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Don Antonio e i suoi giudici.
Storie criminali fra foro laico e foro ecclesiastico (Bologna, fine XVII-
metà XVIII secolo)
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Indice
1. Il foro criminale del Torrone
2. La procedura del Torrone
3. Degradazione ed esecuzione
4. Preti non disciplinati
5. Un caso «teribile e tremendo»
6. Il foro laico
7. Confini superabili e prove vacillanti
8. Il foro ecclesiastico
9. Lo «Stallone» e il «Mulo»
10. Adulterio e incesto
11. Origliare e spiare
12. Omicidio, disgrazia o suicidio ?
13. Il processo difensivo
14. Il secondo processo del tribunale criminale del Torrone
15. Il processo di don Lugatti
16. La condanna e la grazia
17. Conclusione
Nota bibliografica
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1. Il foro criminale del Torrone.
Il primo decennio del pontificato di Benedetto XIV, il bolognese Prospero
Lambertini, fu un periodo di particolare debolezza economica per i territori soggetti
alla Santa Sede. La gravità della crisi emerse dopo l’invasione delle truppe che
avevano transitato in Italia durante la lunga guerra di successione austriaca (1740-
1748). In mancanza di studi dettagliati sulle comunità, l’entità dei danni subiti nello
Stato pontificio alla fine delle ostilità si può valutare dall’ammontare del deficit
dovuto alle sole cause belliche, che fu calcolato attorno ad un milione di scudi. A
Bologna l’economia aveva subito un tracollo come conseguenza della crisi della
manifattura serica, che nei secoli precedenti aveva assorbito gran parte della
manodopera maschile e femminile nelle occupazioni connesse alla produzione del
filato e dei tessuti. Un taglio drastico dei salari delle maestranze e la riduzione
dell’attività manifatturiera si erano già verificati nel decennio precedente, in
concomitanza con la guerra di successione polacca (1733-1738). Le ripercussioni
nella società, a tutti i livelli, di questo crollo progressivo sono chiaramente visibili nei
fascicoli processuali del tribunale criminale del Torrone. Dagli anni Trenta del
Settecento il quadro che emerge riflette la crisi della manifattura: le ruote dei mulini
da seta sono ferme, i mercanti non comprano più materia prima per farli produrre e
molti filatolieri – gli operai dei filatoi - sono disoccupati. I più intraprendenti cercano
di trovare lavoro come facchini, offrendo i loro servigi nelle strade di Bologna con un
sacco sulle spalle, spesso attaccando briga con altri disperati per contendersi un
trasporto per conto dei signori; gli altri vivono di espedienti e di piccoli furti.
Le carte processuali ci trasmettono il progressivo degrado della società,
l’abbrutimento dei più poveri fra i quali l’alcolismo è tanto diffuso da essere addotto
come attenuante negli episodi di violenza che vengono perseguiti dal tribunale
criminale. Da questa fonte risulta anche che a Bologna era frequente la violenza
gratuita, quella che veniva subita da un coniuge o da un compagno di gioco (alle
carte, alle bocce) con il quale si era scommesso per una bevuta, la violenza non
finalizzata a uno scopo come lo erano invece atti criminosi compiuti per vendetta o
per soggiogare i più deboli che sembrano essere reati più diffusi fuori dalle mura. Ma
quello che veramente caratterizza l’ambiente urbano negli anni centrali del secolo,
anche come conseguenza della crisi, è una pervasiva microcriminalità che si
manifesta quasi esclusivamente come minaccia alla proprietà; di conseguenza il
furto, anche di beni di scarso o di scarsissimo valore, è perseguito dal tribunale
criminale con tenacia e spietatezza. Il furto spaventa i benpensanti e va punito con
sentenze dure: molti anni di galera o di lavori forzati. Un omicidio commesso in stato
di ebbrezza è considerato non premeditato, e quindi passibile di una pena più lieve
del furto di galline, se reiterato.
E’ vero che a metà del Settecento la pena di morte è inflitta e applicata sempre più
raramente per reati di sangue, ma nello stesso periodo aver rubato qualche cosa per
mangiare non è considerato un’attenuante. Nei diciannove anni di pontificato di
Benedetto XIV (1740-1758) furono eseguite diciassette sentenze capitali; di esse
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alcune furono la pena per furti ripetuti e/o qualificati, cioè con aggravanti accertate
come la violazione di domicilio, lo scassinamento di serrature e ovviamente l’uso
delle armi. Per Giovanni Giacomo Gavarutti di Sassoleone, suppliziato nel 1743, il
reato per il quale venne giudicato fu l’omicidio proditorio a scopo di rapina oltre a
molti altri furti non aggravati. Uno sbirro originario del Modenese, Giovanni
Mengoli, detto La Bella Giovanna, fu impiccato e poi squartato nel 1744 per il furto
sacrilego di una sacra pisside e di un ostensorio. Un bolognese, Giovanni Bernardi
detto Arlina fu impiccato come grassatore di strada nel 1746 mentre un altro
bolognese, Carl’Antonio Bernardi, nello stesso anno fu giustiziato per falsificazione
di monete. Nel 1752 Arcangelo Pedini, di sessantadue anni, originario di S. Pietro in
Casale, dopo una vita spesa fingendosi cieco di giorno e rubando di notte, finì sulla
forca come, cinque anni più tardi, Francesco Guizzardi di Zola Predosa. Entrambi
erano stati imputati di furti qualificati, di intrusioni nelle case con manomissioni di
porte o scalata di muri.
