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Chi disprezza compra: M**Bün e l'instaurazione della polemica nel discorso di marca

Date post: 07-Feb-2023
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Chi disprezza compra: M**Bün e l’instaurazione della polemica nel discorso di marca Serena Bertoglio, 283082, [email protected] ABSTRACT: This paper wants to investigate the successful response given to a restaurant located in Turin, M**Bün. M**Bün defines itself as a “slow fast food”, which means a place set as a regular fast food but serving traditional courses – especially meat – all prepared with products coming from the Piedmont area. The brand strategy can be examined following Greimas’s theory of the generative trajectory of meaning, moving from the outer layers to the deepest, and formulating the hypothesis that success originates from an efficient semiotic construction operated at any level. In fact, M**Bün has a very attractive figurative manifestation (logo, concept store, advertisement): a mix between classic fast food elements and original ideas, such as the menus written in dialect. Across its discursive structure, M**Bün is able to gain trust from its customers. On the level of narrative structures, it lays the news through which M**Bun has become famous among Italian media: a quarrel against McDonald’s because of the similarity of their brand names. In the deep, it is possible to find the brand values: quality of food, products of the territory, respect for the environment. In conclusion, M**Bün is a “slow fast food” because it is like a fast food on the expression plane but it refers to the “slow food” topics on the content plane; so the brand tries to create a new symbolism. 1. Introduzione È il 22 ottobre 2009. Graziano Scaglia e Francesco Bianco inaugurano a Rivoli M**Bün, 1 “prima e unica agrihamburgheria slow fast food di tradizione piemontese”: un ristorante, sei inservienti e la carne dell’allevamento di famiglia. Passano pochi mesi e si raddoppiano metratura e personale, poi l’approdo a Torino: prima in Corso Siccardi, quindi in Via Rattazzi (sempre in centro città, alle spalle di Via Lagrange). Spazi enormi, un organico di ottanta dipendenti e la coda fino al marciapiede nelle ore di punta. La stampa – locale e non – grida al miracolo, nasce un fenomeno di successo. Il presente lavoro si propone di mettere a fuoco tale successo. Si procederà dapprima con l’analisi dei testi 2 di cui si compone il mix di marca specifico di M**Bün: logo, annunci pubblicitari, punto vendita. La rassegna stampa reperibile nella sezione “Dicono…” del sito ufficiale completerà il corpus, offrendo all’indagine ulteriori spunti d’interesse. Il discorso di marca sarà analizzato nel solco del modello del “percorso generativo” teorizzato da A. J. Greimas. In coerenza con il ruolo di interprete che il consumatore è chiamato ad assumere, non ci si collocherà dal punto di vista della generazione del senso ma da quello della sua decodifica: lo schema di Greimas sarà pertanto riletto a sequenza invertita, procedendo dal livello della manifestazione per giungere ai livelli più profondi dell’immanenza testuale. Per questa via, in apertura saranno richiamati concetti di semiotica visiva, quindi si proseguirà a livello figurativo (o discorsivo) con l’analisi dell’enunciazione. Scendendo a livello superficiale, 3 si tratterà di ricostruire il racconto di marca; infine, si rintracceranno le assiologie collocate in profondità. Il secondo cardine semiotico sarà tratto dalla lezione di due grandi maestri come F. de Saussurre e L. 1 www.mbun.it/ 2 Nella nozione semiotica del termine, da non confondere con ciò che esso indica per il senso comune. 3 Il termine adottato da Greimas costringe a un apparente ossimoro. C’è da supporre che l’opzione terminologica sia riconducibile alla volontà di rimarcare la relazione tra questo livello e quello più profondo, rispetto al quale si trova effettivamente a uno strato più superficiale. 1
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Chi disprezza compra: M**Bün e l’instaurazione della polemica nel discorso di marca

Serena Bertoglio, 283082, [email protected]

ABSTRACT: This paper wants to investigate the successful response given to a restaurant located in Turin, M**Bün.M**Bün defines itself as a “slow fast food”, which means a place set as a regular fast food but serving traditionalcourses – especially meat – all prepared with products coming from the Piedmont area. The brand strategy can beexamined following Greimas’s theory of the generative trajectory of meaning, moving from the outer layers to thedeepest, and formulating the hypothesis that success originates from an efficient semiotic construction operated at anylevel. In fact, M**Bün has a very attractive figurative manifestation (logo, concept store, advertisement): a mix betweenclassic fast food elements and original ideas, such as the menus written in dialect. Across its discursive structure,M**Bün is able to gain trust from its customers. On the level of narrative structures, it lays the news through whichM**Bun has become famous among Italian media: a quarrel against McDonald’s because of the similarity of theirbrand names. In the deep, it is possible to find the brand values: quality of food, products of the territory, respect for theenvironment. In conclusion, M**Bün is a “slow fast food” because it is like a fast food on the expression plane but itrefers to the “slow food” topics on the content plane; so the brand tries to create a new symbolism.

