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Benjamin flâneur

Date post: 25-Feb-2023
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Roberto Ciccarelli Benjamin flâneur*. Per una genealogia del quinto stato da Il culto del capitale. Walter Benjamin: capitalismo e religione, a cura di Dario Gentili, Mario Ponzi e Elettra Stimilli, Quodlibet Il Quinto Stato Nella città assediata dall'austerità e dalla speculazione finanziaria è nato uno strano proletariato. “La maggior parte del suo lavoro è sempre stato temporaneo, insicuro, itinerante e precario – scrive David Harvey – Molto spesso sfonda il confine tra la produzione e la riproduzione. Nuove forme di organizzazione sono assolutamente necessarie per questa forzalavoro che produce e, cosa ancora più importante, riproduce la città”[1]. Questo proletariato lo definisco Quinto Stato[2]. Esso comprende lavoratori autonomi, dell'arte e della cultura. Gli addetti alla logistica e quelli ai servizi, i venditori di strada immigrati, gli artigiani, i lavoranti di giornata. Il precariato giovanile e non solo, unica forma di vita nella metropoli. Questa moltitudine non è riconducibile alla sfera ufficiale della politica, non rientra nei canoni del movimento operaio e difficilmente può essere ridotto a quello neoliberista della plebe dei consumatori. Il Quinto Stato è l'universale condizione di apolidia in patria in cui vivono milioni di donne e uomini ai quali non vengono riconosciuti i diritti sociali fondamentali. Il Quinto Stato è la condizione di milioni di stranieri che subiscono l'esclusione dai diritti di cittadinanza a causa della loro extraterritorialità in uno Stato[3]. Questo strano proletariato, di cui faccio parte, è il risultato della negazione della cittadinanza di chi desidera abitare in una città ed è la premessa per individuare una forma di vita differente nella città. Oggi migliaia di sfrattati, precari e poveri urbani, artisti o lavoratori indipendenti si fanno largo nei centri storici straziati dalla rendita fondiaria o nei deserti periferici delle terre perdute e occupano, autogestiscono strutture, relazioni e economie[4]. Non hanno uno Stato, hanno perso un territorio, ma forti della loro apolidia vogliono ricostruire la città o fondarne una nuova. Pronti a riprendere la loro strada. Genealogia Il Quinto Stato era in fasce quando il suo antenato, il Quarto Stato, il proletariato moderno, fece il suo esordio sulla ribalta politica di Parigi, capitale del XIX secolo. I “Quintari” erano sia gli artisti, poeti o pittori apolidi alla ricerca di un ingaggio, una commissione, un committente, sia il
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Roberto Ciccarelli

Benjamin flâneur*. Per una genealogia del quinto stato

da Il culto del capitale. Walter Benjamin: capitalismo e religione,

a cura di Dario Gentili, Mario Ponzi e Elettra Stimilli, Quodlibet

Il Quinto Stato Nella città assediata dall'austerità e dalla speculazione finanziaria è nato uno strano proletariato. “La maggior parte del suo lavoro è sempre stato temporaneo, insicuro, itinerante e precario – scrive David Harvey – Molto spesso sfonda il confine tra la produzione e la riproduzione. Nuove forme di organizzazione sono assolutamente necessarie per questa forza­lavoro che produce e, cosa ancora più importante, riproduce la città”[1]. Questo proletariato lo definisco Quinto Stato[2]. Esso comprende lavoratori autonomi, dell'arte e della cultura. Gli addetti alla logistica e quelli ai servizi, i venditori di strada immigrati, gli artigiani, i lavoranti di giornata. Il precariato giovanile e non solo, unica forma di vita nella metropoli. Questa moltitudine non è riconducibile alla sfera ufficiale della politica, non rientra nei canoni del movimento operaio e difficilmente può essere ridotto a quello neoliberista della plebe dei consumatori. Il Quinto Stato è l'universale condizione di apolidia in patria in cui vivono milioni di donne e uomini ai quali non vengono riconosciuti i diritti sociali fondamentali. Il Quinto Stato è la condizione di milioni di stranieri che subiscono l'esclusione dai diritti di cittadinanza a causa della loro extra­territorialità in uno Stato[3]. Questo strano proletariato, di cui faccio parte, è il risultato della negazione della cittadinanza di chi desidera abitare in una città ed è la premessa per individuare una forma di vita differente nella città. Oggi migliaia di sfrattati, precari e poveri urbani, artisti o lavoratori indipendenti si fanno largo nei centri storici straziati dalla rendita fondiaria o nei deserti periferici delle terre perdute e occupano, autogestiscono strutture, relazioni e economie[4]. Non hanno uno Stato, hanno perso un territorio, ma forti della loro apolidia vogliono ricostruire la città o fondarne una nuova. Pronti a riprendere la loro strada. Genealogia Il Quinto Stato era in fasce quando il suo antenato, il Quarto Stato, il proletariato moderno, fece il suo esordio sulla ribalta politica di Parigi, capitale del XIX secolo. I “Quintari” erano sia gli artisti, poeti o pittori apolidi alla ricerca di un ingaggio, una commissione, un committente, sia il

