+ All Categories
Home > Documents > Byzantium: Faith and Power (1261–1557)

Byzantium: Faith and Power (1261–1557)

Date post: 07-Apr-2023
Category:
Upload: unive
View: 0 times
Download: 0 times
Share this document with a friend
125
ΠΟΡΦΥΡΑ da un’idea di Nicola Bergamo “Saranno come fiori che noi coglieremo nei prati per abbellire l’impero d’uno splendore incomparabile. Come specchio levigato di perfetta limpidezza, prezioso ornamento che noi collocheremo al centro del Palazzo” La prima rivista on-line che tratta in maniera completa il periodo storico dei Romani d’Oriente Anno 2004 Ottobre numero 3 L’Impero di Giustiniano 527-565 a cura della: Comunità del sito di “Impero Romano d’Oriente 330-1453 la sua storia” www.imperobizantino.it
Transcript

ΠΟΡΦΥΡΑ da un’idea di Nicola Bergamo

“Saranno come fiori che noi coglieremo nei prati per abbellire l’impero d’uno

splendore incomparabile. Come specchio levigato di perfetta limpidezza, prezioso ornamento che noi collocheremo al centro del Palazzo”

La prima rivista on-line che tratta in maniera completa il periodo storico dei Romani d’Oriente

Anno 2004 Ottobre numero 3

L’Impero di Giustiniano 527-565

a cura della:

Comunità del sito di “Impero Romano d’Oriente 330-1453 la sua storia”

www.imperobizantino.it

Indice

• Prefazione

a cura di Nicola Bergamo pag 3-5

• R Helen C. Evans, et al., Byzantium: Faith and Power (1261–1557), 2004. Catalogo della Mostra "Byzantium: Faith and Power (1261–1557)", The Metropolitan Museum of Art, New York, 23 Marzo–4 Luglio, 2004: 680 pagine, 772 illustrazioni a colori, 141 b/n. a cura del Prof. Gianclaudio Macchiarella pag 6-15

• Giustiniano e i Papi

a cura di Vito Sibilio pag 15-39

• Bisanzio en España a cura di Rolando Castillo (in Spagnolo) pag 40-64

• Un mercante dell’Italia Settentrionale al tempo di Giustiniano a cura di Enrico Pantalone pag 65-81

• San Michele in Acerboli ricostruzione 3d a cura di Carlo Valdameri pag 82-92

• La monetazione bizantina in età Giustinianea a cura di Gianluca Galoppo pag 93-106

• Echi di propaganda giustinianea in un contacio di Romano il Melodo (n°54 Maas-Trypanis) a cura di Luigi Silvano pag 107-120

• Belisario a cura di Andrea Frediani pag 120-125

Tutto il contenuto di questi articoli è coperto da copyright © chiunque utilizzi questo materiale senza il consenso dell'autore o del webmaster del sito, violerà il diritto e sarà perseguibile a norma di legge.

Non sono permessi copiature e neppure accorgimenti mediatici (es link esterni che puntano questo sito)pena

la violazione del diritto internazionale d'autore con conseguente reato annesso.

Prima frase sotto il titolo proviene da : (da Il libro delle Cerimonie Costantino Porfirogenito edito da Sellerio Editore Palermo a cura di Marcello Panascià)

2

Prefazione : Giustiniano e il suo tempo

di Nicola Bergamo

Chi studia la storia bizantina non può che ammirare questo importante Imperatore. Flavius

Petrus Sabbatius Iustinianus nacque a Tauresium nel 483 morì a Costantinopoli nel 565.

Nipote dell’imperatore Giustino divenne ben presto suo collaboratore, cosi importante da

decidere gran parte della politica dello zio, gli succedette al trono nel 527. La sua biografia è

molto conosciuta, non a caso Giustiniano è l’Imperatore dei Rhomaioi più conosciuto da tutti,

sarà perché tenta quello che ormai era solo un sogno utopico, la riconquista dell’Occidente e

quindi dell’Italia, sarà per il suo attivissimo lavoro in campo giuridico che con la promulgazione

Domini Nostri Sacratissimi Principis Iustiniani Codex, sarà per la sua renovatio imperii che

permette una politica di ricostruzione completa di molte opere pubbliche che possiamo

ammirare ancora oggi. Insomma Giustiniano, era sia soldato, che avvocato, che architetto, un

Grande insomma, con la G maiuscola, ed è per questo che abbiamo deciso di dedicargli un

numero monografico solo per il suo periodo, che ricopre nella storia di Bisanzio quasi un

secolo. Non potendo abbracciare interamente, ci siamo limitati a vari punti che i nostri valenti

autori hanno ben esposto e trattato in maniera dettagliata.

Nella nostra “Bisanzio Contemporanea: guida al fascino di Bisanzio ai giorni nostri”, appare in

questo numero, una recensione scritta per la rivista dal Prof. PierClaudio Macchiarella, Docente

presso l’Università di Ca’ Foscari a Venezia, sulla interessantissima mostra al Metropolitan di

New York chiamata “Byzantium Faith and Power 1261-1557” che tratta del cambiamento

avvenuto dopo la quarta crociata e che ha portato all’emorragia delle opere d’arte, da Bisanzio

verso il resto del mondo (specialmente slavo) influenzandolo in maniera ancora più marcata.

Questa pubblicata è solo la prima parte di questo articolo che finirà nel prossimo numero, un

motivo in più per aspettare il nostro prossimo lavoro.

Nel periodo Giustinianeo che abbiamo preso in considerazione in questo numero, non poteva

mancare l’eterna diatriba tra il potere politico e religioso, quindi tra “Giustiniano e i Papi” un

articolo scritto da Vito Sibilio, che descrive le varie fasi che sono intercorse tra Bisanzio e

Roma. L’imperatore infatti, fervente ortodosso, riconosceva solo una chiesa e fece di tutto per

mantenerla unita, abbandonò la politica religiosa dei suoi predecessori, Anastasio soprattutto,

3

per dedicare tutta la vita all’ortodossia. L’unione poi tra Occidente ed Oriente, avvenuta con la

riconquista compiuta, portò maggiori problemi che Giustiniano cercò di risolvere. In questo

articolo molto interessante, troverete vari spunti per interpretare la politica religiosa di quegli

anni.

Rolando Castillo, scrive in lingua castigliana, ciò che fu la Spagna Bizantina. Dalla riconquista

di Giustiniano, alla sua definitiva caduta dopo Eraclio. L’articolo è ricco di mappe e viene diviso

in quindici parti, partendo dalla fine dell’amministrazione romana, si arriva alla fine

dell’amministrazione bizantina, passando per l’organizzazione della provincia, l’organizzazione

delle città, e dei vari fatti che sconvolsero l’impero, come la guerra con la Persia che continuò a

drenare risorse e uomini dai confini delle remote province iberiche.

Ma come abbiamo già detto prima, Giustiniano si occupò della riforma totale del codice che

governava l’impero, Enrico Pantalone ci racconta, immaginando la vita di un semplice

mercante, come fosse la vita nel VI° Secolo grazie a queste nuove leggi. Leggeremo di Ippolito

e della sua famiglia che vivono nel Nord Italia appena riconquistato, passando per i suoi figli,

per il suo commercio e addirittura per i suoi schiavi.

Carlo Valdameri invece, ci illustra, grazie ad una notevole ricostruzione tre-di, come poteva

apparire la chiesa di S.Michele in Acerboli vicino Rimini nel periodo giustinianeo. Vengono

analizzate le parti inerenti alla documentazione che testimonia l’esistenza della chiesa già dal

VI° Secolo, ai cambiamenti avvenuti negli anni, alla ricostruzione grafica finale.

Bisanzio era la città più ricca, e durante il periodo giustinianeo forse lo fu maggiormente, la

moneta d’oro sorella del solidus romano, era la moneta che più rappresentava questa ricchezza

aurea di cui godeva l’impero. Gianluca Galoppo ci farà addentrare nel non facile studio della

monetazione bizantina, attraverso le monete d’oro e d’argento, le monete di bronzo e

l’iconografia monetale (con le varie immagini dei diversi imperatori raffigurati). Un percorso

davvero interessante, soprattutto perché nuovo e non sempre facile da intuire.

Arriviamo alla ben conosciuta rivolta di Nika che Luigi Silvano ci spiega nel dettaglio gli

avvenimenti basandosi su Romano il Melodo, il maggior innografo del tempo. In questo articolo

troverete come questo grande storico romeo, esaltò la grandezza del Principe Cristiano nella

4

ricostruzione degli edifici distrutti e riuscì ad assolverlo per la brutalità con la quale diede fine

alla rivolta.

Ma un numero monografico su Giustiniano, non poteva non avere un contributo su Belisario, il

più grande generale di quel periodo, amico-nemico del suo Imperatore. Andrea Frediani,

storico conosciuto per la sua grande esperienza nel campo militare romano, traccia un succinto

profilo di questo grande personaggio. Dalle sue alterne vicende all’inizio di carriera, alla

sfavillante vittoria in Nord Africa e ai continui problemi con l’imperatore, Belisario viene

descritto sotto ogni punto di vista, ma principalmente quello umano e quello militare.

Spero che questo numero possa piacere come hanno già fatto i numeri precedenti e che possa,

il pubblico che ci legge, trovare tutto quello che stava cercando da molto tempo nell’universo

del web.

Nicola Bergamo

[email protected]

5

“Bisanzio Contemporanea: guida al fascino di Bisanzio ai giorni nostri” Helen C. Evans, et al., Byzantium: Faith and Power (1261–1557), 2004. Catalogo della Mostra "Byzantium: Faith and Power (1261–1557)", The Metropolitan Museum of Art, New York, 23 Marzo–4 Luglio, 2004: 680 pagine, 772 illustrazioni a colori, 141 b/n.

A cura di Gianclaudio Macchiarella

N.B.: Il sito web del Museo newyorkese ospita un eccellente catalogo “virtuale” della Mostra, ricco di testi e illustrazioni tratte degli oggetti esposti e trattati nel Catalogo a stampa (che qui si commenta), al seguente indirizzo: http://www.metmuseum.org/explore/byzantium_III/home.html L’appellativo di “Costantinopoli, nuova Roma” – tutt’oggi presente nella definizione della sede

del Patriarca della Chiesa greco-ortodossa – fa riferimento alla continuità dell’impero romano

nelle terre del bacino orientale del Mediterraneo ed oltre. Ma, agli inizi dell’Umanesimo, ben

prima della conquista turca di Costantinopoli (1453), le origini piuttosto greche (anzi elleniche)

che romane dell’intera civiltà spirituale ed artistica che sarà tramandata sotto il nome ben più

tardo di “Bisanzio” (attribuitogli da un bibliotecario tedesco nel 1557, dal nome della colonia

greca presso la quale Costantinopoli fu fondata da Costantino nel 322), saranno sottolineate ed

enfatizzate dalle eminenti personalità intellettuali che portarono in Occidente, al sorgere del

Rinascimento, il determinante contributo della grecità, quali Giorgio Gemisto Pletone (1360-

1452), il cardinale Bessarione (1403-1472) e lo stesso imperatore Giovanni VIII Paleologo.

Tutti si autodefiniscono e si sentono profondamente “Elleni”. Come opportunamente sottolinea

la Evans, riprendendo una nota citazione di Vryonis, nella sua introduzione al voluminoso e

complesso catalogo della Mostra “Bizanzio: Fede e Potere, 1261-1557”, New York, Metropolitan

Museum of Arts (23 Marzo 2004–5 Luglio, 2004)

http://www.metmuseum.org/special/Byzantium/byzantium_main.asp, netta e chiara è la presa

di posizione degli intellettuali bizantini che portarono il verbo della grecità in Occidente:

“Noi, che Tu guidi e reggi, siamo ellenici per razza, come la nostra lingua ed educazione dimostrano”.

Con queste parole Giorgio Gemisto Pletone, riprendendo il filo conduttore della “riconquista” paleologa

6

dopo la caduta del Regno Latino di Costantinopoli, si rivolgeva al proprio imperatore Giovanni

Paleologo1.

In tal modo, il retaggio imperiale “romano” su Bisanzio sfumava e si appannava all’eco terribile

e mai sopita dell’occupazione latina di Costantinopoli (1204-1260), la chiesa orientale si

separava in modo definitivo da quella occidentale (nonostante i numerosi ed infruttuosi

tentativi di riconciliazione succedutisi nel primo quarto del ‘400) radicandosi nella sua “neo-

grecità”, come chiameremmo il profondo mutamento di indirizzo culturale che il pensiero e

l’arte bizantina mostrano a partire, quanto meno, dall’età dei Paleologi.

Le conseguenze sul piano storico ed artistico di questo ampliamento d’orizzonti, non soltanto

sull’Occidente ma anche e soprattutto nei mondi slavo, balcanico e caucasico sono

fondamentali e segnano la trasformazione di una civiltà, quella appunto bizantina, che nel

perdere progressivamente e lentamente ma inesorabilmente il proprio centro di gravità

temporale (Costantinopoli), ne assume un altro, puramente spirituale, ideologico e artistico

innanzi tutto e quindi inespugnabile e inattaccabile, che caratterizza una οἰκουµένη ‘orientale’

colorata e diversificata in ‘nationes’ o etnie religiose, ognuna delle quali reclama, di volta in

volta, la leadership delle chiese orientali e la legittimità del retaggio “ellenico” nella civiltà

bizantina, sino ai nostri giorni.

L’aspetto artistico di tale trasformazione è non meno importante di quello ideologico ed anzi,

sotto molti aspetti, ne costituisce l’asse portante e la giustificazione2. La dispersione delle sacre

reliquie costantinopolitane e di icone di alto valore simbolico, avvenuta alla caduta del regno

latino prima e dopo la conquista ottomana di Costantinopoli poi, il sorgere e il diffondersi di

nuove iconografie trasmesse da Costantinopoli stessa o dai grandi centri monastici e di

pellegrinaggio dell’epoca (come il Monastero di S. Caterina sul Sinai, i monasteri di Meteora in

1 Setton, K., "The Byzantine Background to the Italian Renaissance", Proceedings of the American Philosophical Society, 100:1, 1956, pp. 1-76). 2 Sull’argomento, questi sono i testi “classici”: Weitzmann, K., "The Classical Heritage in the Art of Constantinople” (ristampa di "Das klassiche Erbe in der Kunst Konstantinopels", in Alte und Neue Kunst, 3 (1954), pp. 41-59; Kleinbauer, W.E., The Art of Byzantium and the Medieval West. Selected Studies by Ernst Kitzinger, Bloomington-London , 1976; Kitzinger, E., "The Hellenistic Heritage in Byzantine Art Reconsidered", XVI. Internationaler Byzantinisten kongress, Akten. I. Teil, Hörandner,W., Ed., Wien, 1981, pp. 657-675; Kitzinger, E., Byzantine Art in the making: main lines of stylistic development in Mediterranean Art, 3rd-7th century. Cambridge, MA: Harvard University Press, 1977; Mullet, M. and Scott, R., Eds., Byzantium and the classical tradition, University of Birmingham, Thirteenth Spring Symposium of Byzantine Studies 1979, Birmingham, Centre for Byzantine Studies, 1981;Mango, C., “Discontinuity with the Classical Past in Byzantium”, rist. in Mango, C., Byzantium and Its Image, essay III, London, 1984, pp. 48—57.

7

Grecia3 e soprattutto da quel grande complesso di monasteri della Calcidica annidati sulle

pendici del Monte Athos, fortemente rappresentativo di tutte le tendenze dell’orbe bizantino4),

tutto contribuisce al fiorire di una stagione nuova nell’arte dell’Oriente cristiano che è

nostalgica e conservatrice per costrizione e condizione storica e innovativa per l’intrinseca

natura dell’esperienza estetica che inaugura ed elabora su terre e in contesti culturali

disparati5.

Ci sembra questa la premessa necessaria per spiegare e sottolineare l’importanza di questa

mostra che ha visto sfilare, nei quattro mesi di apertura, migliaia e migliaia di visitatori,

certamente un po’ disorientati di fronte all’immane quantità di opere d’arte, d’ogni genere,

dimensione e provenienza, che è stata raccolta, con la metodicità e l’acume di specialisti d’ogni

parte del mondo.

Impresa davvero titanica, questa, proprio per le ragioni che abbiamo addotto nell’introduzione

e che hanno a che fare anche con l’organizzazione e distribuzione interna del Catalogo della

Mostra, di cui vogliamo qui commentare alcuni aspetti, piuttosto che soffermarci sui contenuti

stessi della Mostra che porterebbero, inevitabilmente, allo smarrimento anche del lettore più

avveduto, proprio per l’estrema eterogeneità dei materiali esposti. Dei contenuti tratteremo

invece, indirettamente, attraverso i riferimenti contenuti nei saggi medesimi.

Vale la pena, invece, a nostro avviso, soffermarsi sulla ‘struttura’ stessa del Catalogo che, nel

riflettere l’approccio concettuale alla complessa tematica da parte degli organizzatori, fa

proprio uno schema editoriale convincente, già applicato in passato a molte altre mostre di

grande respiro come questa (come il suo stesso immediato antecedente al Metropolitan, “The

Glory of Byzantium”, 1997, concentrata sul periodo che va dalla fondazione di Costantinopoli

alla conquista crociata e il cui catalogo si deve alla mente della medesima curatrice di questo

secondo catalogo, Helen C. Evans): cioè la struttura a saggi tematici affidati a esperti del

settore, con rimandi interni a schede di catalogo relative agli oggetti e ai manufatti in

3 Rigo, A., La 'Cronaca delle Meteore’: La storia dei monasteri della Tessaglia tra XIII e XVI secolo, Leo Olschki Ed.,1999, VIII. 4 Mylonas, P.M., Bildlexikon des Heiligen Berges Athos: Atlas der zwanzig souveränen Klöster, Dt. Archäologisches Inst, Tübingen-Wasmuth-Berlin, 2000; Bryer, A. and Cunningham, M. edd, Mount Athos & Byzantine monasticism, Aldershot, 1996. 5 Ierodiakonou, K., Byzantine Philosophy and its Ancient Sources, Oxford, Clarendon Press, 2002.

8

esposizione, corredate da bibliografia e discussione critica della datazione e delle attribuzioni e

con considerazioni aggiuntive sullo stato di conservazione dei medesimi.

In questo modo il visitatore – che dovrebbe avere avuto a disposizione per lo meno una

settimana da dedicare ad una visita non frettolosa della Mostra tanto vasta e complessa questa

si presentava – integrando notizie e commenti desunti dal catalogo con l’osservazione diretta

delle opere potrebbe finalmente aver elaborato una visione non parziale né frammentaria di un

fenomeno culturale ed artistico assolutamente unico che costituisce il tema centrale della

Mostra: quello del “neo-ellenismo” dell’arte bizantina ‘matura’, concetto storiografico che mal

collima, a dir il vero, con il titolo stesso della Mostra, troppo generico, poco incisivo ma certo di

facile, troppo facile ‘presa’ come quello prescelto di: “Bisanzio: Fede e Potere”. Che gli oggetti

artistici esposti rispondessero tutti, quali più quali meno, a motivazioni di fede religiosa e/o di

potere politico e ideologico è infatti argomento troppo tautologico e abusato per l’arte

bizantina, dal momento che sarebbe applicabile a qualunque altro periodo dell’arte bizantina,

trascurando (e oscurando) proprio il punto centrale e più significativo che questa Mostra ha

così significativamente contribuito a chiarire: cioè il ritorno, nell’epoca presa in considerazione,

ad un Antico – che chiameremmo volentieri “Neoellenismo” – così “remoto” e idealizzato da

prestarsi ad una sostanziale liberazione dagli schemi del passato più o meno recente e ad una

spinta innovativa che andrà di pari passo con i movimenti letterari6 e spirituali della nuova età

(soprattutto con l’Esicasmo7) e, parallelamente, con le nuove realtà culturali regionali che si

affacciano sulla scena delle regioni della tarda età bizantina e post-bizantina (Balcani, Russia,

Creta, Cilicia, sino all’Italia del primo Umanesimo).

A precisare cosa esattamente significasse questo movimento estetico e culturale che

caratterizza l’età paleologa e che chiamiamo”neoellenismo”, contribuisce senz’altro il saggio di

A.M. Talbot – una delle massime esperte del campo (Revival and Decline: Voices from the

Bizantine Capital) - quando opportunamente cita un passaggio di una nota lettera di Teodoro

Metochite – lo studioso e uomo di governo che aveva rifondato la chiesa del Monastero di

Chora a Costantinopoli, con annessa cappella funeraria: “questo monastero ha significato per

6 Hunger, H., Die hochsprachliche profane Literatur der Byzantiner, Munich, 1977, 2 Voll. 7 http://www.fordham.edu/halsall/source/hesychasm1.html

9

me più di qualsiasi altra cosa al mondo…è stata un’opera di nobile amore per le cose buone e

belle che assicurano benefici e ricchezze spirituali”.8

L’estetica della consonanza tra bello e giusto – che assomiglia, tanto da identificarsi, con

l’ellenico ideale del καλός και αγαθός – è la grande novità della nuova età e la sostanza più

intima del “neoellenismo” bizantino. Tanto più che questo messaggio si associa a quello dello

splendore non della Roma né della Grecia antiche, ma della tradizione prettamente

costantinopolitana, fatta della sacrale bellezza dei suoi monumenti, amorevolmente restituiti al

loro antico splendore - laddove le distruzioni dei Crociati non erano state tali da rendere

impossibile tale operazione - sin dall’indomani della “riconquista” paleologa, a cominciare

proprio da S. Sofia e dai più insigni monumenti della prima età bizantina9.

A questo ideale sono sensibili i numerosi pellegrini che da ogni parte del mondo cristiano

visitano Costantinopoli, per le sue preziose reliquie e per i suoi monumenti (Stefano da

Novgorod, tra gli altri, intorno alla metà del XIV sec.)10, ma anche gli arabi (Ibn Battūta, ca.

1332) che possono usufruire per le proprie pratiche religiose di ben due moschee, di cui una, la

più importante, interamente ricostruita (a seguito delle distruzioni operate dai Crociati) a spese

dell’imperatore Michele VII, e poi gli italiani (fiorentini, veneziani, pisani, genovesi e ragusani)

e gli spagnoli.

Il saggio della Talbot contribuisce dunque a fornire, con buona approssimazione, il clima

cosmopolita della Costantinopoli paleologa. Ma non c’è dubbio che tal clima aveva

caratterizzato, sia pure in misura meno rilevante, anche la Costantinopoli dell’età dei Dukas e

degli Angeli (fine XII sec.) e finanche il regno crociato, ma l’elemento più innovativo,

giustamente messo in evidenza dalla studiosa, emerge dalla volontà e determinazione di ben

tre imperatori bizantini di effettuare viaggi in Occidente (Giovanni V a Roma per convertirsi al

cattolicesimo, Manuele II in Italia, a Parigi (con la famosa visita a St. Denis) e a Londra tra il

1399 e il 1402 per ragioni politiche di alleanza antiottomana e Giovanni VIII che partecipò,

8 Featherstone, Jeffrey M., Theodore Metochites´ Poems "To Himself". Introduction, Text and Translation. Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaften, Austrian Academy of Sciences Press, Wien, 2003. 9 Il revival delle età d’oro di Costantino e di Giustiniano - che giunge finanche all’imitazione e al reimpiego di lastre di quelle epoche nei monumenti funebri (e non soltanto) d’età paleologa a Costantinopoli - è un fenomeno che è stato sinora solo molto parzialmente indagato e al quale fa giustamente riferimento in Catalogo anche l’autrice del saggio sulla scultura funeraria, Sarah Brooks, Cat., p. 99. 10 E anche: F. Antoine, Archev. de Novgorod., Le Livre du pélerin, dans les Itinéraires russes en Orient, Genève, 1889,1.

10

com’è ben noto, al Concilio di Ferrara/Firenze nel 1438-39) abbandonando in tal modo l’antica

visione di un imperatore bizantino “statico” e monolitico nel suo palazzo costantinopolitano a

ricevere ambascerie e ad inviarne, ma senza mai porsi in viaggio personalmente.

Riconoscimento implicito della policentricità dell’Europa tardo medievale e,

contemporaneamente, dell’appartenenza di Bisanzio al destino comune dell’Occidente cristiano

nei confronti dei popoli dell’Islam.

Questa tarda stagione dell’arte bizantina è stata vista bene spesso e contrariamente a quanto

si è andati dicendo finora, come un epilogo di civiltà, caratterizzato da “eclettismo nostalgico”

(S. Ćurčič, “Religious Settings of the Late Byzantine Sphere”, Cat., pp. 65-94). Particolarmente

nell’architettura questa interpretazione si mostra superficiale ed incoerente e il saggio di Ćurčič

contribuisce, nei limiti obiettivi dello spazio dedicato a questo capitolo, a sfatarla.

Lo studioso tende a ridimensionare il ruolo di Costantinopoli nello sviluppo delle nuove tipologie

architettoniche, osservandone il carattere pur sempre conservativo e la relativa modestia degli

interventi effettuati nell’arco di tempo considerato (dal 1261 al 1453 ca.) soprattutto su

commissione delle famiglie aristocratiche della capitale (monastero di Costantino Lips=Fenari

Isa Cami11, parecclesion della chiesa della Vergine Pammakaristos=Fethiye Cami12 e

soprattutto il parecclesion della chiesa del monastero di Chora=Kahriye Cami13. Ćurčič punta

piuttosto a sottolineare la rilevanza storica delle “scuole locali”, fiorite al di fuori di

Costantinopoli e spesso sotto l’impulso di dinastie di regnanti imparentati con o sotto il potente

influsso della corte imperiale. Questo è il caso della scuola macedone (con il suo forte centro di

gravità su Salonicco), della scuola epirota (attiva principalmente ad Arta, basti ricordare quello

straordinario ed “eccentrico” monumento che è la chiesa della Panaghia Parigoritissa), della

grande scuola serba (attiva soprattutto nella regione del Kosovo, da Studenica a Prizren, a

Gračanica e infine Dečani). A quella fiorita nella Grecia continentale (Meteora) e nel

Peloponneso (Mistrà). Agli importantissimi monumenti di Ochrida (Ohrid), nella attuale

Repubblica ex-yugoslava di Macedonia, Ćurčič riserva una significativa trattazione (S.

Clemente, S. Sofia e l’intervento di frescanti di eccezionale qualità come Astrapas),

presentando l’attività architettonica di quella chiesa autocefala, a partire dalla fine del XIII

11 http://www2.arch.uiuc.edu/research/rgouster/churches/fenari/fenari.html 12 http://www.unf.edu/classes/byzantium/istanbul2002/pammakaristos/ 13 http://www2.arch.uiuc.edu/research/rgouster/churches/kariye/kariye-html.html

11

sec., come quella di una scuola “parallela”, per importanza e livello qualitativo delle opere, alla

scuola di Salonicco. A nostro modo di vedere, invece, la scuola di Ochrida, nata sotto il forte

stimolo e il contributo diretto di maestranze costantinopolitane, è legata al contesto culturale

epirota-illirico al quale fornisce peraltro il magistero di una scuola di costruttori e di pittori

(parietale e su tavola) di grande rilevanza, ma ancora tutto da scoprire e precisare nei suoi

lineamenti principali. Infatti, agli importanti monumenti bizantini dell’Albania meridionale e

centrale (la chiesa del monastero di Mesopotamos, X-XIV sec. [figg. 1, 2, 3], la chiesa della

Dormizione a Labova, XI-XIV sec. [figg. 4, 5, 6] e le numerose e riccamente affrescate chiese

di Berat) il catalogo non dedica alcuna attenzione e neppure una scheda, nemmeno nell’ambito

della pittura su tavola ove la scuola albanese ha certamente dominato la scena della pittura

bizantina nei Balcani meridionali per almeno un paio di secoli (XIV-XV sec.), con importanti

ramificazioni sino in Bulgaria e Moldavia.

Figura 1

12

Figura 2

Figura 3

13

Figura 4

Figura 5

14

Figura 6

Recensione di Gianclaudio Macchiarella, Università “Ca’ Foscari” di Venezia.

15

GIUSTINIANO E I PAPI DEL SUO TEMPO tra teologia e politica

a cura di Vito Sibilio

La definizione esatta del ruolo che Flavio Pietro Sabbazio Giustiniano, imperatore romano

d’Oriente col nome di Giustiniano I dal 527 al 565, svolse nei confronti della Chiesa Cattolica è

ancora oggi oggetto di discussioni, e probabilmente lo sarà per sempre. Gli aspetti

contraddittori del suo operato hanno spinto critici e storici ad operare riduzioni arbitrarie e

semplificazioni, se non addirittura unilateralizzazioni, per accreditare la fisionomia del Βασιλέυς

ora incrollabile assertore del primato papale, ora fautore di una cristologia post-calcedonese,

ora fedele ad oltranza alla tradizione patristica, ora addirittura eretico in quanto aftartodoceta.

A questa girandola di posizioni assunte nella politica ecclesiastica sarebbero corrisposte

altrettante diverse ispirazioni: la preoccupazione dell’unità canonica e poi dogmatica della

Chiesa imperiale, l’asserzione rigida del giurisdizionalismo religioso proprio della tradizione

giuridica e politica dell’Impero romano, lo scivolamento costante verso posizioni sempre più

orientaleggianti di dispotismo teocratico. Il tutto condito dalle caratteristiche peculiari del suo

carattere e della sua vita, ovviamente diversamente valutabili: il piacere di essere eminenza

grigia dello zio Giustino I, la passione conflittuale che lo legava all’avvenente moglie Teodora –

che dava un sapore carnale anche alle più rarefatte dispute teologiche che lo opponevano alla

consorte – l’indubbia versatilità politica, l’ampiezza di vedute strategiche con relativi generosi

errori, l’indole autoritaria, l’amore per la teologia – della quale di volta in volta fu considerato

un dilettante o un esperto – la natura imperiosa ma, paradossalmente, influenzabile. Questa

pluralità di caratteristiche ha implicato uno sforzo dei posteri di fissare in modo univoco il suo

ricordo. Così ha per esempio tratteggiato la sua figura Dante nel VI Canto del Paradiso:

Cesare fui e son Iustiniano, Che, per voler del primo amor ch’ì sento, dentro le leggi trassi il troppo e ‘l vano.

E prima ch’io all’ovra fossi attento, una natura in Cristo esser, non piùe, credea, e di tal fede era contento; ma il benedetto Agapito, che fue sommo pastore, a la fede sincera

mi dirizzò con le parole sue. Io li credetti; e ciò che ‘n sua fede era,

vegg’io or chiaro sì, come tu vedi ogni contradizion e falsa e vera.

16

Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, a Dio per grazia piacque di spirarmi l’alto lavoro, e tutto ‘n lui mi diedi; e al mio Belisar commendai l’armi,

cui la destra del Ciel fu sì congiunta, che segno fu ch’ì dovessi posarmi14.

Il sommo poeta fissava così, entro la rassicurante cornice del saggio legislatore, modello

dell’imperatore ideale, la figura del personaggio storico a cui, nella finzione poetica, aveva

affidato il compito di esaltare il ruolo dell’Imperium, duramente minacciato dalla decadenza dei

tempi. Aveva inoltre accolto la leggenda che faceva del sovrano un eretico convertito dal papa

stesso. In un certo senso, aveva affermato che ai suoi tempi i due Soli, ciascuno nel suo

ambito, avevano svolto in modo armonico il loro ruolo. Ma non c’era niente di più falso.

Mai, nella storia della Chiesa Antica Indivisa, un imperatore esercitò un ruolo così

preponderante nella vita religiosa. E questo ovviamente lo portò a confrontarsi dialetticamente

con la Sede Apostolica, e nei momenti di scontro, caso unico nella storia, vinse lui, senza che

le generazioni successive ne condannassero l’operato. Che significato ha tutto ciò?

Il complesso rapporto tra Giustiniano e il papato inizia sin dai tempi dell’impero di suo zio

Giustino I il Vecchio (518-527), fondatore della Dinastia trace15. Questo anziano e capace

soldato fece del nipote il suo più intimo consigliere. Asceso al soglio imperiale dopo Anastasio

I, Giustino trovò ancora irrisolto l’ormai anacronistico Scisma Acaciano. Già Anastasio aveva

dovuto tener conto del crescente malumore della popolazione calcedonese contro la sua

politica in pratica filomonofisita, e ne aveva valutato il peso politico in relazione alla rivolta del

generale Vitaliano (513-515), a cui aveva fornito più di un pretesto. Sul trono pontificio si era

intanto insediato sant’Ormisda (514-523)16, una figura di presbitero insigne per il suo raro

equilibrio, approdato ai sacri ordini durante la vedovanza, desideroso anch’egli di riprendere

l’iniziativa sullo scacchiere orientale dopo l’empasse della politica del predecessore san

Simmaco (498-514), assorbito dalla lotta con l’antipapa Lorenzo (498-499; 501-506),

14 DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia – Paradiso VI, 10-27, a cura di N.SAPEGNO, Firenze 19853. 15 Cfr. su di lui A.A.VASILEV, Iustin the First. An Introduction to the Epoch of Justinian the Great, Cambridge (Mass.) 1950. 16 Cfr. su di lui la trattazione in E.CASPAR, Geschichte der Papsttum, Tubinga 1930-1933, vol. II: Das Papsttum unter byzantinischer Herrschaft, 1933, pp. 129-192; in F.X.SEPPELT, Geschichte der Päpste, Monaco 1954-1959, vol . I, pp. 244-252; in J.N.D.KELLY, The Oxford Dictionnary of the Popes, Oxford 1986, pp. 150-152; più le voci in DCB 3, coll. 155-161; DTC 7, coll. 161-176; LThK 5, coll. 483 s.; NCE 7, 148; nell’Enciclopedia del Papato, a cura dell’Istituto dell’Enciclopedia Treccani, Milano 2000, vol. I.

17

considerato peraltro filobizantino. Anastasio inviò due lettere17 a Ormisda per invitarlo a un

sinodo da tenersi a Eraclea, e il pontefice di origine persiana gli dettò le condizioni per la

riconciliazione inviandogli una delegazione guidata dal colto vescovo di Pavia sant’Ennodio:

riconoscimento del Calcedonese e del Tomus Leonis, adesione agli anatemi contro Nestorio,

Eutiche e Acacio, nonché contro i successori e fiancheggiatori di quest’ultimo, sottoscrizione

della Formula Hormisdae e trasferimento dinanzi alla Sede Apostolica delle vertenze relative ai

vescovi deposti ed esiliati in seguito allo Scisma18. Ciò faceva chiaramente vedere che Roma

non aveva abbandonato la linea dura tradizionale, e dava ancora valore dottrinale ad una

disputa che in ultima analisi era sostanzialmente disciplinare, almeno per ciò che riguardava

l’aspetto tecnico della damnatio memoriae dei patriarchi di Costantinopoli coinvolti e ormai

morti da tempo. In realtà, Roma aveva ben chiara l’implicazione teologica della disputa: non

solo l’irreformabilità dei canoni dogmatici calcedonesi, sospesi abusivamente dall’Henotikon di

Zenone, ma anche la valenza del primato di Pietro, sia inteso come esercizio di magistero

supremo che come autorità giurisdizionale suprema. Solo a queste condizioni Ormisda poteva

accettare un concilio universale. Anche Anastasio aveva chiari i termini di questa questione, e

opponeva al primato di Pietro, che pur non negava di principio, le sue necessità politiche e il

suo ruolo sacrale di imperatore. Perciò la disputa non si risolse, nonostante un ulteriore

tentativo19. Il punto più indigeribile era senz’altro la Formula Hormisdae, che enunciava a

chiare lettere il primato petrino e poneva sullo stesso piano dogmatico sia il Sinodo di

Calcedonia che il Tomo a Flaviano di Leone I, equiparando gli anatemi degli eresiarchi

cristologici a quelli dei patriarchi di Costantinopoli, peraltro illegittimi dal punto di vista

romano, che negava la precedenza concessa a questo patriarcato sugli altri orientali proprio

dal concilio Calcedonese, col canone XXVIII20. Era, in sostanza, la sconfessione della teologia

imperiale, per cui il rango religioso di una città dipendeva da quello civile, e faceva della

dignità patriarcale una gratificazione non solo di origine apostolica, ma anche legata al soglio

imperiale e alla sua residenza. Non c’è da meravigliarsi se Anastasio rigettò il tutto.

17 Collectio Avellana = Epistolae Imperatorum, Pontificum, aliorum inde ab anno 367 usque ad annum 553 datae, a cura di O.GUENTHER, Vienna 1895-1898, nn. 107, 109. 18 Collectio Avellana, nn. 116 a, b; 115. 19 Collectio Avellana, nn. 126-134, 138. 20 Sulla Formula cfr. W.HAACKE, Die Glaubensformel des Papstes Hormisdas in acacian. Schisma, Roma 1939.

18

L’avvento di Giustino I e di suo nipote cambia tutto, in modo inedito. Il duo imperiale aveva

senz’altro una sincera convinzione calcedonese, e mirava alla riunificazione dell’Italia gotica

all’Impero. Le due cose andavano insieme: l’Impero poteva essere uno solo se una fosse stata

la fede, e la fede dell’Occidente era irrimediabilmente diofisita, oltre che fautrice del primato di

Pietro. Queste posizioni erano sempre più largamente condivise a Bisanzio, e la pressione

popolare convinse Giustino e Giustiniano a riallacciare la trattativa: prima ancora che Ormisda

potesse influire sulla Chiesa bizantina, i monaci calcedonesi, capeggiati dagli Acemeti,

organizzarono un tumulto che impose al patriarca Giovanni II (518-520) e al suo sinodo di

condannare l’Henotikon, di riconoscere Calcedonia e di rientrare in comunione col papa.