1. Introduzione

È il 22 ottobre 2009. Graziano Scaglia e Francesco Bianco inaugurano a Rivoli M**Bün,1

“prima e unica agrihamburgheria slow fast food di tradizione piemontese”: un ristorante, sei

inservienti e la carne dell’allevamento di famiglia. Passano pochi mesi e si raddoppiano metratura e

personale, poi l’approdo a Torino: prima in Corso Siccardi, quindi in Via Rattazzi (sempre in centro

città, alle spalle di Via Lagrange). Spazi enormi, un organico di ottanta dipendenti e la coda fino al

marciapiede nelle ore di punta. La stampa – locale e non – grida al miracolo, nasce un fenomeno di

successo.

Il presente lavoro si propone di mettere a fuoco tale successo. Si procederà dapprima con

l’analisi dei testi2 di cui si compone il mix di marca specifico di M**Bün: logo, annunci

pubblicitari, punto vendita. La rassegna stampa reperibile nella sezione “Dicono…” del sito

ufficiale completerà il corpus, offrendo all’indagine ulteriori spunti d’interesse.

Il discorso di marca sarà analizzato nel solco del modello del “percorso generativo” teorizzato

da A. J. Greimas. In coerenza con il ruolo di interprete che il consumatore è chiamato ad assumere,

non ci si collocherà dal punto di vista della generazione del senso ma da quello della sua decodifica:

lo schema di Greimas sarà pertanto riletto a sequenza invertita, procedendo dal livello della

manifestazione per giungere ai livelli più profondi dell’immanenza testuale. Per questa via, in

apertura saranno richiamati concetti di semiotica visiva, quindi si proseguirà a livello figurativo (o

discorsivo) con l’analisi dell’enunciazione. Scendendo a livello superficiale,3 si tratterà di

ricostruire il racconto di marca; infine, si rintracceranno le assiologie collocate in profondità. Il

secondo cardine semiotico sarà tratto dalla lezione di due grandi maestri come F. de Saussurre e L.

1 www.mbun.it/ 2 Nella nozione semiotica del termine, da non confondere con ciò che esso indica per il senso comune.3 Il termine adottato da Greimas costringe a un apparente ossimoro. C’è da supporre che l’opzione terminologica siariconducibile alla volontà di rimarcare la relazione tra questo livello e quello più profondo, rispetto al quale si trovaeffettivamente a uno strato più superficiale.

1

Hjelmslev: pur nelle sensibili differenze di prospettiva – sociosemiotica l’una, formalista l’altra –

entrambi propongono una concezione relazionale di segno, in cui i due lati – o piani – vivono in un

essenziale rapporto di implicazione reciproca (Ferraro 2012: 31). Si tratterà di verificare come si

colloca il discorso di marca nei confronti di questa fondamentale regola semiotica.

L’obiettivo complessivo sarà quello di confutare l’ipotesi zero relativa al successo di

M**Bün, dimostrando che ciò che il senso comune definisce “miracolo” altro non sia che il

risultato di una costruzione semiotica efficace anche se spesso poco consapevole, dal lato

dell’emissione come da quello della ricezione. Che cosa contiene il concetto di “efficacia”? Da

dove deriva? È possibile ricondurla a una semplice condivisione dei valori proposti o è più corretto

ipotizzarne un legame con fenomeni semiotici meno espliciti? Queste le domande cognitive cui si

intende fornire risposta nella trattazione che segue.

2. Svolgimento

2.1 Superficie: mix di marca e isotopie

In superficie, la marca M**Bün si rende visibile attraverso tre canali principali: logo, annunci

e punto vendita.4

I l logo (Ill. 1) è l’elemento più riconoscibile di M**Bün: irrinunciabile, dà volto e nome a

ogni manifestazione del discorso di marca. È un logo sincretico, visivo e verbale. Osservandolo,

balza agli occhi la sagoma stilizzata di un grosso coltello da macellaio, formante figurativo di cui

non si sollecita un’interpretazione puramente referenziale: M**Bün non produce coltelli, e non è

una macelleria. Il rinvio all’universo del fast food è implicito, prodotto per connotazione:5 si allude

alla carne, fulcro della proposta gastronomica e Oggetto di Valore narrativo, il coltello è l’Aiutante

che permette di farla confluire debitamente sminuzzata all’interno di un panino. Le unità plastiche

sono organizzate in modo da produrre due effetti topologici: l’orientamento concentrico dello

sguardo (attraverso la presenza di due rette immaginarie tangenti in corrispondenza del centro) e la

forte delimitazione dell’oggetto-coltello rispetto all’esterno (formato chiuso del cerchio, bordi

marcati, oggetto circoscritto). Si produce così una sorta di débrayage: M**Bün è un universo

separato, che intende ribadire la propria differenza. Si è lontani dall’invito generalizzato nel mondo

di marca prodotto dagli archi aperti del logo McDonald’s, eppure un ingresso è sollecitato: ecco che

– interpretata in senso figurale – la silhouette della lama diventa una porta, cui però è possibile

accedere solo dopo aver oltrepassato una spessa linea di confine. Dal punto di vista eidetico, è

evidente un’opposizione rettilineo/arrotondato: la prevalenza di linee curve rende la lama del

4 Le sponsorizzazioni e le diverse forme di brand extension (Radio M**Bün, Agenda M**Bün) completano il quadro.5 Come spesso avviene in pubblicità: “In generale l’uso delle immagini […] non è puramente referenziale, ma utilizza almassimo la capacità delle immagini di veicolare sensi secondi (secondo l’analisi della connotazione) e narrazioniimplicite” (Volli 2003: 169).