popolo dei lavoratori autonomi di prima generazione, contadini, sarti, coltellinai e artigiani che costituirono la base di tutte le insurrezioni francesi, e non solo parigine, dal 1830 in poi[5]. Prima condizione per parlare di Quinto Stato è dunque non ridurne l'appartenenza al solo ceto degli intellettuali perché all'origine del movimento operaio – come ha dimostrato Edward Thompson, esistono diverse “classi operaie”[6]. Dunque non parliamo solo di quella specializzata o di mestiere nell'industria manifatturiera, per più di un secolo considerato l' “unico” soggetto della rappresentanza del mondo del lavoro, ma del lavoro indipendente, autonomo, precario o intermittente. Una condizione dalla quale si sollevò il soggetto dell'operaio di mestiere e poi quello professionale, ma che tuttavia non è mai scomparso e, anzi, si riafferma oggi nel campo che gli è sempre stato proprio: l'essere tra il lavoro e l'impresa, tra l'iniziativa autonoma, il servaggio e il lavoro subordinato. All'origine c'è una pluralità di lavoratori, non una classe omogenea. Questa realtà era conosciuta dai giuristi che per primi regolarono il lavoro moderno. Nel Codice Napoleonico il lavoro autonomo è stato codificato a partire da quello dei domestici, degli operai e dei lavoratori manuali (gens de travail), coloro che mettono liberamente la propria opera al servizio degli altri. Si trattava di ricondurre gli indipendenti ad un lavoro subordinato. In seguito, con l'affermarsi del lavoro salariato, si è affermato un altro tipo di contrattazione che ha riconosciuto i diritti del lavoro dipendente prima di quello indipendente, assimilato sempre più alla libera iniziativa, al lavoro professionale o all'impresa. Il movimento operaio nasce prima che il lavoro fosse perimetrato nella cittadella del lavoro salariato, regolato dal contratto di lavoro a tempo indeterminato dove il datore di lavoro viene distinto nettamente dal lavoratore, mentre a quest’ultimo viene attribuita l’identità di chi subordina la propria opera alla volontà altrui. Oggi che il lavoro salariato è stato gravemente compromesso da forme risorgenti di schiavitù e di proletarizzazione, e il patto sociale che l'ha elevato a regola non garantisce la tutela dei diritti fondamentali né per i dipendenti né gli indipendenti, siamo tornati all'inizio del XIX secolo. E la moltitudine di soggetti operosi del Quarto Stato che a quel tempo diedero vita alle prime forme dell'auto­organizzazione operaia, e alla loro insurrezione, oggi si ripresenta in forme e linguaggi molto diversi nella condizione del Quinto Stato. In questa archeologia non esiste un soggetto che trapassa le epoche e si ripresenta sulla scena della storia sempre uguale a se stesso. Esistono invece dispositivi e rapporti di forza che cercano di regolare una condizione che, in virtù della crisi economica attuale e della trasformazione della produzione in senso postfordista e dell'accumulazione capitalistica in senso finanziario, ritorna di attualità. In realtà non è mai scomparsa, come dimostreremo anche in questo saggio, perché il Quinto Stato vive in una zona grigia sospesa tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, dove la distinzione tra attività e risultato è ambigua per costituzione. Non si distingue cioè l’attività del

lavoro dal risultato del lavoro come oggetto della locazione di opere[7]. In altre parole, non viene mai tutelata la persona che lavoro, ma solo il contenuto di un'opera qualsiasi. Questa persona è dunque costretta a identificarsi nel suo lavoro, visto che la legge non vuole riconoscere la sua autonomia dalla merce prodotta. La sua intenzione, e la sua soggettività, vengono annientate rispetto ad un libero legame obbligatorio, regolato da una legislazione o da codici deontologici. Un lavoro è indipendente solo se rispetta un vincolo professionale, sociale o giuridico. Alla libera forza lavoro, cioè all’esercizio dell’autonomia professionale, intellettuale o sociale sul lavoro, e nella società,viene negato ogni riconoscimento. Un lavoratore può essere indipendente solo a condizione di rientrare in un rapporto di lavoro salariato. Questo vale per tutte le attività condotte al di fuori del vincolo del lavoro subordinato: da quella artistica a quella della mera sopravvivenza. Nella storia della lotta contro il lavoro salariato, e contro il capitalismo, si sono affermate diverse tipologie di figure che hanno predicato il rifiuto o la resistenza, mostrando soluzioni alternative per realizzare una forma di vita più vicina ad un'idea di vita indipendente. Proponendo quella di flâneur Walter Benjamin ha cercato di affrontare questo problema. Userò questa figura come prototipo archeologico utile per descrivere l'attuale condizione del Quinto Stato, alla luce di un problema politico. La pauperizzazione del ceto medio e lo sfruttamento delle classi subalterne non avranno limite, finché non sarà chiara l’esigenza di garantire l’indipendenza come prerogativa sia del ceto medio in crisi, che del precariato, del lavoro autonomo e di quello dipendente. Inoperosità La tesi sembra essere davvero sacrilega. In tempi di disoccupazione di massa, e a seguito della trasformazione strutturale del lavoro a cui ho accennato, l'operosità che caratterizza le attività umane ha assunto uno statuto inedito. Il flâneur, e non il salariato, è la condizione del nostro presente, se per lavoro intendiamo quello indipendente. Nel capitalismo tale origine non deriva da una posizione del soggetto rispetto ad un contratto di lavoro, oppure ad un rapporto di produzione definito per l'eternità. Il capitale è una macchina ideata per acquisire il valore potenziale di una prestazione lavorativa, ciò che è produttivo in un atto meccanico, ciò che è virtuoso in un atto intellettuale. La macchina si fonda sulla soggettività, vale a dire sull'attitudine del singolo ad essere così e non altrimenti. Il lavoro ingabbia tale potenzialità in un'identità di ruolo o mansione, negando la possibilità di essere altrimenti. Per l'individuo questa è un'incrinatura profonda della sua auto­percezione, una violenza rispetto al desiderio di non essere così come appare. Questa individuazione non è definitiva. Il lavoro capitalistico permette una progressiva assimilazione, e dunque distruzione, dei caratteri, degli affetti e dei percetti nella sua macchinazione fino all'irreversibilità. Il punto