Molti miserabili convergevano verso la città dal contado e anche da altre parti dello
stato o da altri stati: per questo i forestieri erano visti con sospetto perché assimilati
tout court a vagabondi, mendicanti e ladri. I confini fra queste condizioni non erano
netti: non avere fissa dimora, vivere di elemosine e non di lavoro poteva essere
l’identikit del poveraccio ma anche del furfante. Molto frequenti, nelle carte
processuali, sono i fermi di sospetti che erano perseguiti perché oziosi; se non erano
in grado di dimostrare che avevano rendite, o un salario, o una famiglia che li
manteneva, si supponeva che rubassero o che avrebbero potuto farlo. Ci sono casi di
persone arrestate semplicemente perché sorprese a godersi il sole durante una
giornata lavorativa e che, anche se non imputabili di nulla, venivano spesso
preventivamente esiliati.
Per un verso i giudici erano implacabili con i ladri e per l’altro applicavano
sempre più raramente la tortura: nel 1750, l’anno che ho scelto come campione per
uno spoglio completo dei fascicoli (circa 500), si contano sì e no una decina di casi di
inquisiti che vennero messi alle corde. Negli elenchi dei giustiziati di questo periodo,
tuttavia, ci sono due casi di esecuzioni con pene atroci aggiuntive alla condanna a
morte che venivano inflitte con intenti dissuasivi in casi di reati particolarmente
efferati. Erano macabri spettacoli offerti alle folle che assistevano ai supplizi in
piazza e che servivano ad esibire l’implacabile efficacia della giustizia sovrana. Oltre
al caso della Bella Giovanna, squartato, abbiamo quello di Giuseppe Spisani, un
bolognese di ventidue anni che fu mazzolato vivo e scannato, e poi a sua volta
squartato. L’accusa era di omicidio proditorio e latrocinio; la vittima era frate
Francesco Nobili e il crimine era avvenuto nel monastero cittadino di S. Giovanni in
Monte.
Un confronto con il periodo antecedente ci dice però come anche questi rituali di
morte tendessero a scomparire:dal 1700 al 1719 le condanne allo squartamento, con o
senza mazzolamento e scannamento, sono otto, alle quali si debbono aggiungere
quattro casi in cui i cadaveri dei giustiziati furono dati alla dissezione per le lezioni di
anatomia che, se meno atroce perché eseguita da chirurghi e non dal boia e non in
pubblico, era ugualmente considerata una pena aggiuntiva perché violava l’integrità
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del corpo. Nel periodo 1720/1739 ci sono tre casi di impiccagione e di squartamento
e tre di cadaveri dati all’anatomia. Il trend discendente è confermato dopo il 1758: da
quell’anno alla fine del secolo ci fu una sola condanna allo squartamento, per
Bartolomeo Mazza, colpevole di omicidio con qualità di latrocinio, dunque ancora
una sentenza esemplare per punire, insieme con l’omicidio, il crimine più odioso: il
furto.
Ho scelto il 1750 come anno campione perché mi è sembrato che costituisse un
buon punto di osservazione della società locale:sia pure già fuori dalla guerra, in un
clima generale di aperture ai dibattiti sulle riforme e con non pochi esempi di carriere
fortunate propiziate dal favore papale, il diffuso vagabondaggio è per i cittadini
abbienti una quotidiana fonte d’ansia. Soprattutto, è un anno importante per una
verifica di come le procedure di giustizia criminale avessero recepito le nuove
Costituzioni del tribunale criminale che erano state pubblicate da poco, nel 1744, e
che avrebbero dovuto ovviare ai numerosi abusi nell’amministrazione della giustizia
che il Senato – l’organo rappresentativo del patriziato della città - era venuto
denunciando nei secoli precedenti.
Nel corso dell’età moderna a Bologna la giustizia criminale fu amministrata da un
giudice unico, l’uditore del Torrone, il foro criminale che doveva il suo nome alla
massiccia torre del Palazzo pubblico in cui avevano sede gli uffici e le carceri. Nei
primi decenni che seguirono la caduta del dominio dei Bentivoglio (1506) il Senato
aveva tentato ripetutamente senza riuscirci di farsi riconoscere il diritto di esercitare
un controllo, almeno parziale, sulla amministrazione della giustizia criminale,
proponendo l’istituzione di un tribunale collegiale composto da cinque giudici
forestieri designati dal Senato stesso. Gli uditori del Torrone erano nominati
direttamente dal papa, al quale erano tenuti a rispondere del proprio operato, ma la
loro attività era sottoposta al controllo e al potere decisionale dei cardinali legati
inviati al governo della Legazione di Bologna, che comprendeva la città e del suo
territorio, e dei vicelegati che li sostituivano quando, come accadeva di frequente e a
volte anche per periodi lunghi, questi erano assenti. La stessa esistenza del tribunale
del Torrone, a prescindere dal suo concreto operato, fu sempre sentita dal patriziato
bolognese come una delle manifestazioni più intollerabili e odiose di un potere
legatizio spesso accusato di essere dispotico e oppressivo, soprattutto nel corso del
XVII secolo. Il mandato dei legati variava ma come minimo durava tre anni.
Eccezionale, anche se non unica, fu la permanenza in carica del cardinale Giorgio
Doria, dal 1744 al 1754.