2

coltello ancora più tagliente, facendone emergere la funzionalità. Cromaticamente, dominano il

rosso e il giallo oro: due “primari psicologici” – seguendo F. Thürlemann – luminosi e saturi, che

accostati producono un forte contrasto. Sono colori caldi, tipici del settore (basti pensare ai logo di

McDonald’s o di Burger King). Accostamento pericoloso, che M**Bün riesce a volgere a proprio

vantaggio rendendo polemico il discorso cromatico (Leone 2007: 10): il giallo è sconfitto dall’oro

sul piano dell’espressione così come – per semisimbolismo – il fast food di qualità primeggia nei

confronti del cibo spazzatura sul piano del contenuto. La componente verbale è complessa,

presupponendo una triplice decodifica: c’è da capire per cosa stiano i due asterischi – autentici

“segni” secondo la definizione classica di C. S. Peirce6 – quindi bisogna possedere qualche

rudimento di piemontese per decifrare quel “mac bün”, infine occorre tradurre i lessemi in inglese

che compongono il pay-off. Una volta trovata la chiave d’accesso, il contenuto appare chiaro: una

storia di contrasti (piemontese e inglese, locale e globale, slow e fast) che la marca si propone di

conciliare. Complessivamente, il logo risulta unitario e compatto, grazie alla contaminazione tra le

due sostanze espressive di cui si compone: le viti del coltello sono anche la dieresi del brand name,

la “ü” verbale diventa una faccina sorridente se decodificata sul piano visivo.

G l i annunci pubblicitari (Ill. 2), affissi presso il punto vendita o pubblicati online,

compongono una classe di significanti equisimili, ossia di elementi semioticamente equivalenti

(Ferraro 2012: 51). Tipicamente, vi è raffigurato un panino, parzialmente coperto dal logo di marca

che gli si sovrappone a mo’ di bollino; si notano poi il logo Coalvi (il Consorzio di Tutela della

Razza Piemontese) e alcune figure ripetute che rinviano all’ingrediente principale del prodotto

pubblicizzato. A convogliare lo sguardo sul panino concorre sia la posizione in pagina (centrale) sia

l’organizzazione prospettica della raggiera di bande bicolori ravvisabile in secondo piano

(convergenti in prossimità del centro, luogo della congiunzione con l’Oggetto di Valore).

L’immagine è ancora incorniciata; la raggiera alterna colori analoghi, producendo un effetto di

naturalità;7 le linee rette fanno emergere i contorni arrotondati dei protagonisti. La forma quadrata

dell’hamburger è all’origine di un nuovo semisimbolismo polemico, rivendicato esplicitamente dal

discorso di marca: “I nostri hamburger e la carne cruda sono quadrati… perché sono diversi da tutti

gli altri!” si legge a chiare lettere sul sito. Eppure, l’associazione enciclopedica con gli annunci da

fast food persiste, specie se si opta per una soluzione compositiva in effetti piuttosto analoga (Ill. 3).

Non resta che provare a differenziarsi sul piano verbale: headline e baseline – che riportano

rispettivamente nome del panino e descrizione dei suoi ingredienti – propongono un inedito mix di

italiano e piemontese, il copy è un inno alla qualità (stagionalità, freschezza, pregio, tutela sono tutti

6 “Un segno è qualcosa che per qualcuno sta per qualcos’altro sotto un certo aspetto o possibilità” (Peirce 1980 inFerraro 2012: 43).7 I colori analoghi contengono una tonalità comune e si trovano uno accanto all’altro sulla ruota cromatica; si trovanospesso in natura e risultano armoniosi e piacevoli all’occhio.

3

termini riferibili al medesimo paradigma), comparativi e superlativi instaurano un regime di

superiorità nei confronti dei concorrenti.

