Chi disprezza compra: M**Bün e l’instaurazione della polemica nel discorso di marca
Serena Bertoglio, 283082, [email protected]
ABSTRACT: This paper wants to investigate the successful response given to a restaurant located in Turin, M**Bün.M**Bün defines itself as a “slow fast food”, which means a place set as a regular fast food but serving traditionalcourses – especially meat – all prepared with products coming from the Piedmont area. The brand strategy can beexamined following Greimas’s theory of the generative trajectory of meaning, moving from the outer layers to thedeepest, and formulating the hypothesis that success originates from an efficient semiotic construction operated at anylevel. In fact, M**Bün has a very attractive figurative manifestation (logo, concept store, advertisement): a mix betweenclassic fast food elements and original ideas, such as the menus written in dialect. Across its discursive structure,M**Bün is able to gain trust from its customers. On the level of narrative structures, it lays the news through whichM**Bun has become famous among Italian media: a quarrel against McDonald’s because of the similarity of theirbrand names. In the deep, it is possible to find the brand values: quality of food, products of the territory, respect for theenvironment. In conclusion, M**Bün is a “slow fast food” because it is like a fast food on the expression plane but itrefers to the “slow food” topics on the content plane; so the brand tries to create a new symbolism.
1. Introduzione
È il 22 ottobre 2009. Graziano Scaglia e Francesco Bianco inaugurano a Rivoli M**Bün,1
“prima e unica agrihamburgheria slow fast food di tradizione piemontese”: un ristorante, sei
inservienti e la carne dell’allevamento di famiglia. Passano pochi mesi e si raddoppiano metratura e
personale, poi l’approdo a Torino: prima in Corso Siccardi, quindi in Via Rattazzi (sempre in centro
città, alle spalle di Via Lagrange). Spazi enormi, un organico di ottanta dipendenti e la coda fino al
marciapiede nelle ore di punta. La stampa – locale e non – grida al miracolo, nasce un fenomeno di
successo.
Il presente lavoro si propone di mettere a fuoco tale successo. Si procederà dapprima con
l’analisi dei testi2 di cui si compone il mix di marca specifico di M**Bün: logo, annunci
pubblicitari, punto vendita. La rassegna stampa reperibile nella sezione “Dicono…” del sito
ufficiale completerà il corpus, offrendo all’indagine ulteriori spunti d’interesse.
Il discorso di marca sarà analizzato nel solco del modello del “percorso generativo” teorizzato
da A. J. Greimas. In coerenza con il ruolo di interprete che il consumatore è chiamato ad assumere,
non ci si collocherà dal punto di vista della generazione del senso ma da quello della sua decodifica:
lo schema di Greimas sarà pertanto riletto a sequenza invertita, procedendo dal livello della
manifestazione per giungere ai livelli più profondi dell’immanenza testuale. Per questa via, in
apertura saranno richiamati concetti di semiotica visiva, quindi si proseguirà a livello figurativo (o
discorsivo) con l’analisi dell’enunciazione. Scendendo a livello superficiale,3 si tratterà di
ricostruire il racconto di marca; infine, si rintracceranno le assiologie collocate in profondità. Il
secondo cardine semiotico sarà tratto dalla lezione di due grandi maestri come F. de Saussurre e L.
1 www.mbun.it/ 2 Nella nozione semiotica del termine, da non confondere con ciò che esso indica per il senso comune.3 Il termine adottato da Greimas costringe a un apparente ossimoro. C’è da supporre che l’opzione terminologica siariconducibile alla volontà di rimarcare la relazione tra questo livello e quello più profondo, rispetto al quale si trovaeffettivamente a uno strato più superficiale.
1
Hjelmslev: pur nelle sensibili differenze di prospettiva – sociosemiotica l’una, formalista l’altra –
entrambi propongono una concezione relazionale di segno, in cui i due lati – o piani – vivono in un
essenziale rapporto di implicazione reciproca (Ferraro 2012: 31). Si tratterà di verificare come si
colloca il discorso di marca nei confronti di questa fondamentale regola semiotica.
L’obiettivo complessivo sarà quello di confutare l’ipotesi zero relativa al successo di
M**Bün, dimostrando che ciò che il senso comune definisce “miracolo” altro non sia che il
risultato di una costruzione semiotica efficace anche se spesso poco consapevole, dal lato
dell’emissione come da quello della ricezione. Che cosa contiene il concetto di “efficacia”? Da
dove deriva? È possibile ricondurla a una semplice condivisione dei valori proposti o è più corretto
ipotizzarne un legame con fenomeni semiotici meno espliciti? Queste le domande cognitive cui si
intende fornire risposta nella trattazione che segue.
