ΠΟΡΦΥΡΑ da un’idea di Nicola Bergamo
“Saranno come fiori che noi coglieremo nei prati per abbellire l’impero d’uno
splendore incomparabile. Come specchio levigato di perfetta limpidezza, prezioso ornamento che noi collocheremo al centro del Palazzo”
La prima rivista on-line che tratta in maniera completa il periodo storico dei Romani d’Oriente
Anno 2004 Ottobre numero 3
L’Impero di Giustiniano 527-565
a cura della:
Comunità del sito di “Impero Romano d’Oriente 330-1453 la sua storia”
www.imperobizantino.it
Indice
• Prefazione
a cura di Nicola Bergamo pag 3-5
• R Helen C. Evans, et al., Byzantium: Faith and Power (1261–1557), 2004. Catalogo della Mostra "Byzantium: Faith and Power (1261–1557)", The Metropolitan Museum of Art, New York, 23 Marzo–4 Luglio, 2004: 680 pagine, 772 illustrazioni a colori, 141 b/n. a cura del Prof. Gianclaudio Macchiarella pag 6-15
• Giustiniano e i Papi
a cura di Vito Sibilio pag 15-39
• Bisanzio en España a cura di Rolando Castillo (in Spagnolo) pag 40-64
• Un mercante dell’Italia Settentrionale al tempo di Giustiniano a cura di Enrico Pantalone pag 65-81
• San Michele in Acerboli ricostruzione 3d a cura di Carlo Valdameri pag 82-92
• La monetazione bizantina in età Giustinianea a cura di Gianluca Galoppo pag 93-106
• Echi di propaganda giustinianea in un contacio di Romano il Melodo (n°54 Maas-Trypanis) a cura di Luigi Silvano pag 107-120
• Belisario a cura di Andrea Frediani pag 120-125
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Prima frase sotto il titolo proviene da : (da Il libro delle Cerimonie Costantino Porfirogenito edito da Sellerio Editore Palermo a cura di Marcello Panascià)
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Prefazione : Giustiniano e il suo tempo
di Nicola Bergamo
Chi studia la storia bizantina non può che ammirare questo importante Imperatore. Flavius
Petrus Sabbatius Iustinianus nacque a Tauresium nel 483 morì a Costantinopoli nel 565.
Nipote dell’imperatore Giustino divenne ben presto suo collaboratore, cosi importante da
decidere gran parte della politica dello zio, gli succedette al trono nel 527. La sua biografia è
molto conosciuta, non a caso Giustiniano è l’Imperatore dei Rhomaioi più conosciuto da tutti,
sarà perché tenta quello che ormai era solo un sogno utopico, la riconquista dell’Occidente e
quindi dell’Italia, sarà per il suo attivissimo lavoro in campo giuridico che con la promulgazione
Domini Nostri Sacratissimi Principis Iustiniani Codex, sarà per la sua renovatio imperii che
permette una politica di ricostruzione completa di molte opere pubbliche che possiamo
ammirare ancora oggi. Insomma Giustiniano, era sia soldato, che avvocato, che architetto, un
Grande insomma, con la G maiuscola, ed è per questo che abbiamo deciso di dedicargli un
numero monografico solo per il suo periodo, che ricopre nella storia di Bisanzio quasi un
secolo. Non potendo abbracciare interamente, ci siamo limitati a vari punti che i nostri valenti
autori hanno ben esposto e trattato in maniera dettagliata.
Nella nostra “Bisanzio Contemporanea: guida al fascino di Bisanzio ai giorni nostri”, appare in
questo numero, una recensione scritta per la rivista dal Prof. PierClaudio Macchiarella, Docente
presso l’Università di Ca’ Foscari a Venezia, sulla interessantissima mostra al Metropolitan di
New York chiamata “Byzantium Faith and Power 1261-1557” che tratta del cambiamento
avvenuto dopo la quarta crociata e che ha portato all’emorragia delle opere d’arte, da Bisanzio
verso il resto del mondo (specialmente slavo) influenzandolo in maniera ancora più marcata.
Questa pubblicata è solo la prima parte di questo articolo che finirà nel prossimo numero, un
motivo in più per aspettare il nostro prossimo lavoro.
Nel periodo Giustinianeo che abbiamo preso in considerazione in questo numero, non poteva
mancare l’eterna diatriba tra il potere politico e religioso, quindi tra “Giustiniano e i Papi” un
articolo scritto da Vito Sibilio, che descrive le varie fasi che sono intercorse tra Bisanzio e
Roma. L’imperatore infatti, fervente ortodosso, riconosceva solo una chiesa e fece di tutto per
mantenerla unita, abbandonò la politica religiosa dei suoi predecessori, Anastasio soprattutto,
3
per dedicare tutta la vita all’ortodossia. L’unione poi tra Occidente ed Oriente, avvenuta con la
riconquista compiuta, portò maggiori problemi che Giustiniano cercò di risolvere. In questo
articolo molto interessante, troverete vari spunti per interpretare la politica religiosa di quegli
anni.
Rolando Castillo, scrive in lingua castigliana, ciò che fu la Spagna Bizantina. Dalla riconquista
di Giustiniano, alla sua definitiva caduta dopo Eraclio. L’articolo è ricco di mappe e viene diviso
in quindici parti, partendo dalla fine dell’amministrazione romana, si arriva alla fine
dell’amministrazione bizantina, passando per l’organizzazione della provincia, l’organizzazione
delle città, e dei vari fatti che sconvolsero l’impero, come la guerra con la Persia che continuò a
drenare risorse e uomini dai confini delle remote province iberiche.
Ma come abbiamo già detto prima, Giustiniano si occupò della riforma totale del codice che
governava l’impero, Enrico Pantalone ci racconta, immaginando la vita di un semplice
mercante, come fosse la vita nel VI° Secolo grazie a queste nuove leggi. Leggeremo di Ippolito
e della sua famiglia che vivono nel Nord Italia appena riconquistato, passando per i suoi figli,
per il suo commercio e addirittura per i suoi schiavi.
Carlo Valdameri invece, ci illustra, grazie ad una notevole ricostruzione tre-di, come poteva
apparire la chiesa di S.Michele in Acerboli vicino Rimini nel periodo giustinianeo. Vengono
analizzate le parti inerenti alla documentazione che testimonia l’esistenza della chiesa già dal
VI° Secolo, ai cambiamenti avvenuti negli anni, alla ricostruzione grafica finale.
Bisanzio era la città più ricca, e durante il periodo giustinianeo forse lo fu maggiormente, la
moneta d’oro sorella del solidus romano, era la moneta che più rappresentava questa ricchezza
aurea di cui godeva l’impero. Gianluca Galoppo ci farà addentrare nel non facile studio della
monetazione bizantina, attraverso le monete d’oro e d’argento, le monete di bronzo e
l’iconografia monetale (con le varie immagini dei diversi imperatori raffigurati). Un percorso
davvero interessante, soprattutto perché nuovo e non sempre facile da intuire.
Arriviamo alla ben conosciuta rivolta di Nika che Luigi Silvano ci spiega nel dettaglio gli
avvenimenti basandosi su Romano il Melodo, il maggior innografo del tempo. In questo articolo
troverete come questo grande storico romeo, esaltò la grandezza del Principe Cristiano nella
4
ricostruzione degli edifici distrutti e riuscì ad assolverlo per la brutalità con la quale diede fine
alla rivolta.
Ma un numero monografico su Giustiniano, non poteva non avere un contributo su Belisario, il
più grande generale di quel periodo, amico-nemico del suo Imperatore. Andrea Frediani,
storico conosciuto per la sua grande esperienza nel campo militare romano, traccia un succinto
profilo di questo grande personaggio. Dalle sue alterne vicende all’inizio di carriera, alla
sfavillante vittoria in Nord Africa e ai continui problemi con l’imperatore, Belisario viene
descritto sotto ogni punto di vista, ma principalmente quello umano e quello militare.
Spero che questo numero possa piacere come hanno già fatto i numeri precedenti e che possa,
il pubblico che ci legge, trovare tutto quello che stava cercando da molto tempo nell’universo
del web.
Nicola Bergamo
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“Bisanzio Contemporanea: guida al fascino di Bisanzio ai giorni nostri” Helen C. Evans, et al., Byzantium: Faith and Power (1261–1557), 2004. Catalogo della Mostra "Byzantium: Faith and Power (1261–1557)", The Metropolitan Museum of Art, New York, 23 Marzo–4 Luglio, 2004: 680 pagine, 772 illustrazioni a colori, 141 b/n.
A cura di Gianclaudio Macchiarella
N.B.: Il sito web del Museo newyorkese ospita un eccellente catalogo “virtuale” della Mostra, ricco di testi e illustrazioni tratte degli oggetti esposti e trattati nel Catalogo a stampa (che qui si commenta), al seguente indirizzo: http://www.metmuseum.org/explore/byzantium_III/home.html L’appellativo di “Costantinopoli, nuova Roma” – tutt’oggi presente nella definizione della sede
del Patriarca della Chiesa greco-ortodossa – fa riferimento alla continuità dell’impero romano
nelle terre del bacino orientale del Mediterraneo ed oltre. Ma, agli inizi dell’Umanesimo, ben
prima della conquista turca di Costantinopoli (1453), le origini piuttosto greche (anzi elleniche)
che romane dell’intera civiltà spirituale ed artistica che sarà tramandata sotto il nome ben più
tardo di “Bisanzio” (attribuitogli da un bibliotecario tedesco nel 1557, dal nome della colonia
greca presso la quale Costantinopoli fu fondata da Costantino nel 322), saranno sottolineate ed
enfatizzate dalle eminenti personalità intellettuali che portarono in Occidente, al sorgere del
Rinascimento, il determinante contributo della grecità, quali Giorgio Gemisto Pletone (1360-
1452), il cardinale Bessarione (1403-1472) e lo stesso imperatore Giovanni VIII Paleologo.
Tutti si autodefiniscono e si sentono profondamente “Elleni”. Come opportunamente sottolinea
la Evans, riprendendo una nota citazione di Vryonis, nella sua introduzione al voluminoso e
complesso catalogo della Mostra “Bizanzio: Fede e Potere, 1261-1557”, New York, Metropolitan
Museum of Arts (23 Marzo 2004–5 Luglio, 2004)
http://www.metmuseum.org/special/Byzantium/byzantium_main.asp, netta e chiara è la presa
di posizione degli intellettuali bizantini che portarono il verbo della grecità in Occidente:
“Noi, che Tu guidi e reggi, siamo ellenici per razza, come la nostra lingua ed educazione dimostrano”.
Con queste parole Giorgio Gemisto Pletone, riprendendo il filo conduttore della “riconquista” paleologa
6
dopo la caduta del Regno Latino di Costantinopoli, si rivolgeva al proprio imperatore Giovanni
Paleologo1.
In tal modo, il retaggio imperiale “romano” su Bisanzio sfumava e si appannava all’eco terribile
e mai sopita dell’occupazione latina di Costantinopoli (1204-1260), la chiesa orientale si
separava in modo definitivo da quella occidentale (nonostante i numerosi ed infruttuosi
tentativi di riconciliazione succedutisi nel primo quarto del ‘400) radicandosi nella sua “neo-
grecità”, come chiameremmo il profondo mutamento di indirizzo culturale che il pensiero e
l’arte bizantina mostrano a partire, quanto meno, dall’età dei Paleologi.
Le conseguenze sul piano storico ed artistico di questo ampliamento d’orizzonti, non soltanto
sull’Occidente ma anche e soprattutto nei mondi slavo, balcanico e caucasico sono
fondamentali e segnano la trasformazione di una civiltà, quella appunto bizantina, che nel
perdere progressivamente e lentamente ma inesorabilmente il proprio centro di gravità
temporale (Costantinopoli), ne assume un altro, puramente spirituale, ideologico e artistico
innanzi tutto e quindi inespugnabile e inattaccabile, che caratterizza una οἰκουµένη ‘orientale’
colorata e diversificata in ‘nationes’ o etnie religiose, ognuna delle quali reclama, di volta in
volta, la leadership delle chiese orientali e la legittimità del retaggio “ellenico” nella civiltà
bizantina, sino ai nostri giorni.
L’aspetto artistico di tale trasformazione è non meno importante di quello ideologico ed anzi,
sotto molti aspetti, ne costituisce l’asse portante e la giustificazione2. La dispersione delle sacre
reliquie costantinopolitane e di icone di alto valore simbolico, avvenuta alla caduta del regno
latino prima e dopo la conquista ottomana di Costantinopoli poi, il sorgere e il diffondersi di
nuove iconografie trasmesse da Costantinopoli stessa o dai grandi centri monastici e di
pellegrinaggio dell’epoca (come il Monastero di S. Caterina sul Sinai, i monasteri di Meteora in
1 Setton, K., "The Byzantine Background to the Italian Renaissance", Proceedings of the American Philosophical Society, 100:1, 1956, pp. 1-76). 2 Sull’argomento, questi sono i testi “classici”: Weitzmann, K., "The Classical Heritage in the Art of Constantinople” (ristampa di "Das klassiche Erbe in der Kunst Konstantinopels", in Alte und Neue Kunst, 3 (1954), pp. 41-59; Kleinbauer, W.E., The Art of Byzantium and the Medieval West. Selected Studies by Ernst Kitzinger, Bloomington-London , 1976; Kitzinger, E., "The Hellenistic Heritage in Byzantine Art Reconsidered", XVI. Internationaler Byzantinisten kongress, Akten. I. Teil, Hörandner,W., Ed., Wien, 1981, pp. 657-675; Kitzinger, E., Byzantine Art in the making: main lines of stylistic development in Mediterranean Art, 3rd-7th century. Cambridge, MA: Harvard University Press, 1977; Mullet, M. and Scott, R., Eds., Byzantium and the classical tradition, University of Birmingham, Thirteenth Spring Symposium of Byzantine Studies 1979, Birmingham, Centre for Byzantine Studies, 1981;Mango, C., “Discontinuity with the Classical Past in Byzantium”, rist. in Mango, C., Byzantium and Its Image, essay III, London, 1984, pp. 48—57.
7
Grecia3 e soprattutto da quel grande complesso di monasteri della Calcidica annidati sulle
pendici del Monte Athos, fortemente rappresentativo di tutte le tendenze dell’orbe bizantino4),
tutto contribuisce al fiorire di una stagione nuova nell’arte dell’Oriente cristiano che è
nostalgica e conservatrice per costrizione e condizione storica e innovativa per l’intrinseca
natura dell’esperienza estetica che inaugura ed elabora su terre e in contesti culturali
disparati5.
Ci sembra questa la premessa necessaria per spiegare e sottolineare l’importanza di questa
mostra che ha visto sfilare, nei quattro mesi di apertura, migliaia e migliaia di visitatori,
certamente un po’ disorientati di fronte all’immane quantità di opere d’arte, d’ogni genere,
dimensione e provenienza, che è stata raccolta, con la metodicità e l’acume di specialisti d’ogni
parte del mondo.
Impresa davvero titanica, questa, proprio per le ragioni che abbiamo addotto nell’introduzione
e che hanno a che fare anche con l’organizzazione e distribuzione interna del Catalogo della
Mostra, di cui vogliamo qui commentare alcuni aspetti, piuttosto che soffermarci sui contenuti
stessi della Mostra che porterebbero, inevitabilmente, allo smarrimento anche del lettore più
avveduto, proprio per l’estrema eterogeneità dei materiali esposti. Dei contenuti tratteremo
invece, indirettamente, attraverso i riferimenti contenuti nei saggi medesimi.
Vale la pena, invece, a nostro avviso, soffermarsi sulla ‘struttura’ stessa del Catalogo che, nel
riflettere l’approccio concettuale alla complessa tematica da parte degli organizzatori, fa
proprio uno schema editoriale convincente, già applicato in passato a molte altre mostre di
grande respiro come questa (come il suo stesso immediato antecedente al Metropolitan, “The
Glory of Byzantium”, 1997, concentrata sul periodo che va dalla fondazione di Costantinopoli
alla conquista crociata e il cui catalogo si deve alla mente della medesima curatrice di questo
secondo catalogo, Helen C. Evans): cioè la struttura a saggi tematici affidati a esperti del
settore, con rimandi interni a schede di catalogo relative agli oggetti e ai manufatti in
3 Rigo, A., La 'Cronaca delle Meteore’: La storia dei monasteri della Tessaglia tra XIII e XVI secolo, Leo Olschki Ed.,1999, VIII. 4 Mylonas, P.M., Bildlexikon des Heiligen Berges Athos: Atlas der zwanzig souveränen Klöster, Dt. Archäologisches Inst, Tübingen-Wasmuth-Berlin, 2000; Bryer, A. and Cunningham, M. edd, Mount Athos & Byzantine monasticism, Aldershot, 1996. 5 Ierodiakonou, K., Byzantine Philosophy and its Ancient Sources, Oxford, Clarendon Press, 2002.
8
esposizione, corredate da bibliografia e discussione critica della datazione e delle attribuzioni e
con considerazioni aggiuntive sullo stato di conservazione dei medesimi.
In questo modo il visitatore – che dovrebbe avere avuto a disposizione per lo meno una
settimana da dedicare ad una visita non frettolosa della Mostra tanto vasta e complessa questa
si presentava – integrando notizie e commenti desunti dal catalogo con l’osservazione diretta
delle opere potrebbe finalmente aver elaborato una visione non parziale né frammentaria di un
fenomeno culturale ed artistico assolutamente unico che costituisce il tema centrale della
Mostra: quello del “neo-ellenismo” dell’arte bizantina ‘matura’, concetto storiografico che mal
collima, a dir il vero, con il titolo stesso della Mostra, troppo generico, poco incisivo ma certo di
facile, troppo facile ‘presa’ come quello prescelto di: “Bisanzio: Fede e Potere”. Che gli oggetti
artistici esposti rispondessero tutti, quali più quali meno, a motivazioni di fede religiosa e/o di
potere politico e ideologico è infatti argomento troppo tautologico e abusato per l’arte
bizantina, dal momento che sarebbe applicabile a qualunque altro periodo dell’arte bizantina,
trascurando (e oscurando) proprio il punto centrale e più significativo che questa Mostra ha
così significativamente contribuito a chiarire: cioè il ritorno, nell’epoca presa in considerazione,
ad un Antico – che chiameremmo volentieri “Neoellenismo” – così “remoto” e idealizzato da
prestarsi ad una sostanziale liberazione dagli schemi del passato più o meno recente e ad una
spinta innovativa che andrà di pari passo con i movimenti letterari6 e spirituali della nuova età
(soprattutto con l’Esicasmo7) e, parallelamente, con le nuove realtà culturali regionali che si
affacciano sulla scena delle regioni della tarda età bizantina e post-bizantina (Balcani, Russia,
Creta, Cilicia, sino all’Italia del primo Umanesimo).
A precisare cosa esattamente significasse questo movimento estetico e culturale che
caratterizza l’età paleologa e che chiamiamo”neoellenismo”, contribuisce senz’altro il saggio di
A.M. Talbot – una delle massime esperte del campo (Revival and Decline: Voices from the
Bizantine Capital) - quando opportunamente cita un passaggio di una nota lettera di Teodoro
Metochite – lo studioso e uomo di governo che aveva rifondato la chiesa del Monastero di
Chora a Costantinopoli, con annessa cappella funeraria: “questo monastero ha significato per
6 Hunger, H., Die hochsprachliche profane Literatur der Byzantiner, Munich, 1977, 2 Voll. 7 http://www.fordham.edu/halsall/source/hesychasm1.html
9
me più di qualsiasi altra cosa al mondo…è stata un’opera di nobile amore per le cose buone e
belle che assicurano benefici e ricchezze spirituali”.8
L’estetica della consonanza tra bello e giusto – che assomiglia, tanto da identificarsi, con
l’ellenico ideale del καλός και αγαθός – è la grande novità della nuova età e la sostanza più
intima del “neoellenismo” bizantino. Tanto più che questo messaggio si associa a quello dello
splendore non della Roma né della Grecia antiche, ma della tradizione prettamente
costantinopolitana, fatta della sacrale bellezza dei suoi monumenti, amorevolmente restituiti al
loro antico splendore - laddove le distruzioni dei Crociati non erano state tali da rendere
impossibile tale operazione - sin dall’indomani della “riconquista” paleologa, a cominciare
proprio da S. Sofia e dai più insigni monumenti della prima età bizantina9.
A questo ideale sono sensibili i numerosi pellegrini che da ogni parte del mondo cristiano
visitano Costantinopoli, per le sue preziose reliquie e per i suoi monumenti (Stefano da
Novgorod, tra gli altri, intorno alla metà del XIV sec.)10, ma anche gli arabi (Ibn Battūta, ca.
1332) che possono usufruire per le proprie pratiche religiose di ben due moschee, di cui una, la
più importante, interamente ricostruita (a seguito delle distruzioni operate dai Crociati) a spese
dell’imperatore Michele VII, e poi gli italiani (fiorentini, veneziani, pisani, genovesi e ragusani)
e gli spagnoli.
Il saggio della Talbot contribuisce dunque a fornire, con buona approssimazione, il clima
cosmopolita della Costantinopoli paleologa. Ma non c’è dubbio che tal clima aveva
caratterizzato, sia pure in misura meno rilevante, anche la Costantinopoli dell’età dei Dukas e
degli Angeli (fine XII sec.) e finanche il regno crociato, ma l’elemento più innovativo,
giustamente messo in evidenza dalla studiosa, emerge dalla volontà e determinazione di ben
tre imperatori bizantini di effettuare viaggi in Occidente (Giovanni V a Roma per convertirsi al
cattolicesimo, Manuele II in Italia, a Parigi (con la famosa visita a St. Denis) e a Londra tra il
1399 e il 1402 per ragioni politiche di alleanza antiottomana e Giovanni VIII che partecipò,
8 Featherstone, Jeffrey M., Theodore Metochites´ Poems "To Himself". Introduction, Text and Translation. Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaften, Austrian Academy of Sciences Press, Wien, 2003. 9 Il revival delle età d’oro di Costantino e di Giustiniano - che giunge finanche all’imitazione e al reimpiego di lastre di quelle epoche nei monumenti funebri (e non soltanto) d’età paleologa a Costantinopoli - è un fenomeno che è stato sinora solo molto parzialmente indagato e al quale fa giustamente riferimento in Catalogo anche l’autrice del saggio sulla scultura funeraria, Sarah Brooks, Cat., p. 99. 10 E anche: F. Antoine, Archev. de Novgorod., Le Livre du pélerin, dans les Itinéraires russes en Orient, Genève, 1889,1.
10
com’è ben noto, al Concilio di Ferrara/Firenze nel 1438-39) abbandonando in tal modo l’antica
visione di un imperatore bizantino “statico” e monolitico nel suo palazzo costantinopolitano a
ricevere ambascerie e ad inviarne, ma senza mai porsi in viaggio personalmente.
Riconoscimento implicito della policentricità dell’Europa tardo medievale e,
contemporaneamente, dell’appartenenza di Bisanzio al destino comune dell’Occidente cristiano
nei confronti dei popoli dell’Islam.
Questa tarda stagione dell’arte bizantina è stata vista bene spesso e contrariamente a quanto
si è andati dicendo finora, come un epilogo di civiltà, caratterizzato da “eclettismo nostalgico”
(S. Ćurčič, “Religious Settings of the Late Byzantine Sphere”, Cat., pp. 65-94). Particolarmente
nell’architettura questa interpretazione si mostra superficiale ed incoerente e il saggio di Ćurčič
contribuisce, nei limiti obiettivi dello spazio dedicato a questo capitolo, a sfatarla.
Lo studioso tende a ridimensionare il ruolo di Costantinopoli nello sviluppo delle nuove tipologie
architettoniche, osservandone il carattere pur sempre conservativo e la relativa modestia degli
interventi effettuati nell’arco di tempo considerato (dal 1261 al 1453 ca.) soprattutto su
commissione delle famiglie aristocratiche della capitale (monastero di Costantino Lips=Fenari
Isa Cami11, parecclesion della chiesa della Vergine Pammakaristos=Fethiye Cami12 e
soprattutto il parecclesion della chiesa del monastero di Chora=Kahriye Cami13. Ćurčič punta
piuttosto a sottolineare la rilevanza storica delle “scuole locali”, fiorite al di fuori di
Costantinopoli e spesso sotto l’impulso di dinastie di regnanti imparentati con o sotto il potente
influsso della corte imperiale. Questo è il caso della scuola macedone (con il suo forte centro di
gravità su Salonicco), della scuola epirota (attiva principalmente ad Arta, basti ricordare quello
straordinario ed “eccentrico” monumento che è la chiesa della Panaghia Parigoritissa), della
grande scuola serba (attiva soprattutto nella regione del Kosovo, da Studenica a Prizren, a
Gračanica e infine Dečani). A quella fiorita nella Grecia continentale (Meteora) e nel
Peloponneso (Mistrà). Agli importantissimi monumenti di Ochrida (Ohrid), nella attuale
Repubblica ex-yugoslava di Macedonia, Ćurčič riserva una significativa trattazione (S.
Clemente, S. Sofia e l’intervento di frescanti di eccezionale qualità come Astrapas),
presentando l’attività architettonica di quella chiesa autocefala, a partire dalla fine del XIII
11 http://www2.arch.uiuc.edu/research/rgouster/churches/fenari/fenari.html 12 http://www.unf.edu/classes/byzantium/istanbul2002/pammakaristos/ 13 http://www2.arch.uiuc.edu/research/rgouster/churches/kariye/kariye-html.html
11
sec., come quella di una scuola “parallela”, per importanza e livello qualitativo delle opere, alla
scuola di Salonicco. A nostro modo di vedere, invece, la scuola di Ochrida, nata sotto il forte
stimolo e il contributo diretto di maestranze costantinopolitane, è legata al contesto culturale
epirota-illirico al quale fornisce peraltro il magistero di una scuola di costruttori e di pittori
(parietale e su tavola) di grande rilevanza, ma ancora tutto da scoprire e precisare nei suoi
lineamenti principali. Infatti, agli importanti monumenti bizantini dell’Albania meridionale e
centrale (la chiesa del monastero di Mesopotamos, X-XIV sec. [figg. 1, 2, 3], la chiesa della
Dormizione a Labova, XI-XIV sec. [figg. 4, 5, 6] e le numerose e riccamente affrescate chiese
di Berat) il catalogo non dedica alcuna attenzione e neppure una scheda, nemmeno nell’ambito
della pittura su tavola ove la scuola albanese ha certamente dominato la scena della pittura
bizantina nei Balcani meridionali per almeno un paio di secoli (XIV-XV sec.), con importanti
ramificazioni sino in Bulgaria e Moldavia.
Figura 1
12
GIUSTINIANO E I PAPI DEL SUO TEMPO tra teologia e politica
a cura di Vito Sibilio
La definizione esatta del ruolo che Flavio Pietro Sabbazio Giustiniano, imperatore romano
d’Oriente col nome di Giustiniano I dal 527 al 565, svolse nei confronti della Chiesa Cattolica è
ancora oggi oggetto di discussioni, e probabilmente lo sarà per sempre. Gli aspetti
contraddittori del suo operato hanno spinto critici e storici ad operare riduzioni arbitrarie e
semplificazioni, se non addirittura unilateralizzazioni, per accreditare la fisionomia del Βασιλέυς
ora incrollabile assertore del primato papale, ora fautore di una cristologia post-calcedonese,
ora fedele ad oltranza alla tradizione patristica, ora addirittura eretico in quanto aftartodoceta.
A questa girandola di posizioni assunte nella politica ecclesiastica sarebbero corrisposte
altrettante diverse ispirazioni: la preoccupazione dell’unità canonica e poi dogmatica della
Chiesa imperiale, l’asserzione rigida del giurisdizionalismo religioso proprio della tradizione
giuridica e politica dell’Impero romano, lo scivolamento costante verso posizioni sempre più
orientaleggianti di dispotismo teocratico. Il tutto condito dalle caratteristiche peculiari del suo
carattere e della sua vita, ovviamente diversamente valutabili: il piacere di essere eminenza
grigia dello zio Giustino I, la passione conflittuale che lo legava all’avvenente moglie Teodora –
che dava un sapore carnale anche alle più rarefatte dispute teologiche che lo opponevano alla
consorte – l’indubbia versatilità politica, l’ampiezza di vedute strategiche con relativi generosi
errori, l’indole autoritaria, l’amore per la teologia – della quale di volta in volta fu considerato
un dilettante o un esperto – la natura imperiosa ma, paradossalmente, influenzabile. Questa
pluralità di caratteristiche ha implicato uno sforzo dei posteri di fissare in modo univoco il suo
ricordo. Così ha per esempio tratteggiato la sua figura Dante nel VI Canto del Paradiso:
Cesare fui e son Iustiniano, Che, per voler del primo amor ch’ì sento, dentro le leggi trassi il troppo e ‘l vano.
E prima ch’io all’ovra fossi attento, una natura in Cristo esser, non piùe, credea, e di tal fede era contento; ma il benedetto Agapito, che fue sommo pastore, a la fede sincera
mi dirizzò con le parole sue. Io li credetti; e ciò che ‘n sua fede era,
vegg’io or chiaro sì, come tu vedi ogni contradizion e falsa e vera.
16
Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, a Dio per grazia piacque di spirarmi l’alto lavoro, e tutto ‘n lui mi diedi; e al mio Belisar commendai l’armi,
cui la destra del Ciel fu sì congiunta, che segno fu ch’ì dovessi posarmi14.
Il sommo poeta fissava così, entro la rassicurante cornice del saggio legislatore, modello
dell’imperatore ideale, la figura del personaggio storico a cui, nella finzione poetica, aveva
affidato il compito di esaltare il ruolo dell’Imperium, duramente minacciato dalla decadenza dei
tempi. Aveva inoltre accolto la leggenda che faceva del sovrano un eretico convertito dal papa
stesso. In un certo senso, aveva affermato che ai suoi tempi i due Soli, ciascuno nel suo
ambito, avevano svolto in modo armonico il loro ruolo. Ma non c’era niente di più falso.
Mai, nella storia della Chiesa Antica Indivisa, un imperatore esercitò un ruolo così
preponderante nella vita religiosa. E questo ovviamente lo portò a confrontarsi dialetticamente
con la Sede Apostolica, e nei momenti di scontro, caso unico nella storia, vinse lui, senza che
le generazioni successive ne condannassero l’operato. Che significato ha tutto ciò?
Il complesso rapporto tra Giustiniano e il papato inizia sin dai tempi dell’impero di suo zio
Giustino I il Vecchio (518-527), fondatore della Dinastia trace15. Questo anziano e capace
soldato fece del nipote il suo più intimo consigliere. Asceso al soglio imperiale dopo Anastasio
I, Giustino trovò ancora irrisolto l’ormai anacronistico Scisma Acaciano. Già Anastasio aveva
dovuto tener conto del crescente malumore della popolazione calcedonese contro la sua
politica in pratica filomonofisita, e ne aveva valutato il peso politico in relazione alla rivolta del
generale Vitaliano (513-515), a cui aveva fornito più di un pretesto. Sul trono pontificio si era
intanto insediato sant’Ormisda (514-523)16, una figura di presbitero insigne per il suo raro
equilibrio, approdato ai sacri ordini durante la vedovanza, desideroso anch’egli di riprendere
l’iniziativa sullo scacchiere orientale dopo l’empasse della politica del predecessore san
Simmaco (498-514), assorbito dalla lotta con l’antipapa Lorenzo (498-499; 501-506),
14 DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia – Paradiso VI, 10-27, a cura di N.SAPEGNO, Firenze 19853. 15 Cfr. su di lui A.A.VASILEV, Iustin the First. An Introduction to the Epoch of Justinian the Great, Cambridge (Mass.) 1950. 16 Cfr. su di lui la trattazione in E.CASPAR, Geschichte der Papsttum, Tubinga 1930-1933, vol. II: Das Papsttum unter byzantinischer Herrschaft, 1933, pp. 129-192; in F.X.SEPPELT, Geschichte der Päpste, Monaco 1954-1959, vol . I, pp. 244-252; in J.N.D.KELLY, The Oxford Dictionnary of the Popes, Oxford 1986, pp. 150-152; più le voci in DCB 3, coll. 155-161; DTC 7, coll. 161-176; LThK 5, coll. 483 s.; NCE 7, 148; nell’Enciclopedia del Papato, a cura dell’Istituto dell’Enciclopedia Treccani, Milano 2000, vol. I.
17
considerato peraltro filobizantino. Anastasio inviò due lettere17 a Ormisda per invitarlo a un
sinodo da tenersi a Eraclea, e il pontefice di origine persiana gli dettò le condizioni per la
riconciliazione inviandogli una delegazione guidata dal colto vescovo di Pavia sant’Ennodio:
riconoscimento del Calcedonese e del Tomus Leonis, adesione agli anatemi contro Nestorio,
Eutiche e Acacio, nonché contro i successori e fiancheggiatori di quest’ultimo, sottoscrizione
della Formula Hormisdae e trasferimento dinanzi alla Sede Apostolica delle vertenze relative ai
vescovi deposti ed esiliati in seguito allo Scisma18. Ciò faceva chiaramente vedere che Roma
non aveva abbandonato la linea dura tradizionale, e dava ancora valore dottrinale ad una
disputa che in ultima analisi era sostanzialmente disciplinare, almeno per ciò che riguardava
l’aspetto tecnico della damnatio memoriae dei patriarchi di Costantinopoli coinvolti e ormai
morti da tempo. In realtà, Roma aveva ben chiara l’implicazione teologica della disputa: non
solo l’irreformabilità dei canoni dogmatici calcedonesi, sospesi abusivamente dall’Henotikon di
Zenone, ma anche la valenza del primato di Pietro, sia inteso come esercizio di magistero
supremo che come autorità giurisdizionale suprema. Solo a queste condizioni Ormisda poteva
accettare un concilio universale. Anche Anastasio aveva chiari i termini di questa questione, e
opponeva al primato di Pietro, che pur non negava di principio, le sue necessità politiche e il
suo ruolo sacrale di imperatore. Perciò la disputa non si risolse, nonostante un ulteriore
tentativo19. Il punto più indigeribile era senz’altro la Formula Hormisdae, che enunciava a
chiare lettere il primato petrino e poneva sullo stesso piano dogmatico sia il Sinodo di
Calcedonia che il Tomo a Flaviano di Leone I, equiparando gli anatemi degli eresiarchi
cristologici a quelli dei patriarchi di Costantinopoli, peraltro illegittimi dal punto di vista
romano, che negava la precedenza concessa a questo patriarcato sugli altri orientali proprio
dal concilio Calcedonese, col canone XXVIII20. Era, in sostanza, la sconfessione della teologia
imperiale, per cui il rango religioso di una città dipendeva da quello civile, e faceva della
dignità patriarcale una gratificazione non solo di origine apostolica, ma anche legata al soglio
imperiale e alla sua residenza. Non c’è da meravigliarsi se Anastasio rigettò il tutto.
17 Collectio Avellana = Epistolae Imperatorum, Pontificum, aliorum inde ab anno 367 usque ad annum 553 datae, a cura di O.GUENTHER, Vienna 1895-1898, nn. 107, 109. 18 Collectio Avellana, nn. 116 a, b; 115. 19 Collectio Avellana, nn. 126-134, 138. 20 Sulla Formula cfr. W.HAACKE, Die Glaubensformel des Papstes Hormisdas in acacian. Schisma, Roma 1939.
18
L’avvento di Giustino I e di suo nipote cambia tutto, in modo inedito. Il duo imperiale aveva
senz’altro una sincera convinzione calcedonese, e mirava alla riunificazione dell’Italia gotica
all’Impero. Le due cose andavano insieme: l’Impero poteva essere uno solo se una fosse stata
la fede, e la fede dell’Occidente era irrimediabilmente diofisita, oltre che fautrice del primato di
Pietro. Queste posizioni erano sempre più largamente condivise a Bisanzio, e la pressione
popolare convinse Giustino e Giustiniano a riallacciare la trattativa: prima ancora che Ormisda
potesse influire sulla Chiesa bizantina, i monaci calcedonesi, capeggiati dagli Acemeti,
organizzarono un tumulto che impose al patriarca Giovanni II (518-520) e al suo sinodo di
condannare l’Henotikon, di riconoscere Calcedonia e di rientrare in comunione col papa.
Giustino ratificò senza battere ciglio il decreto sinodale, e inviò una delegazione a Roma per le
trattative, accompagnata da lettere sue e di Giustiniano21. L’anziano imperatore aveva inoltre
già spontaneamente richiamato dall’esilio tutti i presuli calcedonesi esiliati perché ostili
all’Henotikon. Ormisda era in una posizione di forza notevole, e prese contatti non solo coi due
porporati, ma anche col patriarca e altri dignitari, preparando il terreno ad una nuova missione
diplomatica, latrice delle stesse proposte fatte ad Anastasio, compresa la Formula. Essa fu
sottoscritta da alcuni vescovi dei Balcani via via che i legati ne attraversarono le diocesi. A
Costantinopoli fu un vero trionfo: il 28 marzo 519, vinte alcune resistenze, i legati fecero
sottoscrivere a Giovanni II la Formula, tra le grida di giubilo del clero e del popolo22. E la
Formula, oltre ai riconoscimenti dogmatici di Calcedonia e del Tomo di Leone, implicava la
consegna postuma a Satana di Acacio, Eufemio e Macedonio, tutti patriarchi di Costantinopoli,
e addirittura degli imperatori Zenone e Anastasio I. La corte accettò tutto, senza battere ciglio.
