+ All Categories
Home > Documents > Don Antonio tra foro criminale e foro ecclesiastico (Bologna, XVIII secolo)

Don Antonio tra foro criminale e foro ecclesiastico (Bologna, XVIII secolo)

Date post: 24-Apr-2023
Category:
Upload: independent
View: 0 times
Download: 0 times
Share this document with a friend
89
1 Don Antonio e i suoi giudici. Storie criminali fra foro laico e foro ecclesiastico (Bologna, fine XVII- metà XVIII secolo)
Transcript

1

Don Antonio e i suoi giudici.

Storie criminali fra foro laico e foro ecclesiastico (Bologna, fine XVII-

metà XVIII secolo)

2

Indice

1. Il foro criminale del Torrone

2. La procedura del Torrone

3. Degradazione ed esecuzione

4. Preti non disciplinati

5. Un caso «teribile e tremendo»

6. Il foro laico

7. Confini superabili e prove vacillanti

8. Il foro ecclesiastico

9. Lo «Stallone» e il «Mulo»

10. Adulterio e incesto

11. Origliare e spiare

12. Omicidio, disgrazia o suicidio ?

13. Il processo difensivo

14. Il secondo processo del tribunale criminale del Torrone

15. Il processo di don Lugatti

16. La condanna e la grazia

17. Conclusione

Nota bibliografica

3

1. Il foro criminale del Torrone.

Il primo decennio del pontificato di Benedetto XIV, il bolognese Prospero

Lambertini, fu un periodo di particolare debolezza economica per i territori soggetti

alla Santa Sede. La gravità della crisi emerse dopo l’invasione delle truppe che

avevano transitato in Italia durante la lunga guerra di successione austriaca (1740-

1748). In mancanza di studi dettagliati sulle comunità, l’entità dei danni subiti nello

Stato pontificio alla fine delle ostilità si può valutare dall’ammontare del deficit

dovuto alle sole cause belliche, che fu calcolato attorno ad un milione di scudi. A

Bologna l’economia aveva subito un tracollo come conseguenza della crisi della

manifattura serica, che nei secoli precedenti aveva assorbito gran parte della

manodopera maschile e femminile nelle occupazioni connesse alla produzione del

filato e dei tessuti. Un taglio drastico dei salari delle maestranze e la riduzione

dell’attività manifatturiera si erano già verificati nel decennio precedente, in

concomitanza con la guerra di successione polacca (1733-1738). Le ripercussioni

nella società, a tutti i livelli, di questo crollo progressivo sono chiaramente visibili nei

fascicoli processuali del tribunale criminale del Torrone. Dagli anni Trenta del

Settecento il quadro che emerge riflette la crisi della manifattura: le ruote dei mulini

da seta sono ferme, i mercanti non comprano più materia prima per farli produrre e

molti filatolieri – gli operai dei filatoi - sono disoccupati. I più intraprendenti cercano

di trovare lavoro come facchini, offrendo i loro servigi nelle strade di Bologna con un

sacco sulle spalle, spesso attaccando briga con altri disperati per contendersi un

trasporto per conto dei signori; gli altri vivono di espedienti e di piccoli furti.

Le carte processuali ci trasmettono il progressivo degrado della società,

l’abbrutimento dei più poveri fra i quali l’alcolismo è tanto diffuso da essere addotto

come attenuante negli episodi di violenza che vengono perseguiti dal tribunale

criminale. Da questa fonte risulta anche che a Bologna era frequente la violenza

gratuita, quella che veniva subita da un coniuge o da un compagno di gioco (alle

carte, alle bocce) con il quale si era scommesso per una bevuta, la violenza non

finalizzata a uno scopo come lo erano invece atti criminosi compiuti per vendetta o

per soggiogare i più deboli che sembrano essere reati più diffusi fuori dalle mura. Ma

quello che veramente caratterizza l’ambiente urbano negli anni centrali del secolo,

anche come conseguenza della crisi, è una pervasiva microcriminalità che si

manifesta quasi esclusivamente come minaccia alla proprietà; di conseguenza il

furto, anche di beni di scarso o di scarsissimo valore, è perseguito dal tribunale

criminale con tenacia e spietatezza. Il furto spaventa i benpensanti e va punito con

sentenze dure: molti anni di galera o di lavori forzati. Un omicidio commesso in stato

di ebbrezza è considerato non premeditato, e quindi passibile di una pena più lieve

del furto di galline, se reiterato.

E’ vero che a metà del Settecento la pena di morte è inflitta e applicata sempre più

raramente per reati di sangue, ma nello stesso periodo aver rubato qualche cosa per

mangiare non è considerato un’attenuante. Nei diciannove anni di pontificato di

Benedetto XIV (1740-1758) furono eseguite diciassette sentenze capitali; di esse

4

alcune furono la pena per furti ripetuti e/o qualificati, cioè con aggravanti accertate

come la violazione di domicilio, lo scassinamento di serrature e ovviamente l’uso

delle armi. Per Giovanni Giacomo Gavarutti di Sassoleone, suppliziato nel 1743, il

reato per il quale venne giudicato fu l’omicidio proditorio a scopo di rapina oltre a

molti altri furti non aggravati. Uno sbirro originario del Modenese, Giovanni

Mengoli, detto La Bella Giovanna, fu impiccato e poi squartato nel 1744 per il furto

sacrilego di una sacra pisside e di un ostensorio. Un bolognese, Giovanni Bernardi

detto Arlina fu impiccato come grassatore di strada nel 1746 mentre un altro

bolognese, Carl’Antonio Bernardi, nello stesso anno fu giustiziato per falsificazione

di monete. Nel 1752 Arcangelo Pedini, di sessantadue anni, originario di S. Pietro in

Casale, dopo una vita spesa fingendosi cieco di giorno e rubando di notte, finì sulla

forca come, cinque anni più tardi, Francesco Guizzardi di Zola Predosa. Entrambi

erano stati imputati di furti qualificati, di intrusioni nelle case con manomissioni di

porte o scalata di muri.

Molti miserabili convergevano verso la città dal contado e anche da altre parti dello

stato o da altri stati: per questo i forestieri erano visti con sospetto perché assimilati

tout court a vagabondi, mendicanti e ladri. I confini fra queste condizioni non erano

netti: non avere fissa dimora, vivere di elemosine e non di lavoro poteva essere

l’identikit del poveraccio ma anche del furfante. Molto frequenti, nelle carte

processuali, sono i fermi di sospetti che erano perseguiti perché oziosi; se non erano

in grado di dimostrare che avevano rendite, o un salario, o una famiglia che li

manteneva, si supponeva che rubassero o che avrebbero potuto farlo. Ci sono casi di

persone arrestate semplicemente perché sorprese a godersi il sole durante una

giornata lavorativa e che, anche se non imputabili di nulla, venivano spesso

preventivamente esiliati.

Per un verso i giudici erano implacabili con i ladri e per l’altro applicavano

sempre più raramente la tortura: nel 1750, l’anno che ho scelto come campione per

uno spoglio completo dei fascicoli (circa 500), si contano sì e no una decina di casi di

inquisiti che vennero messi alle corde. Negli elenchi dei giustiziati di questo periodo,

tuttavia, ci sono due casi di esecuzioni con pene atroci aggiuntive alla condanna a

morte che venivano inflitte con intenti dissuasivi in casi di reati particolarmente

efferati. Erano macabri spettacoli offerti alle folle che assistevano ai supplizi in

piazza e che servivano ad esibire l’implacabile efficacia della giustizia sovrana. Oltre

al caso della Bella Giovanna, squartato, abbiamo quello di Giuseppe Spisani, un

bolognese di ventidue anni che fu mazzolato vivo e scannato, e poi a sua volta

squartato. L’accusa era di omicidio proditorio e latrocinio; la vittima era frate

Francesco Nobili e il crimine era avvenuto nel monastero cittadino di S. Giovanni in

Monte.

Un confronto con il periodo antecedente ci dice però come anche questi rituali di

morte tendessero a scomparire:dal 1700 al 1719 le condanne allo squartamento, con o

senza mazzolamento e scannamento, sono otto, alle quali si debbono aggiungere

quattro casi in cui i cadaveri dei giustiziati furono dati alla dissezione per le lezioni di

anatomia che, se meno atroce perché eseguita da chirurghi e non dal boia e non in

pubblico, era ugualmente considerata una pena aggiuntiva perché violava l’integrità

5

del corpo. Nel periodo 1720/1739 ci sono tre casi di impiccagione e di squartamento

e tre di cadaveri dati all’anatomia. Il trend discendente è confermato dopo il 1758: da

quell’anno alla fine del secolo ci fu una sola condanna allo squartamento, per

Bartolomeo Mazza, colpevole di omicidio con qualità di latrocinio, dunque ancora

una sentenza esemplare per punire, insieme con l’omicidio, il crimine più odioso: il

furto.

Ho scelto il 1750 come anno campione perché mi è sembrato che costituisse un

buon punto di osservazione della società locale:sia pure già fuori dalla guerra, in un

clima generale di aperture ai dibattiti sulle riforme e con non pochi esempi di carriere

fortunate propiziate dal favore papale, il diffuso vagabondaggio è per i cittadini

abbienti una quotidiana fonte d’ansia. Soprattutto, è un anno importante per una

verifica di come le procedure di giustizia criminale avessero recepito le nuove

Costituzioni del tribunale criminale che erano state pubblicate da poco, nel 1744, e

che avrebbero dovuto ovviare ai numerosi abusi nell’amministrazione della giustizia

che il Senato – l’organo rappresentativo del patriziato della città - era venuto

denunciando nei secoli precedenti.

Nel corso dell’età moderna a Bologna la giustizia criminale fu amministrata da un

giudice unico, l’uditore del Torrone, il foro criminale che doveva il suo nome alla

massiccia torre del Palazzo pubblico in cui avevano sede gli uffici e le carceri. Nei

primi decenni che seguirono la caduta del dominio dei Bentivoglio (1506) il Senato

aveva tentato ripetutamente senza riuscirci di farsi riconoscere il diritto di esercitare

un controllo, almeno parziale, sulla amministrazione della giustizia criminale,

proponendo l’istituzione di un tribunale collegiale composto da cinque giudici

forestieri designati dal Senato stesso. Gli uditori del Torrone erano nominati

direttamente dal papa, al quale erano tenuti a rispondere del proprio operato, ma la

loro attività era sottoposta al controllo e al potere decisionale dei cardinali legati

inviati al governo della Legazione di Bologna, che comprendeva la città e del suo

territorio, e dei vicelegati che li sostituivano quando, come accadeva di frequente e a

volte anche per periodi lunghi, questi erano assenti. La stessa esistenza del tribunale

del Torrone, a prescindere dal suo concreto operato, fu sempre sentita dal patriziato

bolognese come una delle manifestazioni più intollerabili e odiose di un potere

legatizio spesso accusato di essere dispotico e oppressivo, soprattutto nel corso del

XVII secolo. Il mandato dei legati variava ma come minimo durava tre anni.

Eccezionale, anche se non unica, fu la permanenza in carica del cardinale Giorgio

Doria, dal 1744 al 1754.

L’attività del foro criminale era regolata da Costituzioni le prime delle quali

vennero emanate alla metà del Cinquecento e poi periodicamente riformate fino ad

arrivare a quelle Costituzioni benedettine che sono il contesto normativo al quale fare

riferimento nel valutare le procedure del Torrone a metà Settecento. Tutte le

Costituzioni fissavano i doveri dell’uditore che era tenuto ad interrogare il più

celermente possibile imputati e testimoni, soprattutto nel caso si trattasse di contadini

e di artigiani, per limitare le spese di un lungo soggiorno o carcerazione a Bologna e i

danni economici derivanti dalla interruzione dell’attività lavorativa. Di fatto però

raramente l’uditore interveniva di persona negli interrogatori ed era sostituito da uno

6

dei due sottuditori che gli erano sottoposti, anche se la valutazione degli elementi

raccolti dipendeva in ultima istanza solo da lui.

Agli otto notai titolari di altrettanti uffici (gli sgabelli) le Costituzioni

assegnavano esclusivamente il compito di raccogliere le denunce per sottoporle poi

all’uditore, che avrebbe deciso a quali dare corso, e di trascrivere nei propri registri i

verbali degli interrogatori condotti dall’uditore o dai sottuditori. In realtà, a causa

della mole di lavoro, molto spesso i notai procedevano essi stessi agli interrogatori

nei processi per reati poco rilevanti, soprattutto in contado, o agli interrogatori

preliminari dei testimoni nei casi più difficili. Ai sottuditori, sia in città che in

contado, veniva affidata la reponsabilità degli interrogatori dei testi chiave. L’uditore

in genere interveniva personalmente soltanto nelle fasi cruciali dei procedimenti per

delitti particolarmente gravi o quando appariva probabile che si dovesse ricorrere alla

tortura. Ciò conferiva evidentemente ai notai, soprattutto nel caso delle cavalcate in

cui erano fisicamente lontani dai loro superiori, un potere di fatto di gran lunga

maggiore a quello previsto dalla normativa. Tuttavia nelle carte processuali

rimangono tracce evidenti dello stretto controllo operato dagli uditori sui notai, di cui

esaminavano i registri e ai quali, quando erano in cavalcata, scrivevano

quotidianamente per avere notizie dei procedimenti in corso e per dare dettagliate

istruzioni.

In ogni caso i notai non avevano nessuna voce in capitolo nella fase conclusiva dei

procedimenti e la sentenza era sempre stesa e sottoscritta dall’uditore. Le Costituzioni

dedicavano inoltre ampio spazio alle tariffe che i notai potevano esigere come loro

compenso (la sportula) per ogni atto eseguito. Erano infatti soprattutto gli abusi nella

riscossione delle sportule che suscitavano le continue lamentele dei bolognesi contro

l’avidità dei ministri del Torrone. La giustizia era invisa perché costava cara e un

imputato che, una volta contestatigli i capi d’accusa, avesse voluto citare nuovi testi a

discarico, o far controinterrogare quelli già sentiti, avrebbe dovuto pagare di tasca

sua.

La cavalcata consisteva nell’invio di un sottuditore, insieme con un notaio, o del

solo notaio, sul luogo in cui si era verificato un reato per poter raccogliere

testimonianze direttamente dai paesani e dai vicini della vittima o del presunto reo

per stabilire anzitutto se si era trattato di un reato – ad esempio se le circostanze del

ritrovamento di un cadavere facevano pensare a un fatto delittuoso o accidentale – e

secondariamente chi poteva esserne sospettato. Quando le testimonianze raccolte

sembravano sufficienti, la cavalcata tornava a Bologna obbligando però i testi chiave

a presentarsi in Torrone, se citati, per essere di nuovo interrogati e, qualora fosse

necessario, per far ripetere loro davanti all’accusato gli elementi incriminanti emersi

in precedenza. La cavalcata, che in genere era accompagnata, nei casi di omicidio o

di ferimento grave, da un piccolo drappello di sbirri, doveva anche tentare di arrivare

tempestivamente sul luogo del delitto per evitare che i presunti colpevoli si dessero

alla macchia. Anche questo trasferimento della corte inquirente nel contado gravava

sulle comunità, che erano tenute a pagare le diarie (i viatici) a sottuditori e notai a

meno che non fosse individuato con certezza un indiziato al quale accollare la spesa,

7

anche sequestrando cautelativamente i suoi beni. E’ il caso ad esempio di certi fatti di

sangue compiuti al cospetto di un intero paese.

8

2. La procedura del Torrone

Per avviare un procedimento occorreva una denuncia della parte lesa, sporta

direttamente (come per lo più avveniva in città) o col tramite dei massari per gli

abitanti del contado. I massari erano i rappresentanti delle comunità rurali, eletti

annualmente fra le persone più benestanti, che dovevano essenzialmente curare la

riscossione delle imposte sull’estimo (rispondendo di tasca propria quando i

pagamenti dovuti non venivano corrisposti dai contadini proprietari più poveri) e

procedere ai primi accertamenti in caso di reati: erano loro che si preoccupavano di

far sorvegliare la scena del delitto, che segnalavano ai giudici del Torrone le nubili

gravide, che facevano suonare le campane a stormo per chiamare tutto il paese alla

cattura di un criminale. Erano loro, infine, che dovevano recarsi a Bologna a portare

le denunce che avevano ricevuto dai paesani e che nella maggior parte dei casi

vergavano di loro pugno.

Il processo veniva avviato quando una denuncia era sostenuta da indizi sufficienti e

da testimoni disposti a confermare l’accusa del querelante, tranne nel caso di reati

particolarmente gravi - come lesa maestà, assassinio, incendio doloso,

avvelenamento, falsificazione di moneta, stupro violento, blasfemia, resistenza ai

pubblici ufficiali - per i quali l’uditore poteva procedere per dovere della sua carica

(ex officio), ma sempre avendo prima accertato l’esistenza di ragionevoli indizi e a

seguito di una denuncia formalmente presentata dal caporale, dal tenente o

direttamente dal capitano degli sbirri, il bargello. Gli sbirri, in città come in contado,

svolgevano indagini preliminari cercando di raccogliere le voci che circolavano nel

paese o nel quartiere. Il 2 giugno 1750 il bargello Giuseppe Ravera fece rapporto

dopo aver avuto ordine dal legato Giorgio Doria di prendere informazioni sulla

fondatezza delle mormorazioni che circolavano in montagna contro alcuni speculatori

che approfittavano della scarsità di grani per arricchirsi. Ravera, da cui dipendevano

gli sbirri della città e del contado, disse di aver raccolto voci insistenti «sopra li

grandi reclami che si sentono de’poveri delle comunità perché si trovano sprovisti di

grani e granelle». Si trattava non a caso di comunità appenniniche che confinavano o

con la Toscana o con il feudo di Castiglione dei Pepoli e che quindi offrivano agli

speculatori la possibilità di esportare illegalmente le granaglie che avrebbero dovuto

essere distribuite ai poveri, soprattutto i piccoli proprietari terrieri che erano rimasti

senza scorte per la seminagione. Il bargello, in questo come in altri casi, tendeva le

orecchie, fiutava l’aria ma soprattutto poteva contare su una rete di informatori

segreti - gli «amici della corte», che lo indirizzavano su una pista e facevano

convergere i sospetti su particolari individui.

La fama che si spargeva per le comunità dipendeva dalla reputazione di una

persona. Le voci continuavano a circolare, a cambiare di direzione, a radicarsi nella

testa della gente, e gli sbirri a raccoglierle. Buon per chi, accusato di furto come

Domenico Callegari, poteva contare su qualcuno disposto a dichiarare che «non ha

mai sentito cattivo odore, né cattiva informatione de fatti suoi». Alla domanda del

notaio «unde orta fuerit dicta vox et fama» [da dove fosse nata quella voce e nomea]

– a proposito dell’identificazione di quattro uomini che avevano rapinato a Monzuno

9

un commerciante di canapa – un testimone rispose che poco dopo l’aggressione per le

montagne si era cominciato a sentire «borbottare questo fatto» ed erano state

individuate tre persone che potevano sapere che il mercante aveva con sé il denaro; a

far spargere la voce aveva poi concorso soprattutto il fatto che i sospettati erano tre

«pover homini che non possiedono quasi cos’alcuna e non vogliono mai lavorare e

per lo più stanno a mangiare e bere sull’hosteria frequentano il gioco delle carte e

vanno armati di bocche da fuoco». Povertà e ricchezza sembrano influire sul credito

di cui godono le persone soprattutto quando i reati da perseguire hanno a che fare col

denaro: furti e truffe, che si suppone siano più comunemente perpetrati da miserabili.

In altri casi (risse, ferimenti, omicidi) la povertà o l’infimo livello sociale, altrettanto

del grado elevato, ricorrono spesso come attenuanti nelle cancellazioni dei

procedimenti con la formula stante qualitate personae [in considerazione della

condizione della persona].

Le Costituzioni raccomandavano al giudice di non accettare denunce per cause

lievi, come liti familiari, insulti verbali fra persone di basso rango, risse fra minori,

ma in realtà nei fascicoli del Torrone se ne trovano molte: soprattutto in città la gente

ricorre al tribunale come tappa preliminare di un accordo privato e di una

riconciliazione, che si conclude con il ritiro della querela, attribuendo al giudice un

ruolo di mediatore nella composizione delle vertenze. L’accusato, sia che fosse stato

catturato, sia che si fosse presentato spontaneamente, non poteva essere interrogato se

non per i reati ascrittigli nel procedimento. Quando il procedimento era avviato da

una querela di parte, se questa veniva ritirata prima dell’esame dei testimoni,

l’uditore doveva terminare la causa, tranne nei casi gravi di cui sopra.

La procedura prevedeva che, una volta raccolti indizi sufficienti a formulare capi

d’accusa, questi fossero notificati all’imputato. Era però raro che questi ammettesse

la fondatezza di quanto gli veniva contestato e allora l’uditore, dopo essersi

consultato col legato, doveva decidere se la colpevolezza era dimostrata da elementi

solidi o no. Nel caso lo fossero proprio poco, l’inquisito poteva essere rilasciato per

insufficienza di prove, ma ancora nel Settecento poteva essere richiesta

l’autorizzazione a procedere alla tortura.L’uditore, cioè, sempre in accordo col legato,

faceva esaminare il caso dalla congregazione criminale. Si trattava di un collegio

giudicante che si riuniva settimanalmente e che comprendeva il legato stesso, il

vicelegato, l’uditore e il sottuditore e i difensori d’ufficio, avvocato e procuratore dei

poveri. La congregazione, se i patrocinatori non presentavano eccezioni abbastanza

fondate da impedirlo, poteva autorizzare la tortura.

Attorno alla metà del Settecento si ricorre ancora alla tortura quando le prove

d’accusa non sono sufficienti a formulare un giudizio di colpevolezza ma gli indizi

sono tali da rendere un indagato fortemente sospetto. Questa era sicuramente una

pratica che contrastava con le timide aperture al nuovo clima illuministico che si

avvertivano anche nello Stato pontificio. E’ vero che alla tortura si ricorreva

saltuariamente; tuttavia, soprattutto in caso di furti ripetuti, si procedeva ancora alla

sospensione dell’inquisito alle corde, sia pure regolata (non più di un’ora in un

giorno, non più di due volte, eccezionalmente tre, nei giorni successivi). Questo

supplizio era senza dubbio pesante, soprattutto quando il presunto delinquente non

10

era soltanto appeso per le braccia ma doveva subire dolorosi strattoni; tuttavia,

moltissimi riuscivano a sopportarlo senza confessare, al contrario di quanto avveniva

cento anni prima, quando le torture erano reiterate e durissime, tanto da far ammettere

ai malcapitati qualsiasi cosa i giudici si aspettassero di sentire da loro. Dalla fine del

Seicento era sempre più frequente che gli accusati sostenessero la tortura e quindi

venissero rilasciati per insufficienza di prove, perché non avevano ovviato

all’incertezza dei giudici con una dichiarazione di colpevolezza.

La tortura poteva dunque essere inflitta per costringere un presunto colpevole a

confessare, colmando così per sua stessa ammissione il deficit di prove contro di lui,

ma non solo. In uno dei processi di cui si parlerà diffusamente più avanti c’è una

testimone chiave, un’ «impunita», Maria. Si tratta del corrispettivo degli attuali

pentiti, persone con numerosi indizi a carico che ottenevano l’impunità in cambio di

una piena confessione che fornisse elementi d’accusa non ancora noti alla corte e

sufficienti per incriminare o almeno per torturare altri sospetti. In questo caso si

procede a un uso diverso – e poco più che rituale – della tortura: poiché l’impunita

aveva deposto contro un accusato che continuava a negare, la donna fu fatta

«purgare» con la blanda tortura detta degli zufoletti (stringendole cioè le dita con

legnetti e una cordicella). Durante questo breve supplizio (durò il tempo della

trascrizione sulle carte processuali delle parole della donna), essa ripeté la sua

deposizione confermandola e «purgandola» dall’infamia della sua persona. Nella

dottrina si consideravano infami – e quindi non degne di fede – persone di varie

categorie, fra le quali rientrava Maria, oggetto con la sua famiglia delle maldicenze di

tutto il paese. La tortura veniva applicata anche nei confronti, cioè i faccia a faccia fra

accusato e testimone al quale poteva essere chiesto se era disposto a ripetere sotto

tortura la sua deposizione incriminante alla quale l’inquisito si ostinava a negare

fondamento.

. La dottrina giuridica per considerare un’accusa provata richiedeva almeno due

testimoni de visu, cioè testimoni oculari, e non de auditu (per sentito dire, per

pubblica voce e fama). Era dovere dell’uditore, una volta conclusa l’istruttoria,

consegnare all’imputato copia del processo perché potesse difendersi e citarlo a

comparire prima di emettere la sentenza se era contumace. Tra Seicento e Settecento

cambia il modo con il quale il tribunale procede nei confronti dei latitanti. Fino ai

primi anni del Settecento sono numerose le sentenze anche capitali pronunciate in

contumacia, condizione che dal punto di vista procedurale aveva due conseguenze: da

un lato non permetteva all’inquisito di godere del diritto di difesa; dall’altro, la sua

latitanza veniva considerata come una prova di colpevolezza. A metà del XVIII

secolo, invece, i processi contro rei contumaci si interrompono, salvo riaprirsi, anche

ad anni di distanza, se il malcapitato veniva riacciuffato. In passato molti banditi

condannati in contumacia alla pena capitale dopo alcuni anni avevano potuto

beneficiare di un provvedimento di grazia che cancellava anche sentenze di morte.

Nel 1750 non ci sono giudizi in contumacia inutilmente feroci (in quanto spesso

destinati ad essere condonati) ma i pochi che cadevano nella rete della sbirraglia che

batteva i confini della Legazione, se veniva pronunciata una sentenza capitale dopo

la loro cattura, non sfuggivano al supplizio.

11

Gli inquisiti che non si erano dati alla fuga ma che si trovavano in carcere, alla

fine del processo informativo (o accusatorio, o offensivo) avevano diritto a un

patrocinio. I difensori d’ufficio partecipavano erano i soli che potevano partecipare

alle congregazioni criminali, anche se i rei più facoltosi potevano richiedere a

pagamento le prestazioni di altri avvocati come consulenti. Le carte del Torrone ci

documentano il ruolo svolto da avvocato e procuratore dei poveri solo in minima

parte, in primo luogo perché delle sedute della congregazione criminale abbiamo solo

i decreti conclusivi con le quali il collegio giudicante esprimeva il parere e

demandava all’uditore la formalizzazione della sentenza, e non siamo in grado di

sapere quanto peso avessero gli elementi raccolti a difesa per orientarne le decisioni

né quanto appassionatamente o tiepidamente i due patrocinatori, caso per caso, si

fossero spesi per il loro assistito nelle sedute della congregazione. Né nei fascicoli

rimane traccia dei colloqui dei difensori con i giudici, e ovviamente nemmeno di

quelli con i propri patrocinati.

L’ultimo atto del procedimento, la sanzione del reato, spettava alla congregazione

criminale e quindi soprattutto al cardinal legato che la presiedeva; in questa sede

veniva presentato dall’uditore il ristretto del processo (ce ne sono rimasti pochissimi)

e procuratore e avvocato dei poveri procedevano ad esporre le loro deduzioni a

difesa. Anche di queste ne ho trovate pochissime perché venivano pronunciate

oralmente in congregazione e solo qualche patrocinatore ha provveduto a dare alle

stampe le sue allocuzioni, come Alessandro Dolfi, avvocato dei poveri dal 1697 al

1721. L’impostazione della difesa fino ai primi anni del Settecento può essere dedotta

solo dagli articoli o capitoli che i procuratori sottoponevano all’approvazione degli

uditori insieme con le liste dei testimoni da citare a discarico. Gli elenchi di articoli -

che erano preceduti dai generalia, scritti in latino, i quali servivano ai patrocinatori

per contestare vizi formali rilevati nel processo offensivo - erano formulati in italiano

e consistevano in altrettanti punti a favore del reo che si volevano dimostrare con

nuove testimonianze (il primo era immancabilmente la richiesta di poter comprovare

la buona vita e fama dell’accusato). Sulla base degli articoli uno dei due sottuditori,

spesso lo stesso che aveva condotto gli interrogatori nel processo offensivo,

procedeva all’escussione dei testimoni a discarico nel processo difensivo o in quello

ripetitivo (quando gli articoli venivano presentati per controinterrogare testimoni già

sentiti per l’accusa).

Nei fascicoli del Torrone gli articoli presentati, come ovviamente i processi

difensivi e ripetitivi che si basavano su di essi, sono sempre meno dagli ultimi

decenni del Seicento mentre nel Settecento spariscono quasi del tutto. A metà

Settecento entrambi i processi celebrati per la parte sotto accusa sono diventati

rarissimi, e una spiegazione è che nell’uno e nell’altro caso erano gli inquisiti a dover

sostenere le spese dei procedimenti. Era così anche nel Seicento, ma gli esempi di

processi difensivi e ripetitivi che ho trovato tra l’inizio e la fine del secolo XVII si

riferiscono a cause intentate contro accusati ricchi – anche contadini, non solo

cittadini ricchi - o addirittura nobili. A metà Settecento sono soprattutto dei poveracci

ad essere sottoposti a giudizio ed è quindi normale che ci siano rimaste solo le

scritture, che compaiono regolarmente dopo l’emanazione delle Costituzioni di

12

Benedetto XIV, nelle quali il procuratore dei poveri esponeva sinteticamente in latino

le sue argomentazioni difensive, dopo aver esaminato attentamente il processo e

averne riscontrato elementi utili per scagionare il patrocinato. Si può dedurre che a

quello schema si attenesse, insieme con l’avvocato dei poveri, nella perorazione orale

in congregazione criminale; a differenza dal periodo antecedente alla pubblicazione

delle Costituzioni, tali scritture compaiono sempre dopo la consegna ai patrocinatori

del processo accusatorio e servono a fissare sulla carta i rilievi sulla solidità

dell’impianto probatorio.

Sentiti i difensori, la congregazione criminale formulava un decreto che l’uditore,

in genere a pochi giorni di distanza, formalizzava in una sentenza. Era solo il

penultimo atto dell’iter, perché ad esso poteva seguire la supplica del condannato e la

concessione di un atto di clemenza che cancellava o riduceva la pena. Nel corso della

lunga legazione del cardinal Giorgio Doria il numero totale delle grazie che vennero

concesse fu molto minore sia in assoluto sia in media rispetto ai decenni precedenti, e

il numero di quelle concesse nel 1754, ultimo anno della sua legazione, fu uno dei

più bassi dell’intero periodo, segno che non sussistevano più le preoccupazioni di non

accentuare gli attriti col ceto dirigente locale che nella seconda metà del XVII secolo

avevano suggerito ai predecessori di Doria di largheggiare in grazie liberali - cioè non

onerose - allo scorcio del proprio mandato. La procedura per la grazia degli omicidi

condannati alla pena capitale, nel secolo precedente compresa fra le facoltà

riconosciute al legato, dal 1734 segue un iter che prevede una prima supplica rivolta

al papa il quale poi, se la decisione è favorevole al richiedente, conferisce al legato

l’autorità di concederla o meno. A questo punto i postulanti si rivolgevano con una

seconda supplica al legato sollecitandolo ad un atto di clemenza che, come gli

ricordavano invariabilmente, ormai gli era possibile esprimere.

Tali atti sono pochi, ma lo spoglio dei processi nell’anno campione ci dice che

ormai quelli conclusi con una condanna a morte sono molto diminuiti: i non numerosi

omicidi non presentano praticamente mai le aggravanti della premeditazione e della

prodizione. Nella maggior parte dei casi si tratta di omicidi in rixa (per rivalità in

amore o, più spesso, per futili litigi di ubriachi). Mancano, rispetto al periodo

precedente, i clamorosi processi ai nobili refrattari a sottomettersi all’autorità dei

legati. Del tutto assenti, inoltre, sono le sentenze per qualsiasi reato di sangue emesse

contro rei contumaci: come si è detto, il processo contumaciale, almeno nella

campionatura del 1750, sembra sparito e con esso i numerosi atti di clemenza dei

quali in passato avevano beneficiato i banditi, mentre la sospensione della sentenza

nei fascicoli di molti latitanti si può spiegare con una grazia ottenuta prima della

chiusura del procedimento. La grazia onerosa concessa a seduttori contumaci in

parecchie cause sospese che avevano per oggetto lo stupro ci conferma l’aumento del

controllo sui comportamenti devianti: in passato procedimenti simili si concludevano

per semplice accordo delle parti con un’assoluzione che di oneroso poteva avere solo

il risarcimento in denaro alla fanciulla oltraggiata, che però non fa parte degli atti

punitivi del tribunale.

Prevalentemente le grazie vengono concesse per ferimenti in rissa e furti ma non

sorprende, essendo proprio le fattispecie che ricorrono più spesso nei fascicoli

13

processuali. Le grazie diventano uno strumento per chiudere procedimenti per lievi

reati in cambio del pagamento di una somma che poteva oscillare tra i 10 e i 50 scudi

e solo raramente raggiungeva picchi molto più elevati, mentre in passato i legati

avvevano accumulato grosse somme con gli atti di clemenza onerosi. Nel complesso,

rispetto agli ultimi decenni del Seicento, risulta evidente una grande parsimonia nelle

concessioni, con pochi picchi nelle cifre corrisposte per le grazie onerose. Scarsissimi

anche i reati gravi graziati: l’atto di clemenza si configura prevalentemente come un

mezzo per chiudere procedimenti per i quali non si profila una pena corporale o, nel

caso delle grazie onerose concesse a seduttori, a numerosi ubriachi maneschi, a

incauti detentori di armi che chiedono benevolenza per i loro errori, come un blando

strumento di correzione.

3. Degradazione ed esecuzione

Complessivamente, a metà Settecento, la società bolognese sembra sotto lo stretto

controllo del tribunale criminale e si direbbe che esso svolga una funzione

disciplinante a tutti i livelli: dai nobili e dai cittadini influenti che si rivolgono con

ostentata deferenza al rappresentante del papa, ai poveretti che si vedono punire con

singolare durezza per ogni colpa, anche se commessa sotto la spinta del bisogno. Una

società del tutto subordinata alle autorità temporali e spirituali, dunque ? In realtà

questo sembra essere vero in città, ma nelle campagne le cose andavano diversamente

persino tra coloro che avrebbero dovuto farsi garanti dei comportamenti e

dell’ossequio ai precetti sacri e profani: parroci e cappellani di contado, con una

continuità col passato che non conferma per il clero il progressivo venir meno della

violenza e dei comportamenti devianti che per i nobili è stata documentata tra gli

anni Settanta del Seicento e i primi del Settecento, periodo per il quale è stato attuato

da Giancarlo Angelozzi e da me uno spoglio sistematico dei processi.

Nello Stato pontificio la distinzione fra il foro laico e il foro vescovile non

implicava necessariamente una assoluta separazione fra le due procedure: in alcuni

casi negli anni Settanta del Seicento il tribunale del Torrone ha potuto avviare

inchieste per concessione pontificia e mettere sotto accusa anche dei membri del

clero, rei di crimini particolarmente gravi, giungendo fino a comminare la pena di

morte, che veniva eseguita dopo una cerimonia di privazione dello status clericale.

Ne è un esempio, negli anni Settanta del Seicento, la decapitazione di un ecclesiastico

della famiglia Bolognini, reo di varie dissolutezze ma soprattutto – cosa che

interessava di più al foro laico – di falsificazione di denaro. Questo processo è un

14

buon punto di partenza per sondare i comportamenti del clero: si tratta di un case

study ma da esso emergono anche altre figure di chierici corrotti e il tipo di reato

imputato a Bolognini doveva essere così diffuso che Urbano VIII nel 1628 aveva

sentito il bisogno di inasprire una Costituzione di Paolo V per punire i preti monetari

.

