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Dalla prospettiva dei pittori alla prospettiva dei matematici

Date post: 22-Nov-2023
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MMXIII IL CONTRIBUTO ITALIANO ALLA STORIA DEL PENSIERO OTTAVA APPENDICE
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MMXIII

IL CONTRIBUTO ITALIANOALLA STORIA DEL PENSIERO

OTTAVA APPENDICE

IL CONTRIBUTO ITALIANOALLA STORIA DEL PENSIERO

SCIENZE

Direttori scientificiANTONIO CLERICUZIO, SAVERIO RICCI

REDAZIONE ENCICLOPEDICA

ResponsabileMonica Trecca

Lavorazione e revisione testiRiccardo Martelli, Lucia Armenante, Tiziana Fioravanti, Simonetta Paoluzzi

Segretaria di redazioneAngela Damiani

Il progressivo abbandono nei dipinti su tavola dei fon -di oro in favore di paesaggi e vedute urbane, l’atten-zione al naturale scorrere delle luci e delle ombre pro-prie e portate nei volumi dei corpi e l’introduzionedella prospettiva lineare nella pittura e nella sculturache si attuò nel corso del Quattrocento italiano costitui -scono l’inizio di una nuova età della rappresentazionevisiva che si irradiò dall’Italia verso il resto d’Europa.

Erwin Panofsky, in Die Perspektive als ‘symbolischeForm’ (1927), sostenne che la prospettiva sarebbe statainventata da Filippo Brunelleschi a Firen ze intorno al1420. Tale approccio, nel corso del secolo scorso, hadato luogo a una sorta di narrazione epica del muta-mento nei modi di rappresentazione visiva che, sebbe -ne risulti superata dallo stato attuale della ricerca, resi-ste indisturbata nella divulgazione della storia dell’arte.

Alla luce degli studi più recenti si può affermare chela diffusione e il radicamento nella coscienza degli ita-liani di una nuova concezione della luce, intesa non piùco me ente metafisico ma come fenomeno fisico, diedel’av vio a una nuova età del pensiero estetico e scienti-fico. Tale nuova concezione della luce è il risulta to dellatrasmissione di saperi scientifici, in particola re dell’otti -ca, dal mondo arabo all’Occidente latino, e della loropropagazione attraverso la mediazione degli ordini reli-giosi negli studi universitari e tra gli in tellettuali uma-nisti. Infine, il diffondersi negli ambienti degli artistidi questa nuova concezione della luce, trasmessa dallateoria della visione di Ibn al-Hay tham, è, con ogni pro-babilità, all’origine della nuova attenzione per il valoredella realtà e della natura che nella rappresen tazionevisiva si affermano a fianco dei valori simbolici.

La diffusione della teoria della visione di Ibn al-Haytham in Italia

Il trattato Kit!b al-Man!zir (Libro d’ottica), scrittotra il 1028 e il 1038 da Abū ‛Alī al-Ḥasan ibn al-Ḥasanibn al-Haytham (965-1039/1040), noto nell’Occidentelatino come Alhacen, e poi dal 17° sec. come Alhazen,

giunse in Europa, sul finire del 12° sec., o al più tardinella prima metà del 13°, e si diffuse, mancante deipri mi tre capitoli del primo libro, con il titolo latinoDe aspectibus. I due centri universitari di Oxford ePa ri gi furono i luoghi dove la perspectiva del filosofoarabo fu elaborata come scienza cristiana, e la curiapa pale, nelle sedi di Roma e Viterbo, fu suo centro didiffusio ne nell’Italia centrale.

Il primo e principale promotore della ricezionedella teoria della visione di Alhacen fu il francescanoRuggero Bacone (1214/1220-dopo il 1292), alla cuiPerspectiva deve accostarsi anche la Perspectiva com-munis (1277-1279) di John Peckham (1230-1292), untrattato molto breve e sintetico, scritto come testo diriferimento per le lezioni che il filosofo tenne pressola curia romana. Nel 14° sec. il volumetto fu adottatocome testo da diverse università europee, garantendouna diffusione standardizzata delle teorie del filosofoarabo negli ambienti intellettuali del continente peral meno tre secoli.

La Perspectiva (1270-1278), che Witelo (1220/1230-dopo il 1277) aveva scritto a sua volta su invito di Gu -glielmo di Moerbecke, consiste, invece, in una volumi -nosa parafrasi del De aspectibus, che collocò stabilmentela teoria ottica di Alhacen nell’alveo dei saperi geo-metrici e filosofici dell’Europa latina e cristiana.

La curia romana fu il centro di diffusione dellanuo va teoria della visione di Alhacen, mediata dai trediversi approcci di Bacone, Peckham e Witelo. L’ipo-tesi che la diffusione del nuovo sapere scientifico possaaver orientato gli sviluppi dei metodi di rappresenta-zione dello spazio in pittura e scultura nell’Italia cen-trale nello scorcio del 13° sec. e nel 14° è fondata. Gliaffreschi della Basilica superiore di San Francesco adAssisi, in cui si manifesta il primo cambiamento insenso realistico nella rappresentazione pittorica, e chefurono dipinti nei decenni immediatamente succes-sivi alla diffusione dell’opera di Bacone e delle lezionidi Peckham nella curia papale, potrebbero essere ilprimo effetto della teoria della visione di Alhacen sullarappresentazione pittorica.