Il patriarca tuttavia, sottoscrivendo la Formula, aggiunse una glossa in cui esprimeva la sua
gioia perché la prima e la seconda Roma avevano ritrovato l’unità, possedendo un eguale
rango primaziale. Ma probabilmente ciò si riferiva all’eguale status patriarcale, e in ogni caso
non era un’aggiunta né riconosciuta né dotata di peso politico. Il pontefice riconobbe il ruolo
che Giustino aveva avuto nella soluzione dello Scisma, e chiese un ulteriore sforzo per
restaurare l’unità interna della Chiesa egiziana23, gravemente minata dall’azione nefasta di
Severo di Antiochia, lì esiliato. Anche in questo, Giustino e Giustiniano si mostrarono ben
21 Collectio Avellana, nn. 160, 162. 22 Collectio Avellana, nn. 141-158; 213, 214; 223; 167. 23 Collectio Avellana, nn. 160-165; 168-170; 176; 225-227.
19
disposti, pur non concedendo la deposizione del metropolita acaciano di Tessalonica, Doroteo.
In effetti, anche in altri casi, il duo imperiale non potè o non volle applicare le condizioni
imposte da Roma con tutta la minacciosa rigidità richiesta da Ormisda, essendo serpeggiante
un certo malumore verso il pontefice. Questi allora incaricò il nuovo patriarca Epifanio di
eliminare i resti dello Scisma agendo in qualità di suo legato, calcando così la mano sulla
superiorità della prima Roma sulla seconda.
Ma perché Giustiniano e Giustino furono così acquiescenti con Roma ? Ovviamente essi erano
sinceramente calcedonesi e cattolici; altrettanto ovviamente cercavano l’unità dell’Impero, che
l’Henotikon aveva più profondamente minato, senza recuperare i monofisiti, e miravano
all’allargamento del consenso in Occidente. Del resto, il contegno di Giustiniano, che è la vera
testa pensante della politica religiosa del periodo, è chiaro: la soluzione alla divisione della
cristianità imperiale, giocata sulla cristologia efesino-calcedonese, e fondata sulla
contrapposizione etnica tra greco-romani e afro-asiatici, andava ricercata non contro i sinodi,
ma oltre essi, integrandoli così come essi si erano tra loro integrati. Ciò non era eterodosso, ed
era politicamente saggio e opportuno. Ciò che Giustiniano fece a proposito della Formula
Teopaschita è illuminante, come vedremo tra breve. In quest’ottica egli non teme il papato,
anzi ne ha bisogno, perché solo il suo primato può dare garanzia di ortodossia ai sinodi. D’altro
canto, il ruolo imperiale è ai suoi occhi altrettanto importante, perché la Chiesa è nell’Impero,
come in un involucro, e l’imperatore ha il diritto e il dovere di prendersene cura. E’ proprio alla
posizione imperiale che la Chiesa stessa deve riverenza.
Che Giustiniano avesse sin dall’inizio questa concezione, lo dimostra il fatto che da subito tentò
una nuova strada per la riconciliazione tra diofisiti e monofisiti, e che ritenesse la statio
imperatoris degna di un meritevole ascolto da parte della Sede Apostolica lo dimostra il diverso
contegno che tenne, prima e dopo la sua intronizzazione, nei confronti di questa nuova
soluzione.
Essa altro non è appunto che la citata Formula Teopaschita24. Essa fu proposta dai cosiddetti
monaci Sciiti (probabilmente Goti della Dobrugia), guidati da Massenzio, che era di formazione
latina. Essi avevano parteggiato per Vitaliano nella lotta contro Anastasio, e sostenevano di
24 Cfr. sull’arg. W.ELERT, Die theopaschitische Formel, in ThLZ 75 (1950), pp. 195-206.
20
poter sintetizzare tutta la cristologia di Calcedonia nella formula: Εĩς της Τριάδος παθών, Unus
ex Trinitate passus, Uno della Trinità ha sofferto (nella carne). Con questa frase, tutta la
dottrina calcedonese era sicuramente blindata da ogni inquinamento nestoriano; essa era
senz’altro ortodossa: Cristo, in quanto Dio, è della Trinità; è uno, perché distinto dalle altre
due Persone; soffre nella carne, perché la sofferenza è propria dell’umanità, ma la scelta di
volerla è della Persona, la quale è divina sia per il vincolo ipostatico sia perché la Divinità è
preesistente all’Incarnazione. Ma è altrettanto vero che una simile formula sarebbe suscettibile
di una interpretazione monofisita, specie se avulsa dal contesto dei canoni calcedonesi.
Giustiniano se ne innamorò subito, ma non credo – come sostiene H.G.Beck – che lo fece per
compiacere Vitaliano, ma piuttosto perché capì che in essa vi era la possibilità di riconciliare
Cattolici e Monofisiti.
In effetti, se il senso della terminologia teopaschita fosse stata autorevolmente fissata dal
magistero, essa sarebbe stata lecitamente adoperabile per la riunione delle Chiese, almeno di
quelle nell’Impero, essendosi i nestoriani rifugiatisi presso i Sasanidi. Del resto, anche la
terminologia degli Anatemi Cirilliani era, alla luce di quella calcedonese, eretica, e non a caso
era adoperata in senso monofisita dai Copti. Eppure nessuno aveva ripudiato il pensiero di
Cirillo, né tantomeno il dogma efesino, ma piuttosto lo si era precisato in un lessico tecnico
nuovo, alla luce del quale andava interpretata la Formula, con quel tanto di elasticità
necessaria per recuperare la cristologia monofisita in senso ortodosso.
L’idea giustinianea venne sottoposta a papa Ormisda con una personale difesa dell’ortodossia
della Formula25, ma il pontefice, come del resto i suoi legati, rigettarono la proposta di
adottarla ufficialmente. Ormisda non la condannò, come si è falsamente preteso in seguito, ma
capì che il rimaneggiamento cristologico possibile era troppo ampio ed era pericoloso, perciò la
escluse dalle professioni di fede.
Ma Giustiniano dovette confermarsi sempre più nella bontà delle sue idee, vedendo cosa
accadde dopo la fine dello Scisma: i monofisiti, non essendo più vincolati all’Henotikon,
rialzarono la testa, e la contestazione fu fortissima proprio nell’Illirico, sebbene esso fosse
parte del Patriarcato d’Occidente. In Siria i vescovi ortodossi poterono essere imposti solo con
25 Collectio Avellana, n. 196.
21
le armi, e in Egitto il partito monofisita era sempre coordinato da Severo di Antiochia.
L’imposizione sul soglio alessandrino di un legato papale, anche se copto, dimostrò come
Ormisda e Giustino I si illudessero sulla reale portata della Riunificazione delle Chiese: essa
riguardava solo gli ortodossi, e non certo i monofisiti. Di lì a poco, il patriarca calcedonese fu
rimpiazzato dal monofisita Timoteo III, che rinnegò la cristologia ortodossa e persino
l’Henotikon. Giustiniano dovette convincersi della necessità di una nuova cristologia che
integrasse quella di Calcedonia, senza rinnegare il concilio ma aiutando i monofisiti ad
accettarla. Evidentemente, Ormisda non era insensibile a questa chimera, ma si rendeva conto
che la possibilità oggettiva di perseguirla era al momento nulla: troppo accesi erano i contrasti
per appianarli con un lifting lessicale. Del resto il pontefice, che aveva del suo ruolo un
concetto altrettanto ampio di quello che Giustiniano aveva della dignità imperiale, mantenendo
i contatti con i presuli dell’Occidente, come Sallutio di Siviglia, Avito di Vienne, Cesario di Arles,
potè tastare il polso di tutta la Chiesa, e capire come lo sforzo di addomesticare la cristologia
calcedonese non era al momento utile in vista di una retta concezione cattolica della fede26.
Quanto la posizione del papato fosse delicata, si vide alla morte di Ormisda, con l’elezione di
san Giovanni I (523-526), un anziano e colto diacono amico di Boezio, e che passava per
filobizantino27. Con lui inizia una serie di pontefici dalla vita breve, che non poterono
fronteggiare le varie emergenze in cui si trovarono. Ma la politica ultraortodossa di Giustino I,
volta a contenere l’influenza ariana nella società bizantina, impaurì Teodorico, che sospettava
una convergenza politica tra i Romani e il papa da un lato e Bisanzio dall’altra. E com’è noto
inviò da Giustino Giovanni per persuaderlo a retrocedere dalla sua politica. Il papa recalcitrante
si recò a Costantinopoli, dove non ottenne nulla, tranne onori che mostravano
indiscutibilmente l’attaccamento del Bosforo alla Sede Apostolica. Le richieste teodoriciane
(fine delle persecuzioni antiariane, restituzione delle chiese agli ariani) furono accolte, tanto
più che moltissimi ariani si erano convertiti al cattolicesimo, e quindi non costava nulla
aderirvi. Ma la richiesta più importante – il diritto all’apostasia per chi si era convertito per
imposizione – il papa rifiutò di presentarla. Tanto bastò perché Teodorico, al ritorno di
26 Le lettere di Ormisda sono in Epistolae Romanorum Pontificum I, a cura di A.THIEL, Braunsberg 1897, nn. 9. 22. 24-26. 88. 142-143. 150. 27 Su di lui cfr. CASPAR II, pp. 182-192; DTC 8, coll. 593-595; NCE 7, coll. 1006 s.; SEPPELT 1, pp. 255-257; KELLY, pp. 153-155.
22
Giovanni, lo imprigionasse a Ravenna, causandone la morte mediante l’angosciosa attesa di un
destino tutt’altro che roseo28. Poco dopo morì anche il sovrano ostrogoto, e nel 527 anche
Giustino scese nella tomba. Ora iniziava l’impero giustinianeo.
Il nuovo monarca, ben consapevole della maestà del trono, iniziò un programma che
realizzasse gli obiettivi che aveva consigliato allo stesso zio. Nell’immediato non ebbe relazione
coi successori filogotici di Giovanni I, il sannita san Felice III (526-530) e il goto-romano
Bonifacio II (530-532), anche per il corto respiro della loro politica29. Forse l’imperatore guardò
con benevolenza all’antipapa Dioscoro (530), esule alessandrino, ma la sua morte prematura
restaurò l’unità della Chiesa Romana30. D’altro canto, forse per ritorsione per l’aperta politica
filogotica di Bonifacio – goto lui stesso – il monarca non impedì al patriarca bizantino Epifanio
di deporre il metropolita di Larissa, Stefano, sebbene appartenente alla giurisdizione del vicario
apostolico di Tessalonica, rappresentante del Papa. Questi accolse l’appello di Stefano e lo
trattò in uno dei suoi sinodi stagionali del 532, in cui diede ordine di reintegrarlo.
Alla morte di Bonifacio, il trono pontificio fu occupato dal cardinale presbitero di San Clemente,
Mercurio, candidato del re Atalarico. Egli assunse il nome di Giovanni II (533-535)31, e si
sforzò di mantenersi in equilibrio tra Ravenna e Costantinopoli. Con lui, Giustiniano tornò alla
carica per la Formula Teopaschita, resasi ancor più necessario a suo modo di vedere, per i
complessi sviluppi della situazione religiosa nell’Impero. Anzitutto, Giustiniano era sempre
dell’avviso che con i monofisiti moderati si poteva trattare. Inoltre, era cresciuta l’influenza di
Teodora a corte, grazie al prestigio da lei conseguito per il modo virile con cui aveva
fronteggiato la rivolta di Nika nel 532; e Teodora era monofisita. Inoltre l’imperatore iniziò a
richiamare dall’esilio vescovi e monaci monofisiti, sei dei quali, invitati nella capitale,
sottoscrissero dichiarazioni concilianti32 e si assoggettarono a un dibattito unionista (la Collatio
cum Severianis)33, ma non aderirono al concilio di Calcedonia – tranne uno – ribadendo la loro
convinzione che la terminologia sinodale era suscettibile di una lettura nestoriana. Giustiniano
sembra aver condiviso questa valutazione, e pubblicò una serie di editti dogmatici, in cui la
28 Sull’arg. cfr. H.LÖWE in HJ 72 (1953), pp. 83-100 e P.GOUBERT in OrChrP 24 (1958), pp. 339-352. 29 Su di loro CASPAR II, p. 151 s., 193-198; SEPPELT I, pp. 257-262; KELLY, pp. 156-157, 160-161. 30 Cfr. SEPPELT I, pp. 141.147.160; KELLY pp. 158-159. 31 Su di lui cfr. CASPAR II, pp. 217-219; SEPPELT II, pp. 263-265; KELLY, pp. 162-163; M.C.PENNACCHIO nell’Enciclopedia dei Papi, vol. I, pp. 499-503. 32 Cfr. E.SCHWARTZ, Kyrillos von Skythopolis, Lipsia 1939, p. 389 33 Se ne veda il resoconto di Innocenzo di Maroneia negli Acta Conciliorum Oecomenicorum, ed. E.SCHWARTZ, vol. IV, 2, 167-184.
23
cristologia calcedonese era sfumata e soprattutto “corretta” dalla formula teopaschita34. Segno
che l’imperatore, avvalendosi della sua rinnovata posizione di protettore della Chiesa, voleva
ritornare con ben altro cipiglio sulla questione, accantonata frettolosamente da Ormisda.
Non era la prima volta che gli imperatori si dilettavano di teologia: il fattore antropologico
precristiano che faceva del sovrano l’interprete dei divini disegni, e che risaliva alle origini della
concezione monarchico – universale nell’antica Mesopotamia, giustificava incursioni dottrinali
da parte degli Isoapostoli. Già Leone I aveva riconosciuto un lume speciale in Marciano.
Giustiniano dunque non faceva niente di nuovo, ma lo avrebbe fatto sempre di più. Il patriarca
Epifanio non ebbe da ridire sui decreti, ma i monaci acemeti sì, e organizzarono un tumulto,
per poi appellarsi al papa. Anche l’imperatore si rivolse a Giovanni, riconoscendo il suo primato
e spingendolo ad approvare il suo decreto. Giovanni lo fece in un sinodo, e dopo aver tentato
inutilmente di persuadere gli acemeti ad aderire ai suoi deliberata, li scomunicò come
nestoriani, impressionato probabilmente anche dal fatto che essi rifiutavano alla Vergine il
titolo di Theotòkos, perché ostili alla cristologia della communicatio idiomatum (23 dicembre
534). La lettera papale fu incorporata nei codici imperiali, e Giustiniano registrò con
soddisfazione che anche il papa aveva rintracciato obiettive convergenze tra gli Anatematismi
cirilliani e la Formula Teopaschita35.
Questa scelta politica di Giovanni II è stata assai discussa e criticata. Ma meriterebbe più
considerazione. Anzitutto non è una sconfessione di Ormisda. Inoltre, abbandonando le sue
pregiudiziali pastorali, tenta di proporre un compromesso che – smettendo di coprire il fianco
della cristologia calcedonese solo dal monofisismo – si cauteli dal nestorianesimo e recuperi in
qualche modo i monofisiti più sensibili. In effetti, c’erano molti più motivi pastorali per
recuperare i monofisiti severiani – assai numerosi – che di mantenere legami con dei
criptonestoriani come gli stessi acemeti dimostrarono di essere. Questi, con la loro ostinazione,
dimostrarono di essere attaccati, più che al sinodo di Calcedonia, all’interpretazione che essi ne
davano, avulsa dalla dottrina dei Concili precedenti. Infine, rilevando la convergenza tra la
terminologia cirilliana e quella teopaschita, sia Giovanni che Giustiniano dimostrarono di aver
compreso la rilevanza della questione lessicale, capace, una volta fissata in modo univoco, di
34 Codex Iustinaneus, ed. P.KRÜGER, 1906, I, 1, 6 e 7. 35 Collectio Avellana, ep. 84, 7-21; Codex Iustinianeus, I, 1, 8.
24
risolvere le controversie con una nuova sistemazione concettuale che non sembrasse ambigua
ai monofisiti rispetto a quella cristologia nestoriana che essi avversavano quanto i cattolici.
Infatti, non si poteva dare del monofisita anche a Cirillo, sebbene la sua terminologia fosse
stata adottata proprio da loro, e il retroterra teologico del Calcedonese era proprio la dottrina
di Efeso, codificata da Cirillo. Se dunque la sua terminologia era stata rigettata nella misura in
cui non era in grado di esprimere la sofisticata cristologia calcedonese, ma non era per questo
stata considerata eretica, a maggior ragione si poteva conservare quel lessico cirilliano che non
era in contrasto con essa, e ancor di più accogliere nell’olimpo delle dottrine ortodosse quelle
formule che lo riprendevano. Credo dunque che la scelta giovannea fosse assai meno
sprovveduta di quanto non si creda oggi, e riveli in quel papa una comprensione delle questioni
teologiche e della loro metodologia certo più profonda di quella dei successori.
Forte della comprensione del papa, Giustiniano portò avanti la sua politica conciliativa, e
richiamò dall’esilio Severo di Antiochia, e lo fece vivere a Bisanzio. Altri monofisiti godettero
della protezione dell’imperatrice. Nel frattempo, l’asceta Antimo, già vescovo di Trebisonda,
salì al soglio patriarcale bizantino, forse con l’aiuto di Teodora. Egli forse non era monofisita,
ma entrò in comunione con Severo, e riconobbe sia il patriarca ortodosso antiochieno Efraim,
ma anche quello monofisita alessandrino. Era un ecumenismo piuttosto imprudente per
l’epoca, che evidentemente non poteva avvenire senza il consenso di Giustiniano. Forse egli
voleva preparare il terreno per una progressiva riconciliazione delle fazioni, ma di fatto
restaurava l’ordine dell’Henotikon. E ben presto Giustiniano capì in quale empasse l’aveva
condotto la sua politica, ed ebbe bisogno ancora del papa per cavarsi d’impaccio.
Giustiniano aveva da poco attaccato l’Italia per liberarla dai Goti, e il re barbaro Teodato inviò
papa sant’Agapito I (535-536)36 presso il Bosforo per ottenere la pace. Agapito, già
arcidiacono, aveva una vasta cultura e una personalità brillante come quella di Ormisda, e la
stessa distaccata freddezza verso i Goti di Giovanni I. Ma non aveva nessuna intenzione di
essere servile con Giustiniano. Per esempio già nel 535 l’imperatore gli aveva chiesto di
trattare con maggiore indulgenza i preti ariani convertiti dell’Africa vandalica appena
riconquistata da Belisario, ma Agapito aveva ribadito ciò che aveva scritto ai vescovi cattolici
36 Cfr. su di lui O.BERTOLINI, nell’Enciclopedia dei Papi, vol. I, pp. 504-508; CASPAR II, pp. 199-229; SEPPELT I, pp. 265-269; KELLY pp. 164-166; DHGE 1,coll. 887-890; DBI 1, coll. 362-367; LThK 1, 182; NCE 1, col. 194 s.
25
della regione, e cioè che gli eretici non potevano essere riammessi alle funzioni sacerdotali,
perché era vietato dai canoni. Agapito, nel suo viaggio a Costantinopoli, si occupò poco della
Guerra Gotica, ma subito riaffermò le regole della convivenza ortodossa. Giustiniano, che si era
profuso nelle solite asserzioni di fedeltà al Papato, lo lasciò fare traendo vantaggio dalle sue
mosse. Anzitutto Agapito rifiutò la communicatio in sacris ad Antimo, perché già vescovo di
Trebisonda, e quindi illegalmente spostato – per la legge canonica dell’epoca – alla sede di
Bisanzio. In realtà, Agapito lo sospettava di monofisismo, e volle che un sinodo esaminasse la
questione. Resistendo a pressioni lusinghiere e minacciose, il pontefice non solo persistette
nelle sue richieste, ma in una pubblica disputa con Antimo ne smascherò l’eresia. Giustiniano
fece subito allontanare il patriarca illegittimo, colpendo al cuore – inter alia – il partito
monofisita di Teodora. Il nuovo patriarca, Menas, sottoscrisse un’ampliata formula di Ormisda.
Agapito morì il 22 aprile 536, senza aver potuto presiedere il sinodo, ma Giustiniano lo celebrò
lo stesso, ed esso assunse il carattere di un concilio generale. Non solo Antimo, contumace, fu
degradato, ma anche Severo di Antiochia fu nuovamente condannato, con il beneplacito
dell’imperatore, a richiesta di alcuni monaci palestinesi37. Nuovamente esiliato, Severo tornò in
Egitto. Il trionfo di Agapito, sebbene postumo, era completo, e Giustiniano poteva mandare in
soffitta quella strategia che, imperniata sul teopaschitismo, doveva recuperare i monofisiti. In
Siria, Efraim si adoperò per la conversione forzata degli eretici. In Egitto, il patriarca Teodosio,
creatura di Teodora, fu rimpiazzato da Paolo, eletto da Giustiniano. Egli sperava che le divisioni
tra i copti favorissero l’affermazione definitiva del Calcedonese, ma sbagliava. Non solo i Copti
rimasero monofisiti, anche se di vari indirizzi, ma addirittura Teodosio continuò a governare gli
eretici aiutato da Teodora e da Costantinopoli. A Bisanzio, il grande ispiratore della politica
imperiale, l’apocrisario apostolico Pelagio, che pur agiva da proconsole papale, non capiva che
l’imperatore andava maturando una nuova strategia unionista, sempre con lo stesso schema,
oltre e non contro Calcedonia, ma questa volta in modo più ardito: si preparavano i Tre
Capitoli. Con essi Giustiniano non si sarebbe limitato a reinterpretare la cristologia di
Calcedonia, ma ad integrarla.
37 Atti nella ACO III – Collectio Sabbatica, pp. 27-186; MANSI VIII coll. 873-1176.
26
Le mosse preliminari di quella che fu la più grande partita politico-ecclesiastica tra Impero e
Papato nell’età bizantina si giocarono agli estremi opposti dell’ecumene romano: in Italia e in
Palestina. A Roma, morto Agapito, Teodato intronizzò brutalmente il suddiacono Silverio (536-
537)38, figlio di Ormisda e favorevole ai Goti. Uomo di santa vita, poi canonizzato, pagò
l’irregolarità della sua elezione con quello che gli accadde. A Bisanzio l’apocrisario Vigilio39,
diacono di Agapito e predecessore del summenzionato Pelagio, aveva stretto un pactum
sceleris con Teodora, chiedendo il trono di Pietro in cambio del ripudio del concilio di
Calcedonia e della reintegrazione di Antimo40. Quando tornò in Italia, Vigilio, al seguito di
Belisario e delle sacre legioni bizantine, entrò in Roma, che capitolò per consiglio di Silverio.
Ma questi fu lo stesso accusato di intelligenza col nemico e deposto brutalmente e
ignominiosamente da Belisario, che lo spedì in Licia e fece intronizzare Vigilio, su mandato
segreto dell’imperatrice. Giustiniano, che non era affatto ostile a Silverio, lo fece ricondurre in
Italia per un’istruttoria più dettagliata, ma Vigilio e Belisario insabbiarono l’inchiesta e
relegarono il papa a Ponza, dove egli abdicò, e morì poco dopo. Da quella data, Vigilio (537-
555) era il papa legittimo, e pochi conoscevano i torbidi retroscena della sua ascesa al soglio.
Promise segretamente aiuti ad Antimo, guardandosi però dal rinnegare Calcedonia. Nel
contempo, però, manifestò pubblicamente all’imperatore la sua indiscutibile fede diofisita. Il
temporeggiatore astuto, abile ed esperto in tutti gli affari ecclesiastici, paradossalmente
ammanicato con cattolici e monofisiti, pensava forse di traghettare il suo papato
tranquillamente con questi espedienti. Ma a lui la Provvidenza impose l’onere di fronteggiare la
più esplicita offensiva dogmatica dell’imperatore teologo.
Egli ne fece le prove generali con la condanna di Origene, nel 54241. Inserendosi – in verità di
malavoglia – nella controversia tra origenisti e antiorigenisti della Nuova Laura di Palestina,
Giustiniano arrivò a decidere la condanna postuma del grande teologo, in un ennesimo
caleidoscopio di lotte e intrighi. In questa lotta ebbe probabilmente come alleato Pelagio, per
cui questa battaglia parve esser combattuta sotto le insegne della Sede Apostolica. Ma nel
balletto delle varie alleanze religiose, alcune figure erano state disegnate dall’imperatore con
38 Cfr. su di lui KELLY, pp. 167-168; CASPAR II, pp. 230-233; SEPPELT 1, pp. 270-273. 39 Cfr. su di lui KELLY, pp. 169-172; CASPAR, II, pp. 229-286; SEPPELT 1, pp. 270-290; DTC 15, coll. 2994-3005; LThK 10, col. 787 ss.; NCE 14, coll. 664-667. 40 Cfr. LIBERATO, Breviarium causae Nestorianorum et Eutychianorum, in ACO II, 5, p. 136. 41 Testo in PG LXXXVI, 1, 945-990; ACO III, pp. 189-214.
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cavalieri non occasionali. Tra di essi vi era il monaco origenista Teodoro Askida. Entrato a corte
per difendere il suo maestro, Teodoro era divenuto un favorito dell’imperatore, che l’aveva
fatto metropolita di Cesarea di Cappadocia. Aderì probabilmente per opportunismo alla
condanna di Origene, ma la sua influenza a corte sarebbe continuata nefasta. Al decreto
dogmatico, acre e sarcastico, avevano aderito rispettosi tutti i patriarchi, compreso il papa
Vigilio. Giustiniano credette di aver trovato in lui l’interlocutore più acquiescente per
predisporre la riunione coi monofisiti. Ma si sbagliava. Vigilio avrebbe voluto essere
arrendevole, ma non poteva. E su questo distinguo si giocò l’ultima, drammatica fase del
rapporto tra Giustiniano e Roma.
L’imperatore aveva deciso di giocare un’ultima carta, per promuovere la riunificazione dei
monofisiti moderati alla Grande Chiesa, e probabilmente su questa strada lo spinse Teodoro
Askida, divenuto ormai il suo consigliere religioso. Tale strategia implicava la condanna dei
cosiddetti Tre Capitoli, ossia la Lettera di Iba di Edessa del 433, le opere di Teodoro di
Mopsuestia, e le opere polemiche di Teodoreto di Ciro contro Cirillo d’Alessandria. Ma andiamo
per ordine, cominciando dal più antico dei tre, Teodoro42. Questi, morto nel 428, era stato
maestro di Nestorio. Ovviamente, nella sua terminologia teologica, si ravvisavano quelle scelte
di fondo che avrebbero fatto condannare il discepolo. Egli parlava della natura divina di Cristo
come di quella che assume la natura umana, e quest’ultima era “inabitata” dalla prima. La
netta distinzione tra le due nature perfette implica tuttavia una loro unione non accidentale,
nel cosiddetto προσόπον, che però non è la υπόστασις calcedonese, ossia non è una persona
sussistente. In tal senso la cristologia teodoriana è eretica se giudicata col metro di
Calcedonia. E tale la consideravano i monofisiti. Anche dopo il concilio di Calcedonia Proclo di
Costantinopoli lo aveva condannato, ma né Giovanni di Antiochia né lo stesso Cirillo
Alessandrino avevano aderito. In difesa di Teodoro si era levato Iba di Edessa, nella sua lettera
al vescovo persiano Maris, in cui rigettava le condanne di Proclo e faceva le pulci alla
terminologia di Cirillo43. Su questa infine si soffermava Teodoreto di Ciro44, che metteva in
42 Su di lui cfr. R.A.NORRIS, Manhood and Christ. A study in the Christology of Th. Of M., Londra 1963. Opere: commenti ai Salmi ed. R.DEVRESSE, in SteT 93, Roma 1939; a Gv, in greco ed. DEVRESSE, in SteT 141, Roma 1948; omelie ed. R.TONNEAU, in SteT 145, Roma 1948. 43 ACO II, 1, 3, 32-34. 44 Sul problema cristologico in Teodoreto cfr. M.RICHARD, in RSPhTh 25 1936 pp. 459-481, e A.GRILLMEIER, Christ in Christian Tradition, pp. 419-427. I suoi scritti in PG LXXV-LXXVI, LXXXIII.
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evidenza l’ambiguità di alcune parole degli Anatematismi di Cirillo, cioè l’unione delle nature
indicata con κράσις, e l’uso di φυσις quasi come sinonimo di υπόστασις. Non appena tuttavia
Cirillo smise d’insistere sugli Anatemi e chiarì la distinzione tra φυσις e υπόστασις, Teodoreto
accettò l’unione del 431.
Come si vede, i tre autori erano antiochieni e quindi teologicamente contigui a Nestorio, e
avevano interpretato Cirillo dal loro punto di vista, ossia come ambiguamente vicini
all’apollinarismo. Ma solo il Conciliabolo di Efeso li aveva condannati, mentre Calcedonia li
aveva riabilitati, senza porsi il problema delle loro opere. In effetti, proprio la terminologia
calcedonese aveva risolto le ambiguità di tutti costoro, compreso Cirillo. Ma il timore dei
calcedonesi moderati, capeggiati da Askida e Giustiniano, di un’interpretazione nestoriana
(ossia antiochiena) della terminologia sinodale spinse alla condanna dei Tre Capitoli da parte di
un decreto imperiale, del 543-54445. Askida, volendo vendicarsi dell’antiorigenismo dei
calcedonesi estremisti, contribuì non poco alla stesura del testo46, che segnava una novità nella
politica dogmatica dell’imperatore: egli non solo arricchiva la dottrina tradizionale con i suoi
anatemi, ma non si appoggiava neppure all’autorità di un sinodo. Giustiniano non sbagliava
certo a condannare, dal punto di vista di Calcedonia, quei testi, né obiettivamente modificava
la dottrina sinodale, ma di fatto avviava una contesa legata ai modi del suo intervento e del
significato reale, storico, degli autori condannati. Giustiniano riteneva infatti di confermare così
le deliberazioni calcedonesi, evidentemente minacciate dai suscettibili sviluppi dell’esegesi dei
Tre Capitoli, ma non tutti erano in accordo con lui. Egli stesso, imbarazzato dal fatto di dover
condannare la Lettera di un vescovo, Iba, riabilitato da Calcedonia ma già anatematizzato dal
Sinodo del Ladrocinio, asserì che questi non ne era il vero autore, e scomunicò chi diceva
diversamente.
Giustiniano ordinò ai vescovi di sottoscrivere l’editto, ma Menas di Costantinopoli firmò sub
conditione, ossia se anche Vigilio avesse accettato. Anche Efraim di Antiochia fece qualche
resistenza, e così il patriarca di Gerusalemme. Ma i più ostili furono i vescovi italiani, gallici e
africani. Vigilio decise di resistere alla volontà imperiale. Certo non senza che lui lo sapesse, il
45 Frammenti in E.SCHARTZ, Zur Kirchenpolitik Justinians, Monaco di Baviera, 1940, pp. 73 ss. 46 Cfr. LIBERATO, Breviarium cit., in ACO II, 5, pp. 140 ss.
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suo fedele apocrisario Pelagio, che era tornato a Roma, aveva incaricato, già nel 544, Ferrando
diacono di Cartagine (†546) di formulare una difesa dei Tre Capitoli47.
Allora Giustiniano fece arrestare il papa il 22 novembre 545, mentre celebrava in Santa Cecilia,
lo tradusse in Sicilia e infine a Bisanzio (gennaio 547). Qui il papa ancora rifiutò la firma, e
scomunicò Menas, venendo scomunicato a sua volta da lui. Ma le pressioni di Giustiniano e –
credo – una più accorta riflessione sui sofismi teologici di Askida, indussero il duttile Vigilio
prima a riconciliarsi con Menas (547) e poi a pubblicare lo Iudicatum (aprile 548), in cui
condannò i Tre Capitoli, con qualche riserva48. L’atto papale era sostanzialmente libero, perciò
valido. Era inoltre distinto dal decreto imperiale, per cui non segnava una formale adesione ai
voleri giustinianei. Ma la rigidità fanatica degli Occidentali impedì la soluzione della crisi, in
quanto la reazione alla condanna papale fu tanto ampia da investire persino il suo seguito, in
cui Vigilio dovette scomunicare alcuni diaconi, tra cui lo stesso nipote Rustico, mentre da
Roma persino il suo fedele ex-apocrisario Pelagio, che lo rappresentava in diocesi, aveva
sconfessato lo Iudicatum. I vescovi d’Africa scomunicarono il papa, con un gesto inaccettabile.
In questo contesto Vigilio, raggiunto nel 551 dal più risoluto Pelagio, non trovò di meglio che
scaricare la colpa su Giustiniano che lo aveva costretto alla condanna. Questi, avendo bisogno
di un’anatema valido e perciò libero, acconsentì al ritiro dello Iudicatum e alla convocazione di
un concilio ecumenico. Lo Iudicatum era quello che noi chiameremmo oggi un atto di
magistero ordinario, per cui il suo ritiro non creava certo problemi dottrinali, anche se faceva
perdere la faccia al papa. Questi poi promise per iscritto all’imperatore di adoperarsi per la
condanna dei Tre Capitoli in concilio e di concertare con lui le sue prossime mosse. Il patto fu
ovviamente tenuto segreto.
Ma il progettato sinodo si dilazionava sempre più. La corte era preoccupata per la
composizione dell’assemblea, e perciò Giustiniano, subornato da Askida, promulgò Tredici
Anatemi contro i Tre Capitoli49, che fecero infuriare Vigilio. Dopo aver minacciato di scomunica
Askida e Menas se gli Anatemi non fossero stati ritirati, il papa, trasferitosi dalla Domus
Placidiae nella chiesa di San Pietro del Palazzo di Ormisda, protetto dal luogo sacro, diede
47 I rapporti tra Vigilio e Pelagio sono ricostruiti in L.DUCHESNE, Vigile et Pélage, in RevQuestHist 36 (1884), pp. 369-440; 37 (1885), pp. 529-593 48 Ricostruibile sulla base del Constitutum di cui parleremo, cfr. Collectio Avellana n. 83, 316-317. 49 E.SCHWARTZ, Drei dogmatischen Schriften Iustinians, AAM nuova serie 18, Monaco di Baviera 1939, pp. 72-111.
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corso alla sua minaccia anatematizzando Askida50. Giustiniano incaricò la polizia di trascinare
fuori il papa, ma questi si difese energicamente. Allora il despota gli fornì garanzie personali, e
Vigilio tornò alla Domus Placidiae. Ma di nuovo l’imperatore lo tenne come prigioniero, e il
pontefice fuggì addirittura a Calcedonia, nella chiesa conciliare di Sant’Eufemia. Da qui, mentre
Giustiniano con lusinghe e minacce tentava di farlo tornare, Vigilio promulgò una lettera in cui
si giustificava per le sue azioni e riscomunicò Askida51. Le sue sentenze ebbero diffusione, e
l’imperatore, che sapeva bene di aver bisogno del papa, fece una parziale marcia indietro,
inducendo Menas e Askida a sottomettersi a Vigilio, che si decise a tornare a Costantinopoli. La
morte di Menas (agosto 552) e la proclamata lealtà verso il papa del neo-patriarca Eutichio
crearono i presupposti per la distensione. Ci si accordò per riprendere l’idea del concilio. Ma le
trattative furono manipolate dall’imperatore in modo tale da far sì che, quando si radunasse, il
concilio fosse formato soprattutto da vescovi fedeli ai suoi Anatemi. Ciò avvenne il 5 maggio
553 a Costantinopoli: dei 166 presuli, solo una dozzina erano occidentali. Questa non era una
novità, nella storia della composizione dei concili ecumenici. Ma in queste circostanze ciò era
preludio ad una condanna senza dibattito dei Tre Capitoli. Sorprende come Giustiniano,
legalista fino al midollo, potesse credere di raggiungere risultati legittimi con queste procedure.
Venerava il papato ma maltrattava il papa, ossequiava il sinodo ma manipolava i padri. La sua
fede nella oggettiva validità dei deliberata del magistero lo spingeva a ricercarne di favorevoli
a sé con uno spirito tra il superstizioso e il blasfemo. Evidentemente in un contesto socio-
culturale in cui i dogmi erano sempre più un fatto dalle implicazioni politiche, e in cui spesso si
arrivava alle loro definizioni in modi traversi e sofferti (era successo pure ad Efeso), l’autocrate
si sentiva in diritto di imporsi anche in queste cose. E infatti ricordò ai padri conciliari che essi
avevano già condannato i Tre Capitoli con la firma al suo editto, e che anche Vigilio li aveva
condannati con lo Iudicatum. Questi fu invitato dall’assemblea a presiederla, ma rifiutò per la
scarsa partecipazione degli Occidentali; promise tuttavia un intervento ufficiale. Anche
Giustiniano si tenne lontano dal sinodo, che si apprestava a discutere dei Tre Capitoli. Ma il 14
maggio del 553 Vigilio, con un colpo di scena, promulgò un Constitutum52 - redatto da Pelagio
- che condannava sessanta proposizioni di Teodoro di Mopsuestia, ma non la sua persona né
50 E.SCHWARTZ, Vigiliusbriefe, Monaco di Baviera, 1940, pp. 10-15. 51 Vigiliusbriefe, pp. 1-10. 52 Collectio Avellana n. 83, 230-320.