Il 24 febbraio 1672 il bargello Innocenzo Mancini riferì che un prete, il conte

Giuseppe Bolognini, falsificava e tosava le monete con la complicità di Ercole

Bottrigari, un abile intagliatore che faceva i coni, mentre il curato della chiesa

cittadina di S. Arcangelo, don Antonio Fabbri, li nascondeva nella canonica. Mancini

era riuscito a sapere anche che altri battevano moneta falsa, fra i quali un certo dottor

Tesini, medico di Crevalcore, abitante a Bologna e che tutti erano collegati a

Bolognini. Le monete venivano spacciate a Bologna da un altro prete, don Domenico

Burgoni e dalla meretrice Giovanna, «donna del detto Bolognini», che lo

accompagnava da tempo nelle sue imprese criminose. Come riferì il bargello, «fu

carcerata in Venetia in compagnia di esso Bolognini un anno fa in circa per questa

istessa causa», cioè per la sua attività di falsario. Poco o nessun peso viene dato alla

natura moralmente illecita della relazione, alla quale si fa cenno incidentalmente.

Lo stesso giorno il legato Lazzaro Pallavicini dette all’uditore Gian Domenico

Rainaldi e a tutti e due i sottuditori le facoltà necessarie «perché procedino in

fabricare il processo e far qualsivoglia altro atto necessario tanto di far carcerare

esaminare, confrontare devenire alla tortura quando sia necessario contro il detto don

Giuseppe e qualsivoglia persona ecclesiastica et anche di poter perquirere e far

perquirere per le monete, cugni, ordegni o per altra cosa che possa conferire al

bisogno di questa causa in qualsivoglia chiesa e luogo immune». La perquisizione

della casa di Bolognini fu fatta subito dal sottuditore Lucchesi con il bargello alla

presenza dello stesso prete e di due testimoni. Bolognini, carcerato e interrogato da

Lucchesi, disse di non voler essere esaminato nel foro laico e di non essere soggetto

alla giurisdizione del legato ma a quella dell’arcivescovo e prima di aver ricevuto un

ordine espresso da lui non avrebbe risposto.

. Don Antonio Fabbri, carcerato il 27 febbraio e interrogato dall’uditore invece

rispose, dicendo di abitare a Bologna da quaranta anni ma di essere nato a Tredozio,

in Romagna. Per trent’anni aveva insegnato ai figli della contessa Ginevra Bolognini,

del ramo della famiglia che aveva il palazzo in via Castiglione. Disse poi che altri

Bolognini abitavano in via S. Stefano mentre un terzo ramo, quello di don Giuseppe,

stava nella via del Pavaglione. Il prete però, dal maggio 1671, si era separato dai

fratelli e abitava per conto suo in via Cartolerie nuova. Il sottuditore Matteo Lucchesi

interrogò poi don Bolognini che questa volta si dichiarò disposto a rispondere, anche

se l’ordine che aveva sollecitato dall’arcivescovo non era ancora arrivato. Fra le altre

cose parlò del suo arresto a Venezia dicendo polemicamente che era stato rilasciato

dopo quattordici giorni «benché io fossi nel tribunale degl’inquisitori di stato che è il

più tremendo tribunale che sia nel mondo». Quello che allora non si era osato –

processare il nobile chierico – fu invece possibile per l’ampiezza delle prerogative

riconosciute al cardinale Pallavicini.

15

Dopo vari interrogatori dai quali non si riuscì a strappare molto dalla bocca del

conte Giuseppe, il 12 marzo dichiarò di aver fatto esperimenti di alchimia: forse era

vero, ma è più probabile che volesse cercare di depistare l’uditore sull’uso degli

oggetti che erano stati trovati in casa sua. Disse anche che aveva provato di mutare

l’argento in oro, argomento che giustificava il possesso di alambicchi e di pezzi di

metallo. Il processo proseguì nei giorni successivi con nuovi interrogatori ma una

vera svolta si ebbe solo il 13 aprile quando la guardia carceraria disse che don

Antonio Fabbri voleva confessare e denunciare i complici in cambio dell’impunità,

che gli fu concessa.

Il 14 maggio il capitano delle carceri Francesco Cuccia sventò un tentativo di

evasione di don Bolognini. Questi, interrogato in seguito varie altre volte, malgrado

le testimonianze e le perizie degli assaggiatori della zecca, continuava a dire di aver

fatto solo degli esperimenti di alchimia. Messo a confronto con don Fabbri disse di

non voler chiedergli nulla ma cercò di infamarlo e di togliere credito alla sua

confessione dicendo che era «processato nel tribunale dell’eminentissimo signor

cardinale arcivescovo per haver adorato una statua et ha conosciuto carnalmente due

donne cioè madre e figlia e non gli voglio dir altro». Don Fabbri ribatté: «Io ho detto

la verità e non ho adorato statue né ho conosciuto carnalmente madre e figlia» dopo

di che confermò le sue accuse sotto tortura.

Il 17 settembre fu registrata agli atti del processo una lettera del legato Lazzaro

Pallavicini che comunicava la decisione della S. Congregazione dell’Immunità

inviata da Roma il 6 settembre in risposta alla pretesa dell’arcivescovo che per

Bolognini fosse competente il suo foro. La decisione della Congregazione si

conformava alla disposizione di Urbano VIII, Confirmatio & innovatio

Constitutionis Pii papae V, che era stata pubblicata il 28 gennaio 1628 e che riservava

ai legati, e quindi al foro laico, tutti i processi contro i falsari, anche quando si

trattava di ecclesiastici, secolari o regolari. In essa si deplorava e si constatava con

dolore che molti di coloro che avrebbero dovuto dedicarsi alla evangelizzazione e alla

carità, dimentichi dei loro doveri e della loro stessa vocazione, non si facevano

scrupolo, spinti dall’avidità, di fabbricare e spacciare monete o di rendersi complici

di questi reati. A quanti fossero stati trovati colpevoli si doveva comminare la pena di

morte, previa degradazione.

Quindi il procedimento contro Bolognini si riavviò. Vennero trovate e interrogate

persone che avevano ricevuto o speso denaro falso per conto suo (per lo più serve). Il

22 ottobre don Bolognini fu formalmente riconosciuto da una di esse che lo aveva

descritto come un uomo sui trent’anni. Confermata la testimonianza nel confronto,

Bolognini disse «Io dimando a questa donna ch’ella dica la verità che si ricordi che

non ha altro che una anima e che si tratta contro la vita e riputatione d’un

galanthuomo. E gli domando ancora se può giurare in coscienza che io fossi quello

che li cambiassi la moneta e gli addimando ancora come puol dire che io gli habbia

mai cambiata la moneta in casa non havendola mai veduta né conosciuta e come puol

giurare che io li portassi li denari la sera e non li voglio domandar altro» La donna

aveva risposto di avere «consideratione all’anima mia et a tutti gl’altri rispetti che si

16

possono havere e che la verità è che io lo riconosco benissimo per quello che mi pagò

li denari in casa sua».

Il 5 novembre fu interrogata Giovanna Mazzoni che era stata arrestata un mese

prima, la sera di S. Petronio. Disse che era stata a lungo l’amante di Bolognini che

poi aveva preso in casa una fiorentina che si chiamava Angela Caterina, descritta

come una donna trasgressiva che amava assumere diverse identità: «Era solita anche

vestire da huomo. Quando la detta Caterina vestiva da huomo si chiamava Felice, che

haveva duoi o tre nomi». Don Bolognini, che Giovanna chiama Giuseppe, come

rivendicando un diritto acquisito in tanti anni di intimità, le aveva fatto credere «che

sapeva fare delle alchimie e che sapeva cavare dell’oro dalle pietre e che sapeva

distillare e fare indutione del mercurio e fare dell’oro e dell’argento e che si faceva

con tagliare delle monete. Nella casa posta sul Pavaglione vi erano delli vetri voti e

pieni e delle ampolline con delle aque dentro, vi erano delli vetri col collo lungo a

guisa di zucche».

L’ 11 novembre il legato Pallavicini ordinò di citare a comparire il sacerdote

Francesco, fratello di Giuseppe Bolognini, che fu interrogato lo stesso giorno

dall’uditore Rainaldi. Disse che oltre a Giuseppe aveva un altro fratello in religione, il

gesuita Vincenzo, e due laici, Giovanni Battista e Fabio. Un altro, Orazio, era morto.

Abitavano tutti nel Pavaglione ma per contrasti per l’eredità si erano divisi. Per un

certo periodo Francesco aveva vissuto con Giuseppe, Giovanni Battista e la moglie di

questi ma poi don Giuseppe se ne era andato perché i due coniugi «borbotavano per

causa della fiorentina che Gioseppe si teneva in casa non essendo dovere che

ritenesse una putana e per questo vennero quasi alle mani insieme». Francesco

confermò parecchi indizi sull’attività di falsario del fratello svolta in una stanza della

loro casa e sullo spaccio di moneta, anche se si preoccupò di precisare che era al

corrente di questi particolari sulle pratiche illecite del fratello per sentito dire. Il 19

novembre il sottuditore interrogò di nuovo don Giuseppe Bolognini il quale disse che

i coni servivano per fabbricare orologi per conto del marchese Giuseppe

Montecuccoli (il quale ebbe cura di smentire inviando una testimonianza autenticata

che lo scagionava).

Il 3 febbraio 1673 il sottuditore Lucchesi interrogò don Domenico Burgoni,

arrestato a Modena circa un mese prima dal bargello del vescovo di quella città; dalle

carceri del vescovato dove era stato quindici giorni era stato portato nelle carceri del

ducato e da lì la sera prima era stato consegnato dal bargello del vescovo agli sbirri

del Torrone di Bologna a Castel Franco, vicino ai confini del Modenese. Lucchesi lo

interrogò nell’osteria del Chiù fuori porta S. Felice. Don Burgoni disse di aver abitato

a Bologna per otto anni e di essersene andato da circa uno per sfuggire alla corte

perché aveva saputo che carceravano tutti gli amici di Bolognini. Questi in un

interrogatorio successivo ne parlò come di un prete povero con pochi beni nel

modenese di rendita annua di 15 scudi, cercando così di avvalorare un movente (il

bisogno di denaro) che gettasse tutta la colpa su di lui. Da un confronto con alcuni

testimoni risultò che don Burgoni aveva spacciato moneta falsa allo speziale del

Pavaglione, Giovanni Battista Nucci; il 31 maggio gli vennero contestati dodici capi

17

d’accusa e pochi giorni dopo gli vennero dati i termini per la difesa, poi prorogati due

volte.

Quanto a don Antonio Fabbri, nel frattempo era fuggito dalle carceri fin dal 15

settembre 1672 e il 22 marzo 1673 era stato incriminato in contumacia, nonostante

avesse chiesto l’impunità. Secondo la formula consueta gli era stata concessa purché

avesse detto la verità su se stesso e sugli altri «e somministri indicij tali che contro

gli assenti e contumaci si possa venire alla trasmissione dell’inquisitione e contro li

presenti a tormenti e che rattifichi il suo detto quante volte farà di bisogno

legitimamente e senza alcuna contraditione in faccia delli complici». Don Fabbri, che

aveva sostenuto la sua versione nel faccia a faccia col principale imputato e sotto

tortura e che aveva portato elementi decisivi per la tortura e l’incriminazione di don

Bolognini, dovette sentirsi comunque insicuro della sua posizione perché, se

l’immunità gli garantiva di scampare alla pena ordinaria per questo reato, e cioè alla

morte, non escludeva una condanna a qualche anno di galera e preferì cogliere

l’occasione di dileguarsi, quando si presentò.

Il 30 luglio Bolognini fu interrogato da Lucchesi sui frammenti d’oro trovati nella

sua casa al momento dell’arresto. Ammonito a dire la verità, il prete insistette a dire

di non aver mai fabbricato monete false. Il 7 agosto, poiché continuava a negare, fu

messo alle corde. Orgogliosamente don Bolognini disse ai giudici: «Loro non

aspettino che io dica altro che quello che ho detto; i pari miei morono con la verità in

bocca e non voglio dir altro». Poi il notaio scrisse che, sollevato in alto, tacque, poi

disse «oh Signore Giesù Christo mandatemi la morte io moro oh passione di Dio.

Corpus Christi salva me sanguis Christi lava me aqua lateris Christi lava me passio

Christi mundifica me» [Corpo di Cristo salvami, sangue di Cristo lavami, acqua del

costato di Cristo, lavami, passione di Cristo purificami]. Tacque e poi riprese con

un’altra serie di invocazioni in latino per tutta la durata del supplizio, mezz’ora, senza

confessare. Le litanie sono l’unica manifestazione esplicita della sua appartenenza

all’ordine sacerdotale che emerga dal processo.

Il giorno dopo fu interrogato di nuovo dall’uditore che lo sottopose alla tortura

della veglia, il terribile supplizio che ormai molto di rado veniva inflitto ai rei; quasi

nessuno riusciva a sopportarlo senza essere costretto a confessare quello che i giudici

volevano sentire e consisteva nel tenere in tensione con funi legate ai quattro arti

dell’inquisito e agganciate alle pareti con anelli; il malcapitato, completamente nudo,

restava così sospeso su uno sgabello col sedile a punta di diamante. Dopo le prime

due o tre ore del tormento della veglia il corpo del suppliziato si gonfiava anche se

venivano seguite le precauzioni che i chirurghi raccomandavano. «Sopra tutto si deve

stare molto oculato di essere presto ad accorrere alli svenimenti e deliquio del reo li

quali succedono spesso e che riducono li poveri rei in stato pessimo nel che il

chirurgo esperto deve essere sollecito in precederli e ristorare il reo con presidij

opportuni e necessarii di malvasie, aceti rosati & altre cose simili e se doppo havergli

somministrato li detti aiuti il deliquio non cessa il chirurgo deve calare il reo

protestando e predicendo la di lui morte. Li segni certi della prossima deficienza sono

il colore della faccia e di tutto il corpo mutato in pallore e la faccia del reo

cadaverosa, petto e braccia che comincino a farsi lividi & il respirare difficultoso e

18

frequente se il collo sia fuor del naturale ingrossato se le ungie si facciano livide o se

le membra del corpo siino dissolute e quasi premorte, se si veda il corpo languido e

nell’estremità refrigerato con sudore freddo, se le palpebre calino, se dalla bocca esca

spuma».

Don Bolognini non riuscì ad affrontare una prova così dura e questa volta ammise

tutto: di aver fabbricato monete false, come le aveva fatte e come le aveva fatte

spacciare. La tortura durò in tutto tre quarti d’ora. Il 9 agosto fu interrogato di nuovo

dall’uditore per la rituale conferma della confessione, che doveva essere ripetuta a

distanza di ventiquattro ore fuori dalla camera dei supplizi perché fosse convalidata.

Lo stesso giorno il processo fu consegnato all’avvocato. Il 31 agosto il legato

dichiarò che don Giuseppe doveva essere degradato. Già il 16 agosto il cardinale

Altieri aveva inviato una lettera al vescovo di Cesena nella quale lo incaricava di

recarsi a Bologna per eseguire il rituale della espulsione dallo stato clericale, che fu

fatta lo stesso 31 agosto 1673 con le luci accese, alla presenza del cardinale

Pallavicini, di molti sacerdoti, dell’uditore, dei due sottuditori, del notaio e dei

testimoni. Bolognini fu prelevato dalle carceri del Torrone dagli sbirri, condotto

davanti al vescovo di Cesena che lo degradò «et habitis sacerdotalibus et clericalibus

spoliatum curiae saeculari tradidit et consignaviti» [e spogliato dall’abito sacerdotale

lo consegnò alla curia secolare]. Il 2 settembre fu emessa ed eseguita la sentenza che

lo condannava ad essere decapitato in carcere.

Il 17 novembre il legato conferì al giudice il potere di punire anche don Burgoni,

in considerazione alla gravità del delitto, compreso nella costituzione di Urbano VIII

poiché c’erano forti indizi di complicità in falsificazione di monete. Lo stesso giorno

don Burgoni fu interrogato dal sottuditore Giulio Carretti per mezz’ora ma non

ammise niente. Il giorno dopo fu sottoposto a sua volta alla tortura della veglia, alla

presenza dell’uditore. Durante la prima ora continuò a negare e poi a invocare Gesù e

chiedere dell’acqua e a implorare in dialetto il giudice: «Toleme giù toleme giù

toleme giù». Durante la seconda ora crollò e cominciò a confessare. Alla quarta ora

chiese ancora di essere messo giù. Aggiunse altri particolari alla confessione e

finalmente la tortura venne sospesa. In tutto era durata tre ore e un quarto. Anche lui

confermò la confessione davanti all’uditore il giorno seguente. Il 27 febbraio 1674 il

legato Bonaccorso Bonaccorsi lo fece degradare e il 3 marzo, lo stesso giorno in cui

fu emessa la sentenza, fu decapitato in pubblico. L’esecuzione, come quella di don

Giuseppe, rispettò l’appartenenza ad un ordine privilegiato e neppure per don

Burgoni fu decretata la disonorante pena della forca ma rispetto al nobile Bolognini,

che fu privato della vita nel chiuso della cella, l’umiliazione, per il povero prete

modenese, ci fu comunque.

19

4. Preti non disciplinati

Nelle carte del Torrone degli anni Settanta e Ottanta del Seicento si incontrano

piuttosto spesso casi di preti che non si conformano al modello di vita appropriato al

loro stato, ma una reazione decisa del tribunale criminale si ha in genere quando i

comportamenti devianti sono «politici», come la falsificazione di moneta, o quando si

tratta di reati di sangue, e non quando le infrazioni sono attinenti allla sfera sessuale,

in quanto essi restano di competenza del foro ecclesiastico, il quale a sua volta sembra

non perseguirli con particolare accanimento, come nel caso denunciato il 27 ottobre

1672 da Giovanna Baldanza, moglie di Giovanni Franceschelli di Camugnano e

Carpineti, abitante a Bologna, la quale accusava di adulterio Camilla, moglie di suo

fratello Giovanni, contumace da quattro anni. Camilla, che non aveva avuto figli dal

marito, da quando era rimasta sola era stata traviata da don Cosimo Pinelli che

l’aveva ingravidata tre volte e si godeva anche i beni di Giovanni. Oltre a questo don

Cosimo aveva fatto sposare per forza a Geminiano Bellone sua nipote Maria, un ricco

sempliciotto di cui aveva usurpato i beni. Simili infamie commesse dal prete,

proseguiva la querelante, con «zitelle, vedove e maritate sono tante che non si possono

dire».

Un testimone disse di Camilla e di don Pinelli che si trattavano «come se fossero

moglie e marito cioè la Camilla nella casa di detto don Cosimo e don Cosimo va e si

trattiene in casa della Camilla, lavorano assieme le terre tanto di essa Camilla come

quelle di detto prete che ancor esso lavora in campagna come un contadino». Disse

inoltre che don Cosimo teneva in casa sua Geminiano Belloni «marito di Madalena

sua nipote la quale non sta altrimenti col marito ma la detta Madalena dorme in casa

della sudetta Camilla; detto prete si gode campi, prati e castagneti boschi et esso

Geminiano non puole godere delle sudette sue robbe cosa alcuna anzi che lo bastona e

maltratta per essere un poveretto che non ardisce risponderle». Camilla teneva i due

figli in casa, malgrado fosse una regola senza eccezione nella società postridentina che

gli illegittimi non fossero allevati nella casa della madre ma portati a Bologna, al

brefotrofio. Quello che era un comportamento biasimato e disonorevole era tanto più

riprovevole in quanto esibiva senza pudore i frutti di una relazione con un membro del

clero. Francesco Brunetti, l’ultimo dei parrocchiani di don Pinelli ad essere

interrogato, disse di non sapere «se Camilla e il prete fossero fra di loro parenti in

grado alcuno so bene che sono fra di loro amici da cinque o sei anni in qua et in

questo tempo li ho visti praticare assieme libberamente la qual pratica ha dato

scandolo massime che la detta donna ha partorito due volte che ne sono vivi un

ragazzo et una ragazza e fu anco detto che due anni sono che era pur gravida ma non

si è visto il parto e da quello magiormente il popolo si move a sospettare che tra loro

sia pratica carnale».

E’ un caso simile, come vedremo, a quello di don Antonio Nanni; come per

quest’ultimo, è difficile pensare che la curia arcivescovile non ne fosse informata

mediante la rete dei vicari foranei e degli sbirri che battevano la campagna per conto

del foro ecclesiastico. Ma l’esempio di don Antonio conferma che solo un fatto grave,

non legato alla sfera sessuale, faceva agire con durezza il foro arcivescovile. Quanto ai

20

rapporti con il foro laico, poteva dover intervenire in casi in cui le competenze dei due

tribunali si intrecciavano, come dimostra la causa avviata il 16 maggio 1674, quando

venne annunciata in Torrone l’uccisione di Giovan Battista Calzolari, sbirro

dell’arcivescovado a Tolè. Il movente dell’omicidio si sarebbe rivelato connesso alle

funzioni di controllo dei costumi del clero che esercitavano in contado sia l’ucciso sia

Giacomo Lolli, il suo caporale, il quale disse che lo sbirro era stato ucciso «in onta

mia», cioè per vendicarsi di lui. Nell’ottobre precedente don Giacomo Lamari, prete

beneficiato di una chiesa detta la Chiesolina di Pieve di Roffeno, che si era portato in

casa una donna di mala vita gli aveva chiesto «di chiudere gli occhi» e di non

denunciarlo al foro arcivescovile. E’ probabile che in casi simili molto spesso gli sbirri

di campagna chiudessero gli occhi, vista la frequenza con la quale si ricontrano queste

situazioni irregolari, ma non fu il caso di Lolli il quale rifiutò e così fra lui e il prete

erano cominciati a nascere «de’ disgusti».

Don Giacomo Lamari non era solo un prete che non osservava la continenza

sessuale ma, come spesso succedeva, l’inclinazione a seguire i modelli di

comportamento dei laici non si limitava a questa debolezza, evidentemente scusabile

agli occhi dei superiori, ma si accompagnava alla tendenza ad emulare i

comportamenti più violenti di certi notabili di villaggio, soprattutto in montagna,

spesso appoggiati dal favore della rissosa nobiltà cittadina. Don Lamari con dieci o

dodici compagni - fra cui la sua donna armata di «una pistoletta curta» ! - erano andati

in sua assenza a casa sua a spaventare con intimidazioni la moglie del caporale Lolli

«minacciandomi in caso che io fussi voluto andare per fra priggione il detto don

Giacomo e la detta Maria sua donna» di ritorsioni. L’irreprensibile caporale non si

fece fermare da questo avvertimento: denunciò la scandalosa condotta di don

Giacomo contro il quale «fu fatto processo nella corte del signor cardinale

arcivescovo». La vendetta non si fece attendere: «Vennero a casa mia in mia assenza

due modenesi e ferirono mia moglie».

Il prete godeva di protezioni tra i membri dell’aristocrazia senatoria e l’abate

Grassi si prestò come mediatore per ricomporre il conflitto, chiedendo a don Antonio

Maria Zappoli di convincere Lolli a dare la pace a don Giacomo e a non denunciarlo

al tribunale criminale. Il caporale rispose che non aveva nulla in contrario «ogni volta

che fossi poi stato sicuro di poter viver quieto, ma perché sapevo che l’haveressimo

rotta presto perché il detto don Giacomo è un cervello torbido, che camina quasi

sempre in squadriglia», non aveva voluto accettare la composizione. Le imprese

criminali di don Lamari erano note da tempo: due anni prima lo sbirro Calzolari

insieme ad altri compagni aveva avuto uno scontro a fuoco con don Giacomo e alcuni

sgherri armati nel corso del quale era rimasto ferito Geminiano, un fratello di Pierone

Melli, uno degli uomini del prete, che poi era morto.

Dopo essere stato convocato al tribunale dell’arcivescovado don Giacomo non

era tornato alla sua chiesa ma era rimasto a Bologna, certo per poter attivare meglio la

rete dei suoi protettori, e si era ritirato nella chiesa del Baraccano, in luogo immune.

Da lì continuava a minacciare il caporale Lolli e andava dicendo che non voleva

tornare finché lo stesso Lolli e lo sbirro Calzolari erano vivi. Nella chiesa di don

Giacomo era andato ad officiare un prete modenese, anche lui fratello di Pierone

21

Melli, che l’inchiesta che fece il tribunale del Torrone avrebbe individuato come

uccisore dello sbirro Calzolari; anche quel prete, e non solo don Lamari, seguiva lo

stile di vita violento che alcuni chierici avevano abbracciato: era stato visto in

compagnia di quattro modenesi armati e dopo l’omicidio era sparito. Come don

Giacomo si era dato alla macchia, insieme ai loro codazzi di sgherri e di donne

proterve. Il foro criminale del Torrone non incriminò, in questo caso, don Lamari per

la sua vita violenta e si limitò ad una sentenza esemplare contro il solo Pierone Melli,

l’esecutore materiale del delitto, che fu impiccato e che in questa vicenda finì per

pagare per tutti..

«Politico» in senso più proprio è un altro processo iniziato il 7 marzo 1671, quando

il massaro di Ceredolo, una comunità di pianura a pochi chilometri da Bologna,

denunciò il ferimento di Francesco Ballarini commesso da uno sconosciuto che si

riteneva fosse veneziano e di cui si sapeva solo che si faceva chiamare Francesco.

Entrano in scena infatti un bandito capitale famigerato, il conte Giuseppe Maria

Felicini, e un prete che fu accusato di essere in contatto epistolare con lui e parte della

rete di favoreggiatori mediante la quale il conte continuava a tirare le fila di molti atti

criminosi che si commettevano nella Legazione, nonostante fosse da anni contumace.

Il favoreggiamento di banditi capitali era uno dei reati più gravi contro l’autorità del

principe.

Ricevuta la denuncia, il sottuditore del Torrone Domenico Tinelli partì in cavalcata

con il notaio, il messo e ben dodici sbirri, munito di una licenza che gli era stata

rilasciata lo stesso 7 marzo dal legato Pallavicini con la quale gli veniva conferita la

facoltà di interrogare in luogo immune, di perquisire e arrestare anche ecclesiastici

sospetti. Appena arrivato a Ceredolo Tinelli fece carcerare don Domenico Elefanti,

parroco della comunità. Prima di sentirlo, andò a visitare Ballarini, che nel corso del

processo verrà descritto come «un huomo vecchio che sarà di età quasi di 80 anni». Il

sottuditore constatò che era stato colpito all’inguine. Il ferito gli fece un racconto

concitato e confuso che si riferiva ad una storia di violenza nel quale era implicato suo

figlio Carlo, già processato in febbraio per certe bastonate a Michele Galli. Galli era

latore di una lettera di Francesco Calzolari, figlio dell’oste di Casalecchio, al quale

Carlo Ballarini aveva offerto ripetutamente 50 doppie (ben 750 lire) perché uccidesse

Giacomo Franzoni per un regolamento di conti: Franzoni aveva ucciso poco prima un

fratello di Carlo. Calzolari aveva rifiutato e aveva anzi avvertito Franzoni, che era suo

amico, il quale aveva chiesto l’interposizione del conte Rizzardo Isolani. Da questa

torbida storia aveva avuto origine l’inimicizia tra Carlo Ballarini e Calzolari.

Mentre Carlo era latitante, al padre era arrivata un’ingiunzione scritta da parte del

conte Felicini, per obbligarlo a comporre la lite. L’ordine gli era arrivato con una

lettera recapitata per mezzo del veneziano che era stata letta da don Elefanti il quale si

era preso sottobanco una mezza doppia che Ballarini padre gli aveva dato per

invogliarlo a contribuire alla pacificazione delle parti. Il forestiero aveva detto di essere

stato mandato per sistemare la vertenza ma poi aveva sparato a tradimento a Francesco

Ballarini rifugiandosi subito dopo nel palazzo del conte Felicini, poco lontano dalla

chiesa. Il ferito disse di ritenere che l’agguato fosse stato ordito da Francesco Calzolari,

22

figlio di Antonio, come vendetta trasversale per l’inimicizia che suo figlio aveva con

lui. Disse anche di credere che il prete fosse a conoscenza del piano.

La cavalcata durò pochi giorni e il 13 marzo don Elefanti fu interrogato dall’uditore

Carlo Rosati nelle carceri del Torrone. Era parroco di S. Antonio di Ceredolo da quasi

tredici anni; vi era stato messo dal conte Giuseppe Maria Felicini che aveva il

giuspatronato sulla chiesa.. Era questo il legame che giustifica il vincolo di gratitudine

e di dipendenza che legava il prete al potente protettore, un vincolo che spesso era alla

base del rapporto di reciproca obbligazione fra preti di campagna e nobili o notabili.

Don Domenico cercò in tutti i modi di occultare questo legame, senza riuscirci. Disse

che il conte si trovava da cinque o sei anni a Fivizzano, in Toscana, lungo la tortuosa

strada che portava al passo del Cerreto. Quanto a Carlo Ballarini, ne parlò come di un

violento che girava sempre armato di pistola e archibugio «massime quando è venuto

alla mia chiesa». Da un inventario che venne fatto durante la cavalcata per vincolarlo al

pagamento dei viatici, risulta che don Elefanti era un povero prete non molto agiato

che tuttavia possedeva un discreto numero di libri: quarantatre.

Il 29 marzo il massaro di Ceretolo comunicò la morte di Ballarini. Fu certo per

assistere alle sue esequie che Carlo lasciò il modenese, dove si era rifugiato, e finì nelle

mani degli sbirri. Il 4 aprile l’uditore lo interrogò – fatto del tutto inconsueto -

nell’appartamento del legato, che gli pose di persona le prime domande. Gli elementi

raccolti indussero il cardinale Pallavicini ad attribuire al notaio Giovanni Antonio

Casentini le facoltà necessarie per interrogare ecclesiastici in luogo immune. Casentini

con alcuni sbirri andò a Ceredolo a perquisire di nuovo la casa di don Elefanti dove

sequestrò una lettera che gli era stata consegnata il 19 febbraio 1671 e che era stata

scritta dal conte Felicini. In essa il conte ordinava al prete di intimare sia a Ballarini sia

all’uomo che aveva bastonato (cioè Michele Galli) di presentarsi al suo cospetto perché

voleva sapere come erano andate le cose.

L’uditore Rosati interrogò di nuovo in Torrone don Elefanti il quale disse che

l’ultima lettera che aveva ricevuto dal conte Felicini era quella portata il 19 febbraio da

un tale Francesco che parlava veneziano. Poiché don Elefanti pretendeva di non sapere

che Felicini era bandito capitale, fu acquisito agli atti il processo con la sentenza di

morte contro il conte per l’omicidio del banchiere Giovanni Davia emessa il 23

dicembre 1666 . Interrogato nuovamente dal sottuditore Tinelli l’1 maggio, don

Elefanti negò di sapere dove fosse il conte, perché fosse stato a Fivizzano e che avesse

cause in Torrone. Gli vennero mostrate tutte le quarantacinque lettere che gli erano

state spedite dal suo padrone e che erano state trovate a casa sua. Le prime erano state

inviate da S. Cesario (il primo luogo della latitanza di Felicini) e risalivano al maggio

1665. Interrogato ripetutamente, don Domenico pretese ancora di ignorare che il conte

era bandito capitale; più volte quando gli fu chiesto perché gli avesse scritto da un

certo luogo rispose che pensava che vi fosse «per suo spasso». Ammonito a dire la

verità, continuò a negare la sua complicità nell’agguato e a sostenere che non sapeva

che il veneziano dovesse ammazzare Ballarini. Scarcerato l’1 maggio, promise di

ripresentarsi in carcere dando fideiussione per 100 scudi.

Il processo proseguì ancora per qualche giorno con incalzanti interrogatori a

Calzolari, al quale furono fatte domande anche per corroborare i capi d’accusa contro

23

don Elefanti, ma per entrambi le prove non erano piene e anche Calzolari fu rilasciato

il 13 giugno con precetto di ripresentarsi con fideiussione per 100 scudi. Don Elefanti

inviò al legato e all’uditore un memoriale non datato in cui diceva che «per causa del

signor conte Giuseppe Maria Felicini ha patito cinquantaquattro giorni di prigionia e

spese di cavalcate, processi et altri disaggi» e che cercava di ottenere il risarcimento

dei danni davanti al tribunale civile del vicelegato. Non sappiamo se il prete venne

risarcito; sappiamo invece che l’11 luglio l’uditore Rosati, a pochi giorni dalla sua

partenza per altra destinazione (lo avrebbe sostituito Gian Domenico Rainaldi)

consultatosi col legato e per suo ordine, lo assolse in considerazione della qualità del

reato e della persona e per insufficienza di prove [«facto verbo cum em.mo et de illius

ordine et mandato stante qualitate facti et personarum et deffectu probationis»].

Preti che tenevano mano ad assassini, sia pure non sempre condannati, erano

frequenti nei processi del Torrone degli ultimi decenni del Seicento. In confronto a don

Elefanti, andò meno bene a don Carlo Dalle Donne, un prete che girava armato al

servizio del marchese Antonio Pepoli; anche in questo caso il legato Antonio Pignatelli

aveva concesso all’uditore Paolo Sanesi la facoltà di interrogare gli ecclesiastici e di

pronunciarsi contro di loro. Il 14 marzo 1685 l’uditore emise le condanne in

contumacia di Galanti e Pepoli rispettivamente come sicario e mandante degli omicidi

del sottuditore Tommaso Sertini e dell’informatore del Torrone Marco Antonio Lelli.

A questi capi d’imputazione si aggiunse la conventicola armata. Antonio venne

condannato in contumacia alla decapitazione e alla confisca, alla privazione del

marchionato e alla demolizione delle case. La modalità della pena di morte di Galanti

fu formulata «ad terrorem», cioè per indurre negli spettatori il timore dell’inflessibile

rigore della giustizia: avrebbe dovuto essere mazzolato in testa, sgozzato e squartato;

anche i suoi beni avrebbero dovuto essere sequestrati. Don Carlo Dalle Donne, anche

lui contumace, fu condannato alla galera a vita, alla sospensione a divinis, alla

privazione dei benefici, ovvero delle rendite della parrocchia che officiava, alla

confisca dei beni. Tuttavia, malgrado la severità della sentenza, i Pepoli erano molto

potenti e potevano facilmente trovare la strada per ottenerne la cancellazione: la grazia

arrivò molto presto anche se fu concessa a caro prezzo sia per Antonio Pepoli – che

l’ottenne il 26 agosto 1687 dal legato Pignatelli pagando 2500 scudi –, sia per Dalle

Donne, al quale il 27 novembre dello stesso anno fu concesso il perdono, in cambio di

300 scudi. Di Galanti, invece, non si seppe più nulla: evidentemente rimase latitante e

la feroce sentenza contro di lui non venne mai applicata.

I preti sapevano di non essere soggetti al foro secolare, ma loro malgrado dovevano

adattarsi a subire il trattamento riservato ai criminali laici quando per gravi reati

venivano fatte valere le ampie attribuzioni di potere che venivano concesse al legato e

quindi al tribunale del Torrone. In tali casi non serviva a nulla invocare i privilegi

connessi all’ordine sacerdotale. Il 22 aprile 1676 il sottuditore Giulio Carretti fece il

riconoscimento formale di un uomo di alta statura di circa quarantacinque anni. Si

trattava di don Giacomo Burgaia di Mongiorgio, inquisito per rapina, il quale rifiutò di

dichiarare le sue generalità: «Io non voglio altrimenti dire il mio nome, né il mio

cognome, né il nome di mio padre, né la mia patria et essercitio, dico bene, che io sono

un sacerdote, e come tale io non pretendo rispondere, né voglio essere sottoposto al

24

foro del signor cardinal legato di Bologna, però faccia Vostra Signoria quello che gli

pare, perché io assolutamente non voglio rispondere, né dire chi mi sia». Carretti

replicò che era soggetto al foro del legato in forza della facoltà concessa dal papa

Clemente X, tramite una lettera del cardinal Altieri, al legato Bonaccorso Bonaccorsi

con la quale lo autorizzava a procedere contro il prete purché non fosse condannato a

morte senza che il papa ne fosse informato. Don Burgaia si ostinò nel diniego e nel

rifiuto di riconoscere la giurisdizione del Torrone e la stessa autorità del papa: «Io dico

a Vostra Signoria che la santità di Nostro Signore non puole sottopormi alla giustizia

del signor cardinal legato, come corte seculare con tutto ciò nessuno puole havere

facultà sopra di me per essere io sacerdote». E ancora: «Io non voglio rispondere

assolutamente perché io pretendo di essere subordinato a monsignor vescovo di

Nonantola e non ad altri, e quando Nostro Signore havesse concessa la facultà al

signor cardinal legato di Bologna, il medesimo signor cardinal legato deve deputare un

giudice del foro episcopale e non del suo foro».