Pietro Roccasecca

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La teoria della visione diretta di Alhacen fu promos -sa non solo dall’opera di mediazione degli ordini men-dicanti e della curia romana, ma anche dalla presenzadi testimoni manoscritti, come, per es., la traduzionein volgare del De aspectibus, oggi conservata presso laBi blioteca apostolica vaticana (codice Vat. lat. 4595),realizzata in Toscana tra la fine del 14° e l’inizio del15° secolo. Chi promosse e sostenne la traduzione dallatino al volgare del trattato di Alhacen aveva, vero-similmente, l’intenzione di renderlo disponibile diret-tamente a quegli operatori che non disponessero disufficienti conoscenze di latino. Che la traduzione involgare del De aspectibus fosse nota e disponibile agliartisti è provato nel caso di Lorenzo Ghiberti (1378-1455), che ne trascrisse interi passi nel Commentarioterzo. La disponibilità del trattato di Alhacen pressogli artisti fiorentini del Quattrocento non può esserestata senza conseguenze per la trasformazione dellarappresentazione pittorica in senso naturalistico avve-nuta proprio in quegli anni.

La traduzione volgare del De aspectibus rendevadisponibile agli artisti fiorentini la più avanzata teo-ria della visione del tempo e le conoscenze più avan-zate sul comportamento del colore al variare dellaluce e sulle ombre colorate. Insegnava come la vista,attraverso un termine di paragone (il corpo umanosecondo Alhacen), misuri le distanze e le grandezzedi una sequenza di corpi collocati in una disposizioneordinata e continuata. Rendeva inoltre utilizzabili,dagli operatori in grado di ripeterle, numerose espe-rienze di osservazione della formazione delle imma-gini su specchi piani, concavi e convessi, osservateattraverso piccoli fori praticati su tavolette di legnoe di ottone.

In conclusione, la traduzione volgare del trattatodi Alhacen rendeva disponibili agli artisti quelle cono-scenze che sono i prerequisiti sia delle prime rappre-sentazioni pittoriche illusorie dello spazio tridimen-sionale in pittura e in scultura, sia dell’esperienza dellaprima tavoletta di Filippo Brunelleschi (1377-1446),sia della concezione della pittura come «intersegazione»della piramide, dichiarata da Leon Battista Albertinel De pictura (1435).

La teoria della visione di Alhacen

La teoria della visione di Alhacen spiega la tra-smissione all’organo del senso delle forme coloreemesse dai corpi illuminati, applicando la geometriadella pi ramide visiva alla teoria della propagazionedella luce. Alhacen considerava i raggi visivi che for-mano la piramide della teoria estromissiva euclideaun modello pu ramente matematico e, dunque, inte-grabile alla sua teoria della visione. La traslazione del -la forma colore nell’occhio avviene dentro una pirami -de che ha la cu spide all’interno dell’occhio e la cuiba se è la superficie del corpo che emette luce propria

o riflessa. La pi ramide di Alhacen non è visiva ma ra -diosa, cioè formata di raggi di luce, e figurata perchéciascun singolo raggio porta la forma colore di unpun to del corpo che emet te la luce stessa. La pira-mide radiosa e figurata, in tersecando il glaciale (unodegli umori dell’occhio), riproduce punto per puntosulla superficie della sfera glaciale la forma coloreemessa dal corpo visibile, che viene trasmessa al cervel -lo. L’intelletto, con l’interven to della «virtus distincti -va», comprende nella forma co lore trasmessa dalla pi -ramide figurata le «intentiones», le caratteristichevisi ve, del corpo che emette la luce.

La «quantità della distanza»

Per Alhacen la caratteristica visiva della quantitàdella distanza è percepita dalla vista e compresa dal-l’intelletto solo per distanze che non eccedono lamediocrità, ovvero né troppo vicine né troppo lonta -ne, ed è certificata solo quando nel campo visivo sianointergiacenti corpi noti che fungano da termini di para-gone attraverso cui misurare la distanza.

Nella Perspectiva communis Peckham sintetizza lateoria di Alhacen della conoscenza della distanza me -diante la sola vista in un paragrafo il cui titolo è Solola distanza mediocre è certificabile, e ciò per mezzo dicorpi intergiacenti disposti in modo continuo e ordinato(John Peckham and the science of optics, 1970, p. 140).Questa trattazione contiene in sintesi tutti gli elementinecessari: non tutto ciò che entra nel campo visivo èmisurabile con la sola vista, ma solo ciò che si situa auna distanza moderata dall’occhio. Dei corpi e spaziche eccedono la mediocrità, posti troppo vicini o troppolontani dall’occhio, l’intelletto percepisce le distanze,ma non stabilisce le quantità.