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quelle dell’autore della Lettera di Iba e di Teodoreto, per rispetto a Calcedonia. Proibiva altresì
qualsiasi altra discussione in merito. Era una sconfessione del concilio in anticipo. Ma anche
del proprio Iudicatum. Il Constitutum si diffuse e Giustiniano, per parare il colpo, decise di
svergognare Vigilio rendendo pubbliche lettere del papa in cui egli difendeva il suo Iudicatum,
e soprattutto il suo giuramento del 550. Il concilio allora ruppe la comunione con Vigilio, senza
però scomunicarlo: era il papa, e poteva ravvedersi, per tornare ad esercitare in modo univoco
il suo magistero. Quale fosse questo modo, era ormai irrimediabilmente segnato.
Il 2 giugno 553 il concilio fulminò quattordici anatemi contro i Tre Capitoli, desunti dal decreto
imperiale. Già da prima dell’inizio dei lavori i padri, accondiscendendo ai desideri imperiali,
avevano condannato Origene, Evagrio Pontico –assertore della sua mistica- e gli origeniani
palestinesi, e Vigilio aveva acconsentito (marzo 553)53. Non gli rimaneva che aderire anche alla
condanna maggiore. Prostrato nel fisico, messo agli arresti di rigore domiciliari, isolato dai suoi
più intimi consiglieri ormai in carcere, demoralizzato e mai profondamente motivato nella lotta,
alla fine cedette, appellandosi alle Retractationes di Agostino, e scrivendo al patriarca Eutichio
di aver finalmente aperto gli occhi sulla meritata e completa condanna dei Tre Capitoli,
probabilmente convinto che il responso sinodale avesse creato una situazione nuova (8
dicembre 553)54. Da Roma lo reclamavano, dopo tanti anni di assenza, e la condizione del suo
rilascio era stata l’adesione alla condanna, mentre molti vescovi latini erano mandati in esilio.
La conferma papale dava al sinodo un nuovo valore, universale, vincolante. Vigilio il 23
febbraio 554 pubblicò un nuovo Constitutum in cui contestava l’autenticità della Lettera di Iba
e la giustificazione datane alla luce del Calcedonese55. Il secondo Constitutum, come del resto
l’adesione al sinodo, erano stati estorti di fatto, e potevano sembrare nulli. Ma facevano il paio
con lo Iudicatum e soprattutto con le vere intenzioni di Vigilio, palesate nelle lettere rese
pubbliche da Giustiniano. Perciò alcuni personaggi più avveduti aderirono al sinodo e si
riconciliarono col papa. Lo stesso Pelagio, che all’inizio si era dissociato dall’operato del papa, e
53 F.DIEKAMP, Die origenistichen Streitigkeiten, pp. 82 ss.; anatemi alle pp. 90-97. 54 MANSI IX, p. 419 s. Sul sinodo cfr. R.DEVRESSE, Le cinquième concile oecuménique et l’oecuménicité byzantine, in MiscMercati III, Roma 1946, pp. 1-15; C.MOELLER Le cinquième concile oecuménique et le magistère ordinaire, in RSPhTh 35 (1951), pp. 413-423 ; E.K.CHRYSOS, E ekklesiastikè politikè toù Ioustinianòu katà tèn èrin perì tà trìa kefàlaia kèi tèn è oekumenikèn sùnodov, Tessalonica 1969; ID.; Tmèmata tòn Practikòn tès è oecumenikès suvòdou parà Buzantinòis kronogràfois, in Κληρονοµία 2 (1970), pp. 376-407. 55 MANSI IX, 457-488.
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aveva addirittura composto la Defensio dei Tre Capitoli56, alla fine, dopo molta prigionia, aderì
alla sentenza conciliare. In effetti, le condanne non cambiavano la sostanza del Calcedonese.
Inoltre, come avrebbe scritto Gregorio Magno a Teodolinda, il Costantinopolitano II si era
occupato di persone e non di fede, ossia delle opere di singoli teologi, non della portata
dogmatica del Calcedonese57. Lo stesso Gregorio avrebbe puntualizzato che le sedute
calcedonesi in cui erano stati riabilitati Iba e Teodoreto non erano mai state approvate dalla
Santa Sede58. Né mai il concilio aveva approvato la Lettera di Iba e le opere di Teodoreto,
come erroneamente avrebbe sostenuto il polemista Facondo di Ermiane. Ma i metodi
giustinianei e l’opposizione occidentale crearono il caso, e invece di recuperare i monofisiti –
che rimasero indifferenti alle condanne in chiave antinestoriane dei Tre Capitoli, in quanto essi
rigettavano il Calcedonese in sé – la Chiesa imperiale perse l’Occidente, con uno scisma che in
alcune regioni sarebbe durato fino alla fine del VII secolo. A questo aveva portato l’insensata
politica di Giustiniano.
Questi il 13 agosto 554 concesse a Vigilio, con la Prammatica Sanzione, ampi poteri sull’Italia
gotica. Ma il papa ripartì solo nella primavera del 555, e non tornò più a Roma: morì a Siracusa
nel 556, lasciando la Santa Sede nel maggior discredito che avesse mai conosciuto in mezzo
millennio di storia. In effetti, neanche ai tempi di papa Liberio la situazione si era così
deteriorata, in quanto il pontefice, sopravvissuto a Costanzo II, aveva ritrattato l’adesione alla
Formula di Sirmio. Ora, bisognava vedere che cosa avrebbe fatto il successore di Vigilio.
Questi fu il diacono Pelagio (556-561)59, che Giustiniano aveva sempre stimato, e che impose
in modo autoritario all’Urbe dopo aver ottenuto l’assenso del clero romano presente a Bisanzio.
Egli patì le conseguenze dell’incertezza ondivaga del predecessore. Molti romani rifiutarono di
riconoscerlo come vescovo. La sua incoronazione fu differita al 16 aprile 556, e fu celebrata dai
vescovi di Perugia e Ferentino, mentre un presbitero rappresentava il vescovo di Ostia, a cui
pur toccava di presiederla. Accusato di aver tradito i Tre Capitoli adattandosi alla condanna che
prima aveva osteggiato, venne considerato un ambizioso che si era venduto a Giustiniano per il
trono pontificio, e addirittura fu sospettato di aver assassinato Vigilio per affrettare la
56 Ed. R.DEVRESSE, Roma 1932, in ST 57. 57 Registrum epistularum, a cura di P.EWALD-L.M.HARTMANN, IV, 37, in MGEp I-II, 1891-1899. 58 Reg. Ep., Appendix III, 1, in MGEp II, p. 463. 59 Cfr. su di lui CASPAR II, pp. 274-305; DCB 4, coll. 295-298; DTC 12, coll. 660-669; LThK 8, coll. 249 s., SEPPELT 1, pp. 286-292; KELLY, pp. 173-175; C.SOTINEL nell’Enciclopedia dei Papi, pp. 529-536.
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successione. Pelagio I volle quindi rendere una professione di fede, in cui aderì ai quattro
concili ecumenici oltre che alla condanna dei Tre Capitoli, ma in cui non emise giudizi su
Teodoro di Mopsuestia e difese energicamente Iba e Teodoreto60. Giurò inoltre di non aver
fatto alcun male al predecessore. Pelagio I trascorse il grosso del suo papato a subire gli
oltraggi degli scismatici (gli africani lo accusavano di perseguitare i morti) e a tentare di
persuadere i vescovi occidentali della sua ortodossia (scrisse al re franco Childeberto,
inviandogli una professione di fede61). Ma Milano e Aquileia non si riconciliarono mai con lui, e
così molti presuli toscani, mentre i Galli raffrontavano maliziosamente il suo scritto per i Tre
Capitoli con il suo atteggiamento presente, e in Spagna Vigilio era sottoposto ad una sorta di
damnatio memoriae, per cui ci si rifaceva ai suoi decreti in vigore – come la lettera a Profuturo
di Braga - ma non lo si nominava mai. La Chiesa d’Africa era anch’essa ribelle. Praticamente,
grazie a Giustiniano l’autorità papale era indiscussa solo nel Lazio e a Ravenna. Ma Pelagio I
aveva ritenuto che il gioco valesse la candela, non solo per una certa ambizione, ma anche
perché sapeva che, sconfessando il predecessore per una condanna di sicuro inopportuna e
impopolare, ma legittima, avrebbe creato un precedente gravissimo. La ratio cristologica era,
in questa vertenza, assai minore di quella ecclesiologica, e si correva il rischio di sottoporre al
consensus Ecclesiae ogni pronunciamento magisteriale papale e conciliare, se si fosse
sconfessato il V concilio ecumenico e Vigilio. Anche se la condanna era stata imposta, non
avendo negato alcun dogma, era opportuno considerarla valida, ex opere operato. Ragion per
cui Pelagio I non solo collaborò con il governo ma, sia pure inutilmente, chiese l’uso delle armi
per ridurre alla ragione gli scismatici, aprendo la strada ad una inedita e tutta medievale
cooperazione tra έθος e κράτος. Del resto, il dissidio con l’Occidente riguardava la sua persona
– e quella di Vigilio – e non il ruolo della Santa Sede nella Chiesa.
Inoltre, se Atene piangeva, Sparta non rideva. Come ho detto, Giustiniano dovette ben presto
accorgersi dell’ennesimo fallimento della sua politica forsennata. E fece l’ultimo salto della
quaglia della sua carriera teologica, diventando inequivocabilmente eretico, ossia seguace dei
fantasiasti di Giuliano d’Alicarnasso, che avevano contaminato il monofisismo col docetismo62.
60 Pelagii Epistolae quae supersunt, a cura di P.M.GASSO’-C.M. BATLLE, Montserrat 1956, Ep. XI. 61 Pelagii Ep., n. VII. 62 Cfr. R.DRAGUET, Julien d’Halicarnasse et sa controverse avec Sévère d’Antioche sur l’incorruptibilité du Corps du Christ, Lovanio 1924 ; M. JUGIE, L’empereur Justinien a-t-il été aphtartodocète ?, in EO 35 (1932), pp. 399-404 ; M.
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Probabilmente conquistato a questa dottrina da un vescovo palestinese, l’imperatore si
convinse che il corpo di Cristo era un incorruptibile, un άφθαρτον, e che egli per soffrire sulla
Croce compì un autentico miracolo. Sperava così che i monofisiti estremisti si riconciliassero
con lui, non avendo potuto recuperare i moderati. Compose così il suo ultimo decreto
dogmatico, perché fosse sottoscritto da tutti i presuli. Non sappiamo se mai lo pubblicò, ma il
suo contenuto fu subito noto, e suscitò l’esecrazione universale in Oriente come in Occidente.
Il primo a negargli l’assenso fu il patriarca Eutichio, ma il despota lo mandò in esilio (565).
Probabilmente anche il papa Giovanni III (561-574)63, fu informato del decreto, ma non ci è
giunta nessuna sua presa di posizione ufficiale. Potrebbe anche non aver avuto la necessità di
prenderla. La scarsa conoscenza del suo pontificato, nel corso del quale riuscì a far riconoscere
la condanna dei Tre Capitoli a Milano e in Africa, non ci aiuta a farci un’idea in merito. Ma
prima che il conflitto iniziasse in tutta la sua violenza, Giustiniano morì (14 novembre 565),
preservando la Chiesa da una nuova sciagurata vessazione a sfondo dogmatico.
Come valutare l’azione di Giustiniano ? La sua genuina ispirazione ecumenica si mescola
all’interesse politico, in modo senz’altro legittimo considerando la sua posizione d’imperatore.
Ma va notato che i tempi non erano maturi per una politica d’unione così spinta, che sembra
cinica data l’opposizione che non esitò a suscitare. Inoltre, la mistura di fede e politica
s’intorbida per la presenza sempre più cospicua di un dispotismo teologico che sfocia
inopinatamente nell’eresia. C’è da stupirsi, che questa politica ecclesiastica sia fallita? Del
resto, Giustiniano – che fu senz’altro un grande uomo – fallì in tutti i suoi disegni strategici, e
sbagliò nel concepirli. Sbagliò per esempio nel privilegiare lo scacchiere occidentale rispetto a
quello asiatico, e nel lanciarsi nelle Guerre Gotiche e d’Africa, accettando di pagare tributi ai
Sasanidi per non esserne disturbato. E fallì nel tentativo di rendere stabili le nuove acquisizioni
territoriali, perchè di lì a poco Arabi e Longobardi avrebbero fatto un solo boccone delle sue
conquiste tanto sudate. Allo stesso modo sbagliò con la Chiesa, puntando tutto sull’unificazione
coi monofisiti, e ottenendo invece solo lo scisma ad Occidente.
ANASTOS, The Immutability of Christ and Justinian’s Condemnation of Theodore of Mopsuestia, in DOP 6 (1951), pp. 123-160. 63 Su di lui cfr. M.C.PENNACCHIO, s.v., in Enciclopedia del Papato, vol. I, pp. 537-539; KELLY, p. 64; CASPAR, II, pp. 350-351; Dizionario Storico del Papato, a cura di P.Levillain, I, Milano 1996, pp. 640-641.
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Un vantaggio fu invece tratto, a lunga scadenza, e paradossalmente, dal Papato. Stiamo ai
fatti: Giustiniano non rinunciò mai alla ratifica delle sue decisioni da parte del papa, e attestò
con questo contro se stesso che la sua autorità sulla Chiesa era subordinata all’assenso del
vescovo romano64. Poteva arrestarlo, torturarlo e plagiarlo, ma non poteva rimpiazzarlo.
Quando l’impero fosse stato più debole, o quando i papi fossero stati più coraggiosi di Vigilio, la
sconfitta per una politica come quella giustinianea sarebbe stata inevitabile, come del resto
avvenne in tutte le altre dispute cristologiche in cui il Bosforo si oppose al Laterano, nei secolo
successivi. Del resto, il fatto che Giustiniano obbligasse il papa a ratificare il II Concilio
Costantinopolitano, dimostra che egli considerava validi solo i sinodi riconosciuti da Roma. Se
si pensa che il Canone XXVIII di Calcedonia era stato promulgato senza l’assenso del papa
Leone I, e che Teodosio II non aveva esitato a convocare il Conciliabolo di Efeso o Zenone a
promulgare l’Henotikon, separandosi addirittura dalla Sede apostolica, ci rendiamo conto che si
erano fatti passi avanti: anche se ottenuto con la forza, il consenso papale era ormai
indispensabile. E inoltre era considerato valido ex opere operato. Questo era ben chiaro ai
successori di Vigilio, che si guardarono bene dallo sconfessarlo, proprio per non mettere in
discussione la particolare concezione del primato di Pietro che sottintendeva questi eventi. Il
giudizio di Vigilio era irreformabile proprio perchè era, sulla terra, quello più alto, tanto più
perchè unito a quello del concilio ecumenico. Se dunque Giustiniano aveva estorto ad entrambi
il verdetto di condanna, era accaduto perchè Dio l’aveva voluto, e quindi non si doveva tornare
indietro. Non la santità personale di Vigilio contava, nè l’autonomia reale del sinodo, ma il loro
valore istituzionale. E nemmeno l’importanza dell’anatema in sè contava, visto che i Tre
Capitoli erano sottoposti a una condanna sostanzialmente riformabile o attutibile, come sono
tutte le condanne del genere; aveva invece peso piuttosto che Vigilio avesse dimostrato più
volte di essere più incline alla condanna stessa che alla difesa, con lo Iudicatum e col primo
Constitutum. Aveva peso che egli avesse completamente ritrattato la sua resistenza col
secondo Constitutum. Aveva peso che fosse morto senza rinnegare quell’atto di magistero.
Tutto ciò, sommato alle circostanze teologiche e giuridiche che avevano reso possibile la
condanna dei Tre Capitoli senza sconfessare papi o concili precedenti – come per esempio il
64 Il primato romano era legge dello Stato: Codex I, 1, 7 e Novella 131.
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fatto che Iba e Teodoreto fossero stati riabilitati in una seduta del Calcedonese non approvata
da Roma, o che la loro terminologia fosse di fatto precorritrice di quella nestoriana, o che
quella cirilliana potesse avere un’interpretazione ortodossa – rendeva legittimo il verdetto
vigiliano, e spingeva i pontefici a difenderlo. Sconfessarlo sarebbe stato come sottomettere il
magistero papale all’approvazione dei fedeli: non più infallibilità ex sese, ma ex consensu
Ecclesiae. E infatti la condanna dei Tre Capitoli non fu riprovata nè da Pelagio – che pure
qualche motivo opportunistico per questa omissione lo aveva – nè dal dotto Giovanni III, che
anzi come ho detto convinse gli Africani ad aderire al Concilio di Costantinopoli, nè dai papi
posteriori a Giustiniano. Tra essi, Pelagio II (579-590), tentò risolutamente di riunificare alla
Chiesa Aquileia e l’Illiria, ma non certo per servilismo all’imperatore Giustiniano o al suo
successore di allora Tiberio II (578-582): infatti non esitò a contrastare la pretesa di Giovanni
IV di Costantinopoli di proclamarsi patriarca ecumenico, e lo fece negando l’approvazione agli
atti del sinodo bizantino del 588. Non esitò neanche a chiedere aiuto ai Franchi contro i
Longobardi, offrendo loro la protezione di Roma, evidentemente a discapito dei Bizantini in
difficoltà. Lo stesso Gregorio Magno (590-604) prese, come abbiamo visto, la penna per
difendere la condanna dei Tre Capitoli, sia da diacono – collaborando con Pelagio II – che da
papa, quando indirizzò alcune lettere di rimprovero a Teodolinda, che non voleva riconoscere
l’arcivescovo milanese Costanzo in quanto aderente al II Costantinopolitano65. E Gregorio era il
più grande teologo dei suoi tempi. Sia lui che Bonifacio III (607) s’impegnarono tanto per
riportare Venezia e l’Istria all’unità cattolica. Il successore di questi, san Bonifacio IV (608-
615), ricevette una ardente lettera di san Colombano (543-615) che, su ispirazione di
Teodolinda e Agilulfo, gli chiedeva di sconfessare il II Costantinopolitano convocando un nuovo
sinodo universale. Non abbiamo la lettera di risposta, ma sappiamo che Bonifacio non
accettò66. E non certo per fedeltà a Giustiniano, ma piuttosto ai suoi predecessori. Onorio I
(625-638) e san Sergio I (687-701) si adoperarono ancora per sanare lo scisma, e
quest’ultimo ci riuscì nel sinodo di Pavia del 700. Ossia, i papi furono fedeli al magistero di
Vigilio per 145 anni ! E tra loro e Bisanzio ci furono tantissime dispute dottrinali in quel
65 Registrum Epistularum, IV, 4.33.37. 66 Cfr. J.RIVIERE, St. Columban et le jugement du pape hérétique, in RevSR III (1923), pp. 277-292.
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periodo. Segno che la difesa dei Tre Capitoli era la difesa della Santa Sede, e che Giustiniano
aveva puntellato più l’universalismo papale che quello imperiale.
A questo universalismo e alla sua legislazione canonica bassomedievale Giustiniano lasciò un
insieme di norme che avrebbero condizionato per secoli la vita socio-politica dell’Occidente,
contribuendo a definire la fisionomia del Medioevo latino e pontificio: il divieto di ogni religione
non cristiana, la restrizione dei diritti politici e civili degli Ebrei, la concessione ai presuli di
competenze amministrative, le esenzioni (ancora parziali) fiscali per i beni ecclesiastici furono
tutte sue invenzioni o amplificazioni di concezioni altrui67. Egli fu dunque artefice della futura
supremazia del Sacerdotium, cui fornì mezzi pratici e teorici.
Resta solo una domanda a cui rispondere: perché Giustiniano credeva di potersi comportare
così con la Chiesa ?
Influì certo il suo carattere dispotico, l’arrogante e smisurata coscienza del suo potere
imperiale, la sua indubbia forza di carattere e le circostanze che gli diedero rivali da poco. Non
a caso nessuno in seguito osò tanto, nemmeno nella Chiesa bizantina dopo lo Scisma del 1054
(solo Manuele I nel XII sec. gli può essere avvicinato). Ma non si può credere che un despota
che costringe tutta una generazione di credenti a seguirlo possa aver agito solo basandosi sulla
prepotenza. Esisteva una precisa teologia imperiale a cui Giustiniano si rifaceva, sia in
temporalibus che in spiritualibus. Essa fece concorrenza – sotto varie forme e con minor
successo – all’ortodossa teologia papale per tutto il periodo del dominio bizantino in Italia. Già
Costantino, cristianizzando il dominato domizianeo e calcando la mano sull’unità monarchica
dell’Impero, aveva affermato che il suo dominio era basato sull’elezione divina. Essa presso le
masse si confondeva con la divinità dell’imperatore, e di fatto era la continuazione cristiana
della teologia solare di Aureliano e di quella iovio-erculia di Domiziano, ma Costantino era ben
consapevole della specificità ortodossa della sua nuova concezione. Eusebio di Cesarea ben
supportò il suo sovrano, enfatizzando la missione provvidenziale dell’Impero e il parallelo tra
l’unico Redentore e l’unico monarca, e rivestendo di contenuti teologici il lealismo tradizionale
dei cristiani verso lo Stato, insegnato da san Paolo, da san Luca, da Clemente Romano,
Policarpo, Atenagora, Giustino, Teofilo, Melitone, Ireneo. Eusebio inoltre afferma a chiare
67 Codex I, 3, 44; 5, 12. 17; 11, 9-10; Novellae 43.45. 146.
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lettere che a un Dio in cielo deve corrispondere un imperatore in terra, capo di un ecumene
che è l’immagine del Regno dei Cieli. E se colà il Padre regna e il Figlio governa, qui nel mondo
l’imperatore regna e governa, come icona della Prima Persona della SS.Trinità e mimesi della
Seconda, ossia come immagine visibile dell’Una e come discepolo dell’Altra. Per Eusebio Chiesa
e Impero sono identici, e la prima è riassorbita nel secondo. Se dunque il vescovo ha poteri
nella Chiesa, l’imperatore li ha sulla Chiesa, ed è in tal senso vicario di Cristo, perché Cristo è
sopra della Chiesa. E l’imperatore significativamente si autodefinisce epìscopos tòn ektòs,
sorvegliante di quelli che sono al di fuori (della Chiesa): tale titolo oppone al potere episcopale
sulla Chiesa quello imperiale sul saeculum e su quelli che sono fuori dell’organizzazione
ecclesiastica68.
L’ideologia costantiniana si rafforza lungo il dominio della dinastia dei Secondi Flavi e di
Teodosio, e ben al di là dei confini della cultura cristiana: Temistio dice che l’imperatore è un
essere celeste mandato nel mondo per il suo benessere, e che ha un dominio universale. Egli è
la creatura più eminente del mondo, e imita Dio nelle sue virtù. Ma proprio per questo statuto
ontologico, etico e politico, egli è nòmos èmpsiukos, legge vivente. E questo concetto,
espresso già da Temistio a Teodosio, riappare in Giustiniano, nella Novella 105, 2, 4. La
persona imperiale è santa: alla sua presenza si parla con rispetto, i suoi dignitari si riuniscono
in concistori le cui sedute sono significativamente dette silentia, il suo palazzo è sacro come le
sue legioni, e i suoi abiti sono paludamenti e calzature d’oro e pietre preziose, diademi
imperlati; di lui si parla come “nostra clementia, nostra pietas, nostrum numen”, e chi lo
offende è sacrilego. Finalmente gli imperatori romani possono riallacciarsi al dispotismo
asiatico, scrollandosi di dosso i retaggi della Respublica, e lo fanno compiutamente grazie al
Cristianesimo, che è pur sempre una religione asiatica, le cui radici semitiche affondano in
quell’Oriente dove pure era nata la concezione monarchico-sacrale universale.
La Chiesa – che con la monarchia papale farà sua questa ideologia del potere – fronteggia
consapevole questa offensiva che impropriamente definiamo cesaropapista ma che invece è
teocratica, opponendole una visione ierocratica e gerarchica, basata – modernamente – sulla
divisione dei ruoli: l’auctoritas è quella sacrata pontificum – ma auctoritas era anche quella
68 Cfr. EUSEBIO DI CESAREA, Historia Ecclesiastica, ed. E.SCHWARTZ, in GCS, voll. I-III, 1903-1909, IV, 26, 7; ID., Demonstratio evangelica, ed. K.MRAS, 1954, VIII, praef.
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augustea, in un indefinito primato sulla Respublica – e la potestas è quella regalis. L’auctoritas
è distinta dalla potestas, ma le è anche superiore, di una superiorità più legata a una mentalità
giuridica e a una visione di un cosmo molteplice, che a una concezione neoplatonica
universalista. E’ questa la dottrina di papa Gelasio I69. Lo spirito romano vero e proprio si
rifugia ora nella Chiesa, abbandonato dall’Impero convertito alle suggestioni orientali.
Giustiniano appare proprio in tale momento: interessato non a sovvertire la concezione del
potere interno alla Chiesa, ma a rafforzare la cornice d’autorità in cui la stessa Chiesa
s’inserisce, smentisce programmaticamente Gelasio, dicendo che egli agisce come unico
interprete dei voleri divini, che opera e governa “Deo auctore”, come si esprime nel Codex, I,
17, 1). In questo modo, la auctoritas è riassorbita nella potestas regalis. E nella novella VI
afferma che è suo diritto provvedere alla tutela morale e dottrinale della Chiesa70. Su questi
presupposti si comprende l’operato singolare di Giustiniano e anche il suo successo, sia pure
temporaneo. Ma proprio questo successo fece aprire gli occhi alla Chiesa sui rischi impliciti in
questa deriva teocratica dell’Impero, e aprì la strada a una rinnovata e profonda coscienza
della Chiesa come corpo separato e superiore ad esso. Sulla scia dell’agostinismo politico, il
futuro avrebbe aperto la strada a sintesi politiche diverse, dove al potere spirituale sarebbe
stato riservato il rispetto e il decoro che gli competono, espungendo dalla teologia cattolica
quegli elementi profani che essa aveva dovuto fare suoi per pagare lo scotto della
cristianizzazione del mondo romano.
Vito Sibilio
69 Cfr. PL LIX, 42. 70 Cfr. F.FABRINI, L’imperatore da princeps a Dominus et Deus, in Roma e l’Italia – Radices Imperii, a cura di GIOVANNI PUGLIESE CARRATELLI, Milano 1990, pp. 215-226.
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Bizancio en España.
Por Rolando Castillo.
Este es un trabajo esencialmente informativo y divulgativo, hecho con el objeto de dar a
conocer uno de los hechos menos investigados por los historiadores y por la arqueología, salvo
honrosas excepciones.
Indice:
01- Roma y su civilización regresan a la Hispania Romana, de donde en realidad nunca se
habían ido.
02- ¿Cómo era la vida en la Hispania romana a mediados del siglo VI?
03- ¿Qué podían los bizantinos ofrecer a la población hispano romana local?
04- ¿Cómo fueron recibidos los bizantinos en Hispania?
05- Problemas en Italia, Balcanes y en el Oriente.
06- Organización de la provincia de Spania. Los castra.
07- Las civitates.
08- Una Liga de Ciudades.
09- Justino II (565-578) Guerra con Persia. La pérdida de Corduba y Asidonia.
10- Cambio de actitud y de política en los visigodos.
11- Paz en Spania en los tiempos de Tiberio I (578-582) y Mauricio (582-602)
12- La anarquía de Focas (602-610): Spania abandonada a su suerte.
13- La caída de Spania: el fin de un sueño y la continuación visigoda influenciada por
Bizancio.
14- Ultimas consideraciones.
15- Apéndice: Huellas de Bizancio en España.
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1- Roma y su civilización regresan a la Hispania Romana, de donde en realidad nunca
se habían ido.
Estamos exactamente a mediados del siglo VI, el primer gran siglo de Bizancio, durante el cual
el gran emperador Justiniano, mediante sus bien adiestrados ejércitos comandados por
generales como Belisario, Narsés y Mundo, pudo reconquistar una buena parte del imperio
romano occidental, que había caído en el desorden y el caos, desapareciendo oficialmente
hacía ya unos setenta y cinco años.
Estamos en el año 551, cuando África y Cirenaica ya habían vuelto a ser bizantinas hacía ya
diecisiete años, las Baleares, Cerdeña, Córcega, Sicilia, ya obedecían a los mandatarios del
emperador. Solamente la península itálica resistía, con su reino ostrogodo que daba batalla y a
cada triunfo de los bizantinos respondía años después con otro líder y volvía al ataque.
No es posible pensar que, debido a su política (la de todos los emperadores bizantinos, la
política esencial del Imperio) de no desdoblarse en dos frentes de ataque, el emperador
bizantino haya pensado por sí solo atacar al reino visigodo que trataba de afirmarse en la
Hispania romana, ya que las tropas bizantinas estarían muy ocupadas en Italia hasta por lo
menos el año 563, en el cual se venció para siempre a los ostrogodos, luego de veintiocho
años de cruenta lucha.
Por eso es bastante creíble la versión del historiador Isidoro de Sevilla, que dice que
Atanagildo, descontento con el rey Ágila, pidió ayuda a los bizantinos para triunfar sobre el rey
y coronarse al frente de la nación goda, según su propio relato:
“Como Atanagildo con anterioridad hubiera tomado la tiranía y se esforzara en privar del reino a
Ágila, solicitó el Emperador Justiniano tropas que le auxiliasen, las cuales, fortificadas, no pudo
después alejar de las fronteras del reino. Con ellas hasta hoy se está en conflicto: antes con
frecuentes combates mortales, pero ahora con muchas incursiones y escaramuzas.”
Esto demuestra que los enviados bizantinos poco querían tener que ver con los visigodos, no le
importaban sus problemas internos, y siguiendo la política del emperador Justiniano, una vez
ocupadas las ciudades las incorporaron al imperio con la forma jurídica de Provincia de Spania
sin dudar y sin importarle la reacción del seguramente sorprendido Atanagildo.
42
Bizancio, que de todas maneras al terminar la guerra con los ostrogodos no hubiera dudado en
buscar excusas para invadir la península ibérica, solamente hizo uso de esta temprana
oportunidad, (para lo que no hizo más que aprovechar naturalmente esta ocasión
respondiendo a otro de sus principios políticos: el de dividir para triunfar, solo que aquí
encontraron a los visigodos divididos naturalmente, sin haber sido provocados por la política
imperial) y para cumplir este objetivo envió un pequeño pero bien pertrechado ejército, que
era en realidad un simple grupo de expedicionarios (recordemos que el grueso del ejército
estaba muy ocupado en Italia con los ostrogodos), al mando de Liberio, que como antecedente
contaba con haber sido prefecto de Teodorico en la Galia Narbonense, y por lo tanto podía
conocer a fondo los problemas que afrontaban los visigodos, algo que no extrañaría en un
funcionario experimentado del imperio.
Cuando se dice entonces que Bizancio apoya a Atanagildo, en realidad se trata de una mera
excusa, temprana tal vez, y algo inconveniente, porque en realidad se necesitaban todas las
fuerzas en Italia, pero que seguramente en el pensamiento de Justiniano esta oportunidad
debió estar dando vueltas noche tras noche hasta su decisión de aprovecharla, cumpliendo una
vez más con las prerrogativas de la política imperial.
Envió en realidad un pequeño ejército, pero por las condiciones en que se encontraba la
Hispania romana era suficiente como para establecerse por muchos años más, debido a ciertos
factores que no se encontraban en Italia, donde los ostrogodos habían sabido crear un reino
justo y tolerante con los romanos, donde floreció el arte y se consiguió una estabilidad
envidiable, lo que hacía pensar su reino podía durar muchos años y permanecer en la historia
como un Estado poderoso.
Por eso es necesario un estudio de las condiciones en las que se encontraba la población
romana en Hispania en la primera mitad del siglo VI.
2- ¿Cómo era la vida en la Hispania romana a mediados del siglo VI?
Es altamente probable que, como ocurrió con diversas ciudades de las Galias y de la Península
Itálica, las ciudades del sur de la Cartaginense y muy especialmente las de la Bética se
hubieran mantenido con sus costumbres civilizadas y romanas durante los setenta y cinco años
que las separaban de la caída del imperio, después de todo los vándalos pasaron por Hispania
43
pero se fueron luego de solo siete u ocho años hacia África, y durante esos años lo único que
hicieron aparentemente fue saquear y destruir, sin influir en las costumbres de las poblaciones
locales, y los visigodos aún no estaban muy firmes en su gobierno, especialmente en la Bética,
donde ciudades como Corduba (Córdoba) o Hispalis (Sevilla) eran prácticamente
independientes, o al menos llevaban una vida lo suficientemente autónoma como para desafiar
a los godos.
Las ciudades, si bien sufrieron una aguda crisis, y parte de la población emigró hacia el campo,
no colapsaron totalmente, una buena parte de las ciudades de la Bética continuaron con sus
industrias pesqueras, señal de que había todavía una notable actividad, y se documenta que la
población, si bien disminuida, no abandonó totalmente a aquellas, es más, se siguió viviendo lo
más dignamente posible, bajo una tenue administración visigoda, que solo afectaba a las
capas más altas de la sociedad.
Por lo tanto, podemos decir que el espíritu romano, aún en decadencia, aún con problemas
para mantener los caminos, los acueductos, los edificios, se mantenía en una parte de la
población de las ciudades de la Bética, y aunque un poco más dominadas por los visigodos,
seguramente esa sería la situación también al sur de la Cartaginense.
Ciudades comerciales, con una enorme industria pesquera y seguramente aún muy
romanizadas eran sin duda los puertos del sur – sureste de Hispania, que enumerados de
Norte a Sur, desde la Cartaginense a la Bética eran Denia (Alicante), Cartago Spartaria
(Cartagena), Murgis (entre Almería y Cartagena), Urci (muy cerca de lo que hoy es Almería),
Abdera (hoy Adra), Malaca (Málaga), Sálduba, Suol, Carteia (Gibraltar), Barbesula, Melliaria,
Besipo, quedando Gades (Cádiz), según las fuentes, bastante destruida y venida a menos por
esa época.
Por otra parte, no había pasado demasiado tiempo como para que las excelentes vías romanas
hubieran desaparecido, y a pesar de la falta de fuentes de la época podemos suponer sin
demasiado temor a equivocarnos que estaban en relativamente buen estado, con lo cual
estaremos en presencia de un potencial extraordinario para desarrollar el intercambio
comercial desde los excelentes puertos hispanos hacia el interior, donde todavía subsistían
44
dignamente ciudades como Bigastrum (lugar donde luego se fundaría Murcia), Lorca, Iliberis
(Granada), Acci (Guadix), Basti (Baza), Asidonia y por supuesto, Corduba o Sevilla.
Asimismo, los caminos servirían para darle al pequeño ejército bizantino una movilidad muy
importante a la hora de defender las distintas plazas conquistadas.
Principales
rutas y
caminos
romanos en
la provincia
de Spania,
siglos VI y
VII.
Como vemos, la oportunidad de regresar a la senda de Roma era muy tentadora para los
habitantes de las ciudades del sur de Hispania, y llegaba de la mano de los romanos de
oriente.
Por otra parte los visigodos no eran muy bien vistos (más bien eran reprobados totalmente)
por la población de las ciudades, porque desde un principio su política fue quedarse con todo y
no compartir nada con la población romana que merecía o creía merecer otro trato.
Un hecho muy importante que marcaba a fuego este desprecio por los bárbaros invasores era
que habían ideado un Estado con un doble derecho: los visigodos eran juzgados según sus
propias leyes y los romanos de acuerdo a un derecho que limitaba absolutamente su
participación en la conducción del Estado y también de sus propias ciudades, lo que hacía que
la separación de las partes fuera prácticamente total.
Solamente cabe aclarar que, como sucede en todo pueblo conquistado, hubo ciertas elites de
romanos hispanos, normalmente gente con tierras y muchos bienes, que no querían perder,
por lo tanto sirvieron de buen grado a los visigodos.
45
Normalmente los ciudadanos más representativos fueron cediendo paso a los obispos dentro
de las ciudades en cuanto a la representatividad, hecho que podría haberse dado debido a que
los visigodos arrianos veían mucho más agradable pactar con los obispos católicos que con los
ciudadanos romanos con cargo dentro de las ciudades.
Además los romanos hispanos seguían hablando latín, tal vez ya algo deformado por el tiempo,
pero era latín, el idioma de la civilización, y los visigodos tenían su propia lengua gutural,
primitiva y germana, con lo cual había otro motivo para que las dos naciones no se integraran.
Aclaremos aquí que el modelo de ciudad romana clásica ya había desaparecido por completo,
simplemente lo que sucedió fue que el cristianismo levantó a las ciudades de sus cenizas y las
convirtió en un nuevo ente, donde ya no había lugar para el baño público, el circo o el teatro,
que fueron poco a poco siendo presa del accionar del tiempo, pero donde las antiguas basílicas
y templos paganos que podían albergar mucha gente se habían convertido en iglesias, donde
todavía podían funcionar algunos viaductos o cisternas, donde la piedra de los edificios
abandonados dio lugar a muchas casas nuevas, en un proceso que sería muy familiar a los
bizantinos, que lo habían vivido en carne propia.