Giustino ratificò senza battere ciglio il decreto sinodale, e inviò una delegazione a Roma per le

trattative, accompagnata da lettere sue e di Giustiniano21. L’anziano imperatore aveva inoltre

già spontaneamente richiamato dall’esilio tutti i presuli calcedonesi esiliati perché ostili

all’Henotikon. Ormisda era in una posizione di forza notevole, e prese contatti non solo coi due

porporati, ma anche col patriarca e altri dignitari, preparando il terreno ad una nuova missione

diplomatica, latrice delle stesse proposte fatte ad Anastasio, compresa la Formula. Essa fu

sottoscritta da alcuni vescovi dei Balcani via via che i legati ne attraversarono le diocesi. A

Costantinopoli fu un vero trionfo: il 28 marzo 519, vinte alcune resistenze, i legati fecero

sottoscrivere a Giovanni II la Formula, tra le grida di giubilo del clero e del popolo22. E la

Formula, oltre ai riconoscimenti dogmatici di Calcedonia e del Tomo di Leone, implicava la

consegna postuma a Satana di Acacio, Eufemio e Macedonio, tutti patriarchi di Costantinopoli,

e addirittura degli imperatori Zenone e Anastasio I. La corte accettò tutto, senza battere ciglio.

Il patriarca tuttavia, sottoscrivendo la Formula, aggiunse una glossa in cui esprimeva la sua

gioia perché la prima e la seconda Roma avevano ritrovato l’unità, possedendo un eguale

rango primaziale. Ma probabilmente ciò si riferiva all’eguale status patriarcale, e in ogni caso

non era un’aggiunta né riconosciuta né dotata di peso politico. Il pontefice riconobbe il ruolo

che Giustino aveva avuto nella soluzione dello Scisma, e chiese un ulteriore sforzo per

restaurare l’unità interna della Chiesa egiziana23, gravemente minata dall’azione nefasta di

Severo di Antiochia, lì esiliato. Anche in questo, Giustino e Giustiniano si mostrarono ben

21 Collectio Avellana, nn. 160, 162. 22 Collectio Avellana, nn. 141-158; 213, 214; 223; 167. 23 Collectio Avellana, nn. 160-165; 168-170; 176; 225-227.

19

disposti, pur non concedendo la deposizione del metropolita acaciano di Tessalonica, Doroteo.

In effetti, anche in altri casi, il duo imperiale non potè o non volle applicare le condizioni

imposte da Roma con tutta la minacciosa rigidità richiesta da Ormisda, essendo serpeggiante

un certo malumore verso il pontefice. Questi allora incaricò il nuovo patriarca Epifanio di

eliminare i resti dello Scisma agendo in qualità di suo legato, calcando così la mano sulla

superiorità della prima Roma sulla seconda.

Ma perché Giustiniano e Giustino furono così acquiescenti con Roma ? Ovviamente essi erano

sinceramente calcedonesi e cattolici; altrettanto ovviamente cercavano l’unità dell’Impero, che

l’Henotikon aveva più profondamente minato, senza recuperare i monofisiti, e miravano

all’allargamento del consenso in Occidente. Del resto, il contegno di Giustiniano, che è la vera

testa pensante della politica religiosa del periodo, è chiaro: la soluzione alla divisione della

cristianità imperiale, giocata sulla cristologia efesino-calcedonese, e fondata sulla

contrapposizione etnica tra greco-romani e afro-asiatici, andava ricercata non contro i sinodi,

ma oltre essi, integrandoli così come essi si erano tra loro integrati. Ciò non era eterodosso, ed

era politicamente saggio e opportuno. Ciò che Giustiniano fece a proposito della Formula

Teopaschita è illuminante, come vedremo tra breve. In quest’ottica egli non teme il papato,

anzi ne ha bisogno, perché solo il suo primato può dare garanzia di ortodossia ai sinodi. D’altro

canto, il ruolo imperiale è ai suoi occhi altrettanto importante, perché la Chiesa è nell’Impero,

come in un involucro, e l’imperatore ha il diritto e il dovere di prendersene cura. E’ proprio alla

posizione imperiale che la Chiesa stessa deve riverenza.

Che Giustiniano avesse sin dall’inizio questa concezione, lo dimostra il fatto che da subito tentò

una nuova strada per la riconciliazione tra diofisiti e monofisiti, e che ritenesse la statio

imperatoris degna di un meritevole ascolto da parte della Sede Apostolica lo dimostra il diverso

contegno che tenne, prima e dopo la sua intronizzazione, nei confronti di questa nuova

soluzione.

Essa altro non è appunto che la citata Formula Teopaschita24. Essa fu proposta dai cosiddetti

monaci Sciiti (probabilmente Goti della Dobrugia), guidati da Massenzio, che era di formazione

latina. Essi avevano parteggiato per Vitaliano nella lotta contro Anastasio, e sostenevano di

24 Cfr. sull’arg. W.ELERT, Die theopaschitische Formel, in ThLZ 75 (1950), pp. 195-206.

20

poter sintetizzare tutta la cristologia di Calcedonia nella formula: Εĩς της Τριάδος παθών, Unus

ex Trinitate passus, Uno della Trinità ha sofferto (nella carne). Con questa frase, tutta la

dottrina calcedonese era sicuramente blindata da ogni inquinamento nestoriano; essa era

senz’altro ortodossa: Cristo, in quanto Dio, è della Trinità; è uno, perché distinto dalle altre

due Persone; soffre nella carne, perché la sofferenza è propria dell’umanità, ma la scelta di

volerla è della Persona, la quale è divina sia per il vincolo ipostatico sia perché la Divinità è

preesistente all’Incarnazione. Ma è altrettanto vero che una simile formula sarebbe suscettibile

di una interpretazione monofisita, specie se avulsa dal contesto dei canoni calcedonesi.

Giustiniano se ne innamorò subito, ma non credo – come sostiene H.G.Beck – che lo fece per

compiacere Vitaliano, ma piuttosto perché capì che in essa vi era la possibilità di riconciliare

Cattolici e Monofisiti.

In effetti, se il senso della terminologia teopaschita fosse stata autorevolmente fissata dal

magistero, essa sarebbe stata lecitamente adoperabile per la riunione delle Chiese, almeno di

quelle nell’Impero, essendosi i nestoriani rifugiatisi presso i Sasanidi. Del resto, anche la

terminologia degli Anatemi Cirilliani era, alla luce di quella calcedonese, eretica, e non a caso

era adoperata in senso monofisita dai Copti. Eppure nessuno aveva ripudiato il pensiero di

Cirillo, né tantomeno il dogma efesino, ma piuttosto lo si era precisato in un lessico tecnico

nuovo, alla luce del quale andava interpretata la Formula, con quel tanto di elasticità

necessaria per recuperare la cristologia monofisita in senso ortodosso.

L’idea giustinianea venne sottoposta a papa Ormisda con una personale difesa dell’ortodossia

della Formula25, ma il pontefice, come del resto i suoi legati, rigettarono la proposta di

adottarla ufficialmente. Ormisda non la condannò, come si è falsamente preteso in seguito, ma

capì che il rimaneggiamento cristologico possibile era troppo ampio ed era pericoloso, perciò la

escluse dalle professioni di fede.

Ma Giustiniano dovette confermarsi sempre più nella bontà delle sue idee, vedendo cosa

accadde dopo la fine dello Scisma: i monofisiti, non essendo più vincolati all’Henotikon,

rialzarono la testa, e la contestazione fu fortissima proprio nell’Illirico, sebbene esso fosse

parte del Patriarcato d’Occidente. In Siria i vescovi ortodossi poterono essere imposti solo con

25 Collectio Avellana, n. 196.

21

le armi, e in Egitto il partito monofisita era sempre coordinato da Severo di Antiochia.

L’imposizione sul soglio alessandrino di un legato papale, anche se copto, dimostrò come

Ormisda e Giustino I si illudessero sulla reale portata della Riunificazione delle Chiese: essa

riguardava solo gli ortodossi, e non certo i monofisiti. Di lì a poco, il patriarca calcedonese fu

rimpiazzato dal monofisita Timoteo III, che rinnegò la cristologia ortodossa e persino

l’Henotikon. Giustiniano dovette convincersi della necessità di una nuova cristologia che

integrasse quella di Calcedonia, senza rinnegare il concilio ma aiutando i monofisiti ad

accettarla. Evidentemente, Ormisda non era insensibile a questa chimera, ma si rendeva conto

che la possibilità oggettiva di perseguirla era al momento nulla: troppo accesi erano i contrasti

per appianarli con un lifting lessicale. Del resto il pontefice, che aveva del suo ruolo un

concetto altrettanto ampio di quello che Giustiniano aveva della dignità imperiale, mantenendo

i contatti con i presuli dell’Occidente, come Sallutio di Siviglia, Avito di Vienne, Cesario di Arles,

potè tastare il polso di tutta la Chiesa, e capire come lo sforzo di addomesticare la cristologia

calcedonese non era al momento utile in vista di una retta concezione cattolica della fede26.

Quanto la posizione del papato fosse delicata, si vide alla morte di Ormisda, con l’elezione di

san Giovanni I (523-526), un anziano e colto diacono amico di Boezio, e che passava per

filobizantino27. Con lui inizia una serie di pontefici dalla vita breve, che non poterono

fronteggiare le varie emergenze in cui si trovarono. Ma la politica ultraortodossa di Giustino I,

volta a contenere l’influenza ariana nella società bizantina, impaurì Teodorico, che sospettava

una convergenza politica tra i Romani e il papa da un lato e Bisanzio dall’altra. E com’è noto

inviò da Giustino Giovanni per persuaderlo a retrocedere dalla sua politica. Il papa recalcitrante

si recò a Costantinopoli, dove non ottenne nulla, tranne onori che mostravano

indiscutibilmente l’attaccamento del Bosforo alla Sede Apostolica. Le richieste teodoriciane

(fine delle persecuzioni antiariane, restituzione delle chiese agli ariani) furono accolte, tanto

più che moltissimi ariani si erano convertiti al cattolicesimo, e quindi non costava nulla

aderirvi. Ma la richiesta più importante – il diritto all’apostasia per chi si era convertito per

imposizione – il papa rifiutò di presentarla. Tanto bastò perché Teodorico, al ritorno di

26 Le lettere di Ormisda sono in Epistolae Romanorum Pontificum I, a cura di A.THIEL, Braunsberg 1897, nn. 9. 22. 24-26. 88. 142-143. 150. 27 Su di lui cfr. CASPAR II, pp. 182-192; DTC 8, coll. 593-595; NCE 7, coll. 1006 s.; SEPPELT 1, pp. 255-257; KELLY, pp. 153-155.

22

Giovanni, lo imprigionasse a Ravenna, causandone la morte mediante l’angosciosa attesa di un

destino tutt’altro che roseo28. Poco dopo morì anche il sovrano ostrogoto, e nel 527 anche

Giustino scese nella tomba. Ora iniziava l’impero giustinianeo.

Il nuovo monarca, ben consapevole della maestà del trono, iniziò un programma che

realizzasse gli obiettivi che aveva consigliato allo stesso zio. Nell’immediato non ebbe relazione

coi successori filogotici di Giovanni I, il sannita san Felice III (526-530) e il goto-romano

Bonifacio II (530-532), anche per il corto respiro della loro politica29. Forse l’imperatore guardò

con benevolenza all’antipapa Dioscoro (530), esule alessandrino, ma la sua morte prematura

restaurò l’unità della Chiesa Romana30. D’altro canto, forse per ritorsione per l’aperta politica

filogotica di Bonifacio – goto lui stesso – il monarca non impedì al patriarca bizantino Epifanio

di deporre il metropolita di Larissa, Stefano, sebbene appartenente alla giurisdizione del vicario

apostolico di Tessalonica, rappresentante del Papa. Questi accolse l’appello di Stefano e lo

trattò in uno dei suoi sinodi stagionali del 532, in cui diede ordine di reintegrarlo.

Alla morte di Bonifacio, il trono pontificio fu occupato dal cardinale presbitero di San Clemente,

Mercurio, candidato del re Atalarico. Egli assunse il nome di Giovanni II (533-535)31, e si

sforzò di mantenersi in equilibrio tra Ravenna e Costantinopoli. Con lui, Giustiniano tornò alla

carica per la Formula Teopaschita, resasi ancor più necessario a suo modo di vedere, per i

complessi sviluppi della situazione religiosa nell’Impero. Anzitutto, Giustiniano era sempre

dell’avviso che con i monofisiti moderati si poteva trattare. Inoltre, era cresciuta l’influenza di

Teodora a corte, grazie al prestigio da lei conseguito per il modo virile con cui aveva

fronteggiato la rivolta di Nika nel 532; e Teodora era monofisita. Inoltre l’imperatore iniziò a

richiamare dall’esilio vescovi e monaci monofisiti, sei dei quali, invitati nella capitale,

sottoscrissero dichiarazioni concilianti32 e si assoggettarono a un dibattito unionista (la Collatio

cum Severianis)33, ma non aderirono al concilio di Calcedonia – tranne uno – ribadendo la loro

convinzione che la terminologia sinodale era suscettibile di una lettura nestoriana. Giustiniano

sembra aver condiviso questa valutazione, e pubblicò una serie di editti dogmatici, in cui la

28 Sull’arg. cfr. H.LÖWE in HJ 72 (1953), pp. 83-100 e P.GOUBERT in OrChrP 24 (1958), pp. 339-352. 29 Su di loro CASPAR II, p. 151 s., 193-198; SEPPELT I, pp. 257-262; KELLY, pp. 156-157, 160-161. 30 Cfr. SEPPELT I, pp. 141.147.160; KELLY pp. 158-159. 31 Su di lui cfr. CASPAR II, pp. 217-219; SEPPELT II, pp. 263-265; KELLY, pp. 162-163; M.C.PENNACCHIO nell’Enciclopedia dei Papi, vol. I, pp. 499-503. 32 Cfr. E.SCHWARTZ, Kyrillos von Skythopolis, Lipsia 1939, p. 389 33 Se ne veda il resoconto di Innocenzo di Maroneia negli Acta Conciliorum Oecomenicorum, ed. E.SCHWARTZ, vol. IV, 2, 167-184.

23

cristologia calcedonese era sfumata e soprattutto “corretta” dalla formula teopaschita34. Segno

che l’imperatore, avvalendosi della sua rinnovata posizione di protettore della Chiesa, voleva

ritornare con ben altro cipiglio sulla questione, accantonata frettolosamente da Ormisda.

Non era la prima volta che gli imperatori si dilettavano di teologia: il fattore antropologico

precristiano che faceva del sovrano l’interprete dei divini disegni, e che risaliva alle origini della

concezione monarchico – universale nell’antica Mesopotamia, giustificava incursioni dottrinali

da parte degli Isoapostoli. Già Leone I aveva riconosciuto un lume speciale in Marciano.

Giustiniano dunque non faceva niente di nuovo, ma lo avrebbe fatto sempre di più. Il patriarca

Epifanio non ebbe da ridire sui decreti, ma i monaci acemeti sì, e organizzarono un tumulto,

per poi appellarsi al papa. Anche l’imperatore si rivolse a Giovanni, riconoscendo il suo primato

e spingendolo ad approvare il suo decreto. Giovanni lo fece in un sinodo, e dopo aver tentato

inutilmente di persuadere gli acemeti ad aderire ai suoi deliberata, li scomunicò come

nestoriani, impressionato probabilmente anche dal fatto che essi rifiutavano alla Vergine il

titolo di Theotòkos, perché ostili alla cristologia della communicatio idiomatum (23 dicembre

534). La lettera papale fu incorporata nei codici imperiali, e Giustiniano registrò con

soddisfazione che anche il papa aveva rintracciato obiettive convergenze tra gli Anatematismi

cirilliani e la Formula Teopaschita35.

Questa scelta politica di Giovanni II è stata assai discussa e criticata. Ma meriterebbe più

considerazione. Anzitutto non è una sconfessione di Ormisda. Inoltre, abbandonando le sue

pregiudiziali pastorali, tenta di proporre un compromesso che – smettendo di coprire il fianco

della cristologia calcedonese solo dal monofisismo – si cauteli dal nestorianesimo e recuperi in

qualche modo i monofisiti più sensibili. In effetti, c’erano molti più motivi pastorali per

recuperare i monofisiti severiani – assai numerosi – che di mantenere legami con dei

criptonestoriani come gli stessi acemeti dimostrarono di essere. Questi, con la loro ostinazione,

dimostrarono di essere attaccati, più che al sinodo di Calcedonia, all’interpretazione che essi ne

davano, avulsa dalla dottrina dei Concili precedenti. Infine, rilevando la convergenza tra la

terminologia cirilliana e quella teopaschita, sia Giovanni che Giustiniano dimostrarono di aver

compreso la rilevanza della questione lessicale, capace, una volta fissata in modo univoco, di

34 Codex Iustinaneus, ed. P.KRÜGER, 1906, I, 1, 6 e 7. 35 Collectio Avellana, ep. 84, 7-21; Codex Iustinianeus, I, 1, 8.

24

risolvere le controversie con una nuova sistemazione concettuale che non sembrasse ambigua

ai monofisiti rispetto a quella cristologia nestoriana che essi avversavano quanto i cattolici.

Infatti, non si poteva dare del monofisita anche a Cirillo, sebbene la sua terminologia fosse

stata adottata proprio da loro, e il retroterra teologico del Calcedonese era proprio la dottrina

di Efeso, codificata da Cirillo. Se dunque la sua terminologia era stata rigettata nella misura in

cui non era in grado di esprimere la sofisticata cristologia calcedonese, ma non era per questo

stata considerata eretica, a maggior ragione si poteva conservare quel lessico cirilliano che non

era in contrasto con essa, e ancor di più accogliere nell’olimpo delle dottrine ortodosse quelle

formule che lo riprendevano. Credo dunque che la scelta giovannea fosse assai meno

sprovveduta di quanto non si creda oggi, e riveli in quel papa una comprensione delle questioni

teologiche e della loro metodologia certo più profonda di quella dei successori.

Forte della comprensione del papa, Giustiniano portò avanti la sua politica conciliativa, e

richiamò dall’esilio Severo di Antiochia, e lo fece vivere a Bisanzio. Altri monofisiti godettero

della protezione dell’imperatrice. Nel frattempo, l’asceta Antimo, già vescovo di Trebisonda,

salì al soglio patriarcale bizantino, forse con l’aiuto di Teodora. Egli forse non era monofisita,

ma entrò in comunione con Severo, e riconobbe sia il patriarca ortodosso antiochieno Efraim,

ma anche quello monofisita alessandrino. Era un ecumenismo piuttosto imprudente per

l’epoca, che evidentemente non poteva avvenire senza il consenso di Giustiniano. Forse egli

voleva preparare il terreno per una progressiva riconciliazione delle fazioni, ma di fatto

restaurava l’ordine dell’Henotikon. E ben presto Giustiniano capì in quale empasse l’aveva

condotto la sua politica, ed ebbe bisogno ancora del papa per cavarsi d’impaccio.

Giustiniano aveva da poco attaccato l’Italia per liberarla dai Goti, e il re barbaro Teodato inviò

papa sant’Agapito I (535-536)36 presso il Bosforo per ottenere la pace. Agapito, già

arcidiacono, aveva una vasta cultura e una personalità brillante come quella di Ormisda, e la

stessa distaccata freddezza verso i Goti di Giovanni I. Ma non aveva nessuna intenzione di

essere servile con Giustiniano. Per esempio già nel 535 l’imperatore gli aveva chiesto di

trattare con maggiore indulgenza i preti ariani convertiti dell’Africa vandalica appena

riconquistata da Belisario, ma Agapito aveva ribadito ciò che aveva scritto ai vescovi cattolici

36 Cfr. su di lui O.BERTOLINI, nell’Enciclopedia dei Papi, vol. I, pp. 504-508; CASPAR II, pp. 199-229; SEPPELT I, pp. 265-269; KELLY pp. 164-166; DHGE 1,coll. 887-890; DBI 1, coll. 362-367; LThK 1, 182; NCE 1, col. 194 s.

25

della regione, e cioè che gli eretici non potevano essere riammessi alle funzioni sacerdotali,

perché era vietato dai canoni. Agapito, nel suo viaggio a Costantinopoli, si occupò poco della

Guerra Gotica, ma subito riaffermò le regole della convivenza ortodossa. Giustiniano, che si era

profuso nelle solite asserzioni di fedeltà al Papato, lo lasciò fare traendo vantaggio dalle sue

mosse. Anzitutto Agapito rifiutò la communicatio in sacris ad Antimo, perché già vescovo di

Trebisonda, e quindi illegalmente spostato – per la legge canonica dell’epoca – alla sede di

Bisanzio. In realtà, Agapito lo sospettava di monofisismo, e volle che un sinodo esaminasse la

questione. Resistendo a pressioni lusinghiere e minacciose, il pontefice non solo persistette

nelle sue richieste, ma in una pubblica disputa con Antimo ne smascherò l’eresia. Giustiniano

fece subito allontanare il patriarca illegittimo, colpendo al cuore – inter alia – il partito

monofisita di Teodora. Il nuovo patriarca, Menas, sottoscrisse un’ampliata formula di Ormisda.

Agapito morì il 22 aprile 536, senza aver potuto presiedere il sinodo, ma Giustiniano lo celebrò

lo stesso, ed esso assunse il carattere di un concilio generale. Non solo Antimo, contumace, fu

degradato, ma anche Severo di Antiochia fu nuovamente condannato, con il beneplacito

dell’imperatore, a richiesta di alcuni monaci palestinesi37. Nuovamente esiliato, Severo tornò in

Egitto. Il trionfo di Agapito, sebbene postumo, era completo, e Giustiniano poteva mandare in

soffitta quella strategia che, imperniata sul teopaschitismo, doveva recuperare i monofisiti. In

Siria, Efraim si adoperò per la conversione forzata degli eretici. In Egitto, il patriarca Teodosio,

creatura di Teodora, fu rimpiazzato da Paolo, eletto da Giustiniano. Egli sperava che le divisioni

tra i copti favorissero l’affermazione definitiva del Calcedonese, ma sbagliava. Non solo i Copti

rimasero monofisiti, anche se di vari indirizzi, ma addirittura Teodosio continuò a governare gli

eretici aiutato da Teodora e da Costantinopoli. A Bisanzio, il grande ispiratore della politica

imperiale, l’apocrisario apostolico Pelagio, che pur agiva da proconsole papale, non capiva che

l’imperatore andava maturando una nuova strategia unionista, sempre con lo stesso schema,

oltre e non contro Calcedonia, ma questa volta in modo più ardito: si preparavano i Tre

Capitoli. Con essi Giustiniano non si sarebbe limitato a reinterpretare la cristologia di

Calcedonia, ma ad integrarla.

37 Atti nella ACO III – Collectio Sabbatica, pp. 27-186; MANSI VIII coll. 873-1176.

26

Le mosse preliminari di quella che fu la più grande partita politico-ecclesiastica tra Impero e

Papato nell’età bizantina si giocarono agli estremi opposti dell’ecumene romano: in Italia e in

Palestina. A Roma, morto Agapito, Teodato intronizzò brutalmente il suddiacono Silverio (536-

537)38, figlio di Ormisda e favorevole ai Goti. Uomo di santa vita, poi canonizzato, pagò

l’irregolarità della sua elezione con quello che gli accadde. A Bisanzio l’apocrisario Vigilio39,

diacono di Agapito e predecessore del summenzionato Pelagio, aveva stretto un pactum

sceleris con Teodora, chiedendo il trono di Pietro in cambio del ripudio del concilio di

Calcedonia e della reintegrazione di Antimo40. Quando tornò in Italia, Vigilio, al seguito di

Belisario e delle sacre legioni bizantine, entrò in Roma, che capitolò per consiglio di Silverio.

Ma questi fu lo stesso accusato di intelligenza col nemico e deposto brutalmente e

ignominiosamente da Belisario, che lo spedì in Licia e fece intronizzare Vigilio, su mandato

segreto dell’imperatrice. Giustiniano, che non era affatto ostile a Silverio, lo fece ricondurre in

Italia per un’istruttoria più dettagliata, ma Vigilio e Belisario insabbiarono l’inchiesta e

relegarono il papa a Ponza, dove egli abdicò, e morì poco dopo. Da quella data, Vigilio (537-

555) era il papa legittimo, e pochi conoscevano i torbidi retroscena della sua ascesa al soglio.

Promise segretamente aiuti ad Antimo, guardandosi però dal rinnegare Calcedonia. Nel

contempo, però, manifestò pubblicamente all’imperatore la sua indiscutibile fede diofisita. Il

temporeggiatore astuto, abile ed esperto in tutti gli affari ecclesiastici, paradossalmente

ammanicato con cattolici e monofisiti, pensava forse di traghettare il suo papato

tranquillamente con questi espedienti. Ma a lui la Provvidenza impose l’onere di fronteggiare la

più esplicita offensiva dogmatica dell’imperatore teologo.

Egli ne fece le prove generali con la condanna di Origene, nel 54241. Inserendosi – in verità di

malavoglia – nella controversia tra origenisti e antiorigenisti della Nuova Laura di Palestina,

Giustiniano arrivò a decidere la condanna postuma del grande teologo, in un ennesimo

caleidoscopio di lotte e intrighi. In questa lotta ebbe probabilmente come alleato Pelagio, per

cui questa battaglia parve esser combattuta sotto le insegne della Sede Apostolica. Ma nel

balletto delle varie alleanze religiose, alcune figure erano state disegnate dall’imperatore con

38 Cfr. su di lui KELLY, pp. 167-168; CASPAR II, pp. 230-233; SEPPELT 1, pp. 270-273. 39 Cfr. su di lui KELLY, pp. 169-172; CASPAR, II, pp. 229-286; SEPPELT 1, pp. 270-290; DTC 15, coll. 2994-3005; LThK 10, col. 787 ss.; NCE 14, coll. 664-667. 40 Cfr. LIBERATO, Breviarium causae Nestorianorum et Eutychianorum, in ACO II, 5, p. 136. 41 Testo in PG LXXXVI, 1, 945-990; ACO III, pp. 189-214.

27

cavalieri non occasionali. Tra di essi vi era il monaco origenista Teodoro Askida. Entrato a corte

per difendere il suo maestro, Teodoro era divenuto un favorito dell’imperatore, che l’aveva

fatto metropolita di Cesarea di Cappadocia. Aderì probabilmente per opportunismo alla

condanna di Origene, ma la sua influenza a corte sarebbe continuata nefasta. Al decreto

dogmatico, acre e sarcastico, avevano aderito rispettosi tutti i patriarchi, compreso il papa

Vigilio. Giustiniano credette di aver trovato in lui l’interlocutore più acquiescente per

predisporre la riunione coi monofisiti. Ma si sbagliava. Vigilio avrebbe voluto essere

arrendevole, ma non poteva. E su questo distinguo si giocò l’ultima, drammatica fase del

rapporto tra Giustiniano e Roma.

L’imperatore aveva deciso di giocare un’ultima carta, per promuovere la riunificazione dei

monofisiti moderati alla Grande Chiesa, e probabilmente su questa strada lo spinse Teodoro

Askida, divenuto ormai il suo consigliere religioso. Tale strategia implicava la condanna dei

cosiddetti Tre Capitoli, ossia la Lettera di Iba di Edessa del 433, le opere di Teodoro di

Mopsuestia, e le opere polemiche di Teodoreto di Ciro contro Cirillo d’Alessandria. Ma andiamo

per ordine, cominciando dal più antico dei tre, Teodoro42. Questi, morto nel 428, era stato

maestro di Nestorio. Ovviamente, nella sua terminologia teologica, si ravvisavano quelle scelte

di fondo che avrebbero fatto condannare il discepolo. Egli parlava della natura divina di Cristo

come di quella che assume la natura umana, e quest’ultima era “inabitata” dalla prima. La

netta distinzione tra le due nature perfette implica tuttavia una loro unione non accidentale,

nel cosiddetto προσόπον, che però non è la υπόστασις calcedonese, ossia non è una persona

sussistente. In tal senso la cristologia teodoriana è eretica se giudicata col metro di

Calcedonia. E tale la consideravano i monofisiti. Anche dopo il concilio di Calcedonia Proclo di

Costantinopoli lo aveva condannato, ma né Giovanni di Antiochia né lo stesso Cirillo

Alessandrino avevano aderito. In difesa di Teodoro si era levato Iba di Edessa, nella sua lettera

al vescovo persiano Maris, in cui rigettava le condanne di Proclo e faceva le pulci alla

terminologia di Cirillo43. Su questa infine si soffermava Teodoreto di Ciro44, che metteva in

42 Su di lui cfr. R.A.NORRIS, Manhood and Christ. A study in the Christology of Th. Of M., Londra 1963. Opere: commenti ai Salmi ed. R.DEVRESSE, in SteT 93, Roma 1939; a Gv, in greco ed. DEVRESSE, in SteT 141, Roma 1948; omelie ed. R.TONNEAU, in SteT 145, Roma 1948. 43 ACO II, 1, 3, 32-34. 44 Sul problema cristologico in Teodoreto cfr. M.RICHARD, in RSPhTh 25 1936 pp. 459-481, e A.GRILLMEIER, Christ in Christian Tradition, pp. 419-427. I suoi scritti in PG LXXV-LXXVI, LXXXIII.

28

evidenza l’ambiguità di alcune parole degli Anatematismi di Cirillo, cioè l’unione delle nature

indicata con κράσις, e l’uso di φυσις quasi come sinonimo di υπόστασις. Non appena tuttavia

Cirillo smise d’insistere sugli Anatemi e chiarì la distinzione tra φυσις e υπόστασις, Teodoreto

accettò l’unione del 431.

Come si vede, i tre autori erano antiochieni e quindi teologicamente contigui a Nestorio, e

avevano interpretato Cirillo dal loro punto di vista, ossia come ambiguamente vicini

all’apollinarismo. Ma solo il Conciliabolo di Efeso li aveva condannati, mentre Calcedonia li

aveva riabilitati, senza porsi il problema delle loro opere. In effetti, proprio la terminologia

calcedonese aveva risolto le ambiguità di tutti costoro, compreso Cirillo. Ma il timore dei

calcedonesi moderati, capeggiati da Askida e Giustiniano, di un’interpretazione nestoriana

(ossia antiochiena) della terminologia sinodale spinse alla condanna dei Tre Capitoli da parte di

un decreto imperiale, del 543-54445. Askida, volendo vendicarsi dell’antiorigenismo dei

calcedonesi estremisti, contribuì non poco alla stesura del testo46, che segnava una novità nella

politica dogmatica dell’imperatore: egli non solo arricchiva la dottrina tradizionale con i suoi

anatemi, ma non si appoggiava neppure all’autorità di un sinodo. Giustiniano non sbagliava

certo a condannare, dal punto di vista di Calcedonia, quei testi, né obiettivamente modificava

la dottrina sinodale, ma di fatto avviava una contesa legata ai modi del suo intervento e del

significato reale, storico, degli autori condannati. Giustiniano riteneva infatti di confermare così

le deliberazioni calcedonesi, evidentemente minacciate dai suscettibili sviluppi dell’esegesi dei

Tre Capitoli, ma non tutti erano in accordo con lui. Egli stesso, imbarazzato dal fatto di dover

condannare la Lettera di un vescovo, Iba, riabilitato da Calcedonia ma già anatematizzato dal

Sinodo del Ladrocinio, asserì che questi non ne era il vero autore, e scomunicò chi diceva

diversamente.

Giustiniano ordinò ai vescovi di sottoscrivere l’editto, ma Menas di Costantinopoli firmò sub

conditione, ossia se anche Vigilio avesse accettato. Anche Efraim di Antiochia fece qualche

resistenza, e così il patriarca di Gerusalemme. Ma i più ostili furono i vescovi italiani, gallici e

africani. Vigilio decise di resistere alla volontà imperiale. Certo non senza che lui lo sapesse, il

45 Frammenti in E.SCHARTZ, Zur Kirchenpolitik Justinians, Monaco di Baviera, 1940, pp. 73 ss. 46 Cfr. LIBERATO, Breviarium cit., in ACO II, 5, pp. 140 ss.

29

suo fedele apocrisario Pelagio, che era tornato a Roma, aveva incaricato, già nel 544, Ferrando

diacono di Cartagine (†546) di formulare una difesa dei Tre Capitoli47.

Allora Giustiniano fece arrestare il papa il 22 novembre 545, mentre celebrava in Santa Cecilia,

lo tradusse in Sicilia e infine a Bisanzio (gennaio 547). Qui il papa ancora rifiutò la firma, e

scomunicò Menas, venendo scomunicato a sua volta da lui. Ma le pressioni di Giustiniano e –

credo – una più accorta riflessione sui sofismi teologici di Askida, indussero il duttile Vigilio

prima a riconciliarsi con Menas (547) e poi a pubblicare lo Iudicatum (aprile 548), in cui

condannò i Tre Capitoli, con qualche riserva48. L’atto papale era sostanzialmente libero, perciò

valido. Era inoltre distinto dal decreto imperiale, per cui non segnava una formale adesione ai

voleri giustinianei. Ma la rigidità fanatica degli Occidentali impedì la soluzione della crisi, in

quanto la reazione alla condanna papale fu tanto ampia da investire persino il suo seguito, in

cui Vigilio dovette scomunicare alcuni diaconi, tra cui lo stesso nipote Rustico, mentre da

Roma persino il suo fedele ex-apocrisario Pelagio, che lo rappresentava in diocesi, aveva

sconfessato lo Iudicatum. I vescovi d’Africa scomunicarono il papa, con un gesto inaccettabile.

In questo contesto Vigilio, raggiunto nel 551 dal più risoluto Pelagio, non trovò di meglio che

scaricare la colpa su Giustiniano che lo aveva costretto alla condanna. Questi, avendo bisogno

di un’anatema valido e perciò libero, acconsentì al ritiro dello Iudicatum e alla convocazione di

un concilio ecumenico. Lo Iudicatum era quello che noi chiameremmo oggi un atto di

magistero ordinario, per cui il suo ritiro non creava certo problemi dottrinali, anche se faceva

perdere la faccia al papa. Questi poi promise per iscritto all’imperatore di adoperarsi per la

condanna dei Tre Capitoli in concilio e di concertare con lui le sue prossime mosse. Il patto fu

ovviamente tenuto segreto.

Ma il progettato sinodo si dilazionava sempre più. La corte era preoccupata per la

composizione dell’assemblea, e perciò Giustiniano, subornato da Askida, promulgò Tredici

Anatemi contro i Tre Capitoli49, che fecero infuriare Vigilio. Dopo aver minacciato di scomunica

Askida e Menas se gli Anatemi non fossero stati ritirati, il papa, trasferitosi dalla Domus

Placidiae nella chiesa di San Pietro del Palazzo di Ormisda, protetto dal luogo sacro, diede

47 I rapporti tra Vigilio e Pelagio sono ricostruiti in L.DUCHESNE, Vigile et Pélage, in RevQuestHist 36 (1884), pp. 369-440; 37 (1885), pp. 529-593 48 Ricostruibile sulla base del Constitutum di cui parleremo, cfr. Collectio Avellana n. 83, 316-317. 49 E.SCHWARTZ, Drei dogmatischen Schriften Iustinians, AAM nuova serie 18, Monaco di Baviera 1939, pp. 72-111.

30

corso alla sua minaccia anatematizzando Askida50. Giustiniano incaricò la polizia di trascinare

fuori il papa, ma questi si difese energicamente. Allora il despota gli fornì garanzie personali, e

Vigilio tornò alla Domus Placidiae. Ma di nuovo l’imperatore lo tenne come prigioniero, e il

pontefice fuggì addirittura a Calcedonia, nella chiesa conciliare di Sant’Eufemia. Da qui, mentre

Giustiniano con lusinghe e minacce tentava di farlo tornare, Vigilio promulgò una lettera in cui

si giustificava per le sue azioni e riscomunicò Askida51. Le sue sentenze ebbero diffusione, e

l’imperatore, che sapeva bene di aver bisogno del papa, fece una parziale marcia indietro,

inducendo Menas e Askida a sottomettersi a Vigilio, che si decise a tornare a Costantinopoli. La

morte di Menas (agosto 552) e la proclamata lealtà verso il papa del neo-patriarca Eutichio

crearono i presupposti per la distensione. Ci si accordò per riprendere l’idea del concilio. Ma le

trattative furono manipolate dall’imperatore in modo tale da far sì che, quando si radunasse, il

concilio fosse formato soprattutto da vescovi fedeli ai suoi Anatemi. Ciò avvenne il 5 maggio

553 a Costantinopoli: dei 166 presuli, solo una dozzina erano occidentali. Questa non era una

novità, nella storia della composizione dei concili ecumenici. Ma in queste circostanze ciò era

preludio ad una condanna senza dibattito dei Tre Capitoli. Sorprende come Giustiniano,

legalista fino al midollo, potesse credere di raggiungere risultati legittimi con queste procedure.