L’attività del foro criminale era regolata da Costituzioni le prime delle quali
vennero emanate alla metà del Cinquecento e poi periodicamente riformate fino ad
arrivare a quelle Costituzioni benedettine che sono il contesto normativo al quale fare
riferimento nel valutare le procedure del Torrone a metà Settecento. Tutte le
Costituzioni fissavano i doveri dell’uditore che era tenuto ad interrogare il più
celermente possibile imputati e testimoni, soprattutto nel caso si trattasse di contadini
e di artigiani, per limitare le spese di un lungo soggiorno o carcerazione a Bologna e i
danni economici derivanti dalla interruzione dell’attività lavorativa. Di fatto però
raramente l’uditore interveniva di persona negli interrogatori ed era sostituito da uno
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dei due sottuditori che gli erano sottoposti, anche se la valutazione degli elementi
raccolti dipendeva in ultima istanza solo da lui.
Agli otto notai titolari di altrettanti uffici (gli sgabelli) le Costituzioni
assegnavano esclusivamente il compito di raccogliere le denunce per sottoporle poi
all’uditore, che avrebbe deciso a quali dare corso, e di trascrivere nei propri registri i
verbali degli interrogatori condotti dall’uditore o dai sottuditori. In realtà, a causa
della mole di lavoro, molto spesso i notai procedevano essi stessi agli interrogatori
nei processi per reati poco rilevanti, soprattutto in contado, o agli interrogatori
preliminari dei testimoni nei casi più difficili. Ai sottuditori, sia in città che in
contado, veniva affidata la reponsabilità degli interrogatori dei testi chiave. L’uditore
in genere interveniva personalmente soltanto nelle fasi cruciali dei procedimenti per
delitti particolarmente gravi o quando appariva probabile che si dovesse ricorrere alla
tortura. Ciò conferiva evidentemente ai notai, soprattutto nel caso delle cavalcate in
cui erano fisicamente lontani dai loro superiori, un potere di fatto di gran lunga
maggiore a quello previsto dalla normativa. Tuttavia nelle carte processuali
rimangono tracce evidenti dello stretto controllo operato dagli uditori sui notai, di cui
esaminavano i registri e ai quali, quando erano in cavalcata, scrivevano
quotidianamente per avere notizie dei procedimenti in corso e per dare dettagliate
istruzioni.
In ogni caso i notai non avevano nessuna voce in capitolo nella fase conclusiva dei
procedimenti e la sentenza era sempre stesa e sottoscritta dall’uditore. Le Costituzioni
dedicavano inoltre ampio spazio alle tariffe che i notai potevano esigere come loro
compenso (la sportula) per ogni atto eseguito. Erano infatti soprattutto gli abusi nella
riscossione delle sportule che suscitavano le continue lamentele dei bolognesi contro
l’avidità dei ministri del Torrone. La giustizia era invisa perché costava cara e un
imputato che, una volta contestatigli i capi d’accusa, avesse voluto citare nuovi testi a
discarico, o far controinterrogare quelli già sentiti, avrebbe dovuto pagare di tasca
sua.
La cavalcata consisteva nell’invio di un sottuditore, insieme con un notaio, o del
solo notaio, sul luogo in cui si era verificato un reato per poter raccogliere
testimonianze direttamente dai paesani e dai vicini della vittima o del presunto reo
per stabilire anzitutto se si era trattato di un reato – ad esempio se le circostanze del
ritrovamento di un cadavere facevano pensare a un fatto delittuoso o accidentale – e
secondariamente chi poteva esserne sospettato. Quando le testimonianze raccolte
sembravano sufficienti, la cavalcata tornava a Bologna obbligando però i testi chiave
a presentarsi in Torrone, se citati, per essere di nuovo interrogati e, qualora fosse
necessario, per far ripetere loro davanti all’accusato gli elementi incriminanti emersi
in precedenza. La cavalcata, che in genere era accompagnata, nei casi di omicidio o
di ferimento grave, da un piccolo drappello di sbirri, doveva anche tentare di arrivare
tempestivamente sul luogo del delitto per evitare che i presunti colpevoli si dessero
alla macchia. Anche questo trasferimento della corte inquirente nel contado gravava
sulle comunità, che erano tenute a pagare le diarie (i viatici) a sottuditori e notai a
meno che non fosse individuato con certezza un indiziato al quale accollare la spesa,
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anche sequestrando cautelativamente i suoi beni. E’ il caso ad esempio di certi fatti di
sangue compiuti al cospetto di un intero paese.
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2. La procedura del Torrone
Per avviare un procedimento occorreva una denuncia della parte lesa, sporta
direttamente (come per lo più avveniva in città) o col tramite dei massari per gli
abitanti del contado. I massari erano i rappresentanti delle comunità rurali, eletti
annualmente fra le persone più benestanti, che dovevano essenzialmente curare la
riscossione delle imposte sull’estimo (rispondendo di tasca propria quando i
pagamenti dovuti non venivano corrisposti dai contadini proprietari più poveri) e
procedere ai primi accertamenti in caso di reati: erano loro che si preoccupavano di
far sorvegliare la scena del delitto, che segnalavano ai giudici del Torrone le nubili
gravide, che facevano suonare le campane a stormo per chiamare tutto il paese alla
cattura di un criminale. Erano loro, infine, che dovevano recarsi a Bologna a portare
le denunce che avevano ricevuto dai paesani e che nella maggior parte dei casi
vergavano di loro pugno.