Los bizantinos entonces muy probablemente hayan encontrado en su provincia de Spania
ciudades con una conformación y un panorama muy similar a los que había en los Balcanes o
en Asia Menor, aunque con un nivel mayor de estabilidad y posiblemente con menos
habitantes que en dichos lugares.
3- ¿Qué podían los bizantinos ofrecer a la población hispano romana local?
Es una pregunta fácil de responder, ante la reprobación de los romanos locales a las actitudes
altaneras, soberbias, violentas y muy poco integradoras de los visigodos para con la población
romana local, es muy probable que dicha población, o al menos una buena parte, la de los más
instruidos y civilizados, viera con agrado y satisfacción la llegada de los hermanos romanos del
Este, con los cuales tenían mucho en común.
Esas cosas en común eran las siguientes:
1) El idioma latín, que muchos romanos orientales todavía podían hablar, con las lógicas
diferencias que podían tener con el que hablaran los romanos hispánicos después de setenta y
cinco años de separación y de la exposición a influencias distintas.
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2) El espíritu comercial de los bizantinos, similar al de las ciudades costeras romano
hispanas, ansiosas de intercambiar sus productos con los demás puertos del Mediterráneo y
con el interior de la Hispania romana.
3) Fundamental: la religión católica, que en esos años era una sola, muy lejos del cisma, y
contraria a la herejía arriana, de la cual eran partidarios los visigodos. Por otro lado los obispos
habrían tomado en muchas ciudades los cargos civiles o en todo caso el liderazgo de la cultura
y la forma romana y civilizada de vivir, con lo que se aseguraba una continuidad lógica de la
vida de los ciudadanos romanos.
4) El recuerdo de la gloria de Roma y el deseo de revivir el imperio, vivo en los bizantinos y
que seguramente habrá tenido sus adeptos en los romanos hispanos.
5) El deseo de servir a un emperador fuerte que asegure la paz de una vez por todas, y no
a los reyes germanos que vivían batallando entre ellos, cosa que hacía la vida más insegura y
evitaba la expansión comercial. La esperanza de poder comerciar libremente y en paz para
poder enriquecerse y aspirar a mejores formas de vida sin duda propiciaba la idea de
recuperar al imperio romano en su totalidad.
Por lo tanto los romanos de oriente tenían muchas cosas que ofrecer: un gobierno católico,
una misma lengua, un derecho igual para todos, mayor apertura al comercio y tal vez hasta el
regreso a la gloria de Roma.
4- ¿Cómo fueron recibidos los bizantinos en Hispania?
Sin duda, debido a los factores enunciados anteriormente, los bizantinos fueron bastante bien
recibidos por la población de las ciudades locales, o al menos por una buena parte de su gente,
es por ello que se puede explicar que un número tan grande de ciudades haya caído (¿o
adherido?) ante un pequeño ejército en tan poco tiempo.
Seguramente Atanagildo debió darse cuenta de su error al poco tiempo del desembarco
bizantino en Hispania, porque lo primero que hizo luego de triunfar contra Ágila fue combatir a
los soldados de Justiniano, que ya amenazaban su reciente poder, aunque no pudo obtener
ningún éxito relevante, ello seguramente porque no era popular ni en la Bética ni en la
Cartaginense, que se revelaron buenas aliadas de Bizancio.
47
Es por eso que cuando los bizantinos se asentaron en el sureste de la Hispania romana,
muchos deben haber pensado que realmente Roma estaba renaciendo y que por fin se había
acabado el sufrimiento de una población local que no soportaba la soberbia ni la violencia de
los reyes visigodos que la mantenían alejada de la vida pública, ocupando todos los cargos y
utilizando un derecho diferente para cada población.
La rápida ocupación y la no menos rápida integración con la población local se manifiesta en la
gran cantidad de romanos hispanos que viajan a Constantinopla por esos años, ya sea en
peregrinación o para estudiar, estando éstos casos bien documentados por los historiadores,
con lo que nos es dado suponer una integración muy grande entre los romano hispanos y los
romanos orientales.
Estos hispanos que visitaban Constantinopla y los bizantinos que visitaban la provincia de
Spania produjeron este intercambio que renovó la sensación del renacer de Roma, ya que
nuevamente el Mediterráneo era un lago romano, con la pequeña excepción del sur de la Galia
y el centro norte de Hispania, pero casi toda África, Egipto, Palestina, Siria, Asia Menor, Tracia,
Grecia, el Adriático, las costas itálicas completas, Sicilia, Cerdeña, Córcega, las Baleares y el
sur Hispano daban cuenta de este renacer que en los años 552 – 568 tuvo su apogeo y
permitió a todos los ciudadanos del imperio soñar con su restauración definitiva.
5- Problemas en Italia, Balcanes y en el Oriente.
Sin embargo, esta exitosa reconstrucción romana tuvo varios inconvenientes en estabilizarse,
debido a que los bizantinos seguían ocupados en la cruenta guerra contra los ostrogodos, los
cuales los tuvieron ocupados hasta 563, y luego el sueño de la Italia romana se volvió una
pesadilla desde 568 en que la península fue invadida por los lombardos, que ocuparon el norte
menos Ravena, y el centro menos Roma, conservando Bizancio el sur, además de aquellas dos
importantes ciudades.
La guerra en Italia había sido muy cruenta, muy especialmente en los últimos años, costó
muchas vidas y destruyó muchas ciudades, con lo cual el estado de la península era
lamentable, encontrando los Lombardos en su camino muchas facilidades debido a esa misma
miseria que se extendía por todo el territorio y debido a que la población estaba agotada en su
ánimo y en sus bienes, por eso los invasores tomaron lo suyo con rápida decisión.
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Ya en 565 había muerto Justiniano, que no llegó a enterarse de la invasión lombarda aunque sí
murió sabiendo que no pudo reconquistar totalmente Hispania y absolutamente nada de las
Galias, y se había hecho cargo del gobierno el emperador Justino II que vio cómo los Balcanes
eran invadidos por los eslavos sin poder hacer gran cosa, cómo los persas lo acosaban
permanentemente y le obligaban a enviar tropas constantemente a Oriente y por supuesto con
gran dificultad logró hacer detener el avance lombardo en Italia, guardándose los territorios de
Ravena, Roma y el sur.
Es por ello que los bizantinos que guardaban las murallas de las ciudades romano hispanas
eran pocos, no llegaban nuevas tropas con regularidad, y tenían cada vez mayores
inconvenientes para sostener sus territorios.
Seguramente el éxito de Bizancio en mantener varias ciudades fuertes, sobre todo en la costa,
y especialmente la joya de Carthago Spartaria, capital de la provincia e importante puerto, se
debe al apoyo de los romanos hispanos, ya que sin este apoyo con todos los problemas que
tenía el imperio hubieran desaparecido mucho antes.
6- Organización de la provincia de Spania. Los castra.
Gobernaba la provincia el Magíster Militum, con atribuciones civiles u militares, como era
costumbre en esa época en Bizancio con las regiones más alejadas de Constantinopla y sobre
todo las provincias que tienen grave peligro de ser atacadas constantemente.
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Ya sabemos que la capital era Carthago Spartaria, llamada Justina por los bizantinos, cuya
muralla fue fuertemente reforzada por los bizantinos como en casi todas las ciudades
ocupadas, y era un buen puerto con una población numerosa y romana, y todas las ventajas
para dominar toda la provincia desde allí, incluso su cercanía a las islas Baleares hacía que
una ayuda militar desde allí fuera posible en relativamente corto tiempo.
Sin embargo existe constancia de cierto éxodo de notables de la ciudad hacia ciudades
dominadas por los visigodos como Sevilla, ello podría deberse al hecho que apuntamos de la
elite de las ciudades romanas que pactaba con los visigodos dándole un amplio espacio de
poder al bárbaro invasor con tal de no perder sus campos o bienes.
El sistema que organizó Bizancio para la defensa del territorio no difiere del utilizado en la
misma época para la frontera con Persia o los Balcanes: doble línea defensiva o doble limes,
los ocasionales invasores encontrarían primero a los conocidos limitanei, con funciones
hereditarias, encargados de la defensa del limes o frontera, generalmente afincados en
pueblos fronterizos amurallados llamados castra.
La supervivencia en dicha frontera era sin dudas dura y muy sacrificada, estaban expuestos a
invasiones permanentemente, vivían participando en escaramuzas, ya sea practicando
correrías más allá de sus fronteras o defendiendo el territorio de la provincia de los invasores,
que podían ser más o menos numerosos, desde pandillas o pequeños grupos de exploradores a
ejércitos comandados por el mismo rey visigodo.
Vivían de los cultivos que podían realizar en suelos generalmente algo alejados de los castra, y
se supone que la defensa de la provincia era eficaz porque estos limitanei también defendían
con ello a los campos que cultivaban, que eran su único medio de vida y sustento.
En los castra el comercio no era demasiado habitual, porque el peligro de acciones violentas no
alentaba el intercambio de mercaderías, la vida era muy desapacible y difícil debido a que
tenían que cultivar terrenos probablemente pobres por causa de las correrías de los enemigos
y los habitantes debían subsistir pese a todo con lo que tenían.
Es por ello que los habitantes de los castra no eran muy numerosos, y estaban limitados a un
grupo de soldados que no podía escapar a esa vida, ni ellos ni sus familias, puesto que sus
50
funciones eran hereditarias, tal vez única manera de asegurarse soldados propios en las
fronteras y no tener que recurrir a mercenarios poco confiables.
7- Las civitates.
En otro estado se hallaban las civitates, que eran verdaderas ciudades muy bien organizadas
donde en época bizantina se expandió el comercio logrando un auge extraordinario
intercambiando productos con las provincias de África y las provincias griegas y de Asia Menor
y superando incluso al comercio con Italia, que sufrió una considerable baja por la destrucción
en que se encontraban sus ciudades y el estado ruinoso de sus habitantes.
Es por ello que se abona la teoría que dice que Justiniano tenía en mente reconstruir en
imperio romano, pero también y no menos importante que eso, quería reorganizar el comercio
especialmente en el Mediterráneo, donde nuevamente el lago romano vería cómo los barcos
transportaban mercaderías de un puerto al otro.
Esa visión comercial, que perduraría en casi todos los emperadores bizantinos, fue lo que
mantuvo al imperio durante siglos al frente de las naciones del mundo conocido, pues siempre
el comercio aportaba el dinero necesario para subsistir, para crecer, para armar ejércitos,
sobornar funcionarios extranjeros y comprar la paz, y ese dinero era el instrumento mismo del
bienestar, ya que no cambió su valor por cerca de ochocientos años, estableciéndose como la
moneda internacional por excelencia de toda la alta edad media y gran parte de la baja edad
media.
El dinero obviamente provenía de los impuestos cobrados por el Estado bizantino, y es muy
fácil adivinar que la provincia de Spania, con ciudades (civitates) tales como Carthago
Spartaria, Malaca, Urci, Asidonia, Denia, debe haber contribuido grandemente al tesoro
imperial durante setenta provechosos años.
En las civitates también había murallas, las cuales fueron reforzadas por los bizantinos, a
sabiendas de que podrían ser atacadas cuando menos lo esperaban, máxime conociendo a los
visigodos, notables guerreros que habían decidido hacer valer sus derechos sobre toda la
península ibérica, y que en los primeros años de la provincia de Spania se vieron ocupados en
guerras contra los vascones al norte, contra los suevos en la Galaecia, y que siempre tuvieron
problemas para mantener buenas relaciones diplomáticas con los francos.
51
8- Una Liga de Ciudades.
Por todo lo antedicho, se puede pensar que una vez desembarcadas las tropas bizantinas, tal
vez en Malaca provenientes de Septa (Ceuta) en África, se dieron a la conquista las ciudades
una por una, aprovechando las buenas condiciones de acogida entre la población de las
mismas, hasta que tuvieron el dominio de toda la costa entre Gades y Denia, (con Besipo,
Barbesula, Melliaria, Carteia, Suol, Sálduba, Malaca, Abdera, Urci, Murgis, Carthago Spartaria)
seguramente también haciendo uso de las viejas calzadas empedradas romanas que facilitaban
el transporte de tropas y todos los elementos de auxilio del ejército.
El dominio de estas ciudades así como el de las ciudades del interior (Asidonia, Lorca,
Bigastrum, Corduba, Ecija, posiblemente Basti, Acci, Iliberis, a través del dominio de Corduba,
(¿tal vez Hispalis (Sevilla)?) fue tan rápido y tan efectivo con tan pocos medios que este solo
hecho confirma la buena acogida dispensada por los romano hispanos, y también el buen
estado de los caminos, sin los cuales el desplazamiento hubiera sido más lento y agotador.
Pero eso no significa que Bizancio haya logrado formar una provincia totalmente romana, ya
que, encerrados entre los muros de cada ciudad, los funcionarios bizantinos gobernaban de las
murallas hacia adentro, mientras el campo era inseguro, estaba expuesto a las correrías de los
visigodos o de otros saqueadores y solamente en unas cuantas zonas de dominio estable se
habrá podido cultivar con cierta confianza.
Por todo esto, el dominio de Bizancio en España ha de haber tenido todas las características de
una liga de ciudades semi autónomas, conectadas entre sí por correos, emisarios que recorrían
los viejos caminos romanos una y otra vez con peligro de sus vidas, o mejor por barco, en una
época en la que era indudable que los bizantinos dominaban todo el mediterráneo y podían
conectar los distintos puertos especialmente recogiendo mercaderías, correspondencia y
viajeros.
Los campos cultivados han de haber sido cercanos a las ciudades costeras, que fueron las que
más tiempo se mantuvieron bajo el dominio bizantino, aunque seguramente con mayor riesgo
se habrán cultivado los campos fronterizos, aledaños a los castra, en las precarias condiciones
ya expuestas en este trabajo.
52
9- Justino II (565-578) Guerra con Persia. La pérdida de Corduba y Asidonia.
Los bizantinos luchaban en varios frentes al comenzar el año 571, con el emperador Justino II
(565-578) muy preocupado por este hecho, pues peleaban en la frontera persa, en los
Balcanes casi se dejaban invadir sin luchar por los eslavos y la población se retiraba a las
ciudades costeras, en Italia los lombardos causaban estragos, y en África los beduinos
provocaban luchas permanentes, con lo que Spania quedó momentáneamente semi
abandonada a su suerte.
Justino II fue culpable, sin embargo de la guerra con Persia, pues se negó a pagar los tributos
que Justiniano hábilmente había establecido en diversos tratos con los reyes persas, algo
imperdonable, pues a pesar de todos los errores que pudo haber tenido Justiniano, esa paz
que mantenía a toda costa con Persia, a pesar de tener que desembolsar una buena cantidad
de dinero regularmente, servía al propósito de mantener el occidente romano, tan caro a sus
sentimientos.
Pero Justino II evidentemente, a pesar de que dirigió con empeño los destinos de Bizancio, no
tuvo la visión de su antecesor, y cometió este grave error que tendría consecuencias funestas
para las ambiciones imperiales en occidente.
Por otra parte, ante esta situación que provocó la falta de refuerzos bizantinos, los visigodos
opusieron a un rey valiente y buen guerrero, Leovigildo, que en 571 recupera la
importantísima ciudad comercial de Asidonia (Medina Sidonia) quitando una bella joya al
dominio de Roma, y en 572 da el gran golpe: entra triunfador en la ciudad de Córdoba,
aunque a pesar de todos sus esfuerzos, no pudo reconquistar Malaca, con lo que se conformó
con incendiar los campos de los alrededores de la ciudad marítima.
Luego los bizantinos habrían reconquistado Corduba, o en su defecto habrían conseguido la
lealtad de las autoridades romanas que habían quedado a cargo de la ciudad, que siempre
mantuvo en realidad una notable vocación autónoma, hasta que en 584 la pierden los
bizantinos definitivamente, probablemente por un cambio de lealtad de las autoridades locales
que se volvieron súbditos de los visigodos a partir de ese año.
Corduba dominaba en realidad como ciudad autónoma, romana y bastante poderosa, una
buena parte del territorio considerado bizantino, un territorio que incluía a la ciudad de Ecija y
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muy probablemente las ciudades de Iliberis (Granada), Acci (Guadix) y Basti (Baza) en las que
no parece haber habido dominio bizantino, al menos no por demasiado tiempo, por lo tanto o
fueron siempre autónomas o estaban tal vez subordinadas a las autoridades de Corduba, y con
el cambio definitivo de lealtad de esta importante ciudad en 584 la avanzada visigoda se ubicó
muy cerca de las ciudades marítimas como Malaca (Málaga), Abdera o Urci, estableciendo un
especial enfrentamiento de estos dos verdaderos núcleos de asentamientos entre sí.
La importancia de Corduba era tal que la fama de este rey creció notablemente luego de la
sumisión definitiva de la ciudad, e incluso se lo pudo ver ataviado “a la bizantina” haciendo
gala de lujos en su vestimenta, y sobre todo portando cetro y corona, algo que ningún rey
visigodo anterior se había atrevido a hacer.
En este hecho podemos vislumbrar la notable influencia cultural de los bizantinos, hecho que
se ha dado en su contacto con todos los pueblos que tuvo por vecinos, amigos o enemigos,
durante centenares de años.
Otros problemas causados a Leovigildo (levantamientos, guerra a los suevos, Hermenegildo,
su hijo, lo desobedece y funda un estado en Sevilla y tal vez se halla convertido al catolicismo,
guerra a los vascones y problemas con los francos) hacen que los bizantinos no tuvieran que
lamentar más pérdidas de momento, pero ya su situación militar se hacía por lo menos
problemática y sus territorios se limitaban peligrosamente a la zona costera, desde la
decadente Gades hasta la lejana Denia.
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Importancia del territorio autónomo aparentemente dominado por la ciudad de Corduba, que incluso podría también haber tenido a Iliberis, Acci y Basti en su haber. Proximidad importante de los territorios bizantinos de Baleares y Africa. También Sevilla (Hispalis) habría tenido dominio sobre ciertos territorios.
10- Cambio de actitud y de política en los visigodos.
Ya vimos los motivos porque la población romana de Spania no quería a los visigodos, y uno
de ellos, quizás el más importante a la hora de evaluar sus relaciones, era que los godos eran
herejes arrianos mientras que los romanos eran católicos como los romanos orientales o
bizantinos.
Ya Leovigildo había dado varios pasos a favor de un acercamiento entre los arrianos y los
católicos, dando una mayor libertad a éstos y algo de participación en las decisiones, en lo que
significó una política más perspicaz e integradora.
Pero los visigodos tuvieron un rey que supo ser más inteligente, sagaz y además ver el futuro,
con lo cual se dio cuenta de las ventajas que le reportaría la conversión al catolicismo de toda
la élite visigoda: Recaredo, hijo de Leovigildo, fue mucho más allá que su padre: convocó un
Concilio en Toledo, logrando que en él los arrianos visigodos de la casta dirigente se
convirtieran al catolicismo.
He aquí el Edicto del rey Recaredo convocando al Concilio de Toledo de 589:
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"Edicto del Rey confirmando el Concilio. El gloriosísimo Rey, nuestro señor Recaredo. De todos los
que están bajo el poder de nuestro reinado, haciéndonos amantes suyos, la verdad divina inspiró
de modo principal nuestros sentidos para que, con motivo de la instauración de la Fe y de la
disciplina eclesiástica, mandáramos a todos los obispos de España presentarse ante nuestra
supremacía. Procediendo, pues, diligentemente, y con cauta deliberación sobre lo que conviene a
la Fe y se refiere a la corrección de los mores, consta haberse ordenado con toda madurez de
sentido y ponderación de la inteligencia. Por tanto, nuestra autoridad manda a todos los hombres
que pertenecen a nuestro reino, que lo que se ha definido en este santo Concilio, tenido en la
ciudad toledana en el cuarto año de nuestro feliz reinado, nadie pueda contradecirlo ni nadie se
atreva a pasar sobre ello. (...) El Rey Flavio Recaredo, esta deliberación que definimos con el
santo Sínodo, subscribí, confirmándola. Masona, en el nombre de Cristo, obispo metropolitano de
la Iglesia católica emeritense de la provincia de Lusitania, estas constituciones en que intervine
en la ciudad toledana, las suscribí, consintiéndolas."
Es esta una decisión de fundamental influencia en el ánimo y opinión de los habitantes de la
península ibérica, ya que al finalizar este Concilio los visigodos arrianos se habrán convertido
en católicos y eliminarán una importante barrera que los separaba de los romanos, que
comenzarán a mirarlos de otro modo.
Es además muy importante considerar la amplia inteligencia de Recaredo, que no propugna
una unión de las iglesias, como pasó con algunos desafortunados intentos de emperadores
bizantinos anteriores y posteriores a estas fechas con las distintas doctrinas herejes,
simplemente se trata de la conversión del alto mando y elite militar y gobernante visigoda que
se bautizan como cristianos católicos abandonando el arrianismo (por supuesto seguidos de
todo el resto del pueblo godo, como marca la buena costumbre y usanza medieval), en lo que
es a la vez un acto profundo de humildad y un acto político que le dará el apoyo de gran parte
de la población romana, que vio así una nueva oportunidad de integrarse a la administración
visigoda en buenos términos.
De este hecho podemos sacar una fácil conclusión: la presencia bizantina ya no tenía la gran
importancia del principio, estaban perdiendo algunos territorios y ahora perdían un excelente
motivo de su permanencia en Spania: el religioso, en cuyo terreno ahora estaban de igual a
igual con los visigodos.
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Según lo escrito en estos dos párrafos del Cronicón de Juan de Biclaro, esto fue lo que
sucedió:
“Recaredo, en el décimo mes del primer año de su reinado, con la ayuda de Dios, se hace
católico, y dirigiéndose a los sacerdotes de la secta arriana más con la prudente conversación que
por la fuerza, les hace convertirse a la Fe católica, y atrae a todo el pueblo de los godos y de los
suevos de nuevo a la unidad y paz de la Iglesia cristiana. La secta arriana, por la gracia divina,
viene al dogma cristiano (...). El Rey Recaredo restituye apaciblemente los bienes ajenos
sustraídos por sus predecesores y agregados al fisco. Se hace fundador y donante de las iglesias
y monasterios.
Se reúne un santo sínodo de los obispos de toda España, Galia y Galicia en la urbe toledana por
mandato del príncipe Recaredo, en número de setenta y dos obispos. En cuyo sínodo intervino el
recordado cristianísimo Recaredo, que presentó a los obispos la forma de su conversión y la
confesión de todos los sacerdotes y el pueblo godo en un libro [tomo] escrito de su mano, en el
que se declara todo lo que pertenece a la profesión de la Fe ortodoxa, y decretó que el santo
sínodo de los obispos añadiese el orden de este tomo a los escritos canónicos.”
Sin embargo, Recaredo no combatió a los bizantinos, que se apresuraron a fortalecer aún más
las murallas de Carthago Spartaria, muy probablemente porque no deseaba combatir a gente
de su propia religión; de todas maneras, sentó las bases de la victoria visigoda al convertir su
reino arriano en reino católico, logró así ser el verdadero rey de romanos y visigodos y limitó la
base de la legalidad bizantina en Spania, que ahora solamente se basaba en el hecho de la
obediencia al emperador y en una cada vez más lejana restauración del imperio romano en
toda su gloria.
11- Paz en Spania en los tiempos de Tiberio I (578-582) y Mauricio (582-602)
Al coincidir en gran parte con las campañas de Leovigildo contra suevos, vascones y francos
(573-586) y con la actitud pacifista de Recaredo (587-601) la provincia de Spania disfrutó de
tiempos de relativa paz durante estos 29 años, donde solamente debe haber habido algunas
escaramuzas aisladas, dado que los visigodos se abstuvieron de entrar en una nueva guerra
con Bizancio, por lo que podemos decir que seguramente se habrá seguido con la actividad
comercial sin interrupciones molestas, lo que debe haber dejado un buen resultado en la
recolección de impuestos (podríamos decir que este era un motivo determinante de la
presencia bizantina en estos territorios) que venían muy bien a las ya agotadas arcas
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imperiales, especialmente para las campañas de Mauricio en los Balcanes, durante las cuales
combatió con éxito a los eslavos invasores.
Tiberio vio como sus años de gobierno se consumían en la lucha contra Persia, por lo que poco
pudo hacer por la estabilidad de occidente; sin embargo, se seguía manteniendo el sur de
Italia, Ravena, Roma, África y todavía una buena parte de Spania.
Con Mauricio, uno de los grandes emperadores de Bizancio, asume el poder una figura con una
visión extraordinaria de la política internacional, y lo primero que intentará es una paz
concertada con Persia, ya no tanto por los problemas occidentales, cuyos territorios se
hallaban en relativa calma y donde los exarcados de Ravena y África probaban que la nueva
política de dar poder civil y militar a la figura del exarca tenía un cierto éxito: el problema
bizantino más grave era ahora la recuperación de los Balcanes, invadido por miles y miles de
tribus eslavas, a las que ahora se les agregaban los ávaros, que en pocos años dominaron a
sus numerosos vecinos los organizaron para una guerra contra el imperio.
Luego de grandes esfuerzos Mauricio consiguió en 591 la ansiada paz en oriente y pudo
dedicarse personalmente a la lucha en los Balcanes, donde el éxito volvió a coronarlo.
La visión de Mauricio hizo que no olvidase nunca a Italia, África y Spania, inclusive hay un
hecho que deja muy claro la importancia que tenía occidente para el emperador: estando a
punto de morir por una extraña enfermedad en 597, escribió un testamento donde dejaba a su
hijo mayor Teodosio la parte oriental del imperio y a su hijo menor Tiberio el occidente con
sede en Roma, con lo que demostraba la buena relación de Roma y Constantinopla, los
símbolos de jerarquía más comprometidos con el imperio, y su deseo de conservar todo lo que
quedaba del imperio de Justiniano.
No obstante, como hemos dicho, todos estos problemas no afectaron mayormente a la vida en
la provincia de Spania, que transcurría apaciblemente mientras los reyes visigodos batallaban
entre sí o mientras Recaredo transformaba el Estado arriano en católico y se dedicaba a vivir
en paz.
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12- La anarquía de Focas (602-610): Spania abandonada a su suerte.
Un simple soldado de Mauricio, enarbolando la bandera de la insurrección a la orden del
emperador de invernar en el campo de batalla, toma Constantinopla, asesina al gobernante y
se hace proclamar emperador en 602, dando inicio a una de las etapas más tristes que tuvo el
imperio, luego de transcurrida la misma éste casi acaba por desaparecer.
La paz en Spania ya no era lo corriente, el rey Witerico inició una guerra a los bizantinos en
603, atacando sus generales varias ciudades, aunque sin demasiado éxito, salvo en la
probable conquista de Gisgonza y Bigastrum hacia 605, con lo cual las fronteras seguían
siendo casi las mismas aunque sin una de las ciudades del interior, cercana a Carthago
Spartaria, y sin la seguridad de los últimos años.
Ya Spania se había transformado hacía años en un territorio casi exclusivamente costero y
marítimo, aunque no por ello haya perdido importancia, ya se sabe que lo mejor que hacían
los bizantinos era guerrear con sus escuadras y comerciar por el Mediterráneo, aunque debido
al estado de caos del gobierno de Focas en Constantinopla la situación sería ahora más crítica
que nunca, sin refuerzos y sin un emperador fuerte para sentirse apoyados.
Para colmo de males los persas arrebataron por esos años las provincias orientales a un
imperio desolado, quedando los territorios occidentales a merced de su buena suerte.
El siguiente rey visigodo, Gundemaro, tampoco desarrolló una guerra abierta a Bizancio, y
solamente en 610 provocó reales problemas a los romanos, pero sin consecuencias para el
territorio de Spania.
13- La caída de Spania: el fin de un sueño y la continuación visigoda influenciada por
Bizancio.
El exarca Heraclio partió del exarcado de Carthago en África para tratar de evitar la disolución
total del imperio, que estaba muy cerca de ser realidad, y su hijo del mismo nombre se
transformó en el héroe que recuperó a Bizancio y derrotó definitivamente a los persas después
de tantos años de guerras y políticas equivocadas por las dos partes.
Mientras tanto, en la apretada liga de ciudades costeras que se había transformado Spania, los
bizantinos resistían como podían a un nuevo rey visigodo: Sisebuto.
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Hay que volver aquí sobre la gran transformación del Estado visigodo: además de ser un
estado católico, ahora ya se había fusionado en gran parte la población, con lo cual, la
romanización del reino era ya una realidad, si bien no con la brillantez de la mejor época de
Hispania, pero un ejemplo de ello es el nuevo rey Sisebuto, un rey educado al estilo romano
que siguió con la profunda transformación del reino.
Aquí cabe efectuar una reflexión, y es que las fuerzas bizantinas provocaron esta tremenda
transformación en los visigodos, de ser un reino de godos arrianos para godos arrianos,
excluyendo a la población local, romana y católica, poco a poco fue adquiriendo costumbres
romanas, acercó ya que no fusionó los derechos de los ciudadanos de ambas partes y asumió
la religión católica, y ahora hasta sus reyes eran educados como romanos.
Hasta qué punto influenció Bizancio para esta transformación tal vez nunca lo sabremos, pero
es un hecho que gracias a ella la población hispana ya no vio con desagrado a los reyes godos,
todo lo contrario, la figura del rey visigodo, presente y ataviado con sedas lujosas, coronas, y
joyas de marcada influencia bizantina, superó a la de emperadores que, como Focas, poco
habían hecho para merecer tal denominación o que como Heraclio, se hallaban luchando
desesperadamente en oriente sin hacer caso de lo que pasaba en Spania.
Sisebuto fue quien en la gran campaña de 620 o 621 logra conquistar Carthago Spartaria, la
capital bizantina, a la que los bizantinos denominaban Justina, la ciudad más importante de
toda la provincia, que habría caído por la traición de alguno de sus habitantes que abre las
puertas al rey visigodo en medio de las negociaciones habituales en las situaciones de
ciudades sitiadas.
Aparentemente habría sido Sisebuto quien ordenó la destrucción de las murallas y de todas las
defensas de la ciudad, tal vez para que no pase lo de Corduba, que había vuelto al mando
bizantino luego de ser conquistada por Leovigildo, o tal vez para escarmentar a la población
local, demostrando así que el verdadero rey poderoso y romano era él.
Tras la caída de Carthago Spartaria caen varias ciudades ante Sisebuto primero, y luego de la
muerte de éste en 621, caen Malaca y las restantes ciudades costeras del estrecho en manos
de Suintila, que será el rey que se pueda adjudicar la definitiva expulsión de los bizantinos de
las tierras de la Península Ibérica.
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Era algo lógico: el imperio, ocupado en sobrevivir a los persas con Heraclio a la cabeza, poco
pudo hacer para que este hecho no sucediese, ya que con un razonamiento elemental
consideraba que la pérdida de Siria, Palestina y Egipto (que terminó de caer en 619 o 620) en
manos de su enemigo era más importante que la pérdida de la provincia de Spania.
14- Ultimas consideraciones.
Si bien fueron relativamente pocos los años de permanencia de Bizancio en España, fue un
periodo rico en hechos interesantes, fueron años de intercambio cultural, y también los últimos
años del imperio romano en España, donde por un siglo más (hasta 711) perduraría el reino
visigodo hasta su caída en muy poco tiempo ante los árabes (los visigodos probaban así el
mismo dolor que los bizantinos experimentarían en 639-645).
No existen demasiadas fuentes que nos acerquen luz a todos los acontecimientos ocurridos en
Spania durante estos setenta años, así como tampoco hasta ahora la arqueología nos ha
descubierto demasiadas cosas sobre la vida en este periodo, por lo que lo único que nos queda
es llenar los baches existentes con la mejor lógica histórica y con las dudas naturales ante esta
situación.
Sin embargo, una conclusión surge clara y precisa al finalizar el relato de la vida en el sur de
Hispania en los años bizantinos: la civilización de las ciudades, la cultura romana, la forma de
vivir de los ciudadanos tiene una larga persistencia, hay una continuidad evidente que no se
quiebra ni con la caída de Roma, ni con la llegada de los vándalos, ni con el primer tímido
gobierno visigodo, que se fomenta y engrandece con la llegada de los bizantinos, y que
también se extiende con la toma de las ciudades por el nuevo reino visigodo romanizado.
Tal vez no sea un periodo glorioso ni extraordinario el de Bizancio en España, pero merece ser
ampliamente investigado, incluso por ciencias como la arqueología, que debería apoyar una
amplia investigación en zonas como Cartagena, Málaga o Córdoba, que están tal vez
esperando por nuevos descubrimientos que arrojen luz sobre los hechos acaecidos entre los
años 552-554 y 622-626, o sea entre las supuestas fechas del desembarco y del definitivo
alejamiento de los bizantinos de las costas de Spania.
Otra teoría que debe ser revisada es la que dice que Spania dependía de Africa, basada en que
no se han descubierto grandes obras de arte o iglesias mayores hechas por los hispanos
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bizantinos, y es que no creo que este sea un motivo para considerar que Spania no haya sido
un poco más importante para Bizancio, habida cuenta de la importancia de su industria
pesquera, de su comercio, de sus puertos, de sus numerosas ciudades, de sus ciudadanos que
viajaban a Constantinopla, de su gente culta, de los impuestos que pagaban, sumándole los
pocos problemas de guerras en distintos periodos, al contrario de lo que sucedía en el resto del
imperio, todas razones suficientes como para justificar la no-dependencia de la provincia de
Africa o luego del exarcado de Carthago, provincia en la cual debían todos los días de todos los
años luchar por la supervivencia contra las incursiones de los bereberes que asolaban la zona
constantemente.
Sea como sea creo que se debe respetar esta época en Hispania como de una influencia
cultural muy importante para los siguientes siglos de vida, incluso para la época del
establecimiento de los árabes en la península por más de setecientos años, durante el cual el
renacimiento de la cultura, el respeto por los cristianos y la romanidad y el estudio de la
filosofía clásica se destacaron como en muy pocos Estados de la edad media, y yo pregunto:
¿de dónde podía venir esa clase de civilización sino de la influencia bizantina, ya sea de los
ciudadanos dominados en las provincias árabes de Siria y Egipto como de su propia influencia
que, in situ, desplegaron sobre los visigodos?
Como conclusión dejo esta pregunta abierta a todas las mentes que desean siempre conocer la
verdad de los hechos y las situaciones históricas.
15- Apéndice: Huellas de Bizancio en España.
Por último, una reseña de varios descubrimientos que testimonian la presencia bizantina en
España, que, aunque son pocos, estimulan a seguir con las investigaciones y espero que aún
existan arqueólogos apasionados por este tema y esta épóca:
Carteia (Gibraltar): existe una inscripción funeraria del siglo VI escrita en griego, dedicada a
Nikolaos Makarios. También cerca del foro de la ciudad se hallaron dos broches metálicos de
cinturón, uno de los cuales se considera de posible origen bizantino
En la capital Carthago Spartaria se halló una inscripción del magister militae Hispaniae
Comenciolo (hombre del emperador Mauricio y jefe de las tropas de la provincia de Spania) de
fines del Siglo VI que dice así: COMENCIOLUS SIC HAEC IUSSIT PATRICIUS MISSUS A
62
MAURICIO AUG. CONTRA HOSTES BARBARO. MAGNUS UIRTUTE MAGÍSTER MIL. SPANIAE. En
ella como vemos se menciona supuestamente a los visigodos como bárbaros.
En Baria se localizó un epígrafe de letras griegas del siglo VI, donde se alude a Eutyches, hijo
de Sambatius.
En Sierra Alhamilla aparece una necrópolis de muy posible construcción bizantina de fines de
siglo VI.
En Baelo Claudia se encontraron varias monedas bizantinas.
En unas excavaciones en el castillo de Tarifa se encontraron numerosos restos que parecen
indicar que hubo allí un establecimiento bizantino.
Finalmente encontramos las huellas de la influencia bizantina en el
reino visigodo, ya hablamos de la vestimenta y los ornamentos del
rey Leovigildo y de muchos de sus sucesores, incluso los
posteriores a la dominación bizantina, como Recesvinto, rey que
ejerció su gobierno ya hacia la mitad del siglo VII, cuya corona
hecha de dos medias circunferencias de oro unidas por una
charnela y un pasador, engastadas con zafiros, perlas, y otras
piedras preciosas, aunque haya sido hecha por un artesano
hispano debe su elegancia, forma y características principales a los
delicados orfebres bizantinos.
Corona del rey visigodo Recesvinto.
Rolando Castillo
(webmaster of)
www.imperiobizantino.com
63
Bibliografía.
LA ASSIDONA BIZANTINA Y SU REFLEJO EN LAS FUENTES. Pedro Estudillo Ruiz
EL EPÍGONO BIZANTINO DE MEDINA SIDONIA Bartolomé Luna Moreno - Pedro Estudillo Ruiz
UNA APROXIMACIÓN AL ESTUDIO DE LAS VÍAS EN LA HISPANIA VISIGÓTICA Enrique
Gozalbes Cravioto
Actas del II Congreso Internacional de Caminería Hispánica. Tomo I, pp. 85-94
LA CIUDAD EN LA HISTORIA. Tomo 1. Lewis Mumford.
ATLAS HISTÓRICO MUNDIAL. Georges Duby.
EL IMPERIO BIZANTINO. 395-1204 Fotios Malleros.
HISTORIA DEL ESTADO BIZANTINO. Georg Ostrogorski.