La comprensione della misura degli spazi e dei corpimediante la sola vista è possibile solo per le distanzecomprese tra un massimo e un minimo del campo visivo.

Ma cosa sono i «corpi intergiacenti disposti in modocontinuo e ordinato»? Tali corpi sono cose già note al -l’os servatore (che ne conosce le dimensioni per espe-rienza pregressa), disposte in modo ordinato e costantenel suo campo visivo. Secondo Alhacen, l’osservatorericonosce corpi già noti, ne rammenta le dimensionie di conseguenza misura lo spazio che essi occupanoe, per comparazione, comprende sia la misura delladistanza che corre tra i corpi, sia la distanza che losepa ra dai corpi stessi, e questo, come si è detto, soloper distanze che non eccedono la mediocrità, cioè percorpi che non siano troppo lontani dall’osservatore otroppo vicini all’occhio.

Per un lettore attuale i termini latini «continuataet ordinata» usati da Peckham potrebbero essere attri-buti volti a specificare le modalità secondo le quali icorpi devono essere disposti nel campo visivo. Intesiin ta le maniera, essi possono evocare le sequenze dico lonne, pilastri e archi, le quinte di palazzi, i pavi-

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menti a scacchiera e i soffitti a cassettoni che popo-lano, da Giotto in poi, la pittura italiana del Trecentoe del Quat trocento.

Nondimeno, per Alhacen, Bacone, Witelo, Peck -ham e per i loro lettori, i termini «continuata et ordi-nata» potevano rivestirsi di un preciso significato mate-matico, per noi non più evidente.

Nella tradizione latina medievale del libro V degliElementi di Euclide due definizioni portano i nomi diordinata e continua. Esse sono tramandate ciascuna inuna traduzione diversa degli Elementi di Euclide, noncompaiono mai insieme nella stessa versione del trat-tato e non si trovano nella tradizione testuale degliElementi stabilita da Johan L. Heiberg nel 19° sec.;non leggendosi nelle edizioni moderne del trattatoesse sono semplicemente cadute nell’oblio. Tuttavia,era no note ai dottori in «perspectiva» della fine del 13°sec., e lo erano ancora agli studiosi di Euclide del 17°sec. come Galileo Galilei.

La «proporzione ordinata» è tramandata solo dallatraduzione degli Elementi di Gherardo da Cremona(1114-1187), nella quale è riportata come XIX defini -zione. La «proporzionalità continua» è presente invecesolo nella tradizione di Adelardo da Bath (1070-1160)come V definizione. La «proporzione ordinata» di Ghe-rardo da Cremona consiste in due serie di grandezzein cui i termini di ciascuna serie sono in proporzionesecondo un rapporto identico: date le due serie di gran-dezze « A. B. C. » e « D. E. F. », A sta a B come D staa E ; così B sta a C come E sta a F. Come una simileproporzione potrebbe descrivere lo spazio in una rap-presentazione pittorica?

Si consideri il caso del colonnato di un chiostro: lealtezze apparenti delle colonne e le distanze apparentitra le coppie di colonne mantengono relativamentesempre lo stesso rapporto e sono dunque in propor-zione ordinata.

La «proporzione continua» per Campano da Novara(m. 1296), il cui commento ha costituito per lungotempo lo standard interpretativo, consiste invece nonin una proporzione, ovvero in un rapporto tra duegrandezze, ma in una proporzionalità, cioè in una simi-litudine di proporzioni formata almeno da tre terminidello stesso genere che può essere scritta nella formaA:B=B:C.

La proporzionalità continua è senz’altro appro-priata a descrivere le grandezze apparenti che diminui -scono in prospettiva, come, per es., le altezze dei per-sonaggi o delle colonne e la profondità delle mattonelledei pavimenti o dei cassettoni dei soffitti. La propor-zione ordinata può descrivere il rapporto tra le altezzee le larghezze relative della composizione pittorica,per es. l’altezza dell’uomo e la larghezza del pavi-mento; con l’uso della proporzionalità continua è pos-sibile descrivere la diminuzione apparente delle gran-dezze nella profondità dello spazio pittorico, per es.la diminuzione in profondità delle mattonelle di unpavimento.

Filippo Brunelleschi perspettivo ingegnoso

Nel 1413 il poeta Domenico da Prato definì Brunel -leschi «prespettivo [sic] e ingegnoso uomo» (Brunelle-schi: l’uomo e l’artista, a cura di P. Benigni, 1977, p.97). Si deve notare che in quell’anno il termine indica -va senza dubbio la filosofia della visione, non la pro-spettiva lineare, perché quest’ultimo significato eraan cora di là da venire. Due notizie relative a Brunelle -schi come colui che trovò la prospettiva dei pittori sileggono nel trattato di architettura di Antonio Averu -lino detto il Filarete (1400 ca.-1469): ambedue le cita-zioni associano l’invenzione della prospettiva allo spec-chio. In particolare la prima menzione si trova subitodopo la presentazione di un metodo grafico per realiz -zare lo scorcio di un pavimento, che Filarete cita, quasiparola per parola, dal De pictura di Alberti.