2. Svolgimento
2.1 Superficie: mix di marca e isotopie
In superficie, la marca M**Bün si rende visibile attraverso tre canali principali: logo, annunci
e punto vendita.4
I l logo (Ill. 1) è l’elemento più riconoscibile di M**Bün: irrinunciabile, dà volto e nome a
ogni manifestazione del discorso di marca. È un logo sincretico, visivo e verbale. Osservandolo,
balza agli occhi la sagoma stilizzata di un grosso coltello da macellaio, formante figurativo di cui
non si sollecita un’interpretazione puramente referenziale: M**Bün non produce coltelli, e non è
una macelleria. Il rinvio all’universo del fast food è implicito, prodotto per connotazione:5 si allude
alla carne, fulcro della proposta gastronomica e Oggetto di Valore narrativo, il coltello è l’Aiutante
che permette di farla confluire debitamente sminuzzata all’interno di un panino. Le unità plastiche
sono organizzate in modo da produrre due effetti topologici: l’orientamento concentrico dello
sguardo (attraverso la presenza di due rette immaginarie tangenti in corrispondenza del centro) e la
forte delimitazione dell’oggetto-coltello rispetto all’esterno (formato chiuso del cerchio, bordi
marcati, oggetto circoscritto). Si produce così una sorta di débrayage: M**Bün è un universo
separato, che intende ribadire la propria differenza. Si è lontani dall’invito generalizzato nel mondo
di marca prodotto dagli archi aperti del logo McDonald’s, eppure un ingresso è sollecitato: ecco che
– interpretata in senso figurale – la silhouette della lama diventa una porta, cui però è possibile
accedere solo dopo aver oltrepassato una spessa linea di confine. Dal punto di vista eidetico, è
evidente un’opposizione rettilineo/arrotondato: la prevalenza di linee curve rende la lama del
4 Le sponsorizzazioni e le diverse forme di brand extension (Radio M**Bün, Agenda M**Bün) completano il quadro.5 Come spesso avviene in pubblicità: “In generale l’uso delle immagini […] non è puramente referenziale, ma utilizza almassimo la capacità delle immagini di veicolare sensi secondi (secondo l’analisi della connotazione) e narrazioniimplicite” (Volli 2003: 169).
2
coltello ancora più tagliente, facendone emergere la funzionalità. Cromaticamente, dominano il
rosso e il giallo oro: due “primari psicologici” – seguendo F. Thürlemann – luminosi e saturi, che
accostati producono un forte contrasto. Sono colori caldi, tipici del settore (basti pensare ai logo di
McDonald’s o di Burger King). Accostamento pericoloso, che M**Bün riesce a volgere a proprio
vantaggio rendendo polemico il discorso cromatico (Leone 2007: 10): il giallo è sconfitto dall’oro
sul piano dell’espressione così come – per semisimbolismo – il fast food di qualità primeggia nei
confronti del cibo spazzatura sul piano del contenuto. La componente verbale è complessa,
presupponendo una triplice decodifica: c’è da capire per cosa stiano i due asterischi – autentici
“segni” secondo la definizione classica di C. S. Peirce6 – quindi bisogna possedere qualche
rudimento di piemontese per decifrare quel “mac bün”, infine occorre tradurre i lessemi in inglese
che compongono il pay-off. Una volta trovata la chiave d’accesso, il contenuto appare chiaro: una
storia di contrasti (piemontese e inglese, locale e globale, slow e fast) che la marca si propone di
conciliare. Complessivamente, il logo risulta unitario e compatto, grazie alla contaminazione tra le
due sostanze espressive di cui si compone: le viti del coltello sono anche la dieresi del brand name,
la “ü” verbale diventa una faccina sorridente se decodificata sul piano visivo.
G l i annunci pubblicitari (Ill. 2), affissi presso il punto vendita o pubblicati online,
compongono una classe di significanti equisimili, ossia di elementi semioticamente equivalenti
(Ferraro 2012: 51). Tipicamente, vi è raffigurato un panino, parzialmente coperto dal logo di marca
che gli si sovrappone a mo’ di bollino; si notano poi il logo Coalvi (il Consorzio di Tutela della
Razza Piemontese) e alcune figure ripetute che rinviano all’ingrediente principale del prodotto
pubblicizzato. A convogliare lo sguardo sul panino concorre sia la posizione in pagina (centrale) sia
l’organizzazione prospettica della raggiera di bande bicolori ravvisabile in secondo piano
(convergenti in prossimità del centro, luogo della congiunzione con l’Oggetto di Valore).