limite dell'individuazione della soggettività nella macchina è la perdita del lavoro, l'oggetto della sua razionalità di scopo. La disoccupazione, l'inoccupazione e la precarietà sono dispositivi che mantengono al lavoro la soggettività cercando di estrarre il valore stesso di una vita: il suo corpo, la sua mente, il tempo vuoto di una vita apparentemente senza scopo. Il disoccupato lavora per la macchina che lo esclude. Se è questa la realtà della soggettività messa al lavoro oggi nel capitalismo in crisi, allora si può dire che è stata sovvertita l'equazione capitale=progresso. È un'affermazione insospettabile del pensiero di Benjamin, potente confutazione del determinismo nell'idea di progresso. Visto che allora il vettore storico del capitalismo è stato sovvertito, e la capacità di accumulazione riguarda solo ormai il capitale finanziario, a quale soggetto si rivolge la macchina? Al flâneur, al giocatore, allo studente, all'ozioso, al detective, al dandy e all'apache, insomma a tutte le figure del rifiuto del lavoro salariato identificate da Benjamin. La necessità di sanzionare, e punire, tutte le figure dell'inoperosità sociale e politica – perché tutti devono essere messi al lavoro, cioè alla ricerca di un lavoro salariato che non esiste – dimostra l'insospettabile attualità del Baudelaire di Benjamin. Questa è dunque la nuova situazione: “L'onnipotenza del flâneur approfitta di tutte le occasioni. L'onnipotenza del giocatore lo mostra superiore non solo al suo partner, ma anche a chiunque lavori. L'onniscienza [dello studente è l'attestato di nobiltà di ogni ozio, e quella] del detective è una copia dell'onniscienza che un giorno giudicherà il colpevole”[8]. Si dirà che oggi la posizione del flâneur è occupata da Walter Buffet o da George Soros. Speculatori incalliti, ragionevolmente interessati alla portata devastante del capitale finanziario sulla realtà, persino sensibili al pericolo di una lotta di classe condotta dal Capitale contro il lavoro. In questi casi il non operare, il solo respirare, produce un movimento di migliaia di miliardi in borsa e la distruzione di milioni di vite nel mondo. Qui l'operosità ha ancora uno scopo, forse l'unico superstite in una società ormai resa inoperosa dalla crisi e dalla speculazione finanziaria selvaggia: la redditività e la morte. La figura abissale del flâneur, almeno quella che emerge in Benjamin, è radicalmente distante da questi semi­dei contemporanei. Oggi rappresenta la maggioranza nella società del non lavoro. Poteva essere un'eccezione in quella borghese, un soggetto superstite in un mondo che desiderava essere messo la lavoro in una gerarchia di schiavi salariati. In cambio, essi avrebbero ottenuto il reclutamento nel ceto medio, per almeno un secolo zona di compensazione nella lotta di classe. L'inattività oggi è invece imposta a interi strati sociali che pure aspirerebbero a produrre valori d'uso, almeno per sopravvivere. L'inoperosità è la cifra del presente. Ma l'inoperosità, in quanto assenza di lavoro salariato, non è tuttavia assenza d'opera.

Resistenza Il flâneur vive una contraddizione. In quanto poeta o artista è inoperoso, quindi potenzialmente pericoloso e sanzionabile. In quanto singolarità è una forza­lavoro potenziale, pronta a diventare merce da scambiare sul mercato con un'etichetta che indica il suo prezzo. Questa singolarità tuttavia mantiene un'originalità che nutre una potenza che la rende unica, dunque riconoscibile e commerciabile. Il flâneur è una forza del passato. Si sottrae alla corrente moderna di un mondo messo al lavoro per il profitto di pochi. È un aristocratico, residuo di un'esistenza basata su privilegi ereditari che nella società feudale assicurava l'inattività a determinati strati sociali. La sua esistenza è anche una merce moderna e un prodotto personale. Resta prigioniero in un mondo di merci. Vive sempre al di là di questo mondo. Vorrebbe vivere altrimenti da quello che è: merce integrale. Vuole sottrarsi, ma le sue azioni hanno un solo scopo: il diventare merce della forza­lavoro, quella specialissima merce che costituisce il soggetto in quanto tale: il lavoro. La flâneurie è “l'ebbrezza prodotta dalla struttura del mercato”, scrive Benjamin a Max Horkheimer[9], ma è anche lo spettro della povertà. Questa è la storia della soggettività moderna fondata sulla riproduzione della propria alienazione. È il dilemma in cui si è ritrovato l'intellettuale, e l'artista, otto­novecentesco: la sensazione di essere un demiurgo, l'angoscia di essere ridotto a una merce. Nella stessa situazione si trovano oggi i lavoratori autonomi, a partita Iva, che svolgono attività di intermediazione o consulenza, che conducono attività creative e intellettuali. Baudelaire ne è il prototipo archeologico e incarna, nell'opera e nella sua persona, la stessa contraddizione. Costruisce una teologia dell'ozio, alla base del suo “satanismo”, come della poetica dello spleen. “Ciò che la terra, nel suo ordinamento economico e giuridico, toglie all'artista e al poeta, il flâneur, nella figura dell'ozioso, lo strappa al cielo per sé”[10]. Il flâneur è l'eroe di questa modernità, scrive Benjamin. A differenza di quello classico, questo eroe recita una parte, non si identifica con il ruolo. Lo cambia come un vestito. Egli è tutti e nessuno. Questa è la sua tragedia: solitario come pochi, il flâneur vuole popolare la separazione con il mondo. Alla fine resta sospeso tra una nudità e un travestimento in cui non si riconosce. Il suo desiderio destinato ad essere sconfitto, in una costante oscillazione tra libertà e coazione. L'impotenza nel tracciare in una folla metropolitana il principio dell'individualità accresce l'isolamento e aumenta la sua inaccessibilità. Benjamin ne desume una legge forgiata nel mondo delle merci e tragicamente separata dall'auspicio di goderne fino in fondo. Il soggetto vuole partecipare allo spettacolo della metropoli, merce umana tra merci qualunque. E tuttavia questa soggettività resta indecisa, frantumata, pura e temibile potenzialità in un