Venerava il papato ma maltrattava il papa, ossequiava il sinodo ma manipolava i padri. La sua

fede nella oggettiva validità dei deliberata del magistero lo spingeva a ricercarne di favorevoli

a sé con uno spirito tra il superstizioso e il blasfemo. Evidentemente in un contesto socio-

culturale in cui i dogmi erano sempre più un fatto dalle implicazioni politiche, e in cui spesso si

arrivava alle loro definizioni in modi traversi e sofferti (era successo pure ad Efeso), l’autocrate

si sentiva in diritto di imporsi anche in queste cose. E infatti ricordò ai padri conciliari che essi

avevano già condannato i Tre Capitoli con la firma al suo editto, e che anche Vigilio li aveva

condannati con lo Iudicatum. Questi fu invitato dall’assemblea a presiederla, ma rifiutò per la

scarsa partecipazione degli Occidentali; promise tuttavia un intervento ufficiale. Anche

Giustiniano si tenne lontano dal sinodo, che si apprestava a discutere dei Tre Capitoli. Ma il 14

maggio del 553 Vigilio, con un colpo di scena, promulgò un Constitutum52 - redatto da Pelagio

- che condannava sessanta proposizioni di Teodoro di Mopsuestia, ma non la sua persona né

50 E.SCHWARTZ, Vigiliusbriefe, Monaco di Baviera, 1940, pp. 10-15. 51 Vigiliusbriefe, pp. 1-10. 52 Collectio Avellana n. 83, 230-320.

31

quelle dell’autore della Lettera di Iba e di Teodoreto, per rispetto a Calcedonia. Proibiva altresì

qualsiasi altra discussione in merito. Era una sconfessione del concilio in anticipo. Ma anche

del proprio Iudicatum. Il Constitutum si diffuse e Giustiniano, per parare il colpo, decise di

svergognare Vigilio rendendo pubbliche lettere del papa in cui egli difendeva il suo Iudicatum,

e soprattutto il suo giuramento del 550. Il concilio allora ruppe la comunione con Vigilio, senza

però scomunicarlo: era il papa, e poteva ravvedersi, per tornare ad esercitare in modo univoco

il suo magistero. Quale fosse questo modo, era ormai irrimediabilmente segnato.

Il 2 giugno 553 il concilio fulminò quattordici anatemi contro i Tre Capitoli, desunti dal decreto

imperiale. Già da prima dell’inizio dei lavori i padri, accondiscendendo ai desideri imperiali,

avevano condannato Origene, Evagrio Pontico –assertore della sua mistica- e gli origeniani

palestinesi, e Vigilio aveva acconsentito (marzo 553)53. Non gli rimaneva che aderire anche alla

condanna maggiore. Prostrato nel fisico, messo agli arresti di rigore domiciliari, isolato dai suoi

più intimi consiglieri ormai in carcere, demoralizzato e mai profondamente motivato nella lotta,

alla fine cedette, appellandosi alle Retractationes di Agostino, e scrivendo al patriarca Eutichio

di aver finalmente aperto gli occhi sulla meritata e completa condanna dei Tre Capitoli,

probabilmente convinto che il responso sinodale avesse creato una situazione nuova (8

dicembre 553)54. Da Roma lo reclamavano, dopo tanti anni di assenza, e la condizione del suo

rilascio era stata l’adesione alla condanna, mentre molti vescovi latini erano mandati in esilio.

La conferma papale dava al sinodo un nuovo valore, universale, vincolante. Vigilio il 23

febbraio 554 pubblicò un nuovo Constitutum in cui contestava l’autenticità della Lettera di Iba

e la giustificazione datane alla luce del Calcedonese55. Il secondo Constitutum, come del resto

l’adesione al sinodo, erano stati estorti di fatto, e potevano sembrare nulli. Ma facevano il paio

con lo Iudicatum e soprattutto con le vere intenzioni di Vigilio, palesate nelle lettere rese

pubbliche da Giustiniano. Perciò alcuni personaggi più avveduti aderirono al sinodo e si

riconciliarono col papa. Lo stesso Pelagio, che all’inizio si era dissociato dall’operato del papa, e

53 F.DIEKAMP, Die origenistichen Streitigkeiten, pp. 82 ss.; anatemi alle pp. 90-97. 54 MANSI IX, p. 419 s. Sul sinodo cfr. R.DEVRESSE, Le cinquième concile oecuménique et l’oecuménicité byzantine, in MiscMercati III, Roma 1946, pp. 1-15; C.MOELLER Le cinquième concile oecuménique et le magistère ordinaire, in RSPhTh 35 (1951), pp. 413-423 ; E.K.CHRYSOS, E ekklesiastikè politikè toù Ioustinianòu katà tèn èrin perì tà trìa kefàlaia kèi tèn è oekumenikèn sùnodov, Tessalonica 1969; ID.; Tmèmata tòn Practikòn tès è oecumenikès suvòdou parà Buzantinòis kronogràfois, in Κληρονοµία 2 (1970), pp. 376-407. 55 MANSI IX, 457-488.

32

aveva addirittura composto la Defensio dei Tre Capitoli56, alla fine, dopo molta prigionia, aderì

alla sentenza conciliare. In effetti, le condanne non cambiavano la sostanza del Calcedonese.

Inoltre, come avrebbe scritto Gregorio Magno a Teodolinda, il Costantinopolitano II si era

occupato di persone e non di fede, ossia delle opere di singoli teologi, non della portata

dogmatica del Calcedonese57. Lo stesso Gregorio avrebbe puntualizzato che le sedute

calcedonesi in cui erano stati riabilitati Iba e Teodoreto non erano mai state approvate dalla

Santa Sede58. Né mai il concilio aveva approvato la Lettera di Iba e le opere di Teodoreto,

come erroneamente avrebbe sostenuto il polemista Facondo di Ermiane. Ma i metodi

giustinianei e l’opposizione occidentale crearono il caso, e invece di recuperare i monofisiti –

che rimasero indifferenti alle condanne in chiave antinestoriane dei Tre Capitoli, in quanto essi

rigettavano il Calcedonese in sé – la Chiesa imperiale perse l’Occidente, con uno scisma che in

alcune regioni sarebbe durato fino alla fine del VII secolo. A questo aveva portato l’insensata

politica di Giustiniano.

Questi il 13 agosto 554 concesse a Vigilio, con la Prammatica Sanzione, ampi poteri sull’Italia

gotica. Ma il papa ripartì solo nella primavera del 555, e non tornò più a Roma: morì a Siracusa

nel 556, lasciando la Santa Sede nel maggior discredito che avesse mai conosciuto in mezzo

millennio di storia. In effetti, neanche ai tempi di papa Liberio la situazione si era così

deteriorata, in quanto il pontefice, sopravvissuto a Costanzo II, aveva ritrattato l’adesione alla

Formula di Sirmio. Ora, bisognava vedere che cosa avrebbe fatto il successore di Vigilio.

Questi fu il diacono Pelagio (556-561)59, che Giustiniano aveva sempre stimato, e che impose

in modo autoritario all’Urbe dopo aver ottenuto l’assenso del clero romano presente a Bisanzio.

Egli patì le conseguenze dell’incertezza ondivaga del predecessore. Molti romani rifiutarono di

riconoscerlo come vescovo. La sua incoronazione fu differita al 16 aprile 556, e fu celebrata dai

vescovi di Perugia e Ferentino, mentre un presbitero rappresentava il vescovo di Ostia, a cui

pur toccava di presiederla. Accusato di aver tradito i Tre Capitoli adattandosi alla condanna che

prima aveva osteggiato, venne considerato un ambizioso che si era venduto a Giustiniano per il

trono pontificio, e addirittura fu sospettato di aver assassinato Vigilio per affrettare la

56 Ed. R.DEVRESSE, Roma 1932, in ST 57. 57 Registrum epistularum, a cura di P.EWALD-L.M.HARTMANN, IV, 37, in MGEp I-II, 1891-1899. 58 Reg. Ep., Appendix III, 1, in MGEp II, p. 463. 59 Cfr. su di lui CASPAR II, pp. 274-305; DCB 4, coll. 295-298; DTC 12, coll. 660-669; LThK 8, coll. 249 s., SEPPELT 1, pp. 286-292; KELLY, pp. 173-175; C.SOTINEL nell’Enciclopedia dei Papi, pp. 529-536.

33

successione. Pelagio I volle quindi rendere una professione di fede, in cui aderì ai quattro

concili ecumenici oltre che alla condanna dei Tre Capitoli, ma in cui non emise giudizi su

Teodoro di Mopsuestia e difese energicamente Iba e Teodoreto60. Giurò inoltre di non aver

fatto alcun male al predecessore. Pelagio I trascorse il grosso del suo papato a subire gli

oltraggi degli scismatici (gli africani lo accusavano di perseguitare i morti) e a tentare di

persuadere i vescovi occidentali della sua ortodossia (scrisse al re franco Childeberto,

inviandogli una professione di fede61). Ma Milano e Aquileia non si riconciliarono mai con lui, e

così molti presuli toscani, mentre i Galli raffrontavano maliziosamente il suo scritto per i Tre

Capitoli con il suo atteggiamento presente, e in Spagna Vigilio era sottoposto ad una sorta di

damnatio memoriae, per cui ci si rifaceva ai suoi decreti in vigore – come la lettera a Profuturo

di Braga - ma non lo si nominava mai. La Chiesa d’Africa era anch’essa ribelle. Praticamente,

grazie a Giustiniano l’autorità papale era indiscussa solo nel Lazio e a Ravenna. Ma Pelagio I

aveva ritenuto che il gioco valesse la candela, non solo per una certa ambizione, ma anche

perché sapeva che, sconfessando il predecessore per una condanna di sicuro inopportuna e

impopolare, ma legittima, avrebbe creato un precedente gravissimo. La ratio cristologica era,

in questa vertenza, assai minore di quella ecclesiologica, e si correva il rischio di sottoporre al

consensus Ecclesiae ogni pronunciamento magisteriale papale e conciliare, se si fosse

sconfessato il V concilio ecumenico e Vigilio. Anche se la condanna era stata imposta, non

avendo negato alcun dogma, era opportuno considerarla valida, ex opere operato. Ragion per

cui Pelagio I non solo collaborò con il governo ma, sia pure inutilmente, chiese l’uso delle armi

per ridurre alla ragione gli scismatici, aprendo la strada ad una inedita e tutta medievale

cooperazione tra έθος e κράτος. Del resto, il dissidio con l’Occidente riguardava la sua persona

– e quella di Vigilio – e non il ruolo della Santa Sede nella Chiesa.

Inoltre, se Atene piangeva, Sparta non rideva. Come ho detto, Giustiniano dovette ben presto

accorgersi dell’ennesimo fallimento della sua politica forsennata. E fece l’ultimo salto della

quaglia della sua carriera teologica, diventando inequivocabilmente eretico, ossia seguace dei

fantasiasti di Giuliano d’Alicarnasso, che avevano contaminato il monofisismo col docetismo62.

60 Pelagii Epistolae quae supersunt, a cura di P.M.GASSO’-C.M. BATLLE, Montserrat 1956, Ep. XI. 61 Pelagii Ep., n. VII. 62 Cfr. R.DRAGUET, Julien d’Halicarnasse et sa controverse avec Sévère d’Antioche sur l’incorruptibilité du Corps du Christ, Lovanio 1924 ; M. JUGIE, L’empereur Justinien a-t-il été aphtartodocète ?, in EO 35 (1932), pp. 399-404 ; M.

34

Probabilmente conquistato a questa dottrina da un vescovo palestinese, l’imperatore si

convinse che il corpo di Cristo era un incorruptibile, un άφθαρτον, e che egli per soffrire sulla

Croce compì un autentico miracolo. Sperava così che i monofisiti estremisti si riconciliassero

con lui, non avendo potuto recuperare i moderati. Compose così il suo ultimo decreto

dogmatico, perché fosse sottoscritto da tutti i presuli. Non sappiamo se mai lo pubblicò, ma il

suo contenuto fu subito noto, e suscitò l’esecrazione universale in Oriente come in Occidente.

Il primo a negargli l’assenso fu il patriarca Eutichio, ma il despota lo mandò in esilio (565).

Probabilmente anche il papa Giovanni III (561-574)63, fu informato del decreto, ma non ci è

giunta nessuna sua presa di posizione ufficiale. Potrebbe anche non aver avuto la necessità di

prenderla. La scarsa conoscenza del suo pontificato, nel corso del quale riuscì a far riconoscere

la condanna dei Tre Capitoli a Milano e in Africa, non ci aiuta a farci un’idea in merito. Ma

prima che il conflitto iniziasse in tutta la sua violenza, Giustiniano morì (14 novembre 565),

preservando la Chiesa da una nuova sciagurata vessazione a sfondo dogmatico.

Come valutare l’azione di Giustiniano ? La sua genuina ispirazione ecumenica si mescola

all’interesse politico, in modo senz’altro legittimo considerando la sua posizione d’imperatore.

Ma va notato che i tempi non erano maturi per una politica d’unione così spinta, che sembra

cinica data l’opposizione che non esitò a suscitare. Inoltre, la mistura di fede e politica

s’intorbida per la presenza sempre più cospicua di un dispotismo teologico che sfocia

inopinatamente nell’eresia. C’è da stupirsi, che questa politica ecclesiastica sia fallita? Del

resto, Giustiniano – che fu senz’altro un grande uomo – fallì in tutti i suoi disegni strategici, e

sbagliò nel concepirli. Sbagliò per esempio nel privilegiare lo scacchiere occidentale rispetto a

quello asiatico, e nel lanciarsi nelle Guerre Gotiche e d’Africa, accettando di pagare tributi ai

Sasanidi per non esserne disturbato. E fallì nel tentativo di rendere stabili le nuove acquisizioni

territoriali, perchè di lì a poco Arabi e Longobardi avrebbero fatto un solo boccone delle sue

conquiste tanto sudate. Allo stesso modo sbagliò con la Chiesa, puntando tutto sull’unificazione

coi monofisiti, e ottenendo invece solo lo scisma ad Occidente.

ANASTOS, The Immutability of Christ and Justinian’s Condemnation of Theodore of Mopsuestia, in DOP 6 (1951), pp. 123-160. 63 Su di lui cfr. M.C.PENNACCHIO, s.v., in Enciclopedia del Papato, vol. I, pp. 537-539; KELLY, p. 64; CASPAR, II, pp. 350-351; Dizionario Storico del Papato, a cura di P.Levillain, I, Milano 1996, pp. 640-641.

35

Un vantaggio fu invece tratto, a lunga scadenza, e paradossalmente, dal Papato. Stiamo ai

fatti: Giustiniano non rinunciò mai alla ratifica delle sue decisioni da parte del papa, e attestò

con questo contro se stesso che la sua autorità sulla Chiesa era subordinata all’assenso del

vescovo romano64. Poteva arrestarlo, torturarlo e plagiarlo, ma non poteva rimpiazzarlo.

Quando l’impero fosse stato più debole, o quando i papi fossero stati più coraggiosi di Vigilio, la

sconfitta per una politica come quella giustinianea sarebbe stata inevitabile, come del resto

avvenne in tutte le altre dispute cristologiche in cui il Bosforo si oppose al Laterano, nei secolo

successivi. Del resto, il fatto che Giustiniano obbligasse il papa a ratificare il II Concilio

Costantinopolitano, dimostra che egli considerava validi solo i sinodi riconosciuti da Roma. Se

si pensa che il Canone XXVIII di Calcedonia era stato promulgato senza l’assenso del papa

Leone I, e che Teodosio II non aveva esitato a convocare il Conciliabolo di Efeso o Zenone a

promulgare l’Henotikon, separandosi addirittura dalla Sede apostolica, ci rendiamo conto che si

erano fatti passi avanti: anche se ottenuto con la forza, il consenso papale era ormai

indispensabile. E inoltre era considerato valido ex opere operato. Questo era ben chiaro ai

successori di Vigilio, che si guardarono bene dallo sconfessarlo, proprio per non mettere in

discussione la particolare concezione del primato di Pietro che sottintendeva questi eventi. Il

giudizio di Vigilio era irreformabile proprio perchè era, sulla terra, quello più alto, tanto più

perchè unito a quello del concilio ecumenico. Se dunque Giustiniano aveva estorto ad entrambi

il verdetto di condanna, era accaduto perchè Dio l’aveva voluto, e quindi non si doveva tornare

indietro. Non la santità personale di Vigilio contava, nè l’autonomia reale del sinodo, ma il loro

valore istituzionale. E nemmeno l’importanza dell’anatema in sè contava, visto che i Tre

Capitoli erano sottoposti a una condanna sostanzialmente riformabile o attutibile, come sono

tutte le condanne del genere; aveva invece peso piuttosto che Vigilio avesse dimostrato più

volte di essere più incline alla condanna stessa che alla difesa, con lo Iudicatum e col primo

Constitutum. Aveva peso che egli avesse completamente ritrattato la sua resistenza col

secondo Constitutum. Aveva peso che fosse morto senza rinnegare quell’atto di magistero.

Tutto ciò, sommato alle circostanze teologiche e giuridiche che avevano reso possibile la

condanna dei Tre Capitoli senza sconfessare papi o concili precedenti – come per esempio il

64 Il primato romano era legge dello Stato: Codex I, 1, 7 e Novella 131.

36

fatto che Iba e Teodoreto fossero stati riabilitati in una seduta del Calcedonese non approvata

da Roma, o che la loro terminologia fosse di fatto precorritrice di quella nestoriana, o che

quella cirilliana potesse avere un’interpretazione ortodossa – rendeva legittimo il verdetto

vigiliano, e spingeva i pontefici a difenderlo. Sconfessarlo sarebbe stato come sottomettere il

magistero papale all’approvazione dei fedeli: non più infallibilità ex sese, ma ex consensu

Ecclesiae. E infatti la condanna dei Tre Capitoli non fu riprovata nè da Pelagio – che pure

qualche motivo opportunistico per questa omissione lo aveva – nè dal dotto Giovanni III, che

anzi come ho detto convinse gli Africani ad aderire al Concilio di Costantinopoli, nè dai papi

posteriori a Giustiniano. Tra essi, Pelagio II (579-590), tentò risolutamente di riunificare alla

Chiesa Aquileia e l’Illiria, ma non certo per servilismo all’imperatore Giustiniano o al suo

successore di allora Tiberio II (578-582): infatti non esitò a contrastare la pretesa di Giovanni

IV di Costantinopoli di proclamarsi patriarca ecumenico, e lo fece negando l’approvazione agli

atti del sinodo bizantino del 588. Non esitò neanche a chiedere aiuto ai Franchi contro i

Longobardi, offrendo loro la protezione di Roma, evidentemente a discapito dei Bizantini in

difficoltà. Lo stesso Gregorio Magno (590-604) prese, come abbiamo visto, la penna per

difendere la condanna dei Tre Capitoli, sia da diacono – collaborando con Pelagio II – che da

papa, quando indirizzò alcune lettere di rimprovero a Teodolinda, che non voleva riconoscere

l’arcivescovo milanese Costanzo in quanto aderente al II Costantinopolitano65. E Gregorio era il

più grande teologo dei suoi tempi. Sia lui che Bonifacio III (607) s’impegnarono tanto per

riportare Venezia e l’Istria all’unità cattolica. Il successore di questi, san Bonifacio IV (608-

615), ricevette una ardente lettera di san Colombano (543-615) che, su ispirazione di

Teodolinda e Agilulfo, gli chiedeva di sconfessare il II Costantinopolitano convocando un nuovo

sinodo universale. Non abbiamo la lettera di risposta, ma sappiamo che Bonifacio non

accettò66. E non certo per fedeltà a Giustiniano, ma piuttosto ai suoi predecessori. Onorio I

(625-638) e san Sergio I (687-701) si adoperarono ancora per sanare lo scisma, e

quest’ultimo ci riuscì nel sinodo di Pavia del 700. Ossia, i papi furono fedeli al magistero di

Vigilio per 145 anni ! E tra loro e Bisanzio ci furono tantissime dispute dottrinali in quel

65 Registrum Epistularum, IV, 4.33.37. 66 Cfr. J.RIVIERE, St. Columban et le jugement du pape hérétique, in RevSR III (1923), pp. 277-292.

37

periodo. Segno che la difesa dei Tre Capitoli era la difesa della Santa Sede, e che Giustiniano

aveva puntellato più l’universalismo papale che quello imperiale.

A questo universalismo e alla sua legislazione canonica bassomedievale Giustiniano lasciò un

insieme di norme che avrebbero condizionato per secoli la vita socio-politica dell’Occidente,

contribuendo a definire la fisionomia del Medioevo latino e pontificio: il divieto di ogni religione

non cristiana, la restrizione dei diritti politici e civili degli Ebrei, la concessione ai presuli di

competenze amministrative, le esenzioni (ancora parziali) fiscali per i beni ecclesiastici furono

tutte sue invenzioni o amplificazioni di concezioni altrui67. Egli fu dunque artefice della futura

supremazia del Sacerdotium, cui fornì mezzi pratici e teorici.

Resta solo una domanda a cui rispondere: perché Giustiniano credeva di potersi comportare

così con la Chiesa ?

Influì certo il suo carattere dispotico, l’arrogante e smisurata coscienza del suo potere

imperiale, la sua indubbia forza di carattere e le circostanze che gli diedero rivali da poco. Non

a caso nessuno in seguito osò tanto, nemmeno nella Chiesa bizantina dopo lo Scisma del 1054

(solo Manuele I nel XII sec. gli può essere avvicinato). Ma non si può credere che un despota

che costringe tutta una generazione di credenti a seguirlo possa aver agito solo basandosi sulla

prepotenza. Esisteva una precisa teologia imperiale a cui Giustiniano si rifaceva, sia in

temporalibus che in spiritualibus. Essa fece concorrenza – sotto varie forme e con minor

successo – all’ortodossa teologia papale per tutto il periodo del dominio bizantino in Italia. Già

Costantino, cristianizzando il dominato domizianeo e calcando la mano sull’unità monarchica

dell’Impero, aveva affermato che il suo dominio era basato sull’elezione divina. Essa presso le

masse si confondeva con la divinità dell’imperatore, e di fatto era la continuazione cristiana

della teologia solare di Aureliano e di quella iovio-erculia di Domiziano, ma Costantino era ben

consapevole della specificità ortodossa della sua nuova concezione. Eusebio di Cesarea ben

supportò il suo sovrano, enfatizzando la missione provvidenziale dell’Impero e il parallelo tra

l’unico Redentore e l’unico monarca, e rivestendo di contenuti teologici il lealismo tradizionale

dei cristiani verso lo Stato, insegnato da san Paolo, da san Luca, da Clemente Romano,

Policarpo, Atenagora, Giustino, Teofilo, Melitone, Ireneo. Eusebio inoltre afferma a chiare

67 Codex I, 3, 44; 5, 12. 17; 11, 9-10; Novellae 43.45. 146.

38

lettere che a un Dio in cielo deve corrispondere un imperatore in terra, capo di un ecumene

che è l’immagine del Regno dei Cieli. E se colà il Padre regna e il Figlio governa, qui nel mondo

l’imperatore regna e governa, come icona della Prima Persona della SS.Trinità e mimesi della

Seconda, ossia come immagine visibile dell’Una e come discepolo dell’Altra. Per Eusebio Chiesa

e Impero sono identici, e la prima è riassorbita nel secondo. Se dunque il vescovo ha poteri

nella Chiesa, l’imperatore li ha sulla Chiesa, ed è in tal senso vicario di Cristo, perché Cristo è

sopra della Chiesa. E l’imperatore significativamente si autodefinisce epìscopos tòn ektòs,

sorvegliante di quelli che sono al di fuori (della Chiesa): tale titolo oppone al potere episcopale

sulla Chiesa quello imperiale sul saeculum e su quelli che sono fuori dell’organizzazione

ecclesiastica68.

L’ideologia costantiniana si rafforza lungo il dominio della dinastia dei Secondi Flavi e di

Teodosio, e ben al di là dei confini della cultura cristiana: Temistio dice che l’imperatore è un

essere celeste mandato nel mondo per il suo benessere, e che ha un dominio universale. Egli è

la creatura più eminente del mondo, e imita Dio nelle sue virtù. Ma proprio per questo statuto

ontologico, etico e politico, egli è nòmos èmpsiukos, legge vivente. E questo concetto,

espresso già da Temistio a Teodosio, riappare in Giustiniano, nella Novella 105, 2, 4. La

persona imperiale è santa: alla sua presenza si parla con rispetto, i suoi dignitari si riuniscono

in concistori le cui sedute sono significativamente dette silentia, il suo palazzo è sacro come le

sue legioni, e i suoi abiti sono paludamenti e calzature d’oro e pietre preziose, diademi

imperlati; di lui si parla come “nostra clementia, nostra pietas, nostrum numen”, e chi lo

offende è sacrilego. Finalmente gli imperatori romani possono riallacciarsi al dispotismo

asiatico, scrollandosi di dosso i retaggi della Respublica, e lo fanno compiutamente grazie al

Cristianesimo, che è pur sempre una religione asiatica, le cui radici semitiche affondano in

quell’Oriente dove pure era nata la concezione monarchico-sacrale universale.

La Chiesa – che con la monarchia papale farà sua questa ideologia del potere – fronteggia

consapevole questa offensiva che impropriamente definiamo cesaropapista ma che invece è

teocratica, opponendole una visione ierocratica e gerarchica, basata – modernamente – sulla

divisione dei ruoli: l’auctoritas è quella sacrata pontificum – ma auctoritas era anche quella

68 Cfr. EUSEBIO DI CESAREA, Historia Ecclesiastica, ed. E.SCHWARTZ, in GCS, voll. I-III, 1903-1909, IV, 26, 7; ID., Demonstratio evangelica, ed. K.MRAS, 1954, VIII, praef.

39

augustea, in un indefinito primato sulla Respublica – e la potestas è quella regalis. L’auctoritas

è distinta dalla potestas, ma le è anche superiore, di una superiorità più legata a una mentalità

giuridica e a una visione di un cosmo molteplice, che a una concezione neoplatonica

universalista. E’ questa la dottrina di papa Gelasio I69. Lo spirito romano vero e proprio si

rifugia ora nella Chiesa, abbandonato dall’Impero convertito alle suggestioni orientali.

Giustiniano appare proprio in tale momento: interessato non a sovvertire la concezione del

potere interno alla Chiesa, ma a rafforzare la cornice d’autorità in cui la stessa Chiesa

s’inserisce, smentisce programmaticamente Gelasio, dicendo che egli agisce come unico

interprete dei voleri divini, che opera e governa “Deo auctore”, come si esprime nel Codex, I,

17, 1). In questo modo, la auctoritas è riassorbita nella potestas regalis. E nella novella VI

afferma che è suo diritto provvedere alla tutela morale e dottrinale della Chiesa70. Su questi

presupposti si comprende l’operato singolare di Giustiniano e anche il suo successo, sia pure

temporaneo. Ma proprio questo successo fece aprire gli occhi alla Chiesa sui rischi impliciti in

questa deriva teocratica dell’Impero, e aprì la strada a una rinnovata e profonda coscienza

della Chiesa come corpo separato e superiore ad esso. Sulla scia dell’agostinismo politico, il

futuro avrebbe aperto la strada a sintesi politiche diverse, dove al potere spirituale sarebbe

stato riservato il rispetto e il decoro che gli competono, espungendo dalla teologia cattolica

quegli elementi profani che essa aveva dovuto fare suoi per pagare lo scotto della

cristianizzazione del mondo romano.

Vito Sibilio

69 Cfr. PL LIX, 42. 70 Cfr. F.FABRINI, L’imperatore da princeps a Dominus et Deus, in Roma e l’Italia – Radices Imperii, a cura di GIOVANNI PUGLIESE CARRATELLI, Milano 1990, pp. 215-226.

40

Bizancio en España.

Por Rolando Castillo.

Este es un trabajo esencialmente informativo y divulgativo, hecho con el objeto de dar a

conocer uno de los hechos menos investigados por los historiadores y por la arqueología, salvo

honrosas excepciones.

Indice:

01- Roma y su civilización regresan a la Hispania Romana, de donde en realidad nunca se

habían ido.

02- ¿Cómo era la vida en la Hispania romana a mediados del siglo VI?

03- ¿Qué podían los bizantinos ofrecer a la población hispano romana local?

04- ¿Cómo fueron recibidos los bizantinos en Hispania?

05- Problemas en Italia, Balcanes y en el Oriente.

06- Organización de la provincia de Spania. Los castra.

07- Las civitates.

08- Una Liga de Ciudades.

09- Justino II (565-578) Guerra con Persia. La pérdida de Corduba y Asidonia.

10- Cambio de actitud y de política en los visigodos.

11- Paz en Spania en los tiempos de Tiberio I (578-582) y Mauricio (582-602)

12- La anarquía de Focas (602-610): Spania abandonada a su suerte.

13- La caída de Spania: el fin de un sueño y la continuación visigoda influenciada por

Bizancio.

14- Ultimas consideraciones.

15- Apéndice: Huellas de Bizancio en España.

41

1- Roma y su civilización regresan a la Hispania Romana, de donde en realidad nunca

se habían ido.

Estamos exactamente a mediados del siglo VI, el primer gran siglo de Bizancio, durante el cual

el gran emperador Justiniano, mediante sus bien adiestrados ejércitos comandados por

generales como Belisario, Narsés y Mundo, pudo reconquistar una buena parte del imperio

romano occidental, que había caído en el desorden y el caos, desapareciendo oficialmente

hacía ya unos setenta y cinco años.

Estamos en el año 551, cuando África y Cirenaica ya habían vuelto a ser bizantinas hacía ya

diecisiete años, las Baleares, Cerdeña, Córcega, Sicilia, ya obedecían a los mandatarios del

emperador. Solamente la península itálica resistía, con su reino ostrogodo que daba batalla y a

cada triunfo de los bizantinos respondía años después con otro líder y volvía al ataque.

No es posible pensar que, debido a su política (la de todos los emperadores bizantinos, la

política esencial del Imperio) de no desdoblarse en dos frentes de ataque, el emperador

bizantino haya pensado por sí solo atacar al reino visigodo que trataba de afirmarse en la

Hispania romana, ya que las tropas bizantinas estarían muy ocupadas en Italia hasta por lo

menos el año 563, en el cual se venció para siempre a los ostrogodos, luego de veintiocho

años de cruenta lucha.

Por eso es bastante creíble la versión del historiador Isidoro de Sevilla, que dice que

Atanagildo, descontento con el rey Ágila, pidió ayuda a los bizantinos para triunfar sobre el rey

y coronarse al frente de la nación goda, según su propio relato:

“Como Atanagildo con anterioridad hubiera tomado la tiranía y se esforzara en privar del reino a

Ágila, solicitó el Emperador Justiniano tropas que le auxiliasen, las cuales, fortificadas, no pudo

después alejar de las fronteras del reino. Con ellas hasta hoy se está en conflicto: antes con

frecuentes combates mortales, pero ahora con muchas incursiones y escaramuzas.”

Esto demuestra que los enviados bizantinos poco querían tener que ver con los visigodos, no le

importaban sus problemas internos, y siguiendo la política del emperador Justiniano, una vez

ocupadas las ciudades las incorporaron al imperio con la forma jurídica de Provincia de Spania

sin dudar y sin importarle la reacción del seguramente sorprendido Atanagildo.

42

Bizancio, que de todas maneras al terminar la guerra con los ostrogodos no hubiera dudado en

buscar excusas para invadir la península ibérica, solamente hizo uso de esta temprana

oportunidad, (para lo que no hizo más que aprovechar naturalmente esta ocasión

respondiendo a otro de sus principios políticos: el de dividir para triunfar, solo que aquí

encontraron a los visigodos divididos naturalmente, sin haber sido provocados por la política

imperial) y para cumplir este objetivo envió un pequeño pero bien pertrechado ejército, que

era en realidad un simple grupo de expedicionarios (recordemos que el grueso del ejército

estaba muy ocupado en Italia con los ostrogodos), al mando de Liberio, que como antecedente

contaba con haber sido prefecto de Teodorico en la Galia Narbonense, y por lo tanto podía

conocer a fondo los problemas que afrontaban los visigodos, algo que no extrañaría en un

funcionario experimentado del imperio.

Cuando se dice entonces que Bizancio apoya a Atanagildo, en realidad se trata de una mera

excusa, temprana tal vez, y algo inconveniente, porque en realidad se necesitaban todas las

fuerzas en Italia, pero que seguramente en el pensamiento de Justiniano esta oportunidad

debió estar dando vueltas noche tras noche hasta su decisión de aprovecharla, cumpliendo una

vez más con las prerrogativas de la política imperial.

Envió en realidad un pequeño ejército, pero por las condiciones en que se encontraba la

Hispania romana era suficiente como para establecerse por muchos años más, debido a ciertos

factores que no se encontraban en Italia, donde los ostrogodos habían sabido crear un reino

justo y tolerante con los romanos, donde floreció el arte y se consiguió una estabilidad

envidiable, lo que hacía pensar su reino podía durar muchos años y permanecer en la historia

como un Estado poderoso.

Por eso es necesario un estudio de las condiciones en las que se encontraba la población

romana en Hispania en la primera mitad del siglo VI.

2- ¿Cómo era la vida en la Hispania romana a mediados del siglo VI?

Es altamente probable que, como ocurrió con diversas ciudades de las Galias y de la Península

Itálica, las ciudades del sur de la Cartaginense y muy especialmente las de la Bética se

hubieran mantenido con sus costumbres civilizadas y romanas durante los setenta y cinco años

que las separaban de la caída del imperio, después de todo los vándalos pasaron por Hispania

43

pero se fueron luego de solo siete u ocho años hacia África, y durante esos años lo único que

hicieron aparentemente fue saquear y destruir, sin influir en las costumbres de las poblaciones

locales, y los visigodos aún no estaban muy firmes en su gobierno, especialmente en la Bética,

donde ciudades como Corduba (Córdoba) o Hispalis (Sevilla) eran prácticamente

independientes, o al menos llevaban una vida lo suficientemente autónoma como para desafiar

a los godos.

Las ciudades, si bien sufrieron una aguda crisis, y parte de la población emigró hacia el campo,

no colapsaron totalmente, una buena parte de las ciudades de la Bética continuaron con sus

industrias pesqueras, señal de que había todavía una notable actividad, y se documenta que la

población, si bien disminuida, no abandonó totalmente a aquellas, es más, se siguió viviendo lo

más dignamente posible, bajo una tenue administración visigoda, que solo afectaba a las

capas más altas de la sociedad.

Por lo tanto, podemos decir que el espíritu romano, aún en decadencia, aún con problemas

para mantener los caminos, los acueductos, los edificios, se mantenía en una parte de la

población de las ciudades de la Bética, y aunque un poco más dominadas por los visigodos,

seguramente esa sería la situación también al sur de la Cartaginense.

Ciudades comerciales, con una enorme industria pesquera y seguramente aún muy

romanizadas eran sin duda los puertos del sur – sureste de Hispania, que enumerados de

Norte a Sur, desde la Cartaginense a la Bética eran Denia (Alicante), Cartago Spartaria

(Cartagena), Murgis (entre Almería y Cartagena), Urci (muy cerca de lo que hoy es Almería),

Abdera (hoy Adra), Malaca (Málaga), Sálduba, Suol, Carteia (Gibraltar), Barbesula, Melliaria,

Besipo, quedando Gades (Cádiz), según las fuentes, bastante destruida y venida a menos por

esa época.

Por otra parte, no había pasado demasiado tiempo como para que las excelentes vías romanas

hubieran desaparecido, y a pesar de la falta de fuentes de la época podemos suponer sin

demasiado temor a equivocarnos que estaban en relativamente buen estado, con lo cual

estaremos en presencia de un potencial extraordinario para desarrollar el intercambio

comercial desde los excelentes puertos hispanos hacia el interior, donde todavía subsistían

44

dignamente ciudades como Bigastrum (lugar donde luego se fundaría Murcia), Lorca, Iliberis

(Granada), Acci (Guadix), Basti (Baza), Asidonia y por supuesto, Corduba o Sevilla.

Asimismo, los caminos servirían para darle al pequeño ejército bizantino una movilidad muy

importante a la hora de defender las distintas plazas conquistadas.

Principales

rutas y

caminos

romanos en

la provincia

de Spania,

siglos VI y

VII.

Como vemos, la oportunidad de regresar a la senda de Roma era muy tentadora para los

habitantes de las ciudades del sur de Hispania, y llegaba de la mano de los romanos de

oriente.

Por otra parte los visigodos no eran muy bien vistos (más bien eran reprobados totalmente)

por la población de las ciudades, porque desde un principio su política fue quedarse con todo y

no compartir nada con la población romana que merecía o creía merecer otro trato.

Un hecho muy importante que marcaba a fuego este desprecio por los bárbaros invasores era

que habían ideado un Estado con un doble derecho: los visigodos eran juzgados según sus

propias leyes y los romanos de acuerdo a un derecho que limitaba absolutamente su

participación en la conducción del Estado y también de sus propias ciudades, lo que hacía que

la separación de las partes fuera prácticamente total.

Solamente cabe aclarar que, como sucede en todo pueblo conquistado, hubo ciertas elites de

romanos hispanos, normalmente gente con tierras y muchos bienes, que no querían perder,

por lo tanto sirvieron de buen grado a los visigodos.

45

Normalmente los ciudadanos más representativos fueron cediendo paso a los obispos dentro

de las ciudades en cuanto a la representatividad, hecho que podría haberse dado debido a que

los visigodos arrianos veían mucho más agradable pactar con los obispos católicos que con los

ciudadanos romanos con cargo dentro de las ciudades.

Además los romanos hispanos seguían hablando latín, tal vez ya algo deformado por el tiempo,

pero era latín, el idioma de la civilización, y los visigodos tenían su propia lengua gutural,

primitiva y germana, con lo cual había otro motivo para que las dos naciones no se integraran.