L’immagine è ancora incorniciata; la raggiera alterna colori analoghi, producendo un effetto di
naturalità;7 le linee rette fanno emergere i contorni arrotondati dei protagonisti. La forma quadrata
dell’hamburger è all’origine di un nuovo semisimbolismo polemico, rivendicato esplicitamente dal
discorso di marca: “I nostri hamburger e la carne cruda sono quadrati… perché sono diversi da tutti
gli altri!” si legge a chiare lettere sul sito. Eppure, l’associazione enciclopedica con gli annunci da
fast food persiste, specie se si opta per una soluzione compositiva in effetti piuttosto analoga (Ill. 3).
Non resta che provare a differenziarsi sul piano verbale: headline e baseline – che riportano
rispettivamente nome del panino e descrizione dei suoi ingredienti – propongono un inedito mix di
italiano e piemontese, il copy è un inno alla qualità (stagionalità, freschezza, pregio, tutela sono tutti
6 “Un segno è qualcosa che per qualcuno sta per qualcos’altro sotto un certo aspetto o possibilità” (Peirce 1980 inFerraro 2012: 43).7 I colori analoghi contengono una tonalità comune e si trovano uno accanto all’altro sulla ruota cromatica; si trovanospesso in natura e risultano armoniosi e piacevoli all’occhio.
3
termini riferibili al medesimo paradigma), comparativi e superlativi instaurano un regime di
superiorità nei confronti dei concorrenti.
Il punto vendita (Ill. 4, 5, 6) – in realtà sia un ristorante sia un vero e proprio negozio – è il
tempio del discorso M**Bün. Accedendovi, il consumatore s’immerge nel mondo di marca,
facendone concreta esperienza (Marrone 2012: 317). Concepito semioticamente, tale spazio non è
un insieme statico di elementi: la sua grammatica, posta in sequenza sull’asse del processo,
acquisisce agilmente dimensione narrativa; lo spazio si anima e diviene percorso (Volli 2003: 162) e
racconto (Leone 2013: 2). Un bovino a grandezza naturale è collocato in prossimità dell’ingresso, le
vetrine trasparenti fungono da schermo, permettendo di visualizzare l’interno del locale. Varcata la
soglia, ci si dirige verso il bancone: come in ogni fast food, la cucina è a vista, gli addetti sono
giovani e in uniforme, e l’acquisizione di competenza avviene volgendo lo sguardo verso l’alto,
dov’è collocato il pannello del menù (una lavagna che sembra essere scritta a mano col gesso). Una
volta effettuati ordine e pagamento, si riceve un cercapersone che avvisa tramite vibrazione quando
il vassoio è pronto; nel frattempo, ci si può accomodare al tavolo. Sono minuti cruciali: il
consumatore inoccupato inganna l’attesa rivolgendo l’attenzione al layout del negozio, il discorso di
marca lo investe e tenta di sedurlo. Ogni parete, colonna o qualsivoglia superficie scrivibile riporta
un’epigrafe, graffito sui generis impresso a muro coi caratteri dell’immancabile Engravers Gothic,
stesso font del logo e degli annunci pubblicitari. Sulle pareti tinte di rosso alcune tele famose sono
riproposte in stile M**Bün (uomini in armatura con sembianze bovine, inusuali Cupido che
scoccano hamburger, patate a cavallo, fanciulle col volto di mucca); numerosi pannelli raffigurano
animali, panini, birre e tritacarne; il logo è declinato in ogni forma e dimensione (dagli adesivi per
l’auto all’enorme lampadario); in sottofondo, Radio M**Bün diffonde la musica di artisti
rigorosamente locali. Una volta consumato il pasto, appositi contenitori per la raccolta differenziata
smaltiscono avanzi e incartamenti, tutti biodegradabili e brandizzati. Nell’insieme, si tratta di un
punto vendita a elevata densità espressiva, che invoca la cooperazione di un consumatore disposto
passionalmente ad accoglierla e a condividerne il ritmo. Anche il prezzo è parte dell’esperienza di
marca: pranzare da M**Bün non comporta una grossa spesa (un menù completo costa circa dieci
euro), eppure si tratta di tariffe superiori rispetto agli altri fast food. Si paga il supplemento qualità o
la possibilità di discostarsi dalle multinazionali, o forse entrambe le cose? Il prezzo contiene il
target, il “lettore modello” del discorso di marca: un soggetto che accetta di mettere mano al
portafogli per sanzionare la propria adesione alla filosofia proposta.