universo oggettivato. Non tutto può avere un prezzo. Per questa ragione il flâneur è una figura della resistenza. Sandwitch Nel flâneur il piacere è accompagnato dalla paura. È il suo naturale risvolto. Il mondo è quello della prostituzione generalizzata. L'acquisto di una prestazione sessuale è commisurabile a quello di una poesia. E così per un servizio qualsiasi. Baudelaire non ha mancato di descrivere il piacere torbido nascosto in ogni scambio monetario. La voluttà di sapersi acquistabile mantiene inoltre un nesso con la paura di imbattersi in un acquirente. Nell'esposizione universale delle merci, degli scritti e dei corpi non c'è nemmeno bisogno di cercare un mercato, poiché a malapena è possibile sottrarsi a esso. Al punto che basta esistere, mostrarsi, senza impegnarsi in alcuna attività. In questo orizzonte il gesto della flâneurie diventa insensato. Non si può perdere tempo, bisogna stare sul mercato. Produrre ed esseri prodotti. Così finisce la parabola del flâneur: l'altissimo poeta che era in lui alla fine si rimpicciolisce e, per trovare una paga da pochi centesimi, si traveste da uomo­sandwitch. Il poeta si mangia, fa pubblicità, non diversamente da chi oggi in una fiera di prodotti tecnologici o in un'Expo erede dell'esposizione universale a Parigi del 1867 fa pubblicità ad una compagnia telefonica. O lavora gratis come i 18 mila ragazzi “apprendisti” che lavoreranno sei mesi a Milano nel 2015[11], forse nella speranza di mettere un'esperienza nel curriculum e aspirare ad un posto precario. Il flâneur, ieri come oggi, è davvero entrato nei panni della merce. Va a passeggio a pagamento, crea relazioni, cattura l'attenzione. La sua ispezione del mercato è diventata un lavoro, anche quando è gratuito[12]. Si aggira in una città, così come viaggia in un universo popolato da merci. Al tempo di Baudelaire, questa esperienza era il risultato di una discontinuità epocale. Oggi rappresenta invece la transizione che ciascuno compie in una sola vita, da bambino verso l'età adulta, e poi quando entra, esce e ritorna nel mercato. L'immedesimazione con la merce, e il riconoscimento di essere una merce acquistabile come tante altre, è il sintomo traumatico di un passaggio di fase nella vita professionale di un individuo. Così come resta l'auspicio di chi è disoccupato. Tornare a lavorare, quindi ad essere merce remunerata secondo un prezzo prestabilito. Tale acquirente (il committente delle partite Iva, oggi) Baudelaire non l'ha mai trovato, diversamente da molti suoi colleghi. O almeno non l'ha trovato stabilmente, come accade in molti casi. Per idiosincrasia, decisione politica, intimo convincimento nel resistere alla mercificazione universale. Questo rapporto con il proprio doppio mercificato, il ruolo standard che si traduce nella capacità di erogare prestazioni regolari e contingentate, produce angoscia.

Ma è anche la fonte di una speranza: restare entro certi termini, quelli stabiliti dal soggetto, dentro e contro il mercato. Il flâneur vive per vendere. Ma non tutto può essere venduto. Si spiega così la paura di trovare, effettivamente, un acquirente disposto a pagare le sue prestazioni. L'impossibilità di questa impresa traduce una situazione sull'orlo dell'implosione. Ma questa è l'ultima speranza, la più folle e la più realistica, di salvarsi dall'essere solo un sandwitch. Vita operosa Nella flâneurie emerge l'idea che il profitto dell'ozio abbia più valore di quello del lavoro. Una provocazione rispetto al carattere produttivistico del marxismo e alla morale calvinista del capitalismo. Entrambi hanno stretto un patto diabolico che nega il valore della vita contemplativa come della vita activa. Per ricevere il premio finale, il tempo viene vincolato alla produzione. La vita attiva degli uomini non può defluire impunemente verso l'ozio e per questo viene ridotta al rispetto di una fitta serie di compiti sovra­ordinata. In questa gerarchia totalitaria emergono tuttavia clamorose contraddizioni. Chi produce e chi consuma non sono uguali. Il primo annienta la propria esistenza mettendo a disposizione la propria vita sull'altare di un dovere disumano. Il secondo gode di un potere che va al di là del semplice sfruttamento del lavoro altrui. L'uno è schiavo, l'altro è padrone. “L'astinenza alla quale la classe produttiva condanna se stessa obbliga il capitalisti a dedicarsi al consumo eccessivo dei prodotti creati faticosamente dai lavoratori” ha scritto Paul Lafargue[13]. La flâneurie è una condotta di vita in aperta polemica con la classe di iper­consumatori non produttori e con la classe che si auto­impone una disciplina basata sul lavoro e l'astinenza. Ciò la porta la martirio, alla miseria, al gigantesco spreco di una forza produttiva donata ad una classe di tiranni per pochi centesimi e con dodici­quattordici ore di lavoro al giorno. L'elogio della flâneurie, la teologia dell'ozio,è un appello agli spossessati per riconoscere la propria singolarità, il diritto ad un'esistenza degna. Per contestare il conformismo di chi, per guadagnare, scrive la verità di Stato. L'ozio, precisa Benjamin, non è assenza d'azione. Al contrario, è un'attività operosa, un lavoro su di sé e dunque sul tempo della vita, la costruzione di un attitudine, la definizione di una condotta auto­governata. Il poeta, lo studente “che non smette mai di studiare”, il collezionista, l’ozioso che non è mai stanco delle cose nuove da vedere e il “grand seigneur dedito all'inoperosità”, il giocatore e lo schermitore non rifiutano solo il lavoro salariato, ma prendevano le distanze dalla mercificazione della vita contemplativa. Non vogliono solo slegare la contemplazione da una vita legata al consumo e alla sovrapproduzione, ma negare ogni utilità economica e religiosa all’ozio. La flâneurie è una sfida alla regola di vita del capitalismo. Per questo contesta la divisione tra vita activa e vita contemplativa, tra il lavoro della conoscenza e il lavoro salariato, tra autonomia

