall’eurozona si tradurrebbe non solo in una questione economica, ma significherebbe un enorme

passo indietro sulla strada dell’integrazione europea, facendo torna-re l’Unione Europea allo stadio di semplice area di libero scambio e vanificando in tal modo gli sforzi fatti per giungere a quegli Stati

Uniti d’Europa che costituirono l’obiettivo dei padri fondatori.

7 Cfr. Commissione Europea, L’Unione economica e monetaria e l’euro, Com-missione Europea – Direzione Generale della Comunicazione, Bruxelles 2012, p. 4.

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