A questo punto, è possibile precisare le principali isotopie che assicurano coerenza al mix di
marca. L’isotopia “dell’oro” riunisce gli elementi che condividono il sema contestuale della
differenza/superiorità rispetto al settore dei fast food, di assoluta centralità (per esempio: la tonalità
di giallo del logo, la cornice degli annunci, la forma quadrata degli hamburger, il ricorso al dialetto
4
piemontese, l’uso ripetuto di comparativi e superlativi, i prezzi più alti). Attraverso l’isotopia della
carne si evidenzia un altro fondamento del discorso di marca, convocato a ogni grado di
esplicitazione (il coltello da macellaio, la dominante cromatica rossa, il bovino del logo Coalvi, i
quadri e i pannelli dei punti vendita, le mucche tridimensionali sistemate all’ingresso sono tutti
elementi riconducibili al medesimo topic).
2.2 Livello discorsivo ed enunciazione
Chiarito il mix espressivo che lo esplicita, si tratta ora di analizzare il discorso di marca sul
piano dell’enunciazione. Le tracce delle strategie comunicative adottate da M**Bün sono
rinvenibili su ogni testo considerato in precedenza, ma risultano particolarmente evidenti se si
dirige l’attenzione verso alcuni specifici contenuti: le epigrafi a muro del punto vendita, la mission
dichiarata sul sito e sulla pagina Facebook,8 gli enunciati – non solo verbali – degli annunci
pubblicitari.
Seguendo la griglia di analisi proposta da Marrone (Marrone 2012: 152, 153) occorre
innanzitutto individuare i poli del discorso e definirne la relazione. L’enunciatore è il simulacro
testuale di M**Bün (emittente empirico): un’istanza che parla in prima persona plurale (segno che
si concepisce come un gruppo, o meglio come una famiglia), che non ha timore di palesarsi (è la
famiglia Scaglia, titolare dell’azienda agricola da cui è nata l’idea di un ristorante che ne
commercializzasse i prodotti) e che intende porsi in prima persona quale artefice del proprio
discorso, pur scegliendo talvolta di rinforzarlo delegando la responsabilità enunciativa a figure più
autorevoli (come il Consorzio Coalvi). È un enunciatore che ambisce a dimostrare di essere
credibile, dichiarando senza esitazioni di aver accresciuto anno dopo anno “sensibilità e
consapevolezza”. All’enunciatario spetta il ruolo di simulare nel testo il soggetto: un “consumatore
modello” attento e consapevole, che non occorre convincere circa la legittimità delle tematiche
proposte perché le condivide già per etica propria, e che quindi richiede solo di essere assecondato
tramite un’offerta che non ne frustri l’identità. Con tale soggetto, la marca intende instaurare una
relazione di complicità, ricorrendo pertanto a un regime discorsivo dialogico (Ill. 7). Eccone alcuni
indicatori: paradigma pronominale di prima e seconda persona (“noi” per la marca e “tu” per il
soggetto), conativi frequenti e ricorso all’imperativo (“Non fare la coda, entra, ordina e corri a
casa!”, “S’at pias, cata. S’at pias nen, va ca sensa”), interpellazioni al lettore tramite l’uso del
discorso diretto (“Cosa stai mangiando”, “Hai intolleranze?”, “Mangiuma o schersuma?”),
indicazioni pragmatiche (“Attenzione ai borseggiatori”, “Vatlo pijé ‘nt ël sachet” “Vieni a
provare…”). Tale presenza esplicita e dichiarata dell’apparato enunciativo crea un effetto
soggettivante, funzionale al coinvolgimento diretto del consumatore (Marrone 2012: 169). Il
discorso è organizzato in modo da simulare una vicinanza tra l’emittente e il suo pubblico; il
8 www.facebook.com/mbun.it
5
soggetto – continuamente chiamato in causa – ha la sensazione che la marca stia rivolgendosi
proprio a lui. Anche il visual degli annunci pubblicitari riesce a produrre questo effetto di
embrayage, pur non convocando attori umani nella rappresentazione: avessero gli occhi, quei panini
starebbero guardando dritto in faccia il loro interlocutore.
