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Diamo a Darwin ciò che è di Darwin. Piccolo prontuario per comunicare la teoria dell'evoluzione

Date post: 08-Apr-2023
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1 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA MASTER IN COMUNICAZIONE DELLE SCIENZE Prova finale Diamo a Darwin ciò che è di Darwin Piccolo prontuario per comunicare la teoria dell’evoluzione Relatore: Dott. Giuseppe Fusco Corsista: Stefano Corsi Matricola n° 932999 Anno Accademico 2008 – 2009
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA

MASTER IN COMUNICAZIONE DELLE SCIENZE

Prova finale

Diamo a Darwin ciò che è di Darwin

Piccolo prontuario per comunicare la teoria dell’evoluzione

Relatore: Dott. Giuseppe Fusco

Corsista: Stefano Corsi

Matricola n° 932999

Anno Accademico 2008 – 2009

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INDICE

Premessa p. 5

Sommario p. 7

Diamo a Darwin ciò che è di Darwin p. 9

1. Una missiva, per cominciare p. 9

2. Il fiume carsico dell’antievoluzionismo p. 11

3. Darwin rimandato in scienze p. 13

4. Quanta evoluzione nella società italiana? p. 16

5. Chiacchierando nei salotti televisivi p. 18

6. Un dilemma di comunicazione scientifica p. 20

7. “Evoluzione” rima con “comunicazione” p. 24

Bibliografia p. 29

Sitografia p. 33

Ringraziamenti p. 35

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PREMESSA In un suo recente saggio, Te lo dico con parole tue, il giornalista scientifico Piero

Bianucci ha invitato i comunicatori della scienza a riflettere su un problema, sulle

sue possibili cause, e su un suggerimento per risolverlo.

Il problema è il deterioramento d’immagine della scienza presso i cittadini

italiani: una crisi che si è così acuita negli ultimi anni da «paralizzare lo

sviluppo». Una delle possibili cause è proprio la qualità dell’informazione

scientifica, «scarsa e scadente in Italia», «imprecisa e superficiale». Eppure, a

fronte di una “frattura” tra scienza e società, «la pseudoscienza non conosce

crisi. Anzi è sempre più florida, e c’è chi ci fa grassi affari». Nei prossimi anni il

comunicatore scientifico avrà un compito: dare una svolta alla situazione.

Ecco perciò il suggerimento di Bianucci per migliorare l’informazione

scientifica: comunicare un “metamessaggio” nel messaggio della notizia, ossia

«il metodo scientifico che in ogni caso i ricercatori sono tenuti a seguire».

L’auspicio è che questo metodo trovi il consenso del pubblico e che sia accolto e

applicato a ogni livello della società.

In queste pagine ho cercato di seguire il suggerimento di Bianucci. Ma

mentre lui descrive il quadro generale, io ho voluto documentare e discutere una

particolare declinazione della crisi tra scienza e società italiana. Si tratta del

sorgere recente di un atteggiamento pseudoscientifico che vuole contrapporsi a

una specifica teoria, la teoria dell’evoluzione. Tale atteggiamento può dipendere

da una confusione tra ciò che è scienza e ciò che non lo è.

Capita che gli stessi comunicatori siano preda di questa confusione,

trasmettendola a loro volta al pubblico. Talvolta, infatti, i mezzi di comunicazione

di massa hanno una parte di responsabilità, poiché pongono sullo stesso piano gli

scienziati che si occupano di evoluzione e “liberi pensatori” che senza alcuna

specifica competenza la osteggiano, generando così pericolosi fraintendimenti nel

pubblico di non esperti.

Certi comunicatori scientifici paiono più predisposti di altri a creare

confusione. Difatti, come annota ancora Bianucci: «A fronte di un piccolo gruppo

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di giornalisti scientifici che in anni di lavoro serio è riuscito a conquistarsi la

fiducia dell’opinione pubblica, c’è un esercito di cronisti generici che scrivono e

parlano di scienza con superficialità, disseminando errori, cercando effetti

spettacolari, facendo leva sulle paure del pubblico e approfittando della sua

impreparazione».

Pertanto ho immaginato come destinatario di queste pagine proprio chi si

occupa di comunicazione. In particolare avevo in mente il comunicatore generico

tratteggiato da Bianucci, che magari deve occuparsi di comunicazione

dell’evoluzione in un contesto dove un “movimento di pensiero”, che si spaccia

per scientifico, cerca di avversarla.

Lo scopo era, anzitutto, portare questo comunicatore a conoscenza del

problema. Quindi metterlo in guardia dalla confusione che una comunicazione

superficiale dell’evoluzione potrebbe generare. E infine, per quanto possibile,

invitarlo a una riflessione critica sulla scienza e sulla sua comunicazione,

fornendo qualche consiglio da mettere in pratica.

Fissati destinatario e scopi, ho immaginato di scrivere queste pagine per

un periodico (bimestrale o trimestrale) di cultura, non destinato necessariamente

a comunicatori scientifici, ma comunque a un pubblico di cultura media.

Potrebbe essere, per esempio, un numero speciale dedicato allo stato della

comunicazione italiana, magari con una sezione sulla comunicazione scientifica.

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SOMMARIO La comunicazione dell’evoluzione in Italia si trova in una situazione complessa e

delicata. Esiste, infatti, un antievoluzionismo latente che, da qualche tempo, si

manifesta in diverse occasioni della vita sociale. Concorre a rafforzarlo

un’accettazione diffusa tra gli Italiani per un valore frainteso di “pari

opportunità”, che pone sullo stesso piano gli scienziati e gli “opinionisti”. I mezzi

di comunicazione di massa paiono aver appoggiato e amplificato questa

confusione tra livelli. Che cosa potrebbe fare un comunicatore per dissipare la

confusione e offrire un buon servizio alla comprensione pubblica dell’evoluzione?

Il primo paragrafo ricorda che una buona comunicazione della scienza dovrebbe

favorire la distinzione tra ciò che è scientifico e ciò che lo è solo in apparenza.