Il notaio gli lesse la lettera di Altieri, Burgaia replicò di aver inteso benissimo (la

ripeté per filo e per segno); «con tutto ciò io dico che non voglio rispondere agli

interrogatori che Vostra Signoria mi fa e faccia quello gli pare». Dopo ulteriori

resistenze vennero addotti vari testimoni che lo riconobbero formalmente come don

Burgaia un lungo e circostanziato interrogatorio; ad ogni domanda Burgaia risponse

«Io non voglio rispondere»; alla fine fu riassunta la confessione del suo complice

Sebastiano Mattarelli che confermò sotto tortura la colpevolezza di don Burgaia il

quale disse solo «a suo luogo e suo tempo dirò le mie raggioni». Nel fascicolo manca

la sentenza ma sul frontespizio del fascicolo è annotata la pena di don Burgaia, che fu

trasmesso alle galere a vita, mentre Mattarelli fu impiccato.

La causa iniziata il 12 maggio 1672 quando Giovanni Giacomo Palmerini e

Lancialino Lancioni avevano sparato fuori dalla chiesa a don Gabriele Santolini,

uccidendolo, è fra quelle che si interruppero – i principali inquisiti si diedero alla

macchia - ma mette bene in evidenza la violenza e l’irregolarità dei comportamenti del

clero nelle comunità più remote delle montagne, e conferma che per quanto riguarda la

sfera sessuale sembrano ancora godere della complicità dei paesani e della

condiscendenza della gerarchia ecclesiastica. Il sottuditore Matteo Lucchesi inviato in

cavalcata venne a sapere che Giovanni Giacomo era nipote di don Giovanni Palmerini,

rettore della chiesa parrocchiale e che era figlio di suo fratello don Giovanni Battista.

Circolava voce che l’omicidio fosse stato commesso «per causa di disgusti che sono

passati tra detto don Gabriele e don Giovanni Palmerini zio del detto Giovanni

Giacomo e don Giovanni Battista padre del detto Giovanni Giacomo per via di alcune

lettere che esso don Giovanni haveva fatto mettere ad una campana nova che fu fatta

alcuni anni sono dal commune quali lettere furno scarpellate e levate via dal detto don

Gabriele Santoli d’ordine delle genti del commune e ciò havutosi a male detto don

Giovanni rettore cominciò a portare odio al detto don Gabriele, che non gli parlava e

che detto odio lo dimostrò publicamente».

La seconda causa «de disgusti è stata perché tanto il detto don Giovanni rettore

quando don Giovanni Battista padre di esso Giovanni Giacomo fecero venire un prete

forastiere per sonare l’organo della detta chiesa et insegnare a cantare li putti e detto

25

don Gabriele havendo havuto dispiacere di questo perché come quello che era virtuoso

et intendeva di sonare lui l’organo et insegnare alli putti fece sapere et intendere a detto

prete forastiere che andasse a fare li fatti suoi che non era di dovere che lui gli levasse

il pane e così detto prete se ne andò via; et havutosi ciò a male li sudetti curato e padre

di detto Giovanni Giacomo mandorno il medesimo Giovanni Giacomo a repigliare

detto prete conforme vi andò e condusse qua; e così esso don Gabriele procurava di

fare il possibile con le genti del commune che detto don Domenico non stasse qua in

paese». Per questo la gente diceva che Giovanni Giacomo avesse ucciso don Gabriele

«acciò essi suoi parenti non havessero disgusto che detto don Domenico dovesse

ritornare via». Un testimone disse che prima di darsi alla macchia Giovanni Giacomo

abitava nella sua casa poco distante dalla chiesa parochiale «in compagnia delli sudetti

preti padre e zio», di sua moglie e della serva. Anche in questo caso la condanna per

l’omicidio non colpisce un ecclesiastico né, per la verità, nessuno: l’esecutore

materiale, Giovanni Giacomo, si sottrasse alla giustizia con la fuga.

Per inquisire don Alessandro De Maria di Monteveglio, che aveva sparato a

Andrea De Maria colpendolo e colpendo anche sua moglie, il legato Lazzaro

Pallavicini aveva deputato il giorno stesso, per inquisire il prete, Nicola Carlini notaio

del Torrone e chierico. Il 7 ottobre 1672 Carlini partì in cavalcata. Interrogando il ferito

venne a sapere che don De Maria gli aveva sparato per il rendimento di conti di una

società che avevano insieme per la conduzione di una fornace e perché il prete non

voleva rispettare i patti. Una quindicina di giorni dopo fu annunciata la morte di

Domenica, la donna ferita. Il processo si interruppe; sul retro del fascicolo l’uditore

ha annotato in data 7 novembre la condanna che intendeva infliggere a don De Maria

(dieci anni di galera), in attesa di un’autorizzazione a procedere che, non sappiamo

perché, non gli venne data: le pressioni che potevano essere esercitate sui giudici per

influenzare l’esito dei processi quasi mai hanno lasciato traccia. Rimane la certezza

che don De Maria aveva cercato di frodare il suo socio e, non essendoci riuscito, aveva

impugnato l’archibugio e aveva sparato; un caso certamente non generalizzabile, ma

possibile dal momento che molti preti, ancora negli anni Settanta del Seicento giravano

armati, come i loro parrocchiani che periodicamente venivano arrestati perché alle

feste, alle processioni e nelle chiese stesse, portavano i loro archibugi, pronti a sparare

per “allegrezza”, un tripudio che spesso sfociava in tragedia.

Nei decenni successivi comportamente simili furono perseguiti duramente dal

tribunale criminale: agli inizi del Settecento decine e decine di persone furono arrestate

perché avevano partecipato a balli portando con sé le loro armi, ed ebbero spesso pene

pecuniarie molto salate. Così questo uso secolare dei contadini venne quasi del tutto

sradicato; si spiega dunque come mai, a metà Settecento, le liti sfociate in omicidio

risultino meno frequenti che nei decenni precedenti; le vendette di sangue praticamente

sparite, resta come una delle cause ricorrenti delle sparatorie tra i giovani la rivalità in

amore, ma anche in questo caso la rappresaglia più spesso si avvale del meno micidiale

bastone. Anche i preti che girano armati sono quasi del tutto assenti nei fascicoli

processuali, ma nelle zone più remote della montagna o in quei territori di pianura ai

confini fra più giurisdizioni, dove l’impunità sembrava garantita, casi di devianza si

incontrano ancora a metà del Settecento.

26

5. Un caso «teribile e tremendo».

Per far emergere il comportamento scandaloso e prevaricatore di don Antonio fu

necessario un sospetto omicidio, una tesi dell’accusa che venne respinta

ripetutamente dai patrocinatori d’ufficio del Torrone, che in questo caso acquistano

maggiore visibilità del consueto, traducendo alla fine del lungo procedimento le loro

eccezioni in un’articolata scrittura difensiva in lingua latina. Essa fu presentata

all’uditore Egidio Ludovisi. il 31 ottobre 1746 dal dottor Giacomo Coralupi,

all’epoca procuratore dei poveri ed era stata redatta dal dottor Giuseppe Maria

Vernizzi, coadiutore dell’avvocato dei poveri Vincenzo Andrea Guinigi per Lorenzo

Brizzi. Brizzi era inquisito per la morte della moglie Maria Gentile Nanni che la notte

fra il 6 e il 7 marzo 1742 era stata trovata dai compaesani in un canale la cui acqua

azionava il mulino di Granaglione, apparentemente annegata. Al momento del

rinvenimento del cadavere Lorenzo era assente, o almeno così si pensava, essendo

andato da molti mesi a lavorare in Maremma. Questa migrazione stagionale

interessava gran parte dei montanari del Bolognese e quelli di Granaglione in

particolare, che lasciavano le proprie case da novembre a giugno, quando tornavano

per il raccolto di grano, per l’aratura, la semina e la vendemmia e poi ripartivano. Le

donne restavano sole per buona parte dell’anno, con vecchi e bambini.

.La linea di difesa del dottor Vernizzi si basava sulla presentazione della vittima

come di una donna di cui tutti sapevano che era debole di mente e che inoltre era

tormentata da frequenti attacchi di gelosia per il marito: il patrocinatore di Lorenzo

Brizzi voleva convincere i giudici che le voci che erano circolate subito per il paese

avevano attribuito la morte della povera Maria Gentile ad una disgrazia, e che era

precipitata in acqua o per caso o per un attacco di follia. Solo dopo alcuni giorni

avevano cominciato a diffondersi altre voci, questa volta malevole, originate da

alcuni parenti di sangue della donna che avevano imbastito quella che Vernizzi definì

una «storiella» di nessun fondamento ma nefasta per Lorenzo, per le sue sorelle

Maria Maddalena e Maria, e per un presunto complice, Pietro Antonio Agostini,

propagandola e facendola arrivare al tribunale con una denuncia presentata dal

massaro Giovanni Taruffi già il 14 marzo.

La morte di Maria Gentile, fosse stata o no provocata dal marito, che l’avrebbe fatta

eseguire materialmente da Agostini e dalle sorelle, era comunque il tragico epilogo di

una vicenda matrimoniale travagliata, per ricostruire la quale possiamo basarci sulle

stesse parole della donna perché le traversie giudiziarie dei due coniugi erano iniziate

già prima, nel 1740, quando, il 20 ottobre, Lorenzo Brizzi aveva sporto querela

davanti al vicario foraneo, l’arciprete di Cavanne (Borgo Capanne) don Paolo

Campoleoni, contro la moglie, affermando che l’aveva colta in flagrante adulterio con

Giuliano Taruffi e che gli aveva portato via tutto quello che aveva potuto da casa. Il

vicario, che aveva competenze nelle cause matrimoniali, interrogò vari testimoni che

furono concordi nel ritenere inverosimile che la donna potesse essere una ladra né

tanto meno un’adultera, conducendo sia lei sia Giuliano Taruffi una vita

irreprensibile.

27

Ciò nonostante Lorenzo Brizzi, interrogato da don Campoleoni il 14 novembre

1740, continuò a tentare di screditare la moglie, accusandola anche di altre infedeltà.

Con questi pretesti lui giustificava le feroci bastonate che tutta Granaglione sapeva

che infliggeva a Maria Gentile. Come scrisse Campoleoni al vicario arcivescovile

Francesco Cotogni, che reggeva la chiesa metropolitana di Bologna per conto del

titolare, papa Benedetto XIV, gli era chiaro che l’uomo aveva fatto processare la

moglie non mirando ad altro «che a vedere, già che non gli è riuscito levarla dal

mondo, di procurare il divorzio e lasciarla senza il peso di allimentarla». Lorenzo

naturalmente non aspirava al divorzio come noi lo intendiamo, che avrebbe fatto una

fugace comparsa nel Bolognese solo con l’arrivo delle armate napoleoniche e la

promulgazione, nel 1804, del codice che portava il nome dell’imperatore: Lorenzo

auspicava che fosse sancita dall’autorità ecclesiastica una separazione «a mensa e a

thoro», una divisione della tavola e del letto coniugale, che lui già praticava nei fatti

ma che lo rendeva passibile di interdizione e scomunica.

Il vicario parteggiava apertamente per la moglie di Brizzi. Il 28 novembre 1740,

Campoleoni avuto modo di interrogare Maria Gentile, che aveva parlato di sé per la

prima e unica volta davanti a un giudice, ricordando che il suo matrimonio era stato

celebrato quattordici anni prima perché un prete loro lontano parente, don Antonio

Nanni, aveva persuaso suo padre, che «non ci aveva troppo genio», a concludere la

trattativa, dando alla ragazza come dote aggiuntiva un castagneto del valore di 1000

lire e 100 capre del valore di 500 lire. I primi giorni le cose erano andate bene fra i

due sposi; per i tre anni successivi un po’male e un po’ bene. Poi erano capitati in

montagna i missionari che cercavano di eliminare le sacche di resistenza agli sforzi di

catechizzazione e di disciplinamento dei costumi dei fedeli e, con buone ragioni, del

clero. Per quanto ne sapeva Maria Gentile, erano stati Paolo Nanni e Annibale

Battelli, cognato di Paolo, a chiedere ai padri missionari di indurre i superiori

ecclesiastici a mandare a Livorno «la Domenica, moglie di Antonio Brizzi detta

volgarmente la Gialla, madre di mio marito e mia suocera» affinché andasse a vivere

con Brizzi, soldato nella città toscana, dal quale viveva di fatto separata, conducendo

vita scandalosa. Questo ricorso fu attribuito a Maria Gentile e a suo padre Ludovico

Nanni ed eccitò in Domenica la Gialla un odio implacabile che sfogò chiudendo la

nuora in una stanza, picchiandola e maltrattandola, anche se era madre di una

figlioletta di pochi mesi.

Maria Gentile allora si era rifugiata dal padre dove era rimasta per cinque mesi. Poi

però, indotta dall’arciprete, era tornata alla casa del marito e della suocera dove aveva

subito ogni sorta di maltrattamenti ed aveva vissuto di stenti per cinque o sei anni,

senza che i familiari le fornissero gli alimenti; per mangiare aveva dovuto arrangiarsi

con la dote datale dal padre, ma poiché questa non era sufficiente aveva dovuto

integrarla andando a servizio dalle donne del paese. Il castagneto e le capre che erano

stati promessi da don Antonio Nanni se li godeva Lorenzo, che glieli aveva sottratti

con la violenza. Ogni tanto Maria Gentile tornava dal padre e anche quando stava a

casa del marito viveva separata da lui. Nel 1739, Lorenzo e e sua madre Domenica

l’avevano addirittura cacciata e il suo stesso confessore le aveva consigliato di

rifugiarsi a casa dei suoi. Poi però confessore e arciprete si erano di nuovo intromessi

28

come paceri e l’avevano convinta a perdonare il marito, che glielo aveva fatto

chiedere perché per la sua condotta gli veniva negata l’assoluzione, ma una volta

ricomposto il nucleo familiare agli occhi del paese ed essendo per questo stato

riammesso ai sacramenti, Lorenzo, istigato dalla madre, l’aveva cacciata ancora una

volta dal letto coniugale e Maria Gentile era stata costretta a dormire presso il

focolare.

Neppure dopo la morte della madre Lorenzo aveva più voluto che la moglie

dormisse con lui. Il maggiore dei suoi figli soffriva nell’assistere ai maltrattamenti

inflitti alla madre e un giorno le aveva detto che il padre stava fuori tutta la notte,

cosa che alla poveretta causò sofferenza – come diranno in seguito molti testimoni

era malgrado tutto innamorata del marito – e nuovi litigi tra i due, tanto da indurre il

marito a tentare di liberarsi della moglie. Nell’agosto 1740 Lorenzo, dopo averla

attirata nel letto coniugale per sviare i suoi sospetti e farle credere in una

riconciliazione, aveva tentato di avvelenarle la minestra col mercurio ma Maria

Gentile aveva sentito in bocca una pallina e l’aveva sputata. La sera dopo Lorenzo ci

aveva riprovato mettendole il mercurio nel riso, ma lei se ne era accorta ugualmente e

non aveva mangiato. Anche quella sera erano andati a letto insieme ma poi avevano

litigato e lui l’aveva cacciata; secondo il suo racconto Maria Gentile aveva allora

recuperato il piatto di riso e gli aveva fatto vedere le palline di mercurio,

rinfacciandogli i suoi tentativi di ucciderla. La prova del fallito avvelenamento era

stata mostrata anche a una vicina, Domenica Marconi, e di tutto quanto era accaduto

la sera prima e nei giorni precedenti era stato messo al corrente lo zio Nicolò Nanni.

Lorenzo non si era dato per vinto e il 10 di settembre 1740 aveva messo del

mercurio in un piatto di lasagne. Maria Gentile, allora, dopo aver ancora una volta

scoperto l’argento vivo nel piatto e averlo mostrato al marito lo supplicò di

risparmiarla. Lui aveva promesso, purché la cosa non si fosse saputa in giro,

altrimenti le avrebbe sparato; poco tempo dopo però lui l’aveva citata davanti al

vicario foraneo, incolpandola di adulterio e furto, e lei allora aveva rivelato tutti i

tentativi di avvelenarla a cui era scampata: «Io intanto mi sono indotta a porgere

questa relatione contro mio marito dall’haver sentito che lui non si è vergoniato

d’imputarmi falsamente nel honore se bene io sia innocente né mai gli habbi fatto

alcun torto potendo io giurare davanti il Signore di non haver mai consciuto altro

uomo che lui havendo io più che probabile fondamento che esso habbia pratiche con

più donne, lo che penso si sappia anche per la parochia, che è quanto io ho da riferire

a Vostra Signoria per la pura e giusta verità implorando giustizia ed obligandomi

presentarmi dove potessi essere chiamata dalli Superiori».

Tra questa sofferta denuncia e la sua morte Maria Gentile si fece di nuovo

convincere dal marito, addirittura scappando dalla finestra dalla casa del padre, dove

si era rifugiata, per seguirlo a Bologna dove siglò il 5 luglio 1741 una dichiarazione

giurata, a scarico della sua coscienza. «Spontaneamente» confessò di essere stata

«erroneamente sedutta nel mese di novembre del prossimo passato anno 1740 a

portarsi alla Pieve delle Cavanne e colà esaminarsi d’avanti il signor Matteo Vivarelli

notaio bolognese alla presenza del signor arciprete delle Cavanne e in tale esame

asserire che detto Lorenzo Brizzi di lei marito abbia tentato di appropinarla il veleno

29

sotto diverse circostanze di tempo, modo e qualità». In nessuno di questi casi poteva

affermare con certezza che il tentativo di avvelenamento ci fosse stato: «non ha

oltrepassato la linea di mero sospetto, a niun vero e real fondamento appoggiato, ma

solamente machinato e per diabolica ispirazione persuaso alla medesima Maria

Gentile da alcune femine verso il predetto di lei marito maligne». Dunque Maria

Gentile si era indotta ad indicare nelle voci malevole contro suo marito l’origine della

sua gelosia e delle sue paure. «Di maniera che tal sospetto, educato poi e coltivato da

continui susurri di dette femine e loro aderenti è stato causa che essa Maria Gentile

abbia concepito avversione ed odio contro detto di lei marito e che con esso siano

insorte liti ed amarezze per le quali essa Maria Gentile siasi separata totalmente da

detto di lei marito e levata dalla di lui casa».

Il rinvenimento del cadavere di Maria Gentile, otto mesi dopo, fece di nuovo

circolare quelle voci e da Granaglione furono spedite due lettere, una delle quali

firmata dallo zio della donna, Nicolò Nanni; da lui veniamo a sapere che c’era stato

un altro tentativo di avvelenamento dopo la dichiarazione di Maria Gentile che aveva

scagionato il marito; si era verificato durante le feste del Natale 1741, e si diceva

questa volta che fosse stato compiuto da Maria Maddalena, sorella di Lorenzo, che se

ne era andato in Maremma per fabbricarsi un alibi. Gentile era stata indotta da varie

persone a ritornarsene con lo stesso Lorenzo e una volta tornata fu poi «da esso

maltratata e con farla patire de fame e molte volte bastonandola a tal segno che fra

queste una volta li ruppe le braccia. Nelle feste poi prossime passate del Santissimo

Natale essa Gentile fu mandata alli Bagni della Poretta dalla Madalena sorella di

detto Brizzi».

La cognata le aveva dato da portare con sé «due libre di carne di porco, quale poi

cotta la prima volta non li fece male alcuno e la seconda volta mangiandone prima lei

fu per morire» e con lei altre sette persone della sua famiglia ma anche quella volta si

salvarono tutti. Dopo che si erano divulgate le voci di tanti tentativi di ucciderla, era

difficile pensare che la morte di Maria Gentile fosse stata accidentale o un suicidio,

anche perché quando era stata trovata annegata, il 7 marzo 1742, aveva la bocca

chiusa. L’accusa del paese fu corale: «Tutti poi gridano vendetta di tal fatto e dicono

che tanto essendo certi i delinquenti di questo caso teribile e tremendo» non

avrebbero potuto sfuggire alla giustizia.

Lasciamo per ora Maria Gentile sotto gli occhi del chirurgo di Bagni della

Porretta, Francesco Costa, che fece l’autopsia del cadavere e confermò che a suo

parere la donna aveva troppa poca acqua nei polmoni per essere morta affogata, e

occupiamoci di un altro personaggio chiave della storia, don Antonio Nanni. Per

capire in quali relazioni fosse con Maria Gentile occorre fare un passo indietro, al 18

dicembre 1740, quando il vicario foraneo, l’arciprete di Cavanne Paolo Campoleoni,

aveva scritto su don Antonio al vicario generale Francesco Cotogni, comunicandogli

che il prete aveva avuto un maschio e due femmine da una donna, la suocera di Maria

Gentile, Domenica Brizzi, che era morta non molto tempo prima. Don Antonio aveva

sempre esercitato la sua autorità sui suoi figli, Lorenzo, Maria Maddalena e Maria

Brizzi e sui figli di Lorenzo e Maria Gentile, suoi nipoti, esibendo pubblicamente la

sua parentela di sangue. Si disse che per odio nei confronti della nuora era stato lui a

30

istigare il figlio affinché l’accusasse di adulterio con Giuliano Taruffi e con altri.

Campoleoni chiedeva che il prete, oggetto di scandalo e mormorazioni per tutto il

paese da anni, fosse costretto a rimanere in città finché non si fosse ravveduto e la sua

indecente condotta non avesse cessato di turbare le coscienze dei paesani.

Non bastava. Quando era morta Domenica, con la quale aveva vissuto per

quarant’anni, il vecchio don Antonio, nonostante avesse sessantasei anni, l’aveva

sostituita con una giovane donna, Giovanna Mattioli, vedova Gualandi. Un processo

era stato avviato presso il tribunale arcivescovile fin dall’ottobre 1740, quindi la

lettera di Campoleoni che esprimeva il suo sdegno per la condotta di don Antonio

non faceva che confermare le notizie sulla sua condotta sessualmente sfrenata che gli

inquirenti stavano raccogliendo. Giovanna, che aveva ventinove anni, era venuta via

dal paese per partorire una bambina a Bologna, dove a pagarle le spese sia per il parto

sia per la collocazione della piccola illegittima nel brefotrofio – chiamato a Bologna

ospedale dei Bastardini – che ammontarono a 5 lire, fu il vecchio don Antonio.

Il 25 gennaio 1741 Paolo Campoleoni aveva scritto di nuovo da Cavanne su don

Antonio Nanni e sulla tresca con la giovane vedova che aveva accompagnato a

Bologna e che si diceva apertamente che avesse ingravidata. Il 24 aprile successivo il

vicario generale aveva dato mandato di celebrare il processo informativo all’arciprete

Campoleoni, che in qualità di vicario foraneo operava per il foro ecclesiastico come

giusdicente in loco; quando gli elementi fossero stati sufficienti per consolidare un

sospetto ma non abbastanza per un’accusa, il vicario generale poteva mandare

cavalcate dal foro arcivescovile - così come venivano inviate dal foro laico - come

successe anche in questa vicenda. Per il momento era compito del vicario foraneo

raccogliere più indizi possibili interrogando insieme ad un notaio tutti quanti in paese

potevano essere informati della condotta di don Antonio. Il 6 maggio 1741

Campoleoni scrisse: «Caro mio signore in questi paesi stretti scandali di tal natura

che vengono da persone a Dio consegrate può figurarsi che male orribile cagionano

nelle anime, agionga lei un continuo di tant’anni, di modo che finita una prattica

invece di finirla ne cerca un’altra», cioè morta Domenica aveva iniziato la relazione

con Giovanna.

Secondo il vicario foraneo c’erano abbastanza elementi perché Carl’Antonio

Vannicelli, l’uditore criminale della curia arcivescovile, procedesse dando mandato al

vicario foraneo di dare inizio all’escussione dei testimoni. Gli interrogatori di

Campoleoni, rispetto a quelli raccolti per conto del tribunale criminale del Torrone

dai suoi ufficiali in cavalcata, lasciano margini di discrezionalità al vicario foraneo;

infatti il confine tra testimonianza giudiziale e confessione al direttore spirituale

sembra essere incerto: nella sua lettera scrisse infatti che un altro grave sospetto sul

prete, oltre a quelli che si apprestava ad elencare, lo teneva chiuso nella sua

coscienza. Espose poi quelli che gli sembravano elementi certi dell’esistenza di una

tresca fra don Antonio e la giovane vedova. In primo luogo c’era chi affermava che il

rapporto fosse iniziato quando viveva il marito di lei, Amedeo Gualandi. Si sarebbe

poi interrotto per un breve periodo, durante il quale Giovanna aveva accompagnato

Amedeo in Maremma. Là, come molti montanari, era morto; la vedova era tornata a

Granaglione e aveva ripreso a frequentare don Antonio. Testimone «quasi» oculare

31

della relazione era don Lorenzo Nanni, nipote del prete (lo rincontreremo), che aveva

cominciato ad avere dei sospetti due anni prima, quando aveva visto la donna tornare

dalla canonica all’alba. Molti altri testimoni che erano disposti a confermare sotto

giuramento le voci raccolte in paese non potevano definirsi neppure

approssimativamente testimoni oculari. Per sentito dire riferirono che correva voce

che don Antonio fosse il padre della bambina della vedova Gualandi aggiungendo

che tutte le donne che capitavano a casa del prete venivano insidiate.

Il processo tornò a Bologna e Giovanna fu interrogata davanti all’uditore criminale

arcivescovile Vannicelli per due volte e alla seconda, il 20 luglio 1741, ammise di

avere avuto una relazione carnale col prete ma questi, interrogato a sua volta, negò

ogni responsabilità della sua gravidanza. Sentito nuovamente l’11 agosto 1741, disse

di non aver potuto metterla incinta perché Giovanna era a Bologna, lontana da lui,

nove mesi prima del parto. Don Antonio sostenne che in paese tutti gli volevano

bene, tranne i suoi parenti perché volevano mangiargli tutta la sua roba e avevano

diffuso calunnie su di lui. A don Antonio venne ingiunto di non allontanarsi da

Bologna e di non frequentare Giovanna pena la sospensione a divinis e la relegazione

nel castello di Ferrara per cinque anni

6. Il foro laico

Il 14 marzo 1742 Matteo Maria Vivarelli, notaio a Granaglione, aveva scritto al

posto del massaro, analfabeta, che l’ostessa Maria Antonia, vedova di Marco

Vangelisti, Pellegrina moglie di Nicolò Trombelli, e Rosa moglie di Domenico

Vangelisti avevano dichiarato «non essersi altrimenti la detta Gentile annegata di se

stessa ma che ella fu anegata dal mentovato Giovanni Lorenzo Brizzi di lei marito,

dalla Madalena di lui sorella» e con il concorso di Pietro Antonio Agostini di Casio.

Il massaro aveva interrogato le donne che avevano esposto cose più o meno simili a

quelle denunciate nelle due informazioni che erano state inviate dall’accusatore

anonimo e da Nicolò Nanni, zio di Maria Gentile. Malgrado queste denunce,

passarono due mesi prima che il procedimento nel foro laico si avviasse. E da tempo

ormai il corpo della povera donna era stato sepolto. Fu quindi necessario, per

acquisire elementi sulle cause della sua morte, interrogare il 16 maggio 1742

Francesco Costa, il chirurgo montanaro che aveva sezionato il cadavere,

convocandolo a Bologna, nel foro criminale del Torrone, davanti al sottuditore

Ceccarelli. Fu pertanto impossibile procedere come di solito operava il tribunale del

Torrone, cioè con la ricognizione del cadavere e la verifica del corpo del reato da

parte di un notaio o di un sottuditore con due chirurghi designati dal tribunale stesso

per constatare la morte e accertarne le cause. La verifica formale del corpo del reato

costituiva l’avvio obbligato dei procedimenti per morti violente e serviva a definire la

fattispecie criminale, mentre i passi successivi dovevano stabilire chi fosse

responsabile di quel reato specifico, ricostruendo le modalità con cui si era svolto il

fatto delittuoso e quali indizi potessero servire a identificare un colpevole,

verificando alibi e moventi.

Passò ancora un certo lasso di tempo e l’11 giugno 1742 il sottuditore Antonio

Almerighi, che fino a quel momento era stato impegnato a indagare su un altro delitto

32

che si era verificato sempre in montagna, a Tolè, ricevette il mandato dall’uditore

Antonio Passeri - che si era consultato in proposito con il legato, cardinale Giulio

Alberoni - affinché si recasse in cavalcata a Granaglione per far luce sulle circostanze

della morte di Maria Gentile. Almerighi doveva procedere a verificare le prove

estistenti contro il marito della vittima, il principale indiziato, ma anche, come voleva

la formula di rito, «contro chiunque dovesse essere trovato colpevole» a seguito delle

indagini. Dal 12 al 14 di giugno il sottuditore procedette a numerosi interrogatori

extragiudiziali. Si trattava di una pratica che era stata apertamente introdotta negli

ultimi decenni e registrata sui fascicoli processuali come attività preliminare agli

interrogatori formali, con giuramento del testimone; serviva a capire come orientare

le indagini e a sondare la consistenza delle prove che potevano essere raccolte dalle

deposizioni ufficiali a sostegno della tesi accusatoria. Ad Almerighi gli elementi certi,

a parte le voci malevole che non mancarono di arrivare alle sue orecchie, non

dovettero sembrargli sufficienti per un’incriminazione se sentì il bisogno di

sospendere la cavalcata, lasciare Granaglione e recarsi a Bologna per consultarsi con

il suo superiore, l’uditore Passeri. Maria Maddalena Tombelli, sorella di Lorenzo

Brizzi, venne comunque carcerata e trasferita alle carceri del Torrone. Il fratello si era

dato alla macchia prima dell’arrivo di Almerighi e restò latitante anche in seguito.

Il 20 giugno il bargello riferì all’uditore di aver saputo che al momento della morte

di Maria Gentile si era sparsa la voce che il delitto fosse stato commesso da Pier

Antonio Agostini di Casio per mandato di Lorenzo Brizzi e con la complicità di sua

sorella Maria Maddalena: avvertito da un informatore sui suoi spostamenti, il

bargello aveva sorpreso e aveva arrestato Agostini fin dall’8 giugno, prima ancora

dell’arrivo della cavalcata a Granaglione, e successivamente lo aveva trasferito nelle

carceri del Torrone. Il 21 giugno, il sottuditore Almerighi interrogò il prigioniero che

alla domanda rituale sul suo mestiere rispose che era gargiolaro, cioè lavorava la

canapa. Lo stesso giorno fu interrogata anche Maria Maddalena Brizzi, moglie di

Francesco Tombelli, la quale disse che la madre era morta – si trattava, come

sappiamo, di Domenica la Gialla - e che suo padre era soldato nel granducato di

Toscana; la sorella Maria era invece sposata con uno stalliere che stava a servizio a

Bologna, e viveva separato da lei. Disse di conoscere Agostini che invece aveva

negato di conoscere lei.

Il 5 luglio Maria Maddalena fu di nuovo interrogata. Veniamo a saper che era

giovane - disse di avere ventiquattro anni – e che per questo non pretendeva di non

ricordare quando il fratello si era sposato con Maria Gentile, perché all’epoca era una

bambina (doveva avere circa otto anni). L’età dei congiunti e anche la propria veniva

dichiarata con molta approssimazione dai contadini del tempo, così come erano vaghi

i riferimenti cronologici a qualsiasi evento della propria vita. Se effettivamente Maria

Maddalena aveva ventiquattro anni nel 1742, allora doveva essere nata nel 1718.

Sulla data del matrimonio le dichiarazioni di Maria Gentile e di suo zio Nicolò Nanni

non corrispondono: secondo la donna le sue nozze erano state concluse nel 1726,

secondo lo zio nel 1727 o 1728. Per accertare l’età di Maria Maddalena al momento

della celebrazione del matrimonio abbiamo dunque dei riferimenti cronologici un po’

oscillanti ma anche se la data fosse stata effettivamente il 1726, come è probabile,

33

comunque Maria Maddalena all’epoca non era poi così piccola come pretendeva. Del

resto, era abbastanza matura per ricordare che la cognata aveva avuto in dote dal

padre un castagneto del valore di circa 800 lire. Maria Maddalena disse poi che i figli

di suo fratello Lorenzo e di Maria Gentile erano due maschi, uno di circa dodici anni

e l’altro di otto: dunque la neonata che Maria Gentile diceva di aver tenuto tra le

braccia mentre la suocera la percuoteva doveva essere morta in fasce. I due figli

stavano a Bologna a studiare a casa di un certo Pietro Antonio Nanni, del quale non

sappiamo se fosse in rapporto di parentela con Maria Gentile, o con don Antonio, o

con tutti e due; dunque non era vero, secondo Maria Maddalena, che i due ragazzi

fossero stati allontanati dalla madre perché non assistessero alla sua uccisione, come

si diceva in giro. Quanto ai rapporti tra il fratello e la cognata, Maria Maddalena

confermò che erano burrascosi e che i due litigavano sempre. Interrogata sulle

presunte responsabilità di Lorenzo nella morte della moglie, Maria Maddalena

rispose che quando era stato trovato il cadavere lui era lontano dal paese, in

Maremma.

Pier Antonio Agostini, interrogato una seconda volta, disse di conoscere «qualche

poco la lettura stampata» ma di non saper scrivere, cosa che sembrava rendere

difficile che lui e Lorenzo, mentre questi era lontano da Granaglione, si fossero tenuti

in contatto mediante rapporti epistolari e che avessero potuto prendere accordi per

eliminare Maria Gentile. Almerighi lo stesso giorno ripartì in cavalcata, dopo aver

ricevuto dal legato Giulio Alberoni, l’8 luglio, le facoltà necessarie per interrogare

non solo Pellegrina Tambelli, suocera di Maria Maddalena, «ma ancora qualunque

altro congiunto de delinquenti, accioché per dificoltà di prova non resti impunito il

loro reato». Dunque, si trattava di un caso difficile, in cui per l’accertamento degli

addebiti mancavano elementi di fatto e in cui era necessario derogare dal principio

che non fosse opportuno interrogare i parenti del sospettato. Il 9 luglio la cavalcata

arrivò a Granaglione e il sottuditore e un notaio si installarono nella casa di un

notabile del luogo, Giovanni Antonio Lorenzini, che parve alla corte itinerante una

sede più consona dell’osteria del paese. Era infatti una pratica comune per la corte

itinerante quella di installarsi nelle osterie della comunità nella quale si svolgeva la

cavalcata per procedere agli interrogatori e anche carcerare i sospetti o i testimoni.

Questi ultimi potevano venire trattenuti se erano sospettati di essere reticenti oppure

se le loro dichiarazioni, particolarmente importanti per l’inchiesta, li esponevano al

rischio delle rappresaglie degli accusati o dei loro parenti.