I discorsi di marca possono essere classificati per genere, secondo una tipologia analoga a
quella individuata da Floch a proposito dei generi pubblicitari (Marrone 212: 182-206). Che genere
comunicativo adotta il discorso di marca di M**Bün? È un’adozione coerente sul piano
dell’intertestualità? Gli annunci pubblicitari sono abbastanza inequivocabilmente classificabili come
sostanziali: le dimensioni del panino rappresentato sono quelle che avrebbe se fosse tra le mani di
un consumatore che si appresta a portarlo alla bocca, viene cioè convocato un contatto molto
ravvicinato, uno sguardo aptico, “quasi tattile, volto a far emergere le qualità sensibili del prodotto”
(ibidem). Il punto vendita sembra appartenere allo stesso tipo: al cliente è offerta un’esperienza
estetica,9 che non solo coinvolge tutti i sensi ma ne travalica e contamina i reciproci confini, fino a
farli scomparire. Diversi i casi di logo e sponsorizzazioni: a rigore, il primo dovrebbe essere
classificato come referenziale, proponendo “una figuratività che riguarda direttamente l’universo
produttivo” (ibidem), le seconde come oblique, negando tale riferimento immediato (M**Bün
sponsorizza manifestazioni sportive ed eventi d’arte contemporanea). Più che appartenere a un
genere, la marca M**Bün dimostra dunque di possedere un proprio stile: una marca principalmente
sostanziale che non teme di ibridarsi con incursioni in mondi lontani e apparentemente estranei al
proprio discorso. Discorso che – nonostante questo – regge, grazie ad una strenua coerenza interna:
valoriale, tematica e prettamente discorsiva, ossia data a livello di figure, spazi e tempi proposti. In
effetti, nel discorso M**Bün tali elementi si strutturano componendo ciò che si definisce una
“totalità integrale”, ossia una “configurazione semantica articolata internamente da una qualche
sintassi” (Marrone 2012: 224): prima le mucche del punto vendita, quindi il coltello del logo, infine
l’hamburger degli annunci pubblicitari.
Il discorso di M**Bün si inscrive in un contesto in cui coesistono altre marche, altri discorsi,
altre voci: dall’indagine dell’intertesto e della coerenza intradiscorsiva si passa così all’esame
dell’interdiscorsività. Secondo la semantica strutturale, non è possibile creare un senso ex novo: i
“mattoncini del significato” sono limitati per definizione, per cui “ogni artefatto culturale trae i suoi
materiali semiotici da testualità pregresse” (Leone 2010: 5), limitandosi a ricombinarli in forme
inedite. Così, anche M**Bün afferma i propri contenuti a partire da quelli di discorsi già esistenti:
in primo luogo il discorso “sociale” sulla bassa qualità della carne e in generale del cibo servito nei
fast food, quindi il discorso “ecologico” della filiera corta, dell’uso dei prodotti del territorio, del
rispetto dell’ambiente attraverso la raccolta differenziata. L’operato della marca non si limita al9 Nell’accezione etimologica del termine: in greco antico “aesthesis” significa sensorialità, percezione attraverso lamediazione del senso.
6
patchwork: assorbendo e ricombinando materiali, essa li risemantizza, ne ridefinisce termini e
confini. Ecco che M**Bün produce in output un discorso rinnovato, da un lato infrangendo il tabù
per cui un fast food non sia associabile al valore nutrizionale dei piatti proposti e alla
consapevolezza ecologica, dall’altro neutralizzando l’opposizione commerciale/sociale, allargando
la propria legittimità discorsiva. Del resto, il recente riposizionamento di McDonald’s rispetto a
qualità e ambiente non fa che confermare l’avvenuta risemantizzazione dell’interdiscorso “fast
food” nei binari inaugurati da M**Bün. In questo senso è nata la linea “McItaly”, che ha lanciato
panini regionali (fatti con pane vero, formaggio non arancione e ingredienti locali) pubblicizzati
anch’essi attraverso la strategia al dialetto (Ill. 8); quindi è stato il turno della nobilitazione
dell’hamburger, che passando per il “Gran Chianina” ha raggiunto l’apoteosi col “Gran
Piemontese” (Ill. 9), panino con carne bovina di qualità garantita, reclamizzato sullo sfondo di
iconiche colline, da cui si staglia l’ubiquo marchio Coalvi. La divulgazione dell’acquisita sensibilità
ecologica è stata invece demandata al sito, in generale rinnovato all’insegna della brand reputation
e votato al green washing. Le lunghe polemiche che ne sono scaturite (da “Slow Food” al
“Guardian”) sono, in questa sede, pertinenti solo per dimostrare la persistente miopia circa la natura
metadiscorsiva del discorso di marca, che “per sua natura mette in discussione la separazione
aprioristica fra discorsi commerciali e discorsi non commerciali” (Marrone 2012: 246). Piuttosto,
tale riposizionamento – pur indicativo della reattività di McDonald’s – lascia perplessi sul piano
dell’affidabilità della marca (alla presente insistenza enunciativa sulla qualità dei prodotti fa da
contraltare l’interrogativo circa la provenienza dei medesimi quando il discorso di marca non si
curava di farne menzione) e della coerenza interna (tentare di ricollocare un intero discorso in un
contesto lontano da quello di partenza è opera delicata, ed è facile cadere in errore; prova ne sia la
scelta stonata dell’inglese per il nome “McItaly”). Soprattutto, è indicativo di come l’ibridazione
costituisca oggi una necessità: McDonald’s deve diventare glocal così come a M**Bün non resta
che scegliere di essere slow fast.