Aclaremos aquí que el modelo de ciudad romana clásica ya había desaparecido por completo,

simplemente lo que sucedió fue que el cristianismo levantó a las ciudades de sus cenizas y las

convirtió en un nuevo ente, donde ya no había lugar para el baño público, el circo o el teatro,

que fueron poco a poco siendo presa del accionar del tiempo, pero donde las antiguas basílicas

y templos paganos que podían albergar mucha gente se habían convertido en iglesias, donde

todavía podían funcionar algunos viaductos o cisternas, donde la piedra de los edificios

abandonados dio lugar a muchas casas nuevas, en un proceso que sería muy familiar a los

bizantinos, que lo habían vivido en carne propia.

Los bizantinos entonces muy probablemente hayan encontrado en su provincia de Spania

ciudades con una conformación y un panorama muy similar a los que había en los Balcanes o

en Asia Menor, aunque con un nivel mayor de estabilidad y posiblemente con menos

habitantes que en dichos lugares.

3- ¿Qué podían los bizantinos ofrecer a la población hispano romana local?

Es una pregunta fácil de responder, ante la reprobación de los romanos locales a las actitudes

altaneras, soberbias, violentas y muy poco integradoras de los visigodos para con la población

romana local, es muy probable que dicha población, o al menos una buena parte, la de los más

instruidos y civilizados, viera con agrado y satisfacción la llegada de los hermanos romanos del

Este, con los cuales tenían mucho en común.

Esas cosas en común eran las siguientes:

1) El idioma latín, que muchos romanos orientales todavía podían hablar, con las lógicas

diferencias que podían tener con el que hablaran los romanos hispánicos después de setenta y

cinco años de separación y de la exposición a influencias distintas.

46

2) El espíritu comercial de los bizantinos, similar al de las ciudades costeras romano

hispanas, ansiosas de intercambiar sus productos con los demás puertos del Mediterráneo y

con el interior de la Hispania romana.

3) Fundamental: la religión católica, que en esos años era una sola, muy lejos del cisma, y

contraria a la herejía arriana, de la cual eran partidarios los visigodos. Por otro lado los obispos

habrían tomado en muchas ciudades los cargos civiles o en todo caso el liderazgo de la cultura

y la forma romana y civilizada de vivir, con lo que se aseguraba una continuidad lógica de la

vida de los ciudadanos romanos.

4) El recuerdo de la gloria de Roma y el deseo de revivir el imperio, vivo en los bizantinos y

que seguramente habrá tenido sus adeptos en los romanos hispanos.

5) El deseo de servir a un emperador fuerte que asegure la paz de una vez por todas, y no

a los reyes germanos que vivían batallando entre ellos, cosa que hacía la vida más insegura y

evitaba la expansión comercial. La esperanza de poder comerciar libremente y en paz para

poder enriquecerse y aspirar a mejores formas de vida sin duda propiciaba la idea de

recuperar al imperio romano en su totalidad.

Por lo tanto los romanos de oriente tenían muchas cosas que ofrecer: un gobierno católico,

una misma lengua, un derecho igual para todos, mayor apertura al comercio y tal vez hasta el

regreso a la gloria de Roma.

4- ¿Cómo fueron recibidos los bizantinos en Hispania?

Sin duda, debido a los factores enunciados anteriormente, los bizantinos fueron bastante bien

recibidos por la población de las ciudades locales, o al menos por una buena parte de su gente,

es por ello que se puede explicar que un número tan grande de ciudades haya caído (¿o

adherido?) ante un pequeño ejército en tan poco tiempo.

Seguramente Atanagildo debió darse cuenta de su error al poco tiempo del desembarco

bizantino en Hispania, porque lo primero que hizo luego de triunfar contra Ágila fue combatir a

los soldados de Justiniano, que ya amenazaban su reciente poder, aunque no pudo obtener

ningún éxito relevante, ello seguramente porque no era popular ni en la Bética ni en la

Cartaginense, que se revelaron buenas aliadas de Bizancio.

47

Es por eso que cuando los bizantinos se asentaron en el sureste de la Hispania romana,

muchos deben haber pensado que realmente Roma estaba renaciendo y que por fin se había

acabado el sufrimiento de una población local que no soportaba la soberbia ni la violencia de

los reyes visigodos que la mantenían alejada de la vida pública, ocupando todos los cargos y

utilizando un derecho diferente para cada población.

La rápida ocupación y la no menos rápida integración con la población local se manifiesta en la

gran cantidad de romanos hispanos que viajan a Constantinopla por esos años, ya sea en

peregrinación o para estudiar, estando éstos casos bien documentados por los historiadores,

con lo que nos es dado suponer una integración muy grande entre los romano hispanos y los

romanos orientales.

Estos hispanos que visitaban Constantinopla y los bizantinos que visitaban la provincia de

Spania produjeron este intercambio que renovó la sensación del renacer de Roma, ya que

nuevamente el Mediterráneo era un lago romano, con la pequeña excepción del sur de la Galia

y el centro norte de Hispania, pero casi toda África, Egipto, Palestina, Siria, Asia Menor, Tracia,

Grecia, el Adriático, las costas itálicas completas, Sicilia, Cerdeña, Córcega, las Baleares y el

sur Hispano daban cuenta de este renacer que en los años 552 – 568 tuvo su apogeo y

permitió a todos los ciudadanos del imperio soñar con su restauración definitiva.

5- Problemas en Italia, Balcanes y en el Oriente.

Sin embargo, esta exitosa reconstrucción romana tuvo varios inconvenientes en estabilizarse,

debido a que los bizantinos seguían ocupados en la cruenta guerra contra los ostrogodos, los

cuales los tuvieron ocupados hasta 563, y luego el sueño de la Italia romana se volvió una

pesadilla desde 568 en que la península fue invadida por los lombardos, que ocuparon el norte

menos Ravena, y el centro menos Roma, conservando Bizancio el sur, además de aquellas dos

importantes ciudades.

La guerra en Italia había sido muy cruenta, muy especialmente en los últimos años, costó

muchas vidas y destruyó muchas ciudades, con lo cual el estado de la península era

lamentable, encontrando los Lombardos en su camino muchas facilidades debido a esa misma

miseria que se extendía por todo el territorio y debido a que la población estaba agotada en su

ánimo y en sus bienes, por eso los invasores tomaron lo suyo con rápida decisión.

48

Ya en 565 había muerto Justiniano, que no llegó a enterarse de la invasión lombarda aunque sí

murió sabiendo que no pudo reconquistar totalmente Hispania y absolutamente nada de las

Galias, y se había hecho cargo del gobierno el emperador Justino II que vio cómo los Balcanes

eran invadidos por los eslavos sin poder hacer gran cosa, cómo los persas lo acosaban

permanentemente y le obligaban a enviar tropas constantemente a Oriente y por supuesto con

gran dificultad logró hacer detener el avance lombardo en Italia, guardándose los territorios de

Ravena, Roma y el sur.

Es por ello que los bizantinos que guardaban las murallas de las ciudades romano hispanas

eran pocos, no llegaban nuevas tropas con regularidad, y tenían cada vez mayores

inconvenientes para sostener sus territorios.

Seguramente el éxito de Bizancio en mantener varias ciudades fuertes, sobre todo en la costa,

y especialmente la joya de Carthago Spartaria, capital de la provincia e importante puerto, se

debe al apoyo de los romanos hispanos, ya que sin este apoyo con todos los problemas que

tenía el imperio hubieran desaparecido mucho antes.

6- Organización de la provincia de Spania. Los castra.

Gobernaba la provincia el Magíster Militum, con atribuciones civiles u militares, como era

costumbre en esa época en Bizancio con las regiones más alejadas de Constantinopla y sobre

todo las provincias que tienen grave peligro de ser atacadas constantemente.

49

Ya sabemos que la capital era Carthago Spartaria, llamada Justina por los bizantinos, cuya

muralla fue fuertemente reforzada por los bizantinos como en casi todas las ciudades

ocupadas, y era un buen puerto con una población numerosa y romana, y todas las ventajas

para dominar toda la provincia desde allí, incluso su cercanía a las islas Baleares hacía que

una ayuda militar desde allí fuera posible en relativamente corto tiempo.

Sin embargo existe constancia de cierto éxodo de notables de la ciudad hacia ciudades

dominadas por los visigodos como Sevilla, ello podría deberse al hecho que apuntamos de la

elite de las ciudades romanas que pactaba con los visigodos dándole un amplio espacio de

poder al bárbaro invasor con tal de no perder sus campos o bienes.

El sistema que organizó Bizancio para la defensa del territorio no difiere del utilizado en la

misma época para la frontera con Persia o los Balcanes: doble línea defensiva o doble limes,

los ocasionales invasores encontrarían primero a los conocidos limitanei, con funciones

hereditarias, encargados de la defensa del limes o frontera, generalmente afincados en

pueblos fronterizos amurallados llamados castra.

La supervivencia en dicha frontera era sin dudas dura y muy sacrificada, estaban expuestos a

invasiones permanentemente, vivían participando en escaramuzas, ya sea practicando

correrías más allá de sus fronteras o defendiendo el territorio de la provincia de los invasores,

que podían ser más o menos numerosos, desde pandillas o pequeños grupos de exploradores a

ejércitos comandados por el mismo rey visigodo.

Vivían de los cultivos que podían realizar en suelos generalmente algo alejados de los castra, y

se supone que la defensa de la provincia era eficaz porque estos limitanei también defendían

con ello a los campos que cultivaban, que eran su único medio de vida y sustento.

En los castra el comercio no era demasiado habitual, porque el peligro de acciones violentas no

alentaba el intercambio de mercaderías, la vida era muy desapacible y difícil debido a que

tenían que cultivar terrenos probablemente pobres por causa de las correrías de los enemigos

y los habitantes debían subsistir pese a todo con lo que tenían.

Es por ello que los habitantes de los castra no eran muy numerosos, y estaban limitados a un

grupo de soldados que no podía escapar a esa vida, ni ellos ni sus familias, puesto que sus

50

funciones eran hereditarias, tal vez única manera de asegurarse soldados propios en las

fronteras y no tener que recurrir a mercenarios poco confiables.

7- Las civitates.

En otro estado se hallaban las civitates, que eran verdaderas ciudades muy bien organizadas

donde en época bizantina se expandió el comercio logrando un auge extraordinario

intercambiando productos con las provincias de África y las provincias griegas y de Asia Menor

y superando incluso al comercio con Italia, que sufrió una considerable baja por la destrucción

en que se encontraban sus ciudades y el estado ruinoso de sus habitantes.

Es por ello que se abona la teoría que dice que Justiniano tenía en mente reconstruir en

imperio romano, pero también y no menos importante que eso, quería reorganizar el comercio

especialmente en el Mediterráneo, donde nuevamente el lago romano vería cómo los barcos

transportaban mercaderías de un puerto al otro.

Esa visión comercial, que perduraría en casi todos los emperadores bizantinos, fue lo que

mantuvo al imperio durante siglos al frente de las naciones del mundo conocido, pues siempre

el comercio aportaba el dinero necesario para subsistir, para crecer, para armar ejércitos,

sobornar funcionarios extranjeros y comprar la paz, y ese dinero era el instrumento mismo del

bienestar, ya que no cambió su valor por cerca de ochocientos años, estableciéndose como la

moneda internacional por excelencia de toda la alta edad media y gran parte de la baja edad

media.

El dinero obviamente provenía de los impuestos cobrados por el Estado bizantino, y es muy

fácil adivinar que la provincia de Spania, con ciudades (civitates) tales como Carthago

Spartaria, Malaca, Urci, Asidonia, Denia, debe haber contribuido grandemente al tesoro

imperial durante setenta provechosos años.

En las civitates también había murallas, las cuales fueron reforzadas por los bizantinos, a

sabiendas de que podrían ser atacadas cuando menos lo esperaban, máxime conociendo a los

visigodos, notables guerreros que habían decidido hacer valer sus derechos sobre toda la

península ibérica, y que en los primeros años de la provincia de Spania se vieron ocupados en

guerras contra los vascones al norte, contra los suevos en la Galaecia, y que siempre tuvieron

problemas para mantener buenas relaciones diplomáticas con los francos.

51

8- Una Liga de Ciudades.

Por todo lo antedicho, se puede pensar que una vez desembarcadas las tropas bizantinas, tal

vez en Malaca provenientes de Septa (Ceuta) en África, se dieron a la conquista las ciudades

una por una, aprovechando las buenas condiciones de acogida entre la población de las

mismas, hasta que tuvieron el dominio de toda la costa entre Gades y Denia, (con Besipo,

Barbesula, Melliaria, Carteia, Suol, Sálduba, Malaca, Abdera, Urci, Murgis, Carthago Spartaria)

seguramente también haciendo uso de las viejas calzadas empedradas romanas que facilitaban

el transporte de tropas y todos los elementos de auxilio del ejército.

El dominio de estas ciudades así como el de las ciudades del interior (Asidonia, Lorca,

Bigastrum, Corduba, Ecija, posiblemente Basti, Acci, Iliberis, a través del dominio de Corduba,

(¿tal vez Hispalis (Sevilla)?) fue tan rápido y tan efectivo con tan pocos medios que este solo

hecho confirma la buena acogida dispensada por los romano hispanos, y también el buen

estado de los caminos, sin los cuales el desplazamiento hubiera sido más lento y agotador.

Pero eso no significa que Bizancio haya logrado formar una provincia totalmente romana, ya

que, encerrados entre los muros de cada ciudad, los funcionarios bizantinos gobernaban de las

murallas hacia adentro, mientras el campo era inseguro, estaba expuesto a las correrías de los

visigodos o de otros saqueadores y solamente en unas cuantas zonas de dominio estable se

habrá podido cultivar con cierta confianza.

Por todo esto, el dominio de Bizancio en España ha de haber tenido todas las características de

una liga de ciudades semi autónomas, conectadas entre sí por correos, emisarios que recorrían

los viejos caminos romanos una y otra vez con peligro de sus vidas, o mejor por barco, en una

época en la que era indudable que los bizantinos dominaban todo el mediterráneo y podían

conectar los distintos puertos especialmente recogiendo mercaderías, correspondencia y

viajeros.

Los campos cultivados han de haber sido cercanos a las ciudades costeras, que fueron las que

más tiempo se mantuvieron bajo el dominio bizantino, aunque seguramente con mayor riesgo

se habrán cultivado los campos fronterizos, aledaños a los castra, en las precarias condiciones

ya expuestas en este trabajo.

52

9- Justino II (565-578) Guerra con Persia. La pérdida de Corduba y Asidonia.

Los bizantinos luchaban en varios frentes al comenzar el año 571, con el emperador Justino II

(565-578) muy preocupado por este hecho, pues peleaban en la frontera persa, en los

Balcanes casi se dejaban invadir sin luchar por los eslavos y la población se retiraba a las

ciudades costeras, en Italia los lombardos causaban estragos, y en África los beduinos

provocaban luchas permanentes, con lo que Spania quedó momentáneamente semi

abandonada a su suerte.

Justino II fue culpable, sin embargo de la guerra con Persia, pues se negó a pagar los tributos

que Justiniano hábilmente había establecido en diversos tratos con los reyes persas, algo

imperdonable, pues a pesar de todos los errores que pudo haber tenido Justiniano, esa paz

que mantenía a toda costa con Persia, a pesar de tener que desembolsar una buena cantidad

de dinero regularmente, servía al propósito de mantener el occidente romano, tan caro a sus

sentimientos.

Pero Justino II evidentemente, a pesar de que dirigió con empeño los destinos de Bizancio, no

tuvo la visión de su antecesor, y cometió este grave error que tendría consecuencias funestas

para las ambiciones imperiales en occidente.

Por otra parte, ante esta situación que provocó la falta de refuerzos bizantinos, los visigodos

opusieron a un rey valiente y buen guerrero, Leovigildo, que en 571 recupera la

importantísima ciudad comercial de Asidonia (Medina Sidonia) quitando una bella joya al

dominio de Roma, y en 572 da el gran golpe: entra triunfador en la ciudad de Córdoba,

aunque a pesar de todos sus esfuerzos, no pudo reconquistar Malaca, con lo que se conformó

con incendiar los campos de los alrededores de la ciudad marítima.

Luego los bizantinos habrían reconquistado Corduba, o en su defecto habrían conseguido la

lealtad de las autoridades romanas que habían quedado a cargo de la ciudad, que siempre

mantuvo en realidad una notable vocación autónoma, hasta que en 584 la pierden los

bizantinos definitivamente, probablemente por un cambio de lealtad de las autoridades locales

que se volvieron súbditos de los visigodos a partir de ese año.

Corduba dominaba en realidad como ciudad autónoma, romana y bastante poderosa, una

buena parte del territorio considerado bizantino, un territorio que incluía a la ciudad de Ecija y

53

muy probablemente las ciudades de Iliberis (Granada), Acci (Guadix) y Basti (Baza) en las que

no parece haber habido dominio bizantino, al menos no por demasiado tiempo, por lo tanto o

fueron siempre autónomas o estaban tal vez subordinadas a las autoridades de Corduba, y con

el cambio definitivo de lealtad de esta importante ciudad en 584 la avanzada visigoda se ubicó

muy cerca de las ciudades marítimas como Malaca (Málaga), Abdera o Urci, estableciendo un

especial enfrentamiento de estos dos verdaderos núcleos de asentamientos entre sí.

La importancia de Corduba era tal que la fama de este rey creció notablemente luego de la

sumisión definitiva de la ciudad, e incluso se lo pudo ver ataviado “a la bizantina” haciendo

gala de lujos en su vestimenta, y sobre todo portando cetro y corona, algo que ningún rey

visigodo anterior se había atrevido a hacer.

En este hecho podemos vislumbrar la notable influencia cultural de los bizantinos, hecho que

se ha dado en su contacto con todos los pueblos que tuvo por vecinos, amigos o enemigos,

durante centenares de años.

Otros problemas causados a Leovigildo (levantamientos, guerra a los suevos, Hermenegildo,

su hijo, lo desobedece y funda un estado en Sevilla y tal vez se halla convertido al catolicismo,

guerra a los vascones y problemas con los francos) hacen que los bizantinos no tuvieran que

lamentar más pérdidas de momento, pero ya su situación militar se hacía por lo menos

problemática y sus territorios se limitaban peligrosamente a la zona costera, desde la

decadente Gades hasta la lejana Denia.

54

Importancia del territorio autónomo aparentemente dominado por la ciudad de Corduba, que incluso podría también haber tenido a Iliberis, Acci y Basti en su haber. Proximidad importante de los territorios bizantinos de Baleares y Africa. También Sevilla (Hispalis) habría tenido dominio sobre ciertos territorios.

10- Cambio de actitud y de política en los visigodos.

Ya vimos los motivos porque la población romana de Spania no quería a los visigodos, y uno

de ellos, quizás el más importante a la hora de evaluar sus relaciones, era que los godos eran

herejes arrianos mientras que los romanos eran católicos como los romanos orientales o

bizantinos.

Ya Leovigildo había dado varios pasos a favor de un acercamiento entre los arrianos y los

católicos, dando una mayor libertad a éstos y algo de participación en las decisiones, en lo que

significó una política más perspicaz e integradora.

Pero los visigodos tuvieron un rey que supo ser más inteligente, sagaz y además ver el futuro,

con lo cual se dio cuenta de las ventajas que le reportaría la conversión al catolicismo de toda

la élite visigoda: Recaredo, hijo de Leovigildo, fue mucho más allá que su padre: convocó un

Concilio en Toledo, logrando que en él los arrianos visigodos de la casta dirigente se

convirtieran al catolicismo.

He aquí el Edicto del rey Recaredo convocando al Concilio de Toledo de 589:

55

"Edicto del Rey confirmando el Concilio. El gloriosísimo Rey, nuestro señor Recaredo. De todos los

que están bajo el poder de nuestro reinado, haciéndonos amantes suyos, la verdad divina inspiró

de modo principal nuestros sentidos para que, con motivo de la instauración de la Fe y de la

disciplina eclesiástica, mandáramos a todos los obispos de España presentarse ante nuestra

supremacía. Procediendo, pues, diligentemente, y con cauta deliberación sobre lo que conviene a

la Fe y se refiere a la corrección de los mores, consta haberse ordenado con toda madurez de

sentido y ponderación de la inteligencia. Por tanto, nuestra autoridad manda a todos los hombres

que pertenecen a nuestro reino, que lo que se ha definido en este santo Concilio, tenido en la

ciudad toledana en el cuarto año de nuestro feliz reinado, nadie pueda contradecirlo ni nadie se

atreva a pasar sobre ello. (...) El Rey Flavio Recaredo, esta deliberación que definimos con el

santo Sínodo, subscribí, confirmándola. Masona, en el nombre de Cristo, obispo metropolitano de

la Iglesia católica emeritense de la provincia de Lusitania, estas constituciones en que intervine

en la ciudad toledana, las suscribí, consintiéndolas."

Es esta una decisión de fundamental influencia en el ánimo y opinión de los habitantes de la

península ibérica, ya que al finalizar este Concilio los visigodos arrianos se habrán convertido

en católicos y eliminarán una importante barrera que los separaba de los romanos, que

comenzarán a mirarlos de otro modo.

Es además muy importante considerar la amplia inteligencia de Recaredo, que no propugna

una unión de las iglesias, como pasó con algunos desafortunados intentos de emperadores

bizantinos anteriores y posteriores a estas fechas con las distintas doctrinas herejes,

simplemente se trata de la conversión del alto mando y elite militar y gobernante visigoda que

se bautizan como cristianos católicos abandonando el arrianismo (por supuesto seguidos de

todo el resto del pueblo godo, como marca la buena costumbre y usanza medieval), en lo que

es a la vez un acto profundo de humildad y un acto político que le dará el apoyo de gran parte

de la población romana, que vio así una nueva oportunidad de integrarse a la administración

visigoda en buenos términos.

De este hecho podemos sacar una fácil conclusión: la presencia bizantina ya no tenía la gran

importancia del principio, estaban perdiendo algunos territorios y ahora perdían un excelente

motivo de su permanencia en Spania: el religioso, en cuyo terreno ahora estaban de igual a

igual con los visigodos.

56

Según lo escrito en estos dos párrafos del Cronicón de Juan de Biclaro, esto fue lo que

sucedió:

“Recaredo, en el décimo mes del primer año de su reinado, con la ayuda de Dios, se hace

católico, y dirigiéndose a los sacerdotes de la secta arriana más con la prudente conversación que

por la fuerza, les hace convertirse a la Fe católica, y atrae a todo el pueblo de los godos y de los

suevos de nuevo a la unidad y paz de la Iglesia cristiana. La secta arriana, por la gracia divina,

viene al dogma cristiano (...). El Rey Recaredo restituye apaciblemente los bienes ajenos

sustraídos por sus predecesores y agregados al fisco. Se hace fundador y donante de las iglesias

y monasterios.

Se reúne un santo sínodo de los obispos de toda España, Galia y Galicia en la urbe toledana por

mandato del príncipe Recaredo, en número de setenta y dos obispos. En cuyo sínodo intervino el

recordado cristianísimo Recaredo, que presentó a los obispos la forma de su conversión y la

confesión de todos los sacerdotes y el pueblo godo en un libro [tomo] escrito de su mano, en el

que se declara todo lo que pertenece a la profesión de la Fe ortodoxa, y decretó que el santo

sínodo de los obispos añadiese el orden de este tomo a los escritos canónicos.”

Sin embargo, Recaredo no combatió a los bizantinos, que se apresuraron a fortalecer aún más

las murallas de Carthago Spartaria, muy probablemente porque no deseaba combatir a gente

de su propia religión; de todas maneras, sentó las bases de la victoria visigoda al convertir su

reino arriano en reino católico, logró así ser el verdadero rey de romanos y visigodos y limitó la

base de la legalidad bizantina en Spania, que ahora solamente se basaba en el hecho de la

obediencia al emperador y en una cada vez más lejana restauración del imperio romano en

toda su gloria.

11- Paz en Spania en los tiempos de Tiberio I (578-582) y Mauricio (582-602)

Al coincidir en gran parte con las campañas de Leovigildo contra suevos, vascones y francos

(573-586) y con la actitud pacifista de Recaredo (587-601) la provincia de Spania disfrutó de

tiempos de relativa paz durante estos 29 años, donde solamente debe haber habido algunas

escaramuzas aisladas, dado que los visigodos se abstuvieron de entrar en una nueva guerra

con Bizancio, por lo que podemos decir que seguramente se habrá seguido con la actividad

comercial sin interrupciones molestas, lo que debe haber dejado un buen resultado en la

recolección de impuestos (podríamos decir que este era un motivo determinante de la

presencia bizantina en estos territorios) que venían muy bien a las ya agotadas arcas

57

imperiales, especialmente para las campañas de Mauricio en los Balcanes, durante las cuales

combatió con éxito a los eslavos invasores.

Tiberio vio como sus años de gobierno se consumían en la lucha contra Persia, por lo que poco

pudo hacer por la estabilidad de occidente; sin embargo, se seguía manteniendo el sur de

Italia, Ravena, Roma, África y todavía una buena parte de Spania.

Con Mauricio, uno de los grandes emperadores de Bizancio, asume el poder una figura con una

visión extraordinaria de la política internacional, y lo primero que intentará es una paz

concertada con Persia, ya no tanto por los problemas occidentales, cuyos territorios se

hallaban en relativa calma y donde los exarcados de Ravena y África probaban que la nueva

política de dar poder civil y militar a la figura del exarca tenía un cierto éxito: el problema

bizantino más grave era ahora la recuperación de los Balcanes, invadido por miles y miles de

tribus eslavas, a las que ahora se les agregaban los ávaros, que en pocos años dominaron a

sus numerosos vecinos los organizaron para una guerra contra el imperio.

Luego de grandes esfuerzos Mauricio consiguió en 591 la ansiada paz en oriente y pudo

dedicarse personalmente a la lucha en los Balcanes, donde el éxito volvió a coronarlo.

La visión de Mauricio hizo que no olvidase nunca a Italia, África y Spania, inclusive hay un

hecho que deja muy claro la importancia que tenía occidente para el emperador: estando a

punto de morir por una extraña enfermedad en 597, escribió un testamento donde dejaba a su

hijo mayor Teodosio la parte oriental del imperio y a su hijo menor Tiberio el occidente con

sede en Roma, con lo que demostraba la buena relación de Roma y Constantinopla, los

símbolos de jerarquía más comprometidos con el imperio, y su deseo de conservar todo lo que

quedaba del imperio de Justiniano.

No obstante, como hemos dicho, todos estos problemas no afectaron mayormente a la vida en

la provincia de Spania, que transcurría apaciblemente mientras los reyes visigodos batallaban

entre sí o mientras Recaredo transformaba el Estado arriano en católico y se dedicaba a vivir

en paz.

58

12- La anarquía de Focas (602-610): Spania abandonada a su suerte.

Un simple soldado de Mauricio, enarbolando la bandera de la insurrección a la orden del

emperador de invernar en el campo de batalla, toma Constantinopla, asesina al gobernante y

se hace proclamar emperador en 602, dando inicio a una de las etapas más tristes que tuvo el

imperio, luego de transcurrida la misma éste casi acaba por desaparecer.

La paz en Spania ya no era lo corriente, el rey Witerico inició una guerra a los bizantinos en

603, atacando sus generales varias ciudades, aunque sin demasiado éxito, salvo en la

probable conquista de Gisgonza y Bigastrum hacia 605, con lo cual las fronteras seguían

siendo casi las mismas aunque sin una de las ciudades del interior, cercana a Carthago

Spartaria, y sin la seguridad de los últimos años.

Ya Spania se había transformado hacía años en un territorio casi exclusivamente costero y

marítimo, aunque no por ello haya perdido importancia, ya se sabe que lo mejor que hacían

los bizantinos era guerrear con sus escuadras y comerciar por el Mediterráneo, aunque debido

al estado de caos del gobierno de Focas en Constantinopla la situación sería ahora más crítica

que nunca, sin refuerzos y sin un emperador fuerte para sentirse apoyados.

Para colmo de males los persas arrebataron por esos años las provincias orientales a un

imperio desolado, quedando los territorios occidentales a merced de su buena suerte.

El siguiente rey visigodo, Gundemaro, tampoco desarrolló una guerra abierta a Bizancio, y

solamente en 610 provocó reales problemas a los romanos, pero sin consecuencias para el

territorio de Spania.

13- La caída de Spania: el fin de un sueño y la continuación visigoda influenciada por

Bizancio.

El exarca Heraclio partió del exarcado de Carthago en África para tratar de evitar la disolución

total del imperio, que estaba muy cerca de ser realidad, y su hijo del mismo nombre se

transformó en el héroe que recuperó a Bizancio y derrotó definitivamente a los persas después

de tantos años de guerras y políticas equivocadas por las dos partes.

Mientras tanto, en la apretada liga de ciudades costeras que se había transformado Spania, los

bizantinos resistían como podían a un nuevo rey visigodo: Sisebuto.

59

Hay que volver aquí sobre la gran transformación del Estado visigodo: además de ser un

estado católico, ahora ya se había fusionado en gran parte la población, con lo cual, la

romanización del reino era ya una realidad, si bien no con la brillantez de la mejor época de

Hispania, pero un ejemplo de ello es el nuevo rey Sisebuto, un rey educado al estilo romano

que siguió con la profunda transformación del reino.

Aquí cabe efectuar una reflexión, y es que las fuerzas bizantinas provocaron esta tremenda

transformación en los visigodos, de ser un reino de godos arrianos para godos arrianos,

excluyendo a la población local, romana y católica, poco a poco fue adquiriendo costumbres

romanas, acercó ya que no fusionó los derechos de los ciudadanos de ambas partes y asumió

la religión católica, y ahora hasta sus reyes eran educados como romanos.

Hasta qué punto influenció Bizancio para esta transformación tal vez nunca lo sabremos, pero

es un hecho que gracias a ella la población hispana ya no vio con desagrado a los reyes godos,

todo lo contrario, la figura del rey visigodo, presente y ataviado con sedas lujosas, coronas, y

joyas de marcada influencia bizantina, superó a la de emperadores que, como Focas, poco

habían hecho para merecer tal denominación o que como Heraclio, se hallaban luchando

desesperadamente en oriente sin hacer caso de lo que pasaba en Spania.

Sisebuto fue quien en la gran campaña de 620 o 621 logra conquistar Carthago Spartaria, la

capital bizantina, a la que los bizantinos denominaban Justina, la ciudad más importante de

toda la provincia, que habría caído por la traición de alguno de sus habitantes que abre las

puertas al rey visigodo en medio de las negociaciones habituales en las situaciones de

ciudades sitiadas.

Aparentemente habría sido Sisebuto quien ordenó la destrucción de las murallas y de todas las

defensas de la ciudad, tal vez para que no pase lo de Corduba, que había vuelto al mando

bizantino luego de ser conquistada por Leovigildo, o tal vez para escarmentar a la población

local, demostrando así que el verdadero rey poderoso y romano era él.

Tras la caída de Carthago Spartaria caen varias ciudades ante Sisebuto primero, y luego de la

muerte de éste en 621, caen Malaca y las restantes ciudades costeras del estrecho en manos

de Suintila, que será el rey que se pueda adjudicar la definitiva expulsión de los bizantinos de

las tierras de la Península Ibérica.

60

Era algo lógico: el imperio, ocupado en sobrevivir a los persas con Heraclio a la cabeza, poco

pudo hacer para que este hecho no sucediese, ya que con un razonamiento elemental

consideraba que la pérdida de Siria, Palestina y Egipto (que terminó de caer en 619 o 620) en

manos de su enemigo era más importante que la pérdida de la provincia de Spania.

14- Ultimas consideraciones.

Si bien fueron relativamente pocos los años de permanencia de Bizancio en España, fue un

periodo rico en hechos interesantes, fueron años de intercambio cultural, y también los últimos

años del imperio romano en España, donde por un siglo más (hasta 711) perduraría el reino

visigodo hasta su caída en muy poco tiempo ante los árabes (los visigodos probaban así el

mismo dolor que los bizantinos experimentarían en 639-645).

No existen demasiadas fuentes que nos acerquen luz a todos los acontecimientos ocurridos en

Spania durante estos setenta años, así como tampoco hasta ahora la arqueología nos ha

descubierto demasiadas cosas sobre la vida en este periodo, por lo que lo único que nos queda

es llenar los baches existentes con la mejor lógica histórica y con las dudas naturales ante esta

situación.

Sin embargo, una conclusión surge clara y precisa al finalizar el relato de la vida en el sur de

Hispania en los años bizantinos: la civilización de las ciudades, la cultura romana, la forma de

vivir de los ciudadanos tiene una larga persistencia, hay una continuidad evidente que no se

quiebra ni con la caída de Roma, ni con la llegada de los vándalos, ni con el primer tímido

gobierno visigodo, que se fomenta y engrandece con la llegada de los bizantinos, y que

también se extiende con la toma de las ciudades por el nuevo reino visigodo romanizado.

Tal vez no sea un periodo glorioso ni extraordinario el de Bizancio en España, pero merece ser

ampliamente investigado, incluso por ciencias como la arqueología, que debería apoyar una

amplia investigación en zonas como Cartagena, Málaga o Córdoba, que están tal vez

esperando por nuevos descubrimientos que arrojen luz sobre los hechos acaecidos entre los

años 552-554 y 622-626, o sea entre las supuestas fechas del desembarco y del definitivo

alejamiento de los bizantinos de las costas de Spania.

Otra teoría que debe ser revisada es la que dice que Spania dependía de Africa, basada en que

no se han descubierto grandes obras de arte o iglesias mayores hechas por los hispanos

61

bizantinos, y es que no creo que este sea un motivo para considerar que Spania no haya sido

un poco más importante para Bizancio, habida cuenta de la importancia de su industria

pesquera, de su comercio, de sus puertos, de sus numerosas ciudades, de sus ciudadanos que

viajaban a Constantinopla, de su gente culta, de los impuestos que pagaban, sumándole los

pocos problemas de guerras en distintos periodos, al contrario de lo que sucedía en el resto del

imperio, todas razones suficientes como para justificar la no-dependencia de la provincia de

Africa o luego del exarcado de Carthago, provincia en la cual debían todos los días de todos los

años luchar por la supervivencia contra las incursiones de los bereberes que asolaban la zona

constantemente.

Sea como sea creo que se debe respetar esta época en Hispania como de una influencia

cultural muy importante para los siguientes siglos de vida, incluso para la época del

establecimiento de los árabes en la península por más de setecientos años, durante el cual el

renacimiento de la cultura, el respeto por los cristianos y la romanidad y el estudio de la

filosofía clásica se destacaron como en muy pocos Estados de la edad media, y yo pregunto:

¿de dónde podía venir esa clase de civilización sino de la influencia bizantina, ya sea de los

ciudadanos dominados en las provincias árabes de Siria y Egipto como de su propia influencia

que, in situ, desplegaron sobre los visigodos?

Como conclusión dejo esta pregunta abierta a todas las mentes que desean siempre conocer la

verdad de los hechos y las situaciones históricas.

15- Apéndice: Huellas de Bizancio en España.

Por último, una reseña de varios descubrimientos que testimonian la presencia bizantina en

España, que, aunque son pocos, estimulan a seguir con las investigaciones y espero que aún

existan arqueólogos apasionados por este tema y esta épóca:

Carteia (Gibraltar): existe una inscripción funeraria del siglo VI escrita en griego, dedicada a

Nikolaos Makarios. También cerca del foro de la ciudad se hallaron dos broches metálicos de

cinturón, uno de los cuales se considera de posible origen bizantino

En la capital Carthago Spartaria se halló una inscripción del magister militae Hispaniae

Comenciolo (hombre del emperador Mauricio y jefe de las tropas de la provincia de Spania) de

fines del Siglo VI que dice así: COMENCIOLUS SIC HAEC IUSSIT PATRICIUS MISSUS A

62

MAURICIO AUG. CONTRA HOSTES BARBARO. MAGNUS UIRTUTE MAGÍSTER MIL. SPANIAE. En

ella como vemos se menciona supuestamente a los visigodos como bárbaros.

En Baria se localizó un epígrafe de letras griegas del siglo VI, donde se alude a Eutyches, hijo

de Sambatius.

En Sierra Alhamilla aparece una necrópolis de muy posible construcción bizantina de fines de

siglo VI.

En Baelo Claudia se encontraron varias monedas bizantinas.

En unas excavaciones en el castillo de Tarifa se encontraron numerosos restos que parecen

indicar que hubo allí un establecimiento bizantino.

Finalmente encontramos las huellas de la influencia bizantina en el

reino visigodo, ya hablamos de la vestimenta y los ornamentos del

rey Leovigildo y de muchos de sus sucesores, incluso los

posteriores a la dominación bizantina, como Recesvinto, rey que

ejerció su gobierno ya hacia la mitad del siglo VII, cuya corona

hecha de dos medias circunferencias de oro unidas por una

charnela y un pasador, engastadas con zafiros, perlas, y otras

piedras preciosas, aunque haya sido hecha por un artesano

hispano debe su elegancia, forma y características principales a los

delicados orfebres bizantinos.

Corona del rey visigodo Recesvinto.

Rolando Castillo

(webmaster of)

www.imperiobizantino.com

63

Bibliografía.