e subordinazione e tra governanti e governati. E, infine, riconoscere che in questa “vita” risuona una potenza indipendente dalle offerte del mercato, come dalla spada dello Stato, alla quale gli uomini non possono rinunciare: una vita indipendente[14]. L'operosità di forme di vita non riducibili ad una razionalità economica, che annienta i valori e i fini estranei ai rapporti di lavoro e con il denaro, traduce il progetto politico intuito da Benjamin nella sua reinvenzione della flâneurie di Baudelaire. Questa intuizione ha percorso sotto traccia la storia del movimento operaio e si afferma nel marxismo al di là delle letture positivistiche del XIX o del XX secolo. Per comprenderne l'attualità bisogna allargare il campo dal lavoro intellettuale ­ che resta la prospettiva di Benjamin ­ a tutte le forme dell'operosità umana. La percezione di un altro modo di vivere, un'illuminazione poetica o intuizione di un'immagine del futuro, nasce lavorando sui telai, sui torni, nelle botteghe, nei forni, così come accade vergando poesie o dipingendo quadri. È la percezione di un mondo altro che prospetta a milioni di persone che la ricerca della verità è una delle possibilità a disposizione della vita di ciascuno. In questa cornice riconsideriamo l'obiettivo della flâneurie: “Mutare l’intera Parigi in un intérieur, in un’abitazione le cui stanze, non divise da soglie come le camere vere e proprie, sono i quartieri, così, d’altro canto, la città può schiudersi al passante da ogni parte come una paesaggio senza soglie”[15]. Con la fine della teologia hegeliana e la scoperta dell’immanenza, nasce il desiderio di realizzare un altro mondo dentro questo mondo. La città è l’interno della mia vita, questo telaio o questo computer sono il cervello con cui lavoro. Questo mondo, questa mano, questo cervello, sono nostri. Cospirazione “Dietro le maschere di cui si serviva, il poeta in Baudelaire si garantiva l'incognito. (…) La sua versificazione è paragonabile alla pianta di una metropoli, in cui si ci può muovere inosservati, nascosti dagli edifici, dai passi carrai o dai cortili”[16]. L'anonimato è la premessa per costruire l'identità di un soggetto calcolante. Diversamente dall'imprenditore, per il quale il calcolo è l'attitudine per accumulare risorse e valori monetari, questo soggetto affila una competenza strategica basata sulla produzione di un effetto, sul calcolo di una sorpresa. In quanto poeta, il sapere che nutre la competenza è una lotta con il lettore o il committente: un editore, il direttore di un giornale. “Calcola i suoi effetti passo dopo passo”, scrive Benjamin. E mantiene un vantaggio rispetto a chi lo aspetta, presumibilmente alla luce, in platea, o in un caffè. Lui invece si muove nell'ombra e affila l'ingegno per stupire il pubblico. Il lavoro viene descritto come un teatro. C'è un testo, l'intreccio, la sorpresa, l'agnizione, l'applauso e la contestazione. Il protagonista è uno degli eroi della modernità politica e capitalistica: il cospiratore. “Baudelaire cospira con la lingua stessa”, scrive Benjamin, perché ogni poeta lavora con la lingua. Ma se spostiamo il ragionamento sul giornalista o sul lavoratore

della conoscenza, sul lavoratore autonomo o indipendente, ­ figure che hanno un rapporto altrettanto intenso con i linguaggi anche se, diversamente dal poeta, fanno un uso informativo o strumentale della parola ­ questa idea del lavoro come cospirazione, e azione nell'anonimato, è di un interesse straordinario. Queste figure si muovono nella città e svolgono attività operose. Non possono fare altrimenti: lavorano a contatto con la folla – fonte di notizie – si rivolgono ad un pubblico, soddisfano clienti, erogano servizi, si adeguano al gusto di un lettore, oppure lo provocano. La loro vita – individuale e professionale – è esposta agli occhi degli altri. È la coazione del lavoro indipendente: la ricerca di un committente, in una città ricca di stimoli da trasformare in committenze. Questa è la realtà di un lavoro che, per sua natura, non può essere salariato, ma indipendente: da lato c'è un fornitore di servizi, dall'altro lato un committente. I confini tra questi ruoli è mobile, produce angoscia, rivela un mercato stratificato. In questo teatro, che si allarga alla città intera, esplode il conflitto. La cospirazione è necessaria per proteggersi dalle angherie dei committenti, da un mercato che segue gli interessi dei capitalisti. Oppure dal capriccio delle mode. Benjamin invita a seguire questo intrigo permanente sulla mappa di una città. Quella dei lavoratori indipendenti, siano essi poeti o fornitori di servizi, è una deriva urbana. Muovendosi, le loro parole “ricevono il loro posto preciso, come accade ai congiurati prima della rivolta”, aggiunge Benjamin. Il cospiratore vuole restare solo. È una sua prerogativa: cambiare ruolo e assomigliare a nessuno. Se deve “cospirare” ha bisogno tuttavia di altre persone. Per muoversi nella città, costruire una mappa, istituire una topografia cospirativa, un'immaginazione antagonista alla dura realtà della vita urbana. Deve farlo per creare un “effetto”, un urto colossale, un colpo di scena. Le masse insorte, oppure quelle che fluiscono nell'esposizione delle merci più scintillanti, ridisegnano il panorama, rifondano il senso delle cose, il loro stesso apparire. Ad esempio, il feuilletton. Grande rivoluzione della stampa, ha cambiato i giornali, introducendo la pubblicità, elevando i cachet dei grandi scrittori, da Dumas in poi. Ma non il reddito dei giornalisti o dei poeti. Benjamin raccoglie la leggenda di interi battaglioni di schiavi della penna messi al lavoro dalle star del feuilletton negli scantinati. Sono le stesse voci che si rincorrono oggi in Italia a proposito di alcune star del giornalismo. Verosimili o meno, queste voci rivelano l'utilità della cospirazione: resistere, inventare altri percorsi, adeguarsi alla miseria di un lavoro senza accontentarsi. La regola generale resta sempre la stessa: si agisce da anonimi, si respira e si agisce insieme (co­spira­azione). L'anonimato è un'attivazione permanente. Perché anonimo è il lavoro, impersonale è il suo contenuto, nascosto è il volto. In questo anonimato si rivela la qualità generica delle attività operose condotte in ogni angolo della città. Atto di creazione