Il punto vendita (Ill. 4, 5, 6) – in realtà sia un ristorante sia un vero e proprio negozio – è il

tempio del discorso M**Bün. Accedendovi, il consumatore s’immerge nel mondo di marca,

facendone concreta esperienza (Marrone 2012: 317). Concepito semioticamente, tale spazio non è

un insieme statico di elementi: la sua grammatica, posta in sequenza sull’asse del processo,

acquisisce agilmente dimensione narrativa; lo spazio si anima e diviene percorso (Volli 2003: 162) e

racconto (Leone 2013: 2). Un bovino a grandezza naturale è collocato in prossimità dell’ingresso, le

vetrine trasparenti fungono da schermo, permettendo di visualizzare l’interno del locale. Varcata la

soglia, ci si dirige verso il bancone: come in ogni fast food, la cucina è a vista, gli addetti sono

giovani e in uniforme, e l’acquisizione di competenza avviene volgendo lo sguardo verso l’alto,

dov’è collocato il pannello del menù (una lavagna che sembra essere scritta a mano col gesso). Una

volta effettuati ordine e pagamento, si riceve un cercapersone che avvisa tramite vibrazione quando

il vassoio è pronto; nel frattempo, ci si può accomodare al tavolo. Sono minuti cruciali: il

consumatore inoccupato inganna l’attesa rivolgendo l’attenzione al layout del negozio, il discorso di

marca lo investe e tenta di sedurlo. Ogni parete, colonna o qualsivoglia superficie scrivibile riporta

un’epigrafe, graffito sui generis impresso a muro coi caratteri dell’immancabile Engravers Gothic,

stesso font del logo e degli annunci pubblicitari. Sulle pareti tinte di rosso alcune tele famose sono

riproposte in stile M**Bün (uomini in armatura con sembianze bovine, inusuali Cupido che

scoccano hamburger, patate a cavallo, fanciulle col volto di mucca); numerosi pannelli raffigurano

animali, panini, birre e tritacarne; il logo è declinato in ogni forma e dimensione (dagli adesivi per

l’auto all’enorme lampadario); in sottofondo, Radio M**Bün diffonde la musica di artisti

rigorosamente locali. Una volta consumato il pasto, appositi contenitori per la raccolta differenziata

smaltiscono avanzi e incartamenti, tutti biodegradabili e brandizzati. Nell’insieme, si tratta di un

punto vendita a elevata densità espressiva, che invoca la cooperazione di un consumatore disposto

passionalmente ad accoglierla e a condividerne il ritmo. Anche il prezzo è parte dell’esperienza di

marca: pranzare da M**Bün non comporta una grossa spesa (un menù completo costa circa dieci

euro), eppure si tratta di tariffe superiori rispetto agli altri fast food. Si paga il supplemento qualità o

la possibilità di discostarsi dalle multinazionali, o forse entrambe le cose? Il prezzo contiene il

target, il “lettore modello” del discorso di marca: un soggetto che accetta di mettere mano al

portafogli per sanzionare la propria adesione alla filosofia proposta.

A questo punto, è possibile precisare le principali isotopie che assicurano coerenza al mix di

marca. L’isotopia “dell’oro” riunisce gli elementi che condividono il sema contestuale della

differenza/superiorità rispetto al settore dei fast food, di assoluta centralità (per esempio: la tonalità

di giallo del logo, la cornice degli annunci, la forma quadrata degli hamburger, il ricorso al dialetto

4

piemontese, l’uso ripetuto di comparativi e superlativi, i prezzi più alti). Attraverso l’isotopia della

carne si evidenzia un altro fondamento del discorso di marca, convocato a ogni grado di

esplicitazione (il coltello da macellaio, la dominante cromatica rossa, il bovino del logo Coalvi, i

quadri e i pannelli dei punti vendita, le mucche tridimensionali sistemate all’ingresso sono tutti

elementi riconducibili al medesimo topic).

2.2 Livello discorsivo ed enunciazione

Chiarito il mix espressivo che lo esplicita, si tratta ora di analizzare il discorso di marca sul

piano dell’enunciazione. Le tracce delle strategie comunicative adottate da M**Bün sono

rinvenibili su ogni testo considerato in precedenza, ma risultano particolarmente evidenti se si

dirige l’attenzione verso alcuni specifici contenuti: le epigrafi a muro del punto vendita, la mission

dichiarata sul sito e sulla pagina Facebook,8 gli enunciati – non solo verbali – degli annunci

pubblicitari.

Seguendo la griglia di analisi proposta da Marrone (Marrone 2012: 152, 153) occorre

innanzitutto individuare i poli del discorso e definirne la relazione. L’enunciatore è il simulacro

testuale di M**Bün (emittente empirico): un’istanza che parla in prima persona plurale (segno che

si concepisce come un gruppo, o meglio come una famiglia), che non ha timore di palesarsi (è la

famiglia Scaglia, titolare dell’azienda agricola da cui è nata l’idea di un ristorante che ne

commercializzasse i prodotti) e che intende porsi in prima persona quale artefice del proprio

discorso, pur scegliendo talvolta di rinforzarlo delegando la responsabilità enunciativa a figure più

autorevoli (come il Consorzio Coalvi). È un enunciatore che ambisce a dimostrare di essere

credibile, dichiarando senza esitazioni di aver accresciuto anno dopo anno “sensibilità e

consapevolezza”. All’enunciatario spetta il ruolo di simulare nel testo il soggetto: un “consumatore

modello” attento e consapevole, che non occorre convincere circa la legittimità delle tematiche