L’ospitalità offerta alla corte era dunque un fatto non consueto che rivela la

partecipazione di tutta la comunità agli sviluppi del caso e per una volta l’arrivo di

sbirri e ufficiali del Torrone sembra essere stato atteso e non subito come una

interferenza esterna nei rapporti locali. Tutto il paese sembrava disposto a parlare per

rendere giustizia alla povera vittima.A distanza di mesi, si cercava di ricostruire le

circostanze del rinvenimento del corpo e il 10 luglio furono interrogati i due testimoni

che avevano assistito all’autopsia fatta da Francesco Costa, i quali affermarono che il

chirurgo aveva trovato poca acqua nei polmoni e invece aveva riscontrato un segno

bluastro nel collo della vittima e il viso, solitamente pallido e delicato, tutto arrossato.

Il massaro Giovanni Taruffi, che si trovava sul luogo quando il corpo di Maria

34

Gentile Gentile era stato ripescato presso il mulino di suo zio Nicolò Nanni, raccontò

le circostanze del ritrovamento. Parlò inoltre della voce pubblica che si era sparsa

immediatamente e che individuava il colpevole nel marito per mano di Agostini e con

la complicità della sorella. Alla richiesta che precisasse meglio quali fondamenti

avesse l’opinione diffusa tra la gente, Taruffi rispose che era notorio che Lorenzo e

Maria Gentile, fin dai primi tempi del loro matrimonio, non avevano mai avuto pace,

che il marito aveva ripetutamente tentato di somministrare il mercurio alla moglie

d’accordo con la sorella e che per mano di essa aveva tentato di avvelenare con carne

di maiale anche sua suocera Maria Caterina e altri della famiglia della moglie a Bagni

di Porretta.

Taruffi aggiunse poi un particolare che non era emerso chiaramente a proposito del

matrimonio che si era celebrato nel 1726, quando Maria Gentile aveva vent’anni, e

del legame che allora si era creato tra lei e don Antonio: Domenica, moglie di

Antonio Brizzi, detta la Gialla, era «amica» – cioè amante - di don Antonio Nanni:

tutti sapevano che Lorenzo Brizzi e le sue due sorelle erano figli bastardi di don

Antonio e di Domenica, il cui marito non viveva con lei ma faceva il soldato a

Livorno. Confermò quanto aveva dichiarato Maria Gentile mentre era in vita, e cioè

che i missionari, che erano andati a Granaglione alcuni anni dopo il matrimonio fra

Lorenzo e Maria Gentile, avevano cercato di indurre Domenica ad allontanarsi dal

paese per far cessare lo scandalo della sua relazione col prete e ad andare dal marito

Antonio a Livorno, processandola presso la curia arcivescovile di Bologna. Taruffi

disse però che correva voce che l’intervento dei missionari nei confronti della suocera

fosse stato richiesto da Maria Gentile stessa e che da qui fosse nato l’odio tra i

coniugi.

Elisabetta, moglie di Giovanni Taruffi, interrogata a sua volta, confermò che sia

Lorenzo sia Maria Maddalena erano figli bastardi di Domenica la Gialla e anche lei

riportò la voce che la tresca del prete fosse stata denunciata ai missionari dalla

giovane sposa, forse in odio alla suocera, forse per gelosia del marito che aveva molte

amanti e un legame regolare con una parente, Domenica Macciantelli. Per la prima

volta veniamo a sapere qualcosa sull’aspetto fisico di Maria Gentile, definita «gracile

e vistosa», delicata e bella, tanto che il chirurgo Francesco Costa, quando aveva

esaminato il suo cadavere, malgrado le tracce della morte violenta sul suo viso, le

aveva attribuito 30 anni, mentre sappiamo che ne aveva trentasei. La donna era anche

virtuosa e la sua fama di donna casta non era mai stata offuscata, nemmeno quando il

marito era lontano, in Maremma e, a differenza di molte compaesane che

intrecciavano relazioni coi pochi uomini rimasti nella comunità, anche preti, si

manteneva rigorosamente fedele al marito.

Molti altri testimoni confermarono le parole di Elisabetta, tra i quali Marco Taruffi

che disse: «Se Vostra Signoria interrogherà tutto il paese di Granaglione sentirà

essere sempre stata una donna da bene di bon parentado e quieta che nessuno ha mai

potuto dire di lei, benché da suo marito sia sempre stata così maltrattata, perché non li

piaceva vederlo con certe prattiche, che per quanto si dice li conduceva fino in casa, e

particolarmente la Domenica Macciantelli». Dunque la donna rinfacciava al marito le

35

sue «prattiche», le sue frequentazioni con altre donne, e questi reagiva malmenandola

e, a quanto si diceva, portandole in casa la sua «amica» prediletta.

Pellegrina Brizzi, vedova di Carlo Marconi, disse che il marito non la manteneva e

quando andava via non le lasciava il denaro per vivere; per questo Maria Gentile per

guadagnare qualche cosa doveva adattarsi anche a lavori pesanti e inadatti al suo

fisico esile: «andava a far legna», portava «lastre sulle spalle a muratori». Come altri

testimoni, Marco Taruffi disse che Lorenzo Brizzi era tornato dalla Maremma ma per

non farsi catturare dagli sbirri era rimasto entro i confini del granducato, a Pavana.

Per trovare elementi che confermassero le accuse di complicità in omicidio che da

molte voci erano rivolte a Maria Maddalena Brizzi, il sottuditore si avvalse della

facoltà concessagli dal legato di interrogare parenti stretti degli accusati e convocò

sua suocera Pellegrina, moglie di Nicolò Tombelli, la quale (come altri testimoni)

disse di aver visto Maria Maddalena in compagnia di Maria Gentile poco prima che

fosse trovata morta. Disse anche che Pier Antonio Agostini era amico della nuora e

del fratello di lei e dunque rafforzò i sospetti che potessero aver ordito insieme un

piano per eliminare la moglie di Lorenzo. La sua antipatia per la nuora, che in altri

interrogatori avrebbe manifestato più apertamente, la portava ad insinuare nella

mente dei giudici che avesse tentato di avvelenare Maria Gentile con la carne di

maiale, come si mormorava in paese.

36

7. Confini superabili e prove vacillanti.

Il giorno successivo il caporale degli sbirri comunicò al sottuditore Almerighi di

aver arrestato sul territorio di Bagni di Porretta l’oste di Pavana, comunità nel

territorio del granducato di Toscana, ma a pochissima distanza da Granaglione. La

cattura dell’oste a Bagni di Porretta dovette essere fatta previo accordo con il

governatore del feudo per conto dei nobili bolognesi Ranuzzi, che consentirono agli

sbirri della Legazione di entrare nella loro giurisdizione. L’uomo non era accusato di

nulla ma venne fermato come testimone chiave. Nella sua deposizione disse che

Brizzi, descritto come un «giovanotto», aveva alloggiato alla sua osteria dove erano

andati a trovarlo Maria Maddalena e Agostini, poco tempo prima del rinvenimento

del corpo di Maria Gentile, cioè quando, secondo l’alibi dichiarato, avrebbe dovuto

trovarsi in Maremma.

Per verificare questo punto cruciale il sottuditore Antonio Almerighi interrogò

Matteo Andrei, di Granaglione, che era stato in Maremma da Ognissanti dell’anno

precedente ai primi di giugno 1742; Andrei disse che era con Lorenzo Brizzi quando

a marzo era arrivata la notizia che era annegata sua moglie. Brizzi lavorava ad una

carbonaia e Andrei lo aveva raggiunto là per informarlo. Aveva perciò colto la sua

reazione ed era in grado di riferire le parole che aveva detto: «Se mia moglie avesse

fatta una buona morte avrei volsuto fare un festino». Come a dire che si augurava che

non avesse sofferto e che fosse morta in grazia di Dio e che lui, per conto suo, non

aveva che da festeggiare la riacquistata libertà. Andrei affermò inoltre che

ultimamente lo aveva visto girare in paese armato di schioppo e pistole a bere a casa

di Francesco Tombelli, nonostante fosse latitante nel granducato.

Pavana Pistoiese e Granaglione erano divise da un confine facile da attraversare e

da poco più di un chilometro in linea d’aria: stare al di qua di quel limite immaginario

garantiva impunità e impediva alla giustizia pontificia di arrestare Lorenzo sul

territorio del granducato, ma quelle stesse barriere potevano allentarsi ed essere

varcate col favore delle tenebre, con la dimestichezza dei sentieri di montagna, con la

complicità degli amici, per tornare temporaneamente a casa. Francesco Tombelli, che

fu a sua volta interrogato, era cognato di Lorenzo e marito di Maria Maddalena e

confermò che, al tempo della morte di Maria Gentile, Lorenzo era con lui in

Maremma. Dopo vari interrogatori che avvalorarono la brutalità di Brizzi nei

confronti della moglie – era arrivato a fracassarle le ossa – e la gelosia di lei, che

sembrava essere una delle cause scatenanti quella violenza, il 17 luglio il sottuditore

interrogò Nicolò Tombelli, padre di Francesco e suocero di Maria Maddalena Brizzi.

Questi disse che la nuora il 7 marzo lo aveva pregato di andare di notte in Maremma

a farsi fare gli attestati che Lorenzo si trovava là al momento della morte della moglie

e per questo gli aveva dato 10 paoli (pari a uno scudo, o a 5 lire) e una lettera per il

fratello.

E’ una testimonianza molto compromettente perché la richiesta era stata fatta a

poche ore di distanza dal momento in cui presumibilmente era morta Maria Gentile.

Il suocero di Maria Maddalena avrebbe dovuto farsi dare delle «fedi» dalle autorità

del luogo (nel Grossetano) in cui si trovava Lorenzo che dimostrassero che non si era

37

mai mosso di lì e gli costituissero un alibi. Un alibi a Pier Antonio Agostini lo fornì

Sabattino Presi di Casio: la sera del 6 marzo, quando era morta Maria Gentile, era a

veglia da lui e quindi non poteva essere l’esecutore materiale dell’omicidio. Un altro

compaesano di Agostini, Francesco Presi, disse che tempo prima, quando si erano

sparse le voci del complotto fra Lorenzo, Maria Maddalena e Pier Antonio, era stata

chiesta una fede che Agostini era effettivamente a veglia. Fra chi avvalorò l’alibi di

Agostini ci fu anche don Benedetto Altogradi, canonico regolare lateranense e

parroco di Casio.

Il sottuditore interrogò poi Maria Caterina, vedova di Ludovico Nanni, madre di

Maria Gentile, la quale disse che dal 1726 «per opera di un certo signor don Antonio

de Nanni da Lusara maritai in Lorenzo Brizzi e che essendo stata continuamente

maltrattata detta mia figlia stiede pochi mesi in pace col nominato suo marito». Disse

che Lorenzo era figlio bastardo di don Antonio e che le accuse fatte a lui e a

Domenica la Gialla quando erano andate le missioni in montagna erano state

ingiustamente attribuite a sua figlia la quale fu talmente «presa in odio» da Lorenzo e

da don Antonio, «che la poveretta non poteva più vivere quieta», era stata bastonata,

il marito le aveva portata in casa Domenica Macciantelli e aveva peccato con lei

praticamente sotto i suoi occhi. Nel 1740 aveva tentato tre volte di ucciderla col

mercurio. Erano stati rappacificati dalla corte arcivescovile, ma invano. Lorenzo era

poi partito per la Maremme e poco dopo Maria Maddalena aveva tentato di

avvelenare Maria Gentile con la carne di maiale. E’ la prima testimone che accusa

apertamente don Antonio di essere stato l’istigatore del figlio nella persecuzione della

moglie e nella sua soppressione. Poiché il processo è condotto da rappresentanti del

foro laico il notaio, quando riporta le parole della donna contro il sacerdote, non

trascrive il suo nome (non lo potrebbe fare senza esplicita licenza del foro

arcivescovile) ma lo indica come persona non nominata.

La cavalcata si concluse il 19 di luglio. Oltre un mese dopo, il 29 agosto 1742, il

sottuditore – questa volta in Torrone - interrogò di nuovo Maria Maddalena, contro la

quale praticamente c’erano le accuse di tutto il paese. L’interrogatorio fu lunghissimo

ma la donna non ammise nessuna responsabilità nella morte della cognata. Gli

inquirenti erano molto incerti e i tempi del processo rallentarono. Per accertare le

responsabilità di Maria Maddalena, il 13 settembre furono sentiti due periti

tossicologi che dalla sola descrizione dei sintomi riportati dalle parole dei testimoni

(vomito, diarrea ed altro), in mancanza del corpo del reato (la carne di maiale),

dovevano pronunciarsi sulla possibilità che Maria Gentile fosse stata avvelenata dalla

cognata. I periti non se la sentirono di esprimersi con sicurezza, affermando che la

carne di maiale avrebbe potuto produrre simili effetti anche senza che fosse stata

avvelenata.

Il 20 ottobre Antonio Almerighi interrogò di nuovo Maria Maddalena Brizzi

Tombelli alla quale vennero contestati gli elementi su cui la corte si fondava per

incriminarla: i capi d’accusa erano l’odio che portava alla cognata e la sua

incondizionata parzialità per il fratello; le trame occulte che qualcuno aveva

orecchiato dalle imposte chiuse della sua casa e che avevano coinvolto lei, Lorenzo e

Pier Antonio Agostini; il malessere che aveva colpito Maria Gentile e ai suoi parenti

38

a Bagni della Porretta dopo che avevano mangiato carne di maiale; la sua possibilità

di accedere alla casa del fratello e della cognata per mettere il veleno. Le prove e gli

indizi, tuttavia, non erano solidissimi: un esame del cadavere descritto a distanza di

mesi dalla sepoltura; una perizia sull’autopsia di un chirurgo non nominato dal

tribunale; l’esclusione di una caduta accidentale in acqua, come si era potuto

accertare da un sopralluogo sul teatro dell’incidente che aveva constatato la presenza

di un muro di protezione; il ritrovamento di un pezzo di rocca per filare bruciata dopo

il presunto delitto poco lontano dallo stesso luogo (la rocca apparteneva a Gentile e

l’avrebbe avuta in mano quando era stata attirata fuori casa dalla cognata).

Si contestava poi alla donna il suo odio per Maria Gentile; si accusava Maria

Maddalena di essersi servita della sua figlioletta per andare a chiamare la vittima e

indurla a uscire senza sospetti; di aver orchestrato con cura la messinscena di un

invito a cena (alcuni testimoni avevano specificato che Maria Maddalena si era

procurata gli ingredienti con un giorno di anticipo e quindi l’invito non era

estemporaneo come pretendeva lei). Che non fosse stato un impulso improvviso lo

dimostrava anche il fatto che Maria Maddalena non aveva partecipato come al solito

alla veglia nella casa di Antonio Mellini, suo vicino e che Maria Gentile non fosse

uscita di casa per andare volontariamente ad annegarsi lo dimostrava un testimone

che l’aveva vista attraversare il fosso confinante con l’aia della sua casa, dopo aver

lasciato la via diretta per andare al mulino. La testimonianza di Margherita

Macciantelli aveva accertato che vicino alla casa di Maria Maddalena, dove si era

diretta Maria Gentile, forse stupita dell’invito, c’era un uomo appostato (Agostini? La

testimone non poteva affermarlo con certezza).

Come sempre, giocava un peso non indifferente nel dirigere i sospetti degli

inquirenti e nel rafforzare indizi non del tutto convincenti la «pubblica voce e fama»,

quello che mormorava la gente, che da subito aveva creduto di individuare i

colpevoli. Come vedremo, anche prima di questi fatti la «fama» di Maria Maddalena

non era specchiata e la sua condotta sessuale disordinata, cosa che l’aveva resa

incompatibile con la devota cognata. Alle accuse che le vennero rivolte la donna

rispose negando ogni addebito e dicendo «che in sostanza non avendo né tentato né

eseguito la morte di detta mia cognata non crederò di poter essere castigata per

giustizia in alcun conto». Dopo di lei, lo stesso 20 ottobre, fu incriminato anche Pier

Antonio Agostini a cui vennero contestati l’ amicizia con i fratelli Brizzi, la sua

presunta complicità con Maria Maddalena nel tentativo di avvelenamento ed altri

indizi più o meno vacillanti contro di lui.

Il processo accusatorio era concluso e toccava ai difensori vagliare le prove. L’11

dicembre 1742 il procuratore dei poveri, dottor Coralupi, fece la sua comparsa

davanti all’uditore e presentò le sue eccezioni; disse in particolare che non era

provato che un tentativo di omicidio fosse stato compiuto col veleno e che

l’esecutrice fosse stata Maria Maddalena per conto e su istigazione di Lorenzo,

perché tale tentativo di avvelenamento era stato realizzato ben trenta giorni dopo il

presunto abboccamento segreto, dopo cioè quelle parole che qualcuno aveva creduto

di cogliere dalle imposte chiuse della casa di Maria Maddalena dove Lorenzo avrebbe

chiesto ai due di sopprimere la moglie, la notte del 6 dicembre 1741. Non bastava a

39

incriminare Maria Maddalena il fatto che avesse la chiave per entrare in casa del

fratello e di sua moglie: il possesso non implicava che l’avesse usata per mettere il

veleno nella carne; inoltre, nessuno l’aveva vista entrare o uscire da quella casa.

Coralupi concludeva richiamando la perizia dei tossicologi e la convinzione,

evidentemente diffusa, che la carne di maiale di per se stessa può far male. Anche lo

strangolamento, di cui sarebbe stato responsabile Agostini, non era provato perché a

suo dire il cadavere non presentava segni di violenza, affermazione difficile da

confermare come da smentire. Questa scrittura di Coralupi prova che anche prima del

1744 era invalsa nella procedura del tribunale criminale la pratica di presentare la

sintesi scritta delle motivazioni difensive, che presumibilmente sarebbero state

sviluppate dai patrocinatori d’ufficio nella congregazione criminale. Una pratica di

cui non c’è traccia fino ai primi anni del Settecento e che si sarebbe stabilizzata negli

anni precedenti alle Costituzioni di Benedetto XIV.

Il cadavere di Maria Gentile l’avevano visto solo un chirurgo di paese e due

testimoni, come lui montanari: il difensore cittadino, dottore in legge, ebbe buon

gioco nel mettere in dubbio che di un omicidio si fosse veramente trattato. Lo stesso

giorno, l’11 dicembre, la causa venne proposta alla congregazione criminale per la

discussione; il collegio giudicante decise che i carcerati dovessero essere rilasciati

perché la loro colpevolezza non era stata provata, ma che «procurandam vere esse

absentis capturam», cioè si doveva cercare di catturare il latitante Lorenzo. Il 30

dicembre l’uditore Antonio Passeri, visto il decreto di non colpevolezza della

congregazione criminale, fece scarcerare Maria Maddalena con la condizione che

giurasse di non vendicarsi dei querelanti (i parenti di Maria Gentile) e dei testimoni

che l’avevano accusata. Una decina di giorni dopo Agostini fu a sua volta rimesso in

libertà e poté tornare a casa alle stesse condizioni.

Lorenzo, sempre assente, verso la metà del 1743 presentò al legato una supplica

nella quale chiedeva di poter tornare per mantenere i suoi poveri figlioletti che senza

il padre erano costretti ad andare elemosinando. Il 9 settembre il legato rispose alla

richiesta di Lorenzo Brizzi, contumace da un anno, con un decreto di grazia alla

condizione che pagasse le spese processuali sostenute dalla corte in cavalcata. La

diaria (il viatico) prevista era all’epoca di 12 lire al giorno, più del salario mensile di

un operaio del filatorio. La cavalcata era durata circa un mese costò quindi a Lorenzo

una discreta somma, che gli fu fatta pagare anche come pena per le sevizie

continuative inflitte alla moglie, sulle quali non sembravano esserci dubbi.

Tecnicamente Lorenzo non era stato imputato né tanto meno interrogato, essendo

contumace, ma chiedendo la grazia aveva ammesso implicitamente la sua colpa:

molti processi per reati anche gravi si concludevano così, con un «accomodamento»

con il legato o, nei casi di omicidio sanzionati con la pena di morte, con lo stesso

pontefice, che si riservava di esaminare caso per caso e concedere o meno la grazia.

Per essere effettiva, la concessione del decreto di grazia richiedeva che i parenti delle

vittime perdonassero il colpevole, gli concedessero una pace stipulata davanti a

testimoni e sottoscritta di loro pugno con la croce, se analfabeti. Lorenzo aveva

faticato ad ottenere il perdono dei parenti di Maria Gentile, in particolare dalla

suocera. Il 29 settembre 1743 l’arciprete Paolo Campoleoni delle Cavanne attestò di

40

aver chiesto ripetutamente la pace a Maria Caterina, madre di Maria Gentile, «la

quale mai però m’è stata negata ma fin’ora si è tirata alla longa. Finalmente avendo

fatte numerose instanze per detta pace, la sudetta Maria Catterina il dì 27 del cadente

mese di settembre venne da me e disse che avrebbe fatta la pace al sudetto Lorenzo

purché esse le avesse pagata la spesa fatta alla fu Gentile moglie del sudetto Lorenzo

per anni quattro in circa; secondo, che le avesse pagate un paio di scarpe che la fu

Gentile sudetta levò da una bottega al Bagno della Porretta e che a lei convenne

pagare; terzo, che si obligasse a non passare davanti la sua casa per ogni buon

riguardo eccettuata l’occasione di publiche processioni».

La madre di Maria Gentile per sottoscrivere la pace con il genero chiedeva denaro,

fatto non inconsueto in simili pattuizioni ma di rado documentato così esplicitamente.

In questo caso il denaro era un risarcimento delle spese fatte per mantenere la figlia

nei periodi nei quali era stata costretta a rifugiarsi nella casa paterna e anche il

rimborso di quel paio di scarpe rubate, episodio che fino a questo momento è l’unica

ombra che viene gettata, proprio dalla madre, sulla reputazione di Maria Gentile. Su

questo episodio non sappiamo nient’altro. E’ però da tener presente nel riflettere sulla

fondatezza di alcuni argomenti di parte opposta (e in particolare dell’accusa di aver

rubato in casa a suo tempo rivoltale dal marito) che non si possono pregiudizialmente

liquidare come infondati. Non solo denaro chiedeva Maria Caterina, ma anche che il

genero portasse rispetto per la sua casa e, tranne che durante le processioni, non vi si

avvicinasse, per non stimolare l’odio e il risentimento dei fratelli maschi di Maria

Gentile che, nonostante la pace sottoscritta, avrebbero potuto essere istigati alla

vendetta. Le richieste di Maria Caterina furono accolte e il 18 ottobre 1743 Lorenzo,

esibita la pace, chiese e ottenne dall’uditore Antonio Passeri la chiusura del

procedimento con l’impegno giurato di non offendere i suoi accusatori, cioè Maria

Caterina Nanni e i suoi figli, fratelli di Maria Gentile, e dopo aver versato il denaro

richiesto dalla suocera.

41

8. Il foro ecclesiastico.

La cavalcata mandata dalla curia criminale del Torrone era da poco arrivata a

Granaglione quando, l’11 giugno 1742, comparve nella curia arcivescovile di

Bologna il reverendo Annibale, figlio del defunto Ludovico Nanni, per denunciare

don Antonio Nanni, suo lontano parente, come responsabile della morte di sua sorella

Maria Gentile. Il figlio sarebbe stato infatti istigato da lui, per antichi rancori nei

confronti della nuora e perché apertamente parziale nei confronti di Lorenzo,

continuamente in conflitto con la moglie. Fra i testimoni che potevano sostenere la

sua accusa citò Giuliano Taruffi, lo stesso che Lorenzo aveva preteso di aver sorpreso

in flagrante adulterio con Maria Gentile. Il 18 luglio, proprio mentre la cavalcata del

sottuditore Almerighi tornava a Bologna dopo aver esaurito gli interrogatori in paese,

il vicario generale della curia arcivescovile affidò il processo a don Mariano

Vannicelli, sacerdote e protonotario apostolico, che con un notaio andò a sua volta in

cavalcata a Granaglione, scortato dagli sbirri dell’arcivescovado - che agivano

parallelamente alle forze del tribunale del Torrone sia in città sia in contado - perchè,

come fu scritto nel fascicolo processuale che era stato appena aperto, in quei tempi

difficili di guerra, le strade erano infestate da disertori e malviventi. Il 21 luglio

Vannicelli arrivò e si installò in una casa privata a Bagni della Porretta. Qui si

presentò il caporale degli sbirri di montagna che aveva raccolto informazioni in giro

ed aveva saputo che don Antonio era conosciuto in tutto il paese come «uomo

scandaloso, usurario e prepotente il quale voglie far denari su quel d’altri et con

estorsioni de poveri e che principiò fin da chierico una prattica disonesta con la

Domenica Macciantelli la quale poi si maritò in Antonio Brizzi». Nonostante fosse

stato processato dall’arcivescovado, su segnalazione dei padri missionari, aveva

continuato la relazione per quarant’anni, finché la Gialla era morta.

A quanto era stato riferito agli sbirri e agli ufficiali del tribunale del Torrone si

aggiungono nuovi particolari, come se le domande poste da o per conto del tribunale

ecclesiastico inducessero la gente ad essere più esplicita, forse per il timore di

42

sanzioni spirituali e forse perché la consuetudine col confessionale rendeva più facile

aprirsi ai sacerdoti o persino ai loro emissari, gli sbirri dell’arcivescovado. Diventa

chiaro così come mai potesse essere notorio per tutto il paese che i figli erano di don

Antonio (la donna non aveva rapporti con altri) e nello stesso tempo formalmente

fossero figli legittimi: quando Domenica si accorgeva di essere incinta faceva venire

a casa il marito per attribuirgli la paternità. La donna aveva avuto così vari figli di cui

i tre sopravvissuti che don Antonio trattava apertamente come propri. Ulteriori

particolari sulla incontinenza sessuale del prete erano stati raccontati al caporale degli

sbirri: dopo avergli attribuito un’insaziabile lussuria - «tenta a mal fare tutte le

donne» - fu riferito che una certa Domenica Mellini tempo addietro si era nascosta

per sfuggirli rimanendo al freddo tutta la notte e si era detto che per questo era morta.

Non basta: aveva messa incinta la moglie di Pietro Lenzi mentre l’uomo era in

Maremma. I mariti, migranti per quasi tutto l’anno, lasciavano delle donne sole che

se volevano trovavano sempre qualcuno disposto a consolarle e don Antonio era tra i

più intraprendenti..

Si era ampiamente parlato di Lorenzo e di Maria Maddalena anche davanti al

sottuditore del Torrone, mentre non si sapeva nulla della loro sorella Maria; il

caporale degli sbirri dell’arcivescovado era però riuscito ad accertare che era sposata

con Antonio Ugolini di Casio, mentre dagli interrogatori del Torrone era stato

nominato genericamente come uno stalliere. Dalla relazione del caporale emerge poi

un altra caratteristica di Maria Gentile: non sapeva tenere a freno la lingua. Quando,

poco dopo il matrimonio, si era accorta della tresca tra la suocera e don Antonio

l’aveva raccontata in giro e il marito e tutti i suoi parenti avevano cominciato ad

odiarla. Don Antonio avrebbe detto allora al figlio che era meglio se l’uccideva e che

poi ci avrebbe pensato lui a riconciliarlo con la giustizia.

Come nella cavalcata del sottuditore Almerighi, venne interrogato il chirurgo di

Bagni di Porretta, Francesco Costa. L’uomo, relativamente giovane ma sicuro del

fatto suo – dichiarò di avere trentanove anni – ripeté con sicurezza che Maria Gentile

non poteva essere morta per annegamento perchè non aveva acqua nei polmoni.

Domenica 22 luglio, dopo aver assistito alla messa, Vannicelli interrogò Maria

Caterina Nanni della quale, come per tutti i testimoni, i fascicoli del foro ecclesiastico

di danno una sommaria descrizione: si trattava in questo caso di una donna di 57 anni

che per vivere filava, tesseva e cuciva. Disse che la divulgazione della relazione e la

segnalazione ai missionari erano state attribuite da don Antonio Nanni a Maria

Gentile e a Ludovico, il defunto marito di Maria Caterina e padre di Maria Gentile,

confermando il motivo dell’astio del prete nei confronti della nuora e dei suoi

familiari: l’avvelenamento con la carne di porco, di cui era accusata Maria

Maddalena, aveva messo a repentaglio la vita di molti di loro.

Dopo aver convocato altri testimoni, su segnalazione del caporale degli sbirri, don

Mariano Vannicelli scrisse al governatore di S. Marcello Pistoiese perché gli fosse

consentito di interrogare Pietro Ferrari, che si trovava sotto la sua giurisdizione. In

attesa di una risposta Vannicelli riprese gli interrogatori dei testimoni, fra i quali

Maria Antonia Lorenzini vedova Vangelisti, che conduceva l’osteria già appartenuta

al marito e che dette una descrizione particolarmente dettagliata del rinvenimento del

43

corpo di Maria Gentile, come già aveva fatto davanti ai rappresentanti del foro laico.

Maria Antonia disse di aver visto il cadavere e di aver notato che aveva la faccia

gonfia, il che poteva avvalorare l’ipotesi che Maria Gentile fosse stata strangolata.

L’ostessa confermò quanto già si sapeva sulla vita scandalosa di don Antonio; a

differenza di quanto era stato riferito agli ufficiali del Torrone ai quali erano state

sottolineate soprattutto la vita irreprensibile di Maria Gentile e le violenze che aveva

dovuto subire dal marito e dalla suocera, davanti a don Mariano Vannicelli, giudice

delegato del foro ecclesiastico, viene rappresentata anche la vita dissoluta di

Lorenzo, particolari che avevano turbato le coscienze ma che non avevano trovato il

modo di esprimersi davanti al sottuditore Amerighi, che forse non aveva ritenuto

rilevante ai fini delle indagini sollecitare descrizioni dettagliate sulle sue abitudini

sessuali. Soprattutto, tali abitudini erano ascrivibili a figure di reato gravi per il foro

ecclesiastico e di sua specifica competenza: Lorenzo frequentava varie donne ma

aveva una relazione continuativa con Domenica Macciantelli, sposata con Biagio

Tombelli, sua cugina da parte di madre entro il quarto grado e sua comare di

battesimo.

Per il diritto canonico tale relazione si poteva doppiamente rubricare nella

fattispecie dell’incesto: sia per la parentela di sangue, sia per la parentela spirituale.

Dopo aver tentato varie volte di avvelenare la moglie, costringendola a denunciarlo,

Lorenzo per liberarsi dalle sanzioni ecclesiastiche aveva convinto Maria Gentile, che

era andata a vivere dal padre, a tornare con lui «et fece tante cose che la indusse ad

andare a Bologna a disdirsi» cioè a ritrattare la denuncia, «et essa, che voleva bene et

era innamorata di suo marito fece quel tanto che suo marito volle et don Antonio

Nanni fu quello che maneggiò le cose per agiustare Giovan Lorenzo et che non si

parlasse di veleni dati alla moglie». Dopo aveva continuato a maltrattarla e poi,

quando Lorenzo era lontano dal paese, a Bologna dove il padre era relegato, Maria

Gentile era stata avvelenata ancora una volta, con la carne. Aveva avuto violenti

attacchi di vomito e di dissenteria ed era corsa a rifugiarsi dall’ostessa dove era

migliorata. La donna concluse la sua lunga testimonianza dicendo di essere convinta

che la morte di Maria Gentile era stata provocata dalle sorelle Maria e Maria

Maddalena Brizzi con la complicità di Pier Antonio Agostini.

Molte altre persone che si presentarono perché citate da Vannicelli erano state

sentite pochi giorni prima da Almerighi durante la cavalcata del Torrone. Rispetto

alle dichiarazioni rese in quell’occasione, si conferma come le risposte negli

interrogatori tendano ad arricchirsi di particolari più intimi e soggettivi, come se il

giudice arcivescovile avesse instaurato un rapporto più simile a quello tra penitente e

sacerdote in confessionale che a quello, segnato spesso da diffidenza reciproca, del

testimone davanti a una corte di giustizia. Anna Maria Vivarelli, moglie di Marco

Marconi, una donna di quarantacinque anni che filava e tesseva la tela, disse di essere

stata esaminata anche da quelli del Torrone «quando li giorni passati fecero la

cavalcata et mi esaminarono per esser io vicina all’abitazione di detta Maria Gentile».

Per questo era informata dettagliatamente dei maltrattamenti che la donna subiva,

come già aveva riferito ad Almerighi. Questa volta aggiunse però che Maria Gentile

non poteva essersi suicidata perché era molto devota. Tassello dopo tassello, le

44

immagini sfocate della vittima e dei suoi presunti assassini si precisano, delineando

personalità complesse e moltiplicando gli interrogativi sulla natura accidentale o

criminosa del fatto. Anche Maria Angela Marconi, moglie di Giuseppe Taruffi, una

donna di ventiquattro anni presumibilmente benestante se come sua occupazione

dichiarò «d’attendere alla casa e fare di quei lavori che fanno le donne», era già stata

interrogata dal sottuditore del Torrone. Era fra la piccola folla che si era accalcata

davanti al cadavere dopo che lo avevano ripescato dal canale ma, come disse lei

stessa, aveva distolto quasi subito lo sguardo e delle condizioni del corpo poteva

parlarne solo per sentito dire. Con le sue orecchie aveva sentito Maria Maddalena

Brizzi gridare, quando le era stato riferito quello che si diceva contro di lei, «che se

doveva pagare una cavalcata ne voleva pagar tre, perché ne voleva far ammazzare

sette o otto et così far finire di parlare alla gente».

Il 25 luglio don Mariano Vannicelli celebrò la messa e, dopo alcuni interrogatori

che vertevano tutti sul ritrovamento del cadavere, ricevette la risposta, datata 24

luglio, di Giovanni Filippo Buonaparte, capitano di giustizia di S. Marcello Pistoiese

il quale aveva scritto di non avere il potere di dare esecuzione a richieste trasmesse da

qualsiasi tribunale, anche dello stesso granducato, senza il consenso del tribunale

criminale di Firenze al quale aveva inoltrato la lettera di Vannicelli. Il permesso non

venne mai e non possiamo sapere che domande Vannicelli volesse porre a Pietro

Ferrari. Nel frattempo Lorenzo Brizzi, come sappiamo, era rifugiato a Pavana ma il

figlio del massaro di Granaglione denunciò a don Mariano che andava in giro per il

paese armato di schioppo per portar via la roba del padre sotto sequestro cautelativo,

una misura che veniva presa per evitare che i sospettati si sottraessero all’obbligo di

pagare le spese processuali e i viatici della cavalcata. L’uditore emise un mandato di

cattura che però sappiamo non ebbe esito perché fino al 18 ottobre 1743 l’uomo restò

latitante.

Il 28 luglio fu sentito Giuliano Taruffi, il supposto amante di Maria Gentile, che

risultò essere un uomo benestante di quarantacinque anni che da una ventina di giorni

si era trasferito a Lucca dove aveva aperto una bottega di teleria. Aveva mandato

relazioni al Torrone e al foro arcivescovile sulla morte di Maria Gentile mentre

ricopriva l’ufficio di massaro di Granaglione e per questo temeva la vendetta di

Lorenzo Brizzi; chiedeva perciò che si provvedesse alla sua protezione. «Ei io di

questo ne ho dato querella tanto in Torrone quanto in vescovato acciò che sia

proveduto perché per la relazione che ho data per debito del mio ufficio non devo

essere tenuto in suspicione di guardarmi la vita perché purtroppo tutto l’intreccio è

stato fatto da don Antonio Nanni». La relazione che lui aveva mandata

all’arcivescovado era stata scritta da Matteo Maria Vivarelli, notaio foraneo di

Granaglione che fungeva anche da coadiutore del vicario Campoleoni

nell’amministrazione della giustizia in contado per il foro ecclesiastico. Matteo Maria

Vivarelli, interrogato a sua volta, disse che Lorenzo Brizzi faceva tutto quello che

voleva il padre e che Maria Gentile «vedendo le domestichezze che passavano tra don

Antonio Nanni et la Gialla non ebbe prudenza di tacere ma le raccontò». Don

Antonio allora aveva tentato di farla processare come ladra e in seguito aveva istigato

il figlio ad accusarla di adulterio.