BIZANCIO Y EL MUNDO ORTODOXO. Alain Ducellier.
HISTORIA UNIVERSAL. Anesa-Noguer-Rízzoli.
HISTORIA UNIVERSAL. Tomo 4. La edad media. Carl Grimberg – Ragnar Svanstrom.
64
Un Mercante dell’Italia settentrionale al tempo di Giustiniano
di Enrico Pantalone
Facciamo una passeggiata nel passato, all’epoca di Giustiniano ed all’incirca intorno al 560:
immedesimiamoci nell’atmosfera del tempo a cavallo tra gli ultimi bagliori dei secoli d’oro
dell’Impero Romano ed il tetro futuro che avrebbe di lì a poco preso il sopravvento
annientando per qualche secolo commercio e vita sociale.
Giustiniano racchiudeva in sé l’orgoglio d’essere ancora considerato un Imperatore Romano
(l’ultimo forse..) e d’essere nel contempo già platealmente solo Orientale in molte delle sue
manifestazioni esteriori.
Sappiamo bene che tutta la sua politica sociale ed economica (oltre che militare) ha risentito di
questa ambiguità di fondo.
Il Corpus Iuris Civilis e’ indiscutibilmente un’opera Romana per come è scritta e come è
concepita, gli stessi autori arrivano per lo più dalla scuola di Beirut, valente colonia della città
eterna e la sua applicazione resterà un fondamento ad occidente, dimenticata ad oriente, sarà
ripresa e immortalata da dotti scienziati giuristi per ribadire la superiorità degli Imperatori
Germanici dall’anno mille in poi e per la crescita dello Ius Commune delle genti che abitavano
le sue terre.
L’immensa pianura Padana imperiale che s’estendeva sull’asse delle sue due grandi città, sedi
imperiali in diversi tempi, Milano e Ravenna, farà da sfondo al simpatico viaggio attraverso usi
e costumi delle tradizioni settentrionali.
Il nostro baldo amico del tempo si chiama Ippolito e di professione fa il commerciante, ha la
sua brava famiglia e una buona attività che riguarda la compravendita soprattutto di utensili da
lavoro, d’armi ma non disdegna di far mercato anche di stoffe, pietre preziose o monili.
E’ a suo modo un innovatore, per quanto i tempi lo permettano, ha una sua piccola officina e
viaggia anche attraverso l’Impero od oltr’Alpe.
Avendo una florida attività e alcune rendite fondiarie il nostro buon Ippolito deve anche pagare
le giuste tasse all’amministrazione provinciale bizantina.
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Egli sa che deve pagare annualmente un canone regolare in base alla sua rendita catastale
circoscritta ed attestata da messi giudiziari, lo fa volentieri anche perché in qualche modo si
ritiene garantito e protetto dalle leggi.
Vero anche che in questo periodo storico molti proprietari terrieri in barba alle leggi usano il
sistema d’alienazione delle stesse al fine di non pagare imposta, metodo ereditato dai
possidenti romani dei secoli precedenti ma normalmente gli ufficiali imperiali preposti sono
molto severi e gli amministratori colpiscono senza peraltro quasi mai abusare del loro potere.
Il suffragium è tuttavia cosa comune nel centro e nel sud dell’Italia mentre a nord è più
difficile, anche perché spesso nel primo caso la carica d’amministratore viene comprata per
poter sfruttare meglio le leggi mentre nel secondo la continua guerra con le popolazioni
germaniche non consente di lasciare tale incombenza in mani private ma in mano ai militari
che o più difficilmente si lasciano corrompere.
Si, e’ vero, sono appena finite le guerre distruttive tra Goti e Bizantini e gli eserciti calpestano
il suolo coltivabile e razziano le materie prime prodotte ma tutto sommato pur con qualche
difficoltà nella sua attività Ippolito si barcamena rendendosi utile di volta in volta o agli invasori
o ai difensori.
E qui sta l’abilità del nostro amico mercante, cresciuto ad una scuola dura, egli sa leggere,
scrivere e far di conto quanto basta, la scuola pubblica bizantina lo ha istruito regolarmente ed
egli ha appreso tutto cio’ che gli e’ stato sufficiente per progredire nelle sue capacità
d’adattamento.
La sua famiglia, una moglie, Enilde, di chiare origini germaniche, e i suoi due figli Edelgardo e
Servio oramai in età più che adolescenziale l’aiutano nel commercio e lo seguono nei giri per le
terre vicine, poi c’è anche Olimpia, la piccola di casa, che si cura di tenere sempre in ordine la
bottega insieme alla madre.
La popolazione rurale e quella delle città imperiali non è certo del tutto felice perché giorno
dopo giorno deve vivere senza poter pensare a costruire un futuro decente per sé: spesso il
passaggio dalla vita alla morte è un fattore decisamente fortuito e banale, onde per cui è
meglio non farsi troppo illusioni, già la vita è breve, figuriamoci se si può pensare ad altro che
la sopravvivenza.
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Eppure i valenti artigiani della nostra famiglia a loro modo sviluppano nuove tecniche
d’approccio nella costruzione e nella creazione di strumenti utili alla gente, siano esse armi o
utensili per il lavoro.
Si perché, per tutti Ippolito ha pronto una lancia, una mazza, una scure a doppia lama, se si
hanno più denari una bella spada.
Queste armi vengono tenute poi nascoste e tirate fuori nel caso si debba difendere i propri cari
ed i propri averi..
Ippolito non sfrutta mai la gente, sa che un nobile può pagarlo di più se il lavoro viene fatto
bene, ma sa anche che il contadino deve difendersi, gli compra utensili e lo fa vivere
dignitosamente per cui sfruttarlo sarebbe contro i suoi interessi economici.
Poi, ci sono le fiere dove portare il surplus della sua produzione, ci sono le grandi città come
Milano o Ravenna, dove ovviamente egli presenta la sua mercanzia ritoccata di quel tanto nel
prezzo che gli permette buoni guadagni e di pagare le imposte dovute all’erario imperiale.
Entrambe la città fagocitano quasi tutto ciò che viene prodotto dalle terre circostanti, e
nonostante tutto questo spesso non basta, per cui si vende di tutto ed in abbondanza una volta
varcate le mura del borgo.
Per esempio l’Istria e parte delle terre venete dell’est “nutrono” la capitale occidentale,
specialmente se si tratta d’olio, di vino e di garum, tre prodotti indispensabili per ogni buon
bizantino o abitante dell’impero.
In special modo il garum istriano è conosciuto come d’ottima qualità e molto ricercato.
Nella capitale Ravenna, il potere, ed Ippolito lo sa bene, è fermamente nelle mani del patriziato
laico, un po’ furbo, un po’ istrione ma fondamentalmente ligio alle direttive di Bisanzio anche
se in qualche modo cerca d’attuare una sua politica locale sempre in ottemperanza alla
Pragmatica Sanctionae.
Ma Ippolito, girando per il lungo ed il largo nel settentrione si dirige anche verso ovest e
conosce Milano, dove vende bene e guadagna altrettanto bene, spesso risale il grande fiume
che attraverso i canali secondari lo porta nel centro cittadino, non gli costa neanche tanta
fatica, qualche giorno di provviste e via, è abbastanza sicuro, perchè sulla chiatta i banditi non
possono rapinarlo e spesso ci sono anche dei soldati che si spostano, sa che deve pagare ogni
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tanto qualche moneta per avere “favori” particolari come il posto a sedere o un riparo se piove
ma in fondo non se ne cura molto.
E poi è un utile esperienza anche per un dei due figli che l’accompagna, uno, perché l’altro
deve comunque rimanere a case nel caso succedesse qualcosa…
Ippolito insieme a Edelgardo sta appunto tornando da una fiera sul Po quando entra in contatto
con una pattuglia di militari imperiali, che vedono le buone armi invendute e chiedono il
prezzo.
Consuetudine comune al tempo, infatti le province devono poter far fronte al nemico senza
contare sull’aiuto dell’amministrazione centrale, dispongono di danaro da spendere e possono
comprare senza bisogno di nulla-osta particolari: l’accordo tra le due parti è semplice ed il
pagamento immediato, cosi entrambe le parti sono soddisfatte, una per la vendita l’altra per
l’acquisto.
Di solito i militari pagano il nostro mercante con il semissis ed il tremissis, cioè mezzo soldo od
un terzo del soldo (solidus) o bisante imperiale, ma normalmente egli ha una buona sacca di
monete d’argento e bronzee per le transazioni locali e provinciali.
Il semissis ed il tremissis vengono tenute in grande considerazione perché sono le monete
della riforma economica di Giustiniano importante tappa per una buona ripresa amministrativo-
commerciale.
Per quanto riguarda il soldo, Ippolito non lo usa, vuoi perché la sua merce non ne richiede
l’utilizzo per transazioni minime, vuoi perché l’amministrazione imperiale tende ad acquisire
tutti quelli in circolazione per farli convogliare a Bisanzio e da qui verso i mercati orientali che
privilegiano l’oro anzichè altri metalli meno nobili e per accaparrarsi le derrate ne occorrono
molti su quei mercati.
Che poi queste monete prendano il volo durante i viaggi sulle carovaniere caspiche o iraniche
non deve trarre in imbarazzo, esse vengono sostituite da quelle d’argento senza alcun
problema.
Comunque anche Ippolito tramuta alcune sostanziose rendite in monete d’oro e gelosamente li
nasconde in qualche luogo buio e solitario della casa: ha tre figli e vuole che siano tutti felici, è
un bravo padre ed oltre alla buona bottega cerca di lasciare loro anche qualche miglioria.
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Poi è solito regalare ai figli monete d’oro per qualche importante avvenimento, è caparbio e lo
fa sempre con estrema naturalezza.
Per la moglie ha in serbo una sorpresa: da un amico mercante che traffica oltre le Alpi ha
acquistato una collana d’ambra di notevole fattura fatta nel lontano nord, nelle terre fredde:
nelle terre baltiche quest’arte è la regola.
Gli è costata molto, ma quando sua moglie Enilde l’indosserà per lui sarà come se lei fosse una
Regina o un’antica principessa Romana, beh, in fondo si rifarà sulla vendita della prossima
spada….magari gabolando un po’ sul peso dei preziosi incastonati nell’elsa della stessa.
Egli pero’ non vuole fare mancare l’istruzione ai figli, anche loro hanno imparato
l’indispensabile nelle scuole pubbliche, e nei momenti liberi dal lavoro li manda ad apprendere
qualcosa in più da uno maestro ateniese. Pherseo, che cacciato dalla legge di Giustiniano
contro i filosofi della capitale greca ha trovato rifugio da queste parti.
Viene dalla Licia, una zona dell’Anatolia di fronte a Cipro, una zona mediterranea ed e’ un
brav’uomo, magari un po’ suonato o eccentrico per il modo di vivere usuale di queste zone ma
non fa male a nessuno ed oltretutto è molto simpatico.
Tiene le sue lezioni sotto una pianta o vicino a qualche pergolato d’estate e in qualche
masseria nei mesi freddi.
In realtà lui dovrebbe insegnare solo la filosofia ma capendo anche le esigenze della gente
della Padania, fa si che le sue lezioni siano intrise anche di sano buon senso rurale.
I figli di Ippolito ed altri giovani lo seguono attentamente anche perché pagano la loro quota e
da bravi commercianti cercano d’apprendere il più possibile.
Certo non è possibile per loro avere una cultura raffinata anche se qualche libro riescono ad
acquistarlo, ma possiamo dire che essi si ritengono fortunati di poter avere almeno quelle
poche ma sostanziali informazioni.
Per tutta la nostra famiglia viceversa è molto importante conoscere il diritto e tutto ciò che
compete ai vari amministratori e messi giudiziari.
Spesso da una piccola dimenticanza può nascere una disputa dagli esiti anche fatali ed è
giocoforza per loro imparare bene l’uso delle consuetudini e delle leggi.
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Essi sanno che è stata varata una nuova riforma che ha sconvolto il mondo conosciuto, non si
peccano certo d’interpretare quelle leggi o di studiarle, a parte gli incaricati statali solamente i
rappresentanti della Chiesa possono esserne a conoscenza anche perché scritti in latino, lingua
che oramai il popolo non usa quasi più.
Si parlava molto nei borghi dei codici emessi da Giustiniano e delle sue novelle.
Grazie al Cielo, Ippolito non ha mai avuto problemi con la giustizia, anche perché molti dei suoi
clienti sono ricchi signori della zona che l’hanno preso a ben volere e spesso egli si ferma da
loro a mangiare dopo una fornitura di utensili o di preziosi.
Proprio in una di questi pranzi, ed è insieme ai due figli, presso il duca delle terre circostanti ci
si è intrattenuti a parlare sul caso giudiziario del momento.
Un ricco mercante e buon amministratore di rendite, Malvezzo, conosciuto e stimato da tutti
nobili e popolo, è stato citato in giudizio da un funzionario imperiale, considerato inetto e
vessatorio.
Malvezzo, a suo giudizio non avrebbe ricavato una somma cospicua ed idonea da una vendita
di terreni.
Si sa che in giudicato egli pur innocente perderebbe, troppo il potere in mano al funzionario
provinciale e cosi’ egli s’è rivolto allo stesso duca al desco con Ippolito ed ad altri nobili e
maggiorenti cittadini per avere aiuti nella disputa.
Lo stesso comandante militare bizantino della guarnigione stanziata presso il borgo si dice
pronto ad assumere la difesa di Malvezzo perché oltre a credergli, ritiene il funzionario una
persona capace solo di far male alla politica imperiale e questo, si sa, dopo la riforma, è
ritenuta cosa inammissibile da Giustiniano.
Egli proprio per questi motivi ha creato la figura del praetor plebis o praetor populi, cioè d’un
giudice garante dell’autonomia del potere giudiziario sopprimendo la carica di praefectus
vigilum oramai desueta ed incomprensibile alla gente comune e rurale.
La vecchia carica aveva ben pochi aspiranti, sia per la pericolosità (le minacce erano all’ordine
del giorno e dalle minacce alla morte correva davvero ben poco spazio temporale) sia perché
scarsamente retribuite, il che portava inevitabilmente l’incaricato a cercare guadagni in
maniera diversa.
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La nuova invece, varata dopo la rivolta di Nika, dava maggiore spazio d’azione al nuovo giudice
e lo rendeva scevro dalle possibili collusioni con la malavita, poi poteva sempre rivolgersi al
comandante militare di zona.
Insomma, ogni cosa è pronta per un processo che tutti gli amici del borgo aspettavano con
ansia e poter constatare se le nuove leggi funzionavano veramente.
Il funzionario inetto capisce che l’aria è decisamente cambiata tanto da cercare la fuga
nottetempo ma individuato e fermato da una solerte pattuglia che sorvegliava la mura
cittadine si trova ora in una posizione alquanto sospetta.
E viene il giorno atteso anche perché s’è fatto un gran parlare del caso e tanta gente viene
anche dalle terre vicine.
Sono arrivati anche dei dignitari direttamente da Ravenna con ordini severissimi per il praetor
plebis: egli e’ diventato agli occhi di tutti e per Giustiniano soprattutto la reincarnazione del
vecchio giudice romano e soprattutto del suo prestigio passato (tant’è che egli evidenzia
apertamente le differenze tra il nome in latino e quello greco che inevitabilmente finisce in
second’ordine, dietro le quinte e probabilmente usato solo ad oriente).
In effetti il processo sta seguendo una strada ampiamente prevista, Malvezzo espone i fatti con
lucidità e testimonianze importanti, quali quelle del Duca e del Comandante militare, quello
d’altri onesti cittadini ed il funzionario al contrario non risponde in maniera coerente e spesso
non riesce nemmeno a comprendere qual è il suo discorso e come deve giustificarsi.
Il praetor plebis non ha difficoltà ad emettere la sentenza, Malvezzo viene riconosciuto
pienamente innocente ed il funzionario destituito d’autorità ed imprigionato in attesa del
giudizio sul suo operato.
Ippolito ora è contento, va dall’amico e si congratula con lui, poi con i figli decide che è tempo
di festeggiare con una buona bevuta, ma sa anche che non sarà sempre così, e non sempre
prevarrà la giustizia, lui è un uomo con i piedi per terra, sa che questa volta è stato lo stesso
imperatore tramite i suoi emissari a volere un processo giusto, ma se lui morirà cosa accadrà ?
E cosa accadrà se i Goti ritorneranno in queste terre ?
Tutte domande difficili per gente come Ippolito,lui deve vivere alla giornata e non può
permettersi il lusso di divagare: oggi ha vinto la giustizia domani si vedrà.
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Il comandante militare vede la famiglia e si ferma a chiacchierare con i componenti in taverna
davanti ad un bicchiere di vino.
La sua guarnigione avrebbe bisogno di nuove reclute, magari anche di buoni ufficiali, ed i due
figli sembrano promettere bene, oltre tutto hanno anche una buona istruzione e questo
faciliterebbe il lavoro da svolgere, di natura poliziesca, secondo i nuovi canoni della riforma
dell’imperatore che da importanza strategica alla milizia (leggi polizia) locale.
La paga e’ interessante e le prospettive buone, certo Ippolito preferirebbe vedere i suoi due
figli proseguire il commercio famigliare ma come dire no allo spirito d’avventura che è insito in
ogni giovane.
Edelgardo e Servio sono estasiati dalle parole del comandante, ma guardano negli occhi il
padre e chiedono di pensarci, dei due Edelgardo si lascerà convincere e Servio rimarrà in
famiglia.
Ippolito è comunque felice, un figlio nella milizia provinciale è una sicurezza in più anche se ora
il suo posto sul lavoro dovrà esser preso da un altro che per di più dovrà essere pagato.
Eccolo finalmente, il figlio arriva nella sua nuova divisa dalla famiglia e la madre lo guarda
ammirato, lei era una schiava di razza germanica, abituata ai lavori duri sin da piccina e vuole
un gran bene al marito, vedere il figlio con l’uniforme imperiale la mette di buon umore.
Ippolito deve trovare un nuovo aiuto per sostituire il figlio ed anche qui gli viene in soccorso
una raccolta di leggi edite dall’imperatore, lo ius nuvum codificante tutte le consuetudini, gli usi
ed gli atti giuridici dei territori italiani passate sotto il nome di manumissio, cioè l’atto con cui si
libera lo schiavo.
Molti di questi schiavi sono diventati liberti sfruttando questa legge ed ora cercano lavoro,
Bruso è uno di questi.
Egli è diventato libero in virtù del fatto che davanti a cinque testimoni di provata fede il suo
padrone lo aveva dichiarato non più servo, tanto basta con l’introduzione della nuova legge
voluta da Giustiniano per renderlo sciolto legalmente dall’impegno servile.
In realtà il suo padrone non avrebbe voluto liberarlo ma solo alienarlo per il solito giochetto di
evitare il pagamento delle imposte sui suoi beni tra cui ovviamente v’era anche Bruso.
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Figuratevi la sua faccia quando il nostro liberto ha preso la sua roba e se n’è andato con la sua
carta legale di emancipazione e la sua brava cittadinanza romana ed imperiale, già perché la
nuova legge ne prevedeva l’automatica estensione a tutti coloro che si riscattano dalla
schiavitù per evitare dispute con chi l’ottiene viceversa tramite il praetor.
Le due pratiche legali vengono quindi equiparate ma l’importante è che la forza della legge
permette a questi uomini di diventare cittadini a pieni diritti, insomma il nostro buon Bruso ora
sa che dovrà lavorare duramente ma lo farà per lui e non per altri.
Egli e’ stato prima della schiavitù un buon maestro di stoffe e legname e chiede di poterlo
continuare a fare: Ippolito lo scruta per bene ed insieme al figlio Servio decide di metterlo alla
prova portandolo in prossimità delle merci stoccate nel magazzino adiacente alla parte aperta
al pubblico.
Qui ci sono delle stoffe e degli arnesi da contadino.
Ippolito gli chiede di valutare le merci perché non si fida di chi le ha vendute…
Bruso prende dapprima gli utensili a manico, ne odora il legno, ne tasta la stagionatura con
piccoli colpetti, poi passa alle parti metalliche e approva con lo sguardo serio l’acquisto, ma da
schiavo ha imparato anche a controllare le stoffe, con il palmo della mano ne soppesa la
consistenza, alcune le mette da un lato ed alcune da un altro poi indica quali sono scadenti e
quali invece sono d’ottima fattura.
Ippolito e Servio sono sorpresi ma compiaciuti, sanno d’aver trovato un buon lavoratore e che
conosce il mestiere, il prezzo della sua opera come di consueto a quel tempo, sarà il vitto,
l’alloggio, una parte di derrate che potrà rivendere a suo piacimento e qualche moneta
d’argento, se poi gli affari andranno bene in qualche fiera un arrotondamento senz’altro lo
percepirà
Non è molto, ma di questi tempi, un tetto sicuro, un buon pasto è già qualcosa, Bruso non è
giovanissimo, avrà almeno 35 anni ed in fondo gli piace questa gente simpatica e per niente
arrogante.
La bottega, come tutte quelle di questo tempo non è precisamente un luogo profumato come
la corte regale e gli splendidi palazzi imperiali.
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La stagnazione dei vari odori si sente da molto lontano anche se non vi sono alimentari che
rischiano la putrefazione, del resto non è che le abitazioni fossero più salubri, la mancanza di
finestre a vetri per ovviare al freddo dell’inverno padano purtroppo regalano effluvi certo non
edificanti.
Bruso, che se ne intende, ha ovviato a questo problema raccogliendo sui greti del fiume ai
bordi della città molte erbe che servono, anche seccate, a rendere più sopportabile l’ambiente.
E’ anche tempo di ringraziare Iddio per la benevolenza del periodo e per questo si va in Chiesa
ma anche per un altro motivo, d’ordine giuridico se vogliamo.
L’Auctoritas Ecclesiae sovrintende al buon funzionamento della comunità e di fatto s’appaia al
Diritto Romano del Corpus Iuris sempre con maggior insistenza e precisione, Giustiniano è
ancora l’imperatore ma il potere del Papa in Roma guadagna sempre più terreno.
Quindi bisogna mostrarsi anche buoni cristiani ed Ippolito lo è senz’altro, come tutta la sua
famiglia, e poi la Chiesa è pronta ad ogni evenienza, le sue porte s’aprono nel caso di
scorribande dei Goti o di banditi, spesso è l’unica autorità che s’oppone alle barbarie e Bisanzio
e così lontana che anche mettendoci tutta la buona volontà non può intervenire sempre.
Edelgardo, il figlio d’Ippolito, con una sua pattuglia ha avvistato dei predoni goti che
probabilmente si sono staccati dalle forze regolari e vagano per le terre in cerca di vittime e
guadagni facili, sono in molti e le esigue forze di stazza nel borgo del nostro amico mercante
non bastano di certo a fronteggiarli, per cui la popolazione viene avvertita per avere il tempo di
rifugiarsi in qualche posto sicuro.
Ippolito porta la moglie e la figlia in Chiesa dove già ci sono altre persone timorose, mentre lui
stesso e Servio si metteranno al servizio del primo figlio insieme ad altri coraggiosi che
preparano la difesa, non sono eroi, semplicemente preferiscono aiutare la milizia come
possono, pure senza usare le armi, anche Bruso si mette a disposizione, ora che è un cittadino
libero vuole guadagnarsi la stima di tutti.
Fortunatamente in questo frangente non v’è bisogno di combattere, la soldataglia ha preferito
dirigersi verso altre terre confinanti e poi dopo aver saccheggiato e distrutto ha virato verso la
parte opposta rispetto al borgo del nostro mercante.
Le notizie che rari fuggiaschi portano da quelle terre sgomentano la gente,
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non v’è nessuna pietà per i malcapitati e le poche truppe cittadine ed imperiali sono state
massacrate: Bisanzio è lontana, sempre di più e Ravenna non riesce ad esercitare il suo potere
in maniera ferma e decisa nella valle Padana.
Passata quest’ultima triste avventura senza troppi danni, Ippolito decide che deve andare ai
confini con l’Illiria per comprare delle pelli e rivenderle con un buon guadagno, laggiù ci sono
molte merci che arrivano dal lontano oriente europeo, troppo per conoscerle bene ma che
vendono i loro manufatti a prezzi irrisori.
La sostanza è nel pericolo del viaggio, ma Ippolito lo sa, porta con se’ il figlio Servio, ci vorrà
parecchio tempo tra andata e ritorno con il carro: quindi prima di partire chiama il figlio
Edelgardo e gli consegna gli averi, poi paga Bruso per un anno e gli affida la custodia della
moglie e della figlia, sarà lui l’uomo di casa ora.
Si fa dare l’indulgenza per la sua anima e quella del figlio, e fa una buona elemosina,
insomma, lui sa che parte ma non sa se tornerà mai indietro.
Viaggerà insieme ad altri mercanti conoscenti ed amici, così si sentirà meno solo.
Le strade che affronta durante il viaggio sono per lo più quelle romane, ancora in buono stato
nonostante le guerre e le distruzioni, certo la pavimentazione non ha più subito manutenzione
da secoli, le pietre levigate d’un tempo sono solo un sogno ed Ippolito nel migliore dei casi
riesce a fare una trentina di chilometri al giorno, sempre che non piova a dirotto….
Spesso il tracciato è solo un sentiero battuto e passa in mezzo a boschi e sterpaglie,
fortunatamente man mano che si percorre la strada verso l’est ritrova un selciato, e si trovano
anche delle stazioni e locande posizionate più o meno alla stessa stregua di quelle romane dei
secoli d’oro, vi si trovano anche delle pattuglie bizantine che cercano di dare un qualche
sicurezza ai viaggiatori.
La vista di torrette miliari leniva la solitudine e la paura, Giustiniano ci tiene a che la gente sia
rassicurata, e questo significa dover tenere sempre attive le minime funzionalità logistiche
militari.
Ippolito per i suoi acquisti ha potato monete d’oro, che sono le più controvertibili, ma anche
monete d’argento o di bronzo per i pagamenti veloci e soprattutto per acquistare
vettovagliamenti e pagare le locande ed i pernottamenti.
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Il mercato per l’acquisto delle pelli si tiene ad Apollonia, città da cui parte la Via Egnazia, la
famosa via consolare romana che arriva a Tessalonica e che quindi fornisce la possibilità ai
mercanti orientali d’arrivare al confine con la parte occidentale dell’Impero.
Ippolito ed il figlio si danno un grande daffare durante i giorni di fiera, vendono parte della loro
mercanzia ed acquistano molte pelli pregiate cacciate nelle pianure che s’estendono oltre le
terre dei Daci.
Insomma il loro viaggio è stato proficuo e vantaggiosa sarà ancor più la successiva vendita di
questa mercanzia, in Padania nei mesi freddi s’ha sempre un gran bisogno di abiti caldi e le
pelli offrono indubbiamente questo particolare vantaggio.
Ed ora si riprende la via del ritorno.
Nel frattempo Bruso ha mandato avanti la bottega in maniera eccellente e ha sempre avuto un
occhio particolare per le due donne della famiglia, Olimpia lo chiama zio e lui ne è contento.
Va anche molto d’accordo con Edelgardo, che spesso visita la madre e la sorella quando non è
di pattuglia.
Ora ha trovato un fondo che gli pareva interessante e con i soldi risparmiati dalle transazioni
personali, quello che gli aveva anticipato Ippolito sui suoi futuri lavori e qualche regalo per
lavori eseguiti presso altre persone poteva permetterselo.
Così si trova con cinque testimoni di provata fede tra cui Edelgardo ovviamente per la
transazione consuetudinaria che nel nuovo codice amministrativo di Giustiniano passa come
Traditio e si rifà alla Mancipatio teodosiana.
L’alienante e Bruso si trovano davanti ad una bilancia retta da una sesta persona per l’atto
chiamato libripens: è un atto simbolico, la vecchia immaginaria venditio, e tutti lo sanno bene,
ma appunto perché è una consuetudine perpetuatasi nel tempo piace e viene seguita alla
lettera.
Bruso con un lancio deciso ferma il penzolamento della bilancia mediante un pezzetto di bronzo
non coniato.
L’atto è validato dalla presenza dei testimoni.
Ora Bruso è diventato padrone d’un fondo, certo non grande, ma per lui è più che sufficiente,
continuerà certo a lavorare in bottega ma nel contempo guadagnerà qualcosa dallo
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sfruttamento della terra mettendosi d’accordo con qualche contadino e dividendo a metà il
frutto delle coltivazioni.
E’ un sistema semplice il suo, non ha famiglia, e quindi può rischiare.
Il diritto amministrativo giustinianeo ha fornito i mezzi giuridici necessari e lui ha agito
legalmente come cittadino dell’Impero:: motivo di grande soddisfazione dunque.
Ippolito ed il figlio sono ritornati a casa con il loro carico prezioso.
Insieme al buon Bruso si dividono le pelli a seconda della qualità e per che capo serviranno,
infatti alcune andranno vendute a le intendenze militari per l’abbigliamento invernale, alcune
serviranno ad altri lavoratori manuali e le più prestigiose alla nobiltà.
Il nostro mercante si congratula con il suo aiutante per l’ottimo affare del fondo, ora ha in un
mente un progetto più ambizioso, vuole ampliare la portata del suo commercio, in fondo ha
superato i 45 anni e l’età è avanzata, sa che a parte la morte violenta può ghermirlo anche
quella tradizionale, di vecchiaia, e contando i suoi anni s’accorge che avrà ad andar bene
ancora dieci anni di vita come aspettativa e sarebbe già molto per questi anni.
Il primo figlio Edelgardo è stato nominato stratega ed oramai la sua strada è quella di servire
lealmente nell’esercito imperiale e d’avanzare nella gerarchia delle sue cariche, in fondo è
valente, ben istruito e anche coraggioso, quindi nulla gli è proibito, si sa che Giustiniano ha
una predilezione per gli uomini d’azione e lui lo è.
Ippolito decide così d’aprire con i guadagni della vendita delle pelli una nuova bottega di sete e
stoffe per il figlio Servio che ha ereditato la sua passione per l’arte del vendere e comprare.
La bottega attuale sarà data in gestione a Brusio, oramai diventato di famiglia, che grazie alla
sua esperienza garantirà buoni guadagni ed un’oculata gestione.
Ora ha solo da sistemare la figlia minore Olimpia, già 15enne ed in età da marito, lei è un bella
giovinetta, c’è solo da scegliere tra tanti validi giovani, ma in fondo lui non ha troppa fretta che
ciò accada, ha provveduto a crearle una solida dote ed è sicuro che quando accadrà
l’inevitabile lui sarà senz’altro pronto.
Ma purtroppo lui non ha fatto i conti con uno dei peggiori nemici di quest’epoca, un nemico
subdolo, quasi imbattibile e che lascia solo morte dietro di sé: la peste.
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Certo non è la grande peste di qualche quinquennio prima ma per la gente comune è pur
sempre un momento tragico.
Già la guerra ha impoverito e depauperato di popolazione la penisola, ora che si stava avendo
sentore di qualche miglioramento e crescita nella vita sociale, arriva quella che viene
considerata una punizione divina.
E colpisce senza pietà, ovunque, senza distinzione di razza, cultura e ricchezza…..
Anche il borgo di Ippolito viene colpito, ed è una strage, muoiono a centinaia, complice anche
le pessime condizioni igieniche delle strade e delle abitazioni.
Non v’è nulla da fare contro d’essa e tutti lo sanno, la Chiesa s’erge con il suo potere morale
per alleviare almeno dal punto di vista spirituale la popolazione, le autorità bizantine mettono a
disposizione tutto l’apparato burocratico e militare disponibile e lo stesso figlio d’Ippolito,
Edelgardo, assume tutti i poteri nel borgo come prassi consolidata vuole per arginare la
situazione giorno dopo giorno drammatica.
Ogni famiglia viene decapitata di qualche elemento e nemmeno quella del nostro amico risulta
indenne.
Così anche il nostro nucleo dovrà pagarne le conseguenze ed
Ippolito viene colpito dal male inesorabilmente, la febbre violenta, le convulsioni, le pustole ed
i bubboni che appaiono sul suo corpo non lasciano dubbi: nonostante le cura amorevoli di
Enilde s’appresta a passare a miglior vita nel giro di qualche giorno, cerca di resistere, sa che
non ha scampo, e pian piano non s’alza più dal letto.
Ora al suo capezzale ci sono la moglie, i due figli e Bruso.
Non ha grandi proclami da fare nell’imminenza della sua morte, ha vissuto bene, ha cresciuto
dei figli di cui essere orgoglioso, un militare ed un buon mercante che continuerà la sua
tradizione, ha sposato una donna umile ma forte al tempo stesso, ha aiutato un liberto a
diventare un vero cittadino bizantino, ha avuto modo d’apprezzare le buone leggi
dell’Imperatore Giustiniano con cui ha costruito diversi passi della sua vita.
L’unico cruccio sarà di non vedere sposata felicemente l’amata figlia, ma non si può andare
contro il volere di Dio.
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Riceve i sacramenti e spera d’essere degno del Paradiso promesso ai Cristiani, in fondo lui è
stato un buon uomo e se lo merita.
Ippolito chiude gli occhi serenamente ed in pace con Dio circondato da tutti coloro che gli
vogliono bene.
Così passa anche la peste, e tornerà ad intervalli quasi regolari a mietere altre vite umane in
questi luoghi.
Il nostro viaggio immaginario attraverso quest’epoca storica finisce qui.
Forse un po’ triste nel finale ma non si dimentichi la durezza dei tempi che imponevano
sacrifici anche fisici oltre che morali.
Chiedo venia ai molti saggisti storici e giuridici (presenti e passati) da cui ho preso in prestito
l’ottima documentazione che m’ha permesso di descrivere la vita di un mercante al tempo di
Giustiniano: d’accordo, Ippolito nella realtà non è mai esistito, o meglio, potrebbero esserne
esistiti tanti che hanno agito sotto l’impulso delle riforme giuridiche ed economiche che
l’Imperatore fece durante il suo mandato e questo diede modo di mantenere un minimo di
attività nella vita sociale e commerciale che altrimenti nell’Italia Settentrionale del tempo,
allora territorio di frontiera, sarebbe stato difficile trovare viste la durate delle guerre, le
distruzioni e le pestilenze.
In calce a questo scritto potrete trovare autori e saggi che ho utilizzato nel lavoro a cui
rimando per una migliore conoscenza amministrativa, giuridica e sociale del periodo .
Enrico Pantalone
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Bibliografia:
Per le fonti Giuridiche:
E. Franciosi “Riforme Istituzionali e Funzioni Giurisdizionali nelle Novelle di Giustiniano (Studi
su Nov. 13 e Nov. 80)”
Ed. Dott. A. Giuffrè
P.S. Leicht “Storia del Diritto Italiano – Il Diritto Pubblico”
Ed. Dott. Aldo Giuffrè
G. Ermini “Corso di Diritto Comune – I – Genesi ed Evoluzione Storica, Elementi Costitutivi,
Fonti”
Ed. Dott. Aldo Giuffrè
M. Bellomo “Storia e Istituzioni in Italia dal Medioevo agli inizi dell’Era Moderna – parte I “
Ed. Giannotta
Cavanna “Storia del Diritto Moderno – Le Fonti”
Ed. CLEUP
Per la parte generale:
B. Lançon “A Roma nel tardo Impero”
Ed. Hachette/BUR
H. Pirenne “Storia d’Europa – dalle Invasioni al XVI secolo”
Ed. Newton
80
H. Pirenne “Storia economica e sociale del Medioevo”
Ed. Newton
J.P. Leguay “La Rue au Moyen Age”
Ed. Edilarge-Editions Ouest-France
E. Perroy “Il Medioevo”
Ed. Sansoni
H. Rahner “Chiesa e Struttura Politica nel Cristianesimo Primitivo”
Ed. Jaca Book
81
Un edificio romagnolo di età Giustinianea.
Elementi di tradizione religiosa per una ricostruzione grafica dell’antica situazione di San Michele in Acervulis,
presso Santarcangelo di Romagna (RN).
di Carlo Valdameri
La pieve di San Michele in Acerboli (o Acervulis) sorge ai piedi del colle dove attualmente è
raccolto il centro storico della cittadina di Santarcangelo di Romagna (RN).
1. Rapida sintesi delle informazioni note e degli studi compiuti.
Il primo documento a citare la presenza della chiesa è una registrazione del Codice Bavaro, con
due atti compilati in momenti distinti: uno tra l’889 ed l’898 ed il secondo nel 972. L’edificio,
nel primo atto, è nominato come basilica; si tratta di un termine usato diffusamente nella
terminologia dei documenti del codice che può ammettere tranquillamente il fatto che la chiesa
detenesse già il titolo di pieve quale già appare nel secondo atto.
Segnaliamo inoltre – e se ne riparlerà in seguito - come lo storico seicentesco riminese C.
Clementini (1617) riporti il ritrovamento in una pietra sotto l’altare dell’iscrizione: DIVO
MICHAELI, ac Divis Petro et Paulo dicatum. Anno Domini Jesu Christi. CCCC IIII 71.
In ogni caso, secondo quanto rilevato dalle analisi archeologiche, San Michele fu eretta sui
fondamenti di una precedente costruzione absidata, mentre il termine Acervulis, che definisce
la zona, certamente si riferisce al nome di quello che fu l’antico pagus romano, prima che
l’abitato si trasferisse sulla cima del vicino colle detto Monte Giove.