Stando a Filarete, Brunelleschi avrebbe trovatoun modo per disegnare un piano (un pavimento o unsoffitto) in scorcio, osservando negli specchi il com-portamento delle linee ortogonali e parallele al pianodi osservazione e delle diminuzioni che si verificanonelle distanze relative. Filarete non spiega, però, comeguardando in uno specchio si possa mettere a puntola procedura grafica che ha appena illustrato, anchese dimostra di essere cosciente che la questione nonè semplice. Infatti se ci si pone davanti a uno spec-chio, siamo noi stessi a essere riflessi e non le cose chevorremmo disegnare; queste possono essere viste solose l’osservatore è spostato da un lato rispetto allo spec-chio, e dunque solo mediante un angolo di riflessioneche non sia retto.

Un’altra citazione di Brunelleschi come inventoredella prospettiva è in relazione con gli specchi pia ni.Si tratta del famoso brano della Vita di Filippo Bru-nelleschi scritta da Antonio di Tuccio Manetti (1423-1497) quarant’anni dopo la morte di Brunelle schi, incui si descrivono due tavolette dipinte con prospet-tive, oggi perdute.

Dalle due tavolette, secondo il biografo, sarebbede rivata una regola che era alla base delle rappresenta -zioni prospettiche realizzate intorno al 1480. Manettinon dice quale sia la regola, ma riferisce che il dipintodel Battistero di San Giovanni era «fatto con tantadiligenza e gentilezza, e tanto co’ i colori de marmibianchi e neri, che non è miniatore che lo avessi fattomeglio» (Vita di Filippo Brunelleschi, a cura di D. DeRobertis, 1976, p. 59), senza fare menzione di alcunaprocedura grafica di tipo prospettico.

Manetti attribuisce a Brunelleschi il primato nel-l’aver trovato la maniera di rappresentare proporzio-natamente in pittura le diminuzioni degli spazi e deglioggetti in funzione della distanza da cui si guardano,trovando così la regola della prospettiva dei pittori.Precisando che tale modo di rappresentare la dimi-nuzione delle grandezze apparenti che costituisce la«prospettiva dei pittori» è una parte della «perspectiva»intesa come scienza ottica.

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Sulle due tavolette perdute si è scritto molto; tut-tavia, le interpretazioni del dispositivo ottico descrittoda Manetti, elaborate al fine di comprendere qualefosse «la prospettiva di Brunelleschi», tentate da nume-rosi storici dell’arte sono spesso andate al di là diquanto fosse possibile sostenere in termini logici, sto-rici e scientifici. Nondimeno, dalla descrizione delletavolette si possono comunque inferire ipotesi sulleconoscenze di teoria della visione di Brunelleschi percomprendere a quali parti della teoria ottica l’archi-tetto fiorentino abbia prestato maggiore attenzione.

Brunelleschi e la teoria della visione

Filarete e Manetti asseriscono che Brunelleschifece uso degli specchi per trovare la ragione delladiminuzione delle grandezze apparenti. Per Filare -te, Brunelleschi osservò «dirimpetto all’occhio» (Trat-tato di architettura, a cura di A.M. Finoli, L. Grassi,1972, p. 653) nello specchio le apparenze di immagi -ni reali riflesse per ricavarne un metodo per rappre-sentarle graficamente e pittoricamente. L’esperienzadella pri ma tavoletta prevedeva che l’osservatore: «conl’una mano s’accostassi allo occhio [la tavoletta dipinta]e nell’altra tenessi uno specchio piano al dirimpetto,che vi si veniva dentro a specchiare la dipintura» (Vi -ta di Filippo Brunelleschi, cit., p. 55, corsivo mio). Edunque essa consiste proprio nel guardare frontal-mente in uno specchio, senza esservi riflesso, l’ogget -to dipinto.

Il Brunelleschi «perspectivo e ingegnoso uomo» do -veva aver conoscenza della catottrica, la parte dellateoria della visione che indaga la formazione delleimmagini negli specchi. Non è indispensabile ipotiz-zare che egli lavorasse con la supervisione di un dotto,dal momento che per poter dominare la catottrica laconoscenza del latino è necessaria ma non sufficiente,serve a poco se non si è in grado di comprendere icomplessi diagrammi che accompagnano il testo. Unarchitetto del livello di Brunelleschi avrebbe potutoinvece non solo comprenderli, ma anche disegnarlicon la dovuta chiarezza e precisione e, con l’aiuto dellatraduzione volgare del De aspectibus di Alhacen, avreb -be potuto intraprendere le sue indagini sulla forma-zione delle immagini negli specchi piani, senza doverchiedere aiuti per la lettura del trattato.