45

Che dietro al complotto per assassinare Maria Gentile ci potesse essere il suocero lo

confermò anche un altro prete, il reverendo Bartolomeo Nanni, di cinquantun anni,

che non aveva rapporti stretti di parentela con don Antonio ma che da ventidue anni

esercitava la cura d’anime come cappellano alla sussidiale di S. Lorenzo di Lustrola,

la chiesa officiata da don Antonio stesso. «La Maria Gentile Nanni non ha volsuto

pratticare in casa di don Antonio Nanni, anzi una volta volendo suo marito che vi

venisse essa non volse andarvi perché essendo essa una buona figliuola timorata di

Dio non voleva vedere le cose che faceva don Antonio et per ciò esso la prese in odio

grandemente et ha sempre continuato ad odiarla».

Se molti testimoni vennero interrogate sia dal sottuditore Almerighi sia dall’uditore

Vannicelli, quest’ultimo aggiunse nel suo fascicolo altre deposizioni interessanti e

che mettevano a fuoco il ruolo di comprimaria di Maria Maddalena meglio di quanto

non fosse risultato dalle indagini del Torrone. Sua suocera Pellegrina Taruffi, moglie

di Nicola Tombelli, non risparmiò neppure questa volta le accuse alla nuora e

sottolineò la parte avuta nel far avvertire il fratello della morte di Maria Gentile

perché si facesse fare le dichiarazioni che era in Maremma, procurandosi così un

alibi. Sappiamo già che ad andare in Maremma era stato lo stesso marito di

Pellegrina, Nicola Tombelli, che evidentemente non condivideva l’astio della moglie

per la giovane nuora.

Durante uno dei presunti tentativi di avvelenamento della moglie fatti di persona da

Lorenzo, per casa erano circolati due muratori che imbiancavano le stanze e che

dichiararono di aver visto Maria Gentile mentre scopriva le palline di mercurio nel

cibo. Uno di essi era Antonio Agostini, vicino di don Annibale, fratello di Maria

Gentile, e l’altro Bartolomeo Fiornovelli il quale disse che dopo l’avvio delle indagini

Maria Maddalena Brizzi lo aveva fatto chiamare perché una lettera di don Antonio da

Bologna l’aveva avvisata che stava per arrivare la cavalcata «et che perciò facessi in

modo che io andassi fuori di paese per quindici o venti giorni et anco un mese che mi

avrebbe pagato le mie giornate perché desiderava che io non palesassi di quei veleni

che avevano dato a detta Maria Gentile et io ci risposi che non volevo partirmi

assolutamente et essa mi replicò che se fossi chiamato dalla giustizia non palesassi

cosa alcuna et io replicai che se fossi chiamato dalla giustizia bisognarebbe che

dicessi la verità».

46

9. Lo «Stallone» e il «Mulo»

Ma è soprattutto contro don Antonio che si moltiplicarono i testimoni della sua

condotta scandalosa. Giovan Battista Tombelli, un possidente di sessant’anni, disse

che conosceva don Antonio dall’infanzia e che «contro di lui parlano anche le pietre

in materia di donne et lo chiamano lo stallone dell’Albarese». A quale località si

riferisse il testimone non è chiaro: nelle montagne a ovest di Lustrola tra Gaggio e

Belvedere c’è un paese che attualmente si chiama Albarelli, ma è difficile credere che

si riferisse a quello. Alberese è il nome della principale località costiera della

Maremma grossetana ed è più probabile che l’espressione volesse significare il ruolo

di supplenza che don Antonio faceva a tutti quegli uomini di Granaglione che

emigravano per la maggior parte dell’anno. «Stallone» però è un termine

inequivocabile e certamente inadatto a qualificare un prete. Tombelli sapeva molti

particolari sul comportamento del vecchio amico, che aveva iniziato la relazione con

la Gialla a diciotto anni, quando era ancora chierico. Il marito era servito solo per

coprire le paternità del prete: confermò che veniva da Livorno quando lei era incinta.

C’era in paese un’altra ragazza che dicevano fosse figlia sua e della moglie di Pietro

Lenzi, che si chiamava Domenica. Si sapeva anche che gli aveva partorito una figlia

Giovanna Mattioli, vedova Gualandi. L’arciprete delle Cavanne, Paolo Campoleoni,

dopo il processo l’aveva fatta allontanare dal paese. Scandalosa non era solo la

condotta sessuale di don Antonio ma anche la sua spregiudicatezza nel vessare i più

deboli anche se le prepotenze contro i poveretti le faceva fare al figlio Lorenzo, detto

«il Mulo di don Antonio» che girava sempre armato e teneva in casa anche Lorenzo

Lenzi, bandito per omicidio e suo sgherro.

La testimonianza di Tombelli a proposito di altre relazioni dello «Stallone

dell’Albarese» fu confermata da altri che direttamente o indirettamente ne avevano

avuto esperienza. Tra essi Pietro Lenzi, un uomo che aveva già sessantaquattro anni

ma che per vivere doveva ancora adattarsi ad andare in Maremma dall’inizio

dell’inverno fino a tutto giugno, il quale disse che una dei suoi sette figli, Domenica,

non era figlia sua, ma di don Antonio che per convincere sua moglie a cedergli le

aveva detto che «le donne a darne agli altri fanno peccato, ma dandone a lui non

fanno peccato alcuno». Lo aveva querelato, vent’anni prima, in arcivescovado ed era

stato deciso dall’arciprete delle Cavanne e da un tale Camillo Buttelli che si era

prestato come intermediario che desse la pace a don Antonio in cambio di 30 lire, una

corba di farina di castagne e tre pecore. Gli era stato anche promesso che la ragazza

sarebbe stata mantenuta e sistemata in modo onorevole «e che esso don Antonio

avrebbe allogata questa ragazza», le avrebbe cioè dato una dote e un marito, «ma mi è

sempre restata e l’ho ancora». Rosa Mellini, moglie di Giovanni Battista Lenzi, una

donna di trentotto anni che oltre a filare andava col marito in Maremma a fare il

bucato per gli uomini, disse che mentre lei era via don Antonio aveva cercato di

stuprare sua sorella Domenica la quale poi era morta per il freddo patito per

sfuggirgli. Entrambe le storie, sia quella della figlia di Lenzi sia quella di Domenica

Melini erano state raccontate anche al sottuditore Almerighi ma questi non aveva

mandato per procedere contro una persona ecclesiastica e aveva riportato le

47

testimonianze e gli episodi omettendo però di nominare don Antonio in riferimento

ad essi.

Una cosa era essere «stallone», un’altra istigatore di omicidio, e don Vannicelli non

trascurò nulla per acquisire elementi di prova. Il foro laico non sembra aver

proceduto con molta severità contro la vita scandalosa di don Antonio e il pagamento

di 30 lire e circa altrettanto fra pecore e farina sembra una penitenza piuttosto mite

per i ripetuti e abituali peccati della carne di don Antonio. Questa volta, però, il

cadavere di Maria Gentile era una presenza inquietante e le domande che vennero

fatte ai testimoni furono incalzanti e circostanziate; questo fece emergere molti

particolari che durante la cavalcata di Almerighi non erano stati riferiti. Pietro

Tognetti, un coltivatore proprietario di trentacinque anni, riferì che don Antonio

diceva al figlio che sua moglie era una pazza e che avrebbe fatto bene ad

ammazzarla. Molto più dettagliata fu la deposizione di don Francesco Antonio

Taruffi, di soli trentanove anni ma già da tredici curato della chiesa di Granaglione

che portò a don Mariano Vannicelli la fede di morte di Maria Gentile, dalla quale

risultava che al momento del decesso aveva trentasei anni. Su don Antonio disse che

correva dietro a tutte le donne, cosa già riferita da molti, ma anche che prestava a

usura e girava armato lui stesso, non solo Lorenzo «il Mulo». Quanto all’odio per

Maria Gentile, esso era nato dopo le sue chiacchiere sui comportamenti della suocera

e sui maltrattamenti subiti per i quali era stata consigliata a sporgere querela contro il

marito, cosa che aveva fatto, come sappiamo, davanti al vicario foraneo Campoleoni.

Il vicario generale, al quale il vicario foraneo aveva esposto il caso, gli aveva

ordinato di non impartire a Lorenzo i sacramenti se non si riconciliava con la moglie;

per questo non era stato ammesso alla celebrazione della Pasqua e dell’Ascensione

del 1741. Il padre penitenziere Premoli gli aveva mandato le citazioni per farlo

dichiarare pubblicamente interdetto, sanzione gravissima, che poneva chi veniva

colpito ai margini della vita comunitaria; per questo Lorenzo si era adattato a

riprendersi in casa la moglie dopo averla blandita e dopo averle certamente fatto

molte promesse di trattarla con rispetto e affetto. Ricevuti i sacramenti della

confessione e dell’eucarestia in occasione della festività dell’Assunzione, a metà di

agosto, sappiamo che aveva subito ripreso a maltrattarla.

Don Antonio, condannato a rimanere relegato a Bologna dopo la vicenda del parto

della vedova Gualandi, era ritornato infrangendo il precetto e il 6 dicembre, notte di

S. Nicola, si era incontrato con i figli a casa di Maria Maddalena per congiurare

contro la nuora. Lorenzo era andato in Maremma per costituirsi un alibi mentre don

Antonio era tornato a Bologna portando con sé i due figli di Maria Gentile. Di uno di

essi, il maggiore, il dodicenne Giovan Battista, particolarmente legato alla madre, si

poteva prevedere che avrebbe potuto sventare il piano come aveva già fatto in

occasione dei tentativi precedenti di avvelenarla: le aveva riferito che il padre aveva

portato a casa una fiaschetta di mercurio, facendole nascere dei sospetti. Quanto al

dubbio che Maria Gentile si fosse suicidata o che fosse caduta nell’acqua per

disgrazia il prete, che aveva descritto il suo corpo, che con ogni probabilità aveva

osservato con attenzione quando l’aveva benedetto da morta, disse: «La Maria

Gentile Nanni quando era vivente era di volto piccolo, scarno e bislongo et era anche

48

di corporatura più tosto ordinaria et quando si vidde morta non se li trovò acqua in

corpo, aveva il volto gonfio, tondo e rosso et anche la gola nella parte superiore assai

gonfia».. Il suicidio, poi, era molto improbabile considerata la grande devozione di

Maria Gentile. Anche lui disse infatti che era una donna molto osservante.

Il 13 agosto furono richieste due perizie per stabilire, sulla base delle tante

descrizioni del corpo della vittima, quale potesse essere stata la causa della morte.

Furono interpellati Giuseppe Cuzzani, che serviva come medico legale anche il

Torrone, il quale disse che dai segni descritti la morte poteva essere stata per

avvelenamento ma anche per «un sussulto epilettico al contatto con l’acqua», se si

fosse gettata o se fosse caduta. Giacomo Napolini, in forze all’ospedale di S. Maria

della Morte di Bologna e perito chirurgo del tribunale arcivescovile non lo

contraddisse ma dette la stessa, vaga risposta, cosa del tutto lecita in considerazione

del fatto che si erano dovuti basare non sull’osservazione diretta del corpo ma su

dichiarazioni dei paesani, che continuarono ad essere raccolte anche dopo l’intervento

dei due medici legali. Così il 18 settembre fu sentita Rosa Lorenzini, moglie di

Domenico Vangelisti, che descrisse la morta come una donna molto pia e che si era

appena confessata (quindi era improbabile che si fosse suicidata); quando ai segni sul

corpo, le erano apparsi strani perché in vita «era una creatura ben fatta, minuta di

volto et non gonfia nel volto et ne meno nella gola, avendo anzi una gola minuta e

galante che sembrava una dama».

Da Bologna, a cavalcata conclusa, per ordine del vicario generale da don Mariano

Vannicelli fu inviata una lettera ad Angelo Arrighi, notaio foraneo della curia

arcivescovile a Bagni di Porretta, che gli conferiva le facoltà necessarie ad interrogare

il «medicinalista» del luogo, Salvatore Costa, medico e speziale, sui veleni che

vendeva nella sua bottega. La comunità era feudo dei conti Ranuzzi ma in questo

caso non fu necessario il loro consenso per procedere all’interrogatorio: Bagni di

Porretta, separata dalla giurisdizione del legato di Bologna, non lo era da quella

arcivescovile, facendo parte della stessa diocesi, e quindi il notaio foraneo poté

tranquillamente procedere per conto del foro ecclesiastico. Un’altra lettera venne

inviata dallo stesso Vannicelli a Matteo Maria Vivarelli, notaio foraneo di

Granaglione, perché facesse la perizia sull’alveo del canale. Né quest’ultima, che

venne inviata il 2 ottobre, né la testimonianza dello speziale, che venne acquisita lo

stesso giorno, sembrano aver portato elementi di prova decisivi; sono tuttavia un

esempio dell’accuratezza con la quale il vicario generale procedette nelle indagini.

Lo stesso 2 ottobre 1742 fu inviata da Roma una lettera del cardinale Giovanni

Giacomo Millo, datario del papa, che ordinava per volere di Benedetto XIV al suo

vicario generale a Bologna di condannare don Antonio all’esilio e alla sospensione a

divinis, pena la detenzione per dieci anni. Quando la lettera arrivò alla casa di don

Antonio a Bologna, da dove non avrebbe dovuto allontanarsi, furono subito inviate

varie citazioni a presentarsi, ma inutilmente, finché il 14 dicembre fu ufficialmente

accertato che il prete se ne era andato con i bambini, i figli di suo figlio Lorenzo, che

ancora stavano con lui. L’8 gennaio 1743 fu spiccato un mandato di cattura. In realtà

don Antonio non era andato molto lontano e il 10 gennaio Giuseppe Vivarelli di

Granaglione, un mulattiere di trent’anni, disse che se ne stava a casa sua a Lustrola,

49

pronto a scappare ad ogni avvisaglia di pericolo oltre i vicinissimi confini della

Toscana. Don Mariano Vannicelli e l’uditore criminale e avvocato fiscale Carlo

Antonio Vannicelli (suo padre) ricevettero un’altra lettera del cardinal Millo, datata

19 dicembre 1742: qualora, nonostante le ripetute citazioni, don Antonio non si fosse

presentato, si doveva procedere in contumacia non solo con l’esilio e la sospensione a

divinis ma anche col sequestro dei beni, con i quali pagare le spese della cavalcata.

Il 19 gennaio, in seguito alla richiesta di procedere presentata da Pietro Cavazza - il

procuratore fiscale sostituto che rappresentava l’accusa –, il vicario generale

Francesco Cotogni esaminò gli atti del processo e emise un ultimo mandato di

comparizione prima di pronunciare una sentenza in contumacia, che avrebbe

impedito all’accusato di godere del diritto di difesa. Restata senza risposta anche

questa citazione, il 4 febbraio Cavazza si presentò di nuovo al vicario generale, al

quale chiese formalmente di concludere la causa con la sentenza. Il vicario lo fece:

vista la querela presentata da don Annibale Nanni, visto il processo che ne era

seguito, vista la contumacia (di per sé indizio di colpevolezza), visto l’allontanamento

da Bologna, dove aveva la relegazione, riferita la causa e il ristretto del processo al

papa e al suo datario cardinale Millo, che avevano risposto con la lettera del 19

dicembre, sospese a divinis don Antonio e lo condannò all’esilio, pena dieci anni di

detenzione se non lo avesse rispettato. A differenza di quanto era stato indicato dal

cardinale Millo, la sentenza non menzionava il sequestro dei beni e il pagamento

delle spese della cavalcata. Nella sentenza non si specificava il capo di accusa

accertato ma vista la pena si può ritenere che ad essere punita fu la condotta

scandalosa del prete mentre l’istigazione all’omicidio non fu ritenuta

sufficientemente provata..

50

10. Adulterio e incesto.

Lorenzo Brizzi non era stato interrogato, né condannato, né catturato dal tribunale

del Torrone e dal 18 ottobre 1743 era stato graziato e aveva potuto tornare a

Granaglione ma esattamente sette mesi dopo, il 18 maggio 1744, il caporale degli

sbirri di montagna dell’arcivescovado aveva fatto rapporto all’uditore Carl’Antonio

Vannicelli annunciandogli che Lorenzo e Domenica Macciantelli, moglie di Biagio

Tombelli, amanti da dieci anni, nonostante fossero parenti di terzo grado e compari di

S. Giovanni, cioè di battesimo, erano stati sorpresi a letto insieme dai suoi sbirri che

avevano fatto irruzione nella casa di Domenica. Lui, completamente nudo, aveva

cercato di sottrarsi alla cattura facendo resistenza con lo schioppo e la pistola che

aveva tenuti a portata di mano, ma era stato fatto rivestire ed era stato portato con la

sua donna al carcere dell’arcivescovado. I reati per i quali vennero processati furono

l’adulterio e l’incesto: risultarono essere effettivamente secondi cugini, quindi entro il

quarto grado della proibizione canonica e inoltre la qualificazione di incesto era

aggravata dalla parentela spirituale, cioè dal comparaggio, che creava un

impedimento altrettanto inderogabile della parentela di sangue.

Domenica fu interrogata per prima, il 24 maggio; la donna non era più

giovanissima: dichiarò di avere trentotto anni. Era sposata da diciassette e abitava con

il marito in una casa di proprietà del fratello, don Pellegrino Macciantelli; filava e

tesseva. Delle circostanze del suo arresto non negò l’evidenza e disse che Lorenzo

«era lì nel letto a peccar meco». La relazione, come molte altre in paese, era favorita

da regolari interruzioni della convivenza col coniuge che duravano a lungo: «Mio

marito è in Maremma che sono otto mesi et vi va ogni anno». Domenica confermò

che Lorenzo era suo compare perché gli aveva tenuto a battesimo un figlio; quanto

alla parentela di sangue non fu molto precisa e disse solo di aver sentito che suo

padre e la madre di Lorenzo fossero parenti. Negò che quello col cugino fosse un

rapporto mercenario: non si era mai fatta pagare «perché gli volevo bene». Lorenzo

Brizzi fu sentito tre giorni dopo; dichiarò di avere trentaquattro anni e di essere

«uomo libero e vedovo»; lui non andava abitualmente in Maremma ma faceva vari

lavori in paese: il mulattiere, lo zappaterra, il bracciante a giornata, il venditore di

sale. Spudoratamente e protervamente cercò di negare la sua relazione con Domenica,

dicendo che al momento dell’arresto era nudo perché gli abiti gli irritavano le

emorroidi e non volle ammettere che lui e la donna stessero facendo l’amor. Fu più

preciso sulla sua parentela con Domenica, che giustificava la sua frequentazione della

donna e i loro rapporti confidenziali: il padre di sua madre, Serafino Macciantelli e il

nonno paterno di Domenica erano fratelli, confermando che erano secondi cugini e

che la loro era una parentela abbastanza stretta, di terzo grado.

Il processo a Bologna restò sospeso circa un mese, in attesa che fossero resi noti gli

elementi che nel frattempo venivano raccolti da una cavalcata inviata a Granaglione,

che era stata sollecitata fin dal 7 maggio da una lettera del vicario foraneo

Campoleoni il quale aveva attirato l’attenzione del tribunale arcivescovile sulla

condotta sessuale di Lorenzo Brizzi e aveva provocato l’arresto suo e di Domenica.

Dopo l’interrogatorio dei due amanti. il vicario generale incaricò di indagare

51

l’arciprete Paolo Campoleoni e il notario foraneo Matteo Maria Vivarelli; le facoltà

necessarie per procedere agli interrogatori a Granaglione furono conferite loro con

una lettera del 29 maggio 1744 scritta dall’uditore Carlo Antonio Vannicelli. Nella

lettera si raccomandava al vicario foraneo di attenersi alle costituzioni apostoliche

Super reformatione tribunalium da poco pubblicate a Bologna, tra l’inizio di febbraio

e la fine di marzo le quali, emanate per il foro laico, venivano quindi seguite anche

dal tribunale arcivescovile, le procedure del quale sono per molti aspetti ricalcate su

quelle del Torrone. L’uditore Vannicelli avvertiva in particolare di fare il processo

con l’assistenza degli sbirri e a spese di Lorenzo Brizzi mettendo sotto sequestro i

suoi beni. Al notaio sarebbe spettato come diaria per l’esercizio delle sue mansioni

uno scudo al giorno.

Campoleoni tra il 5 e l’11 giugno interrogò varie persone, facendo pervenire

resoconti regolari a Bologna che avrebbero in seguito indotto il vicario generale a

inviare una cavalcata. Il vicario foraneo ascoltò i testimoni dell’arresto di Lorenzo e

Domenica, i quali confermarono che i due erano nudi e precisarono che a letto con

loro c’era anche la figlioletta di Domenica. Salvatore Lenzi, un contadino di

venticinque anni, era al corrente della tresca; interrogato anche su Maria Maddalena

Brizzi, disse che dava scandalo e traviava i giovani del paese. Suo fratello Lorenzo,

raccontò Pellegrino Taruffi, un giovane calzolaio, non si limitava alla relazione con

Domenica ma corteggiava altre donne del paese. La sua deposizione arricchisce

l’immagine fino a questo momento quasi feroce del figlio di don Antonio, «il Mulo»

del prete, di particolari inattesi. Secondo Taruffi, lui e Lorenzo un giorno erano

insieme a casa di Maria detta la Corsetta, moglie di Nicolò Lenzi, che era seduta su

una panca e a un certo momento Lorenzo le aveva battuto la mano sulla spalla,

dicendole di fargli posto «e prendendo in mano un libro detto Li reali di Francia,

cominciò a leggere, io allora me ne andai e non pensai ad altro benché anche all’ora

vi fosse la voce per Granalione che il sopradetto Lorenzo havesse cativa pratica con

questa donna». Un approccio cortese, quello di Lorenzo Brizzi, riferito da una voce in

parte dissonante da tutte le altre, che ci racconta di uno stile di seduzione attribuibile

solo ad un uomo non grossolano. Il giovane Taruffi, che a sua volta sapeva leggere e

scrivere, aveva ricevuto le confidenze di Maria Gentile la quale gli aveva giurato

«d’aver veduto con gli ochii propri Lorenzo suo marito per una fenditura di un uscio

di sua casa lo stesso Lorenzo haver copula con la sopradetta Domenica in occasione

che la Domenica stessa era andata da lui per cucirle delle camisie». Una donna che

non sapeva tacere, una donna che origliava per alimentare la sua gelosia, una moglie

ingombrante per un uomo che amava la leggerezza delle storie dei cavalieri.

Marco Brizzi, un giovanotto di diciotto anni che viveva di rendita ed era abbastanza

istruito da firmare la sua deposizione, disse fra l’altro di sapere che Maria Maddalena

aveva ha una tresca con un sacerdote, don Lorenzo, parente di don Antonio,

pettegolezzo confermato da Domenico Taruffi, un calzolaio di ventisei anni, anche

lui in grado di firmare. Domenico raccontò di averne avuto la certezza mentre con un

amico origliava di notte alle finestre; arrivato al portico della casa di Maria

Maddalena si era appostato e aveva visto uscire il prete. Anche in questo caso col

vicario foraneo le inibizioni dei testimoni sembrano allentarsi e dalle loro bocche

52

escono particolari che ai giudici laici di città non vengono rivelati: il vicario

conosceva nel bene e nel male la vita di paese, quell’intreccio inestricabile di

solidarietà e di malanimo, di omertà e di frenesia di parlare e di sapere dal quale

nascevano le voci che correvano nella comunità: lo sapeva come giudice e come

confessore e in quanto tale con lui le coscienze potevano liberarsi con minore

reticenza.

Pellegrina, vedova di Nicola Trombelli, suocera di Maria Maddalena, espresse

come sempre apertamente il suo malanimo nei confronti della nuora, ma questa volta

più del solito. Prima rispose ad una domanda su Domenica Macciantelli, raccontando

che, per far tacere la gente sulla sua tresca con Lorenzo Brizzi, il fratello don

Pellegrino, curato di Badolo, l’aveva portata a Bologna, riuscendo a tenerla lontana

dall’amante per quattro anni. Interrogata poi su Maria Maddalena, la suocera disse

che, quando l’aveva sposata, il figlio era uscito uscito di casa. Era dunque il fatto,

inconsueto, di aver preferito la vita coniugale agli obblighi della parentela e in

particolare a quelli con la madre che aveva invelenito Pellegrina, una volta rimasta

vedova; questa volta della nuora disse che era «così perfida e scelerata di modo che a

lei basta guardare un giovanotto per tirarlo alla rete: uno dei segni che dà la Madalena

ai giovanotti perché vadano da lei si è mostrare in publico di bravare e contendere

con loro». Uno dei suoi amanti, secondo il giovane contadino Angelo Antonio

Vangelisti, sarebbe stato Marco Brizzi. Vangelisti si era trovato in casa di Maria

Maddalena quando erano presenti anche i due nipoti, figli del fratello Lorenzo e di

Maria Gentile. «Fecero un letticciolo dove missero da una parte li due ragazzi, e

dall’altra vi ero io, e nel mezzo eravi Marco e Maddalena ed anche all’ora sospettai

che volessero montarsi adosso».

Ci fu chi parlò senza reticenze delle sfrenatezze sessuali delle due donne, Domenica

e Maria Maddalena, e dei loro tentativi di traviare altre donne, come la matura Giulia,

moglie di Nicola Macciantelli, di quarant’anni, la quale disse che Domenica aveva

cercato di farla incontrare a sorpresa con Lorenzo Brizzi, a suo dire per scopi

innominabili. Le testimonianze aprono squarci inediti che possono essere riferibili,

direttamente o indirettamente, alla morte di Maria Gentile: le dissolutezze nelle quali

sembrano coinvolti parecchi paesani passano in secondo piano come tali e acquistano

importanza come moventi dell’omicidio.

Giovanni Taruffi, un proprietario che viveva di rendita, disse di Lorenzo che «ha

sempre auto un odio intestino contro la povera sua moglie la quale sebene fosse

d’ottimi costumi e di belissime fatezze ad ogni modo questo disgraziato non poteva

vederla». A proposito della relazione con Maria detta la Corsetta confermò che

Lorenzo «andava da lei a leggere romanzi ed io non solo vedevo tutto questo ma

ancora sentivo cantare e stare alegramente perché le stavo vicino di casa». Mentre il

marito si divertiva con le sue amiche, Gentile si rodeva dalla gelosia e lo controllava:

anche Taruffi sapeva che la donna aveva colto sul fatto Lorenzo con Domenica,

spiando i loro amplessi da una fessura della porta. Giovanni Taruffi, concluso il suo

lungo interrogatorio, era tornato indietro per aggiungere un nuovo particolare che

conferma la natura conviviale e allegra di Lorenzo, che amava divertirsi e corteggiare

53

le donne e che a un ballo aveva suonato la chitarra e ronzato attorno a Maria Angela,

moglie di Giuseppe Taruffi.

Il 10 di giugno, casualmente, passò da Granaglione Domenica, moglie di Giovanni

Pedrucciani di Pavana, in Toscana ma appartenente alla diocesi di Bologna, insieme

col figlio Benedetto che testimoniò di aver sentito dire che i giorni precedenti la

morte di Maria Gentile Lorenzo era tornato nascostamente dalla Maremma. Era un

particolare in più che riportava alla morte di Maria Gentile e su di essa si diresse

l’interesse del vicario foraneo nelle ultime due deposizioni. L’anziana Rosa, moglie

di Domenico Vangelisti, disse che tutto il paese coralmente parlava contro Lorenzo,

Maria Maddalena e Domenica e che Maria Gentile, quando era stata avvelenata con

la carne, non aveva voluto portarla al massaro per paura d’essere ammazzata e

perché, avendo già fatta la ritrattazione a Bologna, temeva che dicessero che era

matta. Maria Gentile le aveva raccontato anche che una volta aveva seguito

nascostamente il marito fino alla casa della Corsetta e altri episodi, tra cui quello

della fessura nella porta attraverso la quale aveva scorto il marito insieme con

Domenica. Una volta lui era uscito e lei era corsa alla finestra per vedere dove

andava, lui se ne era accorto, era tornato indietro e l’aveva picchiata; ma lei era uscita

di nuovo e aveva visto che si era incontrato con la Maria, moglie di Giovan Battista

Santi.

L’ultimo interrogatorio fatto da Campoleoni fu l’11 giugno. Anna, moglie di

Antonio Marconi, raccontò che Maria Gentile una volta aveva sorpreso il marito con

Domenica Macciantelli in un castagneto «e quando Lorenzo vidde la moglie la prese

alla gola, minacciandola che se lei parlava la voleva strozzare». Anche lei origliava,

facilitata dal fatto che dall’abitazione di Domenica la separava solo un muro e

riusciva a distinguere bene le parole. Un giorno aveva sentito Maria Maddalena

Brizzi che diceva alla Macciantelli: «Hò strelina [oh stellina, cara mia], il veleno non

li fa più, quando il veleno non li fa più io sono per far scrivere al prete» intendendo

che si doveva chiedere a don Antonio cosa fare per liberarsi di Maria Gentile. Il

dialogo con Domenica era proseguito con oscure allusioni ad un incontro con un

uomo che doveva avvenire la terza settimana di Quaresima e che la testimone aveva

poi interpretato, dopo il rinvenimento del cadavere di Maria Gentile, come un piano

per liberarsi di lei con l’aiuto di un complice, Pier Antonio Agostini.

Mentre l’inchiesta preliminare di Campoleoni, di cui lui informava regolarmente

l’uditore Carl’Antonio Vannicelli a Bologna, stava per concludersi, fu comunicato al

vicario foraneo l’imminente arrivo del reverendo Mariano Vannicelli in cavalcata per

condurre ulteriori interrogatori. Don Mariano Vannicelli (che qui apprendiamo

essere figlio dell’uditore Carl’Antonio) effettivamente arrivò a Granaglione, l’11

giugno, munito delle facoltà necessarie che gli erano state conferite dal vicario

generale Cotogni in data 8 giugno. Una volta arrivato in paese gli si presentò il

caporale degli sbirri per riferire quanto aveva appreso dagli informatori e in

particolare che Anna Maria Vivarelli, Antonio Marconi, Matteo Macciantelli, Angelo

Michele Vangelisti, Sabatino Berti – molti dei quali avevano già deposto davanti a

Campoleoni - erano tutti a conoscenza della tresca tra Lorenzo e Domenica.

Interrogato il giorno successivo, Vangelisti e Sabatino Berti ripeterono di essere stati

54

presenti come testimoni quando gli sbirri avevano fatto irruzione in casa di Domenica

Macciantelli e li avevano colti sul fatto; Antonio Marconi, un pastore di

cinquant’anni che abitava vicino alla casa di Domenica, poté dire di aver sentito varie

volte cigolare il letto quando Lorenzo si recava a trovare la cugina. Anche sua moglie

Anna Maria Vivarelli, di cinquantasette anni, dimostrò la stessa indiscreta curiosità

per gli affari della sua dirimpettaia: disse che vedeva e sentiva tutto e che era certa

della relazione; una certezza che i coniugi Marconi evidentemente non avevano

tenuto per sé se affermarono che come loro tutto il paese era informato della tresca.

Anna Maria però disse qualche cosa di molto più grave e compromettente, e cioè che

aveva sentito i due amanti parlare di un piano per uccidere Maria Gentile.

55

11. Origliare e spiare.

Le testimonianze si moltiplicarono e dalle voci sulla relazione i discorsi scivolarono

sul comportamento deviante delle donne della famiglia di don Antonio e di nuovo

sulla morte sospetta di Maria Gentile. Vi fu chi si limitò a dire, come Maria Tombelli,

moglie di Giovan Battista Santi, di aver visto che Lorenzo e Domenica «si trattavano

come morosi», e Antonia Mellini, una giovane donna di ventisei anni, associò nel suo

giudizio negativo Maria Maddalena Brizzi a Domenica Macciantelli dicendo che

entrambe erano donne «di cattivo odore», di pessima reputazione, e che suo marito

non voleva che le frequentasse. Annibale Mattioli, il marito di Antonia, pastore e

come tanti spesso lontano da casa, specificò che Maria Maddalena aveva cercato di

traviare sua moglie dicendole «che era matta a volermi bene et a portarmi rispetto e

far conto di me ed essermi fedele et ci dava ad intendere che io andavo da un’altra

donna». Anche lui disse che Maria Maddalena e Domenica erano di «malo odore» e

confermò che aveva proibito alla moglie di frequentarle «perché anche a me mi

preme la mia riputazione benché sii un povero pastore tanto quanto preme a qualsisia

persona del mondo et non voglio per quanto posso che veruno svii mia moglie;

questo è quanto posso dirle perché io sono un pastore che sto ora in qua et ora in là

che non posso poi sapere tutto quello si facci per il paese».

Lo stesso giorno fu interrogato Biagio Tombelli, di quarantadue anni, anche lui

pastore, marito di Domenica Macciantelli. Disse di non sapere niente dell’arresto

della moglie perché il giorno in cui era stata carcerata lui era a Grosseto, a lavorare in

Maremma. Aveva chiesto alla figlia di otto anni; Maria Angiola, cosa andava a fare a

casa loro Lorenzo Brizzi e la bambina aveva risposto «prontamente che veniva a

dormire con la mamma, cioè la sudetta Domenica stava in mezzo del letto nuda; da

una parte teneva Lorenzo Brizzi e dall’altra parte lei, cioè Maria Angiola. Dimandai

alla suddetta mia puttina cosa faceva Lorenzo Brizzi a letto con la mamma et essa mi

rispose che quando erano lì a letto tutti e due nudi si baciavano sempre et facevano

scossare il letto et ciò hanno sempre fatto tutti i giorni che voi siete stato in Marema».

I due amanti mangiavano insieme e, come disse Maria Angiola, la madre metteva il

vino e Lorenzo il pane. Portava anche la sorella Maddalena e i suoi figli a mangiare:

più che il tradimento sembrava bruciare a Biagio che la donna avesse per Lorenzo dei

riguardi che non aveva per lui: che all’amante facesse i tortelli, che gli cucisse delle

camice. Insomma si sentiva defraudato perché facevano bisboccia a sue spese e

chiedeva di essere «reintegrato della robba giaché non posso essere reintegrato nel

mio onore».

Giovanni Taruffi, già interrogato da Campoleoni, disse di Lorenzo Brizzi che aveva

«tenuto sotto sopra tutti li uomini d’onore di questo paese perché dava la caccia a

tutte quelle donne che poteva» mentre «haveva per moglie la più bella donna di

questo paese»; lui però non aveva mai voluto bene alla povera Maria Gentile, «ma

bensì tutto il giorno ed anche le notti intiere stava dietro a putanare con la Domenica

Maziantelli moglie di Biagio Tombelli». Taruffi disse poi che sul collo di Maria

Gentile si vedevano chiaramente i segni dello strangolamento e che il ventre era

piatto e non gonfio d’acqua. Per provare l’aggravante dell’incesto per quello che era

56

un adulterio dimostrato dalla flagranza, i più vecchi vennero interpellati per

ricostruire la genealogia dei due amanti. Lo stesso Taruffi, che aveva sessantasei

anni, disse di saper «descrivere tutta la discendenza delli abitanti di questo

commune» ma il più preciso fu Matteo Macciantelli, un pastore di ottantasette anni, il

quale, interrogato sulla «parentela e discendenza di Lorenzo Brizzi» disse che lui e

Domenica erano «dello stesso stipite e consubrini al terzo grado di consanguineità:

Lorenzo Macciantelli ebbe due figli, Domenico e Serafino. Domenico ebbe Giovan

Battista, Giovan Battista ebbe Domenica, moglie di Biagio Tombelli. Da Serafino

venne Domenica, moglie di Antonio Brizzi, che ebbe Lorenzo». Il testimone era

figlio di Lorenzo Macciantelli, come Domenico e Serafino. Il 19 giugno il reverendo

Vannicelli, a conclusione della cavalcata, consultò per ulteriore scrupolo i libri

parrocchiali, verificando la consanguineità dei due amanti.