2.3 Livello superficiale: storie, strategie, valorizzazioni
M**Bün è l’esempio emblematico del felice matrimonio tra narratività ed efficacia del
discorso di marca. La prima storia è quella che racconta M**Bün, tutto sommato canonica: una
marca-Destinante che modalizza il consumatore-Soggetto sul piano del volere (voler mangiare bene
anche in un fast food) e lo motiva a formulare un Programma d’Azione teso al congiungimento con
l’Oggetto di Valore (il panino genuino consumato nel giusto tempo) presso il punto vendita. Di
questa storia è manifestato il solo momento della Performanza, che implica i precedenti secondo il
meccanismo della presupposizione (Marrone 2012: 83, 84): gli annunci raccontano di una
Manipolazione (volere il panino di qualità) e di una Competenza (sapere dove trovarlo, poter
accedere a questo luogo) già date, per soffermarsi sul momento immediatamente precedente la
7
congiunzione, culmine della tensione narrativa (il panino “tattile” rappresentato nel momento in cui
sta per essere addentato). Prudentemente, si sorvola sulla Sanzione: saranno state soddisfatte le
aspettative?
La storia interessante è però un’altra, quella che vede l’Eroe10 M**Bün impegnato in una
Lotta contro l’Antagonista McDonald’s, che gli ha procurato un Danneggiamento: c’era una volta
“Mac Bün” (in piemontese “solo buono”) che, in procinto di registrarsi per esteso presso la Camera
di Commercio, si vede recapitare una lettera di diffida dai legali di McDonald’s Italia, i quali gli
intimano di ritirare la domanda di marchio perché troppo affine al nome della multinazionale del
fast food. Nasce così M**Bün, “il primo hamburger censurato”.11 La lotta è impari, ma accanto
all’hamburgheria di Rivoli si schiera un Aiutante di prim’ordine, la stampa. Sulla vicenda
confluisce un’attenzione mediatica inaspettata; la storia fa il giro di quotidiani e telegiornali,
conducendo l’eroe alla Vittoria: nonostante gli asterischi, la pronuncia del nome rimane fedele
all’originale, e tutti sono contenti di ristorarsi da M**Bün, contribuendo col minimo sforzo alla
nobile causa del moderno Davide contro Golia.
La vicenda dimostra come sia possibile trasferire nel mondo di marca il principio
epistemologico dello strutturalismo per cui “nella lingua non vi sono se non differenze” (Saussurre
1916 in Ferraro 2012: 90): è la struttura polemica a rendere significativo il racconto, anche nelle
storie “il senso si dà nel dissenso” (Marrone 2012: 84). Senza le minacce di McDonald’s, M**Bün
sarebbe un soggetto inerte, privo di progettualità narrativa, in definitiva senza identità. È l’agone a
muoverlo, a stimolarlo ad agire e patire, e a spingerlo a formulare delle strategie. A prescindere dal
loro grado di consapevolezza, quelle di M**Bün sono risultate perfette: prima la strategia del nome
(a voler negare ciò che pure si metteva in scena), poi quella dell’asterisco (tesa a mantenere il
prezioso status di soggetto danneggiato). Anche le forme di valorizzazione fanno parte della
razionalità strategica del racconto di marca. M**Bün opta per una valorizzazione utopica:12 i
prodotti sono caricati di senso perché consentono di esprimersi, sono desiderabili perché
permettono di rappresentare tangibilmente uno stile di vita. Consumando, il soggetto non fa altro
che congiungersi con un “bene che è l’incarnazione sensibile dei suoi valori” (Marrone 2012: 114).