Una analisi assai puntuale dei documenti che riguardano la piccola basilica si trova in C.
Curradi: Pievi del territorio riminese fino al mille72, mentre, dal punto di vista architettonico -
71 ) C. CLEMENTINI, Racconto Istorico della fondatione di Rimino e dell’origine e vite de’ Malatesti, II , Rimino 1617, p.60. L. TONINI, Storia di Rimini II, p.257. Nel XIX° sec. si accese una polemica tra Luigi Tonini e l’arciprete Marino Marini sull’autenticità dell’iscrizione. Va detto tuttavia il contraddittorio era impostato pressochè esclusivante sulla possibilità di una datazione al V secolo dell’edificio, mentre il tema della dedica in sé non fu approfondito. (C. CURRADI: Pievi del territorio riminese nei documenti fino al mille . Rimini, 1984 – p.78). La pieve fu comunque soggetta ad una ristrutturazione di epoca romanica. A parere di chi scrive, appare possibile una datazione MCIIII (1104), se non addirittura MCCIIII (1204), quando erano attivi in zona importanti cantieri. Segnaliamo anche che una visita pastorale cinquecentesca indichi: <<… ecclesia, quantum inspici potuit in quadam petra marmorea fracta, erat erecta anno 1014>> CASTELLI; Visite dal 1577 al 1581 (Vicariato di S. Arcangelo) AVRI, c.85.
82
oltre al fondamentale studio La chiesa di San Michele in Acervulis, in Santarcangelo di
Romagna di K. Bull Simonsen73, gli studi più aggiornati e puntuali sono da considerarsi quelli di
Eugenio Russo74 che indubbiamente hanno stabilito alcuni punti fermi nella storia dell’edificio75.
Sulla base quindi dei risultati raggiunti dal Russo, San Michele in Acerboli è considerato un
edificio realizzato attorno alla metà del VI secolo, in un periodo appena precedente al
pontificato ravennate di Agnello76. Tra l’altro, nell’analisi delle particolarità costruttive,
appaiono stringenti le note dello studioso riguardanti i confronti con le tecniche edificatorie
usate in Sant’Apollinare in Classe, mentre riscontri dal punto di vista architettonico- oltre alla
vicina pieve romagnola di San Martino in Barisano presso Forlì - hanno chiamato in causa,
soprattutto per il sistema di finestrature, la chiesa costantinopolitana di San Giovanni in
Studios, risalente alla metà del V secolo; questi elementi indicherebbe come il progettista della
chiesa sarebbe da identificarsi in un architetto appunto attivo in ambito costantinopolitano.
In questo senso, specificamente interessanti appaiono i confronti tra le proporzioni dell’edificio
tuttora presente nella capitale imperiale con quello santarcangiolese77.
Riporta E. Russo:
“Abbiam pertanto validi argomenti per assegnare il S. Michele in Acerboli agli anni
immediatamente successivi alla metà del VI secolo, ma ancora in età giustinianea, e dunque,
per Ravenna all’epoca dell’arcivescovo Agnello (556 – 569), tenuto conto che la nostra pieve
non è un edificio della capitale; anzi potrebbe essere anche precedente di qualche anno
all’episcopato di Agnello, poiché dopo un attento esame delle strutture delle chiese ravennati
posso affermare che il S. Michele dal punto di vista della tecnica muraria appare anteriore a
quella parte di S. Agata ricostruita in età giustinianea.”78 […]
72 C. CURRADI: Pievi del territorio riminese nei documenti fino al mille, Rimini 1984. 73 K. BULL SIMONSEN: La chiesa di San Michele in Acervulis, in Santarcangelo di Romagna "Alto medioevo" I Venezia, 1967 74 E. RUSSO: La pieve di San Michele Arcangelo a Santarcangelo in "Studi romagnoli" 1983. 75 Segnaliamo inoltre altri studi su San Michele in Acerboli, quali quelli, dedicati ai restauri, di M. MAZZOTTI: Le pievi del Ravennate ad unica navata, pp.280, 282 in Corso cult. arte rav. e biz., 8 Ravenna 1961, integrato dall’autore stesso con Nuove osservazioni sulle pievi di Santarcangelo di Romagna e di Barisano dopo gli ultimi lavori e scavi, pp.298 – 97, Ravenna 1969. In precedenza si erano occupati di S. Michele in Acerboli G. GEROLA: L’architettura deutero-bizantina in Ravenna, in Ricordi di Ravenna medievale, Ravenna 1921, pp. 32-33, 112 e P. VERZONE, L’architettura religiosa dell’alto medio evo nell’Italia Settentrionale, Milano 1942, pp.101-103, 166, 173. 76 E. RUSSO: op. cit.., p.173 e ss. 77 …a Santarcangelo 1,7 il rapporto esterno tra lunghezza e altezza, 2 circa il rapporto interno; allo Studios 1,65 – 1,70 il rapporto esterno, 1,87 circa su un fianco, 2 circa sull’altro il rapporto interno… E. RUSSO: op. cit.., p.191. 78 E. RUSSO: op. cit.., p.175.
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“Noi rimaniamo in qualche modo <<spiazzati>> dalla presenza d’un’unica navata, tanto siam
abituati alle canoniche basiliche ravennati. Ma data la situazione nella capitale d’Oriente,
Costantinopoli – perché è oramai chiaro che soltanto di lì poteva esser venuto il progettista – il
nostro edificio assurge, nella sua unicità, a quell’importanza eccezionale di cui dicevo all’inizio.
Unicità ovviamente riferita all’epoca giustinianea, a suggello della splendida fioritura
ravennate.>>79
2. Modifiche subite nel tempo dall’edificio.
Sebbene il tema trattato in queste pagine riguardi principalmente il periodo più antico della
storia di San Michele in Acerboli, tuttavia appare qui opportuno segnalare, brevemente, quelli
che furono i principali momenti nei quali si ebbero modifiche rilevanti all’edificio.
Essi si possono sintetizzare in:
1) Un periodo attorno all’XI – XII secolo in cui alla chiesa fu aggiunto l’imponente campanile in
facciata, la cui cella campanaria, in un periodo sicuramente precedente al sec. XVI, andò
distrutta.
In questo periodo alla chiesa fu aggiunta una cripta sostenuta da un’unica colonna centrale e
da otto semicolonne, addossate all’abside, i cui resti sono ancora visibili.
2) Un altro periodo successivo al XVI secolo in cui la navata e l’abside furono aggiornate ai
dettami Controriformisti; in questo frangente la cripta fu eliminata e, verosimilmente sempre
in questo frangente, fu realizzato un battistero a sinistra dell’entrata80.
3) Un terzo periodo inizia agli albori del XX secolo, quando vennero attuati i primi restauri, per
procedere negli anni precedenti la II G. M. e concludersi tra gli decenni ’60 e ’70 con il
completamento dei lavori.
79 E. RUSSO: op. cit.., pp.193-194. 80 <<ecclesia, quantum inspici potuit in quadam petra marmorea fracta, erat erecta anno 1014. Visitavit fontem baptismalem, qui est in vaso magno et rotundo, quod adhuc non est claustratum.>> CASTELLI; Visite dal 1577 al 1581 (Vicariato di S. Arcangelo) AVRI, c.85. Pare interessante l’indicazione riguardante l’anno 1014. Esisteva, a sinistra dell’ingresso, la cappella del battesimo con le pareti imbiancate <<eccetto da una banda, ove è dipinto il Battesimo di nostro Signore. Nel mezzo di detta cappella vi è il sacro fonte in un vaso di pietra viva coperta con un coperchio d’abeto, che sigilla la pietra con una piramide di noce col suo padiglione di tela manganata turchina.>> Vicariato di S. Arcangelo. Inventari, AVRI n.47, Pieve di San Michele
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Durante questi periodo interessanti reperti, comprendenti parti di mosaico pavimentale,
affreschi e resti di arredi lapidei vengono ritrovati ed, in notevole parte, poi dispersi o
sottratti81.
3. Dedica e orientamento.
Tra le molte particolarità offerte da questo edificio, si intende rilevare qui quelle legate
all’orientamento ed alla dedica della chiesa.
Per quanto riguarda l’orientamento, lo spunto proviene da una breve notazione presente su un
opuscolo a cura di C. Rusconi82, edito nel 1996; in esso si ipotizza, appunto sulla base di un
rilevamento riguardante l’orientamento di San Michele in Acerboli, il cambiamento di dedica
della pieve da una – almeno presunta – originaria riferita ai SS. Pietro e Paolo a quella attuale
che riguarda San Michele Arcangelo. La basilica risultava infatti orientata al sorgere del sole il
giorno dei SS. Pietro e Paolo83.
In realtà, sebbene notoriamente la valutazione di questo genere di dati possa sovente portare
a conclusioni non univoche, nel caso viene tuttavia abbastanza naturale richiamare il contenuto
81 Per un’ampia bibliografia in merito agli studi compiuti sull’edificio di S. Michele, ci si limita qui ad indicare quella riportata in E. RUSSO: op. cit.., p.164 e ss. 82 C. RUSCONI: Tempus templum, Faenza, 1996, p.18. L’opuscolo era destinato a far parte di un’opera complessiva dedicata alle chiese medievali italiane in relazione al fenomeno del pellegrinaggio. Altre pubblicazioni facente parte del progetto furono, sempre a cura dello stesso autore: Il cammino della coscienza cristiana. – Le vie italiane di pellegrinaggio, Faenza 1997, nonché: Roma che presiede all’unità, Faenza 1998.
83 In realtà, poiché lo scopo di questo breve studio è fondamentalmente quello di proporre una ricostruzione grafica, non pare opportuno, in questa sede, diffondersi su quale sia stata l’importanza dell’orientamento delle chiese medievali e come esso fosse connessa alla stessa idea di edificio sacro.
Ci si limita quindi ad indicare una bibliografia che riguarda l’argomento: C. VOGEL, “RICERCHE”, Versus Orientem. L’orientation dans les ordines romani du haut moyen age. Cyrille Vogel "Versus ad Orientem " (La Maison Dieu, n° 70, 1962, O. BEIGBEDER, Lessico dei simboli medievali, pp.235 – 236, Milano 1988; J. HANI, Il simbolismo del tempio cristiano, pp.49 – 55, Roma 1996; M. PEJAKOVIC, Le pietre e il sole, pp. 267 e ss., Milano 1988; G. ROMANO, Orientamenti ad sidera, pp. 93 e ss., Ravenna 1995; A. GASPANI, Astronomia e geometria nelle antiche chiese alpine, pp. 5 e ss., Aosta 2000; M. INCERTI, Il disegno della luce nell’architettura cistercense, Firenze 1999; S. BURGALASSI – A. ZAMPIERI, Pisa e il computo del tempo, Pisa 1998. Dal punto di vista tecnico, aggiungiamo che le misurazioni riguardanti l’orientamento necessariamente devono rispettare parametri complessi. Uno di questi parametri è il fatto che le festività del calendario Giuliano progressivamente persero ogni coincidenza con il relativo giorno indicato nell’anno solare. Nel XVI secolo si era arrivati ad una discrasia di circa 11 giorni. Tuttavia, per un periodo antico come il VI secolo, epoca di verosimile fondazione di S. Michele ed anche di parziali riforme calendariali, si può ammettere come la suddetta discrasia fosse, in termini relativi, pressoché inesistente.
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della suddetta iscrizione riportata da C. Clementini, almeno per la parte riguardante la dedica
al DIVO MICHAELI, ac Divis Petro et Paulo84.
Quanto al contenuto dell’iscrizione, esso parrebbe comunque interpretabile come indicazione di
una nuova dedica – quella scritta in lettere capitali - aggiunta ad una più antica data alla
chiesa.
Chiariamo subito che è probabile che rilevamenti riguardanti l’orientamento di un edificio messi
in relazione con il testo di un’iscrizione non più visibile e riportato – parrebbe, per interposta
persona – da uno storico seicentesco, appaiano fornire una base di conoscenza piuttosto
originale se non anche precaria; ciò nonostante, a giudizio di chi scrive – particolarmente in
mancanza di dati di altra origine riguardanti la storia più antica dell’edificio85 - una volta che la
questione venga inserita in un contesto più ampio, anche da indagini di questo genere pare di
poter ricavare comunque elementi di sufficiente, intrinseca, coerenza.
Per ciò che riguarda la dedica, sembra ragionevole ipotizzare che, forse in occasione dei citati
importanti lavori eseguiti tra XI e XII secc., si sia voluta aggiungere una dedica all’arcangelo
Michele ad una più antica; probabilmente, quando questo accadde, la chiesa era ancora dal
punto di vista religioso ed anche amministrativo un riferimento importante per il paese di
Santarcangelo, mentre, con ogni probabilità, il pagus acerbolanus, che originariamente
ospitava la basilica, in quel tempo doveva essere ormai poco più che un ricordo. Il nuovo
abitato si era infatti ormai arroccato in cima al colle, come accadute per diversi insediamenti
rurali nei secoli dell’alto medioevo.
Come poi parrebbe di arguire dall’iscrizione, la nuova dedica si sarebbe aggiunta a quella
vecchia in quanto, certamente, sarebbe stato estranea alla logica del “sacro” l’idea di una
semplice sostituzione tout court.
Quindi, dal momento che il nuovo patrono “castellano” era divenuto l’arcangelo Michele, in
seguito, progressivamente, l’antico riferimento ai SS. Pietro e Paolo sarebbe stato dimenticato.
Quanto alle ragioni della scelta dell’arcangelo Michele, si potrebbe considerare la scelta del
nuovo protettore celeste in relazione con qualche insediamento di individui di origine
84 A quanto risulta, al momento della pubblicazione dell’opuscolo, C. Rusconi non era al corrente del testo dell’iscrizione riportato da Clementini. 85 I rilevamenti archeologici furono infatti assai limitati e finirono per lasciare nell’ombra diverse delle questioni che riguardano l’origine della chiesa santarcangiolese M. MAZZOTTI: op. cit..
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germanica presente nei dintorni, come in effetti apparirebbe testimoniato da alcuni
ritrovamenti archeologici effettuati non distante dall’antico pagus86. Notoria è infatti la
diffusione della venerazione per l’Arcangelo presso popolazioni di stirpe germanica e guerriera
come i Longobardi.
D’altra parte, in contrasto con supposizioni di questo genere, lo stesso E. Russo propone
invece la dedica a San Michele come indizio di un culto di origini bizantine, segnalandone la
particolare devozione per il santo presente nelle milizie dei Romani d’Oriente87.
A queste indicazioni vorremmo aggiungerne un’altra, ovvero che, una volta sorto il nuovo
centro abitato sulla cima del Monte Giove, si sia inteso semplicemente eleggere a protettore
San Michele, quale patrono delle “altezze”, come spesso appare nella tradizione religiosa
medievale88.
4. La dedica ai SS. Pietro e Paolo.
Una volta quindi che si sia ammessa una iniziale dedica dell’edificio ai SS. Pietro e Paolo, essa
può essere connessa ad una serie piuttosto coerente di dediche simili appartenenti a diverse
pievi presenti lungo l’iter Ariminensis che percorre la valle del Fiume Marecchia - presso cui si
trovava il pagus acerbolanus - dalla città di Rimini sino a Sansepolcro in Toscana.
Stiamo parlando di luoghi di culto di alcuni dei quali è testimoniata la grande antichità come
San Pietro in Messa che, nell’alta valle, sorgeva e tuttora sorge sul sito ove esisteva un antico
vicus89. Si possono citare anche S. Pietro in Culto presso l’attuale Novafeltria, S. Pietro a
Fragheto nonché la distrutta San Pietro in Pian di Rogna e San Pietro di Fresciano.
Nella piana romagnola poi basterà ricordare, tra diversi vetusti edifici, quelli di San Pietro in
Trento (presso Forlì) , San Pietro in Sylvis (presso Bagnacavallo) e come, in generale, le
dediche a S. Pietro, assieme a quelle alla Vergine, siano tra le più frequenti nel territorio.
86 Vedi gli scavi compiuti in località Sarzana, in Rimini medievale. Contributi per la storia della città. A cura di A. TURCHINI; Rimini, 1992, pp.230-235. 87 E. RUSSO: op. cit.., p.176 – 177. A questo si può in effetti aggiungere che la venerazione per l’arcangelo Michele è documentata nel riminese per epoche assai remote (inizi V secolo) sebbene difficilmente essa può essere messa in relazione diretta con influssi orientali. 88 A. CATTABIANI: Santi d’Italia, Milano 1993, pp.724-725. 89 F. V. LOMBARDI: La pieve di Ponte Messa;, per i luoghi di culto lungo la valle, vedi: pp.22-23.
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Naturalmente il riferimento contenuto nella dedica ai SS. Pietro e Paolo riguarda i patroni della
S. Chiesa; non si intende tuttavia, in questa sede, introdurre la complessa ed ampia tematica
di come sin dal V secolo fu avviato sistematicamente il processo di conversione al
Cristianesimo delle popolazioni rurali; ci si può comunque limitare ad indicare come dal VI
all’VIII secolo a questo sistema sia stato funzionale il sistema delle pievi, organizzatosi per
diffondere capillarmente il Credo di Roma ed anche contrastare le varie eresie.90
5. Le forme della chiesa.
Ciò che invece si vuole sottolineare ponendo l’accento sulla rilevanza della dedica originaria ai
SS. Pietro e Paolo e della relazione con il processo di conversione degli abitanti dei pagi e dei
vici è il fatto che elementi come questi, a giudizio di chi scrive, potrebbero spiegare alcune
caratteristiche architettoniche della chiesa di Acerboli.
L’edificio in questione, infatti, fu realizzato su un’unica navata, con una struttura di notevole
semplicità e, allo stesso tempo, di studiata armonia tra le proporzioni come rileva E. Russo nel
suo studio sull’architettura della piccola basilica.91
In particolare, un problema architettonico che ha attratto l’attenzione degli studiosi è stata la
presenza di sette ingressi distribuite su tutti i lati della navata; uno di questi, quello in facciata,
è attualmente aperto e costituisce, appunto, l’entrata alla chiesa. Altri sei ingressi, certamente
facenti parte della costruzione originaria, si aprono tuttavia sia sulle pareti laterali (due
90 Per temi di questa ampiezza ci limitiamo ad indicare, nell’ambito romagnolo, le pagine di R. BUDRIESI: Viaggio nelle pievi della provincia di Ravenna, Ravenna 1999, pp. 23 e ss. .Interessante, inoltre quanto appare in 90 F. V. LOMBARDI, op. cit.., p. 15 ess. 91 E. RUSSO: op. cit.., p.193 e ss..
88
ciascuna) che sulla parete di fondo (una a destra, una a sinistra dell’abside). Queste aperture,
a giudicare dalle caratteristiche della muratura, furono chiuse in antico.
Sempre il Russo, nel suo saggio, presenta poi un’ampia sintesi delle possibilità e delle opinioni
espresse dai vari studiosi a proposito del problema delle porte murate92; di esse è considerata
la eventuale funzione di aperture per cappelle (ma scavi archeologici ne hanno smentito la
presenza) come propose il Venzone93; viene poi citata la funzione simbolica – comunque
certamente rilevante – del numero sette riferito appunto al numero complessivo degli
ingressi94; inoltre vengono richiamate ulteriori possibili ragioni quale quelle “d’impedir
all’interno la percezione della differente lunghezza dei due fianchi; oppure per movimentare
l’esterno; oppure per una pura ricerca progettuale sulla scia di quanto realizzato a S.
Apollinare in Classe”; tra queste ultime (tre) possibilità, l’autore propende per la prima.
Ebbene, alle suddette motivazioni, in questa occasione, si vuole suggerire una ulteriore che è
appunto connessa alla funzione di San Michele in Acerboli (anzi, più correttamente, dei SS.
Pietro, Paolo e Michele) quale luogo definito alla conversione delle popolazioni delle zone rurali
circostanti. A chi scrive quest’ultima ipotesi appare proponibile in particolare sulla base della
verosimile dedica originaria ai SS. Pietro e Paolo e dal fatto che l’edificio fu realizzato –
perlomeno nel suo attuale aspetto complessivo – nell’epoca giustinianea, ovvero in un periodo
storico fortemente caratterizzato da un generale sforzo di affermare un unico Credo cristiano,
nonché dalla lotta all’eresia ariana.
In ragione quindi di una possibile e probabile importanza che ebbe per la basilica di Acervulis la
suddetta funzione di centro di conversione al Cristianesimo ortodosso, pare quindi naturale
proporre per le porte presenti intorno la navata la funzione di aperture che permettessero ai
catecumeni – ovvero a coloro che ancora non avevano ricevuto il formale battesimo – di
assistere alle funzioni religiose.
Infatti, notoriamente, elementi come porticati e protiri erano costantemente addossati alle
facciate ed alle pareti delle chiese appunto per permettere un riparo a chi, non facente parte
92 E. RUSSO: op. cit.., p.194-199. 93 P. VERZONE: op. cit. , pp.101-102 e p.166. 94 Nel caso, si tratterebbe di considerare 7 porte più un’ottava, quella “simbolica” dell’abside. Sappiamo come il numero 8 sia connesso al tema dell’ “Ottavo giorno”, quindi a quello della Grazia e della Resurrezione.
89
ancora della comunità ecclesiale in senso lato, era comunque in procinto ad avvicinarsi al Dio
dei Cristiani.
Questi portici, che talvolta assumevano la forma di quadriportici di notevoli dimensioni, in
realtà potevano essere strutture anche piuttosto semplici addossate ad un lato del tempio.
In tal senso, ci pare di poter indicare per il piccolo tempio santarcangiolese l’idea di qualcosa di
simile ad un quadriportico – quale, tra l’altro, sicuramente esisteva sul fronte della facciata
della più volte citata Sant’Apollinare in Classe – ma totalmente addossato ai quattro lati della
chiesa in maniera da ottenere un vasto spazio riparato con il minimo sforzo costruttivo.
A codesto porticato sarebbero state quindi funzionali le diverse porte distribuite su tutta la
navata come è possibile rilevare tuttora.
Per altro, dalla fotografia più antica che ci è pervenuta della chiesa (inizi XX sec.) la differenza
di colore tra il mattonato della parete N presso la finestratura e quello della zona inferiore della
parete, parrebbe proprio di indicare che, almeno per un certo tempo, sia stato addossata alla
parete stessa una costruzione di altezza uniforme.
6. La ricostruzione 3d.
Nella ricostruzione computerizzata che si è tentato di realizzare dell’edificio di San Michele in
Acerboli si è voluto fare riferimento alla sua situazione ipotetica in un periodo che si potrebbe
considerare vicino allo scadere del VI secolo.
La torre campanaria medievale non esisteva ancora ed al suo posto si è pensato di proporre un
campanile a vela, quale caratteristica comune alle antiche chiese.
90
E’ sembrato anche giusto indicare la possibilità di un esterno intonacato, la cui presenza è
parsa verosimile, al di là di alcune elementari decorazioni in mattoni che appaiono in alcune
parti dei paramenti murari dell’edificio.
Quanto al porticato, si è proposta una struttura leggera, essenzialmente lignea, che circondava
l’edificio. In verità non si esclude la presenza di strutture più consistenti, in muratura delle
quali, tuttavia non pare siano stati rilevati i resti.
Quanto all’interno, per il pavimento ci si è basati sulle tracce di mosaico tuttora presenti nella
chiesa, sui resti identificati nella basilica coeva di S. Martino in Barisano e, in generale, sui temi
dei mosaici del VI secolo della vicina Ravenna. Naturalmente le forme dei disegni sono di pura
invenzione.
Per gli arredi interni, i riferimenti sono state le fotografie di resti di plutei databili al VI secolo,
nonché un’idea generale di quello che poteva essere l’arredo necessario in una chiesa
paleocristiana.
Data poi la conformazione dell’edificio, pare difficile proporre la presenza di mosaici nella zona
dell’arco trionfale, mentre essa appare possibile all’interno del catino absidale.
Da ultimo, in considerazione del fatto che si è richiamata la funzione di S. Michele (SS. Pietro,
Paolo e Michele) quale centro di conversione, ci si è posti il problema dell’esistenza di un
possibile antico battistero presso od all’interno della chiesa.
91
In realtà, almeno a conoscenza di chi scrive, non esiste alcun elemento documentario, né dato
archeologico che permetta di farsi un’idea della possibile presenza di un battistero presso la
chiesa, e, tantomeno, della sua possibile forma.
Gli unici riferimenti in questo senso riguardano le citate pievi di S. Pietro in Culto e S. Pietro in
Messa, quest’ultima nell’alta valle del Marecchia95; essi tuttavia appaiono indiretti e comunque
non tali da essere interpretati in modo univoco; quindi non forniscono un aiuto concreto per un
tentativo di ricostruzione grafica. Per questa ragione si è pensato di non realizzare alcun
edificio battesimale nella ricostruzione 3d.
95 Per ciò che riguarda San Pietro in Culto a Mercatino Marecchia (odierna Novafeltria) può essere di qualche interesse quanto risulta in una descrizione del 1850 relativa ad una visita pastorale: <<Questa è una delle più antiche chiese del Montefeltro, dove per anche in pietra si conserva la vasca usata quando battezzatasi per immersione>> in : F. V. LOMBARDI: op. cit. p.15.. Un’antica tradizione riporta che il vicus di Messa sia stato distrutto durante le guerre gotiche e quindi, con un certo sforzo di immaginazione, si potrebbe ipotizzare un’origine di san Pietro in Messa – che oggi mostra forme romaniche - magari coeva a quella di S. Michele in Acerboli. F. V. LOMBARDI: op. cit. p.38-39
92
LA MONETAZIONE BIZANTINA NELL’ETA’ GIUSTINIANEA
di Gianluca Galoppo
1) L’età Giustinianea, breve introduzione storico-economica
La moneta è il principale strumento di scambio all’interno di un sistema economico e come tale
strettamente dipendente in tutta la sua struttura,fatta di nominali,metalli impiegati e pesi,dallo
stato complessivo di un’economia.
Conseguentemente,prima di trattare nel dettaglio il sistema monetario vigente durante il regno
di Giustiniano,occorre avere un quadro basilare della situazione economica dell’Impero Romano
d’Oriente nella prima metà del VI secolo.Tanto più che proprio la maggior solidità dei principali
fattori economici,come l’andamento demografico,la rete urbana e l’attività produttiva,fu
decisiva per la sopravvivenza della parte orientale dell’Impero;una superiore solidità socio-
economica che le permise non solo di resistere alle medesime tempeste che si erano abbattute
con esito ben più letale sul fragile Impero Occidentale, ma anche di riaffacciarsi nuovamente
protagonista sulla scena politica internazionale proprio con Giustiniano I.
Nel momento in cui questo grande imperatore ascende al trono,l’Impero Romano d’Oriente
vive un clima di notevole prosperità economica.Alcuni decenni di relativa pace hanno permesso
una costante crescita della popolazione soprattutto nelle zone costiere dell’Anatolia,in Siria,in
Palestina e nei territori arabi nord-occidentali corrispondenti in parte all’attuale Giordania;
insieme alla crescita demografica vanno di pari passo le attività produttive sia in ambito
agricolo che artigianale che possono avvantaggiarsi di un immenso patrimonio di saperi tecnici
sempre più perfezionati nel costante interscambio di conoscenze che pervade la totalità
dell’impero. L’accresciuta domanda di beni trova sfogo negli scambi commerciali favoriti da una
complessa e funzionale organizzazione degli spazi urbani e rurali; al contrario dei territori
occidentali,dove le reti urbane sono in piena decadenza e lasciano il campo a vasti e
frammentati spazi rurali,in oriente il territorio presenta una struttura molto più diversificata: le
zone rurali vedono la progressiva decadenza dell’antico sistema della villa insieme al
contemporaneo sviluppo di villaggi e cascine popolati da contadini liberi che possono vendere
93
gli eccessi della loro produzione nella nutrita rete di piccole e medie città
(komai,komopoleis,metrokomiai) che fungono da nodi per il commercio locale e sono sede di
mercanti e di bottege artigianali.Centri di scambio su grande scala,oltre che poli nevralgici
dell’amministrazione imperiale,sono le metropoli come Antiochia,Alessandria,Tessalonica e
soprattutto la capitale, Costantinopoli,che con la sua posizione strategica a cavallo tra due mari
e due continenti e la sua popolazione di circa 400.000 abitanti all’inizio del VI secolo,è il vero
motore economico,oltre che politico,dell’Impero. Su tutto vigila l’onnipresente amministrazione
imperiale che garantisce ordine e sicurezza alla vita economica grazie al completo controllo del
mediterraneo orientale garantito dalla solidità dell’esercito e dall’efficienza della complessa
struttura burocratica e dell’inesorabile sistema fiscale.Alla sua ascesa al trono Giustiniano si
ritrova a capo di uno stato prospero e forte che gli fornirà i mezzi per attuare il suo grandioso
progetto di renovatio imperii. Da questa breve premessa sulla situazione economica
dell’Impero nella prima metà del VI secolo si può dedurre l’esistenza di un sistema monetario
sufficientemente diversificato e flessibile da soddisfare le molteplici esigenze di un’economia
caratterizzata da un elevato livello di scambi ad ogni grado della scala sociale.
2) Le monete d’oro e d’argento
Le monete circolanti al tempo di Giustiniano I sono il risultato di un lungo processo di riforme e
trasformazioni monetarie iniziato sul finire del III secolo durante il regno di Diocleziano. In
quell’epoca entra definitivamente in crisi il sistema monetario trimetallico dell’alto impero
basato sull’aureo d’oro,sul denario d’argento e sul sesterzio di bronzo e viene sostituito da un
nuovo sistema che non si limiterà ad accompagnare le ultime decadi dell’Impero Occidentale
ormai morente,ma plasmerà di sé gran parte della storia monetaria bizantina grazie
soprattutto alla nascita di un nuovo grande protagonista nella ristretta aristocrazia delle
monete che hanno fatto epoca: l’aureus consolidatus,o,più semplicemente,il solido.
Il solido fu base e pilastro della monetazione tardo romana e bizantina fino all’XI secolo,il
termine stesso “solidus” conferma questo suo ruolo di riferimento stabile,non soggetto a
fluttuazioni,con cui ogni altra moneta del sistema,per essere valutata,doveva entrare in
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relazione. Il solido pesava 1/72 della libbra romana e aveva un intrinseco96 di 24 “keratia”
(carati),vale a dire un peso teorico di 4.55 grammi e un intrinseco d’oro praticamente puro
come indicano le ultime due lettere della sigla CONOB (OB=obryzum=oro purificato) sempre
presente sul rovescio dei solidi coniati a Costantinopoli dal 363 al 720 d.c. Per tutelarsi da
eventuali frodi come la tosatura del bordo dei conii e per limitare l’incidenza dell’usura naturale
che colpiva facilmente monete di intrinseco d’oro così puro,il governo calcolava l’importo delle
tasse,da pagarsi esclusivamente in oro,a peso e non a numero.La funzione del solido
nell’economia bizantina era asservita più agli interessi dello stato che non a quelli del
commercio;soprattutto il fisco,continuamente assillato dalle necessità politiche e
militari,cercava di raccogliere e tesaurizzare la maggior quantità d’oro sotto forma di monete e
lingotti,dal momento che non esistevano altri mezzi di finanziamento del fabbisogno statale
come il credito,poco sviluppato e solo per piccole sommme tra privati,o il prestito che non
esisteva in quell’epoca e sarà sviluppato nei fiorenti comuni italiani del tardo medioevo.
L’oro monetato così raccolto dalle voraci leve fiscali era lo strumento fondamentale per lo
svolgimento dei disegni politici dell’imperatore e veniva usato per il pagamento delle milizie e
delle alte gerarchie della burocrazia imperiale così come per placare popolazioni ostili ai confini
dell’impero tramite la cessione di tributi. Era inoltre la sorgente del dispiegarsi dell’evergetismo
imperiale che si esplicava in fastose cerimonie e nell’arricchimento urbanistico con nuovi
spettacolari edifici.
Il solido era moneta di livello internazionale,malgrado i provvedimenti normativi che ne
vietavano l’esportazione,ne sono stati ritrovati molti esemplari anche in zone assai lontane dai
confini dell’Impero,le cause possono essere sicuramente rintracciate nei vari tributi pagati a
titolo cautelativo di cui sopra o nel pagamento di truppe mercenarie,ma probabilmente anche
nel commercio su larga scala. A tale proposito una particolare tipologia di solidi più leggeri
rispetto allo standard (20 contro 24 keratia) che fanno la loro comparsa durante il regno di
Giustiniano,viene interpretata come strumento per il commercio con le popolazioni germaniche
dell’occidente sull’evidenza del loro frequente ritrovamento proprio in queste regioni.Il solido
non era l’unica moneta d’oro ad essere coniata nel VI secolo,c’erano anche due suoi
96 L’intrinseco è la quantità effettiva di metallo prezioso presente in una moneta,senza calcolare quindi gli altri metalli uniti in lega
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sottomultipli: il semisse che corrispondeva a mezzo solido e il tremisse corrispondente a un
terzo di solido. Rispetto al loro “fratello maggiore” queste due frazioni avevano una
distribuzione e circolazione più ampia all’interno dei livelli sociali dell’Impero,a sottolineare
l’alto grado di sviluppo dell’economia monetaria in quel periodo. Il solido con i suoi
sottomultipli non veniva coniato solo a Costantinopoli,ma anche in altre zecche tra le tredici
attive in età Giustinianea;ma ovunque fossero coniate,le monete d’oro mantenevano una
sostanziale uniformità nei parametri base del peso e dell’intrinseco,un’uniformità simbolizzata
dalla scritta CONOB (oro puro di Costantinopoli) presente al rovescio delle monete auree
indipendentemente dalla zecca di origine. La stessa prammatica sanzione di Giustiniano per
l’Italia dichiarava che i solidi coniati nelle zecche dell’Impero devono circolare in tutte le
provincie senza alcun costo di cambio.Tale uniformità non intaccata,per le monete auree,da
nessun marchio o sigla che specifichi la zecca di origine se non l’onnipresente CONOB,rende
molto difficile stabilire quale sia il luogo di coniazione di ciascun pezzo. I criteri utilizzati dagli
studiosi si basano su metodi empirici di comparazione stilistica,ogni zecca ha,infatti,un suo
stile specifico di coniazione che caratterizza in modo peculiare la forma dei tondelli e la resa del
ritratto imperiale. I solidi della zecca di Ravenna,ad esempio,possono distinguersi grazie ad
uno spesso bordo anulare che circonda il campo di ciascun esemplare,mentre i solidi battuti a
Cartagine presentano un diametro più ristretto compensato da uno spessore maggiore che dà
alla moneta una forma globulare,è presente inoltre la datazione indizionale97,caratteristica
esclusiva di questa zecca.
Nel VI secolo i nominali argentei non formano una parte importante dell’intero sistema
monetario,anzi,se si eccettuano alcuni rari esemplari emessi per funzioni cerimoniali,queste
monete sono completamente assenti dagli scambi commerciali che intercorrono a
Costantinopoli e nelle altre regioni orientali dell’impero.Le fonti testimoniano un sostanziale
disinteresse per questo tipo di nominali:Procopio esprime il valore del solido soltanto in follis
che sono nominali bronzei e similmente il “Pratum Spirituale” di Giovanni Mosco esprime tutti i
prezzi in termini di solidi e follis senza fare alcun riferimento a monete d’argento. Questo
97 La data indizionale consiste nel numero d’ordine progressivo che un determinato anno occupa in un ciclo quindicennale,per cui al primo anno di questo ciclo corrisponde l’indizione I,al successivo l’indizione II e così via fino alla XV,dopodichè si ricomincia dalla I. Sembra che questa forma di datazione abbia avuto origine in Egitto per funzioni fiscali.
96
disinteresse per le monete argentee può essere in parte spiegato con l’efficienza del sistema
monetario vigente in quel periodo che si basava su due nominali fondamentali,il solido e il
follis,corredati da una diversificata serie di sottomultipli atti a soddisfare qualsivoglia esigenza
del commercio. In questo quadro l’argento,con le sue fluttuazioni di valore nei confronti
dell’oro, avrebbe recato elementi di instabilità e debolezza ad un sistema sufficientemente
funzionale. L’argento fu invece trattato,in quel periodo,come una parte sostanzialmente
indipendente dal sistema monetario,con somme espresse a peso e concretizzatesi in una
mistura di lingotti,piatti e monili,la cui qualità intrinseca veniva garantita da appositi marchi
imposti dalle zecche.
Monete argentee circolavano invece nei territori più occidentali dell’impero come gli Esarcati
d’Italia e d’Africa,dove le precedenti dominazioni di Ostrogoti e Vandali avevano introdotto
varie frazioni del nominale argenteo base: la siliqua. Queste frazioni di siliqua (1/2 siliqua;1/4
di siliqua;1/8 di siliqua) furono mantenute dal successivo governo bizantino e costituirono,a
giudicare dai ritrovamenti,una parte importante della circolazione monetaria sviluppatasi in
questi territori dell’impero.
Le monete d’argento acquisiranno notevole importanza all’interno del sistema monetario
bizantino a partire dal periodo degli imperatori macedoni,in coincidenza con la crisi e la
conseguente sparizione dei sottomultipli del solido e degli scambi con la florida economia
commerciale islamica,nel cui ambito le monete argentee (i dirhem) avevano un peso notevole.