Il 17 giugno 1744, mentre si trovava ancora a Granaglione, don Mariano Vannicelli

aveva aperto un’altra inchiesta, , per accertare il reato di pratica carnale tra Maria

Maddalena e don Lorenzo Nanni, avvalendosi delle facoltà che gli aveva conferito la

lettera del vicario generale dell’8 giugno. Il caporale prese informazioni sul prete e un

confidente gli indicò come persone a conoscenza dei fatti Giovanni Domenico

Taruffi, Marco Brizzi, il giovane diciottenne già sentito, e Elisabetta Andrei. Taruffi,

di ventisei anni, un altro calzolaio in grado di firmare la sua deposizione, assecondò

con entusiasmo e con malcelata malevolenza la domanda del giudice sui

comportamenti sessuali di don Lorenzo: «Adesso io ci raconterò la vitta e i miracoli.

Don Lorenzo Nanni doppo che lo conosco è uno di quelli che le donne che non puole

havere le lascia per carità, ma quelle che puole havere non ci fa rusco [non le butta

via], ma ci fà suo dovere, cioè se le gode carnalmente quanto può». Con Maria

Maddalena «si sono sempre conversati, amoreggiati et l’istessa Madalena l’ha

racontato più volte a me, ed essendo io giovinotto che ci ho tenuto dietro per mio

spasso, per vedere questo prete, che fu l’anno passato, che diavolo facceva con questa

femina et io con Marco Brizzi andassino alla casa della suddetta Madalena et ci

ponessimo in ascolto et udissimo che si ansava. Allora cominciassimo ad urtar nella

porta della casa, per farci un po’ di paura et incominciassimo così per nostro spasso a

dire alla Madalena sudetta della buzarona [puttana], allora don Lorenzo Nanni fugì

fuori dalla suddetta casa per la porta della stalla, che ansava ancora et essendo di

notte tempo verso le ore tre della notte verso il fine dell’autunno del anno scorso, il

suddetto si vedeva aver paura d’esser veduto». Che fosse il povero prete a scappare

dalla casa della sua amante, spinto dal greve e impietoso scherzo dei giovanotti del

paese lo aveva visto bene, perché era una notte serena con la luna.

Marco Brizzi, che come sappiamo già viveva di rendita ed essendo giovanissimo e

senza pensieri poteva divertirsi come voleva, esordì allo stesso modo dell’amico:

«Adesso io ci racconterò la vitta e i miracoli di don Lorenzo Nanni, [che] di sua

bocca dice che non vi è donna in questo paese che non l’abbia goduta carnalmente et

io ce lo credo poiché a vederlo come io ho veduto va dietro alle donne come fa un

cane quando va dietro alla lepre ed è uomo feminista». Raccontò lo stesso episodio

avvenuto sotto le finestre di Maddalena, aggiungendo che «ci ingeniavamo anche di

vedere ma non ci riuscì, ma solo udissimo gnicare [cigolare]». Elisabetta Andrei, di

57

trent’anni e ancora «putta», ragazza da marito, che si presumeva quindi fosse illibata,

parlò di un convegno dei due in un bosco, dove lei si era addentrata cantando;

certamente si era nascosta, anche lei, la «putta», per occhieggiare qualche scena

piccante da divulgare in paese, e dopo poco aveva visto arrivare Francesco Tombelli,

il marito di Maria Maddalena, armato di pistola, ma don Lorenzo lo aveva fatto

fuggire a bastonate. L’episodio non aveva però causato un contrasto insanabile tra i

due uomini: come vedremo, non molto tempo dopo avrebbero collaborato per far

fuggire Maria Maddalena dal carcere.

La cavalcata terminò il 19 di giugno e l’1 luglio furono consegnati all’uditore i due

processi fatti a Granaglione. Il processo di Bologna, che era stato sospeso per

acquisire nuovi elementi dai paesani, riprese il 6 luglio, con l’interrogatorio di

Domenica Macciantelli che negò di aver saputo dei tentativi di avvelenamento di

Maria Gentile da parte di Maria Maddalena Brizzi. Due giorni dopo Domenica chiese

di essere interrogata di nuovo affermando di voler dire la verità e ammise di essere

stata a conoscenza sia degli avvelenamenti sia dell’omicidio compiuto dalle sorelle

per ordine di Lorenzo Brizzi. E’ la prima volta che in relazione alla morte di Maria

Gentile viene chiamata in causa Maria, personaggio finora defilato nella ricostruzione

degli eventi, la quale fu carcerata subito, il 9 luglio, giorno in cui

contemporaneamente venne emesso l’ordine di cattura per Maria Maddalena.

Nemmeno una settimana dopo, e senza essere stata interrogata prima – almeno

formalmente -, il 15 luglio Maria Brizzi ottenne l’impunità. Il 17 luglio fu interrogata

e disse che era stato Pier Antonio Agostini a gettare in acqua la cognata. Il 18 luglio

Giacomo Felice Calzolari, sollecitatore dei carcerati, in qualità di patrocinatore

d’ufficio chiese che Maria, che aveva la febbre, fosse liberata, dichiarando a suo

nome che appena guarita sarebbe tornata in prigione. La richiesta fu accolta con la

condizione che, se non si fosse ripresentata, avrebbe perso l’impunità. Felice

Zaccarini, medico dei carcerati del foro arcivescovile, attestò la malattia della donna.

Il 16 settembre don Lorenzo Nanni chiese ed ottenne la cancellazione del processo

purché desse garanzia di non frequentare più Maria Maddalena e di vivere in maniera

consona al suo stato, pena la sospensione a divinis, la reclusione e altre sanzioni ad

arbitrio del vicario generale. Anche in questo caso una semplice ammonizione per

una relazione nota a tutto il paese.

Due mesi dopo, il 18 novembre Lorenzo Brizzi fu interrogato. Negò la relazione

con Domenica Macciantelli e venne messo a confronto con lei: continuò a negare

anche se Domenica confermò la sua deposizione durante la tortura degli zufoletti alla

quale venne sottoposta per il tempo della stesura del verbale. La donna in molte

occasioni aveva parlato del suo amore per Lorenzo come di una passione, quasi una

possessione diabolica, alla quale aveva tentato più volte di sottrarsi.

Il 19 dicembre il vicario generale fece scrivere al notaio foraneo di Granaglione

Matteo Maria Vivarelli di raccogliere la deposizione di Maria, moglie di Bonaventura

Brizzi, detta la Galante, e di Salvatore Lenzi; gli chiese anche di far venire a Bologna

sua moglie Lorenza. Il 28 dicembre 1744 arrivò la risposta di Vivarelli: La Galante

risultò essere una sarta di sessantaquattro anni ma non una teste di grande rilievo.

Quanto a Lenzi, non era stato interrogato perché da molti mesi si trovava in

58

Maremma. Lo stesso giorno fu interrogata nel foro ecclesiastico Lorenza Marconi

moglie del notaio, che era stata condotta a Bologna dal suo consorte. Negò quello che

sosteneva Maria Maddalena Brizzi, e cioè che avesse tenuto mano nell’intrigo

amoroso fra Lorenzo Brizzi e Domenica accogliendoli a mangiare a casa sua. Fu

interrogato anche il marito e il notaio sostenne di non avere niente di nuovo da dire

sulla tresca, sugli avvelenamenti e sull’omicidio. Il 30 dicembre Pietro Cavazza,

procuratore fiscale sostituto, chiese che fosse messo agli atti il decreto del vicario

generale fatto il 21 novembre che autorizzava la scarcerazione di Domenica

Macciantelli, grazia che le era stata ottenuta dal sacerdote Giulio Vivarelli, suo

parente, a condizione che restasse a Bologna fino alla fine del processo, pena la

pubblica fustigazione e l’esilio. La donna dette come suo recapito a Bologna la casa

della vedova Angela Vizzani.

59

12. Omicidio, disgrazia o suicidio ?

Il 30 luglio 1744 la curia arcivescovile aveva aperto un nuovo fascicolo per provare

l’accusa di omicidio proditorio contro don Antonio Nanni, Lorenzo, Maria

Maddalena e Maria Brizzi, che godeva ancora dell’impunità, e Pietro Antonio

Agostini detto Zambelli. A quel punto delle indagini il vicario generale Francesco

Cotogni, visto il processo contro don Antonio per la sua vita scandalosa e la

successiva contravvenzione dell’esilio, aveva scritto a Lambertini, papa e arcivescovo

di Bologna, per informarlo sui risultati delle inchieste aperte e gli era stato ordinato di

chiedere l’estradizione del prete dal granducato. Il 4 agosto da Firenze fu risposto a

Cotogni che don Antonio se ne era andato e che si sarebbe cercato di arrestare almeno

Maria Maddalena e Agostini. Il 20 agosto il vicario generale informò il suo

corrispondente, Giulio Rucellai, che il prete abitava a Campeda e qualche volta a S.

Marcello Pistoiese. Il 4 settembre Rucellai annunciò che il 27 agosto «dopo una fiera

resistenza fu arrestato il prete Nanni». Maria Maddalena si era buttata dalla finestra

ed era fuggita sul territorio pontificio. Gli sbirri del granduca non erano invece

riusciti a trovare Trucchi (altro nome con cui viene indicato Agostini). Alla fine il

prete fu carcerato a S. Marcello; le trattative fra i due stati per l’estradizione andarono

per le lunghe. Di fatto il prete venne tradotto nelle carceri arcivescovili di Bologna

non prima del 2 ottobre.

Di Maria Maddalena si diceva che si fosse rifugiata nel Modenese. Il 7 ottobre le

spie del bargello arcivescovile permisero di localizzare il rifugio della donna e di

Agostini a Castiglione dei Pepoli e cinque giorni dopo una lettera di Gian Carlo

Vespignani, governatore di Castiglione per conto dei feudatari, comunicò l’arresto

dei due. La consegna doveva avvenire al confine fra il territorio della Legazione e

quello del feudo, nel comune di S. Damiano. Tombelli, marito di Maria Maddalena,

era con lei quando era stata catturata mentre il 20 ottobre don Lorenzo Nanni, che

avrebbe dovuto stare lontano dall’amante secondo l’ingiunzione fattagli poco più di

un mese prima, aveva tentato di corrompere le guardie di Castiglione per farla

fuggire. Il governatore Vespignani aprì il processo per la tentata evasione e trattenne

Maria Maddalena, mentre Agostini venne consegnato agli sbirri dell’arcivescovado.

Il 10 novembre don Mariano Vannicelli comunicò che don Antonio Nanni era nelle

carceri dell’arcivescovado; otto giorni dopo il vicario Cotogni conferì a Vannicelli le

facoltà necessarie per aprire il processo di omicidio contro don Antonio. Il 19

novembre, Domenica Macciantelli, in segreta da sei mesi, mandò a dire a don

Vannicelli che non aveva detto tutto quello che sapeva sulla morte di Maria Gentile

per paura di rappresaglie. Fu subito interrogata e confermò che Lorenzo e i suoi

parenti avevano congiurato per uccidere la donna, con l’aiuto di Pier Antonio

Agostini. Questi, sentito lo stesso giorno dopo un riconoscimento formale davanti al

giudice delegato don Mariano Vannicelli, disse che a volte si faceva chiamare

Zambelli che era il nome del secondo marito della madre (Trucchi invece era il suo

soprannome), di avere trentasei anni e di fare il gargiolaro. Stabilita la sua identità

negò di aver avuto mandato di uccidere la moglie di Lorenzo e incolpò Maria e Maria

Maddalena, che erano state istigate dal fratello.

60

Il 21 novembre Maria Maddalena lasciò le carceri dei feudatari di Castiglione, dove

si trovava dall’11 ottobre, e passò a quelle arcivescovili. In una lettera spedita il 2

dicembre ai giudici della curia arcivescovile dal governatore di Castiglione, Gian

Carlo Vespignani, fu fatto un breve rapporto nel quale Vespignani diceva di aver

avuto ordine dal conte Cornelio Pepoli di carcerare a nome della Chiesa don Lorenzo

Nanni per aver tentato di corrompere le guardie e raccontava la fallita evasione di

Maria Maddalena: appena catturata lei e il marito avevano trattato con Giuseppe

Galassi, caporale degli sbirri e custode delle carceri. Per corromperli il marito,

Francesco Tombelli, aveva cercato denaro a Granaglione e nelle comunità vicine e

aveva raccolto la bella cifra di 10 zecchini, pari a 20 scudi (o 100 lire). Galassi aveva

fatto uscire la donna e l’aveva accompagnata verso l’uscita facendola salire per una

scala ma il governatore li aveva sorpresi e aveva sventato la fuga. Il 16 dicembre era

venuto don Lorenzo Nanni tentando di corrompere anche Giuseppe Mazzanti, il

nuovo caporale. Don Lorenzo, il chierico Elmi, amico di don Lorenzo, e Francesco

Tombelli, tutti armati, erano andati a Castiglione per fare evadere Maria Maddalena

ma Tombelli e don Elmi erano stati arrestati. Don Lorenzo si sottrasse invece alla

cattura; subito dopo anche il suo amico fu rilasciato perché ecclesiastico. Anche in

questo caso la pena per chierici che giravano armati e contrastavano gli emissari della

giustizia, in questo caso feudale ed ecclesiastica, restarono impuniti, don Lorenzo

perché si era di fatto dato alla macchia, don Elmi in considerazione del suo stato

clericale, probabilmente del fatto di non avere precedenti e della sua giovane età.

Don Mariano Vannicelli interrogò Maria Maddalena il 28 novembre. La donna

disse che quando era fuggita da Granaglione era stata avvertita da Lorenza Vivarelli,

moglie del notaio, che stava per arrivare la cavalcata. E’ la seconda volta che si parla

di un’amicizia tra le donne malfamate che erano sotto processo e la rispettabile

Lorenza: forse l’esecrazione pubblica dei loro costumi non era così corale né la loro

devianza così certa. Maria Maddalena, negò poi la paternità di don Antonio, almeno

rispetto a Lorenzo, argomentando che se fosse stato vero che il fratello era figlio del

prete, questi non gli avrebbe data in moglie Maria Gentile Nanni perché sarebbero

stati cugini (non disse a che grado, né nel corso del processo don Vannicelli si

preoccupò di accertarlo). Maria Maddalena accusò Agostini di aver ucciso Maria

Gentile gettandola in acqua con una spinta, come poteva confermare Domenica

Nanni, sorella di don Antonio, che aveva visto la vittima con il suo assassino.

Maria Maddalena fu interrogata di nuovo il 4 dicembre. Disse di essere stata sette

mesi nelle carceri del Torrone nel 1741 e che solo quando era uscita aveva saputo

dalle voci che circolavano in paese come erano andate le cose riguardo alla morte di

Maria Gentile, cioè della congiura fra Lorenzo Brizzi, Pier Antonio Agostini e

Domenica Macciantelli per buttare Maria Gentile in acqua. Domenica accusava lei,

lei accusava Domenica. Per accreditare la sua versione fece un racconto lunghissimo

sulla passione sfrenata che Domenica aveva per suo fratello e fra le altre cose affermò

di nuovo che Lorenza Vivarelli, la moglie del notaio, era a conoscenza della tresca e

la favoriva. Di don Lorenzo Nanni disse che era suo cugino acquisito perché la madre

del prete e sua suocera erano sorelle.

61

Aggiunse altri particolari il 9 dicembre, coinvolgendo anche la sorella Maria, alla

quale Lorenzo aveva ordinato di chiedere a Pier Antonio Agostini di uccidere la

moglie. Negò invece di aver avuto lei mandato di ammazzarla e di aver mai cercato

di avvelenare Maria Gentile. Disse che la sorella l’aveva incolpata dopo aver avuta

l’impunità, mentre lei era stata leale nei confronti dei suoi familiari perché era fuggita

per non dover testimoniare contro il fratello. Chiamò in causa di nuovo anche

Domenica, dicendo che voleva farsi sposare da Lorenzo, dopo aver ucciso anche il

proprio marito Biagio Tombelli. Maria Maddalena e Domenica furono messe a

confronto . Dopo uno scambio di accuse il notaio annotò in latino che il

contraddittorio era degenerato in una rissa verbale: «deinde ambo coeperunt verbis

iniuriosis invicem se afficere ut duo canes rabidi» [e poi cominciarono e scambiarsi

insulti come due cani rabbiosi], e proseguì a descrivere la scena dicendo che non

aveva potuto riportare le parole esatte perché strepitavano, parlando

contemporaneamente, e solo gli era riuscito di capire che Domenica accusava Maria

Maddalena di adulterio con don Lorenzo Nanni e Maria Maddalena accusava

Domenica di adulterio con Lorenzo Brizzi. Solo dopo parecchio tempo il notaio era

riuscito a calmare le due donne e l’interrogatorio si era concluso, senza che esse

avessero cambiato in nulla le loro rispettive versioni dei fatti.

L’11 dicembre fu fatta venire da Casio con la scorta degli sbirri dell’arcivescovado

l’impunita Maria Brizzi che ribadì e precisò le sue accuse ai fratelli e ad Agostini.

Lorenzo Brizzi, interrogato a sua volta, disse di non sapere che la moglie era stata

avvelenata. Negò di averla querelata ma ammise di aver consegnata al vicario foraneo

Campoleoni una relazione in cui raccontava di aver trovato la moglie in casa con

Giuliano Taruffi e che don Antonio l’aveva accusata di furto «et sopra queste cose il

signor dottor Campoleoni fece processo». Per averla trovata con Taruffi l’aveva

rimandata da suo padre. Tempo dopo lei piangendo gli aveva confessato che era stata

«subornata da Nicolao Nanni, da ser Matteo Maria Vivarelli notaro, et dal signor

curato di Granaglione a dirci che io ci avevo dato il velleno che essendosi andata a

confessare non la volevano assolvere et io ci dissi che bisognava che venisse a farmi

la scolpacione», cioè la ritrattazione delle accuse contro il marito che secondo quanto

sosteneva Lorenzo sarebbe stata fatta per insistenza di Maria Gentile. Disse poi che

era stato in Maremma dal dicembre 1741 al maggio successivo (Maria Gentile era

stata trovata morta il 7 marzo 1742).

Il 19 dicembre 1744 Lorenzo, Maria Maddalena e Agostini furono messi a

confronto con Maria, l’impunita, che fu sottoposta al supplizio degli zufoletti ad

purgandum, cioè per togliere i sospetti, derivanti dalla sua indegnità morale,

sull’attendibilità delle sue accuse, che ripeté sotto tortura. Due giorni dopo Maria

venne scarcerata, con obbligo di ripresentarsi alla corte se convocata; il

provvedimento fu preso durante la visita ai carcerati fatta per celebrare il prossimo

Natale dal vicario generale, da Floriano Solfi canonico della cattedrale, da Carlo

Antonio Vannicelli uditore criminale e avvocato fiscale, dal reverendo cancelliere

maggiore Gaetano Lemma, dall’ uditore Luca Antonio Sgargi, da Francesco degli

Antoni, avvocato dei carcerati, da Ercole Valla procuratore fiscale della curia

episcopale. Anche in questo la procedura del foro vescovile e del foro laico erano

62

identiche: quest’ultimo infatti effettuava regolarmente visite settimanali per

esaminare l’andamento dei processi e concluderli con rito sommario, mentre alle

feste più solenni procedeva alle visite graziose nel corso delle quali si concedevano

grazie e sospensioni dei procedimenti.

Il 4 gennaio 1745 Maria Maddalena Brizzi fu formalmente accusata: le fu contestato

il complotto ordito il 6 dicembre 1740 fra lei, Lorenzo e Maria per uccidere Maria

Gentile e inoltre il fatto di aver avuto la chiave della casa di Lorenzo e di averla usata

per avvelenare la carne; la macchinazione con la sorella per coinvolgere Agostini

nell’omicidio, di aver trattato Domenica Macciantelli come «morosa» del fratello; di

aver attirato la cognata fuori di casa la notte del delitto e di aver preparato la cena.

Ulteriori prove erano le accuse sostenute in contradditorio da Maria, l’essere andata

dal muratore Fiornovelli ingiungendogli di non parlare del veleno, l’essere fuggita, la

pubblica fama che lei e Agostini fossero gli assassini, l’aver preteso di aver saputo

del delitto solo dopo la scarcerazione. Ai suoi dinieghi fu obiettato che nelle sue

deposizioni aveva detto sei menzogne accertate: aveva negato che il 6 dicembre 1740

il fratello avesse pranzato a casa sua; aveva negato di aver avuto la chiave della casa

di Lorenzo; aveva detto che non era a veglia la notte del 6 marzo 1742 per cause

diverse da quelle esposte dai testimoni; aveva negato di aver comprato pesce per la

cena per i suoi complici; aveva detto di essere andata a casa di Fiornovelli per un

motivo diverso diverse da quello che era risultato dalle testimonianze; infine, aveva

negato la relazione col prete Lorenzo Nanni. Anche Pier Antonio Agostini fu

incriminato per aver trattato l’assassinio con Lorenzo Brizzi, per aver complottato

con le sorelle di Lorenzo, perché accusato dalla deposizione di Maria, per la pubblica

fama che era l’esecutore dell’assassinio, per le sue fughe e le sue bugie.

Venne interrogato ancora Lorenzo Brizzi che giustificò la sua stretta relazione con

don Antonio, con cui abitava a Bologna, «perché esso mi ha mantenuto alla scuola et

io l’ho servito in tutto quello che mi ha comandato perché io sono un poveretto che

ho bisogno di lui». Furono raccolti gli ultimi elementi di prova della colpevolezza di

Agostini da due montanari che confermarono che l’uomo aveva cercato di convincerli

a dichiarare che il 6 di marzo era a Casio. Il 21 gennaio per Agostini, Lorenzo e

Maria Maddalena fu fissato il termine di dodici giorni per difendersi.

63

13. Il processo difensivo

Dopo gli interrogatori per l’accusa, il 29 maggio 1745 il procuratore dei poveri

Giovanni Battista Tadolini chiese formalmente copia del processo accusatorio per

poterlo esaminare e decidere una linea difensiva per Lorenzo, Maria Maddalena e

Agostini; il procuratore fiscale sostituto Pietro Cavazza non trovò nulla da eccepire

purché il fisco mantenesse sempre la facoltà di aggiungere nuovi indizi (facoltà di cui

il procuratore fiscale si avvalse). Con fisco si intendeva l’organo che tutelava davanti

all’autorità giudiziaria gli interessi del sovrano, controllando che fosse rispettata la

legge, e la persona fisica che svolgeva tale funzione era appunto l’avvocato o

procuratore fiscale. A Bologna tale ufficio per particolare privilegio della città non

era presente nel tribunale laico del Torrone; c’era invece in quello arcivescovile. Ad

una data non specificata ma compresa tra l’acquisizione del processo accusatorio e

l’avvio del processo difensivo, il 13 agosto, il vicario generale Cotogni ammise gli

articoli che gli vennero presentati da Tadolini, vale a dire i punti che si intendevano

provare nel processo difensivo, interrogando nuovi testimoni e contrastando i capi

d’accusa. Il processo difensivo, che abbiamo visto praticamente assente nei processi

esaminati nell’anno campione 1750 e già molto raro nei decenni precedenti, compare

in questa causa nel foro arcivescovile, con le stesse modalità seguite dal foro laico.

In questa occasione il procuratore dei poveri sostenne che Maria Gentile «dava

segni di vaccillante ed era tenuta da tutti che ne avevano cognizione per una donna

semplice e pazzarella, che raccontava essa spontaneamente le più intrinseche

confidenze che seguivano fra sè e Lorenzo Brizzi suo marito. Che la gente di

Granalione e comuni circonvicini che avevano cognizione della di lei semplicità se ne

prendevano spasso e gioco facendosi raccontare da lei ciò che una donna di perfetta

mente non avrebbe detto e raccontato». Un segno di pazzia fu «buttarsi giù un giorno

da una finestra con pericolo della vita a solo fine di seguitare il marito che veniva a

Bologna». Inoltre «bene e spesso per gelosia si disgustava con suo marito e allora

dava in ismania e disperazione persino a volersi andare ad annegare et amazzarsi».

Quando era stata trovata morta «nacque fama nel paese che ella vi fosse andata a

buttare dentro per disperazione in cui era data per esserle pochi giorni prima state

rubbate in casa le castagne che le aveva consegnate il di lei marito Lorenzo Brizzi».

Dopo tre o quattro giorni mentre tutti «la reputavano annegata per disperazione», don

Francesco Taruffi curato di Granaglione, il suo cugino Giuliano Taruffi e altri

Taruffi, con Matteo Maria Vivarelli notaio di Granaglione «si fecero autorità della

voce sparsasi che si era veduto Lorenzo Brizzi in paese e che era stato quegli che

aveva uciso sua moglie e buttata nel bottazzo del molino». Si sosteneva inoltre che

Lorenzo si trovava nella Maremma di Grosseto, che i Taruffi avevano sempre nutrito

risentimento per Lorenzo e Maria Maddalena Brizzi ed erano stati uditi dire che a chi

avesse portato loro la notizia che i due erano stati impiccati avrebbero dato volentieri

due zecchini (20 Lire). L’animosità del notaio Vivarelli, invece, non si sa da che cosa

fosse originata ma è ricordata anche in altre occasioni, così come ci sono

testimonianze sul legame fra sua moglie Lorenza, Lorenzo Brizzi, la sua amante

Domenica Macciantelli, sua sorella Maria Maddalena. Non è quindi troppo

64

inverosimile supporre che il malanimo del notaio Vivarelli fosse provocato

dall’eccessiva dimestichezza della moglie con gente di «cattivo odore».

Prima che iniziasse il processo difensivo, il 27 luglio 1745 l’uditore criminale

arcivescovile Carl’Antonio Vannicelli interrogò di nuovo Lorenzo Brizzi che ammise

di aver fatto chiedere due anni prima la pace alla madre di Maria Gentile dal curato di

Granaglione e anche dall’arciprete Campoleone «et mi pare che venisse una lettera

del signor sott’auditore Almerighi il quale pregava detto signor arciprete interporsi

per detta pace et detta pace dissero di farla con certe condizioni che non mi ricordo

mò adesso, cioè che ci pagassi certe bagatelle, cioè certe cose che devono essere nel

rilascio che mi fece il Torrone». Si trattava di un fatto grave perché la richiesta di

pace – alla quale era seguita la cancellazione del procedimento in Torrone – gli

veniva ora contestata come un’ammissione di colpevolezza. Quanto alle condizioni

poste dalla suocera Maria Caterina (il pagamento del vitto per la figlia e delle scarpe

rubate e il non doversi avvicinare alla sua casa) che Lorenzo pretendeva di non

ricordare disse: «Dette condizioni le avranno dimandate ma la Maria Cattarina et la fu

Maria Gentile godevano la dote di detta Maria Gentile et essa Maria Gentile lavorava

per loro onde io pretendevo non essere tenuto a cosa alcuna et queste instanze non le

hanno fatte a me che se mi avessero dimandato qualche cosa per detta mia moglie

mentre viveva io ce lo avrei dato, anzi io avanzavo e avanzo ancora dieci scudi, cioè

lire 50 capitale residuale di detta dote con li frutti di due o tre anni del qual credito

non ho mai avuto niente et così credo che dovessero contentarsi, rimettendomi

sempre a quello che decreteranno li signori superiori» .

L’acquisizione di questo nuovo elemento – la pace e le sue circostanze, che il solito

Campoleoni aveva procurato di accertare su incarico del vicario generale «perché

questa prova importa confessione del delitto» – era stata fatta il 22 giugno 1745

quando il vicario foraneo aveva interrogato Maria Caterina, la suocera di Lorenzo,

che disse di ricordarsi di aver chiesto il rimborso del vitto «et con altre condizioni e

reservationi che non mi sovengono ma bensì seranno ben note al detto signor vicario

foraneo che di me più ne aveva premura». Una stoccata allo stesso Campoleoni che a

suo tempo l’aveva incalzata perché sottoscrivesse la pace. Un testimone affermò che

il figlio maggiore di Maria Caterina, Giovan Domenico Nanni, non aveva preso parte

alla pace perché non era in paese. Disse anche lui che il sottuditore Almerighi aveva

indirizzata una lettera all’arciprete perché i parenti di Maria Gentile facessero la pace

a Lorenzo. Il sottuditore del Torrone, combattuto da dubbi sulle prove raccolte, aveva

quindi voluto chiudere il processo per l’annegamento di Maria Gentile con la grazia

al marito, un compromesso che non avrebbe evitato la riapertura del caso anche nel

foro laico. A Brizzi vennero dati altri tre giorni per le difese, alla luce dei nuovi

elementi emersi, ma il procuratore dei poveri Tadolini non ne approfittò, e si riferì

agli articoli già presentati da tempo. Il 30 luglio, compiute le formalità, tra le quali la

richiesta, avanzata dal procuratore fiscale sostituto, che il processo fosse celebrato a

spese dei richiedenti, cosa che avveniva regolarmente anche per i processi difensivi

del Torrone, benché senza alcuna istanza del procuratore fiscale che, come sappiamo,

non c’era.

65

Il processo difensivo iniziò il 13 agosto 1745 e fu condotto dall’uditore criminale

Carl’Antonio Vannicelli. Di Maria Gentile, Giovanni Domenico Lenzi disse che era

«una buona creatura che andava spesso alli santi sacramenti et era sempre conosciuta

per una che abbia il suo ingegno et non aveva alcun segno d’esser pazza, ben è vero

che Lorenzo Brizzi la maltrattava et ci dava poco da mangiare per quanto sentivo a

dire. Lorenzo Brizzi non la trattava da marito cioè come deve il marito et attendeva

ad altre femine come si sa publicamente. Quando la Maria Gentile e Lorenzo Brizzi

erano disgustati assieme essa procurava di lavorare per campare et una volta ho

sentito a dire ch’esso andò a prendere detta Maria Gentile dalla di lei casa paterna et

di sua madre et la condusse via acciò che ci facesse una discolpazione d’averci

volsuto dare il veleno». Lenzi, benché citato a testimoniare per la difesa, non ebbe

difficoltà a dire che fama che si era sparsa per il paese era che Maria Gentile fosse

stata buttata nel fiume, che non era possibile che si fosse buttata da sé (perché troppo

devota per farlo) e che fosse stata annegata per ordine di suo marito da Maria

Maddalena e Agostini, ma il testimone non sapeva dire chi fossero stati i primi a dire

queste cose e su quale fondamento le avessero dette. Si sussurrava inoltre che

Lorenzo si fosse fatto fare le fedi di essere in Maremma ma che fosse tornato

nascostamente.

Antonio Mellini disse che Maria Gentile era una donna «assai da bene, timorata di

Dio, savia et non ho mai saputo né veduto in lei veruna sciocchezza o balordaggine;

la gente del commune diceva che era ben matta a voler stare ad abitare con il di lei

marito che la trattava così male et se li dicevano che era matta era per la troppa di lei

bontà». Di tutti gli articoli della difesa, uno per uno, disse che erano falsi. Angelo

Matteo Bertozzi descrisse la vittima come donna «di ottimi costumi, timorata di Dio,

savia e non ho mai saputo che sia donna sciocca né balorda né matta, anzi pareva una

creatura molto savia e molto buona». Anche per Francesco Maria Mellini, Maria

Gentile era timorata di Dio e savia e non matta «anzi mi raccontò che suo marito la

trattava tanto male che la voleva condurre a segno di qualche disperazione et quando

mi raccontò questo fatto fu allora quando si raccoglievano le castagne anzi mi

raccontò che le era convenuto fuggir da una finestra acciò suo marito terminasse

d’offenderla et se ne era fuggita a casa della di lei madre».Sulle circostanze della sua

morte c’era chi diceva che si fosse buttata «ma questi che dicevano queste cose erano

donnigiole di Granaglione delle quali non so dirci né il nome né il cognome», ma poi

al sesto articolo della difesa Mellini rispose contraddicendosi: «Io non sentii dire da

veruno che essa si fosse andata ad anegare per disperazione, né per altra causa».

Giovan Battista Tombelli disse a sua volta di aver sempre avuto una buona

opinione di Maria Gentile che oltretutto «descendeva da buoni parenti», e quanto alla

presunta follia «non l’ho mai tenuta né per pazza né per sciocca. Essa era alle volte in

qualche smania per li gran strappazzi che ci faceva suo marito, del quale era affatto

inamorata et una volta che essa era andata a casa di suo padre per li strappazzi che ci

faceva suo marito fu lusingata da Lorenzo suo marito et essa di nottetempo fuggì

dalla casa paterna et andò con Lorenzo suo marito il quale poi la condusse a Bologna

a disdirsi di una relazione data nel tribunale che detto Lorenzo avesse volsuto dare il

veleno et la pazzia che fece detta Maria Gentile fu quella di tornare con suo marito

66

perché se non fossi ritornata con suo marito forse non sarebbe incorsa in tante

disgrazie che gli sono succedute doppo perché suo marito non li dava il vito

necessario»: per procurarsi da mangiare faceva erba e portava legna per gli altri. Non

l’aveva vista morta ma non aveva mai creduto che fosse annegata perché non si era

gonfiata d’acqua. E concludeva amaramente: «La Maria Gentile se avesse ricevuta

qualche volta qualche finezza amorosa da suo marito lo raccontava a qualche persona

confidente per l’amor che portava al marito, ma non raccontava poi mai quello che

fanno marito e moglie. Io so bene che detta Maria Gentile si doleva per gelosia del

marito ma non ho mai saputo che per gelosia si volesse amazzare o anegare»

Il 27 agosto, ultimo giorno degli interrogatori per la difesa, il figlio dell’uditore

criminale, don Mariano Vannicelli interrogò don Francesco Vangelisti il quale disse

che con Lorenzo Brizzi era andato a scuola di lettura e scrittura a Granaglione dal

cappellano don Giovanni Matteo Brizzi. Aveva saputo della morte di Maria Gentile

mentre stava a Pistoia, dove era andato a studiare e per questo non sapeva niente.

Maria Gentile aveva detto però alla madre di don Francesco che il marito non voleva

dormire con lei e che l’aveva voluta avvelenare. Per seguire Lorenzo a Bologna era

scappata da casa di suo padre dalla finestra, ma calandosi da un’altezza di circa due

metri, non gettandosi come una pazza, e non si era fatta niente.

Nessun articolo a difesa degli imputati era stato confermato dai testimoni citati.

Anzi, tutti avevano insistito sulla sanità mentale di Maria Gentile, tranne per quella

gelosia che viene per la prima volta rappresentata come un sentimento inspiegabile,

generata da un amore incomprensibile ai suoi paesani. La gelosia di Maria Gentile, la

sua insensata speranza di ricevere attenzioni da Lorenzo stridono con l’immagine

galante e un po’ vacua del lettore dei Reali di Francia: forse la ragione di quella

incompatibilità stava proprio nel contrasto tra il «feminismo» del marito e la richiesta

di fedeltà della devota moglie. Ma Lorenzo era rappresentato anche come «il Mulo di

don Antonio», che girava armato fino ai denti con i suoi amici (chierici e laici) e che

a detta dello stesso chirurgo di Granaglione Francesco Costa, aveva fracassato un

braccio alla moglie e forza di botte. Insomma, i giudici della curia arcivescovile erano

incerti e dalla fine di agosto al 30 dicembre la causa restò sospesa.