Talvolta ciò non avviene: è il caso della teoria dell’evoluzione biologica, criticata

da un crescente movimento antievoluzionista. Nel secondo paragrafo, infatti,

l’antievoluzionismo è presentato come un fiume carsico che di tanto in tanto

riaffiora in Italia, e che di recente ha “conquistato” spazi propri della scienza con

il consenso della politica. Non è la prima volta che la teoria dell’evoluzione

imbarazza la politica italiana. Il terzo paragrafo racconta la singolare vicenda

accaduta all’insegnamento scolastico dell’evoluzione nel nostro Paese. Sono i

sintomi di un atteggiamento contrario all’evoluzione da parte dell’opinione

pubblica italiana? Non sembra, a patto che assieme all’evoluzione s’insegni a

scuola anche una visione religiosa: lo affermano i dati di un’indagine sociologica

presentati nel quarto paragrafo. Questo principio paritario trova una conferma nei

mezzi di comunicazione: quando si parla di evoluzione, ricorda il quinto

paragrafo, spesso l’opinione dell’evoluzionista è messa a confronto con quella

dell’antievoluzionista. Ma chi si occupa professionalmente di evoluzione

dovrebbe dibattere in pubblico con chi la contesta? È il dilemma esposto nel sesto

paragrafo, che evidenzia come non vi siano buone ragioni per un tale dibattito,

nonostante ciò accada spesso sui mass-media. Allora che cosa potrebbe fare un

comunicatore della scienza per portare chiarezza? Il settimo paragrafo indica

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quattro suggerimenti per contribuire a migliorare la comunicazione

dell’evoluzione e la sua pubblica comprensione.

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Diamo a Darwin ciò che è di Darwin

Piccolo prontuario per comunicare la teoria dell’evoluzione

Con fatti e misfatti dell’antievoluzionismo italiano – le

responsabilità dei mass-media – e un antidoto per i comunicatori.

L’antievoluzionismo è una corrente di pensiero che poco a poco cresce anche in

Italia. Proponendosi come alternativa razionale alla teoria evoluzionistica,

genera confusione in una corretta ricezione pubblica della scienza. Una

confusione di cui talvolta i mass-media sono, nello stesso tempo, vittime e

complici. Lo provano alcuni recenti fatti di cronaca, che hanno coinvolto tra

l’altro l’istruzione italiana. Eppure basterebbe un po’ d’accortezza per dissolvere

queste nebbie. Che cosa dovrebbe sapere e potrebbe fare un comunicatore per

contribuire a portare chiarezza?

1. Una missiva, per cominciare

«Io qui direi che quello che intesi da persona ecclesiastica costituita in

eminentissimo grado, ciò è l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci

come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo». Così scriveva Galileo Galilei

nella Lettera a Madama Cristina di Lorena (1615). Con queste parole, lo

scienziato pisano invitava i contemporanei a tenere ben distinti gli ambiti, quello

della scienza e quello della religione rivelata, pur operando in un contesto nel

quale spesso era difficile distinguere una teoria scientifica da una credenza

religiosa.

Nonostante la sua attualità, oggi l’invito di Galilei sembra talvolta cadere

nel vuoto. Alcune nuove generazioni di “liberi pensatori”, tentando di disputare

con gli scienziati, paiono voler rimettere sul tavolo proprio il tema secolare dei

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rapporti tra scienza e religione. Forse però, come suggerisce la lettera, davvero

non sussiste alcun problema tra scienza e religione, semplicemente perché, a parte

le relazioni banali, i due ambiti non hanno alcun rapporto significativo.

La preoccupazione semmai sta altrove. È banalmente vero che dietro la

scienza agiscono gli scienziati e dietro la religione i teologi. Talvolta però, questi

ultimi cercano di mettersi al posto degli scienziati senza averne le competenze.

Spesso generando confusione concettuale. Forse, allora, occorre ristabilire i limiti,

non tanto tra le discipline, quanto tra i compiti spettanti alle persone che in quelle

discipline operano. Fermarsi e affermare che, a un certo punto, la questione non è

più di propria competenza, e quindi cedere la parola a chi è esperto in materia,

non è solo un segno di onestà e prudenza intellettuali: è anche un servizio reso alla

ricerca.

Chi s’impegna a comunicare la scienza, dovrebbe fare come Galilei:

anzitutto riconoscere una linea di demarcazione tra le discipline, e poi trasmetterla

al pubblico di non esperti, per evitare d’intorbidare la comunicazione. Una cattiva

comunicazione della scienza, infatti, può confondere chiunque e incidere sulla

politica e sulla società.

Che queste non siano solo speculazioni, lo testimonia un caso meritevole

d’attenzione. In questione è una teoria che, da qualche tempo anche nel nostro

Paese, subisce sempre più critiche da ambienti alieni alla scienza, se non

addirittura antiscientifici. È la teoria dell’evoluzione biologica formulata per la

prima volta da Charles Darwin.

Queste pagine sono pensate per quei comunicatori scientifici che vogliono

divulgare la teoria dell’evoluzione senza ambiguità e in modo consapevole.

L’intento è fornire una “diagnosi” del caso italiano e, per quanto possibile,

indicare alcuni suggerimenti. Questi non ambiscono a fornire una “terapia”

definitiva, ma sperano di essere più efficaci dei “rimedi della nonna”. Si tratta di

consigli che potrebbero risultare utili a chi comunica la scienza evoluzionistica in

un contesto dove qualcuno tenta di avversarla. Ma com’è possibile che sul banco

degli imputati, a lungo occupato da Galilei, sia ora salito Darwin?

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2. Il fiume carsico dell’antievoluzionismo

Esiste in Italia un movimento di pensiero che ha l’aspetto di un fiume carsico.

Affiora dalle rocce e fluisce alla luce del sole, per poi inabissarsi nel terreno e

scorrere sotterraneo e invisibile – ma presente – in attesa di riapparire più in là,

riprendendo con forza il suo corso in superficie. Questo movimento si chiama

“antievoluzionismo”.

Sembrerebbe un fiume che scorre lontano. Non riconoscere l’evoluzione,

un fatto ormai assodato dalla comunità scientifica? Roba da periodi oscuri.

Ripudiare la teoria che spiega questo fatto e che costituisce la base della biologia

moderna? Ignoranza o malafede. Preferire il creazionismo, ossia il ricorso ad atti

divini di creazione e interventi soprannaturali nel mondo biologico, a una

spiegazione scientifica dell’evoluzione degli esseri viventi? Sarebbe come se

qualcuno, oggi, negasse che la Terra ruoti intorno al Sole, e pretendesse di essere

preso sul serio.