Il cospiratore­poeta e il cospiratore­rivoluzionario vivono la bohéme. “Sono – ha scritto Marx[17] ­ gli alchimisti della rivoluzione, e con gli antichi alchimisti hanno in comune il dissesto mentale e l'ottusità delle idee fisse”. Era così Baudelaire, così come Blanqui, il capo politico della rivoluzione prima di Lenin. Per Marx, Blanqui, “vero capo del partito proletario”[18], rappresenta un politico “che anticipa lo sviluppo del processo rivoluzionario, lo porta artificiosamente a una crisi, improvvisa una riduzione senza che ne esistano le condizioni”. Giudizio sprezzante per una sconfitta. Il capo politico si è ritrovato con il poeta in un'osteria dove fu siglata l'alleanza tra il proletariato parigino e i contadini contro una tassa sul vino. Blanqui è il frutto di questa protesta, mentre Baudelaire scrive la poesia Le vin des chiffonniers contenuta ne Les fleurs du mal. Eternità della taverna nelle rivoluzioni. È sempre nell'osteria The Bell che i giacobini inglesi iniziarono ad usare le parole del Rights of Man di Thomas Paine. Parole che erano bestemmie contro Dio: «Quando il ricco saccheggia dei suoi diritti il povero, il povero ne prende esempio per saccheggiare delle sue proprietà il ricco»[19]. Si ritiene che la bohème sia stato uno stile di vita che non riguardava le classi operose, ma gli irregolari, gli apolidi o i declassati, i lavoratori indipendenti o i viandanti. La produttività è un valore coltivato nei luoghi separati e dedicati, come la catena di montaggio. L'atto esecutivo, determinato da una coazione, la concentrazione necessaria, sono dinamiche azionabili solo in luoghi separati e controllabili dalla vita civile. La caserma, l'officina, la scuola, ad esempio. Invece si dà il caso che anche in una taverna si sia arrivati alla definizione di un discorso politico. Senza contare che davanti ad un vino non tassato è possibile reclutare lavoranti di giornata, costruire un'impresa comune. L'intrattenimento diventa l'occasione per l'intermediazione della forza lavoro, per la creazione di un'alleanza politica o la nascita del consenso. L'associazione tra la taverna e lo stile di vita bohémien ha assecondato un'esagerata fiducia nel principio della creatività che è durata fino ad oggi e alimenta le illusioni di migliaia di “creativi”: designer, grafici o pubblicitari. “È tanto più pericoloso in quanto – scrive Benjamin ­ blandendo l'amor proprio di colui che sta producendo, tutela con grande efficacia gli interessi di un ordine sociale che è ostile” tanto al lavoro intellettuale quanto al lavoro esecutivo[20]. Nella critica del Programma di GothaMarx ha visto in questa concezione un'idea borghese: quella di attribuire al lavoro, “la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà”, “una forza creatrice soprannaturale”. Questa concezione sembra adattarsi perfettamente all'idea dell'artista professionista, celebrato dal mercato, “creativo” per definizione.

Per Marx, invece, questa forza “soprannaturale” è invece una concezione ideologica che nasconde la realtà del soggetto che lavora come artista, o come operaio: “L'uomo non ha altra proprietà all'infuori della sua forza­lavoro”: cioè le braccia, la penna o l'occhio dei pittori. Tutte queste figure sono a disposizione di un datore di lavoro, di un committente, di un'impresa o del mercato. È dunque nel conflitto con l'altro che si è “creativi” o “produttivi”. È in base a tale conflitto che il lavoro viene pagato, non il contrario. Non si è “creatori” in base ad un principio, bensì in ragione di una pratica. Ciò non toglie che per Marx il lavoro creativo fosse estraneo ad una disciplina operaia, e più vicina alla sregolatezza attribuita dalla civiltà borghese alla figura mitologica dell'artista. C'è il tempo del lavoro, e quello della rivoluzione. Entrambe condividono una razionalità produttiva che porta il soggetto all'accumulazione: nel primo caso di merci prodotte e di plusvalore per il capitalista. Nel secondo caso, un'organizzazione capace di contrastare il regime dello sfruttamento e abbattere il potere dello Stato. C'è dunque una differenza tra la creatività in quanto “forza creatrice soprannaturale” di cui si ammantavano scrittori e ideologi borghesi per legittimare le loro pose da Prometeo della letteratura o dell'arte e la creatività in quanto atto di resistenza e come appello ad un popolo che viene ma purtroppo, al momento, è assente. C'è un aspetto creativo nell'esodo terribile del bohémien da se stesso e dalla sua comunità di provenienza. L'invocazione dell'assolutamente altro sulla terra. Il desiderio di vedere incarnati in corpi e parole gli ideali e le essenze sollevate dalla polvere delle sue parole. L'operazione di trasformazione di un'idea in un concetto e di un concetto in una forza riconosciuta dagli uomini è un lavoro che strazia il corpo dell'“artista”, contorce la sua intelligenza, annienta la sua tenuta fisica. La vicinanza di Baudelaire, o di Rimbaud, con le pulsioni di morte, l'avere coltivato con la droga e le allucinazioni il desiderio del suicidio è il sintomo di questa fatica sovrumana. Questa è la differenza tra la “creatività” che produce informazione o comunicazione – come ad esempio nel flâneur­giornalista – e la creatività del flâneur che produce un atto di resistenza collettiva[21]. Soglia Nulla di tutto questo avrebbe dovuto accadere in una taverna. Se l'operaio aspira a possedere i mezzi di produzione, nel caso dei “diseredati” come Baudelaire questo non è lontanamente immaginabile. Il poeta non possedeva una biblioteca, e nemmeno un'abitazione dove scrivere. Le sue scarpe erano “suole di paglia” e indossava sempre l'intero gaurdaroba composto da due camicie. Impossibile considerare soggetti di questa risma come rivoluzionari e tanto meno razionali. Questi cospiratori, contro il potere o per la sopravvivenza, vivono in un vuoto sociale.