Il processo veniva avviato quando una denuncia era sostenuta da indizi sufficienti e
da testimoni disposti a confermare l’accusa del querelante, tranne nel caso di reati
particolarmente gravi - come lesa maestà, assassinio, incendio doloso,
avvelenamento, falsificazione di moneta, stupro violento, blasfemia, resistenza ai
pubblici ufficiali - per i quali l’uditore poteva procedere per dovere della sua carica
(ex officio), ma sempre avendo prima accertato l’esistenza di ragionevoli indizi e a
seguito di una denuncia formalmente presentata dal caporale, dal tenente o
direttamente dal capitano degli sbirri, il bargello. Gli sbirri, in città come in contado,
svolgevano indagini preliminari cercando di raccogliere le voci che circolavano nel
paese o nel quartiere. Il 2 giugno 1750 il bargello Giuseppe Ravera fece rapporto
dopo aver avuto ordine dal legato Giorgio Doria di prendere informazioni sulla
fondatezza delle mormorazioni che circolavano in montagna contro alcuni speculatori
che approfittavano della scarsità di grani per arricchirsi. Ravera, da cui dipendevano
gli sbirri della città e del contado, disse di aver raccolto voci insistenti «sopra li
grandi reclami che si sentono de’poveri delle comunità perché si trovano sprovisti di
grani e granelle». Si trattava non a caso di comunità appenniniche che confinavano o
con la Toscana o con il feudo di Castiglione dei Pepoli e che quindi offrivano agli
speculatori la possibilità di esportare illegalmente le granaglie che avrebbero dovuto
essere distribuite ai poveri, soprattutto i piccoli proprietari terrieri che erano rimasti
senza scorte per la seminagione. Il bargello, in questo come in altri casi, tendeva le
orecchie, fiutava l’aria ma soprattutto poteva contare su una rete di informatori
segreti - gli «amici della corte», che lo indirizzavano su una pista e facevano
convergere i sospetti su particolari individui.
La fama che si spargeva per le comunità dipendeva dalla reputazione di una
persona. Le voci continuavano a circolare, a cambiare di direzione, a radicarsi nella
testa della gente, e gli sbirri a raccoglierle. Buon per chi, accusato di furto come
Domenico Callegari, poteva contare su qualcuno disposto a dichiarare che «non ha
mai sentito cattivo odore, né cattiva informatione de fatti suoi». Alla domanda del
notaio «unde orta fuerit dicta vox et fama» [da dove fosse nata quella voce e nomea]
– a proposito dell’identificazione di quattro uomini che avevano rapinato a Monzuno
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un commerciante di canapa – un testimone rispose che poco dopo l’aggressione per le
montagne si era cominciato a sentire «borbottare questo fatto» ed erano state
individuate tre persone che potevano sapere che il mercante aveva con sé il denaro; a
far spargere la voce aveva poi concorso soprattutto il fatto che i sospettati erano tre
«pover homini che non possiedono quasi cos’alcuna e non vogliono mai lavorare e
per lo più stanno a mangiare e bere sull’hosteria frequentano il gioco delle carte e
vanno armati di bocche da fuoco». Povertà e ricchezza sembrano influire sul credito
di cui godono le persone soprattutto quando i reati da perseguire hanno a che fare col
denaro: furti e truffe, che si suppone siano più comunemente perpetrati da miserabili.
In altri casi (risse, ferimenti, omicidi) la povertà o l’infimo livello sociale, altrettanto
del grado elevato, ricorrono spesso come attenuanti nelle cancellazioni dei
procedimenti con la formula stante qualitate personae [in considerazione della
condizione della persona].
Le Costituzioni raccomandavano al giudice di non accettare denunce per cause
lievi, come liti familiari, insulti verbali fra persone di basso rango, risse fra minori,
ma in realtà nei fascicoli del Torrone se ne trovano molte: soprattutto in città la gente
ricorre al tribunale come tappa preliminare di un accordo privato e di una
riconciliazione, che si conclude con il ritiro della querela, attribuendo al giudice un
ruolo di mediatore nella composizione delle vertenze. L’accusato, sia che fosse stato
catturato, sia che si fosse presentato spontaneamente, non poteva essere interrogato se
non per i reati ascrittigli nel procedimento. Quando il procedimento era avviato da
una querela di parte, se questa veniva ritirata prima dell’esame dei testimoni,
l’uditore doveva terminare la causa, tranne nei casi gravi di cui sopra.
La procedura prevedeva che, una volta raccolti indizi sufficienti a formulare capi
d’accusa, questi fossero notificati all’imputato. Era però raro che questi ammettesse
la fondatezza di quanto gli veniva contestato e allora l’uditore, dopo essersi
consultato col legato, doveva decidere se la colpevolezza era dimostrata da elementi
solidi o no. Nel caso lo fossero proprio poco, l’inquisito poteva essere rilasciato per
insufficienza di prove, ma ancora nel Settecento poteva essere richiesta
l’autorizzazione a procedere alla tortura.L’uditore, cioè, sempre in accordo col legato,
faceva esaminare il caso dalla congregazione criminale. Si trattava di un collegio
giudicante che si riuniva settimanalmente e che comprendeva il legato stesso, il
vicelegato, l’uditore e il sottuditore e i difensori d’ufficio, avvocato e procuratore dei
poveri. La congregazione, se i patrocinatori non presentavano eccezioni abbastanza
fondate da impedirlo, poteva autorizzare la tortura.