Eppure, di recente, il fiume carsico dell’antievoluzionismo è riemerso nel

nostro Paese. Nel giugno 2009, l’assessorato alla cultura del comune di Brescia ha

concesso l’auditorium del locale Museo di Scienze Naturali per una serie di

conferenze. Tre serate, in occasione del bicentenario della nascita di Darwin. In

un anno di grandi celebrazioni per il naturalista inglese e la sua opera,

sembrerebbe un normale evento. Il problema è che le conferenze erano state

organizzate da un’associazione di creazionisti italiani. Con il patrocinio del

comune lombardo.

Venuto a sapere dell’iniziativa, il presidente dell’Associazione Nazionale

Musei Scientifici (ANMS) spedì all’assessore una lettera per esprimere «profondo

rammarico» per la concessione del museo a un evento dal carattere

«antiscientifico, antistorico e anticulturale», in contrasto con gli scopi stessi del

museo. La replica dell’assessore arrivò un mese dopo sul sito di divulgazione

scientifica Pikaia, dove era già stata pubblicata la lettera dell’ANMS. L’assessore

dubitava di dover rispondere, giudicando «veramente assurde» le osservazioni

sollevate. Difatti, lui aveva fatto solo il suo dovere, applicando i più elementari

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diritti dell’uomo sulla libertà d’espressione e garantendo, a tutti i cittadini, le

stesse opportunità d’accesso e utilizzo dei servizi pubblici.

Fu Telmo Pievani, direttore di Pikaia e filosofo della scienza, a rispondere

all’assessore chiedendo spiegazioni riguardo ad alcune “chiacchiere” giunte alle

sue orecchie. Era vero che l’auditorium del museo fosse stato accordato per le

conferenze creazioniste, richiamandosi a principi universali di libertà

d’espressione, ma negato per una conferenza dello stesso Pievani organizzata

dall’UAAR (Unione Atei e Agnostici Razionalisti)? E se ciò fosse vero, per quali

ragioni una tale disparità di trattamento? Da agosto a oggi, nessun chiarimento è

ancora giunto dall’assessorato alla cultura di Brescia. Forse il fiume carsico si è

rituffato sottoterra.

Da questa vicenda si può trarre una riflessione. Un funzionario pubblico

non ha riconosciuto gli scopi e le attività di un luogo deputato alla scienza,

cedendone i locali per un evento che si collocava fuori dal dominio scientifico.

Non sarebbe altrettanto inopportuno invitare il Mago Otelma in un osservatorio

dell’Istituto Nazionale d’Astrofisica per raccontare di corpi astrali e altri influssi

astrologici? Oppure promuovere una campagna per “sbattezzarsi” in una sala

parrocchiale? È dunque legittimo ipotizzare che l’assessore sia stato vittima di una

confusione: confondere ciò che è scienza e ciò che si presenta come tale, che

magari ambisce a esserlo, ma non lo può essere.

Quello di Brescia potrebbe apparire un caso isolato. Invece non è la prima

volta che l’antievoluzionismo all’italiana esce allo scoperto. C’è almeno un

precedente più illustre. Non occorre risalire al fiero antidarwinismo di letterati e

filosofi tardo-ottocenteschi, né alla goliardica “settimana antievoluzionistica”

milanese lanciata nel 2003 da un’associazione studentesca. È invece una storia del

nuovo millennio che ha per protagonisti ministri e consulenti ministeriali della

Repubblica Italiana, quotidiani nazionali e documenti europei, scienziati,

accademici e semplici cittadini.

Questa vicenda ci ricorda che l’Italia è uno dei pochi Paesi al mondo –

l’unico in Europa – in cui la teoria biologica dell’evoluzione per selezione

naturale è stata cancellata dai programmi scolastici. È una storia che vale la pena

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di raccontare, perché testimonia il tentativo, da parte delle autorità preposte

all’istruzione, di depennare dai curriculum scolastici obbligatori una teoria

scientifica ormai consolidata.

3. Darwin rimandato in scienze

Dal febbraio 1979, nei programmi delle scuole medie, l’insegnamento di “Teoria

dell’evoluzione delle specie” era articolato in quattro punti ampi e precisi:

“Evoluzione della Terra”, “Comparsa della vita sulla Terra”, “Struttura, funzione

ed evoluzione dei viventi”, “Origine ed evoluzione biologica e culturale della

specie umana”. Ma venticinque anni dopo, nel febbraio 2004, qualcosa è

cambiato. L’allora ministro della pubblica istruzione e il consulente ministeriale

per la revisione dei programmi, proposero di escludere dai programmi delle

scuole dell’obbligo l’insegnamento della teoria dell’evoluzione, rimandandolo

alle scuole superiori.

Le motivazioni che portarono alla cancellazione dell’insegnamento, furono

espresse dal consulente ministeriale: in primo luogo, insegnare ai ragazzi le

«sensate esperienze» – ossia il livello dei dati empiricamente controllabili – prima

delle «formalizzazioni teoriche»; in secondo luogo, evitare che i ragazzi

confondessero il piano ideologico degli «evoluzionismi» da quello scientifico

delle «teorie dell’evoluzione».

Un sostegno a queste dichiarazioni sarebbe giunto più avanti da un

ministro-filosofo del governo, secondo il quale se l’evoluzionismo «viene

insegnato in un’età troppo precoce, in cui lo studente non è ancora capace di

distinguere con chiarezza tra scienza, filosofia e religione, è inevitabile che esso

venga inteso in senso sbagliato, creando un danno grave». Il tutto amplificato da

quotidiani nazionali come L’Osservatore Romano, Il Foglio, e soprattutto

Avvenire, che hanno appoggiato l’opera del governo, talvolta con l’aperto rinforzo

di “penne” antidarwiniane.

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Qualcuno però non fu d’accordo. Dodici scienziati italiani spedirono una

lettera di protesta al ministro, affermando che la mancanza della teoria

dell’evoluzione nelle scuole medie era «una dimenticanza [sic] dannosa per la

cultura scientifica delle nuove generazioni» e chiedendo pertanto un riesame dei

programmi. L’appello iniziò a circolare su internet e fu presto rilanciato dal

quotidiano La Repubblica, che in poche settimane raccolse 47mila firme di

protesta: sia da parte di personalità note e meno note del mondo accademico e

scientifico, sia da parte di comuni cittadini.