proposte perché le condivide già per etica propria, e che quindi richiede solo di essere assecondato

tramite un’offerta che non ne frustri l’identità. Con tale soggetto, la marca intende instaurare una

relazione di complicità, ricorrendo pertanto a un regime discorsivo dialogico (Ill. 7). Eccone alcuni

indicatori: paradigma pronominale di prima e seconda persona (“noi” per la marca e “tu” per il

soggetto), conativi frequenti e ricorso all’imperativo (“Non fare la coda, entra, ordina e corri a

casa!”, “S’at pias, cata. S’at pias nen, va ca sensa”), interpellazioni al lettore tramite l’uso del

discorso diretto (“Cosa stai mangiando”, “Hai intolleranze?”, “Mangiuma o schersuma?”),

indicazioni pragmatiche (“Attenzione ai borseggiatori”, “Vatlo pijé ‘nt ël sachet” “Vieni a

provare…”). Tale presenza esplicita e dichiarata dell’apparato enunciativo crea un effetto

soggettivante, funzionale al coinvolgimento diretto del consumatore (Marrone 2012: 169). Il

discorso è organizzato in modo da simulare una vicinanza tra l’emittente e il suo pubblico; il

8 www.facebook.com/mbun.it

5

soggetto – continuamente chiamato in causa – ha la sensazione che la marca stia rivolgendosi

proprio a lui. Anche il visual degli annunci pubblicitari riesce a produrre questo effetto di

embrayage, pur non convocando attori umani nella rappresentazione: avessero gli occhi, quei panini

starebbero guardando dritto in faccia il loro interlocutore.

I discorsi di marca possono essere classificati per genere, secondo una tipologia analoga a

quella individuata da Floch a proposito dei generi pubblicitari (Marrone 212: 182-206). Che genere

comunicativo adotta il discorso di marca di M**Bün? È un’adozione coerente sul piano

dell’intertestualità? Gli annunci pubblicitari sono abbastanza inequivocabilmente classificabili come

sostanziali: le dimensioni del panino rappresentato sono quelle che avrebbe se fosse tra le mani di

un consumatore che si appresta a portarlo alla bocca, viene cioè convocato un contatto molto

ravvicinato, uno sguardo aptico, “quasi tattile, volto a far emergere le qualità sensibili del prodotto”

(ibidem). Il punto vendita sembra appartenere allo stesso tipo: al cliente è offerta un’esperienza

estetica,9 che non solo coinvolge tutti i sensi ma ne travalica e contamina i reciproci confini, fino a

farli scomparire. Diversi i casi di logo e sponsorizzazioni: a rigore, il primo dovrebbe essere

classificato come referenziale, proponendo “una figuratività che riguarda direttamente l’universo

produttivo” (ibidem), le seconde come oblique, negando tale riferimento immediato (M**Bün

sponsorizza manifestazioni sportive ed eventi d’arte contemporanea). Più che appartenere a un

genere, la marca M**Bün dimostra dunque di possedere un proprio stile: una marca principalmente

sostanziale che non teme di ibridarsi con incursioni in mondi lontani e apparentemente estranei al

proprio discorso. Discorso che – nonostante questo – regge, grazie ad una strenua coerenza interna:

valoriale, tematica e prettamente discorsiva, ossia data a livello di figure, spazi e tempi proposti. In

effetti, nel discorso M**Bün tali elementi si strutturano componendo ciò che si definisce una

“totalità integrale”, ossia una “configurazione semantica articolata internamente da una qualche

sintassi” (Marrone 2012: 224): prima le mucche del punto vendita, quindi il coltello del logo, infine

l’hamburger degli annunci pubblicitari.

Il discorso di M**Bün si inscrive in un contesto in cui coesistono altre marche, altri discorsi,

altre voci: dall’indagine dell’intertesto e della coerenza intradiscorsiva si passa così all’esame

dell’interdiscorsività. Secondo la semantica strutturale, non è possibile creare un senso ex novo: i

“mattoncini del significato” sono limitati per definizione, per cui “ogni artefatto culturale trae i suoi

materiali semiotici da testualità pregresse” (Leone 2010: 5), limitandosi a ricombinarli in forme

inedite. Così, anche M**Bün afferma i propri contenuti a partire da quelli di discorsi già esistenti:

in primo luogo il discorso “sociale” sulla bassa qualità della carne e in generale del cibo servito nei

fast food, quindi il discorso “ecologico” della filiera corta, dell’uso dei prodotti del territorio, del

rispetto dell’ambiente attraverso la raccolta differenziata. L’operato della marca non si limita al9 Nell’accezione etimologica del termine: in greco antico “aesthesis” significa sensorialità, percezione attraverso lamediazione del senso.