Attorno alla metà del Settecento si ricorre ancora alla tortura quando le prove
d’accusa non sono sufficienti a formulare un giudizio di colpevolezza ma gli indizi
sono tali da rendere un indagato fortemente sospetto. Questa era sicuramente una
pratica che contrastava con le timide aperture al nuovo clima illuministico che si
avvertivano anche nello Stato pontificio. E’ vero che alla tortura si ricorreva
saltuariamente; tuttavia, soprattutto in caso di furti ripetuti, si procedeva ancora alla
sospensione dell’inquisito alle corde, sia pure regolata (non più di un’ora in un
giorno, non più di due volte, eccezionalmente tre, nei giorni successivi). Questo
supplizio era senza dubbio pesante, soprattutto quando il presunto delinquente non
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era soltanto appeso per le braccia ma doveva subire dolorosi strattoni; tuttavia,
moltissimi riuscivano a sopportarlo senza confessare, al contrario di quanto avveniva
cento anni prima, quando le torture erano reiterate e durissime, tanto da far ammettere
ai malcapitati qualsiasi cosa i giudici si aspettassero di sentire da loro. Dalla fine del
Seicento era sempre più frequente che gli accusati sostenessero la tortura e quindi
venissero rilasciati per insufficienza di prove, perché non avevano ovviato
all’incertezza dei giudici con una dichiarazione di colpevolezza.
La tortura poteva dunque essere inflitta per costringere un presunto colpevole a
confessare, colmando così per sua stessa ammissione il deficit di prove contro di lui,
ma non solo. In uno dei processi di cui si parlerà diffusamente più avanti c’è una
testimone chiave, un’ «impunita», Maria. Si tratta del corrispettivo degli attuali
pentiti, persone con numerosi indizi a carico che ottenevano l’impunità in cambio di
una piena confessione che fornisse elementi d’accusa non ancora noti alla corte e
sufficienti per incriminare o almeno per torturare altri sospetti. In questo caso si
procede a un uso diverso – e poco più che rituale – della tortura: poiché l’impunita
aveva deposto contro un accusato che continuava a negare, la donna fu fatta
«purgare» con la blanda tortura detta degli zufoletti (stringendole cioè le dita con
legnetti e una cordicella). Durante questo breve supplizio (durò il tempo della
trascrizione sulle carte processuali delle parole della donna), essa ripeté la sua
deposizione confermandola e «purgandola» dall’infamia della sua persona. Nella
dottrina si consideravano infami – e quindi non degne di fede – persone di varie
categorie, fra le quali rientrava Maria, oggetto con la sua famiglia delle maldicenze di
tutto il paese. La tortura veniva applicata anche nei confronti, cioè i faccia a faccia fra
accusato e testimone al quale poteva essere chiesto se era disposto a ripetere sotto
tortura la sua deposizione incriminante alla quale l’inquisito si ostinava a negare
fondamento.
. La dottrina giuridica per considerare un’accusa provata richiedeva almeno due
testimoni de visu, cioè testimoni oculari, e non de auditu (per sentito dire, per
pubblica voce e fama). Era dovere dell’uditore, una volta conclusa l’istruttoria,
consegnare all’imputato copia del processo perché potesse difendersi e citarlo a
comparire prima di emettere la sentenza se era contumace. Tra Seicento e Settecento
cambia il modo con il quale il tribunale procede nei confronti dei latitanti. Fino ai
primi anni del Settecento sono numerose le sentenze anche capitali pronunciate in
contumacia, condizione che dal punto di vista procedurale aveva due conseguenze: da
un lato non permetteva all’inquisito di godere del diritto di difesa; dall’altro, la sua
latitanza veniva considerata come una prova di colpevolezza. A metà del XVIII
secolo, invece, i processi contro rei contumaci si interrompono, salvo riaprirsi, anche
ad anni di distanza, se il malcapitato veniva riacciuffato. In passato molti banditi
condannati in contumacia alla pena capitale dopo alcuni anni avevano potuto
beneficiare di un provvedimento di grazia che cancellava anche sentenze di morte.
Nel 1750 non ci sono giudizi in contumacia inutilmente feroci (in quanto spesso
destinati ad essere condonati) ma i pochi che cadevano nella rete della sbirraglia che
batteva i confini della Legazione, se veniva pronunciata una sentenza capitale dopo
la loro cattura, non sfuggivano al supplizio.
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Gli inquisiti che non si erano dati alla fuga ma che si trovavano in carcere, alla
fine del processo informativo (o accusatorio, o offensivo) avevano diritto a un
patrocinio. I difensori d’ufficio partecipavano erano i soli che potevano partecipare
alle congregazioni criminali, anche se i rei più facoltosi potevano richiedere a
pagamento le prestazioni di altri avvocati come consulenti. Le carte del Torrone ci
documentano il ruolo svolto da avvocato e procuratore dei poveri solo in minima
parte, in primo luogo perché delle sedute della congregazione criminale abbiamo solo
i decreti conclusivi con le quali il collegio giudicante esprimeva il parere e
demandava all’uditore la formalizzazione della sentenza, e non siamo in grado di
sapere quanto peso avessero gli elementi raccolti a difesa per orientarne le decisioni
né quanto appassionatamente o tiepidamente i due patrocinatori, caso per caso, si
fossero spesi per il loro assistito nelle sedute della congregazione. Né nei fascicoli
rimane traccia dei colloqui dei difensori con i giudici, e ovviamente nemmeno di
quelli con i propri patrocinati.