La sollevazione della comunità scientifica italiana costrinse il ministro a

istituire una “Commissione Darwin” composta da quattro scienziati, tra cui due

premi Nobel. Il compito si presentava d’estrema delicatezza: decidere se

l’insegnamento dell’evoluzione fosse indispensabile per lo studio delle scienze

naturali. Ma avrebbe senso domandarsi se lo studio del sistema solare serva per

comprendere l’astronomia, o se in geologia valga la pena studiare la deriva dei

continenti?

Il giudizio definitivo della Commissione giunse nel febbraio 2005:

l’insegnamento delle scienze nella scuola primaria e secondaria, importante per la

nostra cultura, non può trascurare la teoria dell’evoluzione. In più, insegnare la

teoria dell’evoluzione permette di prevenire il razzismo e l’eugenetica. Così,

l’insegnamento scomparso fu reintegrato nei programmi, benché solo in quelli di

terza media. Un finale felice? Non proprio, poiché il reinserimento fu solo

parziale. Oggi, infatti, il richiamo all’evoluzione compare in questo modo:

“Interazioni reciproche tra geosfera e biosfera, loro coevoluzione. Darwin”.

Tutto qui? Sì, tutto qui: l’insegnamento dell’evoluzione è stato

ridimensionato. Due ministri della pubblica istruzione sono succeduti a quello in

carica nel 2004, ma nulla è cambiato. Della “Teoria dell’evoluzione delle specie”

del 1979, con il punto “Origine ed evoluzione biologica e culturale della specie

umana”, non rimane traccia nella scuola dell’obbligo. Né pare destinata a

ricomparire – per il momento.

Certo, oltre ai programmi ministeriali si dovrebbero considerare anche

altre questioni collegate all’insegnamento dell’evoluzione, per esempio il modo in

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cui questa sezione didattica è riportata nei libri scolastici e quale sia il livello di

conoscenza e accettazione dell’evoluzione da parte dei docenti. I programmi,

infatti, pur se completi dell’evoluzione, servono a poco se i sussidi didattici e le

risorse umane non sono “all’altezza”. Tuttavia, trascurare l’insegnamento di una

teoria scientifica, confermata da un gran numero d’evidenze, rimane una decisione

anacronistica per un Paese civile e per le sue istituzioni. Un eventuale giudizio

negativo sui modi d’insegnamento di una particolare materia a livello della

didattica, non giustifica il mancato riconoscimento dell’importanza di quella

materia a livello ministeriale.

A questo proposito, nell’ottobre 2007, la risoluzione 1580 del Comitato

per la Cultura, la Scienza e l’Educazione dell’Assemblea Parlamentare del

Consiglio d’Europa, votata a maggioranza, ha messo in guardia gli Stati membri

dalla diffusione nelle scuole europee dell’insegnamento del creazionismo, anche

nella versione del “progetto intelligente”. (Il testo completo si può leggere sul sito

web del Consiglio d’Europa, www.assembly.coe.int.) La risoluzione, intitolata

«The dangers of creationism in education», definisce tale insegnamento privo di

scientificità e lo riconosce come un grave ostacolo alla ricerca scientifica. Il

Consiglio, per contro, sprona le autorità preposte all’istruzione a favorire

l’insegnamento dell’evoluzione, considerata «una teoria scientifica fondamentale

nel curriculum scolastico». In particolare, il testo manifesta preoccupazione per la

condizione della scuola italiana. La stessa preoccupazione, però, non era

condivisa da tre dei quattro esponenti politici italiani del Consiglio, che hanno

votato contro l’adozione della risoluzione.

Settimane antievoluzionistiche organizzate da onorevoli e giovanotti

eccitati, conferenze creazioniste concesse nei musei scientifici, insegnamento

dell’evoluzione prima cancellato dai programmi e poi reinserito “annacquato” per

la scuola media… Pare che alcune parti della società italiana abbiano un conto in

sospeso con Darwin. Ma è ragionevole pensare che il nostro Paese sia afflitto da

un atteggiamento di rifiuto nei confronti della cultura scientifica – e in particolare

della teoria evoluzionistica?

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4. Quanta evoluzione nella società italiana?

Non sembra che il contesto sociale italiano guardi con sfavore all’evoluzionismo.

Lo affermano i ricercatori dell’associazione Observa – Science in Society che, nel

2005, hanno condotto una ricerca su un variegato campione d’Italiani (i dati

completi della ricerca sono riportati sul sito www.observa.it). Lo studio è datato,

ma è il più aggiornato sul panorama italiano. Le questioni poste nel sondaggio

riguardavano l’accettazione pubblica dell’evoluzione umana e la legittimità del

suo insegnamento scolastico.

L’evoluzione umana a partire da organismi precedenti risulta convincente

per il 69% degli Italiani, soprattutto tra i più giovani e i più istruiti, mentre un

creazionismo “estremo” convince solo il 17%. L’opinione della maggior parte

degli amici dell’evoluzione umana (quasi quattro su dieci) si assesta su una

posizione simile a quella del cosiddetto “progetto intelligente”: d’accordo, gli

esseri umani si sono sviluppati in milioni di anni evolvendosi a partire da forme

meno avanzate, ma un’entità soprannaturale ha influito sulla “direzione” del

processo. Una sorta di mediazione tra le acquisizioni scientifiche e le proprie

convinzioni religiose.

Spostando l’attenzione su come affrontare a scuola il problema

dell’origine dell’uomo, gli insegnamenti esclusivi della teoria dell’evoluzione e

della visione cristiana della creazione ottengono ciascuno l’assenso di un solo

Italiano su dieci. Invece, qualcosa di simile all’idea del “progetto intelligente”

pare raccogliere la maggioranza dei consensi. Ben 65 intervistati su 100 ritengono

che, per spiegare la nostra origine, si debbano presentare sia la teoria

dell’evoluzione sia la prospettiva cristiana. È una posizione che si distribuisce in

modo omogeneo tra le differenti età e i diversi gradi d’istruzione.