La prima esperienza raccontata da Manetti, quelladella cosiddetta prima tavoletta, parrebbe rientrare apieno titolo nell’ambito della catottrica. Osservareuno specchio attraverso un foro è un metodo di inda-gine esperito da Alhacen. L’osservazione attraversoun singolo foro aveva lo scopo di selezionare il soloraggio riflesso passante per il centro dell’occhio, l’assevisivo, o, come lo avrebbe chiamato Alberti, il «rag-gio centrico». Il quale, considerato nei termini geome -trici della piramide visiva, è l’unico che cada perpen-dicolarmente sulla superficie dello specchio.

Leon Battista Alberti: la pittura come intersecazione della piramide visiva

La famosa metafora della «pittura come finestraaperta» che Alberti ideò nel De pictura sottintende la«intersecazione» della piramide visiva. Tale concettonon esiste né nella teoria ottica di Euclide, né in quelladi Tolomeo. L’idea che un’immagine si formi, nel-l’occhio, nello specchio o in un corpo diafano di den-sità diversa dall’aria (come un vaso di cristallo colmod’acqua), mediante l’intersecazione della piramidevisiva fu elaborata per la prima volta da Alhacen e sidiffuse in Italia attraverso le traduzioni della sua operae i commentari che ne scaturirono.

Alberti applica il concetto di «intersecazione dellapiramide visiva» alla pittura in due luoghi del De pic-tura: nel libro I, quando formula la metafora della pit-tura come «vetro tralucente», e nel libro II, quandointroduce il «velo», uno strumento di «non picciolacommodità», consistente in un «tessuto rado» posto«tra l’occhio e la cosa veduta» in modo che la piramidevisiva penetri «la rarità del velo» (De pictura (redazio -ne volgare), a cura di L. Bertolini, 2011, p. 261). Il ve -lo e il vetro servono ad Alberti per dimostrare opera-tivamente l’innovativo modo di intendere la pitturacome un piano che interseca la piramide radiosa ema-nata dai corpi illuminati. Se quella del vetro è unametafora ispirata dagli studi di Alhacen sulla rifrazio -ne, il velo, invece, è uno strumento, di cui Alberti ri -vendica la paternità, che dovrebbe servire al pittoreper ritrarre le figure di piccole dimensioni, tra cui an -che la figura umana. L’esperienza del velo albertianofu ripresa da Leonardo da Vinci con alcune variantinotevoli, e poi da Albrecht Dürer (1471-1528), chemi se a punto due strumenti prospettografi da cuidiscendono quelli di Ludovico Cardi detto il Cigoli(1559-1613).

Secondo Alberti, il velo non è adatto a ritrarre tuttii corpi visibili. Egli infatti afferma: «alle superficiemaggiori [le architetture] ci convien trovare nuoveragioni» (De pictura, cit., p. 264), ovvero, una ratio checonsenta di stabilire mediante un metodo prospet ticouna proporzione tra la figura umana e le architet ture,che sia valida in tutto il piano pittorico; in altre parole,determinare nella rappresentazione pittorica una cor-retta proporzione tra figura umana e architettura.

L’altezza del «dipinto uomo» nel «modo ottimo» –così Alberti chiama il suo metodo prospettico – è iltermine noto di comparazione di tutti i corpi rappre-sentati nella pittura e rappresenta l’unità di misuradegli edifici e delle distanze. La dimensione del corpoumano secondo Alhacen è l’unità di misura che attra-verso l’esperienza assicura il metro di giudizio per va -lutare le distanze e le quantità. Al tempo in cui Albertiscrive, le membra umane fornivano ancora i nomi diunità di misura più comuni: palmo, piede e braccio.L’os servatore, con la sua personale conoscenza pre-gressa, usando la figura umana dipinta come termine

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di comparazione, valuta i rapporti proporzionali ecompositivi del dipinto.

Alberti stabilisce un rapporto tra l’altezza dell’uomodipinto e la fila di mattonelle su cui poggia, che simantiene costante in tutto il piano del pavimento: l’al-tezza dell’uomo dipinto è sempre pari alla larghezzadi tre delle mattonelle su cui poggia i suoi piedi. Dun-que, in ogni punto del pavimento altezze e ampiezzesono sempre coordinate da una stessa proporzione ele cose rappresentate mantengono in ogni punto glistes si rapporti tra altezza e larghezza.

Questo tipo di rapporto, come abbiamo visto, sitro va descritto con il nome di «proporzione ordinata»nella traduzione degli Elementi di Euclide di Gherar -do da Cremona.

Alberti, prima di presentare il suo «modo ottimo»,illustra un metodo usato da «alcuni», che l’umanistanon identifica meglio, i quali per mettere in proporzio -ne la diminuzione degli intervalli tra le linee paralleledel pavimento, procedono stabilendo a piacere la di -stan za dalla base della prima linea. La distanza tra laprima e la seconda linea la trovano dividendo in trela prima quantità e prendendone due parti, la quanti -tà tra la seconda e la terza allo stesso modo e così via.