A differenza di Hugo, Baudelaire non si pone nella folla come citoyen, ma come diseredato. Il poeta non si separa dalla “moltitudine”, scrive Benjamin, alla ricerca di una folla di “clienti” a cui vendere la propria letteratura in nome della democrazia o del progresso. Egli sceglie di camminare in mezzo alla folla, perché sente di essere composto dalla stessa materia. Baudelaire non l'ha compresa e fuggì dal contatto con la folla, opponendogli il suo ideale acritico di flâneur. Tanto era vuota la folla, quanto resta vuoto il suo egoismo poetante alla deriva. Questa reazione si scorge in un'altra incarnazione, quella dell'apache. Nella folla il poeta si arrocca nella sua individualità, rescinde una volta per tutte il contratto sociale, difende la sua diversità. L'apache sceglie di non muoversi dal suo quartiere per tutta la vita. E cospira, nell'anonimato, tra sé e sé. Il più possibile lontano dal borghese. Come avvicinare questa disperata solitudine, questa folle alienazione premessa della decadenza che si nutre narcisisticamente della povertà materiale e del vittimismo dell'incompreso, lontano dal reale tessuto sociale dove cresce la rivolta? Baudelaire segue le traiettorie degli straccivendoli. I poeti trovano sulla loro strada i rifiuti della società e li elevano a tema eroico. Lo straccivendolo è un collezionista di reperti della vita quotidiana in una metropoli. “Compulsa gli archivi del vizio, il cafarnao degli scarti. Fa una cernita, una scelta intelligente; raccatta come un avaro un tesoro, le immondizie che rimasticate dalla divinità dell'Industria, diventeranno oggetti utili o piacevoli”[22]. Tutto questo diventa oggetto di poesia e rappresenta ancora oggi, meraviglia dell'anacronismo storico, la realtà in cui vivono i lavoratori indipendenti. Non si rifiuta mai nulla, tutto può diventare occasione per guadagnare. È la vita che milioni di lavoratori viandanti, operai a cottimo, tra le città e le campagne hanno condotto per tutta la modernità, e non solo. Il poeta è solo l'ultima esperienza che si accoda ad una forma di vita che, nei margini, tra le pieghe, di una civiltà rivendica la propria indipendenza, supplica la sopravvivenza, costruisce vie di fuga dall'insediamento e dalla povertà, quindi dalla schiavitù a tempo indeterminato. La soglia sulla quale Baudelaire si è collocato è stata riconosciuta da Benjamin. Nel suo appello si respira l'aria di ribellione diffusa nelle classi povere. Quella raccolta da Hugo ne I Miserabili dove evocò “i magici cubetti di porfido che si innalzavano a fortezze”. Sono loro, i poeti e i cospiratori di professione, gli scioperati e i lavoratori intermittenti, i vagabondi dei mestieri e coloro che non vogliono sottomettersi ad un padrone e scelgono di lavorare a cottimo al miglior offerente “a innalzare le prime barricate per prenderne il comando”. Baudelaire registra lo sbandamento doloroso, la via di fuga nella creazione di una potente allegoria. Cresce in questo clima, e nella zona grigia tra lavoro e non lavoro, la soglia che separa il singolo dalla massa anonima.

Il popolo delle barricate non era tuttavia una massa anonima. Lo è diventata dopo la mercificazione dell'esperienza. Qui si pasce il flâneur. Settant'anni dopo, annota Benjamin, questa massa venne forgiata in una “comunità di popolo nella quale i conflitti di classe, come si suol dire, sono superati. Baudelaire avvertì il processo (…) quando egli afferma che persino le donne perdute, le reiette, saranno favorevoli a una condotta regolare, condanneranno il libertinaggio e non ammetteranno altro al di fuori del denaro, è come se volesse definire una volta per tutte l'intera infamia di questa folla”[23]. La differenza tra il soggetto riottoso alla mercificazione, o al potere politico autoritario e allo sfruttamento, e la trasformazione della folla in popolo fascista (la “comunità di destino” nazista di cui parla anche Heidegger) aggiunge un particolare alla nostra archeologia del Quinto Stato. L'anonimato, l'isolamento, e in fondo il mancato riconoscimento e il sentimento di non appartenenza ad un'epoca, e alla direzione intrapresa dal vettore storico una volta che la lotta di classe ha perso, sono prese di posizione etiche e politiche. Non cedere al ricatto della folla fascista, non accettare che il mondo sia in questo modo e non altrimenti. In queste condizioni è preferibile non aderire, separarsi, auto­esiliarsi, rifiutare qualcosa che è ben peggiore del semplice vizio, di una vita perduta in un vicolo, in un baccanale, nella ripetizione di un commercio sessuale. Restare sulla soglia. Passaggio Blanqui Nell'“amicizia stellare” tra Baudelaire e Blanqui, Benjamin vede l'ostinazione e l'impazienza, la forza della ribellione e quella dell'odio, ma anche l'impotenza che colpiva entrambi. Blanqui passò 33 anni in galera. Baudelaire si separa senza indugi dal mondo terribile, lì dove “l'azione non è sorella del sogno”. “Il suo sogno ­ scrive Benjamin – non era solitario come credeva. L'azione di Blanqui è stata la sorella del sogno di Baudelaire. L'una è intrecciata all'altro. Sono le mani intrecciate su una pietra tombale, sotto la quale Napoleone III ha seppellito le speranze degli insorti di giugno”[24]. L'abiezione, la povertà, la sconfitta e la frustrazione che regnavano nella Francia del Secondo Impero sono le stesse in cui viviamo oggi nell'Europa dell'austerità. Nei Passages questo rapporto con Blanqui è ossessivo al punto che, dopo la lettura di un rarissimo manoscritto del celebre rivoluzionario, L'eternità attraverso gli astri[25], Benjamin modificò la struttura del suo progetto[26]. Questo libro scritto da Blanqui nel suo ultimo carcere è ambivalente: c'è il riconoscimento di una sconfitta epocale; c'è il rilancio della rivoluzione ad ogni livello, a partire da una visione filosofica improntata all'immanenza. Da un lato, ci sono le sconfitte della rivoluzione del 1848, l'insurrezione della Comune, del comunismo e dell'”anarchia regolata” secondo la personale visione dell'indomabile capo barricata parigino. Dall'altro lato, c'è il ripensamento di un materialismo integrale (e non messianico come quello di Benjamin), nel nome di Eraclito, di Lucrezio e di Nietzsche.