Le ragioni a sostegno del trattamento paritario di teoria evoluzionistica e

dottrina cristiana sono interessanti: un terzo degli intervistati afferma che il

«mistero dell’uomo» sarebbe troppo complesso per essere esaurito dalla

spiegazione scientifica, mentre più della metà reputa che la scuola non dovrebbe

«imporre una sola visione dell’origine dell’uomo». In questo caso, ci troveremmo

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davanti a una specie di principio di “pluralismo educativo”: se possiamo

considerare l’essere umano da molteplici punti di vista, perché lasciare la

spiegazione della sua origine al monopolio della scienza? A un primo sguardo,

pare una motivazione ragionevole.

Tuttavia lascia qualche perplessità. Non saremmo titubanti ad accostare,

per esempio, alle lezioni di chimica anche lezioni d’alchimia? Esporre la tavola

periodica degli elementi assieme alla pietra filosofale e all’elisir di lunga vita? E

perché, durante le ore di fisica, non presentare la teoria del flogisto come una

valida prospettiva? Oppure che la Terra è piatta o cava, che il cielo è fatto d’etere

e la luna di formaggio?

Al massimo, raccontare che grandi uomini hanno creduto in queste

nozioni, potrebbe essere utile per introdurre la storia della scienza o della

filosofia. Ma non sembrano proposte d’insegnamento ragionevoli, perché ciò di

cui parlano non è plausibile o, semplicemente, è falso. Eppure sono tutte

compatibili con l’idea che esistano “misteri” troppo complessi per essere trattati

solo dalla scienza; tutte in accordo con il principio di non “imporre una sola

visione” nello studio delle scienze naturali.

Allo stesso modo, non è chiaro per quale motivo l’insegnamento biologico

dell’origine dell’uomo dovrebbe essere accompagnato (per completarlo o per

bilanciarlo) dai miti cristiani della creazione. Perché non anche da quelli islamici,

o da quelli induisti? Gli adepti del Movimento Raeliano, una setta religiosa che in

Italia conta qualche centinaio di seguaci, credono che gli esseri umani siano stati

prodotti dai genetisti di una civiltà extraterrestre. Dovremmo insegnare anche

questo a scuola, in ossequio al “pluralismo educativo”?

Educare non significa concedere la stessa quantità di tempo a ogni bizzarra

proposta. Riguarda l’insegnamento del meglio delle nostre conoscenze sul mondo

e, soprattutto, dei metodi con cui ci siamo giunti. È possibile, pertanto, che molta

confusione derivi dal fatto che la gente non conosce la natura della scienza e del

suo modo di operare.

Forse, quando abbiamo stabilito per principio che la spiegazione

scientifica è una tra le tante possibili, una spiegazione come tante – e magari non

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autosufficiente, ma bisognosa di puntelli che moderino la sua pretesa di valere

come il meglio che oggi sappiamo su un dato argomento – allora “tutto va bene”.

Va bene concedere luoghi scientifici per propagandare ideologie non

scientifiche. Va bene limitare l’insegnamento delle scienze naturali nelle scuole

dell’obbligo. Va bene accettare l’idea che esistano due spiegazioni sull’origine

dell’uomo, una scientifica e una non scientifica, e che si completino a vicenda o si

equivalgano, tanto da potersi schierare con l’una o con l’altra.

Sembra che, per la maggior parte degli Italiani, si debba applicare alla

didattica di scoperte scientifiche consolidate – almeno nel caso dell’insegnamento

dell’evoluzione – il principio del “tempo paritario”: proprio come accade per gli

interventi dei politici in televisione. Non è che, forse, certi mezzi di

comunicazione di massa hanno una dose di responsabilità per questa visione di

che cosa sia una teoria scientifica?

5. Chiacchierando nei salotti televisivi

Intervistato da un telegiornale nazionale sull’attualità della teoria dell’evoluzione,

il cardinale ha le idee chiare. Dopo averla rinchiusa nel vaso di Pandora in

compagnia di materialismo e ateismo, di relativismo e marxismo, il porporato

termina con questa argomentazione: «Ma Lei – rivolgendosi all’intervistatrice – si

sente discendente da uno scimpanzè? Io no!».

A questo punto, lo spettatore accorto è un po’ confuso. Certo, il servizio

giornalistico in cui compare l’intervista racconta la presentazione di un libro

«fortemente critico nei confronti della teoria dell’evoluzione della specie

formulata da Darwin», quindi non ci si dovrebbero aspettare commenti teneri. Ma

quali competenze consentono a un cardinale di esprimersi così su una teoria

biologica? Nessuna competenza – si potrebbe rispondere: chiunque ha il diritto di

esprimere ciò che pensa. Sono le democratiche “pari opportunità”.

È un principio di moda nei salotti televisivi. Per esempio, se si discute di

bioetica, accanto al medico o al giurista spesso compare il teologo. Quando un

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geologo, in accordo con la comunità internazionale, sostiene che non è ancora

possibile fare una previsione deterministica dei terremoti, bisogna che dica la sua

chi invece – magari non geologo – ritiene di prevederli. E chi parla di biologia, in

particolare d’evoluzione, gode di uno status particolare: gli si deve sempre

contrapporre un creazionista. Dopotutto, non è proprio la teoria dell’evoluzione

che è diventata oggetto d’attacchi senza paragoni in altri ambiti attuali della

ricerca scientifica? Pertanto è giusto che si difenda.

Questa idea sarebbe ragionevole, se le critiche venissero dalla scienza

stessa e fossero conformi a risultati ottenuti con metodo scientifico. Purtroppo, chi

studia i meccanismi dell’evoluzione o si occupa un po’ d’epistemologia, concorda

che il creazionismo non sia scienza, ma rientri in quel calderone fatato, chiamato

pseudoscienza, dove bollono gli UFO e le case stregate, l’abominevole uomo

delle nevi e i fiori di Bach, la sicura combinazione del lotto e la bacchetta da

rabdomante.

Certo, il moderno creazionista rispolvera l’abito vecchio chiamandolo

“creazionismo scientifico” o “scienza della creazione” o “teoria del progetto

intelligente”, ma lo fa per intrufolarsi nel dibattito razionale e – benché non sia

ancora il caso italiano – per ottenere che alle proprie idee sia attribuito un “tempo

paritetico” con l’insegnamento dell’evoluzione.