LA ASSIDONA BIZANTINA Y SU REFLEJO EN LAS FUENTES. Pedro Estudillo Ruiz

EL EPÍGONO BIZANTINO DE MEDINA SIDONIA Bartolomé Luna Moreno - Pedro Estudillo Ruiz

UNA APROXIMACIÓN AL ESTUDIO DE LAS VÍAS EN LA HISPANIA VISIGÓTICA Enrique

Gozalbes Cravioto

Actas del II Congreso Internacional de Caminería Hispánica. Tomo I, pp. 85-94

LA CIUDAD EN LA HISTORIA. Tomo 1. Lewis Mumford.

ATLAS HISTÓRICO MUNDIAL. Georges Duby.

EL IMPERIO BIZANTINO. 395-1204 Fotios Malleros.

HISTORIA DEL ESTADO BIZANTINO. Georg Ostrogorski.

BIZANCIO Y EL MUNDO ORTODOXO. Alain Ducellier.

HISTORIA UNIVERSAL. Anesa-Noguer-Rízzoli.

HISTORIA UNIVERSAL. Tomo 4. La edad media. Carl Grimberg – Ragnar Svanstrom.

64

Un Mercante dell’Italia settentrionale al tempo di Giustiniano

di Enrico Pantalone

Facciamo una passeggiata nel passato, all’epoca di Giustiniano ed all’incirca intorno al 560:

immedesimiamoci nell’atmosfera del tempo a cavallo tra gli ultimi bagliori dei secoli d’oro

dell’Impero Romano ed il tetro futuro che avrebbe di lì a poco preso il sopravvento

annientando per qualche secolo commercio e vita sociale.

Giustiniano racchiudeva in sé l’orgoglio d’essere ancora considerato un Imperatore Romano

(l’ultimo forse..) e d’essere nel contempo già platealmente solo Orientale in molte delle sue

manifestazioni esteriori.

Sappiamo bene che tutta la sua politica sociale ed economica (oltre che militare) ha risentito di

questa ambiguità di fondo.

Il Corpus Iuris Civilis e’ indiscutibilmente un’opera Romana per come è scritta e come è

concepita, gli stessi autori arrivano per lo più dalla scuola di Beirut, valente colonia della città

eterna e la sua applicazione resterà un fondamento ad occidente, dimenticata ad oriente, sarà

ripresa e immortalata da dotti scienziati giuristi per ribadire la superiorità degli Imperatori

Germanici dall’anno mille in poi e per la crescita dello Ius Commune delle genti che abitavano

le sue terre.

L’immensa pianura Padana imperiale che s’estendeva sull’asse delle sue due grandi città, sedi

imperiali in diversi tempi, Milano e Ravenna, farà da sfondo al simpatico viaggio attraverso usi

e costumi delle tradizioni settentrionali.

Il nostro baldo amico del tempo si chiama Ippolito e di professione fa il commerciante, ha la

sua brava famiglia e una buona attività che riguarda la compravendita soprattutto di utensili da

lavoro, d’armi ma non disdegna di far mercato anche di stoffe, pietre preziose o monili.

E’ a suo modo un innovatore, per quanto i tempi lo permettano, ha una sua piccola officina e

viaggia anche attraverso l’Impero od oltr’Alpe.

Avendo una florida attività e alcune rendite fondiarie il nostro buon Ippolito deve anche pagare

le giuste tasse all’amministrazione provinciale bizantina.

65

Egli sa che deve pagare annualmente un canone regolare in base alla sua rendita catastale

circoscritta ed attestata da messi giudiziari, lo fa volentieri anche perché in qualche modo si

ritiene garantito e protetto dalle leggi.

Vero anche che in questo periodo storico molti proprietari terrieri in barba alle leggi usano il

sistema d’alienazione delle stesse al fine di non pagare imposta, metodo ereditato dai

possidenti romani dei secoli precedenti ma normalmente gli ufficiali imperiali preposti sono

molto severi e gli amministratori colpiscono senza peraltro quasi mai abusare del loro potere.

Il suffragium è tuttavia cosa comune nel centro e nel sud dell’Italia mentre a nord è più

difficile, anche perché spesso nel primo caso la carica d’amministratore viene comprata per

poter sfruttare meglio le leggi mentre nel secondo la continua guerra con le popolazioni

germaniche non consente di lasciare tale incombenza in mani private ma in mano ai militari

che o più difficilmente si lasciano corrompere.

Si, e’ vero, sono appena finite le guerre distruttive tra Goti e Bizantini e gli eserciti calpestano

il suolo coltivabile e razziano le materie prime prodotte ma tutto sommato pur con qualche

difficoltà nella sua attività Ippolito si barcamena rendendosi utile di volta in volta o agli invasori

o ai difensori.

E qui sta l’abilità del nostro amico mercante, cresciuto ad una scuola dura, egli sa leggere,

scrivere e far di conto quanto basta, la scuola pubblica bizantina lo ha istruito regolarmente ed

egli ha appreso tutto cio’ che gli e’ stato sufficiente per progredire nelle sue capacità

d’adattamento.

La sua famiglia, una moglie, Enilde, di chiare origini germaniche, e i suoi due figli Edelgardo e

Servio oramai in età più che adolescenziale l’aiutano nel commercio e lo seguono nei giri per le

terre vicine, poi c’è anche Olimpia, la piccola di casa, che si cura di tenere sempre in ordine la

bottega insieme alla madre.

La popolazione rurale e quella delle città imperiali non è certo del tutto felice perché giorno

dopo giorno deve vivere senza poter pensare a costruire un futuro decente per sé: spesso il

passaggio dalla vita alla morte è un fattore decisamente fortuito e banale, onde per cui è

meglio non farsi troppo illusioni, già la vita è breve, figuriamoci se si può pensare ad altro che

la sopravvivenza.

66

Eppure i valenti artigiani della nostra famiglia a loro modo sviluppano nuove tecniche

d’approccio nella costruzione e nella creazione di strumenti utili alla gente, siano esse armi o

utensili per il lavoro.

Si perché, per tutti Ippolito ha pronto una lancia, una mazza, una scure a doppia lama, se si

hanno più denari una bella spada.

Queste armi vengono tenute poi nascoste e tirate fuori nel caso si debba difendere i propri cari

ed i propri averi..

Ippolito non sfrutta mai la gente, sa che un nobile può pagarlo di più se il lavoro viene fatto

bene, ma sa anche che il contadino deve difendersi, gli compra utensili e lo fa vivere

dignitosamente per cui sfruttarlo sarebbe contro i suoi interessi economici.

Poi, ci sono le fiere dove portare il surplus della sua produzione, ci sono le grandi città come

Milano o Ravenna, dove ovviamente egli presenta la sua mercanzia ritoccata di quel tanto nel

prezzo che gli permette buoni guadagni e di pagare le imposte dovute all’erario imperiale.

Entrambe la città fagocitano quasi tutto ciò che viene prodotto dalle terre circostanti, e

nonostante tutto questo spesso non basta, per cui si vende di tutto ed in abbondanza una volta

varcate le mura del borgo.

Per esempio l’Istria e parte delle terre venete dell’est “nutrono” la capitale occidentale,

specialmente se si tratta d’olio, di vino e di garum, tre prodotti indispensabili per ogni buon

bizantino o abitante dell’impero.

In special modo il garum istriano è conosciuto come d’ottima qualità e molto ricercato.

Nella capitale Ravenna, il potere, ed Ippolito lo sa bene, è fermamente nelle mani del patriziato

laico, un po’ furbo, un po’ istrione ma fondamentalmente ligio alle direttive di Bisanzio anche

se in qualche modo cerca d’attuare una sua politica locale sempre in ottemperanza alla

Pragmatica Sanctionae.

Ma Ippolito, girando per il lungo ed il largo nel settentrione si dirige anche verso ovest e

conosce Milano, dove vende bene e guadagna altrettanto bene, spesso risale il grande fiume

che attraverso i canali secondari lo porta nel centro cittadino, non gli costa neanche tanta

fatica, qualche giorno di provviste e via, è abbastanza sicuro, perchè sulla chiatta i banditi non

possono rapinarlo e spesso ci sono anche dei soldati che si spostano, sa che deve pagare ogni

67

tanto qualche moneta per avere “favori” particolari come il posto a sedere o un riparo se piove

ma in fondo non se ne cura molto.

E poi è un utile esperienza anche per un dei due figli che l’accompagna, uno, perché l’altro

deve comunque rimanere a case nel caso succedesse qualcosa…

Ippolito insieme a Edelgardo sta appunto tornando da una fiera sul Po quando entra in contatto

con una pattuglia di militari imperiali, che vedono le buone armi invendute e chiedono il

prezzo.

Consuetudine comune al tempo, infatti le province devono poter far fronte al nemico senza

contare sull’aiuto dell’amministrazione centrale, dispongono di danaro da spendere e possono

comprare senza bisogno di nulla-osta particolari: l’accordo tra le due parti è semplice ed il

pagamento immediato, cosi entrambe le parti sono soddisfatte, una per la vendita l’altra per

l’acquisto.

Di solito i militari pagano il nostro mercante con il semissis ed il tremissis, cioè mezzo soldo od

un terzo del soldo (solidus) o bisante imperiale, ma normalmente egli ha una buona sacca di

monete d’argento e bronzee per le transazioni locali e provinciali.

Il semissis ed il tremissis vengono tenute in grande considerazione perché sono le monete

della riforma economica di Giustiniano importante tappa per una buona ripresa amministrativo-

commerciale.

Per quanto riguarda il soldo, Ippolito non lo usa, vuoi perché la sua merce non ne richiede

l’utilizzo per transazioni minime, vuoi perché l’amministrazione imperiale tende ad acquisire

tutti quelli in circolazione per farli convogliare a Bisanzio e da qui verso i mercati orientali che

privilegiano l’oro anzichè altri metalli meno nobili e per accaparrarsi le derrate ne occorrono

molti su quei mercati.

Che poi queste monete prendano il volo durante i viaggi sulle carovaniere caspiche o iraniche

non deve trarre in imbarazzo, esse vengono sostituite da quelle d’argento senza alcun

problema.

Comunque anche Ippolito tramuta alcune sostanziose rendite in monete d’oro e gelosamente li

nasconde in qualche luogo buio e solitario della casa: ha tre figli e vuole che siano tutti felici, è

un bravo padre ed oltre alla buona bottega cerca di lasciare loro anche qualche miglioria.

68

Poi è solito regalare ai figli monete d’oro per qualche importante avvenimento, è caparbio e lo

fa sempre con estrema naturalezza.

Per la moglie ha in serbo una sorpresa: da un amico mercante che traffica oltre le Alpi ha

acquistato una collana d’ambra di notevole fattura fatta nel lontano nord, nelle terre fredde:

nelle terre baltiche quest’arte è la regola.

Gli è costata molto, ma quando sua moglie Enilde l’indosserà per lui sarà come se lei fosse una

Regina o un’antica principessa Romana, beh, in fondo si rifarà sulla vendita della prossima

spada….magari gabolando un po’ sul peso dei preziosi incastonati nell’elsa della stessa.

Egli pero’ non vuole fare mancare l’istruzione ai figli, anche loro hanno imparato

l’indispensabile nelle scuole pubbliche, e nei momenti liberi dal lavoro li manda ad apprendere

qualcosa in più da uno maestro ateniese. Pherseo, che cacciato dalla legge di Giustiniano

contro i filosofi della capitale greca ha trovato rifugio da queste parti.

Viene dalla Licia, una zona dell’Anatolia di fronte a Cipro, una zona mediterranea ed e’ un

brav’uomo, magari un po’ suonato o eccentrico per il modo di vivere usuale di queste zone ma

non fa male a nessuno ed oltretutto è molto simpatico.

Tiene le sue lezioni sotto una pianta o vicino a qualche pergolato d’estate e in qualche

masseria nei mesi freddi.

In realtà lui dovrebbe insegnare solo la filosofia ma capendo anche le esigenze della gente

della Padania, fa si che le sue lezioni siano intrise anche di sano buon senso rurale.

I figli di Ippolito ed altri giovani lo seguono attentamente anche perché pagano la loro quota e

da bravi commercianti cercano d’apprendere il più possibile.

Certo non è possibile per loro avere una cultura raffinata anche se qualche libro riescono ad

acquistarlo, ma possiamo dire che essi si ritengono fortunati di poter avere almeno quelle

poche ma sostanziali informazioni.

Per tutta la nostra famiglia viceversa è molto importante conoscere il diritto e tutto ciò che

compete ai vari amministratori e messi giudiziari.

Spesso da una piccola dimenticanza può nascere una disputa dagli esiti anche fatali ed è

giocoforza per loro imparare bene l’uso delle consuetudini e delle leggi.

69

Essi sanno che è stata varata una nuova riforma che ha sconvolto il mondo conosciuto, non si

peccano certo d’interpretare quelle leggi o di studiarle, a parte gli incaricati statali solamente i

rappresentanti della Chiesa possono esserne a conoscenza anche perché scritti in latino, lingua

che oramai il popolo non usa quasi più.

Si parlava molto nei borghi dei codici emessi da Giustiniano e delle sue novelle.

Grazie al Cielo, Ippolito non ha mai avuto problemi con la giustizia, anche perché molti dei suoi

clienti sono ricchi signori della zona che l’hanno preso a ben volere e spesso egli si ferma da

loro a mangiare dopo una fornitura di utensili o di preziosi.

Proprio in una di questi pranzi, ed è insieme ai due figli, presso il duca delle terre circostanti ci

si è intrattenuti a parlare sul caso giudiziario del momento.

Un ricco mercante e buon amministratore di rendite, Malvezzo, conosciuto e stimato da tutti

nobili e popolo, è stato citato in giudizio da un funzionario imperiale, considerato inetto e

vessatorio.

Malvezzo, a suo giudizio non avrebbe ricavato una somma cospicua ed idonea da una vendita

di terreni.

Si sa che in giudicato egli pur innocente perderebbe, troppo il potere in mano al funzionario

provinciale e cosi’ egli s’è rivolto allo stesso duca al desco con Ippolito ed ad altri nobili e

maggiorenti cittadini per avere aiuti nella disputa.

Lo stesso comandante militare bizantino della guarnigione stanziata presso il borgo si dice

pronto ad assumere la difesa di Malvezzo perché oltre a credergli, ritiene il funzionario una

persona capace solo di far male alla politica imperiale e questo, si sa, dopo la riforma, è

ritenuta cosa inammissibile da Giustiniano.

Egli proprio per questi motivi ha creato la figura del praetor plebis o praetor populi, cioè d’un

giudice garante dell’autonomia del potere giudiziario sopprimendo la carica di praefectus

vigilum oramai desueta ed incomprensibile alla gente comune e rurale.

La vecchia carica aveva ben pochi aspiranti, sia per la pericolosità (le minacce erano all’ordine

del giorno e dalle minacce alla morte correva davvero ben poco spazio temporale) sia perché

scarsamente retribuite, il che portava inevitabilmente l’incaricato a cercare guadagni in

maniera diversa.

70

La nuova invece, varata dopo la rivolta di Nika, dava maggiore spazio d’azione al nuovo giudice

e lo rendeva scevro dalle possibili collusioni con la malavita, poi poteva sempre rivolgersi al

comandante militare di zona.

Insomma, ogni cosa è pronta per un processo che tutti gli amici del borgo aspettavano con

ansia e poter constatare se le nuove leggi funzionavano veramente.

Il funzionario inetto capisce che l’aria è decisamente cambiata tanto da cercare la fuga

nottetempo ma individuato e fermato da una solerte pattuglia che sorvegliava la mura

cittadine si trova ora in una posizione alquanto sospetta.

E viene il giorno atteso anche perché s’è fatto un gran parlare del caso e tanta gente viene

anche dalle terre vicine.

Sono arrivati anche dei dignitari direttamente da Ravenna con ordini severissimi per il praetor

plebis: egli e’ diventato agli occhi di tutti e per Giustiniano soprattutto la reincarnazione del

vecchio giudice romano e soprattutto del suo prestigio passato (tant’è che egli evidenzia

apertamente le differenze tra il nome in latino e quello greco che inevitabilmente finisce in

second’ordine, dietro le quinte e probabilmente usato solo ad oriente).

In effetti il processo sta seguendo una strada ampiamente prevista, Malvezzo espone i fatti con

lucidità e testimonianze importanti, quali quelle del Duca e del Comandante militare, quello

d’altri onesti cittadini ed il funzionario al contrario non risponde in maniera coerente e spesso

non riesce nemmeno a comprendere qual è il suo discorso e come deve giustificarsi.

Il praetor plebis non ha difficoltà ad emettere la sentenza, Malvezzo viene riconosciuto

pienamente innocente ed il funzionario destituito d’autorità ed imprigionato in attesa del

giudizio sul suo operato.

Ippolito ora è contento, va dall’amico e si congratula con lui, poi con i figli decide che è tempo

di festeggiare con una buona bevuta, ma sa anche che non sarà sempre così, e non sempre

prevarrà la giustizia, lui è un uomo con i piedi per terra, sa che questa volta è stato lo stesso

imperatore tramite i suoi emissari a volere un processo giusto, ma se lui morirà cosa accadrà ?

E cosa accadrà se i Goti ritorneranno in queste terre ?

Tutte domande difficili per gente come Ippolito,lui deve vivere alla giornata e non può

permettersi il lusso di divagare: oggi ha vinto la giustizia domani si vedrà.

71

Il comandante militare vede la famiglia e si ferma a chiacchierare con i componenti in taverna

davanti ad un bicchiere di vino.

La sua guarnigione avrebbe bisogno di nuove reclute, magari anche di buoni ufficiali, ed i due

figli sembrano promettere bene, oltre tutto hanno anche una buona istruzione e questo

faciliterebbe il lavoro da svolgere, di natura poliziesca, secondo i nuovi canoni della riforma

dell’imperatore che da importanza strategica alla milizia (leggi polizia) locale.

La paga e’ interessante e le prospettive buone, certo Ippolito preferirebbe vedere i suoi due

figli proseguire il commercio famigliare ma come dire no allo spirito d’avventura che è insito in

ogni giovane.

Edelgardo e Servio sono estasiati dalle parole del comandante, ma guardano negli occhi il

padre e chiedono di pensarci, dei due Edelgardo si lascerà convincere e Servio rimarrà in

famiglia.

Ippolito è comunque felice, un figlio nella milizia provinciale è una sicurezza in più anche se ora

il suo posto sul lavoro dovrà esser preso da un altro che per di più dovrà essere pagato.

Eccolo finalmente, il figlio arriva nella sua nuova divisa dalla famiglia e la madre lo guarda

ammirato, lei era una schiava di razza germanica, abituata ai lavori duri sin da piccina e vuole

un gran bene al marito, vedere il figlio con l’uniforme imperiale la mette di buon umore.

Ippolito deve trovare un nuovo aiuto per sostituire il figlio ed anche qui gli viene in soccorso

una raccolta di leggi edite dall’imperatore, lo ius nuvum codificante tutte le consuetudini, gli usi

ed gli atti giuridici dei territori italiani passate sotto il nome di manumissio, cioè l’atto con cui si

libera lo schiavo.

Molti di questi schiavi sono diventati liberti sfruttando questa legge ed ora cercano lavoro,

Bruso è uno di questi.

Egli è diventato libero in virtù del fatto che davanti a cinque testimoni di provata fede il suo

padrone lo aveva dichiarato non più servo, tanto basta con l’introduzione della nuova legge

voluta da Giustiniano per renderlo sciolto legalmente dall’impegno servile.

In realtà il suo padrone non avrebbe voluto liberarlo ma solo alienarlo per il solito giochetto di

evitare il pagamento delle imposte sui suoi beni tra cui ovviamente v’era anche Bruso.

72

Figuratevi la sua faccia quando il nostro liberto ha preso la sua roba e se n’è andato con la sua

carta legale di emancipazione e la sua brava cittadinanza romana ed imperiale, già perché la

nuova legge ne prevedeva l’automatica estensione a tutti coloro che si riscattano dalla

schiavitù per evitare dispute con chi l’ottiene viceversa tramite il praetor.

Le due pratiche legali vengono quindi equiparate ma l’importante è che la forza della legge

permette a questi uomini di diventare cittadini a pieni diritti, insomma il nostro buon Bruso ora

sa che dovrà lavorare duramente ma lo farà per lui e non per altri.

Egli e’ stato prima della schiavitù un buon maestro di stoffe e legname e chiede di poterlo

continuare a fare: Ippolito lo scruta per bene ed insieme al figlio Servio decide di metterlo alla

prova portandolo in prossimità delle merci stoccate nel magazzino adiacente alla parte aperta

al pubblico.

Qui ci sono delle stoffe e degli arnesi da contadino.

Ippolito gli chiede di valutare le merci perché non si fida di chi le ha vendute…

Bruso prende dapprima gli utensili a manico, ne odora il legno, ne tasta la stagionatura con

piccoli colpetti, poi passa alle parti metalliche e approva con lo sguardo serio l’acquisto, ma da

schiavo ha imparato anche a controllare le stoffe, con il palmo della mano ne soppesa la

consistenza, alcune le mette da un lato ed alcune da un altro poi indica quali sono scadenti e

quali invece sono d’ottima fattura.

Ippolito e Servio sono sorpresi ma compiaciuti, sanno d’aver trovato un buon lavoratore e che

conosce il mestiere, il prezzo della sua opera come di consueto a quel tempo, sarà il vitto,

l’alloggio, una parte di derrate che potrà rivendere a suo piacimento e qualche moneta

d’argento, se poi gli affari andranno bene in qualche fiera un arrotondamento senz’altro lo

percepirà

Non è molto, ma di questi tempi, un tetto sicuro, un buon pasto è già qualcosa, Bruso non è

giovanissimo, avrà almeno 35 anni ed in fondo gli piace questa gente simpatica e per niente

arrogante.

La bottega, come tutte quelle di questo tempo non è precisamente un luogo profumato come

la corte regale e gli splendidi palazzi imperiali.

73

La stagnazione dei vari odori si sente da molto lontano anche se non vi sono alimentari che

rischiano la putrefazione, del resto non è che le abitazioni fossero più salubri, la mancanza di

finestre a vetri per ovviare al freddo dell’inverno padano purtroppo regalano effluvi certo non

edificanti.

Bruso, che se ne intende, ha ovviato a questo problema raccogliendo sui greti del fiume ai

bordi della città molte erbe che servono, anche seccate, a rendere più sopportabile l’ambiente.

E’ anche tempo di ringraziare Iddio per la benevolenza del periodo e per questo si va in Chiesa

ma anche per un altro motivo, d’ordine giuridico se vogliamo.

L’Auctoritas Ecclesiae sovrintende al buon funzionamento della comunità e di fatto s’appaia al

Diritto Romano del Corpus Iuris sempre con maggior insistenza e precisione, Giustiniano è

ancora l’imperatore ma il potere del Papa in Roma guadagna sempre più terreno.

Quindi bisogna mostrarsi anche buoni cristiani ed Ippolito lo è senz’altro, come tutta la sua

famiglia, e poi la Chiesa è pronta ad ogni evenienza, le sue porte s’aprono nel caso di

scorribande dei Goti o di banditi, spesso è l’unica autorità che s’oppone alle barbarie e Bisanzio

e così lontana che anche mettendoci tutta la buona volontà non può intervenire sempre.

Edelgardo, il figlio d’Ippolito, con una sua pattuglia ha avvistato dei predoni goti che

probabilmente si sono staccati dalle forze regolari e vagano per le terre in cerca di vittime e

guadagni facili, sono in molti e le esigue forze di stazza nel borgo del nostro amico mercante

non bastano di certo a fronteggiarli, per cui la popolazione viene avvertita per avere il tempo di

rifugiarsi in qualche posto sicuro.

Ippolito porta la moglie e la figlia in Chiesa dove già ci sono altre persone timorose, mentre lui

stesso e Servio si metteranno al servizio del primo figlio insieme ad altri coraggiosi che

preparano la difesa, non sono eroi, semplicemente preferiscono aiutare la milizia come

possono, pure senza usare le armi, anche Bruso si mette a disposizione, ora che è un cittadino

libero vuole guadagnarsi la stima di tutti.

Fortunatamente in questo frangente non v’è bisogno di combattere, la soldataglia ha preferito

dirigersi verso altre terre confinanti e poi dopo aver saccheggiato e distrutto ha virato verso la

parte opposta rispetto al borgo del nostro mercante.

Le notizie che rari fuggiaschi portano da quelle terre sgomentano la gente,

74

non v’è nessuna pietà per i malcapitati e le poche truppe cittadine ed imperiali sono state

massacrate: Bisanzio è lontana, sempre di più e Ravenna non riesce ad esercitare il suo potere

in maniera ferma e decisa nella valle Padana.

Passata quest’ultima triste avventura senza troppi danni, Ippolito decide che deve andare ai

confini con l’Illiria per comprare delle pelli e rivenderle con un buon guadagno, laggiù ci sono

molte merci che arrivano dal lontano oriente europeo, troppo per conoscerle bene ma che

vendono i loro manufatti a prezzi irrisori.

La sostanza è nel pericolo del viaggio, ma Ippolito lo sa, porta con se’ il figlio Servio, ci vorrà

parecchio tempo tra andata e ritorno con il carro: quindi prima di partire chiama il figlio

Edelgardo e gli consegna gli averi, poi paga Bruso per un anno e gli affida la custodia della

moglie e della figlia, sarà lui l’uomo di casa ora.

Si fa dare l’indulgenza per la sua anima e quella del figlio, e fa una buona elemosina,

insomma, lui sa che parte ma non sa se tornerà mai indietro.

Viaggerà insieme ad altri mercanti conoscenti ed amici, così si sentirà meno solo.

Le strade che affronta durante il viaggio sono per lo più quelle romane, ancora in buono stato

nonostante le guerre e le distruzioni, certo la pavimentazione non ha più subito manutenzione

da secoli, le pietre levigate d’un tempo sono solo un sogno ed Ippolito nel migliore dei casi

riesce a fare una trentina di chilometri al giorno, sempre che non piova a dirotto….

Spesso il tracciato è solo un sentiero battuto e passa in mezzo a boschi e sterpaglie,

fortunatamente man mano che si percorre la strada verso l’est ritrova un selciato, e si trovano

anche delle stazioni e locande posizionate più o meno alla stessa stregua di quelle romane dei

secoli d’oro, vi si trovano anche delle pattuglie bizantine che cercano di dare un qualche

sicurezza ai viaggiatori.

La vista di torrette miliari leniva la solitudine e la paura, Giustiniano ci tiene a che la gente sia

rassicurata, e questo significa dover tenere sempre attive le minime funzionalità logistiche

militari.

Ippolito per i suoi acquisti ha potato monete d’oro, che sono le più controvertibili, ma anche

monete d’argento o di bronzo per i pagamenti veloci e soprattutto per acquistare

vettovagliamenti e pagare le locande ed i pernottamenti.

75

Il mercato per l’acquisto delle pelli si tiene ad Apollonia, città da cui parte la Via Egnazia, la

famosa via consolare romana che arriva a Tessalonica e che quindi fornisce la possibilità ai

mercanti orientali d’arrivare al confine con la parte occidentale dell’Impero.

Ippolito ed il figlio si danno un grande daffare durante i giorni di fiera, vendono parte della loro

mercanzia ed acquistano molte pelli pregiate cacciate nelle pianure che s’estendono oltre le

terre dei Daci.

Insomma il loro viaggio è stato proficuo e vantaggiosa sarà ancor più la successiva vendita di

questa mercanzia, in Padania nei mesi freddi s’ha sempre un gran bisogno di abiti caldi e le

pelli offrono indubbiamente questo particolare vantaggio.

Ed ora si riprende la via del ritorno.

Nel frattempo Bruso ha mandato avanti la bottega in maniera eccellente e ha sempre avuto un

occhio particolare per le due donne della famiglia, Olimpia lo chiama zio e lui ne è contento.

Va anche molto d’accordo con Edelgardo, che spesso visita la madre e la sorella quando non è

di pattuglia.

Ora ha trovato un fondo che gli pareva interessante e con i soldi risparmiati dalle transazioni

personali, quello che gli aveva anticipato Ippolito sui suoi futuri lavori e qualche regalo per

lavori eseguiti presso altre persone poteva permetterselo.

Così si trova con cinque testimoni di provata fede tra cui Edelgardo ovviamente per la

transazione consuetudinaria che nel nuovo codice amministrativo di Giustiniano passa come

Traditio e si rifà alla Mancipatio teodosiana.

L’alienante e Bruso si trovano davanti ad una bilancia retta da una sesta persona per l’atto

chiamato libripens: è un atto simbolico, la vecchia immaginaria venditio, e tutti lo sanno bene,

ma appunto perché è una consuetudine perpetuatasi nel tempo piace e viene seguita alla

lettera.

Bruso con un lancio deciso ferma il penzolamento della bilancia mediante un pezzetto di bronzo

non coniato.

L’atto è validato dalla presenza dei testimoni.

Ora Bruso è diventato padrone d’un fondo, certo non grande, ma per lui è più che sufficiente,

continuerà certo a lavorare in bottega ma nel contempo guadagnerà qualcosa dallo

76

sfruttamento della terra mettendosi d’accordo con qualche contadino e dividendo a metà il

frutto delle coltivazioni.

E’ un sistema semplice il suo, non ha famiglia, e quindi può rischiare.

Il diritto amministrativo giustinianeo ha fornito i mezzi giuridici necessari e lui ha agito

legalmente come cittadino dell’Impero:: motivo di grande soddisfazione dunque.

Ippolito ed il figlio sono ritornati a casa con il loro carico prezioso.

Insieme al buon Bruso si dividono le pelli a seconda della qualità e per che capo serviranno,

infatti alcune andranno vendute a le intendenze militari per l’abbigliamento invernale, alcune

serviranno ad altri lavoratori manuali e le più prestigiose alla nobiltà.

Il nostro mercante si congratula con il suo aiutante per l’ottimo affare del fondo, ora ha in un

mente un progetto più ambizioso, vuole ampliare la portata del suo commercio, in fondo ha

superato i 45 anni e l’età è avanzata, sa che a parte la morte violenta può ghermirlo anche

quella tradizionale, di vecchiaia, e contando i suoi anni s’accorge che avrà ad andar bene

ancora dieci anni di vita come aspettativa e sarebbe già molto per questi anni.

Il primo figlio Edelgardo è stato nominato stratega ed oramai la sua strada è quella di servire

lealmente nell’esercito imperiale e d’avanzare nella gerarchia delle sue cariche, in fondo è

valente, ben istruito e anche coraggioso, quindi nulla gli è proibito, si sa che Giustiniano ha

una predilezione per gli uomini d’azione e lui lo è.

Ippolito decide così d’aprire con i guadagni della vendita delle pelli una nuova bottega di sete e

stoffe per il figlio Servio che ha ereditato la sua passione per l’arte del vendere e comprare.

La bottega attuale sarà data in gestione a Brusio, oramai diventato di famiglia, che grazie alla

sua esperienza garantirà buoni guadagni ed un’oculata gestione.

Ora ha solo da sistemare la figlia minore Olimpia, già 15enne ed in età da marito, lei è un bella

giovinetta, c’è solo da scegliere tra tanti validi giovani, ma in fondo lui non ha troppa fretta che

ciò accada, ha provveduto a crearle una solida dote ed è sicuro che quando accadrà

l’inevitabile lui sarà senz’altro pronto.

Ma purtroppo lui non ha fatto i conti con uno dei peggiori nemici di quest’epoca, un nemico

subdolo, quasi imbattibile e che lascia solo morte dietro di sé: la peste.

77

Certo non è la grande peste di qualche quinquennio prima ma per la gente comune è pur

sempre un momento tragico.

Già la guerra ha impoverito e depauperato di popolazione la penisola, ora che si stava avendo

sentore di qualche miglioramento e crescita nella vita sociale, arriva quella che viene

considerata una punizione divina.

E colpisce senza pietà, ovunque, senza distinzione di razza, cultura e ricchezza…..

Anche il borgo di Ippolito viene colpito, ed è una strage, muoiono a centinaia, complice anche

le pessime condizioni igieniche delle strade e delle abitazioni.

Non v’è nulla da fare contro d’essa e tutti lo sanno, la Chiesa s’erge con il suo potere morale

per alleviare almeno dal punto di vista spirituale la popolazione, le autorità bizantine mettono a

disposizione tutto l’apparato burocratico e militare disponibile e lo stesso figlio d’Ippolito,

Edelgardo, assume tutti i poteri nel borgo come prassi consolidata vuole per arginare la

situazione giorno dopo giorno drammatica.

Ogni famiglia viene decapitata di qualche elemento e nemmeno quella del nostro amico risulta

indenne.

Così anche il nostro nucleo dovrà pagarne le conseguenze ed

Ippolito viene colpito dal male inesorabilmente, la febbre violenta, le convulsioni, le pustole ed

i bubboni che appaiono sul suo corpo non lasciano dubbi: nonostante le cura amorevoli di

Enilde s’appresta a passare a miglior vita nel giro di qualche giorno, cerca di resistere, sa che

non ha scampo, e pian piano non s’alza più dal letto.

Ora al suo capezzale ci sono la moglie, i due figli e Bruso.

Non ha grandi proclami da fare nell’imminenza della sua morte, ha vissuto bene, ha cresciuto

dei figli di cui essere orgoglioso, un militare ed un buon mercante che continuerà la sua

tradizione, ha sposato una donna umile ma forte al tempo stesso, ha aiutato un liberto a

diventare un vero cittadino bizantino, ha avuto modo d’apprezzare le buone leggi

dell’Imperatore Giustiniano con cui ha costruito diversi passi della sua vita.

L’unico cruccio sarà di non vedere sposata felicemente l’amata figlia, ma non si può andare

contro il volere di Dio.

78

Riceve i sacramenti e spera d’essere degno del Paradiso promesso ai Cristiani, in fondo lui è

stato un buon uomo e se lo merita.

Ippolito chiude gli occhi serenamente ed in pace con Dio circondato da tutti coloro che gli

vogliono bene.

Così passa anche la peste, e tornerà ad intervalli quasi regolari a mietere altre vite umane in

questi luoghi.

Il nostro viaggio immaginario attraverso quest’epoca storica finisce qui.

Forse un po’ triste nel finale ma non si dimentichi la durezza dei tempi che imponevano

sacrifici anche fisici oltre che morali.

Chiedo venia ai molti saggisti storici e giuridici (presenti e passati) da cui ho preso in prestito

l’ottima documentazione che m’ha permesso di descrivere la vita di un mercante al tempo di

Giustiniano: d’accordo, Ippolito nella realtà non è mai esistito, o meglio, potrebbero esserne

esistiti tanti che hanno agito sotto l’impulso delle riforme giuridiche ed economiche che

l’Imperatore fece durante il suo mandato e questo diede modo di mantenere un minimo di

attività nella vita sociale e commerciale che altrimenti nell’Italia Settentrionale del tempo,

allora territorio di frontiera, sarebbe stato difficile trovare viste la durate delle guerre, le

distruzioni e le pestilenze.

In calce a questo scritto potrete trovare autori e saggi che ho utilizzato nel lavoro a cui

rimando per una migliore conoscenza amministrativa, giuridica e sociale del periodo .

Enrico Pantalone

[email protected]

79

Bibliografia:

Per le fonti Giuridiche:

E. Franciosi “Riforme Istituzionali e Funzioni Giurisdizionali nelle Novelle di Giustiniano (Studi

su Nov. 13 e Nov. 80)”

Ed. Dott. A. Giuffrè

P.S. Leicht “Storia del Diritto Italiano – Il Diritto Pubblico”

Ed. Dott. Aldo Giuffrè

G. Ermini “Corso di Diritto Comune – I – Genesi ed Evoluzione Storica, Elementi Costitutivi,

Fonti”

Ed. Dott. Aldo Giuffrè

M. Bellomo “Storia e Istituzioni in Italia dal Medioevo agli inizi dell’Era Moderna – parte I “

Ed. Giannotta

Cavanna “Storia del Diritto Moderno – Le Fonti”

Ed. CLEUP

Per la parte generale:

B. Lançon “A Roma nel tardo Impero”

Ed. Hachette/BUR

H. Pirenne “Storia d’Europa – dalle Invasioni al XVI secolo”

Ed. Newton

80

H. Pirenne “Storia economica e sociale del Medioevo”

Ed. Newton

J.P. Leguay “La Rue au Moyen Age”

Ed. Edilarge-Editions Ouest-France

E. Perroy “Il Medioevo”

Ed. Sansoni

H. Rahner “Chiesa e Struttura Politica nel Cristianesimo Primitivo”

Ed. Jaca Book

81

Un edificio romagnolo di età Giustinianea.

Elementi di tradizione religiosa per una ricostruzione grafica dell’antica situazione di San Michele in Acervulis,

presso Santarcangelo di Romagna (RN).

di Carlo Valdameri

La pieve di San Michele in Acerboli (o Acervulis) sorge ai piedi del colle dove attualmente è

raccolto il centro storico della cittadina di Santarcangelo di Romagna (RN).

1. Rapida sintesi delle informazioni note e degli studi compiuti.

Il primo documento a citare la presenza della chiesa è una registrazione del Codice Bavaro, con

due atti compilati in momenti distinti: uno tra l’889 ed l’898 ed il secondo nel 972. L’edificio,

nel primo atto, è nominato come basilica; si tratta di un termine usato diffusamente nella

terminologia dei documenti del codice che può ammettere tranquillamente il fatto che la chiesa

detenesse già il titolo di pieve quale già appare nel secondo atto.

Segnaliamo inoltre – e se ne riparlerà in seguito - come lo storico seicentesco riminese C.