In questo senso, il posizionamento di M**Bün risulta stabile, a differenza di quello di McDonald’s,
di cui è possibile osservare il movimento dal polo critico (valorizzazione della convenienza
economica dei prodotti) a quello utopico, più in linea coi tempi.
2.4 Livello profondo: quadrati semiotici, percorsi e assiologie
10 La terminologia impiegata è di derivazione proppiana, con riferimento alle “sfere d’azione” e alle “funzioni narrative”rinvenute da Propp all’interno del suo “schema compositivo unitario” (Propp 1928 in Volli 2003: 92).11 Come si leggeva fino a qualche tempo fa sulle pareti del ristorante di Rivoli.12 Il modello di riferimento è l’”assiologia dei consumi” di Floch, nata dall’espansione sul quadrato semiotico dellacategoria semantica valori d’uso versus valori di base (Floch 1986 in Marrone 2012: 94).
8
Il punto di partenza dell’analisi del livello profondo è costituito da un’epigrafe a muro
presente nei ristoranti M**Bün, che rappresenta una sorta di dichiarazione valoriale del discorso di
marca (Ill. 10). I valori richiamati sono la lentezza, la velocità, la qualità. Come si legge, per
M**Bün “slow è la cura dedicata ad ogni prodotto”, “fast è il tempo di preparazione delle ricette”,
“food è la continua ricerca della qualità”.13 Ad essi si aggiunge un altro valore centrale, quello del
rispetto dei giusti tempi, un insieme di lentezza e velocità (il corrispettivo inglese è appunto
“slowfast”): i ritmi rispettati sono sia quelli di consumo del cibo sia quelli di allevamento,
maturazione, conservazione e cottura dei prodotti.14 Al di là di qualche incoerenza e
sovrapposizione, è significativo osservare come i termini cui ricorre il discorso di marca siano
riconducibili a un quadrato semiotico in cui “fast” e “slow” non costituiscono altro che i semi
contrari di una categoria semantica,15 e “slowfast” il termine complesso che li riunisce. M**Bün
intende posizionarsi in prossimità di esso, e perciò tentare l’ardita impresa della diaforia, riuscendo
a conciliare gli opposti tramite una differenziazione dell’offerta (veloce per certi versi, lenta per
altri). Il percorso intentato dalla marca per acquisire entrambi i contrari dovrebbe essere dunque il
seguente: partenza da “fast food”; operazione di negazione e raggiungimento del contraddittorio
“non-fast food”; operazione di affermazione e approdo al polo complementare “slow food”.
Le cose stanno davvero così? Si osservi il discorso di marca più nel dettaglio. Innanzitutto, il
discorso “fast” non si limita a quanto dichiarato in superficie: basti pensare ad alcuni elementi già
richiamati (la formula del menù, il self-service, la cucina a vista, i dipendenti giovani, le uniformi, i
colori caldi, la radio privata) e ad altri come il menù con gadget, la presenza di un’area gioco
interna (M**Gagni), le mascotte di marca (Asterisco e Quadrott), il regime di convivialità, gli orari
lunghi e continuati, il wi-fi, l’illuminazione al neon… Eppure, la marca dimostra di compiere ogni
sforzo per negare tale appartenenza, ricorrendo alla simbologia “non-fast”: ecco il non-hamburger
(quadrato), il non-pane da hamburger (la tartaruga), il non-ketchup (la salsa rubra), la non-Coca-
Cola (la geniale MoleCola), i sapori non-globalizzati (carne cruda, robiole, bibite Lurisia), il non-
spreco (la raccolta differenziata), il non-inglese (l’ibrido anglo-piemontese), addirittura il non-
gadget per i bambini (un giocattolo intelligente e sicuro). Di peculiarmente “slow” non c’è molto:
poca sostanza, oltre i valori enfatizzati su ogni livello del discorso (qualità, territorialità, rispetto
dell’ambiente) e la retorica piemontese. Per contro, emergono piuttosto alcuni significativi elementi
“non-slow”: a ben vedere, gli hamburger non hanno nulla a che fare con la cucina piemontese, e in
un tempio della carne si dovrebbero quantomeno chiedere lumi al cliente circa il livello di cottura o
13 Altrove le cose stanno un po’ diversamente: in un’altra iscrizione lo “slow” è riferito al tempo di allevamento,maturazione e lavorazione (quindi è sostanzialmente omologo), ma “fast” si sposta dal momento della preparazione aquello del consumo, “food” resta collegato alla qualità.14 Emerge così un dubbio: i piatti sono preparati velocemente o nel giusto tempo?15 Che si è scelto di impostare in quest’ordine, e non viceversa, in ragione del percorso semantico che sembra avercompiuto la marca, come si chiarisce in seguito.