L’idea della “scienza della creazione” è che una mano divina abbia influito

sul corso dell’evoluzione. Alcuni sistemi biologici sarebbero troppo complessi, le

differenze tra specie troppo ampie, e le esplosioni fossili periodiche troppo

improvvise, per essere spiegati soltanto dalla selezione naturale. Si descriverebbe

meglio lo sviluppo della vita sulla Terra se si ammettesse l’intervento di un

creatore intelligente. In realtà, gli argomenti contro la teoria dell’evoluzione sono

scientifici solo in apparenza, negano l’evidenza empirica, acutizzano le

controversie tra biologi e ne approfittano, o presentano al pubblico caricature

della teoria, come il nostro cardinale in TV.

Di recente, questo modo di condurre i dibattiti è uscito dalle chiacchierate

televisive, cercando di incunearsi, senza successo, in spazi accademici. È di metà

ottobre la notizia, diffusa da Pikaia, del primo congresso antievoluzionista in

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Italia. Due giornate di conferenze dal titolo: “Che cosa resta di Darwin?”. Il luogo

scelto non era “neutrale”: si trattava della Facoltà di Lettere e Filosofia

dell’Università di Bergamo.

All’inizio, pare che alcuni accademici evoluzionisti (perlopiù filosofi e

storici) avessero accettato di partecipare a una tavola rotonda con gli

antievoluzionisti, salvo poi fare marcia indietro a causa di “incomprensioni”, che

hanno portato l’Università bergamasca a non concedere più i propri spazi. Gli

organizzatori del convegno si sono allora trasferiti in un albergo di Milano. Del

“ripensamento” accademico ha dato notizia il sito web del quotidiano Libero e,

stando ai responsabili del congresso, nessuno degli evoluzionisti invitati – tranne

uno – avrebbero presenziato.

Queste situazioni mettono di fronte a un problema di etica della

comunicazione scientifica, che un comunicatore dovrebbe porsi: gli scienziati

dovrebbero accettare di confrontarsi in pubblico con questi avversari oppure

declinare l’invito?

6. Un dilemma di comunicazione scientifica

Due relatori partecipano a una conferenza. Il primo, in giacca verde, ha un eloquio

prudente ma deciso, mentre espone alla platea il suo intervento: «Potete vedere

che c’è un dibattito nella comunità scientifica sui dettagli dell’evoluzione». Subito

il suo opponente lo incalza: «Ah, allora Lei ammette che l’evoluzione è una

finzione e che gli scienziati contestano la teoria dell’evoluzione!» Il relatore in

giacca verde tenta di spiegare, ma la valanga di parole dell’avversario lo travolge:

«Gente, avete sentito: l’evoluzione è una truffa!». A nulla valgono i tentativi

dell’altro di replicare: il contendente non gli lascia spazio e chiude il dibattito,

ringraziando il pubblico e augurando buonanotte.

Questa vignetta umoristica, pubblicata da Understanding Evolution, uno

dei maggiori siti web sulla comunicazione pubblica dell’evoluzione, rappresenta

una controversia tra scienziati e creazionisti – una situazione frequente

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oltreoceano. Dà però un’idea ragionevole di come si potrebbe svolgere un simile

dibattito anche da noi. È un incontro auspicabile? Proviamo a cercare una risposta

allargando l’obiettivo e volgendoci verso quei luoghi dove la controversia

evoluzione-creazione è più accesa.

La vignetta enuncia per immagini un problema comunicativo molto

avvertito nei Paesi anglosassoni. Nell’aprile 2005 un editoriale di Nature ha

messo in guardia dalla crescita d’attrattiva per il “progetto intelligente” tra gli

studenti americani, indicando le responsabilità degli scienziati, che non sarebbero

capaci di trasmettere con coinvolgimento l’impresa scientifica, tanto nei mezzi di

comunicazione, quanto negli ambienti accademici.

Nel 2002 la rivista American Scientist aveva già pubblicato le “quindici

risposte ai nonsensi creazionisti” e lo stesso sito Understanding Evolution dedica

una sezione a fugare i malintesi intorno all’evoluzione, che spesso sono la base di

quei “nonsensi”. Anche il famoso manuale per studenti universitari Evolution

(2005) del biologo Douglas Futuyma spende un capitolo per discutere – e

demolire – le tesi creazioniste.

Forse sono tutti segni del fatto che chi si occupa d’evoluzione farebbe

meglio a conoscere le armi dei creazionisti e a sapere come ribattere colpo su

colpo. Ma allora, se come abbiamo accennato le armi dei creazionisti (i loro

“argomenti” e le loro presunte “prove”) sono senza punta e senza lama, perché gli

scienziati dovrebbero guardarsi bene dal raccogliere il guanto del duello?

Nel dicembre 2001, due grandi evoluzionisti, Richard Dawkins e Stephen

J. Gould, concordarono di firmare una lettera-manifesto diretta ai colleghi del

mondo accademico. A causa della morte di Gould, la lettera non fu più pubblicata

sul settimanale culturale per cui era stata scritta, ma la si può trovare oggi nel

saggio Il cappellano del diavolo di Dawkins (2003).

Secondo i due, ai creazionisti non importa “vincere” nel confronto con gli

scienziati: «Il colpo a cui mirano è semplicemente il riconoscimento che discende

anzitutto dalla possibilità che viene loro offerta di condividere un palco con un

vero scienziato. Questo darà agli spettatori inconsapevoli l’idea che vi siano in

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ballo argomenti su cui davvero vale la pena discutere e che in un certo qual modo

i contendenti giochino ad armi pari».

Il dubbio che affliggeva i due scienziati era: quale effetto può sortire sugli

spettatori una disputa del genere? Quale sarà il messaggio implicito trasmesso?

Dibattere pubblicamente con “esperti” antievoluzionisti, magari nelle aule

universitarie o nelle sale dei musei scientifici, darebbe una patina di scientificità a

idee che non hanno nulla di scientifico, perché non portano evidenze a loro favore

e poggiano su fraintendimenti o, peggio, su dogmi. Questa implicita ammissione

di pari autorevolezza e dignità scientifiche – per riprendere Dawkins e Gould –

sarebbe proprio ciò a cui gli antievoluzionisti ambiscono. Ma l’effetto risulterebbe

deleterio su una platea impreparata, perché si creerebbe confusione tra ciò che è

scienza e ciò che non lo è.