Clementini (1617) riporti il ritrovamento in una pietra sotto l’altare dell’iscrizione: DIVO

MICHAELI, ac Divis Petro et Paulo dicatum. Anno Domini Jesu Christi. CCCC IIII 71.

In ogni caso, secondo quanto rilevato dalle analisi archeologiche, San Michele fu eretta sui

fondamenti di una precedente costruzione absidata, mentre il termine Acervulis, che definisce

la zona, certamente si riferisce al nome di quello che fu l’antico pagus romano, prima che

l’abitato si trasferisse sulla cima del vicino colle detto Monte Giove.

Una analisi assai puntuale dei documenti che riguardano la piccola basilica si trova in C.

Curradi: Pievi del territorio riminese fino al mille72, mentre, dal punto di vista architettonico -

71 ) C. CLEMENTINI, Racconto Istorico della fondatione di Rimino e dell’origine e vite de’ Malatesti, II , Rimino 1617, p.60. L. TONINI, Storia di Rimini II, p.257. Nel XIX° sec. si accese una polemica tra Luigi Tonini e l’arciprete Marino Marini sull’autenticità dell’iscrizione. Va detto tuttavia il contraddittorio era impostato pressochè esclusivante sulla possibilità di una datazione al V secolo dell’edificio, mentre il tema della dedica in sé non fu approfondito. (C. CURRADI: Pievi del territorio riminese nei documenti fino al mille . Rimini, 1984 – p.78). La pieve fu comunque soggetta ad una ristrutturazione di epoca romanica. A parere di chi scrive, appare possibile una datazione MCIIII (1104), se non addirittura MCCIIII (1204), quando erano attivi in zona importanti cantieri. Segnaliamo anche che una visita pastorale cinquecentesca indichi: <<… ecclesia, quantum inspici potuit in quadam petra marmorea fracta, erat erecta anno 1014>> CASTELLI; Visite dal 1577 al 1581 (Vicariato di S. Arcangelo) AVRI, c.85.

82

oltre al fondamentale studio La chiesa di San Michele in Acervulis, in Santarcangelo di

Romagna di K. Bull Simonsen73, gli studi più aggiornati e puntuali sono da considerarsi quelli di

Eugenio Russo74 che indubbiamente hanno stabilito alcuni punti fermi nella storia dell’edificio75.

Sulla base quindi dei risultati raggiunti dal Russo, San Michele in Acerboli è considerato un

edificio realizzato attorno alla metà del VI secolo, in un periodo appena precedente al

pontificato ravennate di Agnello76. Tra l’altro, nell’analisi delle particolarità costruttive,

appaiono stringenti le note dello studioso riguardanti i confronti con le tecniche edificatorie

usate in Sant’Apollinare in Classe, mentre riscontri dal punto di vista architettonico- oltre alla

vicina pieve romagnola di San Martino in Barisano presso Forlì - hanno chiamato in causa,

soprattutto per il sistema di finestrature, la chiesa costantinopolitana di San Giovanni in

Studios, risalente alla metà del V secolo; questi elementi indicherebbe come il progettista della

chiesa sarebbe da identificarsi in un architetto appunto attivo in ambito costantinopolitano.

In questo senso, specificamente interessanti appaiono i confronti tra le proporzioni dell’edificio

tuttora presente nella capitale imperiale con quello santarcangiolese77.

Riporta E. Russo:

“Abbiam pertanto validi argomenti per assegnare il S. Michele in Acerboli agli anni

immediatamente successivi alla metà del VI secolo, ma ancora in età giustinianea, e dunque,

per Ravenna all’epoca dell’arcivescovo Agnello (556 – 569), tenuto conto che la nostra pieve

non è un edificio della capitale; anzi potrebbe essere anche precedente di qualche anno

all’episcopato di Agnello, poiché dopo un attento esame delle strutture delle chiese ravennati

posso affermare che il S. Michele dal punto di vista della tecnica muraria appare anteriore a

quella parte di S. Agata ricostruita in età giustinianea.”78 […]

72 C. CURRADI: Pievi del territorio riminese nei documenti fino al mille, Rimini 1984. 73 K. BULL SIMONSEN: La chiesa di San Michele in Acervulis, in Santarcangelo di Romagna "Alto medioevo" I Venezia, 1967 74 E. RUSSO: La pieve di San Michele Arcangelo a Santarcangelo in "Studi romagnoli" 1983. 75 Segnaliamo inoltre altri studi su San Michele in Acerboli, quali quelli, dedicati ai restauri, di M. MAZZOTTI: Le pievi del Ravennate ad unica navata, pp.280, 282 in Corso cult. arte rav. e biz., 8 Ravenna 1961, integrato dall’autore stesso con Nuove osservazioni sulle pievi di Santarcangelo di Romagna e di Barisano dopo gli ultimi lavori e scavi, pp.298 – 97, Ravenna 1969. In precedenza si erano occupati di S. Michele in Acerboli G. GEROLA: L’architettura deutero-bizantina in Ravenna, in Ricordi di Ravenna medievale, Ravenna 1921, pp. 32-33, 112 e P. VERZONE, L’architettura religiosa dell’alto medio evo nell’Italia Settentrionale, Milano 1942, pp.101-103, 166, 173. 76 E. RUSSO: op. cit.., p.173 e ss. 77 …a Santarcangelo 1,7 il rapporto esterno tra lunghezza e altezza, 2 circa il rapporto interno; allo Studios 1,65 – 1,70 il rapporto esterno, 1,87 circa su un fianco, 2 circa sull’altro il rapporto interno… E. RUSSO: op. cit.., p.191. 78 E. RUSSO: op. cit.., p.175.

83

“Noi rimaniamo in qualche modo <<spiazzati>> dalla presenza d’un’unica navata, tanto siam

abituati alle canoniche basiliche ravennati. Ma data la situazione nella capitale d’Oriente,

Costantinopoli – perché è oramai chiaro che soltanto di lì poteva esser venuto il progettista – il

nostro edificio assurge, nella sua unicità, a quell’importanza eccezionale di cui dicevo all’inizio.

Unicità ovviamente riferita all’epoca giustinianea, a suggello della splendida fioritura

ravennate.>>79

2. Modifiche subite nel tempo dall’edificio.

Sebbene il tema trattato in queste pagine riguardi principalmente il periodo più antico della

storia di San Michele in Acerboli, tuttavia appare qui opportuno segnalare, brevemente, quelli

che furono i principali momenti nei quali si ebbero modifiche rilevanti all’edificio.

Essi si possono sintetizzare in:

1) Un periodo attorno all’XI – XII secolo in cui alla chiesa fu aggiunto l’imponente campanile in

facciata, la cui cella campanaria, in un periodo sicuramente precedente al sec. XVI, andò

distrutta.

In questo periodo alla chiesa fu aggiunta una cripta sostenuta da un’unica colonna centrale e

da otto semicolonne, addossate all’abside, i cui resti sono ancora visibili.

2) Un altro periodo successivo al XVI secolo in cui la navata e l’abside furono aggiornate ai

dettami Controriformisti; in questo frangente la cripta fu eliminata e, verosimilmente sempre

in questo frangente, fu realizzato un battistero a sinistra dell’entrata80.

3) Un terzo periodo inizia agli albori del XX secolo, quando vennero attuati i primi restauri, per

procedere negli anni precedenti la II G. M. e concludersi tra gli decenni ’60 e ’70 con il

completamento dei lavori.

79 E. RUSSO: op. cit.., pp.193-194. 80 <<ecclesia, quantum inspici potuit in quadam petra marmorea fracta, erat erecta anno 1014. Visitavit fontem baptismalem, qui est in vaso magno et rotundo, quod adhuc non est claustratum.>> CASTELLI; Visite dal 1577 al 1581 (Vicariato di S. Arcangelo) AVRI, c.85. Pare interessante l’indicazione riguardante l’anno 1014. Esisteva, a sinistra dell’ingresso, la cappella del battesimo con le pareti imbiancate <<eccetto da una banda, ove è dipinto il Battesimo di nostro Signore. Nel mezzo di detta cappella vi è il sacro fonte in un vaso di pietra viva coperta con un coperchio d’abeto, che sigilla la pietra con una piramide di noce col suo padiglione di tela manganata turchina.>> Vicariato di S. Arcangelo. Inventari, AVRI n.47, Pieve di San Michele

84

Durante questi periodo interessanti reperti, comprendenti parti di mosaico pavimentale,

affreschi e resti di arredi lapidei vengono ritrovati ed, in notevole parte, poi dispersi o

sottratti81.

3. Dedica e orientamento.

Tra le molte particolarità offerte da questo edificio, si intende rilevare qui quelle legate

all’orientamento ed alla dedica della chiesa.

Per quanto riguarda l’orientamento, lo spunto proviene da una breve notazione presente su un

opuscolo a cura di C. Rusconi82, edito nel 1996; in esso si ipotizza, appunto sulla base di un

rilevamento riguardante l’orientamento di San Michele in Acerboli, il cambiamento di dedica

della pieve da una – almeno presunta – originaria riferita ai SS. Pietro e Paolo a quella attuale

che riguarda San Michele Arcangelo. La basilica risultava infatti orientata al sorgere del sole il

giorno dei SS. Pietro e Paolo83.

In realtà, sebbene notoriamente la valutazione di questo genere di dati possa sovente portare

a conclusioni non univoche, nel caso viene tuttavia abbastanza naturale richiamare il contenuto

81 Per un’ampia bibliografia in merito agli studi compiuti sull’edificio di S. Michele, ci si limita qui ad indicare quella riportata in E. RUSSO: op. cit.., p.164 e ss. 82 C. RUSCONI: Tempus templum, Faenza, 1996, p.18. L’opuscolo era destinato a far parte di un’opera complessiva dedicata alle chiese medievali italiane in relazione al fenomeno del pellegrinaggio. Altre pubblicazioni facente parte del progetto furono, sempre a cura dello stesso autore: Il cammino della coscienza cristiana. – Le vie italiane di pellegrinaggio, Faenza 1997, nonché: Roma che presiede all’unità, Faenza 1998.

83 In realtà, poiché lo scopo di questo breve studio è fondamentalmente quello di proporre una ricostruzione grafica, non pare opportuno, in questa sede, diffondersi su quale sia stata l’importanza dell’orientamento delle chiese medievali e come esso fosse connessa alla stessa idea di edificio sacro.

Ci si limita quindi ad indicare una bibliografia che riguarda l’argomento: C. VOGEL, “RICERCHE”, Versus Orientem. L’orientation dans les ordines romani du haut moyen age. Cyrille Vogel "Versus ad Orientem " (La Maison Dieu, n° 70, 1962, O. BEIGBEDER, Lessico dei simboli medievali, pp.235 – 236, Milano 1988; J. HANI, Il simbolismo del tempio cristiano, pp.49 – 55, Roma 1996; M. PEJAKOVIC, Le pietre e il sole, pp. 267 e ss., Milano 1988; G. ROMANO, Orientamenti ad sidera, pp. 93 e ss., Ravenna 1995; A. GASPANI, Astronomia e geometria nelle antiche chiese alpine, pp. 5 e ss., Aosta 2000; M. INCERTI, Il disegno della luce nell’architettura cistercense, Firenze 1999; S. BURGALASSI – A. ZAMPIERI, Pisa e il computo del tempo, Pisa 1998. Dal punto di vista tecnico, aggiungiamo che le misurazioni riguardanti l’orientamento necessariamente devono rispettare parametri complessi. Uno di questi parametri è il fatto che le festività del calendario Giuliano progressivamente persero ogni coincidenza con il relativo giorno indicato nell’anno solare. Nel XVI secolo si era arrivati ad una discrasia di circa 11 giorni. Tuttavia, per un periodo antico come il VI secolo, epoca di verosimile fondazione di S. Michele ed anche di parziali riforme calendariali, si può ammettere come la suddetta discrasia fosse, in termini relativi, pressoché inesistente.

85

della suddetta iscrizione riportata da C. Clementini, almeno per la parte riguardante la dedica

al DIVO MICHAELI, ac Divis Petro et Paulo84.

Quanto al contenuto dell’iscrizione, esso parrebbe comunque interpretabile come indicazione di

una nuova dedica – quella scritta in lettere capitali - aggiunta ad una più antica data alla

chiesa.

Chiariamo subito che è probabile che rilevamenti riguardanti l’orientamento di un edificio messi

in relazione con il testo di un’iscrizione non più visibile e riportato – parrebbe, per interposta

persona – da uno storico seicentesco, appaiano fornire una base di conoscenza piuttosto

originale se non anche precaria; ciò nonostante, a giudizio di chi scrive – particolarmente in

mancanza di dati di altra origine riguardanti la storia più antica dell’edificio85 - una volta che la

questione venga inserita in un contesto più ampio, anche da indagini di questo genere pare di

poter ricavare comunque elementi di sufficiente, intrinseca, coerenza.

Per ciò che riguarda la dedica, sembra ragionevole ipotizzare che, forse in occasione dei citati

importanti lavori eseguiti tra XI e XII secc., si sia voluta aggiungere una dedica all’arcangelo

Michele ad una più antica; probabilmente, quando questo accadde, la chiesa era ancora dal

punto di vista religioso ed anche amministrativo un riferimento importante per il paese di

Santarcangelo, mentre, con ogni probabilità, il pagus acerbolanus, che originariamente

ospitava la basilica, in quel tempo doveva essere ormai poco più che un ricordo. Il nuovo

abitato si era infatti ormai arroccato in cima al colle, come accadute per diversi insediamenti

rurali nei secoli dell’alto medioevo.

Come poi parrebbe di arguire dall’iscrizione, la nuova dedica si sarebbe aggiunta a quella

vecchia in quanto, certamente, sarebbe stato estranea alla logica del “sacro” l’idea di una

semplice sostituzione tout court.

Quindi, dal momento che il nuovo patrono “castellano” era divenuto l’arcangelo Michele, in

seguito, progressivamente, l’antico riferimento ai SS. Pietro e Paolo sarebbe stato dimenticato.

Quanto alle ragioni della scelta dell’arcangelo Michele, si potrebbe considerare la scelta del

nuovo protettore celeste in relazione con qualche insediamento di individui di origine

84 A quanto risulta, al momento della pubblicazione dell’opuscolo, C. Rusconi non era al corrente del testo dell’iscrizione riportato da Clementini. 85 I rilevamenti archeologici furono infatti assai limitati e finirono per lasciare nell’ombra diverse delle questioni che riguardano l’origine della chiesa santarcangiolese M. MAZZOTTI: op. cit..

86

germanica presente nei dintorni, come in effetti apparirebbe testimoniato da alcuni

ritrovamenti archeologici effettuati non distante dall’antico pagus86. Notoria è infatti la

diffusione della venerazione per l’Arcangelo presso popolazioni di stirpe germanica e guerriera

come i Longobardi.

D’altra parte, in contrasto con supposizioni di questo genere, lo stesso E. Russo propone

invece la dedica a San Michele come indizio di un culto di origini bizantine, segnalandone la

particolare devozione per il santo presente nelle milizie dei Romani d’Oriente87.

A queste indicazioni vorremmo aggiungerne un’altra, ovvero che, una volta sorto il nuovo

centro abitato sulla cima del Monte Giove, si sia inteso semplicemente eleggere a protettore

San Michele, quale patrono delle “altezze”, come spesso appare nella tradizione religiosa

medievale88.

4. La dedica ai SS. Pietro e Paolo.

Una volta quindi che si sia ammessa una iniziale dedica dell’edificio ai SS. Pietro e Paolo, essa

può essere connessa ad una serie piuttosto coerente di dediche simili appartenenti a diverse

pievi presenti lungo l’iter Ariminensis che percorre la valle del Fiume Marecchia - presso cui si

trovava il pagus acerbolanus - dalla città di Rimini sino a Sansepolcro in Toscana.

Stiamo parlando di luoghi di culto di alcuni dei quali è testimoniata la grande antichità come

San Pietro in Messa che, nell’alta valle, sorgeva e tuttora sorge sul sito ove esisteva un antico

vicus89. Si possono citare anche S. Pietro in Culto presso l’attuale Novafeltria, S. Pietro a

Fragheto nonché la distrutta San Pietro in Pian di Rogna e San Pietro di Fresciano.

Nella piana romagnola poi basterà ricordare, tra diversi vetusti edifici, quelli di San Pietro in

Trento (presso Forlì) , San Pietro in Sylvis (presso Bagnacavallo) e come, in generale, le

dediche a S. Pietro, assieme a quelle alla Vergine, siano tra le più frequenti nel territorio.

86 Vedi gli scavi compiuti in località Sarzana, in Rimini medievale. Contributi per la storia della città. A cura di A. TURCHINI; Rimini, 1992, pp.230-235. 87 E. RUSSO: op. cit.., p.176 – 177. A questo si può in effetti aggiungere che la venerazione per l’arcangelo Michele è documentata nel riminese per epoche assai remote (inizi V secolo) sebbene difficilmente essa può essere messa in relazione diretta con influssi orientali. 88 A. CATTABIANI: Santi d’Italia, Milano 1993, pp.724-725. 89 F. V. LOMBARDI: La pieve di Ponte Messa;, per i luoghi di culto lungo la valle, vedi: pp.22-23.

87

Naturalmente il riferimento contenuto nella dedica ai SS. Pietro e Paolo riguarda i patroni della

S. Chiesa; non si intende tuttavia, in questa sede, introdurre la complessa ed ampia tematica

di come sin dal V secolo fu avviato sistematicamente il processo di conversione al

Cristianesimo delle popolazioni rurali; ci si può comunque limitare ad indicare come dal VI

all’VIII secolo a questo sistema sia stato funzionale il sistema delle pievi, organizzatosi per

diffondere capillarmente il Credo di Roma ed anche contrastare le varie eresie.90

5. Le forme della chiesa.

Ciò che invece si vuole sottolineare ponendo l’accento sulla rilevanza della dedica originaria ai

SS. Pietro e Paolo e della relazione con il processo di conversione degli abitanti dei pagi e dei

vici è il fatto che elementi come questi, a giudizio di chi scrive, potrebbero spiegare alcune

caratteristiche architettoniche della chiesa di Acerboli.

L’edificio in questione, infatti, fu realizzato su un’unica navata, con una struttura di notevole

semplicità e, allo stesso tempo, di studiata armonia tra le proporzioni come rileva E. Russo nel

suo studio sull’architettura della piccola basilica.91

In particolare, un problema architettonico che ha attratto l’attenzione degli studiosi è stata la

presenza di sette ingressi distribuite su tutti i lati della navata; uno di questi, quello in facciata,

è attualmente aperto e costituisce, appunto, l’entrata alla chiesa. Altri sei ingressi, certamente

facenti parte della costruzione originaria, si aprono tuttavia sia sulle pareti laterali (due

90 Per temi di questa ampiezza ci limitiamo ad indicare, nell’ambito romagnolo, le pagine di R. BUDRIESI: Viaggio nelle pievi della provincia di Ravenna, Ravenna 1999, pp. 23 e ss. .Interessante, inoltre quanto appare in 90 F. V. LOMBARDI, op. cit.., p. 15 ess. 91 E. RUSSO: op. cit.., p.193 e ss..

88

ciascuna) che sulla parete di fondo (una a destra, una a sinistra dell’abside). Queste aperture,

a giudicare dalle caratteristiche della muratura, furono chiuse in antico.

Sempre il Russo, nel suo saggio, presenta poi un’ampia sintesi delle possibilità e delle opinioni

espresse dai vari studiosi a proposito del problema delle porte murate92; di esse è considerata

la eventuale funzione di aperture per cappelle (ma scavi archeologici ne hanno smentito la

presenza) come propose il Venzone93; viene poi citata la funzione simbolica – comunque

certamente rilevante – del numero sette riferito appunto al numero complessivo degli

ingressi94; inoltre vengono richiamate ulteriori possibili ragioni quale quelle “d’impedir

all’interno la percezione della differente lunghezza dei due fianchi; oppure per movimentare

l’esterno; oppure per una pura ricerca progettuale sulla scia di quanto realizzato a S.

Apollinare in Classe”; tra queste ultime (tre) possibilità, l’autore propende per la prima.

Ebbene, alle suddette motivazioni, in questa occasione, si vuole suggerire una ulteriore che è

appunto connessa alla funzione di San Michele in Acerboli (anzi, più correttamente, dei SS.

Pietro, Paolo e Michele) quale luogo definito alla conversione delle popolazioni delle zone rurali

circostanti. A chi scrive quest’ultima ipotesi appare proponibile in particolare sulla base della

verosimile dedica originaria ai SS. Pietro e Paolo e dal fatto che l’edificio fu realizzato –

perlomeno nel suo attuale aspetto complessivo – nell’epoca giustinianea, ovvero in un periodo

storico fortemente caratterizzato da un generale sforzo di affermare un unico Credo cristiano,

nonché dalla lotta all’eresia ariana.

In ragione quindi di una possibile e probabile importanza che ebbe per la basilica di Acervulis la

suddetta funzione di centro di conversione al Cristianesimo ortodosso, pare quindi naturale

proporre per le porte presenti intorno la navata la funzione di aperture che permettessero ai

catecumeni – ovvero a coloro che ancora non avevano ricevuto il formale battesimo – di

assistere alle funzioni religiose.

Infatti, notoriamente, elementi come porticati e protiri erano costantemente addossati alle

facciate ed alle pareti delle chiese appunto per permettere un riparo a chi, non facente parte

92 E. RUSSO: op. cit.., p.194-199. 93 P. VERZONE: op. cit. , pp.101-102 e p.166. 94 Nel caso, si tratterebbe di considerare 7 porte più un’ottava, quella “simbolica” dell’abside. Sappiamo come il numero 8 sia connesso al tema dell’ “Ottavo giorno”, quindi a quello della Grazia e della Resurrezione.

89

ancora della comunità ecclesiale in senso lato, era comunque in procinto ad avvicinarsi al Dio

dei Cristiani.

Questi portici, che talvolta assumevano la forma di quadriportici di notevoli dimensioni, in

realtà potevano essere strutture anche piuttosto semplici addossate ad un lato del tempio.

In tal senso, ci pare di poter indicare per il piccolo tempio santarcangiolese l’idea di qualcosa di

simile ad un quadriportico – quale, tra l’altro, sicuramente esisteva sul fronte della facciata

della più volte citata Sant’Apollinare in Classe – ma totalmente addossato ai quattro lati della

chiesa in maniera da ottenere un vasto spazio riparato con il minimo sforzo costruttivo.

A codesto porticato sarebbero state quindi funzionali le diverse porte distribuite su tutta la

navata come è possibile rilevare tuttora.

Per altro, dalla fotografia più antica che ci è pervenuta della chiesa (inizi XX sec.) la differenza

di colore tra il mattonato della parete N presso la finestratura e quello della zona inferiore della

parete, parrebbe proprio di indicare che, almeno per un certo tempo, sia stato addossata alla

parete stessa una costruzione di altezza uniforme.

6. La ricostruzione 3d.

Nella ricostruzione computerizzata che si è tentato di realizzare dell’edificio di San Michele in

Acerboli si è voluto fare riferimento alla sua situazione ipotetica in un periodo che si potrebbe

considerare vicino allo scadere del VI secolo.

La torre campanaria medievale non esisteva ancora ed al suo posto si è pensato di proporre un

campanile a vela, quale caratteristica comune alle antiche chiese.

90

E’ sembrato anche giusto indicare la possibilità di un esterno intonacato, la cui presenza è

parsa verosimile, al di là di alcune elementari decorazioni in mattoni che appaiono in alcune

parti dei paramenti murari dell’edificio.

Quanto al porticato, si è proposta una struttura leggera, essenzialmente lignea, che circondava

l’edificio. In verità non si esclude la presenza di strutture più consistenti, in muratura delle

quali, tuttavia non pare siano stati rilevati i resti.

Quanto all’interno, per il pavimento ci si è basati sulle tracce di mosaico tuttora presenti nella

chiesa, sui resti identificati nella basilica coeva di S. Martino in Barisano e, in generale, sui temi

dei mosaici del VI secolo della vicina Ravenna. Naturalmente le forme dei disegni sono di pura

invenzione.

Per gli arredi interni, i riferimenti sono state le fotografie di resti di plutei databili al VI secolo,

nonché un’idea generale di quello che poteva essere l’arredo necessario in una chiesa

paleocristiana.

Data poi la conformazione dell’edificio, pare difficile proporre la presenza di mosaici nella zona

dell’arco trionfale, mentre essa appare possibile all’interno del catino absidale.

Da ultimo, in considerazione del fatto che si è richiamata la funzione di S. Michele (SS. Pietro,

Paolo e Michele) quale centro di conversione, ci si è posti il problema dell’esistenza di un

possibile antico battistero presso od all’interno della chiesa.

91

In realtà, almeno a conoscenza di chi scrive, non esiste alcun elemento documentario, né dato

archeologico che permetta di farsi un’idea della possibile presenza di un battistero presso la

chiesa, e, tantomeno, della sua possibile forma.

Gli unici riferimenti in questo senso riguardano le citate pievi di S. Pietro in Culto e S. Pietro in

Messa, quest’ultima nell’alta valle del Marecchia95; essi tuttavia appaiono indiretti e comunque

non tali da essere interpretati in modo univoco; quindi non forniscono un aiuto concreto per un

tentativo di ricostruzione grafica. Per questa ragione si è pensato di non realizzare alcun

edificio battesimale nella ricostruzione 3d.

95 Per ciò che riguarda San Pietro in Culto a Mercatino Marecchia (odierna Novafeltria) può essere di qualche interesse quanto risulta in una descrizione del 1850 relativa ad una visita pastorale: <<Questa è una delle più antiche chiese del Montefeltro, dove per anche in pietra si conserva la vasca usata quando battezzatasi per immersione>> in : F. V. LOMBARDI: op. cit. p.15.. Un’antica tradizione riporta che il vicus di Messa sia stato distrutto durante le guerre gotiche e quindi, con un certo sforzo di immaginazione, si potrebbe ipotizzare un’origine di san Pietro in Messa – che oggi mostra forme romaniche - magari coeva a quella di S. Michele in Acerboli. F. V. LOMBARDI: op. cit. p.38-39

92

LA MONETAZIONE BIZANTINA NELL’ETA’ GIUSTINIANEA

di Gianluca Galoppo

1) L’età Giustinianea, breve introduzione storico-economica

La moneta è il principale strumento di scambio all’interno di un sistema economico e come tale

strettamente dipendente in tutta la sua struttura,fatta di nominali,metalli impiegati e pesi,dallo

stato complessivo di un’economia.

Conseguentemente,prima di trattare nel dettaglio il sistema monetario vigente durante il regno

di Giustiniano,occorre avere un quadro basilare della situazione economica dell’Impero Romano

d’Oriente nella prima metà del VI secolo.Tanto più che proprio la maggior solidità dei principali

fattori economici,come l’andamento demografico,la rete urbana e l’attività produttiva,fu

decisiva per la sopravvivenza della parte orientale dell’Impero;una superiore solidità socio-

economica che le permise non solo di resistere alle medesime tempeste che si erano abbattute

con esito ben più letale sul fragile Impero Occidentale, ma anche di riaffacciarsi nuovamente

protagonista sulla scena politica internazionale proprio con Giustiniano I.

Nel momento in cui questo grande imperatore ascende al trono,l’Impero Romano d’Oriente

vive un clima di notevole prosperità economica.Alcuni decenni di relativa pace hanno permesso

una costante crescita della popolazione soprattutto nelle zone costiere dell’Anatolia,in Siria,in

Palestina e nei territori arabi nord-occidentali corrispondenti in parte all’attuale Giordania;

insieme alla crescita demografica vanno di pari passo le attività produttive sia in ambito

agricolo che artigianale che possono avvantaggiarsi di un immenso patrimonio di saperi tecnici

sempre più perfezionati nel costante interscambio di conoscenze che pervade la totalità

dell’impero. L’accresciuta domanda di beni trova sfogo negli scambi commerciali favoriti da una

complessa e funzionale organizzazione degli spazi urbani e rurali; al contrario dei territori

occidentali,dove le reti urbane sono in piena decadenza e lasciano il campo a vasti e

frammentati spazi rurali,in oriente il territorio presenta una struttura molto più diversificata: le

zone rurali vedono la progressiva decadenza dell’antico sistema della villa insieme al

contemporaneo sviluppo di villaggi e cascine popolati da contadini liberi che possono vendere

93

gli eccessi della loro produzione nella nutrita rete di piccole e medie città

(komai,komopoleis,metrokomiai) che fungono da nodi per il commercio locale e sono sede di

mercanti e di bottege artigianali.Centri di scambio su grande scala,oltre che poli nevralgici

dell’amministrazione imperiale,sono le metropoli come Antiochia,Alessandria,Tessalonica e

soprattutto la capitale, Costantinopoli,che con la sua posizione strategica a cavallo tra due mari

e due continenti e la sua popolazione di circa 400.000 abitanti all’inizio del VI secolo,è il vero

motore economico,oltre che politico,dell’Impero. Su tutto vigila l’onnipresente amministrazione

imperiale che garantisce ordine e sicurezza alla vita economica grazie al completo controllo del

mediterraneo orientale garantito dalla solidità dell’esercito e dall’efficienza della complessa

struttura burocratica e dell’inesorabile sistema fiscale.Alla sua ascesa al trono Giustiniano si

ritrova a capo di uno stato prospero e forte che gli fornirà i mezzi per attuare il suo grandioso

progetto di renovatio imperii. Da questa breve premessa sulla situazione economica

dell’Impero nella prima metà del VI secolo si può dedurre l’esistenza di un sistema monetario

sufficientemente diversificato e flessibile da soddisfare le molteplici esigenze di un’economia

caratterizzata da un elevato livello di scambi ad ogni grado della scala sociale.

2) Le monete d’oro e d’argento

Le monete circolanti al tempo di Giustiniano I sono il risultato di un lungo processo di riforme e

trasformazioni monetarie iniziato sul finire del III secolo durante il regno di Diocleziano. In

quell’epoca entra definitivamente in crisi il sistema monetario trimetallico dell’alto impero

basato sull’aureo d’oro,sul denario d’argento e sul sesterzio di bronzo e viene sostituito da un

nuovo sistema che non si limiterà ad accompagnare le ultime decadi dell’Impero Occidentale

ormai morente,ma plasmerà di sé gran parte della storia monetaria bizantina grazie

soprattutto alla nascita di un nuovo grande protagonista nella ristretta aristocrazia delle

monete che hanno fatto epoca: l’aureus consolidatus,o,più semplicemente,il solido.

Il solido fu base e pilastro della monetazione tardo romana e bizantina fino all’XI secolo,il

termine stesso “solidus” conferma questo suo ruolo di riferimento stabile,non soggetto a

fluttuazioni,con cui ogni altra moneta del sistema,per essere valutata,doveva entrare in

94

relazione. Il solido pesava 1/72 della libbra romana e aveva un intrinseco96 di 24 “keratia”

(carati),vale a dire un peso teorico di 4.55 grammi e un intrinseco d’oro praticamente puro

come indicano le ultime due lettere della sigla CONOB (OB=obryzum=oro purificato) sempre

presente sul rovescio dei solidi coniati a Costantinopoli dal 363 al 720 d.c. Per tutelarsi da

eventuali frodi come la tosatura del bordo dei conii e per limitare l’incidenza dell’usura naturale

che colpiva facilmente monete di intrinseco d’oro così puro,il governo calcolava l’importo delle

tasse,da pagarsi esclusivamente in oro,a peso e non a numero.La funzione del solido

nell’economia bizantina era asservita più agli interessi dello stato che non a quelli del

commercio;soprattutto il fisco,continuamente assillato dalle necessità politiche e

militari,cercava di raccogliere e tesaurizzare la maggior quantità d’oro sotto forma di monete e

lingotti,dal momento che non esistevano altri mezzi di finanziamento del fabbisogno statale

come il credito,poco sviluppato e solo per piccole sommme tra privati,o il prestito che non

esisteva in quell’epoca e sarà sviluppato nei fiorenti comuni italiani del tardo medioevo.

L’oro monetato così raccolto dalle voraci leve fiscali era lo strumento fondamentale per lo

svolgimento dei disegni politici dell’imperatore e veniva usato per il pagamento delle milizie e

delle alte gerarchie della burocrazia imperiale così come per placare popolazioni ostili ai confini

dell’impero tramite la cessione di tributi. Era inoltre la sorgente del dispiegarsi dell’evergetismo

imperiale che si esplicava in fastose cerimonie e nell’arricchimento urbanistico con nuovi

spettacolari edifici.

Il solido era moneta di livello internazionale,malgrado i provvedimenti normativi che ne

vietavano l’esportazione,ne sono stati ritrovati molti esemplari anche in zone assai lontane dai

confini dell’Impero,le cause possono essere sicuramente rintracciate nei vari tributi pagati a

titolo cautelativo di cui sopra o nel pagamento di truppe mercenarie,ma probabilmente anche

nel commercio su larga scala. A tale proposito una particolare tipologia di solidi più leggeri

rispetto allo standard (20 contro 24 keratia) che fanno la loro comparsa durante il regno di

Giustiniano,viene interpretata come strumento per il commercio con le popolazioni germaniche

dell’occidente sull’evidenza del loro frequente ritrovamento proprio in queste regioni.Il solido

non era l’unica moneta d’oro ad essere coniata nel VI secolo,c’erano anche due suoi

96 L’intrinseco è la quantità effettiva di metallo prezioso presente in una moneta,senza calcolare quindi gli altri metalli uniti in lega

95

sottomultipli: il semisse che corrispondeva a mezzo solido e il tremisse corrispondente a un

terzo di solido. Rispetto al loro “fratello maggiore” queste due frazioni avevano una

distribuzione e circolazione più ampia all’interno dei livelli sociali dell’Impero,a sottolineare

l’alto grado di sviluppo dell’economia monetaria in quel periodo. Il solido con i suoi

sottomultipli non veniva coniato solo a Costantinopoli,ma anche in altre zecche tra le tredici

attive in età Giustinianea;ma ovunque fossero coniate,le monete d’oro mantenevano una

sostanziale uniformità nei parametri base del peso e dell’intrinseco,un’uniformità simbolizzata

dalla scritta CONOB (oro puro di Costantinopoli) presente al rovescio delle monete auree

indipendentemente dalla zecca di origine. La stessa prammatica sanzione di Giustiniano per

l’Italia dichiarava che i solidi coniati nelle zecche dell’Impero devono circolare in tutte le

provincie senza alcun costo di cambio.Tale uniformità non intaccata,per le monete auree,da

nessun marchio o sigla che specifichi la zecca di origine se non l’onnipresente CONOB,rende

molto difficile stabilire quale sia il luogo di coniazione di ciascun pezzo. I criteri utilizzati dagli

studiosi si basano su metodi empirici di comparazione stilistica,ogni zecca ha,infatti,un suo

stile specifico di coniazione che caratterizza in modo peculiare la forma dei tondelli e la resa del

ritratto imperiale. I solidi della zecca di Ravenna,ad esempio,possono distinguersi grazie ad

uno spesso bordo anulare che circonda il campo di ciascun esemplare,mentre i solidi battuti a

Cartagine presentano un diametro più ristretto compensato da uno spessore maggiore che dà

alla moneta una forma globulare,è presente inoltre la datazione indizionale97,caratteristica

esclusiva di questa zecca.

Nel VI secolo i nominali argentei non formano una parte importante dell’intero sistema

monetario,anzi,se si eccettuano alcuni rari esemplari emessi per funzioni cerimoniali,queste

monete sono completamente assenti dagli scambi commerciali che intercorrono a

Costantinopoli e nelle altre regioni orientali dell’impero.Le fonti testimoniano un sostanziale

disinteresse per questo tipo di nominali:Procopio esprime il valore del solido soltanto in follis

che sono nominali bronzei e similmente il “Pratum Spirituale” di Giovanni Mosco esprime tutti i

prezzi in termini di solidi e follis senza fare alcun riferimento a monete d’argento. Questo

97 La data indizionale consiste nel numero d’ordine progressivo che un determinato anno occupa in un ciclo quindicennale,per cui al primo anno di questo ciclo corrisponde l’indizione I,al successivo l’indizione II e così via fino alla XV,dopodichè si ricomincia dalla I. Sembra che questa forma di datazione abbia avuto origine in Egitto per funzioni fiscali.

96

disinteresse per le monete argentee può essere in parte spiegato con l’efficienza del sistema

monetario vigente in quel periodo che si basava su due nominali fondamentali,il solido e il

follis,corredati da una diversificata serie di sottomultipli atti a soddisfare qualsivoglia esigenza

del commercio. In questo quadro l’argento,con le sue fluttuazioni di valore nei confronti

dell’oro, avrebbe recato elementi di instabilità e debolezza ad un sistema sufficientemente

funzionale. L’argento fu invece trattato,in quel periodo,come una parte sostanzialmente

indipendente dal sistema monetario,con somme espresse a peso e concretizzatesi in una

mistura di lingotti,piatti e monili,la cui qualità intrinseca veniva garantita da appositi marchi

imposti dalle zecche.

Monete argentee circolavano invece nei territori più occidentali dell’impero come gli Esarcati

d’Italia e d’Africa,dove le precedenti dominazioni di Ostrogoti e Vandali avevano introdotto

varie frazioni del nominale argenteo base: la siliqua. Queste frazioni di siliqua (1/2 siliqua;1/4

di siliqua;1/8 di siliqua) furono mantenute dal successivo governo bizantino e costituirono,a

giudicare dai ritrovamenti,una parte importante della circolazione monetaria sviluppatasi in

questi territori dell’impero.