Alberti considera errato questo metodo perché laprima linea è posta a caso. Che le grandezze recedendoin profondità diminuiscano di un terzo, cosa che aino stri occhi pare un espediente puramente empirico,non procura all’umanista nessun disagio. Anzi, perlui è accettabile, perché «gli spazi successivi seguono aragione», cioè secondo una proporzione che, asseriscel’umanista, i matematici chiamano superbipartiente.Nel rapporto matematico implicito in questo mododi diminuire le grandezze possiamo riconoscere la pro-porzionalità continua descritta nella traduzione degliElementi commentata da Campano da Novara.

Per individuare la proporzione continua che descri -ve la diminuzione delle grandezze apparenti delle mat-tonelle – la quale costituisce il vero problema matema -tico della rappresentazione prospettica –, Albertiil lustra un metodo basato sull’intersecazione dellapiramide visiva e sulla proporzionalità dei triangolisi mi li. Il «modo ottimo» introduce, dunque, un cambia -mento di paradigma nella rappresentazione visiva delladiminuzione delle quantità, che sono rappresentateme diante la geometria dei triangoli della visione infunzione della distanza tra osservatore e intersecazio -ne della piramide visiva e non più mediante una pro-porzione numerica, sia pure descritta nella tradizionemedievale degli Elementi di Euclide. Per questa ragio -ne, il «modo otti mo» costituisce la prima testimonianzascritta di quello che oggi chiamiamo prospettiva. Non-dimeno il «modo ottimo» non è la prospettiva, almenocome la intendiamo noi oggi. Alberti, infatti, conti-nua a mettere in rapporto le altezze e le larghezze conla proporzione ordinata, e stabilisce la diminuzionedelle grandezze apparenti solo in funzione della distan -za da cui si osser va la pittura: «poi constituisco quanto

io voglia distanza dall’occhio alla pittura» (De pictura,cit., p. 240) è chiaramente detto nella redazione vol-gare. Ciò non è senza conseguenze per la rappresen-tazione e, con il senno del poi, possiamo anche direche dal punto di vista della prospettiva lineare si trattadi un errore.

Piero della Francesca: la proporzione degradata

Piero della Francesca (1412 ca.-1492) finì di scri-vere il De prospectiva pingendi negli anni Settanta delQuattrocento. Nel libro I, a metà del teorema XI,prima di entrare nel merito della procedura prospet-tica, Piero avvia una digressione, illuminante per com-prendere il dibattito in corso sulla natura della pro-porzione prospettica, il cui fine è liberare il campodalle possibili obiezioni dei sostenitori delle propor-zioni numeriche, introducendo il concetto che la ridu-zione delle grandezze apparenti si trova mediante unaproporzione che ha per termini la distanza tra l’oc-chio e il piano d’intersezione della piramide visiva ela distanza tra il detto piano e la cosa veduta.

Dunque, quarant’anni dopo il De pictura, il metododella proporzionalità continua, finalizzato a determi-nare la diminuzione delle grandezze apparenti, eraforte, al punto che Piero ritenne necessario avvertire«in premessa» che la proporzione appropriata perdescrivere la riduzione delle grandezze apparenti nonè una proporzione contemplata nella tradizione medie-vale degli Elementi di Euclide, ma è una proporzionebasata sulla geometria della piramide visiva, che Pierodenomina proporzione degradata.

Piero della Francesca superò anche l’errore com-messo da Alberti nello stabilire la distanza su cui basarela diminuzione delle grandezze apparenti. Il pittore ematematico ha ben chiaro che se la perpendicolare cherappresenta il quadro che interseca la piramide visivacambia posizione, e dunque mutano le distanze tral’oc chio e il quadro e tra il quadro e la cosa veduta,pur ri manendo la distanza tra l’occhio e la cosa vedutaim mutata, la proporzione con cui diminuiscono legran dezze ap parenti cambia. Piero dimostra così chela diminuzio ne delle grandezze apparenti non è deter-minata né da una proporzione di quelle descritte nellibro V degli Elementi, né dalla distanza che separa ilpiano di rappre sentazione dall’occhio, come asserìAlberti, ma è regolata dalla proporzione che tali gran-dezze hanno sia con la distanza tra l’occhio e il pianod’intersezione, sia con la distanza tra il piano di inter-sezione e la cosa veduta.

Si tratta di un problema matematico che per la teo-ria delle proporzioni del Quattrocento non aveva solu-zioni e che Piero della Francesca risolse mediante lageometria dei triangoli proporzionali.

La soluzione geometrica del problema della rap-presentazione della diminuzione delle grandezze appa-

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renti aprì una nuova fase della storia della prospet-tiva, che d’ora in poi si caratterizza sempre di piùcome una di sciplina fondata sulla geometria euclideae dimostrata mediante il disegno lineare, pronta perpassare dal do minio disciplinare dei pittori a quellodegli architetti.