Il vicario generale e i ministri fiscali della curia arcivescovile finirono per mandare

al papa un memoriale nel quale scrissero che ciascuno degli imputati accusava gli

altri e negava per se stesso ogni accusa. «Et essendo questa causa stata fatta anche

dalla curia del Torrone contro de laici, et non havendo certamente sortito di provare

ciò, che ha provato detta curia arcivescovile, essa curia del Torrone assolvette li

mandatari non però come innocenti, et quanto a Lorenzo Brizzi fu liberato dalla

contumacia per via di grazioso rescritto fatto dal signor Passeri allora uditore del

Torrone in nome dell’eminentissimo Alberoni legato. In oggi li signori diffensori

portano le sudette assolutorie e pretendono che trattandosi tra meramente laici non

possa questa curia arcivescovile procedere contro d’essi ex defectu jurisdictionis.

Onde sebbene si creda detta eccezione insussistente, tuttavia, per togliere di mezzo

ogni cavilazione e dubbio ricorrono gli oratori genuflessi alla somma giustizia della

Santità Vostra suplicando la medesima colla suprema sua autorità sanare ogni preteso

difetto di giuridizione ad effetto che detta curia arcivescovile proceda contro de

67

delinquenti alla condegna punizione, anche non ostante le indebite assolutorie e

grazie superiormente narrate, massime trattandosi di delitto enorme et atrocissimo il

quale riusciria di pessimo esempio se restasse impunito». La risposta del papa arrivò

il 20 gennaio 1746 e comunicava che avocava a sè la causa e la affidava al Torrone,

ordinando che dalla curia arcivescovile venissero trasferiti al foro laico gli atti e i

carcerati. Il successivo 26 febbraio 1746, come risposta di un altro memorale nel

quale si chiedeva che cosa si dovesse fare di don Antonio, fu scritto «che già sembra

assicurato per la pena dell’ergastolo», cioè della reclusione, e pertanto «non sia

presentemente per consegnarsi alla curia del Torrone atteso che l’impunita non lo

rende in modo alcuno complice del mandato», anche se in realtà si pensava che fosse

il principale istigatore e che non fosse stato nominato per paura; se fosse stato

chiamato in causa nel processo del Torrone avrebbe potuto essere consegnato.

68

14. Il secondo processo del tribunale criminale del Torrone.

I fascicoli acquisiti dalla curia arcivescovile furono studiati attentamente; poiché a

condurre questo secondo processo fu di nuovo Antonio Almerighi, si può pensare che

sia stato lui a vagliare gli elementi raccolti dai Vannicelli e dal vicario foraneo

Campoleoni. Si prese tutto il tempo necessario e solo il 26 giugno 1746 si fece

condurre davanti Domenica Macciantelli, in carcere da quindici giorni. Non ne cavò

molto e la fece ripresentare il 30 giugno. Le venne contestato che sperava di sposare

Lorenzo dopo aver progettato di uccidere il suo stesso marito con un fungo

avvelenato e che lei fosse complice dell’omicidio di Maria Gentile; l’accusavano

inoltre la confessione della congiura fatta a casa sua il 6 dicembre 1740 rilasciata da

Maria Brizzi e la deposizione di Maria Maddalena Brizzi che affermava che Maria

Gentile fosse stata fatta morire per causa sua. Alla fine dell’elencazione dei capi di

accusa le vennero concessi tre giorni per le difese. Almerighi aveva interrogata e poi

incriminata Domenica perché era l’unica che non fosse già stata processata dal

Torrone; tutti gli altri elementi su cui la congregazione criminale doveva pronunciarsi

erano stati già acquisiti dal 1742 in poi, dal Torrone o dal foro ecclesiastico. La

parola passava alla difesa e si trattava di un compito molto gravoso se fu scomodato

l’avvocato Giuseppe Maria Vernizzi, coadiutore del vecchio avvocato dei poveri

Vincenzo Andrea Guinigi, che sarebbe morto nel 1748 a settantanove anni, lasciando

Vernizzi titolare dell’ufficio. Il risultato della fatica di Vernizzi fu la scrittura Pro

Laurentio Britio cum curia Turroni, juris che fu prodotta in causa da Giacomo

Coralupi solo il 31 ottobre, dopo aver ottenuto vari rinvii dei termini per la difesa. Si

tratta di un esempio estremamente raro di requisitoria scritta e inserita nel fascicolo

processuale: abbiamo così la possibilità di valutare l’apporto dell’avvocato dei poveri

in sede di congregazione criminale.

Per l’omicidio di Maria Gentile, che insisteva a definire pazza, follemente

innamorata e presumibilmente quindi suicida, il dottor Vernizzi aveva patrocinato gli

imputati anche nel foro arcivescovile, perché le competenze del suo ufficio

comprendevano entrambi i fori e fra le altre eccezioni aveva opposto le risultanze del

primo processo del tribunale del Torrone e l’assoluzione già riportata da Brizzi nel

foro laico. La linea di difesa che fu tenuta nella nuova discussione del caso in

Torrone si basò sulla liceità di annullare la grazia del legato Alberoni e il decreto

dell’uditore Passeri a suo tempo emessi. Vernizzi citò la costituzione di Clemente

XII, In supremo justitiae solio, pubblicata a Roma il 1° febbraio 1734 là dove diceva

che non era consentito ai legati processati, condannati e banditi per omicidio senza

speciale mandato del papa graziare. Dal rescritto del legato Alberoni e dal decreto

emanato dall’uditore Passeri era evidente che né il principe né il giudice avevano

derogato dalla retta via del diritto, in quanto non c’era stata nessuna sentenza di

condanna per omicidio; infatti dal processo informativo non risultava nulla che

potesse provare la colpevolezza di Brizzi, in quanto oltre alle voci raccolte dal

reverendo Annibale, fratello di Maria Gentile e dalla loro madre Maria Caterina

Nanni, lo accusava solo la contumacia.

69

Ora il fisco, argomentava Vernizzi, pretendeva che l’assoluzione di Brizzi del 1743

fosse stata ingiusta sulla base di prove raccolte negli ultimi due anni. Era però stato

assolto con la formula amplius hac de causa non molestari, vale a dire che non

poteva essere più processato per la stessa imputazione. I tribunali non dovevano

essere usati per perseguire vendette private dei nemici, che si accaniscono a cercare

accuse ingiuste e falsità, subornando testimoni «prout in praesenti casu in quo novae

probationes quas curia archiepiscopalis se acquisivisse iactabat non consistunt nisi in

depositione cuiusdam mulierculae cui acuta febre laboranti fuit impetrata impunitas,

nullo habito respectu quod ipsa soror esset eiusdem Laurentii et perinde ab

inculpando fratrem in causa capitali a Jure reprobatae» [come in questo caso nel

quale le nuove prove che la curia arcivescovile pretendeva di aver raccolto non

consistono se non nella deposizione di una donnetta alla quale, tormentata dalla

febbre, era stata concessa l’impunità, senza nessun riguardo al fatto che si trattava

della sorella di Lorenzo e per la stessa ragione ricusata dal diritto come teste d’accusa

del fratello in una causa capitale].

Agli impuniti, secondo l’avvocato, si doveva dare poco credito e cercò di sostenerlo

citando più volte come autorità dottrinale Giovan Domenico Rainaldi, che era stato

uditore del Torrone negli anni Settanta del Seicento e aveva scritto due fortunati

trattati di pratica criminale Le Observationes e la Sintaxis. Soprattutto, Vernizzi non

si risparmiò nello sfoggio di magniloquenza forense. «Oh pauperes judicum animae,

qui inanis gloriae cupidi et ut videantur in mundo horribiles et valorosi curant illicitis

et indirectis viis reorum confessiones extorquere et utinam verae essent cum bene

sciam ut plurimum eas falsas reperiri quando praesertim delictum habet complices et

uni assertorum complicum promittit iudex impunitatem ut alios detegatur cum aliud

non procuret is, qui impunitatem habuit, quam se ipsum salvare et quo in alios

detegendos mali iudicis voluntati consentire» [Oh povere anime dei giudici, che

bramosi di vana gloria e di essere considerati terribili e animosi agli occhi del mondo

si sforzano di estorcere confessioni ai rei con mezzi illeciti e subdoli; e almeno

volesse il cielo che tali confessioni fossero vere, mentre so bene che molte volte si

rivelano false, specialmente quando un crimine ha dei complici e ad uno dei presunti

corresponsabili il giudice promette l’impunità perché denunci gli altri, poiché quello

che ottiene l’impunità si preoccupa solo si salvarsi e assecondare l’obiettivo del

cattivo giudice denunciando altri].

Passarono ancora dei mesi e il 10 marzo 1747 il procuratore dei poveri Giacomo

Coralupi si ripresentò all’uditore sostenendo l’innocenza di Lorenzo Brizzi

dall’accusa di essere il mandante o un complice dell’uccisione di Maria Gentile

Nanni e dell’incesto con Domenica Macciantelli. Per la prima imputazione c’era

l’assoluzione ottenuta nel 1743. Per la seconda, il suo assistito negava la relazione

della quale a suo dire non c’era una prova conclusiva; ma anche ammettendo che

l’accusa avesse fondamento, si trattava di delitto che stando alla prassi del tribunale,

non era punito con le severissime pene dei bandi (l’esecuzione capitale) ma l’entità

della sanzione era decisa a giudizio dell’uditore. Coralupi per questo si appellava alla

clemenza del giudice per un reato compiuto per eccitazione dei sensi, in un momento

di perdita del controllo.

70

A difesa di Pier Antonio Agostini il procuratore disse che all’ora della morte di

Maria Gentile era a Casio, come potevano confermare vari testimoni. Per Maria

Maddalena Tombelli negò validità alle deposizioni di Maria, sorella sua e di Lorenzo,

impunita nella corte arcivescovile. Infine, per Domenica Macciantelli disse che non

gli risultava ci fosse una parentela di sangue con Brizzi - lo affermava malgrado le

ricostruzioni genealogiche dei testimoni e la verifica fatta dagli inquirenti sui libri

parrocchiali. In definitiva, l’argomentazione che aveva più fondamento era che la

parentela spirituale non suscitava l’orrore che suscitava quella di sangue e che

rendeva questo crimine ripugnante. L’incesto, ripeteva poi Coralupi, era punito ad

arbitrio del giudice e di solito per le donne, creature deboli, anche in forma più

blanda. Rivolgendosi all’uditore Egidio Ludovisi, chiedeva di decidere una pena

tanto leggera quanto remoti erano i gradi di parentela, pena che in questo caso si

poteva considerare già scontata con la lunga detenzione.

Tuttavia, il processo non era ancora concluso e il 3 ottobre 1747 la congregazione

criminale decise la tortura per tutti e quattro gli inquisiti. Il 5 ottobre, prima di essere

messa alle corde alla presenza del sottuditore Almerighi, Maria Maddalena sostenne

di aver detta la verità e che se non fosse stato così non avrebbe voluto stare quattro

anni in simili miserie, riferendosi alla lunga vicenda processuale e al fatto che, se

avesse saputo qualcosa di più, la carcerazione, la latitanza e i disagi sarebbero stati

sufficienti a farla parlare. Il medico chirurgo la visitò e disse che andava soggetta a

«violenti insulti eppilettici utterini con spuma alla bocca e gagliarde convulsioni» e a

un’artrite e che pertanto torturarla la metteva in pericolo di vita. Come era prassi, il

sottuditore si adeguò alla perizia dei medici. Agostini fu invece giudicato idoneo a

sostenere il tormento, che subì per un’ora senza parlare. Il 9 ottobre lo stesso rituale si

ripeté per Domenica Macciantelli; risultò che aveva avuta una lussazione composta

ad una spalla e il dottor Giovanni Antonio Galli la dichiarò inabile a sopportare la

corda.

Dieci giorni dopo congregazione criminale fu chiamata a decidere per Agostini,

Maria Maddalena e Domenica Macciantelli, i primi due imputati di omicidio e la

terza anche di incesto. Le due donne furono condannate alla detenzione in casa di

correzione per cinque anni mentre Agostini venne esiliato. Quanto a Lorenzo Brizzi,

la congregazione criminale gli inflisse la galera per sette anni per l’incesto e per

l’omicidio dispose che venisse torturato. L’uomo resistette per un’ora alle corde,

invocando la giustizia di Dio e l’aiuto di S. Antonio. Il fatto che avesse sostenuto la

prova senza confessare indusse i giudici a considerare insufficienti gli elementi di

colpevolezza: a Lorenzo restò la non lieve pena per l’incesto, per il quale nessuno

poteva con fondamento sostenere la sua innocenza. La sentenza fu pronunciata

dall’uditore l’1 dicembre 1747. Il 16 giugno 1748 Giovanni Domenico Nanni

sottoscrisse di suo pugno la pace per Maria Maddalena. Nove giorni dopo la donna

ottenne anche quella di di Marco Nanni anche a nome di Giovanni Antonio Nanni,

che si trovava a Venezia. Il 3 luglio anche l’ultimo fratello di Maria Gentile, don

Annibale, quello che con più determinazione aveva promossa l’azione giudiziaria,

firmò la riconciliazione con Maria Maddalena, che il giorno dopo venne rilasciata

71

dalla casa di correzione. Non vi restò molto neppure Domenica Macciantelli, che uscì

dall’istituto di pena il 30 ottobre 1748.

Don Antonio Nanni si rivolse al cardinal legato Giorgio Doria, presentandosi come

un vecchio inoffensivo e malato di settantatre anni «al presente detento per due anni e

mesi nelle carceri di questo foro arcivescovile imposturato [accusato ingiustamente]

d’avere falsamente cooperato nella morte di Maria Gentile fu moglie di Giovanni

Lorenzo Brizzi che si anegò per la qual causa l’oratore medesimo è stato conosciuto

innocente ed approvato tale dalle scritture fatte in suo favore dall’illustrissimo signor

avvocato Vernizzi». Chiedeva la grazia che si arrivasse alla conclusione del processo

contro i carcerati nel foro criminale «dal qual sciolimento ne nascerà la liberazione

del povero oratore che trovasi in miserie tali che moverebbe a pietà sino li sassi,

essendogli costata la predetta causa migliaia di scudi e di più agravato da continue

indisposizioni per la di lui lunga prigionia dalla quale non potrà liberarsene se prima

non sarà spedita [conclusa] la causa nel foro dell’eminenza vostra reverendissima

assicurandolo il detto oratore che non mancherà porgere continuate preghiere

all’Altissimo per la di lei lunga conservazione ed ogni sua maggior esaltazione».

La supplica è senza data perché senza rescritto – la risposta dei destinatari delle

suppliche, quando c’era, veniva datata - e non risulta, fra le grazie concesse in dieci

anni dal legato Giorgio Doria, alcun atto di clemenza per don Antonio. La sua cattura

da parte del tribunale arcivescovile risaliva al novembre 1744 e quindi la supplica

doveva risalire ai primi mesi del 1747. Dal contesto si capisce che il prete sollecitava

la chiusura del procedimento, richiesta che effettivamente era stata soddisfatta alla

fine del 1747, con la sentenza di condanna contro Lorenzo. E’ impensabile che don

Antonio sia rimasto ancora rinchiuso nelle carceri del foro arcivescovile: il foro laico

non solo non l’aveva mai chiamato in causa ma non aveva preso una posizione

precisa sul dilemma iniziale – omicidio, suicidio o disgrazia – neppure nei confronti

di Lorenzo, preferendo infliggere a lui e alle due donne pene per la loro condotta

sregolata, presto rimesse a Maria Maddalena e a Domenica, e inviare Pier Francesco

Agostini in esilio.

72

15. Il processo di don Lugatti.

A pochi anni di distanza il tribunale criminale del Torrone si trovò di nuovo a dover

mettere sotto processo un sacerdote i cui comportamenti non avevano suscitato

scandali per intemperanze sessuali, ma che manifestavano le stesse attitudini alla

violenza già rilevate nella vicenda precedente – abbiamo visto don Antonio, don

Lorenzo Nanni e il suo compagno don Elmi girare armati – che a due secoli dalla fine

del concilio di Trento non erano state ancora del tutto conculcate dalla pervasiva

politica di disciplinamento imposta dal concilio stesso per regolare i comportamenti

di laici ed ecclesiastici. Né gli esempi di deviazioni dal modello del buon pastore di

anime si trovavano solo nelle montagne, dove ancora periodicamente si recavano le

missioni per pacificare gli animi e regolare la condotta di fedeli e clero.

L’1 aprile 1752 il bargello degli sbirri di Bologna fece rapporto ad uno degli otto

notai del tribunale del Torrone e gli riferì che dallo scorso febbraio lo sbirro Angelo

Job (chiamato anche Jobbi) era stato carcerato in un’osteria a Bazzano, ai confini tra

il Bolognese e il Modenese. Job, da tempo latitante, aveva ucciso tre anni prima

Paolo Gherardi nell’osteria del Piratello, località poco distante da Imola e compresa

nel territorio della Legazione di Romagna. Svolgendo delle indagini e ricorrendo ad

informatori il bargello aveva accertato che l’uccisione non era avvenuta nel corso di

una rissa ma per mandato di don Domenico Lugatti e di suo fratello Giuseppe; il

crimine ricadeva quindi nella fattispecie dell’omicidio premeditato, passibile di pene

più severe di quanto non fossero quelle previste per fatti delittuosi attribuibili a

scoppi improvvisi e incontrollati d’ira.

Il movente del delitto risaliva ad eventi accaduti otto anni prima, nel 1744. Paolo

Gherardi, la vittima, abitava alla Crocetta - una località di pianura tra Bolognese ed

Imolese dove don Domenico e Giuseppe Lugatti erano affittuari di una grande tenuta

del marchese Alfonso Ercolani - e faceva il muratore, mentre suo fratello Giovanni

era guardiano a servizio dei Lugatti. I Gherardi furono incolpati di un furto di canapa

e dopo un breve processo Paolo fu trasmesso alla galera per cinque anni nonostante

fosse rimasto, tra la gente che lo conosceva, «non leggier sospetto che una tal

processura potesse essere fatta per opera delli detti Lugatti col mezzo di testimoni

non veridici e da loro subornati». Giovanni aveva chiesto ragione ai padroni per la

condanna di Paolo e per questo era stato licenziato dai Lugatti che nel giorno di

venerdì santo lo fecero attirare da Francesco Poggipollini, detto Chiccone, loro nuovo

guardiano, all’osteria di Castel Guelfo dove Giuseppe Lugatti lo aveva accoltellato.

Castel Guelfo era un feudo di giurisdizione del senatore Malvezzi e quindi il

processo per questo crimine fu celebrato dal suo governatore, Nicola Cappi, che

assolse Giuseppe Lugatti concedendogli l’attenuante della legittima difesa: in

quell’occasione molti testimoni furono disposti a dichiarare di aver sentito Giovanni

Gherardi minacciare i Lugatti, o almeno così si leggeva nei verbali del processo.

Tornato dopo cinque anni dalla galera, Paolo Gherardi si era stabilito come cameriere

all’osteria del Piratello, poco lontano dalla Crocetta, e tale vicinanza sembrò

minacciosa ai fratelli Lugatti i quali, dopo aver cercato di indurlo ad andarsene, lo

avevano fatto uccidere dallo sbirro Angelo Job prima che potesse attuare la vendetta.

73

Si appurò da subito che del delitto c’era una testimone oculare: Orsola Manaresi,

ostessa del Piratello. Dal momento dei fatti erano passati tre anni e si era aspettato di

rintracciare il presunto colpevole per aprire un fascicolo su di lui in Torrone, senza

procedere in contumacia come si sarebbe fatto cinquant’anni prima. Il tempo

trascorso rendeva più difficile individuare i testimoni e meno nitidi i loro ricordi. A

questo inconveniente supplì in parle l’integrazione tra il foro criminale del Torrone e

gli altri che al momento dei fatti avevano avviato o anche concluso (come nel caso

del governatore di Castel Guelfo) atti giudiziali relativi a questi delitti.

Il giudice del Torrone, l’uditore Filippo Mirogli, informato dal notaio, informò a

sua volta il legato Giorgio Doria che in via eccezionale ordinò che l’ostessa Orsola

fosse ascoltata extragiudizialmente, cioè senza farla giurare né verbalizzare le sue

deposizioni; altri testi dovevano essere sondati allo stesso modo per poter stabilire in

quale direzione indirizzare le indagini e per stabilire con la dovuta cautela quanto si

potesse accertare per poi comunicarlo al papa. La faccenda era infatti delicata e

richiedeva il conferimento di poteri straordinari perché era implicato un sacerdote.

Don Domenico Lugatti, come fu subito accertato, in passato era stato sospeso a

divinis da Benedetto XIV. Sapppiamo già che Prospero Lambertini in quanto

arcivescovo di Bologna aveva giurisdizione sui delitti nei quali erano implicati gli

ecclesiastici della diocesi e che le sue prerogative erano esercitate dal vicario

generale Cotogni. Avute le informazioni necessarie, tuttavia, Benedetto XIV il 20

aprile fece pervenire una lettera al legato Doria, spedita dalla segreteria di Stato e

datata 15 aprile, con la quale il papa affidava al tribunale criminale sottoposto allo

stesso legato, cioè al Torrone, la causa dell’omicidio di Paolo Gherardi cum

facultatibus procedendi, . anche se Domenico Lugatti era sacerdote e il Torrone il

foro laico. L’ordine fu trasmesso all’uditore Mirogli che emise mandato di cattura

contro i due fratelli Lugatti, i quali furono arrestati il 27 aprile. Il legato dispose la

perquisizione della loro casa alla Crocetta. Poiché se si trattava di delitto capitale

compreso nelle facoltà che gli erano state conferite come legato e per speciale

mandato fatto al suo tribunale, Doria deputò per procedere a compiere queste

perquisizioni il reverendo Gaetano Almerighi, con l’assistenza del padre, il

sottuditore Antonio Almerighi. Ancora una volta l’intreccio fra giurisdizione laica ed

ecclesiastica nello Stato pontificio rendeva possibile aggirare la separazione dei fori,

non solo conferendo ai cardinali legati, governatori «temporali», anche giurisdizione

in spiritualibus, in quanto principi della Chiesa, ma anche investendo del potere di

condurre materialmente i processi e i suoi atti (come la perquisizione) a un membro

ecclesiastico dello staff del Torrone. Don Gaetano, notaio, viene dunque ad assumere

il ruolo che normalmente sarebbe spettato al sottuditore Antonio Almerighi, suo

superiore, che fu temporaneamente declassato ad assistente.

Il 28 aprile la corte si portò in cavalcata sui luoghi del delitto per raccogliere

testimonianze e indizi e perquisì le case dei Lugatti alla Crocetta e a Castel S. Pietro

dove non trovarono guardie armate ad impedire inquinamento delle prove ma solo

servi degli stessi Lugatti. Quando finalmente arrivò il tenente degli sbirri la casa era

stata ripulita.Il 1° maggio, sempre a Castel S. Pietro, il reverendo Gaetano Almerighi

interrogò con l’assistenza del padre, il sottuditore Antonio, Orsola Morelli, moglie

74

dell’oste Antonio Manaresi di Imola, già sentita extragiudizialmente. La donna disse

che l’uccisione di Paolo Gherardi, alla quale era stata presente, datava a tre anni

prima e non era stata la conseguenza di un alterco. La morte di Giovanni, fratello di

Paolo, risaliva al 1744 e Paolo era stato ucciso cinque anni dopo - scontata la

condanna per il presunto furto della canapa - per non aver voluto concedere ai Lugatti

la pace e il perdono per l’omicidio del fratello. La pace dei parenti era necessaria

perché Giuseppe Lugatti potesse chiedere la grazia e la cancellazione di ogni

procedimento contro di lui. La donna parlò del sicario che aveva ucciso Paolo

Gherardi, lo sbirro Job, come di un uomo di circa trentacinque anni, di media statura,

di pelle scura e butterata dal vaiolo, e «in volto brutto assai»; Le successive

descrizioni dei connotati dello sbirro rese da altre testimoni sono tutte

sostanzialmente concordi, soprattutto in un particolare: che Job portava i capelli con

due lunghi riccioli ai lati del viso.

Orsola siglò la sua deposizione con la croce: era analfabeta, come la maggior parte

delle donne ancora in questi anni, mentre le carte processuali di questi anni

documentano come anche in contado molti uomini sapessero firmare di proprio

pugno. Fra essi suo marito Antonio Manaresi, interrogato come quasi tutti gli altri in

quanto testimone de auditu, cioè per aver sentito raccontare i fatti: non aveva assistito

all’omicidio, e la sua deposizione si basava su quanto gli era stato riferito dalla

moglie. Precisò che Paolo Gherardi non aveva voluto fare la pace con i Lugatti

perché non avevano trattato di persona con lui, ma avevano preteso che l’accordo

fosse siglato da un frate in loro rappresentanza.

Il 5 maggio, dopo altri interrogatori, quello a Pietro Antonio Tartaglia, di Castel

Guelfo, produsse un elemento nuovo, accertando che Job era accompagnato da una

donna, che un altro testimone avrebbe poi descritto come «secca e magra». Nel

frattempo vennero incarcerati Giacomo Toppini, fornaio dei fratelli Lugatti alla

Crocetta - che risultò essere suocero di Paolo Gherardi -, e Giuseppe Calzoni, stalliere

e cocchiere degli stessi Lugatti. Una lettera del legato di Ravenna, il cardinale Mario

Bolognetti, al legato di Bologna, cardinale Giorgio Doria, concedeva ai giudici del

Torrone di procedere alle indagini e agli interrogatori entro i confini della sua

giurisdizione per l’omicidio di Paolo Gherardi commesso da Job al Piratello d’Imola

e trasmise il fascicolo degli interrogatori che erano stati raccolti in Romagna subito

dopo questo delitto.

I due Almerighi impiegarono tutta la giornata del 7 maggio per esaminarlo.

Interrogarono poi Girolamo Nardi, sbirro della squadra del tenente Zesi, il quale

raccontò che Job, quando era stato consegnato loro dagli sbirri di Romagna, aveva

reagito dicendo che nella Legazione di Bologna non era incriminato e che non

avrebbero dovuto consegnarlo ai giudici del Torrone. Alla sua donna, che era

presente alla cattura, aveva raccomandato di andare dai Lugatti perché lo aiutassero a

cavarsela. Di essa, che era stata testimone oculare del delitto come l’ostessa Orsola,

venne di nuovo data una descrizione che avrebbe dovuto mettere gli sbirri sulle sue

tracce, ma che in realtà aggiunse poco a quanto già si sapeva: «è una donna

d’alquanti più anni d’età di lui, grande di statura e magra in volto». Il 9 maggio gli

Almerighi sentirono di nuovo Orsola Manaresi la quale aggiunse che al momento

75

dell’uccisione all’osteria, oltre a lei e alla donna di Job, c’era anche una ragazzina, di

nome Pasquina, che successivamente sarebbe stata identificata e interrogata. Ripetè, e

si disse disposta a ripeterlo cento volte e a giurarlo, che Paolo non era armato e che

non aveva provocato Job in alcun modo, quindi che l’omicidio aveva l’aggravante

della premeditazione.

Il fornaio Giacomo Toppini, interrogato a sua volta, disse che la figlia Domenica

era stata sposata con Paolo Gherardi ma era morta dopo un anno dal matrimonio .

Parlò dei fratelli Gherardi come di «due buoni mustazzi» – due ardimentosi – dei

quali i Lugatti «avevano soggezione» e per liberarsene avevano accusato Paolo, che

andava dicendo per il paese che li voleva ammazzare, del furto della canapa.

Processato e condannato Paolo a cinque anni di galera, anche il fratello Giovanni si

era messo a inveire contro i Lugatti; per questo era stato licenziato da guardiano e in

seguito gli era stato teso l’agguato. Il 10 maggio fu acquisito il processo celebrato nel

1744 dalla curia feudale di Castel Guelfo per l’omicidio di Giovanni Gherardi. Anche

questo fascicolo venne attentamente studiato dai due Almerighi. Nel corso della

stessa giornata interrogarono per concessione dei feudatari di Castel Guelfo il dottor

Pietro Sarnesi, nativo del marchesato di Vignola, nel Modenese, e da oltre vent’anni

medico condotto a Castel Guelfo; egli descrisse le ferite che aveva constatato sul

corpo della vittima.

Fu sentito poi Antonio Vergoni, testimone dell’omicidio di Giovanni, che confermò

le dichiarazioni rese al governatore di Castel Guelfo nel 1744 e che, come tutti gli

altri che vennero reinterrogati, fu indotto a recarsi davanti ai giudici del Torrone da

un’ingiunzione del governatore stesso. Fra essi un testimone particolarmente

credibile, un possidente che viveva di rendita a Castel Guelfo, di Giovanni Gherardi

disse che «non era uomo solito ad eseguire le minaccie che faceva, che non si era mai

saputo avesse neppur dato uno schiaffo ad alcuno, ma era così uno sbaiaffone che

quando aveva bevuto un poco diceva quello che gli veniva alla bocca e per dirla le

offese le faceva a Domenedio perché di quando in quando andava buttando qualche

bestemia di bocca». Uno sbruffone, dunque, ma non un uomo pericoloso, sosteneva

Vergoni, smentendo la tesi che era stata accolta nel 1744 dal governatore della corte

feudale di Castel Guelfo per mandare assolto Giuseppe Lugatti, per una presunta

legittima difesa.

Almerighi padre e figlio si accorsero presto che in quel processo qualcosa non

andava: dopo che gli fu letta la deposizione resa a suo tempo, Clemente Bettelli

affermò che le sue parole erano state travisate, se non deliberatamente falsificate:

«Ma io assolutamente, e non posso sbagliare, le dico e replico che non ho fatto questo

esame, non sono mai stato esaminato sopra quel particolare dal detto governatore»,

che era Nicola Cappi e che lo aveva interrogato a proposito di supposte minacce fatte

da Giovanni Gherardi, «e nemmeno da quel Dionigi Marini che lo conoscevo ed era

un suo servitorello milanese e so che lo andava facendo scrivere, e siccome sentì e

credo che esaminasse uno di detti miei figli che erano informati di quello che sapevo

io, così bisogna che quello che dissero loro lo mettesse in bocca mia e come glielo

avessi deposto io». Il governatore e il suo cancelliere avrebbero quindi adattato la

testimonianza, registrando le minacce di Gherardi ma non che era notoriamente

76

inoffensivo. Clemente Bettelli commentò poi tra sé e sé: «Ma almeno che avesse

scritto quello che io potevo dire di verità, essendovi in detto mio esame lettomi delle

cose che non me le sono mai imaginate ed in sostanza è solo vero tutto quello che ho

detto e deposto in questo mio esame e nella conformità che ho deposto e non con

quelle alterazioni che ho ben sentite nel supposto esame lettomi».

Domenico Maria, uno dei figli di Bettelli, del governatore Cappi disse che

«avendomi ricercato [interrogato] sopra detto omicidio in una stanza della sua

abitazione tra noi due soli e sopra le lamentazioni di detto Giovanni [Gherardi] e

minaccie, io gli dissi quelle cose che ho dette a lei qui adesso e le scrisse in poche

righe, non già come è stato fatto qui da loro, di suo proprio carattere su della carta,

ma non mi diede giuramento e mi mandò via così senza darmelo che mi credei

volesse esaminare mio padre e mio fratello Giuseppe che sopra tali cose erano

respettivamente più informati di me, ma non fu poi chiamato né esaminato alcuno di

loro». Quindi quello che il teste credeva essere stato un interrogatorio extragiudiziale,

senza le indispensabili formalità e il giuramento, era stato registrato come una

testimonianza giudiziale. Nella sua deposizione davanti agli Almerighi, Bettelli parlò

di lamentele di Giovanni Gherardi contro i Lugatti che gli avevano fatto condannare

il fratello Paolo, e a fanfaronate: «sbaiaffature di voler fare e dire contro di loro, ma

queste minaccie come gli ho detto le faceva quando era ubbriaco e non ha però mai

eseguito cosa alcuna», anzi lo aveva visto più volte «scappellarsi davanti ai Lugatti».

Altri dissero di Giovanni Gherardi che era uno «sbaiaffone» e un ubriacone

bestemmiatore ma che non aveva mai fatto male a nessuno. Un altro testimone

affermò che Giovanni minacciava sì i Lugaresi «ma per verità devo dire che questo

era un uomo che si ubbriacava tanto spesso che era quasi sempre ubriaco e quando

aveva bevuto un poco diceva tutto quello che gli veniva alla bocca e quel che è

peggio aveva in bocca la bestemia e non ho mai saputo che abbia mai dato fastidio a

nessuno ma il suo solito era andare sbaiaffando».

Martedì 16 maggio 1752 Angelo Job venne identificato formalmente e poi

interrogato. Disse che il soprannome che aveva da sbirro era Franchino «perché ero

franco nel fare il mio uffizio, quando i compagni dicevano che si doveva andar a fare

qualche cattura mi esibivo di andar avanti agli altri». Suo padre era barbiere, una

professione onorata, ed abitava a Bologna. Secondo il suo racconto queste buone

referenze famigliari lo avrebbero reso sospetto nel crudele ambiente della sbirraglia e

sosteneva che era stato più volte licenziato nel corso degli undici anni in cui aveva

servito «non essendo io razza di sbirro facendo mio padre il chirurgo». Disse che

dopo la cattura a Bazzano era stato tenuto in segreta a Bologna nel Torrone tredici o

quattordici giorni e poi condotto alla Toscanella, al confine fra Imola e Bologna, dove

era stato preso in consegna e incarcerato dagli sbirri di Ravenna per alcuni giorni, poi

era stato portato a Faenza il sabato precedente e da lì ai confini con Toscanella. Infine

il tenente degli sbirri Zesi, detto Marletta, lo aveva portato in quell’osteria di Castel

S. Pietro dove i due Almerighi lo stavano interrogando. Le peregrinazioni del

prigioniero corrispondono al tempo che era stato necessario per condurre in porto le

trattative fra le due Legazioni per stabilire a chi spettasse la giurisdizione sul

prigioniero che era finalmente approdato nelle mani dei giudici del Torrone.

77

Interrogato disse di avere moglie, Teresa Ruberti, sposata undici anni prima e

«saranno da quattr’anni in cinque che la medesima non volse stare più con me che

non gli conferiva [non le giovava] l’aria fuori di Bologna e non avrebbe volluto che

avessi più fatto lo sbirro e però ella se ne tornò a Bologna». La donna con cui stava

attualmente era di Scandiano e si chiamava Annunziata; lo aveva sempre seguito o

raggiunto nelle varie sedi in cui prestava servizio, chiamata da sue lettere. Del delitto

disse di aver ucciso «uno» all’osteria del Piratello di Imola, per disgrazia. Prima di

essersi allontanato da Bologna per intraprendere l’infamante carriera di sbirro doveva

aver assecondato la volontà del padre, che certo aveva altro in mente per lui, e aver

frequentato per alcuni anni la scuola: firmò infatti la sua deposizione con mano sicura

e tratto elegante. Qualche giorno dopo un testimone, Antonio Travisani, sbirro, che

era stato bargello della curia feudale di Dozza e che aveva avuto Job alle sue

dipendenze per un certo periodo, avrebbe detto che Angelo Job si faceva chiamare

Giuseppe Franchini perché, per sua stessa confessione, «non era razza di sbirro ma

figlio di un galantuomo». Non è chiaro se avesse voluto nascondere la sua origine

civile, o proteggere il padre dalla vergogna di un figlio sbirro. Comunque, il bargello

di Dozza lo aveva licenziato perché era violento e, malgrado all’epoca avesse con sé

la moglie, aveva una tresca con tale Anna, moglie dello sbirro Rocchetti che era

scappata con lui portando via al marito beni per 15 o 16 scudi.

.Interrogato di nuovo a distanza di alcuni giorni Job disse di avere precedenti.