Le monete d’argento acquisiranno notevole importanza all’interno del sistema monetario

bizantino a partire dal periodo degli imperatori macedoni,in coincidenza con la crisi e la

conseguente sparizione dei sottomultipli del solido e degli scambi con la florida economia

commerciale islamica,nel cui ambito le monete argentee (i dirhem) avevano un peso notevole.

3) Le monete di bronzo

Per lo studio della monetazione bronzea circolante in epoca Giustinianea è fondamentale porre

attenzione alle riforme riguardanti questa monetazione sviluppatesi sotto il regno di Anastasio

I.Prima dell’attività riformatrice di questo imperatore,la situazione della moneta di bronzo si

presentava in uno stato desolante;il nuovo nominale bronzeo istituito da Diocleziano,il follis,si

era ridotto,durante gli anni di inesorabile crisi sociale ed economica,a un minuscolo dischetto

metallico di appena un grammo circa di peso.Della massima importanza,quindi,fu la decisione

da parte di Anastasio di risollevare lo stato di questa tipologia monetale,base degli scambi più

97

minuti e frequenti nella vita economica dell’Impero. Non a caso fu proprio questo imperatore

ad indire tale riforma monetaria; Anastasio I,infatti,prima di assurgere alla dignità

imperiale,era un anziano funzionario di corte con abilità cospicue in materia finanziaria e con

un’acuta sensibilità per le esigenze e i problemi dei ceti commerciali urbani. La sua

complessiva attività riformatrice in campo monetario e fiscale,pur tra alterne vicende,è una

delle chiavi per comprendere la solidità economica dell’Impero nel VI secolo,una solidità

sfruttata da Giustiniano per i suoi ambiziosi propositi di restaurazione della potenza imperiale.

La riforma istituì un sistema di nominali ben bilanciato poggiante sul follis e sui suoi

sottomultipli,ciascun nominale reca ben impresso il relativo valore sul rovescio della moneta

tramite l’utilizzo di lettere greche con valore numerale: una grande M rappresenta il valore del

follis e cioè 40 nummi, la K equivale a mezzo follis e quindi 20 nummi,mentre la I si trova sui

decanummi del valore di 10 nummi. Il peso del follis nella prima emissione era di 9.34

grammi,ma già nel 512 questo peso fu raddoppiato e si decise,inoltre,di aggiungere

un’ulteriore nominale da 5 nummi contrassegnato dalla lettera E e di riprendere la coniazione

del nummus che prima della riforma era l’unica moneta bronzea circolante. Con lo sviluppo di

questo nuovo sistema monetario vennero soddisfatte,almeno per quanto riguarda il potere

d’acquisto,alcune esigenze primarie della popolazione più umile: in primo luogo la messa in

evidenza dell’indicazione di valore sul rovescio delle monete garantiva i possessori da

svalutazioni arbitrarie e,cosa ancora più importante,il ripristino di una solida struttura di

nominali bronzei quale non si vedeva dai tempi dell’alto impero riduceva lo scarto tra il valore

del follis e quello della moneta d’oro di riferimento,il solido; ciò rappresentava indubbiamente

una situazione più favorevole per chi basava il proprio status economico sul primo dei nominali

summenzionati. Quando Giustiniano ascese alla dignità imperiale ereditò,quindi,il sistema di

nominali bronzei istituito da Anastasio I e vi aggiunse due innovazioni di notevole rilevanza:

decise di portare nel 538 il peso del follis da 18 a 25 grammi,abbassato tre anni dopo a 22

grammi,potenziando,comunque,ancor più questo strumento del commercio quotidiano che si

avviava a far rivivere i fasti di un’altra grande moneta bronzea dell’alto impero,il sesterzio.

Altra importante novità fu l’indicazione dell’anno di regno sul rovescio delle monete

bronzee,secondo il dispositivo della novella 47,da lui promulgata nel 537,che ordinava

98

l’apposizione della data secondo l’anno di regno su tutti i documenti ufficiali.

Giustiniano,quindi,nel suo tentativo di far risplendere la gloria dell’antico impero,si comportò

come gli imperatori del passato che facevano indicare l’anno di regno sui loro atti. Cosicchè a

partire da quest’epoca è possibile vedere sul rovescio delle monete bronzee,a lato della grande

lettera centrale che indica il valore,la parola ANNO, e sull’altro lato,le cifre in numeri romani

che indicano l’esatto anno di regno dell’imperatore. L’indicazione della data è molto utile

per gli studiosi contemporanei,difatti,le monete di bronzo bizantine,a partire da Giustiniano,

sono le uniche tra le monetazioni coeve (la monetazione islamica datata comincerà solo

nell’VIII secolo) a portare impressi precisi riferimenti cronologici;si può quindi immaginare

quale importanza possono avere ritrovamenti di tale monete ai fini di determinazioni

cronologiche generali e particolari e di confronti stilistici e iconografici precisamente inquadrati

nel tempo.

Il sistema monetario bronzeo in età Giustinianea non mantenne quella omogeneità sostanziale

tipica dei nominali aurei che,come si è visto nel paragrafo precedente,rende ardua la

distinzione tra pezzi coniati in diverse località. Le monete di bronzo,infatti,non solo presentano

l’indicazione di zecca,ma sono caratterizzate anche da differenze nella tipologia dei nominali a

seconda della regione in cui sono coniate. Queste differenze appaiono più marcate nelle zecche

di Tessalonica e Alessandria. Tessalonica emise nominali bronzei di 16, 10, 8, 4, 2, 1,

nummi,tutti contrassegnati dal marchio AP che ha fatto scervellare a lungo i numismatici,ma

che si è dimostrato essere semplicemente l’iniziale di “argyrion”, l’equivalente greco di

nummus. Alessandria,durante un breve periodo sotto Giustiniano,coniò pezzi da 33 e 12

nummi e più rari esemplari da 6 e 3 nummi.Queste specificità nel valore dei nominali

dipendono,molto probabilmente,dalle diverse caratteristiche dei mercati locali,influenzati da

particolari rapporti nelle relazioni di valore tra oro e bronzo,inoltre,la circolazione delle monete

di bronzo era molto settorializzata in quanto ciascuna provincia veniva servita,se non

esclusivamente,per la maggior parte del circolante,dalla sua zecca locale.

99

4) Iconografia monetale

Uno dei motivi che spiegano un certo disinteresse per la monetazione bizantina da parte di

studiosi e collezionisti, è da ricercare nel suo aspetto iconografico. Di primo

acchito,infatti,l’aspetto estetico di queste monete appare piuttosto monotono e sciatto,del tutto

privo di vitalità se comparato con gli splendidi ritratti imperiali presenti sulla monetazione

dell’alto impero o con la ricchezza tematica e l’eccezionale qualità artistica delle monete

greche. Le monete bizantine presentano una varietà di soggetti iconografici estremamente

limitata con lievi modificazioni nel corso di tutta la durata dell’Impero; una riduzione della

diversità tematica che ,in verità, principia già dall’epoca Costantiniana e che giunge,nel regno

di Giustiniano I,

ad un suo stabilizzarsi su due fondamentali temi: la figura dell’imperatore e la simbologia

cristiana. Per comprendere in maniera non supercificiale l’iconografia monetale bizantina è

necessario evitare paragoni estetici con monete appartenenti a diverse culture e sforzarsi di

intendere l’originalità di stili e simboli insiti in una concezione della realtà ormai del tutto

diversa da quella pagana. Si può comprendere quindi come in un mondo come quello bizantino

non ci sia posto per le rappresentazioni mitologiche così ricche nelle passate

monetazioni,questa tipologia iconografica viene pian piano eliminata o trasformata in senso

cristiano nel corso del periodo tardo imperiale. Un esempio illuminante a tal proposito è

costituito dalla classica immagine della Vittoria che viene lentamente rielaborata fino a

trasformarla in un angelo come è possibile osservare nelle figure sottostanti.

1-Follis di Costantino I (306-337) con vittoria in stile Classico

2-Follis di Galla Placidia (421-450) con Vittoria di stile classico con Vittoria cristianizzata reggente nella destra una croce gemmata

100

3-Tremisse di Basilisco (475-476) con Vittoria cristianizzata reggente nella destra la tradizionale corona e nella sinistra il globo crucigero

4-Solido di Giustiniano I (527-565) con Vittoria trasformata in un angelo con croce nella destra e globo crucigero nella sinistra

La personificazione della Vittoria,profondamente radicata nella tradizione iconografica

romana,viene mantenuta nelle monete ben oltre il 382,anno in cui l’altare della dea veniva

definitivamente tolto dalla curia romana per ordine di Graziano,ma è sottoposta a

rielaborazioni così profonde da mutarne completamente lo spirito prima e la natura poi,con

passaggio da un’immagine pagana a la nuova immagine cristiana di un angelo.

I temi della nuova religione si introducono quindi in maniera lenta e progressiva,trasformando

o sovrapponendosi ai vecchi soggetti pagani. In quest’epoca di trapasso dalla tarda romanità

con le sue tradizioni pagane al nuovo impero romano medievale tutto impregnato di fervore

cristiano,la gradualità nell’accantonare e rinnovare l’antico patrimonio iconografico è

d’obbligo,stante la necessità di lasciar morire di “morte naturale” la devozione ai vecchi culti

che si trascinava stanca ma indomita in larga parte del mondo rurale e ai vertici delle classi

colte di ambito senatoriale. Così si spiega anche il lento affacciarsi tra i tradizionali temi

iconografici del simbolo per eccellenza del cristianesimo: la croce.

Questo emblema,infatti,comincia a intravedersi sulle monete già nel IV secolo,in

semiclandestinità,nascosto tra le consuete figurazioni di imperatori e scettri; solo a partire

dall’inizio del V secolo la croce si conquista uno spazio da protagonista apparendo ben evidente

nelle mano della Vittoria o delle personificazioni di Roma e Costantinopoli.

101

1-Solido di Valente (364-368) La croce si nasconde al centro dello scettro retto dall’imperatore nella mano destra

2-Solido di Teodosio II (402-450) La personificazione di Costantinopoli regge nella mano destra il globo crucigero

3-Solido di Leone (457-474) Croce gemmata in piena evidenza retta nella mano destra della vittoria.

Il vero tema fondamentale della monetazione bizantina è sicuramente il ritratto imperiale.

Anche in questo caso si tratta di un soggetto in via di trasformazione già in epoca tardo antica;

gli splendidi ritratti di sapore realistico,così ben caratterizzati da sembrare vivi, che

arricchivano l’aspetto estetico delle monete romane fino alla prima metà del III secolo,lasciano

via via spazio a una nuova concezione del potere imperiale e quindi della sua immagine.

L’imperatore,infatti,diventa una figura sempre più trascendente,ammantata di sacralità; ne

consegue che la rappresentazione realistica dei suoi tratti somatici perda di significato in un

contesto dove ciò che è importante non è la persona fisica del sovrano,ma il suo ufficio,da

intendersi come incarico divino di elargizione d’ordine e giustizia a tutte le genti. I ritratti che si

susseguono sulle monete imperiali dall’epoca di Diocleziano a quella di Giustiniano e oltre sono

quindi piuttosto monotoni nella loro fissità e staticità,ma invero la trasformazione continua

sebbene in un senso volto ad accentuare l’impressione di staticità,immutabilità e quindi

eternità dell’immagine; difatti il volto dell’imperatore passa dalla classica resa di profilo a

quella frontale,una scelta che vuole appunto enfatizzare l’aspetto sacrale dell’incarico imperiale

mediante un ritratto che minimizzi ogni richiamo alla materialità della persona,un ritratto che

al contrario deve esaltare l’aspetto etereo,immoto,privo di ogni contaminazione emozionale

indegna di una figura che si colloca a metà strada tra il mondo terreno e quello trascendente.

Il passaggio dalla resa di profilo a quella frontale si completa sotto il regno di

Giustiniano,periodo in cui si perfeziona l’ideologia sacrale dell’incarico imperiale,funzione che

transita direttamente dalla divinità al sovrano e che quindi si estende al dominio su tutte le

genti dell’unico legittimo impero. Questo concetto è perfettamente riassunto dall’immagine di

102

Giustiniano presente sulle sue monete: un ritratto astratto ormai reso completamente frontale

con la maestosa ostensione del globo crucigero,simbolo del potere assoluto in nome di Dio.

Analizzando l’immagine di cui sopra si può notare l’assenza di una qualsivoglia plasticità

anatomica del corpo sotto la veste ed una profonda trasformazione della struttura del

rilievo.Nella tradizione classica e anche tardo antica i trapassi di piano avvenivano in maniera

fluida,ricca di sfumature,e la linea di contorno nasceva in modo naturale dall’incontro tra il

piano di fondo e la forma plastica. Il punto d’arrivo

dell’avanzata età Giustinianea di cui l’immagine presentata è testimone segna una svolta nella

modalità di rappresentazione: i vari piani,che nella tradizione classica sono raccordati tra loro e

con il fondo, appaiono ora drasticamente appiattiti,separati e giustapposti; la testa poggia sul

fondo come un disco piatto sul quale,a loro volta,altri elementi come l’elmo o la corona con i

pendenti si sovrappongono con effetto di applicazione. Il busto e il braccio che regge il globo

crucigero appaiono anch’essi come sagome piane,ottenute mediante la marcatura delle

linee,volte non più a evidenziare la sostanza dei corpi,ma la loro immaterialità e astrattezza.

Tutto ciò è perfettamente coerente con un nuovo concetto di maestà,nobiltà e bellezza,che

rifiutando ogni riferimento alla corporeità,vuole presentare il sovrano,a somiglianza di Dio,più

come intuizione intellettuale e simbolica che nella sua immagine umana. Certamente questi

ritratti non rapiscono immediatamente l’attenzione dell’osservatore abituato al realismo e alla

103

vitalità delle immagini classiche,tuttavia non si può non avvertire tutto il senso di mistero e

sacralità che promanano da una concezione dell’esistenza completamente permeata dal

trascendente; immagini che individuano il bisogno dei bizantini di transustanziare la materia

nell’etereo,e quindi di renderla sacra ed eterna.

104

BIBLIOGRAFIA COMMENTATA

La seguente bibliografia non ha alcuna pretesa di essere esaustiva,il suo fine è di aiutare chi lo

desideri ad approfondire lo studio della numismatica bizantina su alcuni testi basilari.

1) Sayles G. Wayles. Ancient Coin Collecting V, The Romaion/Byzantine Culture.Krause 1998

Testo elementare ma ben fatto,utile soprattutto a chi è interessato al collezionismo.Contiene

una lista degli imperatori che hanno coniato monete e alcune notizie preziose per una prima

esegesi

dell’iconografia monetale bizantina.

2) Sear R. David. Byzantine Coins and their Values. Seaby 1987

Catalogo commerciale che indica il prezzo di tutte le tipologie monetali bizantine note.E’

presente un’utile introduzione manualistica che precede il catalogo,quest’ultimo è quanto di più

completo si possa trovare in un solo pratico volume.

3) Bellinger,Grierson,Hendy. Catalogue of the Byzantine Coins in the Dumbarton Oaks

Collection and the Whittemore Collection.

Sontuosa opera in cinque volumi che cataloga ottimamente quella che è attualmente una delle

più ricche collezioni di monete bizantine al mondo. Gli autori sono tra i massimi esperti del

settore e ciascuno di loro ha curato uno o più volumi dedicati ai vari periodi della storia

bizantina. Oltre al lavoro di catalogazione ottimamente realizzato è possibile apprezzare tutta

una serie di approfondimenti storici e tecnici che fanno di quest’opera un punto di riferimento

obbligato.

105

4) Morrison Cecile. Bibliotheque Nationale-Catalogue des monnaies byzantines.

Opera in due volumi che cataloga la collezione della Biblioteca Nazionale a parigi. Presenta

fotografie di ottima qualità raccolte in tavole finali.

5) Lacam Guy. Civilisation e Monnaies Byzantines.

Interessantissima opera che fonde numismatica e storia in un testo godibilissimo e

appassionante.Ottimo per chi vuole avere una comprensione a tutto tondo della storia

politica,economica,artistica e monetaria.

6) Callegher Bruno. Catalogo delle Monete Bizantine,Vandale,Ostrogote e Longobarde del

Museo Bottacin.Quaderni del Bollettino del Museo Civico di Padova / N° 2

Rarissimo esempio di catalogo sulle monete bizantine di una collezione italiana. Solo per

questo merita la massima attenzione,ma il testo in sé è ottimamente curato e la collezione

catalogata è una delle più interessanti presenti sul territorio italiano.

106

Echi di propaganda giustinianea in un contacio di Romano il Melodo (n°54 Maas-Trypanis).

di Luigi Silvano

Com’è noto, la rivolta di Nika98 costituì la più grave sedizione della plebe costantinopolitana

durante il regno di Giustiniano. I tumulti esplosero in seguito all’arresto e alla condanna a

morte di alcuni militanti di entrambe le fazioni del circo, avvenuto l’11 gennaio 532. Dopo aver

richiesto invano la scarcerazione dei compagni, Verdi e Azzurri si coalizzarono (notte del 13

gennaio), assaltarono il pretorio, liberarono i prigionieri e incendiarono l’edificio. Il giorno

seguente, all’ippodromo, mentre Giustiniano tentava di far proseguire i giochi secondo il

programma, i ribelli domandarono la rimozione del prefetto urbano, del prefetto del pretorio

Giovanni il Cappadoce e del quaestor Triboniano. L’insurrezione aveva ormai assunto connotati

marcatamente politici, e, nonostante il sovrano avesse infine acconsentito a destituire

dall’incarico i suddetti funzionari, la protesta non si placò: ormai era in gioco la stabilità stessa

del trono. I rivoltosi continuarono ad imperversare per le strade, venendo alle mani con le

milizie imperiali e appiccando incendi in più punti della città, che causarono la distruzione di

abitazioni, palazzi pubblici ed edifici sacri, tra cui la basilica di Santa Sofia. Giustiniano

medesimo tentò un estremo tentativo di conciliazione presentandosi alla folla dalla tribuna del

circo, la mattina del 18: la sua apparizione non sortì alcun effetto, ed egli dovette rientrare a

palazzo. Le parti, intanto, cercavano una guida nei nipoti di Anastasio I Pompeo e Ipazio, e

avevano acclamato ques’ultimo imperatore. Narra Procopio di Cesarea che mentre il sovrano

ed i suoi consiglieri erano intenti a discutere il da farsi, mostrandosi piuttosto inclini alla fuga

che a fronteggiare la situazione ormai fuori controllo, si presentò loro l’imperatrice Teodora, la

98L’esortazione da cui la rivolta prende il nome, tipica acclamazione del circo (= tu vincas, “Vinci!”), era stata adottata dagli insorti come parola d’ordine, come attestano Procopio di Cesarea, Bellum Persicum I, 24, 10 (cf. anche Anecdota 12, 12) e Giovanni Malala, Chronographia XVIII, 71, p. 395 Thurn. Non intendo in questa sede ripercorrere le varie ipotesi fin qui formulate riguardo alle cause della sedizione, né di fornire una descrizione dettagliata dello svolgimento delle varie fasi del conflito urbano. Per una rassegna esaustiva delle fonti e una accurata ricostruzione cronologica occorre rinviare al vetusto, ma tuttora fondamentale lavoro di J. B. Bury, The Nika Riot, “The Journal of Hellenic Studies”, 17, 1897, pp. 92-119 (ivi, p. 92, n. 1 bibliografia antecedente); le rare inesattezze del Bury – dovute soprattutto all’inadeguatezza degli strumenti archeologico-topografici di cui si poteva disporre alla fine del secolo XIX – sono state rettificate da G. Greatrex, The Nika Riot: a reappraisal, “The Journal of Hellenic Studies”, 117, 1997, pp. 60-86 (con bibliografia aggiornata). Una sintetica presentazione dei fatti si può leggere in A. Cameron, Justin I and Justinian, in A. Cameron, B. Ward-Perkins, M. Whitby (edd.), The Cambridge Ancient History, vol. XIV, Cambridge 2000, pp. 71-72.

107

quale persuase il marito a restare al suo posto e a decidersi per la soluzione delle armi.99 Il

sovrano allora abbandonò gli indugi e diede mandato ai propri generali di sedare la rivolta. Le

milizie guidate da Belisario, Narsete e Mundo irruppero nell’ippodromo e in poche ore fecero

strage degli insorti ivi radunati. Impressionante il numero delle vittime: oltre trentamila

secondo Procopio, circa trentacinquemila a detta di Giovanni Malala100. Il giorno seguente (19

gennaio) Ipazio e Pompeo furono giustiziati.

Non c’è dubbio che una simile dimostrazione di spietatezza dovette produrre orrore e sconcerto

fra i contemporanei. Un imperatore cristiano era legittimato a infierire con tanta crudeltà ai

danni dei suoi sottoposti, senza dovere rendere conto a chicchessia delle proprie azioni? Fino a

che segno egli poteva spingersi nella punizione dei colpevoli di un atto di insubordinazione, pur

grave quale quello di lesa maestà, senza venir meno al dovere della compassione e della

misericordia nei confronti dei propri sudditi, attributo essenziale della figura dell’optimus

princeps quale delineata dal coevo trattatista Agapeto?101 Del resto l’imperatore stesso era

conscio delle possibili ripercussioni di un’azione di tale ferocia perpetrata ai danni di una massa

inerme, per quanto composta di facinorosi, e aveva certamente valutato il rischio concreto di

compromettere definitivamente la propria popolarità, incrementando un dissenso già diffuso e

creando i presupposti per nuove sollevazioni.102 Niente di più naturale, quindi, che, sin dai

giorni immediatamente successivi alla carneficina, egli si preoccupasse di esorcizzarne quanto

prima il ricordo, che proiettava su di lui un’ombra sinistra e nefanda. A questo scopo la corte

mise in moto una intensa campagna di comunicazione mirata a due obiettivi ben precisi: da

una parte giustificare la condotta di Giustiniano, accreditando, attraverso i resoconti ufficiali

pubblicati in tutte le città dell’impero e gli scritti degli storici compiacenti, versioni dell’accaduto

99Bellum Persicum I 24. Non è dato sapere se l’episodio sia realmente accaduto, o se, piuttosto, sia frutto dell’immaginazione di Procopio, che potrebbe aver costruito la scena rielaborando una suggestione letteraria. In proposito si vedano le osservazioni di J. A. S. Evans, The “Nika” Rebellion and the Empress Theodora, “Byzantion” 54/1, 1984, pp. 380-382. 100Chronographia XVIII, 71, p. 400 Thurn. Riporta la stessa cifra anche il Chronicon Paschale, p. 627 Dindorf. A detta di Giovanni Lido, De magistratibus III, 70, p. 164 Wünsch, gli uccisi sarebbero stati addirittura 50.000. 101Il principio della philanthropia imperiale è chiaramente formulato nel capitolo XX della Scheda regia, che citiamo nella traduzione di S. Rocca, Un trattatista di età giustinianea: Agapeto Diacono, “Civiltà classica e cristiana” 10, 1989 (pp. 302-328), p. 321: “Giustamente venerato è il vostro impero, perché mostra ai nemici la propria potenza, ed elargisce ai sudditi l’umanità: proprio vincendo i primi con la forza delle armi, si lascia vincere dai suoi per il proprio inerme affetto. Quanta, infatti, è la differenza tra una bestia feroce ed un agnello, altrettanta è la loro differenza” (per il testo greco rimando all’edizione critica: Agapetos Diakonos, Der Fürstenspiegel für Kaiser Iustinianos, hrsg. R. Riedinger, Athine 1995). 102Sembra condivisibile l’opinione di Greatrex, The Nika Riot, cit., pp. 77-78, secondo cui questo timore, e non considerazioni di tipo strategico, sarebbe all’origine degli indugi che precedettero la decisione di sedare l’insurrezione con le armi: nessuno avrebbe potuto dubitare della superiorità delle truppe imperiali sull’indisciplinata folla degli insorti. In quest’ottica il tentativo di fuga, così come l’apparizione all’ippodromo del 18 gennaio, si configurerebbe come un tentativo di risolvere lo scontro in maniera pacifica, intavolando trattative con i demi.

108

che imputavano l’origine dei tumulti al tentativo di usurpazione da parte dei nipoti di Anastasio

(più tardi si tentò di addossare parte della colpa anche a Giovanni di Cappadocia);103 dall’altra

creare una nuova immagine pubblica per il sovrano, presentandolo come rinnovatore e

ricostruttore: di qui l’impulso ad una frenetica attività edilizia il cui progetto più ambizioso

concerneva la ricostruzione Santa Sofia, e sul côté letterario, la celebrazione di queste

imponenti realizzazioni affidata a retori del calibro di Paolo Silenziario (Descrizione di S. Sofia)

e Procopio di Cesarea (Gli edifici).104

Al pari di molti intellettuali coevi, anche Romano detto il Melodo,105 il maggiore innografo del

secolo, non fu immune dagli influssi della propaganda giustinianea. Com’è noto, l’intera

produzione di Romano – cui sono attribuibili con certezza una sessantina di contaci,106 degli

oltre novanta pervenuti a suo nome – è di ispirazione sacra. C’è però un’eccezione, perlomeno

103Pare evidente, in Malala, l’intento di incolpare della sedizione Pompeo e Ipazio. Dopo aver narrato la fine dei due, lo storico ricorda che l’imperatore rese nota la propria vittoria e l’uccisione degli usurpatori (tyrannoi) in tutte le città dell’impero (XVIII, 71 p. 400 Thurn): forse proprio tale resoconto ufficiale, o comunque una fonte vicina all’establishment, è alla base delle rievocazioni della sommossa di due autori contemporanei, il comes Marcellino e il vescovo Vittore di Tunnuna, che riportano il tentativo di usurpazione dei nipoti di Anastasio in termini talmente simili da far pensare che entrambi abbiano attinto ad una sorgente comune (i passi in questione sono editi da Th. Momsen, Chronica Minora, II, Berlin 1894, rispettivamente a p. 103 e p. 198). Qualche tempo dopo la composizione dei due scritti, quando Giovanni il Cappadoce era ormai caduto in disgrazia (541), la propaganda ispirò versioni della vicenda di Nika che mettessero in risalto, tra le cause della sommossa, le malversazioni e i provvedimenti vessatorî attuati da costui ai danni della plebe e le sue ambizioni tiranniche: sembrano riflettere questo stadio successivo dell’elaborazione propagandistica i resoconti di Giovanni Lido, De magistratibus III, 70, pp. 161-162 Wünsch e Procopio, Bellum Persicum I, 24. In quest’ultimo risalta chiaramente il contrasto fra il ritratto a tinte fosche del Cappadoce e il compassionevole ricordo di Ipazio e Pompeo, presentati come vittime innocenti. In proposito rinvio a: Bury, The Nika Riot, cit., pp. 92-94; A. Carile, Consenso e dissenso fra propaganda e fronda nelle fonti narrative dell’età giustinianea, in G. G. Archi (a cura di), L’imperatore Giustiniano. Storia e mito, Milano 1978 (pp. 37-93), pp. 60-61 e nn. 95-96; R. D. Scott, Malalas, The Secret History, and Justinian’s propaganda, “Dumbarton Oaks Papers” 39, 1985, (pp. 99-109), pp. 100 e n. 8, 106-107. Costituisce una parziale eccezione rispetto al panorama coevo il resoconto non ufficiale di Procopio, Anecdota 12, 12, dove l’unico ad essere accusato è Giustiniano: in questo caso, però, allo storico non importa indagare le cause politiche della sollevazione, né stigmatizzare la brutalità dell’intervento armato, quanto piuttosto sottolineare come l’imperatore si sia giovato della repressione per appropriarsi in maniera illecita dei beni degli aristocratici coinvolti nella sedizione. Ecco il passo in questione, nella traduzione di Federico Ceruti (Procopio di Cesarea, Storia inedita, a c. di F. C., Milano 1977, p. 118): “Fino alla cosiddetta rivolta del “Nika”, infatti, essi pensavano di dover scegliere gli averi dei ricchi ad uno ad uno; ma dopo che la rivolta scoppiò, come ho detto nei libri precedenti, confiscarono per così dire in massa le sostanze di tutti i senatori e misero le mani, come volevano, su tutti i loro beni di città e sulle loro terre più belle, fatta eccezione di quelle soggette ad un tributo duro ed assai pesante, che con apparente generosità restituirono agli antichi proprietari” Il medesimo concetto è ribadito poco più avanti (Anecdota 19, 12). 104Sulla promozione, da parte di Giustiniano, di un’intensa attività edilizia come stratagemma per guadagnarsi il favore popolare si veda almeno Carile, Consenso, cit., pp. 43-45. 105Le notizie biografiche a nostra disposizione sono frammentarie e non del tutto attendibili. Nato in Siria intorno al 485/490, Romano fu diacono a Berito (Beirut). Quindi si trasferì a Costantinopoli, dove esercitò la sua attività di innografo presso la chiesa della Madre di Dio nel quartiere di Kyros, a partire dal regno di Anastasio. La morte è collocabile all’incirca tra il 555 e il 565. L’appellativo di Melodo deriva dal fatto che egli, a quanto pare, non compose soltanto i testi degli inni, ma anche le musiche che ne accompagnavano l’esecuzione. Per una sintetica quanto affidabile introduzione all’autore si può ricorrere alla voce di M. Arranz, Romanos le Mélode, in Dictionnaire de Spiritualité, XIII/2, Paris 1988, coll. 898-908. 106Kontakion è il termine con cui veniva designato il bastoncino intorno al quale era arrotolato il rotolo di papiro, all’epoca comune supporto scrittorio. Per metonimia la parola passò poi a indicare il rotolo tutto, quindi ogni componimento vergato su volumina papiracei; a partire da un certo momento, infine, il termine si specializzò ulteriormente, a indicare il particolare genere innografico praticato dal Melodo e che con lui pervenne alla codificazione definitiva. Il contacio nasce dalla commistione di elementi propri della tradizione omiletica siriaca in versi e della tradizione retorica greca. Per informazioni più dettagliate e indicazioni bibliografiche rinvio a: J. Grosdidier de Matons, Romanos le Mélode et les origines de la poésie religieuse à Byzance, Paris 1977, pp. 3-47; E. Follieri, L’innografia bizantina dal contacio al canone, in G. Gattin (a cura di), Da Bisanzio a San Marco. Musica e liturgia, Bologna 1997, pp. 1-32, e in particolare 1-14.

109

parziale: mi riferisco all’inno 54 Maas-Trypanis,107 che Josè Grosdidier de Matons, uno dei più

acuti interpreti della poesia del Melodo, definì “le plus curieux et l’un des plus intéressants

qu’ait écrits Romanos”.108 Le ragioni di tale eccezionalità risiedono, per l’appunto,

nell’argomento prescelto dall’innografo: non, come di consueto, un episodio o un personaggio

della Bibbia, né la concomitanza di una solennità liturgica o della festa di un santo, ma,

piuttosto, il verificarsi di una serie di eventi calamitosi, che culminarono con la rivolta del 532.

Il fatto è rimarcabile anche in considerazione della destinazione d’uso dei contaci, veri e propri

sermoni in versi che venivano declamati o cantati in chiesa dopo la lettura della Scrittura,

durante la liturgia delle veglie notturne che si tenevano nel periodo quaresimale e nei giorni

antecedenti alcune importanti solennità. Questa è l’unica occasione in cui il cantore si propone

di ammaestrare il suo uditorio – composto di laici e religiosi – prendendo spunto da un tema di

attualità. In maniera alquanto originale, Romano adatta quest’argomento per lui inusuale ai

contenuti prettamente devozionali di una preghiera penitenziale e alla rigida struttura formale

del contacio. Ma non sono soltanto caratteristiche estrinseche, quali la forma versificata e

l’adozione di un immaginario e di un linguaggio d’ispirazione biblica, a distinguere nettamente

la testimonianza del poeta109 da quella delle fonti storiografiche che trattano della rivolta: il suo

proposito non è, semplicemente, quello di fornire una mera rievocazione dei fatti, ma di

interpretarli in funzione di un intento prettamente edificante e parenetico. Ne consegue una

netta prevalenza della riflessione morale sulla ricostruzione evenemenziale: a ben vedere,

infatti, le sezioni narrative occupano all’interno del carme uno spazio percentualmente esiguo,

e l’episodio, piuttosto che essere rievocato con dovizia cronachistica, viene richiamato alla

memoria degli astanti per mezzo di immagini icastiche che ne individuano i momenti salienti.

Un resoconto frammentario e per nulla particolareggiato, dunque, ma di indubbio valore

107Sancti Romani Melodi Cantica, I, Cantica genuina, edd. P. Maas-C. A. Trypanis, Oxford 1963, pp. 462-471. L’edizione critica più recente è quella di J. Grosdidier de Matons (ed.), Romanos le Mélode, Hymnes, Tome V, Paris 1981 (“Sources Chrétiennes” n° 283), pp. 455-499, corredata di traduzione francese, introduzione e commento (d’ora innanzi citato Grosdidier de Matons, Hymnes). Indispensabile anche R. Maisano (a cura di), Cantici di Romano il Melodo, II, Torino 2002, pp. 452-471 (introduzione, testo greco, traduzione italiana e note). A questi ultimi rinvio per ulteriori indicazioni bibliografiche. La traduzione letterale del titolo del contacio, riportato da un solo testimone, è: “Per ogni terremoto e incendio”. Trypanis rende: “On Earthquakes and Fires”, comunemente seguito dalla critica posteriore: “Sur le tremblement de terre et l’incendie” è il titolo scelto da Grosdidier de Matons, “Terremoti e incendi” da Maisano. 108Grosdidiers de Matons, Hymnes, cit., p. 455. 109Nell’applicare a Romano la denominazione di “poeta” seguiamo una consolidata tradizione esegetica. Probabilmente sarebbe più congrua la dicitura di “versificatore”, dal momento che, fatta salva l’adozione della struttura metrico-ritmica imposta dal genere, il dettato di Romano è prosastico, e si esprime secondo modi del tutto estranei alla tradizione poetica in lingua greca, da cui non mutua né il linguaggio, né lo stile, né l’immaginario. In proposito si vedano le pertinenti ossservazioni di Maisano, Cantici, cit., p. 14 e nn. 18-19.

110

documentario, soprattutto in considerazione di due motivi: in primo luogo, esso costituisce la

più antica menzione della sedizione di cui disponiamo, in quanto certamente anteriore al 537,

ma con buone probabilità databile tra la fine del 532 e l’inizio del 533;110 secondariamente,

esso contiene l’unica attestazione, per quanto mediata e sfumata, della reazione sbigottita e

attonita dei contemporanei al massacro.111

In virtù del suo interesse sia da un punto di vista storico che letterario, il componimento ha

attirato l’attenzione di diversi studiosi che ne hanno indagato la natura retorico-encomiastica e

le implicazioni politico-religiose.112 Esso tuttavia non è stato tenuto nella giusta considerazione

da quanti, sino ad oggi, si sono occupati della propaganda giustinianea, e in particolare

dell’influsso da essa esercitato sui resoconti contemporanei della rivolta di Nika. Pertanto,

senza voler mettere mano all’ennesimo commento continuativo, compito peraltro già assolto in

maniera più che adeguata dalla critica precedente, in questa sede mi propongo di analizzare il

contacio secondo una prospettiva particolare, alla ricerca di quali siano le strategie messe in

atto da Romano per condurre il discorso a centrare i due obiettivi propagandistici di cui sopra:

l’assoluzione morale dell’operato di Giustiniano e l’esaltazione dei suoi meriti nella ricostruzione

dei monumenti andati distrutti. Di seguito riassumerò brevemente il contenuto del cantico,

inframezzando l’esposizione con alcune osservazioni personali.113

Come di consueto il contacio inizia con un proemio breve: in soli quattro versi vengono

sintetizzati mirabilmente i tre motivi che costituiscono l’ossatura della trattazione, rivelandone

l’ispirazione penitenziale: l’umanità tribolata, il pentimento, la misericordia divina114. Il prologo

si conclude con un ritornello (“la vita eterna”) che viene poi ripetuto alla fine di ciascuna

strofe; queste, in numero di venticinque, contano dieci versi ciascuna. L’argomentazione

110Sembra certo che al momento della composizione i lavori di ricostruzione della Chiesa di S. Sofia non fossero ancora conclusi (cf. infra e n. 30). Il terminus ante quem è dunque il 537, anno della consacrazione definitiva della basilica. Secondo K. Mitsakis, Byzantine Hymnographia, I, Thessalonike 1971, pp. 389-390, il contacio sarebbe stato eseguito in occasione della posa della pietra angolare dell’edificio, nel febbraio 532. Sembra più probabile una datazione compresa fra gli ultimi mesi del 532 e i primi del 533. Le diverse proposte a riguardo sono esaminate da J. H. Barkhuizen, Romanos Melodos: on Earthquakes and Fires, “Jahrbuch der Österreichischen Byzantinistik” 45, 1995 (pp. 1-18), p. 1 e n. 1. 111Cf. Grosdidier de Matons, Hymnes, cit., p. 455. 112Oltre ai commenti citati supra, n. 10, mi riferisco in particolare agli studi di E. Catafygiotu Topping, On Earthquakes and Fires: Romanos’ Encomium to Justinian, “Byzantinische Zeitschrift” 71, 1978, pp. 22-35; J. H. Barkhuizen, Romanos Melodos, cit.; Idem, Romanos and the Nika Riot (532 AD): a Religious Perspective, “Ekklesiastikòs Pharos”, n. s. 1, 1990, pp. 30-39. 113L’esposizione omette diversi particolari non ritenuti essenziali ai fini della presente trattazione. Pare quindi opportuno rinviare, per una trattazione esaustiva, alla bibliografia di cui supra, nn. 10 e 15. È sembrato superfluo, inoltre, dar conto delle differenti proposte di suddivisione del carme fin qui proposte dai vari interpreti, di cui discute Barkhuizen, Romanos Melodos, cit. pp. 2-3. Tra parentesi quadre indico il numero delle strofe. 114Barkhuizen, Romanos Melodos, cit., p. 3.