Piero della Francesca nel De prospectiva (libro I,capp. XIII e XXIII) illustrò due regole generali. Inestrema sintesi la prima regola deriva, correggendolo,dal «modo ottimo», e interseca sulla verticale del qua-drato BCGF che contiene il quadrilatero da metterein prospettiva (fig. 1). In questa prima regola ancorasi riconosce il sistema occhio-piano di intersezione-corpo visibile. La seconda regola non ha precedentied è uno sviluppo in senso geometrico della proce-dura prospettica che rende speditivo il metodo. Inessa Piero della Francesca elimina il piano perpendi-colare di intersezione e trova lo scorcio del quadran-golo BCE′D′ intersecando sulla congiungente il pianodi terra BC e il punto dell’occhio A (fig. 2).

Queste due regole nel corso del Cinquecento vengo -no riprese nei trattati di diversi architetti che avviaro -no un processo di standardizzazione delle proceduregrafiche, dando luogo a quella tradizione operativache venne chiamata la «prospettiva pratica». Il matema -tico Egnatio Danti (1536-1586), nel commento a Ledue regole della prospettiva pratica di Jacopo Barozzida Vignola (1507-1573), abbozzò una sorta di genealo -gia della cosiddetta «regola degli antichi»: «Piero dellaFrancesca fu il primo che ne scrisse, Francesco diGior gio la tramandò a Baldassarre Peruzzi che la inse-gnò a Serlio» (Le due regole della prospettiva pratica diM. Iaco mo Barozzi da Vignola, 1583, p. 82), il quale,ag giungiamo noi, la trasmise a Vignola. La genealo-gia elaborata da Egnatio Danti è abbastanza plausibi -le e indica che lo sviluppo della teoria prospet tica nelCinquecento si svolse tra Borgo San Sepolcro, Urbino

e Siena. Tuttavia anche l’architetto urbinate Bramante(1444-1514) potrebbe essere il tramite con Piero dellaFrancesca e Baldassarre Peruzzi (1481-536). D’altrapar te la questione non va impostata nei termini di unagenealogia, ma piuttosto nell’individuazione del con-testo in cui le regole della prospettiva di Piero dellaFrancesca divennero importanti per gli architetti.

Il grande cantiere di San Pietro a Roma, dove iquesiti sulla rappresentazione architettonica furonoal centro del dibattito e della sperimentazione, e dovela presenza di personalità dell’ambiente urbinate, ingrado di conoscere e sperimentare il trattato di Piero,fu consistente, potrebbe costituire il contesto opera-tivo in cui la cristallina perizia grafica e la valida teo-ria geometrica del maestro di Borgo erano ammiratee studiate. Le sue rappresentazioni prospettiche e pro-iezioni ortogonali dei corpi regolari vi dovevano es -sere studiate per trarne modelli e spunti per la solu-zione di problemi di rappresentazione dell’architettura.

Vignola, già nel 1559, aveva scritto le sue regoledel la prospettiva pratica: se ne ha notizia dalle cartedel l’architetto conservate presso l’Accademia naziona -le di San Luca di Roma.

Le due regole della prospettiva pratica di Vignolasono esplicitamente rivolte a «pittori e disegnatori» esono pensate per un lettore esperto, capace di deci-frare i diagrammi, per un «operatore» che sappia ripe-tere autonomamente i disegni e «operando conoscere».Non si coglie alcun senso di inferiorità nei confrontidella geometria, rispetto alla quale la prospettiva è

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AA!

D! E!

B C

Fig. 1 - Regola della prospettiva di Piero della Fran-cesca, derivata dal «modo ottimo» di Leon BattistaAlberti (rielab. dal De prospectiva pingendi, fig. XIIIdel libro primo)

A!D! E!

B

F G

C

A

Fig. 2 - Nuova regola della prospettiva di Piero dellaFrancesca, sviluppata in senso geometrico (rielab. dalDe prospectiva pingendi, fig. XXIII del libro primo)

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«scienza subalternata», ma una grande fiducia nel dise-gno tecnico come linguaggio attraverso il quale la geo-metria si esprime pienamente.

Il cap. III della seconda regola è cruciale per losviluppo della teoria proiettiva, poiché introduce ilconcetto di concorrenza delle parallele in un puntosulla linea d’orizzonte. Scrive Vignola:

Se bene secondo la Geometria le linee parallele nonsi possono mai toccare, o vero unirsi insieme dallicapi, ancor che vadino all’infinito; ma tirate in pro-spettiva fanno altro effetto percioché si vanno ad unireall’orizonte in un punto più o meno discosto l’unodall’altro secondo che sarà la positura delle linee (Ledue regole della prospettiva pratica, cit., p. 101).

Vignola con questa sintesi teorica avvia un nuovomodo di pensare lo spazio prospettico, la cui poten-zialità sarà compresa e sviluppata appieno da Guido-baldo Dal Monte (1545-1607).