3) Le monete di bronzo
Per lo studio della monetazione bronzea circolante in epoca Giustinianea è fondamentale porre
attenzione alle riforme riguardanti questa monetazione sviluppatesi sotto il regno di Anastasio
I.Prima dell’attività riformatrice di questo imperatore,la situazione della moneta di bronzo si
presentava in uno stato desolante;il nuovo nominale bronzeo istituito da Diocleziano,il follis,si
era ridotto,durante gli anni di inesorabile crisi sociale ed economica,a un minuscolo dischetto
metallico di appena un grammo circa di peso.Della massima importanza,quindi,fu la decisione
da parte di Anastasio di risollevare lo stato di questa tipologia monetale,base degli scambi più
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minuti e frequenti nella vita economica dell’Impero. Non a caso fu proprio questo imperatore
ad indire tale riforma monetaria; Anastasio I,infatti,prima di assurgere alla dignità
imperiale,era un anziano funzionario di corte con abilità cospicue in materia finanziaria e con
un’acuta sensibilità per le esigenze e i problemi dei ceti commerciali urbani. La sua
complessiva attività riformatrice in campo monetario e fiscale,pur tra alterne vicende,è una
delle chiavi per comprendere la solidità economica dell’Impero nel VI secolo,una solidità
sfruttata da Giustiniano per i suoi ambiziosi propositi di restaurazione della potenza imperiale.
La riforma istituì un sistema di nominali ben bilanciato poggiante sul follis e sui suoi
sottomultipli,ciascun nominale reca ben impresso il relativo valore sul rovescio della moneta
tramite l’utilizzo di lettere greche con valore numerale: una grande M rappresenta il valore del
follis e cioè 40 nummi, la K equivale a mezzo follis e quindi 20 nummi,mentre la I si trova sui
decanummi del valore di 10 nummi. Il peso del follis nella prima emissione era di 9.34
grammi,ma già nel 512 questo peso fu raddoppiato e si decise,inoltre,di aggiungere
un’ulteriore nominale da 5 nummi contrassegnato dalla lettera E e di riprendere la coniazione
del nummus che prima della riforma era l’unica moneta bronzea circolante. Con lo sviluppo di
questo nuovo sistema monetario vennero soddisfatte,almeno per quanto riguarda il potere
d’acquisto,alcune esigenze primarie della popolazione più umile: in primo luogo la messa in
evidenza dell’indicazione di valore sul rovescio delle monete garantiva i possessori da
svalutazioni arbitrarie e,cosa ancora più importante,il ripristino di una solida struttura di
nominali bronzei quale non si vedeva dai tempi dell’alto impero riduceva lo scarto tra il valore
del follis e quello della moneta d’oro di riferimento,il solido; ciò rappresentava indubbiamente
una situazione più favorevole per chi basava il proprio status economico sul primo dei nominali
summenzionati. Quando Giustiniano ascese alla dignità imperiale ereditò,quindi,il sistema di
nominali bronzei istituito da Anastasio I e vi aggiunse due innovazioni di notevole rilevanza:
decise di portare nel 538 il peso del follis da 18 a 25 grammi,abbassato tre anni dopo a 22
grammi,potenziando,comunque,ancor più questo strumento del commercio quotidiano che si
avviava a far rivivere i fasti di un’altra grande moneta bronzea dell’alto impero,il sesterzio.
Altra importante novità fu l’indicazione dell’anno di regno sul rovescio delle monete
bronzee,secondo il dispositivo della novella 47,da lui promulgata nel 537,che ordinava
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l’apposizione della data secondo l’anno di regno su tutti i documenti ufficiali.
Giustiniano,quindi,nel suo tentativo di far risplendere la gloria dell’antico impero,si comportò
come gli imperatori del passato che facevano indicare l’anno di regno sui loro atti. Cosicchè a
partire da quest’epoca è possibile vedere sul rovescio delle monete bronzee,a lato della grande
lettera centrale che indica il valore,la parola ANNO, e sull’altro lato,le cifre in numeri romani
che indicano l’esatto anno di regno dell’imperatore. L’indicazione della data è molto utile
per gli studiosi contemporanei,difatti,le monete di bronzo bizantine,a partire da Giustiniano,
sono le uniche tra le monetazioni coeve (la monetazione islamica datata comincerà solo
nell’VIII secolo) a portare impressi precisi riferimenti cronologici;si può quindi immaginare
quale importanza possono avere ritrovamenti di tale monete ai fini di determinazioni
cronologiche generali e particolari e di confronti stilistici e iconografici precisamente inquadrati
nel tempo.
Il sistema monetario bronzeo in età Giustinianea non mantenne quella omogeneità sostanziale
tipica dei nominali aurei che,come si è visto nel paragrafo precedente,rende ardua la
distinzione tra pezzi coniati in diverse località. Le monete di bronzo,infatti,non solo presentano
l’indicazione di zecca,ma sono caratterizzate anche da differenze nella tipologia dei nominali a
seconda della regione in cui sono coniate. Queste differenze appaiono più marcate nelle zecche
di Tessalonica e Alessandria. Tessalonica emise nominali bronzei di 16, 10, 8, 4, 2, 1,
nummi,tutti contrassegnati dal marchio AP che ha fatto scervellare a lungo i numismatici,ma
che si è dimostrato essere semplicemente l’iniziale di “argyrion”, l’equivalente greco di
nummus. Alessandria,durante un breve periodo sotto Giustiniano,coniò pezzi da 33 e 12
nummi e più rari esemplari da 6 e 3 nummi.Queste specificità nel valore dei nominali
dipendono,molto probabilmente,dalle diverse caratteristiche dei mercati locali,influenzati da
particolari rapporti nelle relazioni di valore tra oro e bronzo,inoltre,la circolazione delle monete
di bronzo era molto settorializzata in quanto ciascuna provincia veniva servita,se non
esclusivamente,per la maggior parte del circolante,dalla sua zecca locale.
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4) Iconografia monetale
Uno dei motivi che spiegano un certo disinteresse per la monetazione bizantina da parte di
studiosi e collezionisti, è da ricercare nel suo aspetto iconografico. Di primo
acchito,infatti,l’aspetto estetico di queste monete appare piuttosto monotono e sciatto,del tutto
privo di vitalità se comparato con gli splendidi ritratti imperiali presenti sulla monetazione
dell’alto impero o con la ricchezza tematica e l’eccezionale qualità artistica delle monete
greche. Le monete bizantine presentano una varietà di soggetti iconografici estremamente
limitata con lievi modificazioni nel corso di tutta la durata dell’Impero; una riduzione della
diversità tematica che ,in verità, principia già dall’epoca Costantiniana e che giunge,nel regno
di Giustiniano I,
ad un suo stabilizzarsi su due fondamentali temi: la figura dell’imperatore e la simbologia
cristiana. Per comprendere in maniera non supercificiale l’iconografia monetale bizantina è
necessario evitare paragoni estetici con monete appartenenti a diverse culture e sforzarsi di
intendere l’originalità di stili e simboli insiti in una concezione della realtà ormai del tutto
diversa da quella pagana. Si può comprendere quindi come in un mondo come quello bizantino
non ci sia posto per le rappresentazioni mitologiche così ricche nelle passate
monetazioni,questa tipologia iconografica viene pian piano eliminata o trasformata in senso
cristiano nel corso del periodo tardo imperiale. Un esempio illuminante a tal proposito è
costituito dalla classica immagine della Vittoria che viene lentamente rielaborata fino a
trasformarla in un angelo come è possibile osservare nelle figure sottostanti.
1-Follis di Costantino I (306-337) con vittoria in stile Classico
2-Follis di Galla Placidia (421-450) con Vittoria di stile classico con Vittoria cristianizzata reggente nella destra una croce gemmata
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3-Tremisse di Basilisco (475-476) con Vittoria cristianizzata reggente nella destra la tradizionale corona e nella sinistra il globo crucigero
4-Solido di Giustiniano I (527-565) con Vittoria trasformata in un angelo con croce nella destra e globo crucigero nella sinistra
La personificazione della Vittoria,profondamente radicata nella tradizione iconografica
romana,viene mantenuta nelle monete ben oltre il 382,anno in cui l’altare della dea veniva
definitivamente tolto dalla curia romana per ordine di Graziano,ma è sottoposta a
rielaborazioni così profonde da mutarne completamente lo spirito prima e la natura poi,con
passaggio da un’immagine pagana a la nuova immagine cristiana di un angelo.
I temi della nuova religione si introducono quindi in maniera lenta e progressiva,trasformando
o sovrapponendosi ai vecchi soggetti pagani. In quest’epoca di trapasso dalla tarda romanità
con le sue tradizioni pagane al nuovo impero romano medievale tutto impregnato di fervore
cristiano,la gradualità nell’accantonare e rinnovare l’antico patrimonio iconografico è
d’obbligo,stante la necessità di lasciar morire di “morte naturale” la devozione ai vecchi culti
che si trascinava stanca ma indomita in larga parte del mondo rurale e ai vertici delle classi
colte di ambito senatoriale. Così si spiega anche il lento affacciarsi tra i tradizionali temi
iconografici del simbolo per eccellenza del cristianesimo: la croce.
Questo emblema,infatti,comincia a intravedersi sulle monete già nel IV secolo,in
semiclandestinità,nascosto tra le consuete figurazioni di imperatori e scettri; solo a partire
dall’inizio del V secolo la croce si conquista uno spazio da protagonista apparendo ben evidente
nelle mano della Vittoria o delle personificazioni di Roma e Costantinopoli.
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1-Solido di Valente (364-368) La croce si nasconde al centro dello scettro retto dall’imperatore nella mano destra
2-Solido di Teodosio II (402-450) La personificazione di Costantinopoli regge nella mano destra il globo crucigero
3-Solido di Leone (457-474) Croce gemmata in piena evidenza retta nella mano destra della vittoria.
Il vero tema fondamentale della monetazione bizantina è sicuramente il ritratto imperiale.
Anche in questo caso si tratta di un soggetto in via di trasformazione già in epoca tardo antica;
gli splendidi ritratti di sapore realistico,così ben caratterizzati da sembrare vivi, che
arricchivano l’aspetto estetico delle monete romane fino alla prima metà del III secolo,lasciano
via via spazio a una nuova concezione del potere imperiale e quindi della sua immagine.
L’imperatore,infatti,diventa una figura sempre più trascendente,ammantata di sacralità; ne
consegue che la rappresentazione realistica dei suoi tratti somatici perda di significato in un
contesto dove ciò che è importante non è la persona fisica del sovrano,ma il suo ufficio,da
intendersi come incarico divino di elargizione d’ordine e giustizia a tutte le genti. I ritratti che si
susseguono sulle monete imperiali dall’epoca di Diocleziano a quella di Giustiniano e oltre sono
quindi piuttosto monotoni nella loro fissità e staticità,ma invero la trasformazione continua
sebbene in un senso volto ad accentuare l’impressione di staticità,immutabilità e quindi
eternità dell’immagine; difatti il volto dell’imperatore passa dalla classica resa di profilo a
quella frontale,una scelta che vuole appunto enfatizzare l’aspetto sacrale dell’incarico imperiale
mediante un ritratto che minimizzi ogni richiamo alla materialità della persona,un ritratto che
al contrario deve esaltare l’aspetto etereo,immoto,privo di ogni contaminazione emozionale
indegna di una figura che si colloca a metà strada tra il mondo terreno e quello trascendente.
Il passaggio dalla resa di profilo a quella frontale si completa sotto il regno di
Giustiniano,periodo in cui si perfeziona l’ideologia sacrale dell’incarico imperiale,funzione che
transita direttamente dalla divinità al sovrano e che quindi si estende al dominio su tutte le
genti dell’unico legittimo impero. Questo concetto è perfettamente riassunto dall’immagine di
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Giustiniano presente sulle sue monete: un ritratto astratto ormai reso completamente frontale
con la maestosa ostensione del globo crucigero,simbolo del potere assoluto in nome di Dio.
Analizzando l’immagine di cui sopra si può notare l’assenza di una qualsivoglia plasticità
anatomica del corpo sotto la veste ed una profonda trasformazione della struttura del
rilievo.Nella tradizione classica e anche tardo antica i trapassi di piano avvenivano in maniera
fluida,ricca di sfumature,e la linea di contorno nasceva in modo naturale dall’incontro tra il
piano di fondo e la forma plastica. Il punto d’arrivo
dell’avanzata età Giustinianea di cui l’immagine presentata è testimone segna una svolta nella
modalità di rappresentazione: i vari piani,che nella tradizione classica sono raccordati tra loro e
con il fondo, appaiono ora drasticamente appiattiti,separati e giustapposti; la testa poggia sul
fondo come un disco piatto sul quale,a loro volta,altri elementi come l’elmo o la corona con i
pendenti si sovrappongono con effetto di applicazione. Il busto e il braccio che regge il globo
crucigero appaiono anch’essi come sagome piane,ottenute mediante la marcatura delle
linee,volte non più a evidenziare la sostanza dei corpi,ma la loro immaterialità e astrattezza.
Tutto ciò è perfettamente coerente con un nuovo concetto di maestà,nobiltà e bellezza,che
rifiutando ogni riferimento alla corporeità,vuole presentare il sovrano,a somiglianza di Dio,più
come intuizione intellettuale e simbolica che nella sua immagine umana. Certamente questi
ritratti non rapiscono immediatamente l’attenzione dell’osservatore abituato al realismo e alla
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vitalità delle immagini classiche,tuttavia non si può non avvertire tutto il senso di mistero e
sacralità che promanano da una concezione dell’esistenza completamente permeata dal
trascendente; immagini che individuano il bisogno dei bizantini di transustanziare la materia
nell’etereo,e quindi di renderla sacra ed eterna.
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BIBLIOGRAFIA COMMENTATA
La seguente bibliografia non ha alcuna pretesa di essere esaustiva,il suo fine è di aiutare chi lo
desideri ad approfondire lo studio della numismatica bizantina su alcuni testi basilari.
1) Sayles G. Wayles. Ancient Coin Collecting V, The Romaion/Byzantine Culture.Krause 1998
Testo elementare ma ben fatto,utile soprattutto a chi è interessato al collezionismo.Contiene
una lista degli imperatori che hanno coniato monete e alcune notizie preziose per una prima
esegesi
dell’iconografia monetale bizantina.
2) Sear R. David. Byzantine Coins and their Values. Seaby 1987
Catalogo commerciale che indica il prezzo di tutte le tipologie monetali bizantine note.E’
presente un’utile introduzione manualistica che precede il catalogo,quest’ultimo è quanto di più
completo si possa trovare in un solo pratico volume.
3) Bellinger,Grierson,Hendy. Catalogue of the Byzantine Coins in the Dumbarton Oaks
Collection and the Whittemore Collection.
Sontuosa opera in cinque volumi che cataloga ottimamente quella che è attualmente una delle
più ricche collezioni di monete bizantine al mondo. Gli autori sono tra i massimi esperti del
settore e ciascuno di loro ha curato uno o più volumi dedicati ai vari periodi della storia
bizantina. Oltre al lavoro di catalogazione ottimamente realizzato è possibile apprezzare tutta
una serie di approfondimenti storici e tecnici che fanno di quest’opera un punto di riferimento
obbligato.
105
4) Morrison Cecile. Bibliotheque Nationale-Catalogue des monnaies byzantines.
Opera in due volumi che cataloga la collezione della Biblioteca Nazionale a parigi. Presenta
fotografie di ottima qualità raccolte in tavole finali.
5) Lacam Guy. Civilisation e Monnaies Byzantines.
Interessantissima opera che fonde numismatica e storia in un testo godibilissimo e
appassionante.Ottimo per chi vuole avere una comprensione a tutto tondo della storia
politica,economica,artistica e monetaria.
6) Callegher Bruno. Catalogo delle Monete Bizantine,Vandale,Ostrogote e Longobarde del
Museo Bottacin.Quaderni del Bollettino del Museo Civico di Padova / N° 2
Rarissimo esempio di catalogo sulle monete bizantine di una collezione italiana. Solo per
questo merita la massima attenzione,ma il testo in sé è ottimamente curato e la collezione
catalogata è una delle più interessanti presenti sul territorio italiano.
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Echi di propaganda giustinianea in un contacio di Romano il Melodo (n°54 Maas-Trypanis).
di Luigi Silvano
Com’è noto, la rivolta di Nika98 costituì la più grave sedizione della plebe costantinopolitana
durante il regno di Giustiniano. I tumulti esplosero in seguito all’arresto e alla condanna a
morte di alcuni militanti di entrambe le fazioni del circo, avvenuto l’11 gennaio 532. Dopo aver
richiesto invano la scarcerazione dei compagni, Verdi e Azzurri si coalizzarono (notte del 13
gennaio), assaltarono il pretorio, liberarono i prigionieri e incendiarono l’edificio. Il giorno
seguente, all’ippodromo, mentre Giustiniano tentava di far proseguire i giochi secondo il
programma, i ribelli domandarono la rimozione del prefetto urbano, del prefetto del pretorio
Giovanni il Cappadoce e del quaestor Triboniano. L’insurrezione aveva ormai assunto connotati
marcatamente politici, e, nonostante il sovrano avesse infine acconsentito a destituire
dall’incarico i suddetti funzionari, la protesta non si placò: ormai era in gioco la stabilità stessa
del trono. I rivoltosi continuarono ad imperversare per le strade, venendo alle mani con le
milizie imperiali e appiccando incendi in più punti della città, che causarono la distruzione di
abitazioni, palazzi pubblici ed edifici sacri, tra cui la basilica di Santa Sofia. Giustiniano
medesimo tentò un estremo tentativo di conciliazione presentandosi alla folla dalla tribuna del
circo, la mattina del 18: la sua apparizione non sortì alcun effetto, ed egli dovette rientrare a
palazzo. Le parti, intanto, cercavano una guida nei nipoti di Anastasio I Pompeo e Ipazio, e
avevano acclamato ques’ultimo imperatore. Narra Procopio di Cesarea che mentre il sovrano
ed i suoi consiglieri erano intenti a discutere il da farsi, mostrandosi piuttosto inclini alla fuga
che a fronteggiare la situazione ormai fuori controllo, si presentò loro l’imperatrice Teodora, la
98L’esortazione da cui la rivolta prende il nome, tipica acclamazione del circo (= tu vincas, “Vinci!”), era stata adottata dagli insorti come parola d’ordine, come attestano Procopio di Cesarea, Bellum Persicum I, 24, 10 (cf. anche Anecdota 12, 12) e Giovanni Malala, Chronographia XVIII, 71, p. 395 Thurn. Non intendo in questa sede ripercorrere le varie ipotesi fin qui formulate riguardo alle cause della sedizione, né di fornire una descrizione dettagliata dello svolgimento delle varie fasi del conflito urbano. Per una rassegna esaustiva delle fonti e una accurata ricostruzione cronologica occorre rinviare al vetusto, ma tuttora fondamentale lavoro di J. B. Bury, The Nika Riot, “The Journal of Hellenic Studies”, 17, 1897, pp. 92-119 (ivi, p. 92, n. 1 bibliografia antecedente); le rare inesattezze del Bury – dovute soprattutto all’inadeguatezza degli strumenti archeologico-topografici di cui si poteva disporre alla fine del secolo XIX – sono state rettificate da G. Greatrex, The Nika Riot: a reappraisal, “The Journal of Hellenic Studies”, 117, 1997, pp. 60-86 (con bibliografia aggiornata). Una sintetica presentazione dei fatti si può leggere in A. Cameron, Justin I and Justinian, in A. Cameron, B. Ward-Perkins, M. Whitby (edd.), The Cambridge Ancient History, vol. XIV, Cambridge 2000, pp. 71-72.
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quale persuase il marito a restare al suo posto e a decidersi per la soluzione delle armi.99 Il
sovrano allora abbandonò gli indugi e diede mandato ai propri generali di sedare la rivolta. Le
milizie guidate da Belisario, Narsete e Mundo irruppero nell’ippodromo e in poche ore fecero
strage degli insorti ivi radunati. Impressionante il numero delle vittime: oltre trentamila
secondo Procopio, circa trentacinquemila a detta di Giovanni Malala100. Il giorno seguente (19
gennaio) Ipazio e Pompeo furono giustiziati.
Non c’è dubbio che una simile dimostrazione di spietatezza dovette produrre orrore e sconcerto
fra i contemporanei. Un imperatore cristiano era legittimato a infierire con tanta crudeltà ai
danni dei suoi sottoposti, senza dovere rendere conto a chicchessia delle proprie azioni? Fino a
che segno egli poteva spingersi nella punizione dei colpevoli di un atto di insubordinazione, pur
grave quale quello di lesa maestà, senza venir meno al dovere della compassione e della
misericordia nei confronti dei propri sudditi, attributo essenziale della figura dell’optimus
princeps quale delineata dal coevo trattatista Agapeto?101 Del resto l’imperatore stesso era
conscio delle possibili ripercussioni di un’azione di tale ferocia perpetrata ai danni di una massa
inerme, per quanto composta di facinorosi, e aveva certamente valutato il rischio concreto di
compromettere definitivamente la propria popolarità, incrementando un dissenso già diffuso e
creando i presupposti per nuove sollevazioni.102 Niente di più naturale, quindi, che, sin dai
giorni immediatamente successivi alla carneficina, egli si preoccupasse di esorcizzarne quanto
prima il ricordo, che proiettava su di lui un’ombra sinistra e nefanda. A questo scopo la corte
mise in moto una intensa campagna di comunicazione mirata a due obiettivi ben precisi: da
una parte giustificare la condotta di Giustiniano, accreditando, attraverso i resoconti ufficiali
pubblicati in tutte le città dell’impero e gli scritti degli storici compiacenti, versioni dell’accaduto
99Bellum Persicum I 24. Non è dato sapere se l’episodio sia realmente accaduto, o se, piuttosto, sia frutto dell’immaginazione di Procopio, che potrebbe aver costruito la scena rielaborando una suggestione letteraria. In proposito si vedano le osservazioni di J. A. S. Evans, The “Nika” Rebellion and the Empress Theodora, “Byzantion” 54/1, 1984, pp. 380-382. 100Chronographia XVIII, 71, p. 400 Thurn. Riporta la stessa cifra anche il Chronicon Paschale, p. 627 Dindorf. A detta di Giovanni Lido, De magistratibus III, 70, p. 164 Wünsch, gli uccisi sarebbero stati addirittura 50.000. 101Il principio della philanthropia imperiale è chiaramente formulato nel capitolo XX della Scheda regia, che citiamo nella traduzione di S. Rocca, Un trattatista di età giustinianea: Agapeto Diacono, “Civiltà classica e cristiana” 10, 1989 (pp. 302-328), p. 321: “Giustamente venerato è il vostro impero, perché mostra ai nemici la propria potenza, ed elargisce ai sudditi l’umanità: proprio vincendo i primi con la forza delle armi, si lascia vincere dai suoi per il proprio inerme affetto. Quanta, infatti, è la differenza tra una bestia feroce ed un agnello, altrettanta è la loro differenza” (per il testo greco rimando all’edizione critica: Agapetos Diakonos, Der Fürstenspiegel für Kaiser Iustinianos, hrsg. R. Riedinger, Athine 1995). 102Sembra condivisibile l’opinione di Greatrex, The Nika Riot, cit., pp. 77-78, secondo cui questo timore, e non considerazioni di tipo strategico, sarebbe all’origine degli indugi che precedettero la decisione di sedare l’insurrezione con le armi: nessuno avrebbe potuto dubitare della superiorità delle truppe imperiali sull’indisciplinata folla degli insorti. In quest’ottica il tentativo di fuga, così come l’apparizione all’ippodromo del 18 gennaio, si configurerebbe come un tentativo di risolvere lo scontro in maniera pacifica, intavolando trattative con i demi.
108
che imputavano l’origine dei tumulti al tentativo di usurpazione da parte dei nipoti di Anastasio
(più tardi si tentò di addossare parte della colpa anche a Giovanni di Cappadocia);103 dall’altra
creare una nuova immagine pubblica per il sovrano, presentandolo come rinnovatore e
ricostruttore: di qui l’impulso ad una frenetica attività edilizia il cui progetto più ambizioso
concerneva la ricostruzione Santa Sofia, e sul côté letterario, la celebrazione di queste
imponenti realizzazioni affidata a retori del calibro di Paolo Silenziario (Descrizione di S. Sofia)
e Procopio di Cesarea (Gli edifici).104
Al pari di molti intellettuali coevi, anche Romano detto il Melodo,105 il maggiore innografo del
secolo, non fu immune dagli influssi della propaganda giustinianea. Com’è noto, l’intera
produzione di Romano – cui sono attribuibili con certezza una sessantina di contaci,106 degli
oltre novanta pervenuti a suo nome – è di ispirazione sacra. C’è però un’eccezione, perlomeno
103Pare evidente, in Malala, l’intento di incolpare della sedizione Pompeo e Ipazio. Dopo aver narrato la fine dei due, lo storico ricorda che l’imperatore rese nota la propria vittoria e l’uccisione degli usurpatori (tyrannoi) in tutte le città dell’impero (XVIII, 71 p. 400 Thurn): forse proprio tale resoconto ufficiale, o comunque una fonte vicina all’establishment, è alla base delle rievocazioni della sommossa di due autori contemporanei, il comes Marcellino e il vescovo Vittore di Tunnuna, che riportano il tentativo di usurpazione dei nipoti di Anastasio in termini talmente simili da far pensare che entrambi abbiano attinto ad una sorgente comune (i passi in questione sono editi da Th. Momsen, Chronica Minora, II, Berlin 1894, rispettivamente a p. 103 e p. 198). Qualche tempo dopo la composizione dei due scritti, quando Giovanni il Cappadoce era ormai caduto in disgrazia (541), la propaganda ispirò versioni della vicenda di Nika che mettessero in risalto, tra le cause della sommossa, le malversazioni e i provvedimenti vessatorî attuati da costui ai danni della plebe e le sue ambizioni tiranniche: sembrano riflettere questo stadio successivo dell’elaborazione propagandistica i resoconti di Giovanni Lido, De magistratibus III, 70, pp. 161-162 Wünsch e Procopio, Bellum Persicum I, 24. In quest’ultimo risalta chiaramente il contrasto fra il ritratto a tinte fosche del Cappadoce e il compassionevole ricordo di Ipazio e Pompeo, presentati come vittime innocenti. In proposito rinvio a: Bury, The Nika Riot, cit., pp. 92-94; A. Carile, Consenso e dissenso fra propaganda e fronda nelle fonti narrative dell’età giustinianea, in G. G. Archi (a cura di), L’imperatore Giustiniano. Storia e mito, Milano 1978 (pp. 37-93), pp. 60-61 e nn. 95-96; R. D. Scott, Malalas, The Secret History, and Justinian’s propaganda, “Dumbarton Oaks Papers” 39, 1985, (pp. 99-109), pp. 100 e n. 8, 106-107. Costituisce una parziale eccezione rispetto al panorama coevo il resoconto non ufficiale di Procopio, Anecdota 12, 12, dove l’unico ad essere accusato è Giustiniano: in questo caso, però, allo storico non importa indagare le cause politiche della sollevazione, né stigmatizzare la brutalità dell’intervento armato, quanto piuttosto sottolineare come l’imperatore si sia giovato della repressione per appropriarsi in maniera illecita dei beni degli aristocratici coinvolti nella sedizione. Ecco il passo in questione, nella traduzione di Federico Ceruti (Procopio di Cesarea, Storia inedita, a c. di F. C., Milano 1977, p. 118): “Fino alla cosiddetta rivolta del “Nika”, infatti, essi pensavano di dover scegliere gli averi dei ricchi ad uno ad uno; ma dopo che la rivolta scoppiò, come ho detto nei libri precedenti, confiscarono per così dire in massa le sostanze di tutti i senatori e misero le mani, come volevano, su tutti i loro beni di città e sulle loro terre più belle, fatta eccezione di quelle soggette ad un tributo duro ed assai pesante, che con apparente generosità restituirono agli antichi proprietari” Il medesimo concetto è ribadito poco più avanti (Anecdota 19, 12). 104Sulla promozione, da parte di Giustiniano, di un’intensa attività edilizia come stratagemma per guadagnarsi il favore popolare si veda almeno Carile, Consenso, cit., pp. 43-45. 105Le notizie biografiche a nostra disposizione sono frammentarie e non del tutto attendibili. Nato in Siria intorno al 485/490, Romano fu diacono a Berito (Beirut). Quindi si trasferì a Costantinopoli, dove esercitò la sua attività di innografo presso la chiesa della Madre di Dio nel quartiere di Kyros, a partire dal regno di Anastasio. La morte è collocabile all’incirca tra il 555 e il 565. L’appellativo di Melodo deriva dal fatto che egli, a quanto pare, non compose soltanto i testi degli inni, ma anche le musiche che ne accompagnavano l’esecuzione. Per una sintetica quanto affidabile introduzione all’autore si può ricorrere alla voce di M. Arranz, Romanos le Mélode, in Dictionnaire de Spiritualité, XIII/2, Paris 1988, coll. 898-908. 106Kontakion è il termine con cui veniva designato il bastoncino intorno al quale era arrotolato il rotolo di papiro, all’epoca comune supporto scrittorio. Per metonimia la parola passò poi a indicare il rotolo tutto, quindi ogni componimento vergato su volumina papiracei; a partire da un certo momento, infine, il termine si specializzò ulteriormente, a indicare il particolare genere innografico praticato dal Melodo e che con lui pervenne alla codificazione definitiva. Il contacio nasce dalla commistione di elementi propri della tradizione omiletica siriaca in versi e della tradizione retorica greca. Per informazioni più dettagliate e indicazioni bibliografiche rinvio a: J. Grosdidier de Matons, Romanos le Mélode et les origines de la poésie religieuse à Byzance, Paris 1977, pp. 3-47; E. Follieri, L’innografia bizantina dal contacio al canone, in G. Gattin (a cura di), Da Bisanzio a San Marco. Musica e liturgia, Bologna 1997, pp. 1-32, e in particolare 1-14.
109
parziale: mi riferisco all’inno 54 Maas-Trypanis,107 che Josè Grosdidier de Matons, uno dei più
acuti interpreti della poesia del Melodo, definì “le plus curieux et l’un des plus intéressants
qu’ait écrits Romanos”.108 Le ragioni di tale eccezionalità risiedono, per l’appunto,
nell’argomento prescelto dall’innografo: non, come di consueto, un episodio o un personaggio
della Bibbia, né la concomitanza di una solennità liturgica o della festa di un santo, ma,
piuttosto, il verificarsi di una serie di eventi calamitosi, che culminarono con la rivolta del 532.
Il fatto è rimarcabile anche in considerazione della destinazione d’uso dei contaci, veri e propri
sermoni in versi che venivano declamati o cantati in chiesa dopo la lettura della Scrittura,
durante la liturgia delle veglie notturne che si tenevano nel periodo quaresimale e nei giorni
antecedenti alcune importanti solennità. Questa è l’unica occasione in cui il cantore si propone
di ammaestrare il suo uditorio – composto di laici e religiosi – prendendo spunto da un tema di
attualità. In maniera alquanto originale, Romano adatta quest’argomento per lui inusuale ai
contenuti prettamente devozionali di una preghiera penitenziale e alla rigida struttura formale
del contacio. Ma non sono soltanto caratteristiche estrinseche, quali la forma versificata e
l’adozione di un immaginario e di un linguaggio d’ispirazione biblica, a distinguere nettamente
la testimonianza del poeta109 da quella delle fonti storiografiche che trattano della rivolta: il suo
proposito non è, semplicemente, quello di fornire una mera rievocazione dei fatti, ma di
interpretarli in funzione di un intento prettamente edificante e parenetico. Ne consegue una
netta prevalenza della riflessione morale sulla ricostruzione evenemenziale: a ben vedere,
infatti, le sezioni narrative occupano all’interno del carme uno spazio percentualmente esiguo,
e l’episodio, piuttosto che essere rievocato con dovizia cronachistica, viene richiamato alla
memoria degli astanti per mezzo di immagini icastiche che ne individuano i momenti salienti.
Un resoconto frammentario e per nulla particolareggiato, dunque, ma di indubbio valore
107Sancti Romani Melodi Cantica, I, Cantica genuina, edd. P. Maas-C. A. Trypanis, Oxford 1963, pp. 462-471. L’edizione critica più recente è quella di J. Grosdidier de Matons (ed.), Romanos le Mélode, Hymnes, Tome V, Paris 1981 (“Sources Chrétiennes” n° 283), pp. 455-499, corredata di traduzione francese, introduzione e commento (d’ora innanzi citato Grosdidier de Matons, Hymnes). Indispensabile anche R. Maisano (a cura di), Cantici di Romano il Melodo, II, Torino 2002, pp. 452-471 (introduzione, testo greco, traduzione italiana e note). A questi ultimi rinvio per ulteriori indicazioni bibliografiche. La traduzione letterale del titolo del contacio, riportato da un solo testimone, è: “Per ogni terremoto e incendio”. Trypanis rende: “On Earthquakes and Fires”, comunemente seguito dalla critica posteriore: “Sur le tremblement de terre et l’incendie” è il titolo scelto da Grosdidier de Matons, “Terremoti e incendi” da Maisano. 108Grosdidiers de Matons, Hymnes, cit., p. 455. 109Nell’applicare a Romano la denominazione di “poeta” seguiamo una consolidata tradizione esegetica. Probabilmente sarebbe più congrua la dicitura di “versificatore”, dal momento che, fatta salva l’adozione della struttura metrico-ritmica imposta dal genere, il dettato di Romano è prosastico, e si esprime secondo modi del tutto estranei alla tradizione poetica in lingua greca, da cui non mutua né il linguaggio, né lo stile, né l’immaginario. In proposito si vedano le pertinenti ossservazioni di Maisano, Cantici, cit., p. 14 e nn. 18-19.
110
documentario, soprattutto in considerazione di due motivi: in primo luogo, esso costituisce la
più antica menzione della sedizione di cui disponiamo, in quanto certamente anteriore al 537,
ma con buone probabilità databile tra la fine del 532 e l’inizio del 533;110 secondariamente,
esso contiene l’unica attestazione, per quanto mediata e sfumata, della reazione sbigottita e
attonita dei contemporanei al massacro.111
In virtù del suo interesse sia da un punto di vista storico che letterario, il componimento ha
attirato l’attenzione di diversi studiosi che ne hanno indagato la natura retorico-encomiastica e
le implicazioni politico-religiose.112 Esso tuttavia non è stato tenuto nella giusta considerazione
da quanti, sino ad oggi, si sono occupati della propaganda giustinianea, e in particolare
dell’influsso da essa esercitato sui resoconti contemporanei della rivolta di Nika. Pertanto,
senza voler mettere mano all’ennesimo commento continuativo, compito peraltro già assolto in
maniera più che adeguata dalla critica precedente, in questa sede mi propongo di analizzare il
contacio secondo una prospettiva particolare, alla ricerca di quali siano le strategie messe in
atto da Romano per condurre il discorso a centrare i due obiettivi propagandistici di cui sopra:
l’assoluzione morale dell’operato di Giustiniano e l’esaltazione dei suoi meriti nella ricostruzione
dei monumenti andati distrutti. Di seguito riassumerò brevemente il contenuto del cantico,
inframezzando l’esposizione con alcune osservazioni personali.113
Come di consueto il contacio inizia con un proemio breve: in soli quattro versi vengono
sintetizzati mirabilmente i tre motivi che costituiscono l’ossatura della trattazione, rivelandone
l’ispirazione penitenziale: l’umanità tribolata, il pentimento, la misericordia divina114. Il prologo
si conclude con un ritornello (“la vita eterna”) che viene poi ripetuto alla fine di ciascuna
strofe; queste, in numero di venticinque, contano dieci versi ciascuna. L’argomentazione
110Sembra certo che al momento della composizione i lavori di ricostruzione della Chiesa di S. Sofia non fossero ancora conclusi (cf. infra e n. 30). Il terminus ante quem è dunque il 537, anno della consacrazione definitiva della basilica. Secondo K. Mitsakis, Byzantine Hymnographia, I, Thessalonike 1971, pp. 389-390, il contacio sarebbe stato eseguito in occasione della posa della pietra angolare dell’edificio, nel febbraio 532. Sembra più probabile una datazione compresa fra gli ultimi mesi del 532 e i primi del 533. Le diverse proposte a riguardo sono esaminate da J. H. Barkhuizen, Romanos Melodos: on Earthquakes and Fires, “Jahrbuch der Österreichischen Byzantinistik” 45, 1995 (pp. 1-18), p. 1 e n. 1. 111Cf. Grosdidier de Matons, Hymnes, cit., p. 455. 112Oltre ai commenti citati supra, n. 10, mi riferisco in particolare agli studi di E. Catafygiotu Topping, On Earthquakes and Fires: Romanos’ Encomium to Justinian, “Byzantinische Zeitschrift” 71, 1978, pp. 22-35; J. H. Barkhuizen, Romanos Melodos, cit.; Idem, Romanos and the Nika Riot (532 AD): a Religious Perspective, “Ekklesiastikòs Pharos”, n. s. 1, 1990, pp. 30-39. 113L’esposizione omette diversi particolari non ritenuti essenziali ai fini della presente trattazione. Pare quindi opportuno rinviare, per una trattazione esaustiva, alla bibliografia di cui supra, nn. 10 e 15. È sembrato superfluo, inoltre, dar conto delle differenti proposte di suddivisione del carme fin qui proposte dai vari interpreti, di cui discute Barkhuizen, Romanos Melodos, cit. pp. 2-3. Tra parentesi quadre indico il numero delle strofe. 114Barkhuizen, Romanos Melodos, cit., p. 3.