6

patchwork: assorbendo e ricombinando materiali, essa li risemantizza, ne ridefinisce termini e

confini. Ecco che M**Bün produce in output un discorso rinnovato, da un lato infrangendo il tabù

per cui un fast food non sia associabile al valore nutrizionale dei piatti proposti e alla

consapevolezza ecologica, dall’altro neutralizzando l’opposizione commerciale/sociale, allargando

la propria legittimità discorsiva. Del resto, il recente riposizionamento di McDonald’s rispetto a

qualità e ambiente non fa che confermare l’avvenuta risemantizzazione dell’interdiscorso “fast

food” nei binari inaugurati da M**Bün. In questo senso è nata la linea “McItaly”, che ha lanciato

panini regionali (fatti con pane vero, formaggio non arancione e ingredienti locali) pubblicizzati

anch’essi attraverso la strategia al dialetto (Ill. 8); quindi è stato il turno della nobilitazione

dell’hamburger, che passando per il “Gran Chianina” ha raggiunto l’apoteosi col “Gran

Piemontese” (Ill. 9), panino con carne bovina di qualità garantita, reclamizzato sullo sfondo di

iconiche colline, da cui si staglia l’ubiquo marchio Coalvi. La divulgazione dell’acquisita sensibilità

ecologica è stata invece demandata al sito, in generale rinnovato all’insegna della brand reputation

e votato al green washing. Le lunghe polemiche che ne sono scaturite (da “Slow Food” al

“Guardian”) sono, in questa sede, pertinenti solo per dimostrare la persistente miopia circa la natura

metadiscorsiva del discorso di marca, che “per sua natura mette in discussione la separazione

aprioristica fra discorsi commerciali e discorsi non commerciali” (Marrone 2012: 246). Piuttosto,

tale riposizionamento – pur indicativo della reattività di McDonald’s – lascia perplessi sul piano

dell’affidabilità della marca (alla presente insistenza enunciativa sulla qualità dei prodotti fa da

contraltare l’interrogativo circa la provenienza dei medesimi quando il discorso di marca non si

curava di farne menzione) e della coerenza interna (tentare di ricollocare un intero discorso in un

contesto lontano da quello di partenza è opera delicata, ed è facile cadere in errore; prova ne sia la

scelta stonata dell’inglese per il nome “McItaly”). Soprattutto, è indicativo di come l’ibridazione

costituisca oggi una necessità: McDonald’s deve diventare glocal così come a M**Bün non resta

che scegliere di essere slow fast.

2.3 Livello superficiale: storie, strategie, valorizzazioni

M**Bün è l’esempio emblematico del felice matrimonio tra narratività ed efficacia del

discorso di marca. La prima storia è quella che racconta M**Bün, tutto sommato canonica: una

marca-Destinante che modalizza il consumatore-Soggetto sul piano del volere (voler mangiare bene

anche in un fast food) e lo motiva a formulare un Programma d’Azione teso al congiungimento con

l’Oggetto di Valore (il panino genuino consumato nel giusto tempo) presso il punto vendita. Di

questa storia è manifestato il solo momento della Performanza, che implica i precedenti secondo il

meccanismo della presupposizione (Marrone 2012: 83, 84): gli annunci raccontano di una

Manipolazione (volere il panino di qualità) e di una Competenza (sapere dove trovarlo, poter

accedere a questo luogo) già date, per soffermarsi sul momento immediatamente precedente la

7

congiunzione, culmine della tensione narrativa (il panino “tattile” rappresentato nel momento in cui

sta per essere addentato). Prudentemente, si sorvola sulla Sanzione: saranno state soddisfatte le

aspettative?

La storia interessante è però un’altra, quella che vede l’Eroe10 M**Bün impegnato in una

Lotta contro l’Antagonista McDonald’s, che gli ha procurato un Danneggiamento: c’era una volta

“Mac Bün” (in piemontese “solo buono”) che, in procinto di registrarsi per esteso presso la Camera

di Commercio, si vede recapitare una lettera di diffida dai legali di McDonald’s Italia, i quali gli

intimano di ritirare la domanda di marchio perché troppo affine al nome della multinazionale del

fast food. Nasce così M**Bün, “il primo hamburger censurato”.11 La lotta è impari, ma accanto

all’hamburgheria di Rivoli si schiera un Aiutante di prim’ordine, la stampa. Sulla vicenda

confluisce un’attenzione mediatica inaspettata; la storia fa il giro di quotidiani e telegiornali,

conducendo l’eroe alla Vittoria: nonostante gli asterischi, la pronuncia del nome rimane fedele

all’originale, e tutti sono contenti di ristorarsi da M**Bün, contribuendo col minimo sforzo alla

nobile causa del moderno Davide contro Golia.