Nell'ambivalenza tra la “potenza irreversibile del fatto compiuto”, cioè la Medusa dei “fatalisti della storia” e quindi dei dominanti o dei positivisti alla Comte, e l'immaginazione di conflagrazioni cosmiche primordiali che corrispondono alla produzione di urti colossali tra le forze sociali e politiche nella storia a venire, vive il cospiratore­rivoluzionario. È la stessa vita del poeta. È la tonalità filosofica fondamentale del flâneur oggi. Questa figura, opportunamente ricontestualizzata in una società dove si afferma il lavoro indipendente, intermittente e precario, mostra tutta la sua tragicità ma è anche sospesa al filo di una rivoluzione. Quella che Blanqui ha definito gli “choc della resurrezione” [choc résurrecteurs]. Siamo al cuore della poetica compositiva di Baudelaire, della filosofia del Benjamin che studia il montaggio delle attrazioni di Ejzenstein e dello stesso progetto dei Passages. È il centro della vita della metropoli, un sistema nervoso sensibilissimo che scuote la folla che passeggia nelle strade e il reticolo dei vicoli o dei viali haussmaniani di Parigi. In questo teatro si producono “urti”, il cuore della visione ontologica opposta alla metafisica del progresso. Urtandosi, gli atomi che compongono la folla producono direzioni nuove, si ricompongono in grappoli e strutture imprevedibili, si moltiplicano formando nuova vita. Blanqui parla dell'universo degli astri e in realtà parla della metropoli, teatro della rivoluzione, mondo infinito di composizioni molteplici. È esploso il mondo dell'Uno, si afferma il molteplice. Siamo al cuore della politica considerata come composizione delle molteplicità, divenire e pluralismo delle forme. La forza di questa allegoria[27] non coglie solo la realtà della metropoli tra il XIX e il XXI secolo, ma il fondo del mutiversum di una vita che ha perso il suo legame con il lavoro salariato. Non poteva essere altrimenti. Questa è l'esperienza di chi pensa la rivoluzione, e talvolta riesce a farla, vittorie e sconfitte comprese. Il punto di vista è quello di un pragmatismo ontologico e di un pensiero politico strategico. Per spiegare il primo, Blanqui ricorre a Lucrezio e alla fisica delle fluttuazioni. *versione lunga

[1] D. Harvey, Rebel cities. From the right to the cities to the urban revolution, Verso, Londra­New York 2012, p. 112.

[2] Cfr. R. Ciccarelli­G.Allegri, La furia dei cervelli, Manifestolibri, Roma 2011; Cfr. G. Allegri­R. Ciccarelli, Il Quinto Stato. Perchè il lavoro indipendente è il nostro futuro, Ponte alle Grazie, Milano 2013. [3] Cfr. G. Allegri­R. Ciccarelli, Il Quinto Stato, cit., p. 21. [4] Cfr. J. Holston, Cities and Citizenship, Duke University Press, Durham 1999; Id., Insurgent Citizenship, Princeton University Press, Princeton 2008; Cfr. C. Colliot­Thélène, La démocratie sans “demos”, Puf, Paris 2011. Cfr. A. Appadurai, The future as Cultural Fact: Essays on the Global Condition, Verso, Londra 2013. [5] J. Rancière, La nuit des prolétaires, Fayard, Parigi 1981. [6] Cfr. E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Il Saggiatore, Milano, 1968. [7] E. GHERA, Diritto del Lavoro. Il rapporto di lavoro, Cacucci, Bari 2011, pp. 43 e ss. Supiot ecc castel ecc [8] P. 905. [9] Cfr. p. 744. [10] p. 905. [11] [12] Baudelaire p. 903. [13] P. Lafargue, Elogio dell'ozio, capitolo III, le conseguenze della sovra­produzione [14] Cfr. R. Ciccarelli­G.Allegri, La furia dei cervelli, cit., p. 71. [15] W. Benjamin, Opere complete, IX, I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino 2000, p. 472. [16] Cfr. W. Banjamin, Baudelaire, p. 711. [17] K. Marx, Recensione ad A. Chenu, “Les Conspiratuers”e a L. de la Hodde, “La naissance de la République en février 1848. [18] Id., Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, p. 114. [19] Cfr. E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, cit., p. 19 e ss. [20] Cfr. Benjamin, baudelaire, p. 687. [21] Cfr. G. Deleuze, Che cos'è un atto di creazione?, Cronopio, Napoli 2010. [22] Baudelaire [23] W. Benjamin, Baudelaire, p. 850. [24] Ibid., p. 714. [25] L.­A. Blanqui, L'eternità attraverso gli astri, SE, Milano 2005. [26] Per F. Desideri, curatore dell'edizione italiana de L'eternità attraverso gli astri, è questa la differenza tra i due Exposé del 1935 e del 1939, noti anche con il titolo di Parigi, capitale del XIX secolo (p.83). Cfr. F. Rella, Benjamin e Blanqui, in AA.VV., Critica e storia, Cluva, Venezia 1980, pp.181­200. Cfr. M Abensour, W. Benjamin entre mélancolie et révolution. Passages Blanqui, in H. Wismann (a cura di), W. Benjamin et Paris, Cerf, Parigi, pp.219­247. Cfr. la significativa introduzione ad una riedizione francese del libro scritta da J. Rancière XXX

[27] Cfr. F. Desideri, Postfazione, cit. p. 88


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