L’ultimo atto del procedimento, la sanzione del reato, spettava alla congregazione
criminale e quindi soprattutto al cardinal legato che la presiedeva; in questa sede
veniva presentato dall’uditore il ristretto del processo (ce ne sono rimasti pochissimi)
e procuratore e avvocato dei poveri procedevano ad esporre le loro deduzioni a
difesa. Anche di queste ne ho trovate pochissime perché venivano pronunciate
oralmente in congregazione e solo qualche patrocinatore ha provveduto a dare alle
stampe le sue allocuzioni, come Alessandro Dolfi, avvocato dei poveri dal 1697 al
1721. L’impostazione della difesa fino ai primi anni del Settecento può essere dedotta
solo dagli articoli o capitoli che i procuratori sottoponevano all’approvazione degli
uditori insieme con le liste dei testimoni da citare a discarico. Gli elenchi di articoli -
che erano preceduti dai generalia, scritti in latino, i quali servivano ai patrocinatori
per contestare vizi formali rilevati nel processo offensivo - erano formulati in italiano
e consistevano in altrettanti punti a favore del reo che si volevano dimostrare con
nuove testimonianze (il primo era immancabilmente la richiesta di poter comprovare
la buona vita e fama dell’accusato). Sulla base degli articoli uno dei due sottuditori,
spesso lo stesso che aveva condotto gli interrogatori nel processo offensivo,
procedeva all’escussione dei testimoni a discarico nel processo difensivo o in quello
ripetitivo (quando gli articoli venivano presentati per controinterrogare testimoni già
sentiti per l’accusa).
Nei fascicoli del Torrone gli articoli presentati, come ovviamente i processi
difensivi e ripetitivi che si basavano su di essi, sono sempre meno dagli ultimi
decenni del Seicento mentre nel Settecento spariscono quasi del tutto. A metà
Settecento entrambi i processi celebrati per la parte sotto accusa sono diventati
rarissimi, e una spiegazione è che nell’uno e nell’altro caso erano gli inquisiti a dover
sostenere le spese dei procedimenti. Era così anche nel Seicento, ma gli esempi di
processi difensivi e ripetitivi che ho trovato tra l’inizio e la fine del secolo XVII si
riferiscono a cause intentate contro accusati ricchi – anche contadini, non solo
cittadini ricchi - o addirittura nobili. A metà Settecento sono soprattutto dei poveracci
ad essere sottoposti a giudizio ed è quindi normale che ci siano rimaste solo le
scritture, che compaiono regolarmente dopo l’emanazione delle Costituzioni di
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Benedetto XIV, nelle quali il procuratore dei poveri esponeva sinteticamente in latino
le sue argomentazioni difensive, dopo aver esaminato attentamente il processo e
averne riscontrato elementi utili per scagionare il patrocinato. Si può dedurre che a
quello schema si attenesse, insieme con l’avvocato dei poveri, nella perorazione orale
in congregazione criminale; a differenza dal periodo antecedente alla pubblicazione
delle Costituzioni, tali scritture compaiono sempre dopo la consegna ai patrocinatori
del processo accusatorio e servono a fissare sulla carta i rilievi sulla solidità
dell’impianto probatorio.
Sentiti i difensori, la congregazione criminale formulava un decreto che l’uditore,
in genere a pochi giorni di distanza, formalizzava in una sentenza. Era solo il
penultimo atto dell’iter, perché ad esso poteva seguire la supplica del condannato e la
concessione di un atto di clemenza che cancellava o riduceva la pena. Nel corso della
lunga legazione del cardinal Giorgio Doria il numero totale delle grazie che vennero
concesse fu molto minore sia in assoluto sia in media rispetto ai decenni precedenti, e
il numero di quelle concesse nel 1754, ultimo anno della sua legazione, fu uno dei
più bassi dell’intero periodo, segno che non sussistevano più le preoccupazioni di non
accentuare gli attriti col ceto dirigente locale che nella seconda metà del XVII secolo
avevano suggerito ai predecessori di Doria di largheggiare in grazie liberali - cioè non
onerose - allo scorcio del proprio mandato. La procedura per la grazia degli omicidi
condannati alla pena capitale, nel secolo precedente compresa fra le facoltà
riconosciute al legato, dal 1734 segue un iter che prevede una prima supplica rivolta
al papa il quale poi, se la decisione è favorevole al richiedente, conferisce al legato
l’autorità di concederla o meno. A questo punto i postulanti si rivolgevano con una
seconda supplica al legato sollecitandolo ad un atto di clemenza che, come gli
ricordavano invariabilmente, ormai gli era possibile esprimere.
Tali atti sono pochi, ma lo spoglio dei processi nell’anno campione ci dice che
ormai quelli conclusi con una condanna a morte sono molto diminuiti: i non numerosi
omicidi non presentano praticamente mai le aggravanti della premeditazione e della
prodizione. Nella maggior parte dei casi si tratta di omicidi in rixa (per rivalità in
amore o, più spesso, per futili litigi di ubriachi). Mancano, rispetto al periodo
precedente, i clamorosi processi ai nobili refrattari a sottomettersi all’autorità dei
legati. Del tutto assenti, inoltre, sono le sentenze per qualsiasi reato di sangue emesse
contro rei contumaci: come si è detto, il processo contumaciale, almeno nella
campionatura del 1750, sembra sparito e con esso i numerosi atti di clemenza dei
quali in passato avevano beneficiato i banditi, mentre la sospensione della sentenza
nei fascicoli di molti latitanti si può spiegare con una grazia ottenuta prima della
chiusura del procedimento. La grazia onerosa concessa a seduttori contumaci in
parecchie cause sospese che avevano per oggetto lo stupro ci conferma l’aumento del
controllo sui comportamenti devianti: in passato procedimenti simili si concludevano
per semplice accordo delle parti con un’assoluzione che di oneroso poteva avere solo
il risarcimento in denaro alla fanciulla oltraggiata, che però non fa parte degli atti
punitivi del tribunale.