9
salatura della medesima; soprattutto, si sceglie oculatamente di omettere che la carne dell’azienda
Scaglia – ragion d’essere di M**Bün – provenga solo in parte dall’allevamento di famiglia. Il
posizionamento effettivo e contingente di M**Bün coinciderebbe dunque più con il termine
contraddittorio, evidenziando la natura in fieri del percorso di marca.
Si ipotizzi ora l’avvenuto compimento del presente percorso. Oltre ai rischi di
neutralizzazione – per cui spesso chi ambisce a rappresentare due cose in contemporanea “finisce
facilmente per essere né l’una né l’altra” (Marrone 2012: 47) – si apre un problema relativo alle
assiologie, ossia alle dinamiche di valorizzazione dei poli contrari. Se M**Bün intende
rappresentare la diaforia, dove collocare euforia e disforia? Com’è possibile che una marca voglia
promuovere anche un valore negativo? È ragionevole supporre che la marca M**Bün abbia inteso
valorizzare euforicamente il discorso “fast” sul piano dell’espressione e quello “slow” sul piano del
contenuto, viceversa dicasi per la disforia.
3. Conclusioni
A questo punto è possibile ricapitolare le ragioni dell’efficacia semiotica del discorso di
M**Bün. Una superficie espressiva da tipico fast food assicura alla marca la giusta dose di
attrattiva, anche grazie ad alcune incursioni “slow” particolarmente accattivanti. L’espediente del
piemontese assolve anche ad una funzione poetica, secondo il classico schema di R. Jakobson: il
ricorso al dialetto rende “opaco” il significante, deautomatizzando l’approdo ai contenuti
referenziali e costringendo il consumatore “a soffermarsi maggiormente sulla materialità concreta
dell’espressione” (Volli 2003: 75). Sul piano dell’enunciazione, M**Bün vince la partita
dell’affidabilità: i soggetti non dispongono di tempi né di energie cognitive illimitate, perciò sono
obbligati ad un’“economia interpretativa”, che li induce a reputare superflua la verifica
dell’autenticità di un messaggio qualora questo si presenti come degno di fiducia. In fin dei conti,
chi può permettersi di conoscere realmente la qualità di ciò che mangia, specie se le fonti deputate a
sanzionarla (si legga il marchio Coalvi) perdono di autorevolezza? In questo contesto si instaura il
discorso di marca che – se consapevole dell’agentività della propria opera enunciativa – sa che
mostrarsi affidabili è un’arma strategica di prim’ordine per essere percepiti come tali. “Dire è fare”
(Marrone 2012: 89), M**Bün dimostra di padroneggiare il concetto alla perfezione. In terzo luogo,
il discorso di marca è efficace sul piano narrativo: è indubbio che M**Bün debba una parte
considerevole del proprio successo al racconto mediatico di cui è stato protagonista, per giunta in
opposizione ad un antisoggetto esemplare come McDonald’s. Di tale privilegio polemico non hanno
beneficiato i pur numerosi concorrenti diretti (“L’hamburgheria di Eataly”, “Qualeaty”,
“Burgheria”, “Cow Restaurant”), non a caso più deboli nel complesso. A livello profondo, è
risultata decisiva l’attualità dei valori proposti: salutismo e ambientalismo costituiscono oggi dei
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trend molto prima che delle adesioni convinte. In conclusione, la marca ha percepito come il
discorso “slow” fosse, per così dire, sghembo: efficace sul piano del contenuto ma non altrettanto su
quello dell’espressione. Così, M**Bün ha perseguito la via del rinnovamento simbolico, e stando
agli utili si direbbe che l'impresa gli sia riuscita. Anche se puristi della gastronomia e nostalgici del
piemontese continueranno a storcere il naso dinnanzi a stoviglie usa e getta e incerte grafie: duri a
morire sono gli abiti semiotici.
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Illustrazioni
Ill. 1 – M**Bün, logo
Ill. 2 – M**Bün, annuncio lancio “Mac Povron”
Ill. 3 – McDonald's, annuncio “Quarter Pounder Deluxe”
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