Tuttavia, si potrebbe essere in disaccordo con questa prospettiva. La

scienza fa della fallibilità e dell’antidogmatismo i propri caratteri specifici,

applicandoli anzitutto a se stessa. Perciò non dovrebbe sottrarsi al confronto; al

contrario, dovrebbe rispondere a chi la avversa, persuadendo l’uditorio con la

forza della logica e dell’argomentazione. In caso contrario, lo scienziato potrebbe

essere accusato di respingere il dialogo e d’essere tanto dogmatico quanto i suoi

avversari.

È una posizione che si potrebbe richiamare al Saggio sulla libertà di John

Stuart Mill (1859), dove il filosofo britannico, discutendo della libertà di pensiero

e d’espressione, argomenta così: «Rifiutarsi di ascoltare un’opinione perché si è

certi che è falsa significa presupporre che la propria certezza coincida con la

certezza assoluta. Ogni soppressione della discussione è una presunzione

d’infallibilità: per condannarla basta questo ragionamento, semplice, ma non per

questo inefficace».

Vediamo così che il problema, da cui siamo partiti, si può compendiare in

un “dilemma comunicativo”: o gli scienziati evitano il confronto con i loro

antagonisti, ma così sembrano arroccarsi sulla difensiva, dando l’idea di rifiutare

la discussione per difendere un’ortodossia; oppure gli scienziati accettano il

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confronto con i loro antagonisti, ma così offrono alla controparte

un’autorevolezza e una rispettabilità scientifica che non meritano.

Una soluzione del secondo tipo avrebbe almeno un vantaggio.

Impedirebbe agli antievoluzionisti di occupare da soli gli spazi dei mezzi di

comunicazione, evitando così a un pubblico di massa, e quindi perlopiù di “non

addetti ai lavori”, di finire preda dei nonsensi creazionisti. Purtroppo, però, in

questo caso si corre il “rischio” prospettato dalla vignetta umoristica perché, come

illustrano Dawkins e Gould, non si gioca ad armi pari.

Difatti le modalità di comunicazione dei contendenti sono diverse e, in una

certa misura, incompatibili. Come ha ricordato Telmo Pievani in Creazione senza

Dio (2006), lo scienziato, o il comunicatore scientifico in genere, deve articolare

spiegazioni, chiarire concetti poco noti, formulare argomenti solidi e mostrare

evidenze empiriche a sostegno di quanto afferma. Tutto ciò è difficile da

compendiare nei rapidi tempi mediatici, e gravoso da gestire quando la

controparte (è il caso dei creazionisti) non segue le regole “cavalleresche” del

dialogo. Un confronto televisivo tra un evoluzionista e un creazionista forse

alzerebbe gli ascolti, ma non offrirebbe un buon servizio di comunicazione della

scienza.

Se le cose stanno così, esistono buone ragioni per cui un evoluzionista

dovrebbe disquisire con un creazionista sulla natura degli eventi biologici?

Difficili da trovare. Non ci sono convergenze rilevanti sul contenuto, né sui

metodi, né sugli scopi. Da una parte, c’è l’applicazione del metodo scientifico;

cosa che, dall’altra parte, non si trova. Semplicemente, le due persone fanno

mestieri diversi. Non sembra perciò che un creazionista abbia qualcosa

d’importante da dire a un evoluzionista intorno al mondo biologico, benché sia

proprio questo il messaggio implicito trasmesso da certi dibattiti pubblici.

Da quanto abbiamo visto finora, si evince che la situazione in cui si trova

la comunicazione dell’evoluzione in Italia è complessa e delicata. Un

antievoluzionismo “intermittente” compare a vari livelli della società, rinforzato

da una generale accondiscendenza degli Italiani per un malinteso principio di

“pari opportunità”, alla cui legittimazione e diffusione i mass-media sembrano

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aver contribuito. Che cosa potrebbe fare allora un comunicatore, per esempio un

giornalista che dovesse comunicare la teoria dell’evoluzione, per offrire un buon

servizio alla comprensione pubblica della scienza?

7. “Evoluzione” rima con “comunicazione”

Di seguito ci sono quattro suggerimenti. Non pretendono di essere esaustivi o

brillare per originalità (specie agli occhi di comunicatori scientifici esperti), né di

essere una panacea. Forse però hanno il pregio di mettere ordine nella confusione

creata ad hoc dagli antievoluzionisti e spesso amplificata dai media. Sono un

piccolo vademecum per “dare a Darwin ciò che è di Darwin”.

Anzitutto, raccontare il percorso intellettuale che ha portato gli scienziati

a formulare e accettare la teoria dell’evoluzione. In Italia, questa strategia

comunicativa è stata adottata, recentemente e con successo, da alcuni musei in

occasione di mostre per il duecentesimo “compleanno” di Darwin e il

centocinquantesimo anniversario della pubblicazione de L’origine delle specie. È

il caso, per esempio, della mostra itinerante Darwin 1809-2009 e della mostra

Charles Darwin dell’ateneo padovano.

Questo primo aspetto risponde a un’esigenza più generale rilevata sia da

scienziati sia da giornalisti scientifici (tra i primi Massimo Pigliucci, tra i secondi

Piero Bianucci). Spesso, chi comunica con il grande pubblico, non fornisce una

buona presentazione della “natura” della scienza attraverso il suo modo di operare.

Comunicare solo, e magari in quantità, il “che cosa” della scienza (ciò che gli

scienziati hanno trovato circa questa o quella materia) non basta. Se si valorizza

soprattutto il “come” della ricerca scientifica, e si fa apprezzare alla gente un

metodo critico e razionale di pensiero, è auspicabile che esso trovi applicazione in

ogni settore della società.

In secondo luogo, mostrare perché è rilevante comprendere l’evoluzione

nella vita quotidiana. La conoscenza dell’evoluzione contribuisce a capire aspetti

che ci riguardano da vicino, dalla salute alla medicina, dall’agricoltura

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all’ambiente, dalla conservazione alla biodiversità. Ci consente di affrontare con

maggiore consapevolezza e responsabilità i problemi della bioetica e

dell’ecologia. E, non da ultimo, ci racconta qualcosa d’importante sull’umanità: ci

dice che cosa siamo. Non per nulla la biologia evoluzionistica è un fondamento

dell’antropologia e della sociologia, della psicologia e delle neuroscienze.

Basterebbe questo per intuire che eliminare lo studio dell’evoluzione dai

programmi scolastici è un atto miope per un Paese che tiene al suo futuro. Al

contrario, il creazionismo non contribuisce in alcun modo alla ricerca e alla

crescita della nostra conoscenza del mondo e di noi stessi.