111

procede per blocchi concettuali che si succedono per associazione di idee, ma seguendo un filo

logico ben preciso, che procede da una riflessione di carattere generale sulla sofferenza umana

a un’originale interpretazione delle sciagure presenti e infine all’encomio del principe.

[1] Per quanti sono afflitti da un male spirituale, Iddio si offre come medico e guaritore;115 in

certi casi, però, egli si astiene dall’intervenire, tentando in questo modo di destare i peccatori

dal loro stato accidioso. [2] Chiunque domandi la grazia della guarigione è ascoltato: essa

discende come da una fonte perenne ed è a tutti accessibile; chi invece è negligente, non

ottiene ricompensa. [3] Talora Dio si è adirato con l’umanità, come quando chiese a Mosè di

poter punire gli Israeliti peccatori.116 [4] Ma anche in quel frangente la sua collera si rivelò

piena d’amore per gli uomini, ed egli trattenne la mano, accogliendo la supplica di Mosè. [5].

Allo stesso modo l’umile prece della madre cananea convinse Gesù, dopo l’iniziale rifiuto, a

liberare la figlia dalla possessione demoniaca.117 [6] La grazia che proviene dal cielo non

discende su tutti indistintamente, ma soltanto su chi ne fa richiesta: essa non vuole essere

un’imposizione sulla volontà degli uomini. [7-8] Orbene, l’uomo non è sempre ben disposto ad

accogliere la grazia divina, anzi spesso è incline al male: prova ne siano la trasgressione di

Adamo e il tradimento di Giuda (i due peccatori non sono espressamente nominati). [9-10] Dio

ha tentato di redimere l’uomo dal peccato, in lui insito fin dalla nascita, dapprima attraverso

l’ammonimento dei profeti, quindi per mezzo dell’azione redentrice del Figlio suo, che operò

indistintamente per la salvezza di tutti, peccatori compresi. [11-12] Eppure, nonostante Cristo

abbia insegnato agli uomini il rispetto dei comandamenti, molto spesso essi disattendono i suoi

precetti, costringendo Dio ad intervenire in maniera più drastica: come il medico, esperiti

senza successo i rimedi blandi, procede all’applicazione di quelli più pesanti, allo stesso modo,

se gli uomini si mostrano riottosi nell’accogliere il messaggio salvifico, il Signore non ha altra

scelta che operare la guarigione/redenzione attraverso l’applicazione di medicamenti più

drastici. Siamo giunti finalmente allo snodo concettuale che introduce la trattazione degli

accadimenti contemporanei: l’affezione peccaminosa del genere umano è progredita a tal

115La metafora della medicina applicata all’operazione di redenzione spirituale (cui spesso si accompagna la guarigione corporale) esercitata da Dio e soprattutto da Cristo (Christus medicus) – peraltro comune e diffusa anche presso scrittori cristiani latini (ad esempio Agostino) – è uno dei fili conduttori del contacio, come indicato a più riprese dalla critica. A proposito sia sufficiente rinviare a Barkhuizen, Romanos Melodos, cit., pp. 4-5. 116Si allude all’episodio del vitello d’oro, narrato in Esodo 32. 117Matteo 15, 21-28.

112

punto che il sommo medico deve ricorrere ad una terapia d’urto, ovverosia [13] all’invio di

piaghe:118 la prima, il terremoto, scuote la terra, ma non le coscienze dal loro torpore; il

castigo successivo è la siccità119, ma anche questo monito rimane inascoltato. [14] Constatata

l’inutilità dei primi due rimedi, non resta al Signore che mettere in atto il terzo e più terribile

della serie: 120

[Dio] allora avvilisce la stessa mensa della grazia, lasciando che le sacre suppellettili della chiesa

brucino, così come, un tempo, diede in mano a stranieri l’arca divina121. Per strade e chiese si

riversava il lamento della folla, e il fuoco avrebbe consunto ogni cosa, se non avessero avuto

Colui che dispensa a tutti

la vita eterna [14, 3-10].

Nell’esordio della stanza successiva [15] il poeta confessa un certo imbarazzo nel parlare di un

episodio così cruento, la cui dolorosa memoria attanaglia gli animi:

Tutti conoscono, credo, i fatti accaduti allora, il cui ricordo, com’è naturale, incatena il vostro

animo e il vostro pensiero e rende la nostra lingua piuttosto esitante a raccontare. [15, 1-4]

A questo punto ha inizio la descrizione della calamità: il fuoco trova ovunque materia di cui

alimentarsi, sospinto da venti impetuosi [15, 5-6]; la popolazione è in preda alla sofferenza,

ma neppure in questa occasione fa ammenda dei propri peccati, considerando la piaga una

sciagura, e non un monito e un invito al ravvedimento [15, 7-10]. La ricerca del pathos

raggiunge il suo apice nella stanza 16, l’unica totalmente descrittiva. Romano dipinge

abilmente la forza straordinaria del fuoco che si propaga con strepiti assordanti, causando il

panico fra la gente, e pare indomabile. A nulla valgono i tentativi di spegnimento, persino gli

spostamenti sono ostacolati da forze naturali avverse: i venti fomentano la vampa per ogni

118Lo schema adottato da Romano riproduce su scala minore la successione delle dieci piaghe inflitte agli Egizi (Esodo 7-12), episodio certo ben noto al suo pubblico: ciascun castigo costituisce un’occasione di ravvedimento concessa all’umanità riottosa, la quale perseverando nell’errore, viene punita in maniera via via più dura. 119Il terremoto cui allude Romano è probabilmente quello verificatosi nel 530. La siccità e la conseguente carestia, di cui fa menzione il solo Malala, vanno datate al 531. Per ragguagli ulteriori cf. Grosdidier de Matons, Hymnes, cit., pp. 462-464. 120La traduzione di tutti passi citati è mia, ed è stata condotta sul testo stabilito da Grosdidier de Matons, Hymnes, cit. All’interno dei passi tradotti le parentesi quadre indicano l’aggiunta, per ragioni di perspicuità, di parole non presenti nel testo greco. 121Si allude al ratto dell’arca dell’alleanza da parte dei Filistei, narrato in 1 Samuele 4, 11.

113

dove, il mare ingrossato preclude ogni via di fuga. La strofe 17 si apre con una patetica

considerazione sulla perdita di ogni speranza da parte degli abitanti della città; il Signore

sovrintende alla scena, ma, precisa Romano, è immutata la sua disponibilità nei confronti dei

caritatevoli, per merito dei quali è disposto a salvare anche chi versa nel peccato. Quest’ultima

considerazione prelude alla riappacificazione dell’uomo con la divinità: [18] alcune persone

devote (“quelli timorati di Dio”) tendono la mani al cielo implorando misericordia. Romano non

fornisce ulteriori ragguagli sulla composizione di questo coro di anonimi supplici, ma si

concentra su una sola voce, che spicca fra le altre:

Insieme con costoro, verosimilmente, pregava anche l’imperatore – e con lui la sua consorte –

alzando lo sguardo al Creatore, dicendo: “Concedimi, o Salvatore, come concedesti a Davide, di

vincere Golia, dacché spero in te! In nome della tua miseriordia, salva il tuo popolo devoto, cui

donerai anche

la vita eterna„ [18, 5-10].

Delle disperate implorazioni che si levano tutt’intorno, l’unica che Romano sceglie di farci udire

è, dunque, quella dei sovrani, la cui entrata in scena è collocata, strategicamente, al culmine

drammatico della rievocazione. L’orante sembra conscio di essere la persona più adatta a

inoltrare una richiesta di aiuto: associando la propria immagine a quella di Davide122, rivendica

la prerogativa regale di intermediario fra il popolo eletto e il suo Dio. Si noti come le parole del

sovrano possano sembrare, a tutta prima, sibilline, giacché individuano il nemico contro il

quale egli si appresta a lottare in maniera implicita, assimilandolo al gigante biblico: fuor di

metafora, tale avversario dalla forza sovrumana è la depravazione morale della popolazione. I

postulanti si fanno dunque promotori del ravvedimento spirituale che è presupposto ineludibile

per la guarigione fisica123 del corpo della città intera: una volta realizzato il primo, questa non

tarda ad arrivare:

122L’accostamento del basileus ai sovrani biblici e ai grandi imperatori cristiani è ingrediente topico della panegiristica bizantina, che Romano utilizza più volte in questo contacio: ideali predecessori di Giustiniano sono Davide, condottiero vittorioso (strofe 18), Mosè, legislatore e tramite con la divinità (cf. supra, strofe 2-3: in questo caso il paragone è implicito), Salomone (cf. infra, strofe 21) e Costantino (cf. infra, strofe 22), costruttori di edifici sacri. In proposito rimando alle osservazioni di Catafygiotu Topping, On Earthquakes, cit., pp. 31-33. 123L’associazione tra remissione dei peccati e guarigione dall’infermità è enunciata chiaramente nei Vangeli: si pensi all’episodio del paralitico di Matteo 9, 1-8; Marco 2, 1-12; Luca 5, 17-26.

114

Dio, come udì la voce di quanti lo invocavano e degli imperatori, concesse alla città la sua

amorevole clemenza. Un pianto doloroso si alzava per quanti erano stati uccisi dalle spade: donne

lamentavano la vedovanza, fanciulli l’esser divenuti orfani, padri la scomparsa dei figli, fratelli la

privazione dei congiunti; altri si dolevano della perdita degli averi, e il lutto era comune all’intera

città. Giaceva a terra il trono della chiesa, che fornisce

la vita eterna [19, 1-10].

Il quadro che si offre allo sguardo del poeta è desolante: la cittadinanza tutta è in preda al

lutto, e ovunque si odono le cupe lamentazioni di chi ha perduto gli affetti più cari. Solo ora,

però, apprendiamo che una buona parte dei decessi è dovuta non all’incendio, ma ad una

seconda causa di morte: quelle non meglio definite “spade” cui Romano allude in maniera

piuttosto sbrigativa. Così come, nelle stanze precedenti, mancava ogni accenno agli autori

materiali dei roghi e alla sollevazione popolare (a meno di non voler interpretare in questo

senso il riferimento a Golia, di cui sopra), la reticenza del poeta si estende, ora, alla

repressione manu militari dei tumulti. Per contro si potrebbe osservare come l’accenno alle

spade, che al lettore odierno potrebbe risultare criptico, dovesse risuonare più che eloquente

agli orecchi dei contemporanei; inoltre è plausibile che il poeta, conformemente al proposito

espresso in precedenza (15, 1-3), fosse riluttante a indugiare nella narrazione di particolari

cruenti. Pur riconoscendo che tali obiezioni sono senz’altro pertinenti, ci pare che l’autore abbia

tralasciato a ragion veduta ogni riferimento alla sedizione, in quanto tale omissione è

funzionale ad una strategia tesa a presentare le morti avvenute a causa del fuoco e della

spada come parti complementari di un unico e definitivo castigo, quello della terza piaga

inviata da Dio per punire le intemperanze del suo popolo, refrattario ad ogni ammonimento.

Una volta classificati sia l’incendio che la repressione come interventi di origine divina,

l’innografo è dispensato dal riferire nel dettaglio quali siano stati i responsabili immediati dei

roghi e della mattanza (gli insorti e i soldati): non importa ricordare le azioni compiute da

costoro, dal momento che essi agirono come meri strumenti alle dipendenze di una volontà

superiore che se ne servì per portare a compimento il proprio disegno provvidenziale di castigo

e redenzione. Lasciamo in sospeso queste riflessioni e torniamo al racconto di Romano. [20]

Coloro i quali veneravano Sofia e Irene, ora vedono i due santuari eponimi, che un tempo

115

brillavano per i loro ornamenti, ridursi in macerie e sfavillare in preda ai roghi124. [21] L’unica

risorsa su cui fare affidamento è la Speranza. Se si pensa che il tempio costruito con tanta

magnificenza da Salomone, una volta crollato, non fu più ricostruito125, non è possibile non

accorgersi della grazia divina che pervade la Grande Chiesa: [22] infatti dovettero trascorrere

ben duecentocinquant’anni perché, per iniziativa di Costantino il Grande e della madre Elena,

al posto del tempio salomonico fossero edificate le chiese della Resurrezione e di Santa Sion126.

Nulla a che vedere con la prodigiosa tempestività dell’intervento giustinianeo:

Qui, al contrario, un sol giorno dopo il crollo iniziò l’opera di rifacimento della chiesa, ed essa splende

magnificamente e viene terminata alla perfezione: gli imperatori provvedono denaro a profusione, il

Signore

La vita eterna [22, 6-10].

Il paragone, svolto in maniera antitetica, si risolve a vantaggio della coppia Giustiniano-

Teodora, il cui operato surclassa quello degli illustri predecessori, tanto da suggerire al poeta

un accostamento assai più ardito: la munificenza imperiale è comparabile a quella divina, e le

elargizioni dei regnanti a favore della riedificazione sono il corrispettivo terreno del dono della

beatitudine da parte del sovrano celeste. La sezione laudatoria culmina con uno smaccato

elogio dei regnanti, realizzato nella stanza che segue:

Opere veramente grandi e splendide e degne di meraviglia e maggiori di [quelle realizzate da] tutti i

sovrani antichi hanno mostrato in questa circostanza coloro i quali oggidì governano piamente lo Stato

dei Romei. In breve tempo hanno fatto risorgere la città intera, sino a produrre oblio di ogni dolore in

chi ne era afflitto. Lo stesso edificio della Chiesa è costruito con tale virtuosa perizia da riprodurre il

cielo, il trono divino che dispensa

la vita eterna [23, 1-10]

124Santa Sofia fu distrutta dalle fiamme nella notte tra mercoledì 14 e giovedì 15 gennaio, Santa Irene il venerdì 16: cf. Greatrex, The Nika Riot, cit. pp. 85-86. 125Romano non sa, o piuttosto non dice, che il tempio fu rialzato da Zorobabele già una cinquantina d’anni dopo l’abbattimento ad opera di Nabucodonosor (587), e quindi ristrutturato da Erode (19 a. C.), prima di subire la definitiva distruzione ad opera di Tito nel 70. Cf. Maisano, Cantici, cit., pp. 468-469 n. 48. Il medesimo confronto fra Giustiniano e Salomone ritorna in due scritti anonimi posteriori: un contacio datato al 562 e il Racconto sulla costruzione di Santa Sofia, risalente al IX secolo: in proposito si veda G. Dagron, Constantinople imaginaire. Études sur le recueil des “Patria”, Paris 1984, pp. 207-208, 303-314. 126Si tratta rispettivamente del santuario edificato sul Golgota (326-335) e della chiesa del Cenacolo (335-347). In realtà Elena era deceduta nel 327, ma la presenza della sua figura è in funzione del paragone con l’imperatrice Teodora, che Romano vuole presentare come promotrice, accanto al marito, del programma di ricostruzione. Cf. Maisano, Cantici, cit., p. 469 n. 49.

116

Dopo essere stati artefici del ravvedimento morale dei sudditi, ora Giustiniano e Teodora si

fanno promotori del risanamento materiale della città, avviando un’opera di ricostruzione che

per grandiosità, magnificenza e rapidità non ha paragone: la ricostruzione del Tempio per

eccellenza della cristianità tutta, S. Sofia. Insieme con esso risorge (il verbo impiegato da

Romano è il medesimo che i Vangeli utilizzano per la risurrezione di Cristo) la cittadinanza

intera, che si avvia a dimenticare le recenti sventure. Conclude l’inno una duplice preghiera: si

implora il Signore [24] affinché sovrintenda al compimento e alla buona riuscita dei lavori (che,

dunque, erano ancora in corso d’opera quando Romano scrive),127 [25] e affinché, in quanto

Salvatore, protegga la città e gli imperatori, preservi Costantinopoli da fame, sismi e morte e

conceda a tutti, e anche al suo umile cantore, il perdono dei peccati e “la vita eterna”.

È giunto il momento di tirare le fila del nostro ragionamento. Abbiamo visto come la prima

sezione del carme (strofe 1-12), dal tono propriamente omiletico, teorizzi la necessità della

punizione divina come rimedio estremo da opporre alla recidiva trascuranza, da parte degli

uomini, dei suoi comandamenti. Il concetto viene illustrato attraverso una ricca

esemplificazione, che si dipana dall’antichità biblica e giunge sino ai castighi che di recente si

sono abbattuti sui costantinopolitani: terremoto, siccità, e infine, l’incendio della città (13-17).

Collegando in maniera artificiosa il rogo ad una serie di eventi palesemente distinti, perché di

origine naturale, Romano accredita l’idea che esso non sia altro che l’ennesimo evento

catastrofico di origine sovrumana, esattamente come i precedenti. Ad avvalorare tale

impressione contribuisce la reticenza riguardo alla sommossa popolare e all’intervento

dell’esercito. Con ciò viene a cadere immediatamente ogni accusa a carico di Giustiniano: lungi

dall’essere additato quale responsabile dei malcontenti popolari da cui scaturì la sedizione e

fautore della conseguente violentissima repressione (oltre che speculatore sulle proprietà di

molti degli uccisi, se si presta fede al Procopio degli Anecdota),128 egli figura inizialmente quale

semplice spettatore e vittima del castigo divino, al pari degli altri uomini, salvo poi assumere le

vesti di salvatore della cristianità e ricostruttore dei suoi santuari. Dotato, in virtù della dignità

127Questo accenno lascia supporre che il contacio sia stato composto quando i lavori di ricostruzione non erano ancora terminati. Cf. Grosdidier de Matons, Hymnes, cit., pp. 457-8; supra, n. 13. 128Cf. supra, n. 6.

117

che ricopre e di una straordinaria pietas, della facoltà di intercedere presso Dio, l’imperatore,

novello Mosè (cf. strofe 3-4) e novello Davide (cf. strofe 18), dapprima ottiene la

riconciliazione con la divinità collerica e vendicativa che campeggia nella sezione iniziale

dell’inno; quindi occupa interamente la scena, emulando le opere di Salomone e Costantino (cf.

strofe 21-22) con l’avvio di un grandioso progetto di ricostruzione che ha il suo cuore nel

santuario di S. Sofia, il cui cantiere diviene simbolo della nuova vita dell’umanità redenta.129

Alle masse dei fedeli riunite per ascoltare le sue meravigliose prediche cantate, il Melodo

insegnava ad accetttare le immani sciagure abbattutesi sulla città in quanto manifestazioni di

una volontà superiore – e non, come molti degli astanti potevano figurarsi, conseguenza della

dispotica amministrazione giustinianea – ed al contempo inculcava sentimenti di gratitudine e

venerazione nei confronti del sovrano servator e restitutor. Attraverso un abile e ardito

camuffamento, la commemorazione di un evento luttuoso potenzialmente in grado di minare la

reputazione e la stabilità stessa del potere imperiale si trasforma in un’opportunità di plauso

del medesimo.

Alla luce di quanto detto fin qui, pare innegabile che la rappresentazione della rivolta di “Nika”

fornita da Romano dovesse risultare quanto mai consona alla versione dell’accaduto che

l’autocrazia avrebbe voluto imporre all’opinione pubblica. Questa convergenza di vedute

potrebbe spiegarsi supponendo che l’inno sia stato commissionato al Melodo per celebrare la

posa della prima pietra della nuova Grande Chiesa,130 o comunque in occasione di una

solennità liturgica alla cui ufficiatura presenziava la coppia imperiale.131 Dunque il

componimento costituirebbe un servile atto di omaggio ai regnanti, redatto su pressione della

corte o delle gerarchie ecclesiatiche? L’intento encomiastico è, in effetti, innegabile; tuttavia

ritenere Romano un predicatore militante, come avverte giustamente Herbert Hunger, sarebbe

riduttivo e costituirebbe senza dubbio un grossolano fraintendimento della sua arte.132 Una

valutazione obiettiva dell’atteggiamento tenuto dal poeta nella circostanza non può prescindere

dalla considerazione della temperie sociale e culturale in cui egli operava. Innanzitutto non è

129Cf. Grosdidier de Matons, Hymnes, cit., p. 466. 130L’ipotesi (contestualmente alla quale il contacio andrebbe datato al febbraio 532) risale a Mitsakis: cf. supra, n. 13. 131Grosdidier de Matons, Hymnes, cit., p. 458. 132H. Hunger, Romanos Melodos, Dichter, Prediger, Rhetor - und sein Publikum, “Jahrbuch der Österreichischen Byzantinistik” 34, 1984, (pp. 15-42; versione italiana in “Römische Historische Mitteilungen” 25, 1983, pp. 305-332), p. 36.

118

da escludere che Romano stesso fosse, in certo qual modo, vittima di una informazione

distorta riguardo all’effettivo svolgimento dei fatti, che poteva aver appreso da una delle veline

che venivano confezionate ad arte e fatte circolare oralmente da ambienti di corte per

diffondere la versione dell’accaduto gradita al sovrano,133 oppure dal resoconto ufficiale redatto

dalla cancelleria imperiale per informare del successo del sovrano sugli insorti e quindi fatto

affiggere presso gli edifici pubblici e le chiese di tutte le province dell’impero.134 Non bisogna

dimenticare, inoltre, che gli storici del tempo che trattarono l’argomento si attennero alla

vulgata di regime:135 avrebbe potuto Romano presentare gli eventi in un’ottica dissimile e non

allineata? La soluzione migliore, pertanto, sarebbe forse quella di individuare nel contacio 54 il

saldo dell’obolo dovuto alla causa dell’impero, da parte di un autore la cui rimanente

produzione è, del resto, totalmente estranea a simili istanze. Nulla vieta però di pensare che il

poeta, recependo e interpretando autonomamente stimoli provenienti tanto dall’esterno,

quanto dal proprio entourage, abbia agito per scelta consapevole, animato dal pio proposito di

favorire la riconciliazione tra i corpi sociali, oppure semplicemente mosso da sincero

entusiasmo e partecipe adesione al programma di renovatio sia spirituale che materiale che la

pubblicistica di corte andava propalando in quegli anni.

Mi si consentano due riflessioni conclusive, di carattere particolare la prima, più generale

l’altra. In un frangente fra i più delicati del suo regno, Giustiniano trasse sicuramente

vantaggio dalla pubblicazione (s’intende, dalla pubblica esecuzione) dell’inno: più ancora degli

scritti encomiastici redatti, a vario titolo e in forme e occasioni differenti, dai vari Procopio,

Agapeto, Paolo Silenziario, esso dovette sortire un formidabile effetto propagandistico. Rispetto

a quelli, il contacio era in grado di raggiungere un pubblico assai più vasto e assai più

articolato, coincidente con la totalità dei fedeli che presenziavano alle celebrazioni liturgiche,

ovvero con la stragrande maggioranza della popolazione; inoltre, in virtù della comprensibilità

del linguaggio136 e dell’immediatezza dei riferimenti culturali, il messaggio in esso contenuto

risultava fruibile ai più.

133In proposito si veda Scott, Malalas, cit. pp. 102 e 107. 134Vedi supra, n. 6. 135Vedi supra, n. 6. 136A proposito riporto il conciso ma illuminante giudizio di E. Follieri, L’innografia, cit., p. 9: “La lingua di Romano è la koinè del mondo greco postclassico, con molti elementi tratti dalla lingua parlata e copiosi riecheggiamenti dei testi biblici. [...] Il vocabolario è ricco, e in complesso semplice, perché il contacio, dato il suo carattere di vera e propria catechesi, possa riuscire accessibile a un pubblico non necessariamente tutto colto”. Per un’analisi più approfondita del

119

Erano trascorsi centoquarant’anni da quando Teodosio I, per aver autorizzato la brutale

repressione poi passata alla storia come “l’eccidio di Tessalonica”, era stato scomunicato e

costretto a pubbliche manifestazioni di contrizione e pentimento dal vescovo Ambrogio di

Milano.137 I rapporti di forza tra potere politico e potere religioso, nel frattempo, erano

sensibilmente mutati in favore dell’autocrazia:138 il sovrano, pur essendosi macchiato di un

massacro di proporzioni ben maggiori di quello del 390, non solo non doveva più temere di

incorrere nelle severe reprimende della Chiesa, ma anzi esercitava su di essa un’influenza così

profonda da riuscire a imporle l’accettazione della propria versione mistificata dell’accaduto, e

a contare sul clero per trasmettere ai fedeli, ovvero alla totalità dei sudditi, una visione

deformata ed edulcorata dei fatti.

Luigi Silvano

linguaggio di Romano sono indispensabili gli studi di Grodidier de Matons, Romanos le Mélode et les origines, cit., pp. 285-327 e di K. Mitsakis, The Language of Romanos the Melodist, München 1967. 137Teodosio ordinò l’intervento dei soldati per punire l’insubordinazione dei Tessalonicesi, culminata nel linciaggio del comandante barbaro della guarnigione locale. Le truppe piombarono sulla folla radunata – esattamente come nel 532 – nel circo cittadino, massacrando indiscriminatamente settemila tra uomini, donne e bambini. Per l’indicazione delle fonti che riportano l’episodio, peraltro assai noto, mi limito a rinviare a V. Marrotta, Il potere imperiale dalla morte di Giuliano al crollo dell’Impero d’Occidente, in AAVV., Storia di Roma, vol. III, t. I, Einaudi, Torino 1993, p. 570 e nn. 83-85; J. Curran, From Jovian to Theodosius, in A. Cameron, P. Garnsey (edd.), The Cambridge Ancient History, vol. XIII, Cambridge 1998, p. 108 e nn. 96-98. Interessanti osservazioni sull’episodio in G. Dagron, Empereur et prêtre. Étude sur le “césaropapisme” byzantin, Paris 1996, pp. 120-138. 138Non è mia intenzione addentrarmi nel terreno spinoso della definizione dei rapporti tra autocrazia e Chiesa sotto Giustiniano. In merito sia sufficiente rimandare agli studi di J. Meyendorff, Justinian, the Empire and the Church, “Dumbarton Oaks Papers” 22, 1968, pp. 43-60; C. Capizzi, Giustiniano I tra politica e religione, Soveria Mannelli 1994 (con bibliografia).

120

BELISARIO di Andrea Frediani

Belisario nacque intorno al 500 d.C. lungo il confine tra la Tracia e l’Illiria. I suoi esordi nella

carriera militare lo videro servire sotto l’imperatore Giustino, in Armenia e in Mesopotamia

contro i persiani. Le sue capacità gli valsero la nomina a comandante della guarnigione della

fortezza confinaria di Dara, ma fu dopo l’ascesa al trono di Giustiniano, nel 529, che Belisario

ascese ai più alti comandi. L’imperatore, infatti, lo teneva da tempo in ampia considerazione, e

lo nominò magister militum per orientem, ovvero, comandante in capo del fronte orientale e

quindi responsabile delle operazioni contro i persiani.

Il suo esordio da comandante supremo non fu troppo fortunato, anche per la minor

disponibilità di truppe rispetto al nemico: dopo una prima vittoria presso Dara, nel giugno 530,

che arginò un primo tentativo di invasione persiana, l’anno seguente Belisario optò per una

strategia più offensiva, oltrepassando l’Eufrate per sbarrare agli invasori la strada per

Antiochia. Ma non riuscì a coordinare i movimenti dei suoi comandanti subalterni e, presso

Sura, subì una pesante sconfitta, finendo per considerare un successo l’aver sottratto una

parte del proprio esercito alla distruzione.

Il che, naturalmente, non gli evitò la destituzione immediata. Ma l’imperatore fu costretto a

ricorrere nuovamente a lui l’anno successivo quando, il 13 gennaio del 532, Costantinopoli fu

teatro della rivolta di Nike, contro il potere imperiale; Belisario irruppe con le truppe

nell’ippodromo, epicentro della ribellione, e massacrò 35.000 persone.

La sua brillante quanto spietata gestione della rivolta costituì il trampolino di lancio per essere

reintegrato nei più alti incarichi, come Napoleone che, secoli dopo, avrebbe recuperato la

fiducia del Direttorio sparando sulla folla di Parigi. E come Napoleone, Belisario si vide

assegnare il comando di un fronte di conquista. Il programma di recupero dei territori già sotto

la sovranità romana, concepito da Giustiniano, infatti, partiva dall’Africa, in mano ai vandali.

La campagna ebbe inizio il 22 giugno 533 con la partenza da Costantinopoli di una flotta di 92

navi da guerra e 500 da carico sulle quali viaggiavano 18.000 uomini. Dopo l’approdo a Caput

Vada, nel mese di settembre, Belisario si trovò la strada sbarrata per Cartagine a pochi

121

chilometri da essa, a Decimum, dove il 13 settembre approfittò della scarsa coordinazione tra

le armate vandale, incaricate di attaccarlo da più parti, per sbaragliarle una alla volta.

Dopo che Belisario aveva occupato Cartagine, il re Gilimero si avvicinò alla capitale in

dicembre, attestandosi nel villaggio di Tricameron, a 29 chilometri dalla capitale. Il generale

romeo, temendo la defezione dei suoi cavalieri unni, assunse l’iniziativa avanzando verso le

posizione avversarie. Si fece precedere da quasi tutta la cavalleria che, condotta dal suo

luogotenente Giovanni l’Armeno, poté attaccare la cavalleria di Gilimero il quale, pur

disponendo della superiorità numerica, esitava.

Al terzo assalto cadde il fratello del re, e il settore centrale collassò, inducendo Gilimero a

riparare presso il campo, dal quale però fuggì quando vide sopraggiungere la fanteria

imperiale, che Belisario aveva fatto marciare con passo regolare. La fuga del loro re indusse le

truppe vandale e maure a fare altrettanto, lasciando il campo alla mercé del saccheggio greco.

Tre mesi dopo, con la cattura di Gilimero, si chiudeva un’impresa stupefacente per la sua

rapidità ed efficienza.

L’imperatore, ora, guardava più a ovest, nella stessa penisola italica dove, dopo la morte del re

Teodorico, gli ostrogoti avevano perso coesione e autorevolezza. La nomina di Belisario a

console fu seguita dal nuovo comando sul fronte italico, che il generale pose in atto

conducendo una piccola armata di 7500 uomini in Sicilia, sbarcando a Catania, mentre Mundo,

un discendente di Attila, ne conduceva un’altra dalla Dalmazia.

La strategia a tenaglia fallì per la sconfitta e la morte del comandante unno, ma anche perché

Belisario dovette allontanarsi dalla penisola per sedare una nuova rivolta in Africa; ciò spinse

gli ostrogoti, in linea di massima propensi a riconoscere la sovranità imperiale, a resistere a

oltranza. Quando Belisario tornò in Sicilia, i suoi movimenti lo portarono subito a Reggio, dove

raccolse la resa della guarnigione, comandata dal genero del re Teodato.

Proseguendo la risalita della penisola, lungo la quale le popolazioni lo accolsero festanti, il

generale trovò un primo ostacolo a Napoli, che fu costretto ad assediare. La espugnò nel

novembre del 536 approfittando dei canali fognari della città, attraverso i quali fece passare le

sue truppe, che lasciò libere di saccheggiare. La caduta di Napoli provocò una crisi istituzionale

tra i goti, che deposero e successivamente uccisero Teodato, ed elessero uno sperimentato

122

guerriero, Vitige, il quale ritenne indifendibile Roma e si ritirò più a nord, lasciando che

Belisario vi entrasse nella notte tra il 9 e il 10 dicembre 536. La conquista di Roma sanciva la

netta divisione della penisola in due metà, delle quali quella meridionale era interamente sotto

il controllo imperiale.

Trovandosi lungo la linea di confine tra le due sfere di controllo, la città eterna diveniva la

chiave del conflitto. Vitige non tardò a porla sotto assedio ma Belisario, che aveva trascorso

l’inverno a potenziarne le difese, riuscì a resistere per un anno e 69 battaglie intorno alle mura

al blocco e agli assalti dei goti, fino a quando un esercito di rinforzo non minacciò Ravenna,

obbligando Vitige a togliere l’assedio. Nei mesi successivi, il generale bizantino spostò più a

nord il baricentro delle operazioni, e Vitige non poté far altro che rimanere asserragliato a

Ravenna. La guerra sembrava sul punto di essere vinta, ma Giustiniano aveva ragione di

temere la riapertura del fronte persiano, e fu indotto a trattare la pace coi goti, che d’altronde

riconobbero in essa di aver perduto tutti i territori italici a sud del Po.

Belisario, che conosceva bene le difficoltà in cui si dibattevano i barbari, rifiutò di ratificare il

trattato e mosse alla volta di Ravenna, dove i goti, deposto Vitige per inettitudine, arrivarono a

offrirgli la corona. Il generale si limitò comunque a restaurare il potere imperiale e tornò a

Costantinopoli con un ricco bottino e lo stesso Vitige tra i prigionieri.

Il suo comportamento indipendente, nonché la popolarità acquisita con il nuovo successo,

indussero Giustiniano a lesinargli, da allora, onori e mezzi. Ma Belisario era il suo miglior

generale, e non poté esimersi dall’affidare a lui quello che era divenuto il principale dei fronti di

guerra, ovvero il persiano; in due anni il condottiero liberò i territori occupati dal re Cosroe e lo

costrinse alla pace, per essere però accusato di aver appoggiato una sedizione nel 543 e

ancora una volta privato del comando.

Ma in Italia i goti si erano nuovamente organizzati sotto la guida di un sovrano giovane e

capace, Totila, e c’era ancora bisogno della sua opera, sebbene Giustiniano, sempre più

diffidente nei suoi confronti, ve lo spedisse autorizzandolo a portarsi dietro solo 4000 uomini,

per giunta mantenuti a sue spese. Belisario sbarcò a Ravenna nel 544, dove però, con le sue

magre forze, dovette assistere impotente alla caduta delle principali piazzeforti dell’Italia

123

centrale; né fu in grado di portare aiuto a Roma quando la città venne posta sotto assedio per

un anno e mezzo, prima di essere espugnata il 17 dicembre del 546.

Totila, però, non reputava il possesso dell’Urbe vantaggioso strategicamente e, dopo averla

privata di mura e resa disabitata, la lasciò priva di truppe, consentendo così a Belisario di

riappropriarsene, e di resistere ancora una volta a un assedio. Ma il generale non riuscì a

impedire, nell’estate del 548, la caduta di Rossano, nel Bruzio, nonostante vi fosse accorso con

un’armata, e fu lui stesso, amareggiato, stanco e malato, a chiedere il rimpatrio a

Costantinopoli, che avvenne nell’autunno dello stesso anno.

Negli anni seguenti, Giustiniano si valse ancora di lui, almeno in due occasioni. Nel 554 lo inviò

nella Spagna meridionale e, cinque anni dopo, gli affidò la difesa della stessa Costantinopoli

contro l’avanzata di bulgari e slavi, che Belisario condusse con successo nonostante che,

perfino in quella circostanza, l’imperatore gli avesse centellinato le truppe. Tuttavia, Belisario

finì nuovamente in disgrazia, e perfino in prigione, a seguito di un suo presunto coinvolgimento

in una congiura contro il sovrano, nel 562. Riconosciuto innocente e riabilitato, poté trascorrere

senza ulteriori traumi gli ultimi tre anni della sua vita.

L’azione di Belisario fu molto condizionata dagli intrighi per i quali si è resa celebre la corte

bizantina. Tuttavia, egli ebbe modo di dimostrare, ripetutamente, di essere stato il miglior

comandante del suo secolo, che sancì l’inizio dell’epoca medievale.

I suoi successi più prestigiosi li guadagnò, indubbiamente, contro avversari in difficoltà o

addirittura in decadenza: il regno vandalico in Africa non era più quello dei tempi di Genserico;

tuttavia, i romani d’oriente avevano tentato almeno un paio di volte la sua conquista, fallendo

miseramente con eserciti e flotte ben più imponenti. I goti erano estremamente divisi e

disorganizzati, e contro il loro unico, valido comandante, Totila, Belisario collezionò più

insuccessi che vittorie. Dopo di lui, l’eunuco Narsete piombò in Italia e risolse la lunga guerra

con una facilità sconcertante, ma questo dimostra più che altro quanto la disponibilità di

risorse, che Giustiniano non lesinò a Narsete, fosse determinante per conseguire risultati

risolutivi. Sul fronte persiano, di fronte a un impero dall’apparato bellico notevole Belisario si

trovò sempre a mal partito, ma mostrò una grande capacità di condurre operazioni difensive.

124

Belisario fu generale dotato di intuito e inventiva, che manifestò in ambito ossidionale ideando

sistemi e mezzi sia per espugnare che per difendere roccheforti. In tempi in cui gli eserciti

romei erano altamente compositi, seppe mantenere una costante autorità sulle proprie truppe,

che sapeva arringare con passione e convinzione, e con cui condivideva i rischi in battaglia.

Sapeva sfruttare al meglio le tecniche di combattimento caratteristiche di ciascun reparto,

manifestando grande confidenza nell’utilizzo sia delle ritirate simulate tipiche dei barbari che

delle avanzate a ranghi compatti degli eserciti romani.

Andrea Frediani

www.andreafrediani.it

125


Recommended