La vicenda dimostra come sia possibile trasferire nel mondo di marca il principio

epistemologico dello strutturalismo per cui “nella lingua non vi sono se non differenze” (Saussurre

1916 in Ferraro 2012: 90): è la struttura polemica a rendere significativo il racconto, anche nelle

storie “il senso si dà nel dissenso” (Marrone 2012: 84). Senza le minacce di McDonald’s, M**Bün

sarebbe un soggetto inerte, privo di progettualità narrativa, in definitiva senza identità. È l’agone a

muoverlo, a stimolarlo ad agire e patire, e a spingerlo a formulare delle strategie. A prescindere dal

loro grado di consapevolezza, quelle di M**Bün sono risultate perfette: prima la strategia del nome

(a voler negare ciò che pure si metteva in scena), poi quella dell’asterisco (tesa a mantenere il

prezioso status di soggetto danneggiato). Anche le forme di valorizzazione fanno parte della

razionalità strategica del racconto di marca. M**Bün opta per una valorizzazione utopica:12 i

prodotti sono caricati di senso perché consentono di esprimersi, sono desiderabili perché

permettono di rappresentare tangibilmente uno stile di vita. Consumando, il soggetto non fa altro

che congiungersi con un “bene che è l’incarnazione sensibile dei suoi valori” (Marrone 2012: 114).

In questo senso, il posizionamento di M**Bün risulta stabile, a differenza di quello di McDonald’s,

di cui è possibile osservare il movimento dal polo critico (valorizzazione della convenienza

economica dei prodotti) a quello utopico, più in linea coi tempi.

2.4 Livello profondo: quadrati semiotici, percorsi e assiologie

10 La terminologia impiegata è di derivazione proppiana, con riferimento alle “sfere d’azione” e alle “funzioni narrative”rinvenute da Propp all’interno del suo “schema compositivo unitario” (Propp 1928 in Volli 2003: 92).11 Come si leggeva fino a qualche tempo fa sulle pareti del ristorante di Rivoli.12 Il modello di riferimento è l’”assiologia dei consumi” di Floch, nata dall’espansione sul quadrato semiotico dellacategoria semantica valori d’uso versus valori di base (Floch 1986 in Marrone 2012: 94).

8

Il punto di partenza dell’analisi del livello profondo è costituito da un’epigrafe a muro

presente nei ristoranti M**Bün, che rappresenta una sorta di dichiarazione valoriale del discorso di

marca (Ill. 10). I valori richiamati sono la lentezza, la velocità, la qualità. Come si legge, per

M**Bün “slow è la cura dedicata ad ogni prodotto”, “fast è il tempo di preparazione delle ricette”,

“food è la continua ricerca della qualità”.13 Ad essi si aggiunge un altro valore centrale, quello del

rispetto dei giusti tempi, un insieme di lentezza e velocità (il corrispettivo inglese è appunto

“slowfast”): i ritmi rispettati sono sia quelli di consumo del cibo sia quelli di allevamento,

maturazione, conservazione e cottura dei prodotti.14 Al di là di qualche incoerenza e

sovrapposizione, è significativo osservare come i termini cui ricorre il discorso di marca siano

riconducibili a un quadrato semiotico in cui “fast” e “slow” non costituiscono altro che i semi

contrari di una categoria semantica,15 e “slowfast” il termine complesso che li riunisce. M**Bün

intende posizionarsi in prossimità di esso, e perciò tentare l’ardita impresa della diaforia, riuscendo

a conciliare gli opposti tramite una differenziazione dell’offerta (veloce per certi versi, lenta per

altri). Il percorso intentato dalla marca per acquisire entrambi i contrari dovrebbe essere dunque il

seguente: partenza da “fast food”; operazione di negazione e raggiungimento del contraddittorio

“non-fast food”; operazione di affermazione e approdo al polo complementare “slow food”.

Le cose stanno davvero così? Si osservi il discorso di marca più nel dettaglio. Innanzitutto, il

discorso “fast” non si limita a quanto dichiarato in superficie: basti pensare ad alcuni elementi già

richiamati (la formula del menù, il self-service, la cucina a vista, i dipendenti giovani, le uniformi, i

colori caldi, la radio privata) e ad altri come il menù con gadget, la presenza di un’area gioco

interna (M**Gagni), le mascotte di marca (Asterisco e Quadrott), il regime di convivialità, gli orari

lunghi e continuati, il wi-fi, l’illuminazione al neon… Eppure, la marca dimostra di compiere ogni

sforzo per negare tale appartenenza, ricorrendo alla simbologia “non-fast”: ecco il non-hamburger

(quadrato), il non-pane da hamburger (la tartaruga), il non-ketchup (la salsa rubra), la non-Coca-

Cola (la geniale MoleCola), i sapori non-globalizzati (carne cruda, robiole, bibite Lurisia), il non-

spreco (la raccolta differenziata), il non-inglese (l’ibrido anglo-piemontese), addirittura il non-

gadget per i bambini (un giocattolo intelligente e sicuro). Di peculiarmente “slow” non c’è molto:

poca sostanza, oltre i valori enfatizzati su ogni livello del discorso (qualità, territorialità, rispetto

dell’ambiente) e la retorica piemontese. Per contro, emergono piuttosto alcuni significativi elementi

“non-slow”: a ben vedere, gli hamburger non hanno nulla a che fare con la cucina piemontese, e in

un tempio della carne si dovrebbero quantomeno chiedere lumi al cliente circa il livello di cottura o

13 Altrove le cose stanno un po’ diversamente: in un’altra iscrizione lo “slow” è riferito al tempo di allevamento,maturazione e lavorazione (quindi è sostanzialmente omologo), ma “fast” si sposta dal momento della preparazione aquello del consumo, “food” resta collegato alla qualità.14 Emerge così un dubbio: i piatti sono preparati velocemente o nel giusto tempo?15 Che si è scelto di impostare in quest’ordine, e non viceversa, in ragione del percorso semantico che sembra avercompiuto la marca, come si chiarisce in seguito.