111
procede per blocchi concettuali che si succedono per associazione di idee, ma seguendo un filo
logico ben preciso, che procede da una riflessione di carattere generale sulla sofferenza umana
a un’originale interpretazione delle sciagure presenti e infine all’encomio del principe.
[1] Per quanti sono afflitti da un male spirituale, Iddio si offre come medico e guaritore;115 in
certi casi, però, egli si astiene dall’intervenire, tentando in questo modo di destare i peccatori
dal loro stato accidioso. [2] Chiunque domandi la grazia della guarigione è ascoltato: essa
discende come da una fonte perenne ed è a tutti accessibile; chi invece è negligente, non
ottiene ricompensa. [3] Talora Dio si è adirato con l’umanità, come quando chiese a Mosè di
poter punire gli Israeliti peccatori.116 [4] Ma anche in quel frangente la sua collera si rivelò
piena d’amore per gli uomini, ed egli trattenne la mano, accogliendo la supplica di Mosè. [5].
Allo stesso modo l’umile prece della madre cananea convinse Gesù, dopo l’iniziale rifiuto, a
liberare la figlia dalla possessione demoniaca.117 [6] La grazia che proviene dal cielo non
discende su tutti indistintamente, ma soltanto su chi ne fa richiesta: essa non vuole essere
un’imposizione sulla volontà degli uomini. [7-8] Orbene, l’uomo non è sempre ben disposto ad
accogliere la grazia divina, anzi spesso è incline al male: prova ne siano la trasgressione di
Adamo e il tradimento di Giuda (i due peccatori non sono espressamente nominati). [9-10] Dio
ha tentato di redimere l’uomo dal peccato, in lui insito fin dalla nascita, dapprima attraverso
l’ammonimento dei profeti, quindi per mezzo dell’azione redentrice del Figlio suo, che operò
indistintamente per la salvezza di tutti, peccatori compresi. [11-12] Eppure, nonostante Cristo
abbia insegnato agli uomini il rispetto dei comandamenti, molto spesso essi disattendono i suoi
precetti, costringendo Dio ad intervenire in maniera più drastica: come il medico, esperiti
senza successo i rimedi blandi, procede all’applicazione di quelli più pesanti, allo stesso modo,
se gli uomini si mostrano riottosi nell’accogliere il messaggio salvifico, il Signore non ha altra
scelta che operare la guarigione/redenzione attraverso l’applicazione di medicamenti più
drastici. Siamo giunti finalmente allo snodo concettuale che introduce la trattazione degli
accadimenti contemporanei: l’affezione peccaminosa del genere umano è progredita a tal
115La metafora della medicina applicata all’operazione di redenzione spirituale (cui spesso si accompagna la guarigione corporale) esercitata da Dio e soprattutto da Cristo (Christus medicus) – peraltro comune e diffusa anche presso scrittori cristiani latini (ad esempio Agostino) – è uno dei fili conduttori del contacio, come indicato a più riprese dalla critica. A proposito sia sufficiente rinviare a Barkhuizen, Romanos Melodos, cit., pp. 4-5. 116Si allude all’episodio del vitello d’oro, narrato in Esodo 32. 117Matteo 15, 21-28.
112
punto che il sommo medico deve ricorrere ad una terapia d’urto, ovverosia [13] all’invio di
piaghe:118 la prima, il terremoto, scuote la terra, ma non le coscienze dal loro torpore; il
castigo successivo è la siccità119, ma anche questo monito rimane inascoltato. [14] Constatata
l’inutilità dei primi due rimedi, non resta al Signore che mettere in atto il terzo e più terribile
della serie: 120
[Dio] allora avvilisce la stessa mensa della grazia, lasciando che le sacre suppellettili della chiesa
brucino, così come, un tempo, diede in mano a stranieri l’arca divina121. Per strade e chiese si
riversava il lamento della folla, e il fuoco avrebbe consunto ogni cosa, se non avessero avuto
Colui che dispensa a tutti
la vita eterna [14, 3-10].
Nell’esordio della stanza successiva [15] il poeta confessa un certo imbarazzo nel parlare di un
episodio così cruento, la cui dolorosa memoria attanaglia gli animi:
Tutti conoscono, credo, i fatti accaduti allora, il cui ricordo, com’è naturale, incatena il vostro
animo e il vostro pensiero e rende la nostra lingua piuttosto esitante a raccontare. [15, 1-4]
A questo punto ha inizio la descrizione della calamità: il fuoco trova ovunque materia di cui
alimentarsi, sospinto da venti impetuosi [15, 5-6]; la popolazione è in preda alla sofferenza,
ma neppure in questa occasione fa ammenda dei propri peccati, considerando la piaga una
sciagura, e non un monito e un invito al ravvedimento [15, 7-10]. La ricerca del pathos
raggiunge il suo apice nella stanza 16, l’unica totalmente descrittiva. Romano dipinge
abilmente la forza straordinaria del fuoco che si propaga con strepiti assordanti, causando il
panico fra la gente, e pare indomabile. A nulla valgono i tentativi di spegnimento, persino gli
spostamenti sono ostacolati da forze naturali avverse: i venti fomentano la vampa per ogni
118Lo schema adottato da Romano riproduce su scala minore la successione delle dieci piaghe inflitte agli Egizi (Esodo 7-12), episodio certo ben noto al suo pubblico: ciascun castigo costituisce un’occasione di ravvedimento concessa all’umanità riottosa, la quale perseverando nell’errore, viene punita in maniera via via più dura. 119Il terremoto cui allude Romano è probabilmente quello verificatosi nel 530. La siccità e la conseguente carestia, di cui fa menzione il solo Malala, vanno datate al 531. Per ragguagli ulteriori cf. Grosdidier de Matons, Hymnes, cit., pp. 462-464. 120La traduzione di tutti passi citati è mia, ed è stata condotta sul testo stabilito da Grosdidier de Matons, Hymnes, cit. All’interno dei passi tradotti le parentesi quadre indicano l’aggiunta, per ragioni di perspicuità, di parole non presenti nel testo greco. 121Si allude al ratto dell’arca dell’alleanza da parte dei Filistei, narrato in 1 Samuele 4, 11.
113
dove, il mare ingrossato preclude ogni via di fuga. La strofe 17 si apre con una patetica
considerazione sulla perdita di ogni speranza da parte degli abitanti della città; il Signore
sovrintende alla scena, ma, precisa Romano, è immutata la sua disponibilità nei confronti dei
caritatevoli, per merito dei quali è disposto a salvare anche chi versa nel peccato. Quest’ultima
considerazione prelude alla riappacificazione dell’uomo con la divinità: [18] alcune persone
devote (“quelli timorati di Dio”) tendono la mani al cielo implorando misericordia. Romano non
fornisce ulteriori ragguagli sulla composizione di questo coro di anonimi supplici, ma si
concentra su una sola voce, che spicca fra le altre:
Insieme con costoro, verosimilmente, pregava anche l’imperatore – e con lui la sua consorte –
alzando lo sguardo al Creatore, dicendo: “Concedimi, o Salvatore, come concedesti a Davide, di
vincere Golia, dacché spero in te! In nome della tua miseriordia, salva il tuo popolo devoto, cui
donerai anche
la vita eterna„ [18, 5-10].
Delle disperate implorazioni che si levano tutt’intorno, l’unica che Romano sceglie di farci udire
è, dunque, quella dei sovrani, la cui entrata in scena è collocata, strategicamente, al culmine
drammatico della rievocazione. L’orante sembra conscio di essere la persona più adatta a
inoltrare una richiesta di aiuto: associando la propria immagine a quella di Davide122, rivendica
la prerogativa regale di intermediario fra il popolo eletto e il suo Dio. Si noti come le parole del
sovrano possano sembrare, a tutta prima, sibilline, giacché individuano il nemico contro il
quale egli si appresta a lottare in maniera implicita, assimilandolo al gigante biblico: fuor di
metafora, tale avversario dalla forza sovrumana è la depravazione morale della popolazione. I
postulanti si fanno dunque promotori del ravvedimento spirituale che è presupposto ineludibile
per la guarigione fisica123 del corpo della città intera: una volta realizzato il primo, questa non
tarda ad arrivare:
122L’accostamento del basileus ai sovrani biblici e ai grandi imperatori cristiani è ingrediente topico della panegiristica bizantina, che Romano utilizza più volte in questo contacio: ideali predecessori di Giustiniano sono Davide, condottiero vittorioso (strofe 18), Mosè, legislatore e tramite con la divinità (cf. supra, strofe 2-3: in questo caso il paragone è implicito), Salomone (cf. infra, strofe 21) e Costantino (cf. infra, strofe 22), costruttori di edifici sacri. In proposito rimando alle osservazioni di Catafygiotu Topping, On Earthquakes, cit., pp. 31-33. 123L’associazione tra remissione dei peccati e guarigione dall’infermità è enunciata chiaramente nei Vangeli: si pensi all’episodio del paralitico di Matteo 9, 1-8; Marco 2, 1-12; Luca 5, 17-26.
114
Dio, come udì la voce di quanti lo invocavano e degli imperatori, concesse alla città la sua
amorevole clemenza. Un pianto doloroso si alzava per quanti erano stati uccisi dalle spade: donne
lamentavano la vedovanza, fanciulli l’esser divenuti orfani, padri la scomparsa dei figli, fratelli la
privazione dei congiunti; altri si dolevano della perdita degli averi, e il lutto era comune all’intera
città. Giaceva a terra il trono della chiesa, che fornisce
la vita eterna [19, 1-10].
Il quadro che si offre allo sguardo del poeta è desolante: la cittadinanza tutta è in preda al
lutto, e ovunque si odono le cupe lamentazioni di chi ha perduto gli affetti più cari. Solo ora,
però, apprendiamo che una buona parte dei decessi è dovuta non all’incendio, ma ad una
seconda causa di morte: quelle non meglio definite “spade” cui Romano allude in maniera
piuttosto sbrigativa. Così come, nelle stanze precedenti, mancava ogni accenno agli autori
materiali dei roghi e alla sollevazione popolare (a meno di non voler interpretare in questo
senso il riferimento a Golia, di cui sopra), la reticenza del poeta si estende, ora, alla
repressione manu militari dei tumulti. Per contro si potrebbe osservare come l’accenno alle
spade, che al lettore odierno potrebbe risultare criptico, dovesse risuonare più che eloquente
agli orecchi dei contemporanei; inoltre è plausibile che il poeta, conformemente al proposito
espresso in precedenza (15, 1-3), fosse riluttante a indugiare nella narrazione di particolari
cruenti. Pur riconoscendo che tali obiezioni sono senz’altro pertinenti, ci pare che l’autore abbia
tralasciato a ragion veduta ogni riferimento alla sedizione, in quanto tale omissione è
funzionale ad una strategia tesa a presentare le morti avvenute a causa del fuoco e della
spada come parti complementari di un unico e definitivo castigo, quello della terza piaga
inviata da Dio per punire le intemperanze del suo popolo, refrattario ad ogni ammonimento.
Una volta classificati sia l’incendio che la repressione come interventi di origine divina,
l’innografo è dispensato dal riferire nel dettaglio quali siano stati i responsabili immediati dei
roghi e della mattanza (gli insorti e i soldati): non importa ricordare le azioni compiute da
costoro, dal momento che essi agirono come meri strumenti alle dipendenze di una volontà
superiore che se ne servì per portare a compimento il proprio disegno provvidenziale di castigo
e redenzione. Lasciamo in sospeso queste riflessioni e torniamo al racconto di Romano. [20]
Coloro i quali veneravano Sofia e Irene, ora vedono i due santuari eponimi, che un tempo
115
brillavano per i loro ornamenti, ridursi in macerie e sfavillare in preda ai roghi124. [21] L’unica
risorsa su cui fare affidamento è la Speranza. Se si pensa che il tempio costruito con tanta
magnificenza da Salomone, una volta crollato, non fu più ricostruito125, non è possibile non
accorgersi della grazia divina che pervade la Grande Chiesa: [22] infatti dovettero trascorrere
ben duecentocinquant’anni perché, per iniziativa di Costantino il Grande e della madre Elena,
al posto del tempio salomonico fossero edificate le chiese della Resurrezione e di Santa Sion126.
Nulla a che vedere con la prodigiosa tempestività dell’intervento giustinianeo:
Qui, al contrario, un sol giorno dopo il crollo iniziò l’opera di rifacimento della chiesa, ed essa splende
magnificamente e viene terminata alla perfezione: gli imperatori provvedono denaro a profusione, il
Signore
La vita eterna [22, 6-10].
Il paragone, svolto in maniera antitetica, si risolve a vantaggio della coppia Giustiniano-
Teodora, il cui operato surclassa quello degli illustri predecessori, tanto da suggerire al poeta
un accostamento assai più ardito: la munificenza imperiale è comparabile a quella divina, e le
elargizioni dei regnanti a favore della riedificazione sono il corrispettivo terreno del dono della
beatitudine da parte del sovrano celeste. La sezione laudatoria culmina con uno smaccato
elogio dei regnanti, realizzato nella stanza che segue:
Opere veramente grandi e splendide e degne di meraviglia e maggiori di [quelle realizzate da] tutti i
sovrani antichi hanno mostrato in questa circostanza coloro i quali oggidì governano piamente lo Stato
dei Romei. In breve tempo hanno fatto risorgere la città intera, sino a produrre oblio di ogni dolore in
chi ne era afflitto. Lo stesso edificio della Chiesa è costruito con tale virtuosa perizia da riprodurre il
cielo, il trono divino che dispensa
la vita eterna [23, 1-10]
124Santa Sofia fu distrutta dalle fiamme nella notte tra mercoledì 14 e giovedì 15 gennaio, Santa Irene il venerdì 16: cf. Greatrex, The Nika Riot, cit. pp. 85-86. 125Romano non sa, o piuttosto non dice, che il tempio fu rialzato da Zorobabele già una cinquantina d’anni dopo l’abbattimento ad opera di Nabucodonosor (587), e quindi ristrutturato da Erode (19 a. C.), prima di subire la definitiva distruzione ad opera di Tito nel 70. Cf. Maisano, Cantici, cit., pp. 468-469 n. 48. Il medesimo confronto fra Giustiniano e Salomone ritorna in due scritti anonimi posteriori: un contacio datato al 562 e il Racconto sulla costruzione di Santa Sofia, risalente al IX secolo: in proposito si veda G. Dagron, Constantinople imaginaire. Études sur le recueil des “Patria”, Paris 1984, pp. 207-208, 303-314. 126Si tratta rispettivamente del santuario edificato sul Golgota (326-335) e della chiesa del Cenacolo (335-347). In realtà Elena era deceduta nel 327, ma la presenza della sua figura è in funzione del paragone con l’imperatrice Teodora, che Romano vuole presentare come promotrice, accanto al marito, del programma di ricostruzione. Cf. Maisano, Cantici, cit., p. 469 n. 49.
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Dopo essere stati artefici del ravvedimento morale dei sudditi, ora Giustiniano e Teodora si
fanno promotori del risanamento materiale della città, avviando un’opera di ricostruzione che
per grandiosità, magnificenza e rapidità non ha paragone: la ricostruzione del Tempio per
eccellenza della cristianità tutta, S. Sofia. Insieme con esso risorge (il verbo impiegato da
Romano è il medesimo che i Vangeli utilizzano per la risurrezione di Cristo) la cittadinanza
intera, che si avvia a dimenticare le recenti sventure. Conclude l’inno una duplice preghiera: si
implora il Signore [24] affinché sovrintenda al compimento e alla buona riuscita dei lavori (che,
dunque, erano ancora in corso d’opera quando Romano scrive),127 [25] e affinché, in quanto
Salvatore, protegga la città e gli imperatori, preservi Costantinopoli da fame, sismi e morte e
conceda a tutti, e anche al suo umile cantore, il perdono dei peccati e “la vita eterna”.
È giunto il momento di tirare le fila del nostro ragionamento. Abbiamo visto come la prima
sezione del carme (strofe 1-12), dal tono propriamente omiletico, teorizzi la necessità della
punizione divina come rimedio estremo da opporre alla recidiva trascuranza, da parte degli
uomini, dei suoi comandamenti. Il concetto viene illustrato attraverso una ricca
esemplificazione, che si dipana dall’antichità biblica e giunge sino ai castighi che di recente si
sono abbattuti sui costantinopolitani: terremoto, siccità, e infine, l’incendio della città (13-17).
Collegando in maniera artificiosa il rogo ad una serie di eventi palesemente distinti, perché di
origine naturale, Romano accredita l’idea che esso non sia altro che l’ennesimo evento
catastrofico di origine sovrumana, esattamente come i precedenti. Ad avvalorare tale
impressione contribuisce la reticenza riguardo alla sommossa popolare e all’intervento
dell’esercito. Con ciò viene a cadere immediatamente ogni accusa a carico di Giustiniano: lungi
dall’essere additato quale responsabile dei malcontenti popolari da cui scaturì la sedizione e
fautore della conseguente violentissima repressione (oltre che speculatore sulle proprietà di
molti degli uccisi, se si presta fede al Procopio degli Anecdota),128 egli figura inizialmente quale
semplice spettatore e vittima del castigo divino, al pari degli altri uomini, salvo poi assumere le
vesti di salvatore della cristianità e ricostruttore dei suoi santuari. Dotato, in virtù della dignità
127Questo accenno lascia supporre che il contacio sia stato composto quando i lavori di ricostruzione non erano ancora terminati. Cf. Grosdidier de Matons, Hymnes, cit., pp. 457-8; supra, n. 13. 128Cf. supra, n. 6.
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che ricopre e di una straordinaria pietas, della facoltà di intercedere presso Dio, l’imperatore,
novello Mosè (cf. strofe 3-4) e novello Davide (cf. strofe 18), dapprima ottiene la
riconciliazione con la divinità collerica e vendicativa che campeggia nella sezione iniziale
dell’inno; quindi occupa interamente la scena, emulando le opere di Salomone e Costantino (cf.
strofe 21-22) con l’avvio di un grandioso progetto di ricostruzione che ha il suo cuore nel
santuario di S. Sofia, il cui cantiere diviene simbolo della nuova vita dell’umanità redenta.129
Alle masse dei fedeli riunite per ascoltare le sue meravigliose prediche cantate, il Melodo
insegnava ad accetttare le immani sciagure abbattutesi sulla città in quanto manifestazioni di
una volontà superiore – e non, come molti degli astanti potevano figurarsi, conseguenza della
dispotica amministrazione giustinianea – ed al contempo inculcava sentimenti di gratitudine e
venerazione nei confronti del sovrano servator e restitutor. Attraverso un abile e ardito
camuffamento, la commemorazione di un evento luttuoso potenzialmente in grado di minare la
reputazione e la stabilità stessa del potere imperiale si trasforma in un’opportunità di plauso
del medesimo.
Alla luce di quanto detto fin qui, pare innegabile che la rappresentazione della rivolta di “Nika”
fornita da Romano dovesse risultare quanto mai consona alla versione dell’accaduto che
l’autocrazia avrebbe voluto imporre all’opinione pubblica. Questa convergenza di vedute
potrebbe spiegarsi supponendo che l’inno sia stato commissionato al Melodo per celebrare la
posa della prima pietra della nuova Grande Chiesa,130 o comunque in occasione di una
solennità liturgica alla cui ufficiatura presenziava la coppia imperiale.131 Dunque il
componimento costituirebbe un servile atto di omaggio ai regnanti, redatto su pressione della
corte o delle gerarchie ecclesiatiche? L’intento encomiastico è, in effetti, innegabile; tuttavia
ritenere Romano un predicatore militante, come avverte giustamente Herbert Hunger, sarebbe
riduttivo e costituirebbe senza dubbio un grossolano fraintendimento della sua arte.132 Una
valutazione obiettiva dell’atteggiamento tenuto dal poeta nella circostanza non può prescindere
dalla considerazione della temperie sociale e culturale in cui egli operava. Innanzitutto non è
129Cf. Grosdidier de Matons, Hymnes, cit., p. 466. 130L’ipotesi (contestualmente alla quale il contacio andrebbe datato al febbraio 532) risale a Mitsakis: cf. supra, n. 13. 131Grosdidier de Matons, Hymnes, cit., p. 458. 132H. Hunger, Romanos Melodos, Dichter, Prediger, Rhetor - und sein Publikum, “Jahrbuch der Österreichischen Byzantinistik” 34, 1984, (pp. 15-42; versione italiana in “Römische Historische Mitteilungen” 25, 1983, pp. 305-332), p. 36.
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da escludere che Romano stesso fosse, in certo qual modo, vittima di una informazione
distorta riguardo all’effettivo svolgimento dei fatti, che poteva aver appreso da una delle veline
che venivano confezionate ad arte e fatte circolare oralmente da ambienti di corte per
diffondere la versione dell’accaduto gradita al sovrano,133 oppure dal resoconto ufficiale redatto
dalla cancelleria imperiale per informare del successo del sovrano sugli insorti e quindi fatto
affiggere presso gli edifici pubblici e le chiese di tutte le province dell’impero.134 Non bisogna
dimenticare, inoltre, che gli storici del tempo che trattarono l’argomento si attennero alla
vulgata di regime:135 avrebbe potuto Romano presentare gli eventi in un’ottica dissimile e non
allineata? La soluzione migliore, pertanto, sarebbe forse quella di individuare nel contacio 54 il
saldo dell’obolo dovuto alla causa dell’impero, da parte di un autore la cui rimanente
produzione è, del resto, totalmente estranea a simili istanze. Nulla vieta però di pensare che il
poeta, recependo e interpretando autonomamente stimoli provenienti tanto dall’esterno,
quanto dal proprio entourage, abbia agito per scelta consapevole, animato dal pio proposito di
favorire la riconciliazione tra i corpi sociali, oppure semplicemente mosso da sincero
entusiasmo e partecipe adesione al programma di renovatio sia spirituale che materiale che la
pubblicistica di corte andava propalando in quegli anni.
Mi si consentano due riflessioni conclusive, di carattere particolare la prima, più generale
l’altra. In un frangente fra i più delicati del suo regno, Giustiniano trasse sicuramente
vantaggio dalla pubblicazione (s’intende, dalla pubblica esecuzione) dell’inno: più ancora degli
scritti encomiastici redatti, a vario titolo e in forme e occasioni differenti, dai vari Procopio,
Agapeto, Paolo Silenziario, esso dovette sortire un formidabile effetto propagandistico. Rispetto
a quelli, il contacio era in grado di raggiungere un pubblico assai più vasto e assai più
articolato, coincidente con la totalità dei fedeli che presenziavano alle celebrazioni liturgiche,
ovvero con la stragrande maggioranza della popolazione; inoltre, in virtù della comprensibilità
del linguaggio136 e dell’immediatezza dei riferimenti culturali, il messaggio in esso contenuto
risultava fruibile ai più.
133In proposito si veda Scott, Malalas, cit. pp. 102 e 107. 134Vedi supra, n. 6. 135Vedi supra, n. 6. 136A proposito riporto il conciso ma illuminante giudizio di E. Follieri, L’innografia, cit., p. 9: “La lingua di Romano è la koinè del mondo greco postclassico, con molti elementi tratti dalla lingua parlata e copiosi riecheggiamenti dei testi biblici. [...] Il vocabolario è ricco, e in complesso semplice, perché il contacio, dato il suo carattere di vera e propria catechesi, possa riuscire accessibile a un pubblico non necessariamente tutto colto”. Per un’analisi più approfondita del
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Erano trascorsi centoquarant’anni da quando Teodosio I, per aver autorizzato la brutale
repressione poi passata alla storia come “l’eccidio di Tessalonica”, era stato scomunicato e
costretto a pubbliche manifestazioni di contrizione e pentimento dal vescovo Ambrogio di
Milano.137 I rapporti di forza tra potere politico e potere religioso, nel frattempo, erano
sensibilmente mutati in favore dell’autocrazia:138 il sovrano, pur essendosi macchiato di un
massacro di proporzioni ben maggiori di quello del 390, non solo non doveva più temere di
incorrere nelle severe reprimende della Chiesa, ma anzi esercitava su di essa un’influenza così
profonda da riuscire a imporle l’accettazione della propria versione mistificata dell’accaduto, e
a contare sul clero per trasmettere ai fedeli, ovvero alla totalità dei sudditi, una visione
deformata ed edulcorata dei fatti.
Luigi Silvano
linguaggio di Romano sono indispensabili gli studi di Grodidier de Matons, Romanos le Mélode et les origines, cit., pp. 285-327 e di K. Mitsakis, The Language of Romanos the Melodist, München 1967. 137Teodosio ordinò l’intervento dei soldati per punire l’insubordinazione dei Tessalonicesi, culminata nel linciaggio del comandante barbaro della guarnigione locale. Le truppe piombarono sulla folla radunata – esattamente come nel 532 – nel circo cittadino, massacrando indiscriminatamente settemila tra uomini, donne e bambini. Per l’indicazione delle fonti che riportano l’episodio, peraltro assai noto, mi limito a rinviare a V. Marrotta, Il potere imperiale dalla morte di Giuliano al crollo dell’Impero d’Occidente, in AAVV., Storia di Roma, vol. III, t. I, Einaudi, Torino 1993, p. 570 e nn. 83-85; J. Curran, From Jovian to Theodosius, in A. Cameron, P. Garnsey (edd.), The Cambridge Ancient History, vol. XIII, Cambridge 1998, p. 108 e nn. 96-98. Interessanti osservazioni sull’episodio in G. Dagron, Empereur et prêtre. Étude sur le “césaropapisme” byzantin, Paris 1996, pp. 120-138. 138Non è mia intenzione addentrarmi nel terreno spinoso della definizione dei rapporti tra autocrazia e Chiesa sotto Giustiniano. In merito sia sufficiente rimandare agli studi di J. Meyendorff, Justinian, the Empire and the Church, “Dumbarton Oaks Papers” 22, 1968, pp. 43-60; C. Capizzi, Giustiniano I tra politica e religione, Soveria Mannelli 1994 (con bibliografia).
120
BELISARIO di Andrea Frediani
Belisario nacque intorno al 500 d.C. lungo il confine tra la Tracia e l’Illiria. I suoi esordi nella
carriera militare lo videro servire sotto l’imperatore Giustino, in Armenia e in Mesopotamia
contro i persiani. Le sue capacità gli valsero la nomina a comandante della guarnigione della
fortezza confinaria di Dara, ma fu dopo l’ascesa al trono di Giustiniano, nel 529, che Belisario
ascese ai più alti comandi. L’imperatore, infatti, lo teneva da tempo in ampia considerazione, e
lo nominò magister militum per orientem, ovvero, comandante in capo del fronte orientale e
quindi responsabile delle operazioni contro i persiani.
Il suo esordio da comandante supremo non fu troppo fortunato, anche per la minor
disponibilità di truppe rispetto al nemico: dopo una prima vittoria presso Dara, nel giugno 530,
che arginò un primo tentativo di invasione persiana, l’anno seguente Belisario optò per una
strategia più offensiva, oltrepassando l’Eufrate per sbarrare agli invasori la strada per
Antiochia. Ma non riuscì a coordinare i movimenti dei suoi comandanti subalterni e, presso
Sura, subì una pesante sconfitta, finendo per considerare un successo l’aver sottratto una
parte del proprio esercito alla distruzione.
Il che, naturalmente, non gli evitò la destituzione immediata. Ma l’imperatore fu costretto a
ricorrere nuovamente a lui l’anno successivo quando, il 13 gennaio del 532, Costantinopoli fu
teatro della rivolta di Nike, contro il potere imperiale; Belisario irruppe con le truppe
nell’ippodromo, epicentro della ribellione, e massacrò 35.000 persone.
La sua brillante quanto spietata gestione della rivolta costituì il trampolino di lancio per essere
reintegrato nei più alti incarichi, come Napoleone che, secoli dopo, avrebbe recuperato la
fiducia del Direttorio sparando sulla folla di Parigi. E come Napoleone, Belisario si vide
assegnare il comando di un fronte di conquista. Il programma di recupero dei territori già sotto
la sovranità romana, concepito da Giustiniano, infatti, partiva dall’Africa, in mano ai vandali.
La campagna ebbe inizio il 22 giugno 533 con la partenza da Costantinopoli di una flotta di 92
navi da guerra e 500 da carico sulle quali viaggiavano 18.000 uomini. Dopo l’approdo a Caput
Vada, nel mese di settembre, Belisario si trovò la strada sbarrata per Cartagine a pochi
121
chilometri da essa, a Decimum, dove il 13 settembre approfittò della scarsa coordinazione tra
le armate vandale, incaricate di attaccarlo da più parti, per sbaragliarle una alla volta.
Dopo che Belisario aveva occupato Cartagine, il re Gilimero si avvicinò alla capitale in
dicembre, attestandosi nel villaggio di Tricameron, a 29 chilometri dalla capitale. Il generale
romeo, temendo la defezione dei suoi cavalieri unni, assunse l’iniziativa avanzando verso le
posizione avversarie. Si fece precedere da quasi tutta la cavalleria che, condotta dal suo
luogotenente Giovanni l’Armeno, poté attaccare la cavalleria di Gilimero il quale, pur
disponendo della superiorità numerica, esitava.
Al terzo assalto cadde il fratello del re, e il settore centrale collassò, inducendo Gilimero a
riparare presso il campo, dal quale però fuggì quando vide sopraggiungere la fanteria
imperiale, che Belisario aveva fatto marciare con passo regolare. La fuga del loro re indusse le
truppe vandale e maure a fare altrettanto, lasciando il campo alla mercé del saccheggio greco.
Tre mesi dopo, con la cattura di Gilimero, si chiudeva un’impresa stupefacente per la sua
rapidità ed efficienza.
L’imperatore, ora, guardava più a ovest, nella stessa penisola italica dove, dopo la morte del re
Teodorico, gli ostrogoti avevano perso coesione e autorevolezza. La nomina di Belisario a
console fu seguita dal nuovo comando sul fronte italico, che il generale pose in atto
conducendo una piccola armata di 7500 uomini in Sicilia, sbarcando a Catania, mentre Mundo,
un discendente di Attila, ne conduceva un’altra dalla Dalmazia.
La strategia a tenaglia fallì per la sconfitta e la morte del comandante unno, ma anche perché
Belisario dovette allontanarsi dalla penisola per sedare una nuova rivolta in Africa; ciò spinse
gli ostrogoti, in linea di massima propensi a riconoscere la sovranità imperiale, a resistere a
oltranza. Quando Belisario tornò in Sicilia, i suoi movimenti lo portarono subito a Reggio, dove
raccolse la resa della guarnigione, comandata dal genero del re Teodato.
Proseguendo la risalita della penisola, lungo la quale le popolazioni lo accolsero festanti, il
generale trovò un primo ostacolo a Napoli, che fu costretto ad assediare. La espugnò nel
novembre del 536 approfittando dei canali fognari della città, attraverso i quali fece passare le
sue truppe, che lasciò libere di saccheggiare. La caduta di Napoli provocò una crisi istituzionale
tra i goti, che deposero e successivamente uccisero Teodato, ed elessero uno sperimentato
122
guerriero, Vitige, il quale ritenne indifendibile Roma e si ritirò più a nord, lasciando che
Belisario vi entrasse nella notte tra il 9 e il 10 dicembre 536. La conquista di Roma sanciva la
netta divisione della penisola in due metà, delle quali quella meridionale era interamente sotto
il controllo imperiale.
Trovandosi lungo la linea di confine tra le due sfere di controllo, la città eterna diveniva la
chiave del conflitto. Vitige non tardò a porla sotto assedio ma Belisario, che aveva trascorso
l’inverno a potenziarne le difese, riuscì a resistere per un anno e 69 battaglie intorno alle mura
al blocco e agli assalti dei goti, fino a quando un esercito di rinforzo non minacciò Ravenna,
obbligando Vitige a togliere l’assedio. Nei mesi successivi, il generale bizantino spostò più a
nord il baricentro delle operazioni, e Vitige non poté far altro che rimanere asserragliato a
Ravenna. La guerra sembrava sul punto di essere vinta, ma Giustiniano aveva ragione di
temere la riapertura del fronte persiano, e fu indotto a trattare la pace coi goti, che d’altronde
riconobbero in essa di aver perduto tutti i territori italici a sud del Po.
Belisario, che conosceva bene le difficoltà in cui si dibattevano i barbari, rifiutò di ratificare il
trattato e mosse alla volta di Ravenna, dove i goti, deposto Vitige per inettitudine, arrivarono a
offrirgli la corona. Il generale si limitò comunque a restaurare il potere imperiale e tornò a
Costantinopoli con un ricco bottino e lo stesso Vitige tra i prigionieri.
Il suo comportamento indipendente, nonché la popolarità acquisita con il nuovo successo,
indussero Giustiniano a lesinargli, da allora, onori e mezzi. Ma Belisario era il suo miglior
generale, e non poté esimersi dall’affidare a lui quello che era divenuto il principale dei fronti di
guerra, ovvero il persiano; in due anni il condottiero liberò i territori occupati dal re Cosroe e lo
costrinse alla pace, per essere però accusato di aver appoggiato una sedizione nel 543 e
ancora una volta privato del comando.
Ma in Italia i goti si erano nuovamente organizzati sotto la guida di un sovrano giovane e
capace, Totila, e c’era ancora bisogno della sua opera, sebbene Giustiniano, sempre più
diffidente nei suoi confronti, ve lo spedisse autorizzandolo a portarsi dietro solo 4000 uomini,
per giunta mantenuti a sue spese. Belisario sbarcò a Ravenna nel 544, dove però, con le sue
magre forze, dovette assistere impotente alla caduta delle principali piazzeforti dell’Italia
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centrale; né fu in grado di portare aiuto a Roma quando la città venne posta sotto assedio per
un anno e mezzo, prima di essere espugnata il 17 dicembre del 546.
Totila, però, non reputava il possesso dell’Urbe vantaggioso strategicamente e, dopo averla
privata di mura e resa disabitata, la lasciò priva di truppe, consentendo così a Belisario di
riappropriarsene, e di resistere ancora una volta a un assedio. Ma il generale non riuscì a
impedire, nell’estate del 548, la caduta di Rossano, nel Bruzio, nonostante vi fosse accorso con
un’armata, e fu lui stesso, amareggiato, stanco e malato, a chiedere il rimpatrio a
Costantinopoli, che avvenne nell’autunno dello stesso anno.
Negli anni seguenti, Giustiniano si valse ancora di lui, almeno in due occasioni. Nel 554 lo inviò
nella Spagna meridionale e, cinque anni dopo, gli affidò la difesa della stessa Costantinopoli
contro l’avanzata di bulgari e slavi, che Belisario condusse con successo nonostante che,
perfino in quella circostanza, l’imperatore gli avesse centellinato le truppe. Tuttavia, Belisario
finì nuovamente in disgrazia, e perfino in prigione, a seguito di un suo presunto coinvolgimento
in una congiura contro il sovrano, nel 562. Riconosciuto innocente e riabilitato, poté trascorrere
senza ulteriori traumi gli ultimi tre anni della sua vita.
L’azione di Belisario fu molto condizionata dagli intrighi per i quali si è resa celebre la corte
bizantina. Tuttavia, egli ebbe modo di dimostrare, ripetutamente, di essere stato il miglior
comandante del suo secolo, che sancì l’inizio dell’epoca medievale.
I suoi successi più prestigiosi li guadagnò, indubbiamente, contro avversari in difficoltà o
addirittura in decadenza: il regno vandalico in Africa non era più quello dei tempi di Genserico;
tuttavia, i romani d’oriente avevano tentato almeno un paio di volte la sua conquista, fallendo
miseramente con eserciti e flotte ben più imponenti. I goti erano estremamente divisi e
disorganizzati, e contro il loro unico, valido comandante, Totila, Belisario collezionò più
insuccessi che vittorie. Dopo di lui, l’eunuco Narsete piombò in Italia e risolse la lunga guerra
con una facilità sconcertante, ma questo dimostra più che altro quanto la disponibilità di
risorse, che Giustiniano non lesinò a Narsete, fosse determinante per conseguire risultati
risolutivi. Sul fronte persiano, di fronte a un impero dall’apparato bellico notevole Belisario si
trovò sempre a mal partito, ma mostrò una grande capacità di condurre operazioni difensive.
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Belisario fu generale dotato di intuito e inventiva, che manifestò in ambito ossidionale ideando
sistemi e mezzi sia per espugnare che per difendere roccheforti. In tempi in cui gli eserciti
romei erano altamente compositi, seppe mantenere una costante autorità sulle proprie truppe,
che sapeva arringare con passione e convinzione, e con cui condivideva i rischi in battaglia.
Sapeva sfruttare al meglio le tecniche di combattimento caratteristiche di ciascun reparto,
manifestando grande confidenza nell’utilizzo sia delle ritirate simulate tipiche dei barbari che
delle avanzate a ranghi compatti degli eserciti romani.
Andrea Frediani
www.andreafrediani.it
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