La prospettiva dei matematici

Egnazio Danti nel suo commento ricorda più volteche il trattato di prospettiva fu elaborato da Vignolacon un lungo lavoro di revisioni, anche sostanziali,del testo. Tale lavoro di stesure e redazioni si svolsein un periodo di tempo in cui Vignola era al serviziodella corte Farnese. Negli stessi anni erano al servi-zio dei Farnese Federico Commandino (1506-1575),matematico presso la corte del cardinal Ranuccio aRoma, e Giovan Battista Benedetti (1530-1590), mate-matico presso la corte del duca Ottavio a Parma. Icontatti diretti e certi con Commandino e quelli intui-bili con Benedetti, che è bene ricordarlo sono fra imassimi matematici di quegli anni, sono indicativi delcontesto intellettuale in cui è maturata la teoria pro-spettica di Jacopo Barozzi.

I rapporti tra Barozzi e Commandino sembranoessere stati reciprocamente utili, anche se non prividi toni polemici. Negli anni dell’elaborazione del trat-tato di prospettiva Barozzi era al servizio del cardi-nale Ranuccio Farnese, alla cui corte l’architetto e ilmatematico ebbero modo di incontrarsi. Federico nonfa mistero di conoscere Barozzi: nella dedicatoria delsuo Planisphaerium Ptolemaei commentarius, edito aVe nezia nel 1558, Commandino definisce Barozzi:«architetto eccellente e assai competente [che] cono-sce così bene la prospettiva che in questa parte discienza non cede, senza dubbio, il campo a nessunodel nostro tempo» (La prospettiva di Federico Com-mandino, a cura di R. Sinisgalli, 1993, p. 58).

Il commentario di Commandino a Tolomeo con-siste in un vero trattato di prospettiva. Egli decise diredigerlo in tale forma perché, scrive il matematico,

il Planisferio di Tolomeo non poteva essere capito senon a stento e con grande fatica […]. L’ho letto tutto

con estrema cura e mi sembra, ma potrei sbagliarmi,di averlo capito chiaramente, riguarda quella partedell’ottica che gli antichi chiamarono scenografia.[…]. Ai nostri giorni, presso pittori e architetti tut-t’altro che spregevoli, si tramanda un certo modo dioperare che a me è stato di grandissimo aiuto nelseguire il pensiero di questo piccolo libro» (La pro-spettiva di Federico Commandino, cit., p. 57).

Poche righe più in basso si trova quell’elogio diVignola prospettico che abbiamo già ricordato.

Quello che ci interessa di più in questa lettera dedi-catoria è che Commandino dichiara, neanche troppoimplicitamente, di essersi servito del consiglio di archi-tetti e pittori suoi contemporanei per ripristinare ilsenso di un testo scientifico, il Planisferio, corrottodalle molteplici traduzioni e trascrizioni. Vignola fucon ogni probabilità consultato da Commandino.Qua le potesse essere stato il «modo di operare» cosìutile al matematico è suggerito dalla presenza tra lesue carte, conservate presso la Biblioteca universita-ria di Urbino, dello schizzo di una procedura pro-spettica che, senza dubbio alcuno, descrive il cap. Vdella Prima regola di Vignola. In questo contesto,«modo di operare» significa operare graficamente, cioèil modo di rappresentare graficamente i problemi geo-metrici enucleati nel testo corrotto del trattato, chenon potevano essere sciolti che attraverso la loro resti-tuzione grafi ca. Se ne evince che il disegno fu usatocome linguaggio per interpretare, e in un certo sen -so come uno stru mento per «restaurare» le conoscen -ze tolemaiche.

Vignola, come abbiamo visto, si espresse a favoredi una molteplicità di regole nella prospettiva che por -ta no tutte allo stesso risultato. Giovan Battista Bene-detti nel De rationibus operationum perspectivae, pub-blicato nel Diversarum speculationum mathematicarumet physicarum liber (1585), asserì la verità di una solare gola prospettica. Benedetti da scienziato preferivala prima regola, quella in cui il metodo dell’interse-zione della piramide visiva, direttamente derivato dal -la teoria della visione, è riconoscibile nella procedu -ra grafica.

Nel 1600, l’allievo di Commandino, GuidobaldoDal Monte, pubblicò i Perspectivae libri sex. Il tratta -to, corredato da numerose tavole disegnate, è scrittoin latino e dunque non si rivolge più ad artisti e profes -sionisti ma ai dotti. Nella sua opera Guidobaldo ripren -de proposizioni e diagrammi del trattato di Vi gnola,senza riconoscerne il debito, ma soprattutto fa sual’idea di Vignola, già ripresa e commentata da Danti,che le parallele in prospettiva si incontrano in un puntosulla linea d’orizzonte. Guidobaldo ha il me rito diaver la sviluppata nel concetto di punto di concorrenzaall’infinito delle parallele, che segnò l’ingres so del laprospettiva nel dominio disciplinare dei ma temati cie pose le basi teoriche di quella che sarà la geometriadescrittiva.

DALLA PROSPETTIVA DEI PITTORI ALLA PROSPETTIVA DEI MATEMATICI

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