Prevalentemente le grazie vengono concesse per ferimenti in rissa e furti ma non
sorprende, essendo proprio le fattispecie che ricorrono più spesso nei fascicoli
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processuali. Le grazie diventano uno strumento per chiudere procedimenti per lievi
reati in cambio del pagamento di una somma che poteva oscillare tra i 10 e i 50 scudi
e solo raramente raggiungeva picchi molto più elevati, mentre in passato i legati
avvevano accumulato grosse somme con gli atti di clemenza onerosi. Nel complesso,
rispetto agli ultimi decenni del Seicento, risulta evidente una grande parsimonia nelle
concessioni, con pochi picchi nelle cifre corrisposte per le grazie onerose. Scarsissimi
anche i reati gravi graziati: l’atto di clemenza si configura prevalentemente come un
mezzo per chiudere procedimenti per i quali non si profila una pena corporale o, nel
caso delle grazie onerose concesse a seduttori, a numerosi ubriachi maneschi, a
incauti detentori di armi che chiedono benevolenza per i loro errori, come un blando
strumento di correzione.
3. Degradazione ed esecuzione
Complessivamente, a metà Settecento, la società bolognese sembra sotto lo stretto
controllo del tribunale criminale e si direbbe che esso svolga una funzione
disciplinante a tutti i livelli: dai nobili e dai cittadini influenti che si rivolgono con
ostentata deferenza al rappresentante del papa, ai poveretti che si vedono punire con
singolare durezza per ogni colpa, anche se commessa sotto la spinta del bisogno. Una
società del tutto subordinata alle autorità temporali e spirituali, dunque ? In realtà
questo sembra essere vero in città, ma nelle campagne le cose andavano diversamente
persino tra coloro che avrebbero dovuto farsi garanti dei comportamenti e
dell’ossequio ai precetti sacri e profani: parroci e cappellani di contado, con una
continuità col passato che non conferma per il clero il progressivo venir meno della
violenza e dei comportamenti devianti che per i nobili è stata documentata tra gli
anni Settanta del Seicento e i primi del Settecento, periodo per il quale è stato attuato
da Giancarlo Angelozzi e da me uno spoglio sistematico dei processi.
Nello Stato pontificio la distinzione fra il foro laico e il foro vescovile non
implicava necessariamente una assoluta separazione fra le due procedure: in alcuni
casi negli anni Settanta del Seicento il tribunale del Torrone ha potuto avviare
inchieste per concessione pontificia e mettere sotto accusa anche dei membri del
clero, rei di crimini particolarmente gravi, giungendo fino a comminare la pena di
morte, che veniva eseguita dopo una cerimonia di privazione dello status clericale.
Ne è un esempio, negli anni Settanta del Seicento, la decapitazione di un ecclesiastico
della famiglia Bolognini, reo di varie dissolutezze ma soprattutto – cosa che
interessava di più al foro laico – di falsificazione di denaro. Questo processo è un
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buon punto di partenza per sondare i comportamenti del clero: si tratta di un case
study ma da esso emergono anche altre figure di chierici corrotti e il tipo di reato
imputato a Bolognini doveva essere così diffuso che Urbano VIII nel 1628 aveva
sentito il bisogno di inasprire una Costituzione di Paolo V per punire i preti monetari
.
Il 24 febbraio 1672 il bargello Innocenzo Mancini riferì che un prete, il conte
Giuseppe Bolognini, falsificava e tosava le monete con la complicità di Ercole
Bottrigari, un abile intagliatore che faceva i coni, mentre il curato della chiesa
cittadina di S. Arcangelo, don Antonio Fabbri, li nascondeva nella canonica. Mancini
era riuscito a sapere anche che altri battevano moneta falsa, fra i quali un certo dottor
Tesini, medico di Crevalcore, abitante a Bologna e che tutti erano collegati a
Bolognini. Le monete venivano spacciate a Bologna da un altro prete, don Domenico
Burgoni e dalla meretrice Giovanna, «donna del detto Bolognini», che lo
accompagnava da tempo nelle sue imprese criminose. Come riferì il bargello, «fu
carcerata in Venetia in compagnia di esso Bolognini un anno fa in circa per questa
istessa causa», cioè per la sua attività di falsario. Poco o nessun peso viene dato alla
natura moralmente illecita della relazione, alla quale si fa cenno incidentalmente.