In terzo luogo, esplicitare i concetti-chiave della teoria. Almeno a un

primo livello d’analisi, non sono molti e possono essere compresi da chiunque. La

tesi centrale della teoria dell’evoluzione è che le specie viventi, nonostante la

diversità di forme e modi di vita, discendono (con modificazioni) da antenati

comuni. Il vantaggio di questo concetto è che può essere presentato per immagini.

Darwin stesso, nei taccuini di viaggio, formulò la metafora dell’“albero [o corallo]

della vita” per comunicare la sua idea. In seguito, illustri successori hanno

analizzato pregi ed elementi di criticità di questo metodo comunicativo, per

esempio il citato Gould ne La vita meravigliosa (1989).

L’immagine dell’“albero della vita”, benché vantaggiosa in prima

approssimazione, va utilizzata con cautela e consapevolezza per essere efficace. Il

rischio, infatti, è veicolare concetti che non riguardano la teoria dell’evoluzione,

falsandone così la comprensione da parte dei non esperti. Per esempio, concetti

come quelli di “linearità”, di “progresso”, di “finalità”, che la vulgata attribuisce

all’evoluzione, sono estranei alla teoria.

Come può un disegno generare questi malintesi? Immaginiamo un

diagramma ad albero con molte ramificazioni, sulle cui estremità (le punte dei

rami) siano raffigurate, da sinistra a destra, le varie classi di animali: la prima

punta per i pesci, la seconda per gli anfibi, la successiva per i rettili, e così via.

Leggendo l’albero “sulle punte” escludendo le ramificazioni sottostanti, il lettore

non specialista potrà credere che l’evoluzione dei viventi implichi un progresso

nel tempo dal semplice al complesso, ossia una certa linearità.

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In questo modo, un uso superficiale dell’“albero” può suggerire che

l’evoluzione sia una singola progressione lineare da specie primitive a specie

avanzate: dal pesce all’anfibio, quindi al rettile e al mammifero, con l’uomo che,

al culmine della scala, interpreta la parte del “re” della natura. Ciò che viene dopo

sarebbe migliore di ciò che viene prima: una lettura che combina la narrazione

della vita sulla Terra con un giudizio di valore. È una miscela esplosiva per una

buona comunicazione della scienza, poiché applica alla teoria dell’evoluzione

nozioni che non le sono proprie.

Infine, esibire le evidenze a favore dell’evoluzione. I resti fossili e le

caratteristiche di “somiglianza” tra specie differenti, la distribuzione geografica

degli organismi e le scoperte sul DNA, non sono solo strumenti utili per

persuadere il destinatario della realtà dell’evoluzione, ma una testimonianza di

quanto la scienza evoluzionistica sia un’impresa collettiva, che si avvale dei

contributi di biologia e paleontologia, di genetica e geologia.

Chi non è d’accordo con la scoperta di Darwin e con le sue attuali

evidenze ha il diritto di esprimere il disaccordo, ma ha l’onere della controprova.

Finora nessuno è riuscito in questo compito. Certo, nulla vieta di pensare che un

giorno ci riuscirà. Ma privo per principio di un metodo che considera le cause

naturali, di un progetto di ricerca sperimentale, di dati verificabili, e di risultati

valutabili da una comunità internazionale, si può ragionevolmente dubitare del

suo successo.

Non si tratta perciò di zittire legittime opinioni, invocando la propria

infallibilità. Difatti, come ci ricorda il filosofo Mill, «se si vietasse di dubitare

della filosofia di Newton, gli uomini non potrebbero sentirsi così certi della sua

verità come lo sono» perché «le nostre convinzioni più giustificate non riposano

su altra salvaguardia che su invito permanente a tutto il mondo a dimostrarle

infondate». Si tratta piuttosto di far giungere ai propri destinatari – quanti e quali

siano – la “voce” della scienza in modo forte e chiaro.

Questo sembra uno dei compiti del comunicatore scientifico: dissolvere le

nebbie dell’incomprensione, portare chiarezza dove c’è confusione. Non è un

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lavoro da poco: significa contribuire alla formazione di una società meno

ideologica e, perciò, più saggia, più libera e – forse – più felice.

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BIBLIOGRAFIA

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RINGRAZIAMENTI

Desidero ringraziare coloro che mi hanno aiutato e sostenuto nella stesura di

questa prova finale. Senza il loro supporto questo testo sarebbe peggiore di

quello che è, ma nulla di ciò che ho scritto – d’incomprensibile, inesatto o banale

– è di loro responsabilità.

Anzitutto il Dott. Giuseppe Fusco del Dipartimento di Biologia

dell’Università di Padova, per avermi seguito con competenza e inaspettata

disponibilità nella stesura di queste pagine.

Il Dott. Tiziano Trevisan, anche lui del Dipartimento di Biologia, per

avermi concesso abbondante materiale sulla situazione scolastica nel nostro

Paese per quanto riguarda l’insegnamento dell’evoluzione.

La Dott.ssa Giulia Mascarello, responsabile dell’Ufficio stampa di

Observa – Science in Society, per avermi fornito i dati relativi all’accettazione

pubblica dell’evoluzione in Italia.

Il Dott. Raffaele Carcano, segretario nazionale dell’UAAR, e il Dott.

Francesco D’Alpa, dell’Osservatorio UAAR sui fenomeni religiosi, per la gentile

e amichevole collaborazione.

I Proff. Fabio Grigenti e Alessandro Minelli, perché durante le loro

conferenze pubbliche hanno chiarito molti miei dubbi sulla teoria di Darwin –

stimolando nuove domande.

Tutti i colleghi e le colleghe del Master in Comunicazione delle Scienze

2009 perché, grazie al loro calore, alla loro simpatia, e alla loro vivace

intelligenza, mi hanno onorato della loro amicizia. Grazie di cuore, gente!

Da ultima, ma non per importanza, ringrazio la Dott.ssa Roberta Pileggi

del Dipartimento di Scienze della Comunicazione dell’Università di Verona, che

con le sue competenze giornalistiche mi ha offerto ottimi suggerimenti, mi ha

sempre incoraggiato e mi è stata ad ascoltare quando ne avevo bisogno,

trasformando ogni conversazione in una piacevole scoperta.

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