Aveva accoltellato un uomo vent’anni prima ma non era stato condannato perché

aveva sostenuto la legittima difesa e non si era potuto provare che fosse morto per le

ferite ed era stato graziato. Una seconda volta era stato imprigionato per certa tela che

veniva accusato di aver contrattato illecitamente, «ma non si era potuto provare

nulla». Sulla grazia che gli era stata concessa per il primo reato disse poi di credere

che il padre «mettesse in mezzo» il senatore Zambeccari «che è suo compare». La

seconda volta la moglie aveva trattato per la sua liberazione per mezzo del cameriere

del marchese Malvezzi. Raccontò che Paolo Gherardi nell’osteria del Piratello lo

aveva provocato, lo aveva minacciato con la pistola, lo aveva insultato e aveva

sparato per primo.

78

16. La condanna e la grazia

Il 21 maggio i membri della corte, in virtù delle facoltà loro concesse, da Castel S.

Pietro si trasferirono a Imola, a pochi chilometri ma nella Legazione di Romagna, per

«impinguare» il processo – cioè raccogliere nuovi elementi probatori – e si

installarono nel palazzo apostolico, residenza del governatore della città il quale mise

una stanza a disposizione degli emissari del Torrone. Anche qui ci fu chi disse che

Giovanni Gherardi aveva proferito delle minacce contro i Lugatti per la condanna del

fratello ma che si sapeva che «era un chiaccharone e non v’era da dar mente perché

era ubbriaco dalla sera alla mattina e già si sapeva che ogni poco di vino lo

riscaldalva» e che quando era guardiano «con tutte le sue armi, con una bacchetta

ognuno era buono di farlo scappare e per sei o sette anni avanti che lo conoscevo non

ho saputo che avesse mai dato fastidio ad alcuno».

Sabato 27 maggio fu interrogato Giuseppe Calzoni il quale, prima di essere trasferito

alle carceri di Imola, era stato trattenuto a Castel S. Pietro ventitre giorni come

testimone reticente; condotto davanti al sottuditore e a don Gaetano Almerighi, disse

che durante la detenzione gli era venuto in mente qualche cosa sull’omicidio di

Giovanni Gherardi. In realtà raccontò poco e niente. Non fu il solo a essere carcerato

dopo un interrogatorio extragiudiziale perché gli ritornasse la memoria: Francesco

Baldazzi detto Gnaccherini, di Castel Guelfo, aveva detto di non sapere nulla «onde

lei credendo che non volessi dirci la verità ed acciò vi pensassi meglio a dirla prima

di giurare fece trattenermi e condurre in queste prigioni e voglio ben poi dirgliela e

non patire per alcuno». Giuseppe Emiliani di Crocetta, carcerato da ventidue, giorni,

ortolano, era stato interrogato a Castel S. Pietro extragiudizialmente «ma avendo

creduto forse che io non le dicessi la verità sopra il fatto del uomicidio» di Giovanni

Gherardi «mi fece trattenere».

Don Gaetano Almerighi interrogò fra gli altri ecclesiastici Giuseppe Faella, priore

del convento di S. Giuseppe di Imola, il quale disse che Francesco Poggipollini, il

complice di Giuseppe Lugatti, in fuga dopo che il padrone aveva ucciso Giovanni

Gherardi, era andato a lavorare la terra del convento. Qui aveva confessato al priore

Faella che si era rifugiato lì perché dai Lugatti veniva addossata la colpa del delitto

tutta a lui. Successivamente, il reverendo Lorenzo dalla Sfera ripetè come tutti che

Giovanni Gherardi era un beone innocuo, aggiungendo di essersi offerto come

intermediario tra lui e i fratelli Lugatti pochi giorni prima dell’omicidio.«Era unico

per minacciar tutti e per bestamiare massime quando era ubbriaco, come era quasi

sempre, ma per la pratica che io ne avevo posso dirle che mai aveva dato fastidio ad

alcuno e questo è ben quello che nel mercordì di passione sudetto io andai dicendo al

detto Giuseppe Lugatti, suggerendogli che lasciasse andare quelle chiacchere che gli

venivano riportate sopra l’andar sbaiaffando di detto Giovanni e che avesse lasciato

fare a me, che ci avrei rimediato, ma non ebbi occasione di vedere più detto

Giovanni».

Soprattutto, a Imola gli Almerighi sentirono alcuni testimoni che si erano trovati

nelle vicinanze dell’osteria del Piratello il giorno dell’omicidio di Paolo, tre anni

prima. Scontata la galera, Paolo, che faceva il cameriere per gli osti del Piratello,

79

aveva preso l’ordinazione da Job e dalla sua donna e si era diretto in cantina, mentre

Job sosteneva che era andato in cucina dove c’era un fucile e che con quello lo aveva

minacciato. Mercoledì 7 giugno Angelo Job fu messo a confronto con lo sbirro

Girolamo Nardi e con un altro testimone, Girolamo Ferri, ma insistette a negare di

aver affidato all’Annunziata, la sua donna, il compito di avvertire i Lugatti perché lo

aiutassero a sfuggire alla giustizia; non voleva ammettere di aver agito su loro

mandato e continuò a sostenere la tesi della legittima difesa. Il giorno successivo Job

fu fatto riconoscere fra altri due detenuti con connotati simili da altri due testimoni,

Francesco Biondi e da Francesco Cerè; subito dopo furono messi a anche loro

confronto con Job e confermarono «in faccia» a lui le deposizioni già rese, che lo

incriminavano.

Questi confronti difficilmente erano risolutivi perché l’inquisito manteneva la

propria versione, e così fece Job che, probabilmente con l’aiuto occulto dei Lugatti, il

giorno dopo, 9 giugno, ruppe le catene e fuggì dal carcere. Lo sbirro Girolamo Nardi

avrebbe poi riferito che il tenente Zesi aveva trascurato di sorvegliare i carcerati, che

parlavano liberamente tra loro e dalla finestra con i testimoni. Fu interrogato

Ludovico Marchi di Imola, oste all’insegna del Cappello dove mangiava e dormiva il

tenente, trascurando i detenuti e portando con sé anche una donna spacciata per sua

moglie. Il processo segnò una battuta d’arresto. La corte si trasferì di nuovo a

Bologna dove, il 20 giugno, il legato approvò formalmente gli atti fatti fino a quel

momento.

Una nuova fase si aprì il 25 di luglio quando l’uditore Filippo Mirogli interrogò

personalmente Giuseppe Lugatti, carcerato già da tre mesi in Torrone. Lugatti si

qualificò come mercante di campagna (vendeva olio e granaglie) e affittuario del

marchese Ercolani alla Crocetta, che descrisse come una tenuta che si estendeva tra i

territori del bolognese, dell’imolese e del feudo di Castel Guelfo e che comprendeva

una ventina di poderi, il mulino da farina, da polvere e da tabacco, varie casette

affittate e tre osterie, una alla Crocetta, una a Medicina e una a Casale. Per essa

pagava d’affitto 15.000 lire l’anno in quattro rate. Viveva in comunione col fratello

don Domenico nella casa dell’ospizio dei Cappuccini della Crocetta di cui don

Domenico era cappellano. Specificò i termini del contratto d’affitto, la conduzione a

mezzadria dei singoli poderi, con braccianti assoldati per lavori straordinari, gli affitti

pagati dai locatari delle case, i salari corrisposti ai due fattori, ai cantinieri, alle due

serve di casa e al cocchiere che conduceva lo sterzetto, una piccola carrozza aperta.

Giuseppe era sposato, con cinque figli e uno in arrivo. Teneva aperta una casa di

proprietà a Castel S. Pietro, che affittava mantenendo però a sua disposizione due

stanze per mandare a scuola due figlie, una di dodici anni e l’altra di cinque. Questo

particolare non quadra con un’immagine di brutalità senza sfumature dei due Lugatti:

la sensibilità per l’educazione delle ragazze, a metà Settecento, non era

evidentemente estranea ai notabili di contado più arroganti.Sempre il 25 luglio don

Gaetano Almerighi, con l’assistenza del padre Antonio, interrogò poi don Domenico

Lugatti, arrestato dal 27 aprile.

Sabato 5 agosto, davanti a Filippo Mirogli, Job, catturato, venne riconosciuto

formalmente e all’uditore diede particolari inediti sulla sua formazione e sui suoi

80

rapporti famigliari: disse che il suo primo mestiere era quello di barbiere, che

esercitava col padre «ma da undici anni in qua essendomi disgustato con mio padre

per la seconda moglie che prese» se ne era andato di casa. Dopo l’evasione dal

carcere era fuggito sullo stato veneto ed era stato arrestato a Padova. Al momento

della fuga aveva una catena attraverso la vita, la mano destra ammanettata, manettoni

di ferro ai piedi, un collare di ferro al collo con una catena passata attraverso un

anello di ferro. Da tutto questo era riuscito a liberarsi con un coltello a serramanico

che non gli era stato tolto durante la perquisizione. I giudici sembrano credergli e

nessuna guardia venne messa sotto accusa.

Dieci giorni dopo venne catturata anche Annunziata, la donna di Job, anch’essa

portata davanti all’uditore Mirogli il 18 agosto, dopo numerosi interrogatori

extragiudiziali. Si qualificò come Lucia Montanari di Modena, «donna libera».

Interrogata su quale fosse la sua occupazione rispose: «Non ho alcun particolare

mestiere, ma faccio quel mestiere che fanno le donne, cioè filare, cucire, far calzette,

tessere e non ho abitazione in alcun luogo essendo andata girando in qua ed in là da

molti anni in compagnia di detto Angelo». Lui le aveva promesso che l’avrebbe

sposata, la faceva passare per sua moglie e la chiamava Annunziata, non disse perché.

Confermò di aver visto il suo uomo sparare a Paolo Gherardi ma non ammise che

l’avesse fatto per mandato, né lo fece negli interrogatori successivi.

Intanto Giuseppe Lugatti era tornato davanti a Filippo Mirogli al quale disse di

essere già stato processato e assolto per grazia per l’omicidio di Giovanni Gherardi

dal tribunale feudale di Castel Guelfo. Gli fu obiettato, come pochi anni prima aveva

argomentato l’avvocato che aveva difeso Lorenzo Brizzi, che la grazia per omicidio

poteva essere concessa solo dal papa. Nel caso di Brizzi si era dedotto da questo che

l’atto di clemenza non era stato concesso dal legato per un omicidio, e che quindi la

morte di sua moglie non doveva essere qualificata come morte violenta. Nel caso di

Lugatti lo stesso argomento giocò contro di lui perché fu sostenuto che la sua

assoluzione era nulla a tenore della costituzione di Clemente XII In supremo iustitiae

solio, dell’1 febbraio 1734, che toglieva ai giudici e agli stessi legati la facoltà «di

potere assolvere, graziare, comporre o in qualunque altro modo grazioso rimettere li

rei d’omicidio con dichiarazione che questa facoltà è riservata al solo sommo

pontefice». Giuseppe Lugatti, incalzato ripetutamente dall’uditore che lo interrogò

anche nei giorni successivi, negò che gli elementi emersi dal processo lo

incriminassero. Un chiaro tentativo di contrastarli fu la deposizione di Domenico

dall’Osso, contadino su uno dei poderi della tenuta Ercolani, quindi dipendente dei

Lugatti, il quale disse che Giovanni Gherardi aveva proferito minacce contro i suoi

padroni entrando ubriaco e armato anche in chiesa. Il 18 settembre Mirogli, sulla

scorta di numerose testimonianze raccolte, contestò a Giuseppe Lugatti di aver dato

ricetto a malviventi e di essersene servito come sicari per sequestri di persona e

tribunali privati. Si era cioè arrogato il diritto di farsi giustizia da solo in alcuni

episodi di furto, costringendo i presunti colpevoli a confessare dopo averli tenuti

legati e rinchiusi per alcuni giorni. Lugatti replicò di non aver inteso agire contro la

giurisdizione del principe ma per dare poi i colpevoli in mano alla corte.

81

Il tenente Zesi, fuggiasco, era stato ripreso quasi subito: il 22 agosto, quando venne

interrogato dall’uditore Mirogli, risultava infatti carcerato da due mesi e due giorni

nelle carceri arcivescovili dove era stato condotto dagli sbirri che lo avevano estratto

dal luogo immune di S. Caterina di Saragozza. L’uditore l’informò che la sua cattura

da luogo immune era seguita «di speziale ordine e comando di Nostro Signore». Le

aree degli edifici di culto – chiese e sagrati – erano escluse dal potere del foro laico e

chi vi si rifugiava avrebbe dovuto godere dell’immunità. Ma in questo, come in molti

altri casi, gli sbirri del Torrone avevano avuto l’autorizzazione alla cattura. Nello

Stato pontificio, e in particolare a Bologna dove il papa era anche arcivescovo, foro

laico e foro ecclesiastico, più che ostacolarsi a vicenda, sembrano ancora una volta

agire in maniera concertata ed efficace. Sbirri del Torrone ottengono la facoltà di

agire in luogo immmune; gli stessi fanno mettere il prigioniero sotto custodia nelle

carceri del foroecclesiastico da dove viene poi prelevato per essere interrogato

dall’uditore del Torrone. A questi Zesi disse che aveva fatto di tutto per custodire il

prigioniero e lo ripeté il 7 settembre quando fu sentito di nuovo. Il 18 ottobre fu

esiliato.

Altri interrogatori accertarono vari casi nei quali i Lugatti avevano fatto

intimidazioni ai parenti delle vittime per ottenere la pace (per una pace non

sottoscritta Paolo Gherardi era stato ucciso). Né si limitavano ad esercitare pressioni

solo per se stessi: un testimone, Giacomo Andrea Bennoli, disse che chi era querelato

o bandito andava a rifugiarsi dai Lugatti. Dopo di lui, Giovanni Battista Serragli,

negoziante di grani, asserì che con i buoni uffici dei Lugatti aveva avuto la

liberazione da una querela ma poi li descrisse come prepotenti e omicidi. Antonio

Ponti di Molinella, fattore del marchese Gaspare Bolognini nella sua tenuta a Villa

Fontana, disse che suo padre, durante la legazione precedente stato processato per

frodi alimentari e contrabbando «e pur troppo condannato a spendere di molto» ed era

stato latitante per più di un anno con l’aiuto dei Lugatti.

Giuseppe Buscaroli, interrogato sulla fama dei Lugatti, disse che erano «prepotenti

che con le loro prepotenze anno messo assieme la maggior parte della robba che

hanno, mentre le loro prepotenze le fondavano ed hanno sempre fondate sull’ombra

della casa Ercolani, in ricettare ed assicurare banditi e contumaci di tutte le Legazioni

ed altre parti alla Crocetta e con degli uomini di questa fatta mettevano terrore a chi

gli pareva facendoseli andar dietro armati di bocche da fuoco ed a chi le davano ed a

chi le promettevano e gli pareva di aver sempre in pugno come si suol dire gli sbirri e

la giustizia mentre tenevano mano ai ladri di cavalli ed a gente che cometteva

qualsivoglia iniquità e Dio sa quante relazioni [denunce] sarebbero andate alli

tribunali se non fossero stati essi di mezzo in ogni cosa, particolarmente nei contorni

di Castel S. Pietro, Castel Guelfo, Selva, Crocetta e Medicina, ed in somma pareva

che fossero loro il legato di Bologna e dove si mettevano anche nelle cose più grandi

e quasi impossibili ne riuscivano con facilità».

Interrogatori e confronti si protrassero per quasi un altro anno. Il 6 novembre venne

accolta la richiesta della difesa dei Lugatti di controinterrogare tre testimoni

dell’accusa, che però non modificarono significativamente le dichiarazioni già rese.

Agli inizi di dicembre cominciò anche il processo difensivo durante il quale

82

dovevano essere raccolte altre testimonianze atte a impugnare le prove e gli indizi che

i giudici avevano raccolto contro gli imputati. E’uno dei rarissimi casi di processo

difensivo, che conferma come solo persone influenti e danarose se lo potessero

permettere, anche se in questo caso, come in altri, non sembra aver alleggerito

l’impianto delle accuse contro gli inquisiti. Fra coloro che si presentarono, indotti

dalla moglie di Giuseppe Lugatti, ci furono Filippo Giovannini di Bologna, cameriere

del marchese Alfonso Ercolani, e soprattutto due religiosi, ma nessuno riuscì ad

essere abbastanza convincente e soprattutto a contrastare la prova acclarata che

Giuseppe Lugatti aveva compiuto un omicidio.

Quanto a Job, era a sua volta certamente colpevole dell’uccisione di Paolo Gherardi,

ma non era del tutto certo che lo avesse fatto per mandato, e il 30 aprile 1754 la

congregazione criminale decretò che dovesse essere torturato. Il 12 maggio una

lettera inviata da Roma dal segretario di Stato, Silvio Valenti Gonzaga, comunicò al

legato le facoltà conferitegli dal papa di sottoporre Job alla tortura della veglia, il

terribile supplizio che ormai molto di rado veniva inflitto ai rei; perché

particolarmente efferata, veniva dunque autorizzata non più dalla congregazione

criminale ma direttamente dal pontefice. Un segnale in più che sulla opportunità della

tortura come strumento per strappare la verità agli inquisiti anche nello stato

pontificio si praticavano maggiori cautele rispetto al passato.

Tuttavia, Job non fu torturato: una perizia dei medici del 27 maggio lo dichiarò

inidoneo sia al tormento della fune sia a quello della veglia. Il 5 giugno 1754 la

congregazione criminale condannò Angelo Job e Giuseppe Lugatti alla trireme a vita.

Per il sacerdote fu disposta la reclusione a vita, purché provvedesse ai propri alimenti.

Altrimenti anche per lui la pena sarebbe stata la stessa degli altri due. Tuttavia il

decreto della congregazione criminale fu formalizzato dalla sentenza dell’uditore

Mirogli, l’8 giugno successivo, solo per Angelo Job. I Lugatti avevano fatto ricorso

alla clemenza del papa e il 4 settembre il segretario di Stato da Roma comunicò al

legato l’autorità conferitagli da Benedetto XIV di commutare la condanna dei Lugatti

con la relegazione ad Ancona, lasciando allo stesso legato la facoltà di decidere se

avvalersi di tale autorità ed elargire la grazia. Il cardinale Giorgio Doria non la

concesse e il 16 settembre 1754 Mirogli pronunciò la sentenza contro i fratelli Lugatti

(rispettivamente trireme a vita e reclusione a vita). Uno degli ultimi atti di clemenza

di Doria era stato invece quello registrato pochi giorni prima, l’11 settembre, nel libro

delle suppliche, a favore del dottor Nicola Cappi, deferito alla giustizia per mancanze

formali e sostanziali nel processo da lui fabbricato come governatore di Castel Guelfo

contro Giuseppe Lugatti per omicidio di Giovanni Gherardi. Per la grazia il dottor

Cappi concordò il pagamento di 25 scudi.

Protezioni e risorse economiche non mancavano ai Lugatti e quello che non era

riuscito con il legato Doria riuscì con il suo successore, il cardinale Fabrizio

Serbelloni. Il 20 aprile 1756 il legato concesse infatti ai due fratelli, che si erano

nuovamente rivolti al papa, la grazia di cancellare la loro condanna, avvalendosi delle

facoltà che gli erano state conferite da Benedetto XIV. L’atto di clemenza di

Serbelloni, tuttavia, costò caro: 600 scudi (ma per i Lugatti la cifra non era proibitiva:

era pari a 3000 lire, un quinto di quanto pagavano ogni anno al marchese Ercolani per

83

l’affitto della tenuta della Crocetta). Per il traviato Angelo Job non ci fu invece alcuna

remissione di pena. Le raccomandazioni che in passato suo padre e sua moglie gli

avevano procurato questa volta non lo aiutarono.

84

Conclusioni.

Da una ricognizione puramente quantitativa della tipologia di reati che vengono

perseguiti a metà Settecento si può ricavare una immagine ambivalente della società

bolognese di quegli anni: dentro alle mura ricchi cittadini e nobili che denunciano

ripetutamente furti sempre più audaci e invocano una stretta repressiva che ponga un

argine alla pressione dei disperati che si affollano per le strade e nelle chiese, pronti

ad afferrare un borsellino o anche un semplice fazzoletto di seta. Sempre meno la

città è teatro di quegli scontri sanguinosi che cinquant’anni prima avevano riempito i

fascicoli del tribunale del Torrone. Ma un’altra immagine inattesa emerge da due

case studies tratti dalla stessa fonte, e in questo caso in continuità con il passato:

quella dei preti violenti e fornicatori che sopravvivono tenacemente nel contado, del

tutto alieni da quei comportamenti compunti e ben distinti dalla schiera dei fedeli,

dalle loro debolezze, che costituiva l’identikit del pastore di anime. Il tribunale

arcivescovile, d’altra parte, si rivela disposto a perdonare o a ammonire blandamente

i peccati della carne anche se, all’occorrenza, è del tutto in grado di far parlare gli

abitanti delle comunità, come e più dei giudici del tribunale laico.

La campionatura dei processi celebrati nel tribunale criminale del Torrone a metà

Settecento ci dà solo in parte un quadro dell’attività giudiziaria bolognese nel

Settecento. Non sappiamo quasi nulla di come funzionava il foro ecclesiastico, che

finora è stato esplorato quasi esclusivamente per conoscere quanto i dettami

postridentini in materia matrimoniale fossero stati applicati. E’ certo un lavoro che

prima o poi andrà affrontato, anche per avvalorare alcune ipotesi che sono emerse

dall’esame di alcune grosse cause celebrate tra gli anni Settanta del Seicento e gli

anni centrali del Settecento. In tutti questi casi si rende evidente come la distinzione

fra il foro laico e il foro arcivescovile non implicava necessariamente un’assoluta

separazione fra le due procedure: un clero che si rivela particolarmente riottoso e

restio ad adeguarsi ai modelli tridentini ancora in pieno Settecento è stato perseguito

proprio perché il tribunale «laico» del Torrone ha potuto avviare inchieste per

concessione pontificia mettendo sotto accusa dei chierici, rei di crimini

particolarmente gravi, giungendo fino a comminare la pena di morte. Ho usato

prevalentemente l’espressione più corrente, anche se sono consapevole che nel caso

dello Stato pontificio piuttosto che di giurisdizione «laica» sarebbe più appropriato

parlare di giurisdizione «temporale», essendo ai vertici di entrambi i fori due persone

ecclesiastiche - a Bologna due cardinali: il legato e l’arcivescovo - e questo talvolta,

invece di intralciare le procedure, ne migliorò l’efficienza.

Con la causa per la morte di Maria Gentile Nanni si apre uno squarcio nel tessuto,

apparentemente ordinato secondo severi modelli di comportamento, della società di

metà Settecento, ed entrano in scena donne proterve, preti violenti e fornicatori e i

loro figli, noti a tutto il paese. Molti dei suoi esponenti affermano che nella loro

comunità non accadrebbe mai nulla che valga la pena di discutere e divulgare, se non

fosse per don Antonio, le sue amanti e i suoi bastardi. Negli anni di Benedetto XIV la

stretta della giustizia sembra accentuarsi, anche se, per don Antonio Nanni, le ripetute

denunce della sua condotta licenziosa sporte dai paesani si erano concluse per diverso

85

tempo con blande ammonizioni ed era stato necessario il cadavere di Maria Gentile

per far convergere le indagini su una famiglia che offendeva i benpensanti del paese.

Per questa cattiva fama, coralmente confermata da tutti i testimoni, il prete donnaiolo

e il suo degno figlio furono da molti ritenuti capaci di uccidere la pia nuora e moglie,

ma i voluminosi processi non dissiparono del tutto il dubbio che la poveretta, pazza di

gelosia e sfinita dai maltrattamenti del marito, in definitiva si fosse gettata nel canale

di sua volontà, come sosteneva l’avvocato difensore del prete e dei suoi figli.

Nel caso di don Antonio Nanni foro laico e foro ecclesiastico hanno proceduto

parallelamente e il primo, dopo aver concluso l’iter processuale, lo riaprì dopo anni in

seguito alle acquisizioni del foro ecclesiastico: una vera e propria integrazione

reciproca, autorizzata dall’arcivescovo e cioè da papa Benedetto XIV,

simultaneamente sovrano, pontefice e metropolita di Bologna. A smentire

l’impressione superficiale di una caotica sovrapposizione di competenze, c’è nella

causa che coinvolse don Antonio – come si può osservare in altri processi – anche la

cooperazione dei tribunali feudali che trasmettevano verbali degli interrogatori di

imputati e testimoni e li facevano confluire ai fori superiori e nell’inchiesta

principale. Se non si tratta di un rapporto gerarchico istituzionalizzato, un rapporto di

collaborazione si instaurava però con accordi stretti di volta i volta tra i singoli

giusdicenti, insomma attraverso una rete di scambi personali che colmavano dislivelli

e fratture del sistema.

Quello di don Antonio non è l’unico esempio di sacerdote la cui vita non si

conforma al modello edificante proposto ai giovani seminaristi dal 1563: molti se ne

incontrano negli anni Settanta del Seicento e malgrado la stretta repressiva che fu

attuata a cavallo dei sue secoli, ancora nel 1752, a conferma che don Antonio non era

poi un caso isolato alla metà del XVIII secolo. Lo dimostra la causa contro don

Domenico Lugatti, mandante dell’omicidio Paolo Gherardi, avvenuto all’osteria del

Piratello, fuori Imola, al di là dei confini della Legazione di Bologna; anche in questo

caso venne avviato uno scambio di lettere per consentire al tribunale del Torrone di

operare nella Legazione di Romagna, separata da quella di Bologna e retta da un

proprio legato, in accordo con i giudici delle città romagnole e, ancora, con quelli di

feudatari bolognesi. Questa volta tutta la procedura fu affidata alla curia del Torrone,

sia pure incaricando un esponente ecclesiastico dell’organico del tribunale.

Due sono, quindi, i fili conduttori che ho cercato di seguire: uno è quello delle

procedure che poterono essere messe in atto dal foro laico anche fuori del proprio

ambito giurisdizionale – si trattasse di comunità di confine per le quali i testimoni di

un reato dovevano essere interrogati al di là del limite territoriale, o di piccoli feudi di

nobili bolognesi, che sembrano tutti disposti a riconoscere la superiore autorità del

legato, anche se i processi vengono avviati da propri giusdicenti, o infine del foro

arcivescovile, che aveva una capillare presenza sulla diocesi, attraverso i vicari

foranei, ma che poteva vedere avocare i processi dal tribunale del Torrone. Il secondo

tema, che si intreccia col primo, sono i processi che riguardano il clero indisciplinato.

Dagli anni Settanta del Seicento in casi di reati molto gravi il foro laico prende il

sopravvento, in alcuni casi con implacabile crudeltà. A metà Settecento la causa di

don Antonio ci mostra tutta la perizia procedurale del foro arcivescovile, ma alla fine

86

è ancora il Torrone a emettere la sentenza. Rimane aperta la domanda che

inevitabilmente si pone: non tanto quanto questi case studies siano rappresentativi dei

comportamenti diffusi tra il clero a metà Settecento, ma quanto tali esempi di

repressione abbiano voluto incidere con più vigore e stabilmente su una realtà che in

precedenza solo eccezionalmente si lasciava venire alla luce, in casi di omicidio o di

reati comunque gravi, mentre sui comportamenti sessuali la tolleranza sembra essere

stata abbastanza generosa.

87

Nota bibliografica e fonti

Per un inquadramento generale dello Stato pontificio nel periodo di Benedetto

XIV rimandono ancora insuperati la voce di Mario Rosa nel Dizionario Biografico

degli italiani e i volumi di Franco Venturi dedicati al Settecento riformatore, in

particolare il vol. I, Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969,

specificamente alle pp. 98 e sgg. dove si parla del declino dei domini della Santa

Sede e dei passaggi di truppe durante la guerra di successione austriaca. Per

Lambertini arcivescovo di Bologna si veda Mario Fanti, Prospero Lambertini

arcivescovo di Bologna (1731-1740), in Benedetto XIV (Prospero Lambertini),

Convegno internazionale di studi storici, Cento, 6-9 dicembre 1979, a cura di

Marco Cecchelli, Centro studi «Girolamo Baruffaldi», vol I, pp. 165-233. Per i

rapporti del papa con la città e sulle sue condizioni economiche si veda Alfeo

Giacomelli, Economia e riforme a Bologna nell’età di Benedetto XIV, in

Benedetto XIV, cit., vol II, pp. 873-913. Sull’opera di riforma – ma solo per

quanto riguarda le riforme economiche e non quelle, ancora tutte da studiare, dei

tribunali dello stato – sono ancora utilissime le numerose opere di Luigi Dal Pane,

in particolare Lo Stato pontificio e il movimento riformatore del Settecento,

Milano, Giuffrè, 1959.

Per i rapporti tra Bologna e Roma e l’amministrazione della giustizia da parte

del Tribunale del Torrone si rimanda – anche per la bibliografia di riferimento - a

Giancarlo Angelozzi, Cesarina Casanova, La giustizia criminale in una città di

antico regime. Il tribunale del Torrone di Bologna, Bologna, CLUEB, 2009. Per

una comparazione fra le condizioni della società a metà Settecento e il secolo

precedente si veda di Ottavia Niccoli, Storie di ogni giorno in una città del

Seicento, Roma-Bari, Laterza, 2000. Per uno studio delle cause matrimoniali

discusse dal tribunale arcivescovile di Bologna si veda Lucia Ferrante, Il

matrimonio disciplinato: processi matrimoniali a Bologna nel Cinquecento, in

Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo

ed età moderna, a cura di Paolo Prodi, Bologna, il Mulino, 1994, pp. 901-927.

Per la crisi del setificio si rimanda ai numerosi lavori di Carlo Poni citati

nell’importante saggio di Alberto Guenzi, L’identità industriale di una città e del

suo territorio, in Storia di Bologna, diretta da Renato Zangheri, 3, Bologna

nell’età moderna, I, Istituzioni, forme del potere, economia e società, a cura di

Adriano Prosperi, Bologna, Bononia University Press, 2009, pp. 449-524, dal

quale emerge una ricostruzione molto più complessa delle fasi di espansione e di

declino della manifattura serica. In particolare, si veda alle pp. 492-493: «Si

potrebbe addirittura considerare la crisi della prima metà del Settecento come

un’occasione per imporre alle forze produttive la ricerca di una via d’uscita che

veniva individuata nella ricerca della grande dimensione. In ogni caso, il crollo del

setificio di rivelò un processo molto più complicato di quello immaginato e

descritto fino a qualche anno fa».

Tutto il volume curato da Prosperi va comunque tenuto presente per integrare la

bibliografia su Bologna in un periodo lungo. Sulle condanne a morte, è stata

88

utilizzata l’utilissima appendice della tesi di laurea di Antonia Cirigliano, La

criminalità in una città di antico regime, discussa nel a.a. 1994/95 con Paolo

Prodi, nella quale ha collazionato vari elenchi di giustiziati.

Sulla tolleranza delle comunità rurali nei confronti del concubinato dei preti si

veda Sara Luperini, Il gioco dello scandalo. Concubinato, tribunali e comunità

nella diocesi di Pisa (1597), in Trasgressioni. Seduzione, concubinato, adulterio,

bigamia (XIV-XVIII secolo), a cira di Silvana Seidel Menchi e Diego Quaglioni,

Bologna, il Mulino, 2004, pp. 383-415.

Per l’anno campione ho spogliato i voll. dell’Archivio di Stato di Bologna

(ASB), Torrone, nn. 8120/2, 8120/3, 8122/2, 8122/3, 8123/2, 8124/2, 8125/2,

8125/3, 8126/3, 8127/2, 8128/2, 8128/3, 8129/2, 8129/3, 8130/2, 8130/3, 8131/2,

8131/3, 8132/2, 8132/3, 8133/2, 8135/2, 8136/2, 8136/3, 8138/2, 8139/2, 8139/3,

8141/2.

Per il processo contro gli speculatori che nel 1750 e negli anni precedenti

avevano affamato le comunità della montagna si veda ASB, Torrone, vol. 8131/3,

fasc. 44, Super extractionibus tritica ac diversarum bladarum extra status,

monopoliis aliisque. Sulla buona fama di Domenico Calligari, ASB, Torrone, vol.

7032, fasc. 4.

Sulla riforma attuata da Benedetto XIV nelle procedure dei tribunali si vedano

Le cinque costituzioni del SS. Signore nostro Benedetto XIV sommo pontefice

sopra la riforma della curia civile e criminale di Bologna, in Bologna

MDCCXLIV per il Sassi successore del Benacci per la stamperia camerale.

Sulle grazie concesse dal cardinale Giorgio Doria si fa riferimento ad ASB, libri

Supplicationum nn. 111-112.

Sulla violenza nobiliare e contadina degli ultimi decenni del Seicento e sulla

sua repressione si veda Giancarlo Angelozzi, Cesarina Casanova, La nobiltà

disciplinata. Violenza nobiliare, procedure di giustizia e scienza cavalleresca a

Bologna nel XVII secolo, Bologna, CLUEB, 2003.

Per la Costituzione di Urbano VIII si veda Confirmatio & innovatio

Constitutionis Pii papae V contra monetarios eiusdemque ad quascumque

personas ecclesiasticas saeculares ac cuiusque ordinis, nec non etiam militarium

regulares ampliatio et extensio, in Magnim Bullarium Romanum editio Novissima

octo voluminibus comprehensa, tomus quintus iuxta exemplar Romae ex

typographia Reverendae Camerae Apostolicae, MDCLXXII, Luxemburgi

sumptibus Andreae Chevalier, bibliopolae & typographi, pp. 123-124, constitutio

LXIX.

Per l’incriminazione e la condanna di don Giuseppe Bolognini e don Domenico

Burgoni si veda ASB, Torrone, vol. 6996/2 (il processo occupa tutto il volume).

Per la vicenda di don Cosimo Pinelli si veda ASB, Torrone, vol. 7021, fasc. 2

(senza titolo)

Per la vicenda di don Giacomo Lamari si veda ASB, Torrone, vol. 7019, fasc.

in fine, non numerato.

Su don Elefanti e la sua posizione nel conflitto fra Ballarini e Calzolari si

vedano ASB, Torrone, vol 6963, fasc. 77, Super percussionibus cum archibusio et

89

vulneribus cum aliquali in personam Michaelis Galli de commune Casalecchij e

vol. 6964/1, fasc. 6, Super archibusiatis et vulnere cum periculo viate de

mandato explosis in personam Francisci Ballarini de commune Cerreduli et

homicidio exinde secuto.

Per la condanna del conte Giuseppe Maria Felicini vedi ASB, voll. 6889 e 6962,

fascc. non numerati.

Sul processo ad Antonio Pepoli e a don Dalle Donne vedi ASB, Torrone, vol.

7255/2, fasc. non numerato, Contra Marchionem Antonium de Pepulis, Joseph

Galantem et rev. Carolum dalle Donne. La supplica e la grazia concessa da

Pignatelli sono in ASB, libri Supplicationum, n. 95.

Il processo a don Giacomo Burgaia è in ASB, Torrone, vol. 7031, fasc.16.

L’uccisione di don Santolini, le rivalità con lui per la cura delle anime e il

ménage dei preti Palmerini, zio e padre dell’uccisore, sono raccontate in ASB,

Torrone, vol. 6974/1, fasc. Super homicidio appensate cum archibusiatis in

personam reverendi Gabrieli Santolini.

Il processo a don De Maria è in ASB, Torrone, vol. 6993, fasc. 11, senza titolo.

La vicenda di don Antonio Nanni e della morte di Maria Gentile è stata

ricostruita da ASB, Torrone, vol. 8062/2, fasc. 1, Super praetensa submersione ac

aliis, di oltre 1000 carte nel quale sono contenuti anche i processi pro curia

archiepiscopali che vennero consegnati ai giudici del Torrone quando Benedetto

XIV rimise la causa nelle mani del legato.

Il processo ai fratelli Lugatti è in ASB, Torrone, vol. 8160/4, fasc. 83, Super

pluribus delictis.


Recommended