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salatura della medesima; soprattutto, si sceglie oculatamente di omettere che la carne dell’azienda

Scaglia – ragion d’essere di M**Bün – provenga solo in parte dall’allevamento di famiglia. Il

posizionamento effettivo e contingente di M**Bün coinciderebbe dunque più con il termine

contraddittorio, evidenziando la natura in fieri del percorso di marca.

Si ipotizzi ora l’avvenuto compimento del presente percorso. Oltre ai rischi di

neutralizzazione – per cui spesso chi ambisce a rappresentare due cose in contemporanea “finisce

facilmente per essere né l’una né l’altra” (Marrone 2012: 47) – si apre un problema relativo alle

assiologie, ossia alle dinamiche di valorizzazione dei poli contrari. Se M**Bün intende

rappresentare la diaforia, dove collocare euforia e disforia? Com’è possibile che una marca voglia

promuovere anche un valore negativo? È ragionevole supporre che la marca M**Bün abbia inteso

valorizzare euforicamente il discorso “fast” sul piano dell’espressione e quello “slow” sul piano del

contenuto, viceversa dicasi per la disforia.

3. Conclusioni

A questo punto è possibile ricapitolare le ragioni dell’efficacia semiotica del discorso di

M**Bün. Una superficie espressiva da tipico fast food assicura alla marca la giusta dose di

attrattiva, anche grazie ad alcune incursioni “slow” particolarmente accattivanti. L’espediente del

piemontese assolve anche ad una funzione poetica, secondo il classico schema di R. Jakobson: il

ricorso al dialetto rende “opaco” il significante, deautomatizzando l’approdo ai contenuti

referenziali e costringendo il consumatore “a soffermarsi maggiormente sulla materialità concreta

dell’espressione” (Volli 2003: 75). Sul piano dell’enunciazione, M**Bün vince la partita

dell’affidabilità: i soggetti non dispongono di tempi né di energie cognitive illimitate, perciò sono

obbligati ad un’“economia interpretativa”, che li induce a reputare superflua la verifica

dell’autenticità di un messaggio qualora questo si presenti come degno di fiducia. In fin dei conti,

chi può permettersi di conoscere realmente la qualità di ciò che mangia, specie se le fonti deputate a

sanzionarla (si legga il marchio Coalvi) perdono di autorevolezza? In questo contesto si instaura il

discorso di marca che – se consapevole dell’agentività della propria opera enunciativa – sa che

mostrarsi affidabili è un’arma strategica di prim’ordine per essere percepiti come tali. “Dire è fare”

(Marrone 2012: 89), M**Bün dimostra di padroneggiare il concetto alla perfezione. In terzo luogo,

il discorso di marca è efficace sul piano narrativo: è indubbio che M**Bün debba una parte

considerevole del proprio successo al racconto mediatico di cui è stato protagonista, per giunta in

opposizione ad un antisoggetto esemplare come McDonald’s. Di tale privilegio polemico non hanno

beneficiato i pur numerosi concorrenti diretti (“L’hamburgheria di Eataly”, “Qualeaty”,

“Burgheria”, “Cow Restaurant”), non a caso più deboli nel complesso. A livello profondo, è

risultata decisiva l’attualità dei valori proposti: salutismo e ambientalismo costituiscono oggi dei

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trend molto prima che delle adesioni convinte. In conclusione, la marca ha percepito come il

discorso “slow” fosse, per così dire, sghembo: efficace sul piano del contenuto ma non altrettanto su

quello dell’espressione. Così, M**Bün ha perseguito la via del rinnovamento simbolico, e stando

agli utili si direbbe che l'impresa gli sia riuscita. Anche se puristi della gastronomia e nostalgici del

piemontese continueranno a storcere il naso dinnanzi a stoviglie usa e getta e incerte grafie: duri a

morire sono gli abiti semiotici.

Bibliografia

11

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Illustrazioni

Ill. 1 – M**Bün, logo

Ill. 2 – M**Bün, annuncio lancio “Mac Povron”

Ill. 3 – McDonald's, annuncio “Quarter Pounder Deluxe”

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Ill. 4 - M**Bün, punto vendita

Ill. 5 – M**Bün, punto vendita

Ill. 6 – M**Bün, punto vendita

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Ill. 7 – M**Bün, regime discorsivo dialogico

Ill. 8 – McDonald's, “McItaly”

Ill. 9 – McDonald's, “Gran Piemontese”

Ill. 10 – M**Bün, epigrafe

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