Lo stesso giorno il legato Lazzaro Pallavicini dette all’uditore Gian Domenico
Rainaldi e a tutti e due i sottuditori le facoltà necessarie «perché procedino in
fabricare il processo e far qualsivoglia altro atto necessario tanto di far carcerare
esaminare, confrontare devenire alla tortura quando sia necessario contro il detto don
Giuseppe e qualsivoglia persona ecclesiastica et anche di poter perquirere e far
perquirere per le monete, cugni, ordegni o per altra cosa che possa conferire al
bisogno di questa causa in qualsivoglia chiesa e luogo immune». La perquisizione
della casa di Bolognini fu fatta subito dal sottuditore Lucchesi con il bargello alla
presenza dello stesso prete e di due testimoni. Bolognini, carcerato e interrogato da
Lucchesi, disse di non voler essere esaminato nel foro laico e di non essere soggetto
alla giurisdizione del legato ma a quella dell’arcivescovo e prima di aver ricevuto un
ordine espresso da lui non avrebbe risposto.
. Don Antonio Fabbri, carcerato il 27 febbraio e interrogato dall’uditore invece
rispose, dicendo di abitare a Bologna da quaranta anni ma di essere nato a Tredozio,
in Romagna. Per trent’anni aveva insegnato ai figli della contessa Ginevra Bolognini,
del ramo della famiglia che aveva il palazzo in via Castiglione. Disse poi che altri
Bolognini abitavano in via S. Stefano mentre un terzo ramo, quello di don Giuseppe,
stava nella via del Pavaglione. Il prete però, dal maggio 1671, si era separato dai
fratelli e abitava per conto suo in via Cartolerie nuova. Il sottuditore Matteo Lucchesi
interrogò poi don Bolognini che questa volta si dichiarò disposto a rispondere, anche
se l’ordine che aveva sollecitato dall’arcivescovo non era ancora arrivato. Fra le altre
cose parlò del suo arresto a Venezia dicendo polemicamente che era stato rilasciato
dopo quattordici giorni «benché io fossi nel tribunale degl’inquisitori di stato che è il
più tremendo tribunale che sia nel mondo». Quello che allora non si era osato –
processare il nobile chierico – fu invece possibile per l’ampiezza delle prerogative
riconosciute al cardinale Pallavicini.
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Dopo vari interrogatori dai quali non si riuscì a strappare molto dalla bocca del
conte Giuseppe, il 12 marzo dichiarò di aver fatto esperimenti di alchimia: forse era
vero, ma è più probabile che volesse cercare di depistare l’uditore sull’uso degli
oggetti che erano stati trovati in casa sua. Disse anche che aveva provato di mutare
l’argento in oro, argomento che giustificava il possesso di alambicchi e di pezzi di
metallo. Il processo proseguì nei giorni successivi con nuovi interrogatori ma una
vera svolta si ebbe solo il 13 aprile quando la guardia carceraria disse che don
Antonio Fabbri voleva confessare e denunciare i complici in cambio dell’impunità,
che gli fu concessa.
Il 14 maggio il capitano delle carceri Francesco Cuccia sventò un tentativo di
evasione di don Bolognini. Questi, interrogato in seguito varie altre volte, malgrado
le testimonianze e le perizie degli assaggiatori della zecca, continuava a dire di aver
fatto solo degli esperimenti di alchimia. Messo a confronto con don Fabbri disse di
non voler chiedergli nulla ma cercò di infamarlo e di togliere credito alla sua
confessione dicendo che era «processato nel tribunale dell’eminentissimo signor
cardinale arcivescovo per haver adorato una statua et ha conosciuto carnalmente due
donne cioè madre e figlia e non gli voglio dir altro». Don Fabbri ribatté: «Io ho detto
la verità e non ho adorato statue né ho conosciuto carnalmente madre e figlia» dopo
di che confermò le sue accuse sotto tortura.
Il 17 settembre fu registrata agli atti del processo una lettera del legato Lazzaro
Pallavicini che comunicava la decisione della S. Congregazione dell’Immunità
inviata da Roma il 6 settembre in risposta alla pretesa dell’arcivescovo che per
Bolognini fosse competente il suo foro. La decisione della Congregazione si
conformava alla disposizione di Urbano VIII, Confirmatio & innovatio
Constitutionis Pii papae V, che era stata pubblicata il 28 gennaio 1628 e che riservava
ai legati, e quindi al foro laico, tutti i processi contro i falsari, anche quando si
trattava di ecclesiastici, secolari o regolari. In essa si deplorava e si constatava con
dolore che molti di coloro che avrebbero dovuto dedicarsi alla evangelizzazione e alla
carità, dimentichi dei loro doveri e della loro stessa vocazione, non si facevano
scrupolo, spinti dall’avidità, di fabbricare e spacciare monete o di rendersi complici
di questi reati. A quanti fossero stati trovati colpevoli si doveva comminare la pena di
morte, previa degradazione.
Quindi il procedimento contro Bolognini si riavviò. Vennero trovate e interrogate
persone che avevano ricevuto o speso denaro falso per conto suo (per lo più serve). Il
22 ottobre don Bolognini fu formalmente riconosciuto da una di esse che lo aveva
descritto come un uomo sui trent’anni. Confermata la testimonianza nel confronto,
Bolognini disse «Io dimando a questa donna ch’ella dica la verità che si ricordi che
non ha altro che una anima e che si tratta contro la vita e riputatione d’un
galanthuomo. E gli domando ancora se può giurare in coscienza che io fossi quello
che li cambiassi la moneta e gli addimando ancora come puol dire che io gli habbia
mai cambiata la moneta in casa non havendola mai veduta né conosciuta e come puol
giurare che io li portassi li denari la sera e non li voglio domandar altro» La donna
aveva risposto di avere «consideratione all’anima mia et a tutti gl’altri rispetti che si
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possono havere e che la verità è che io lo riconosco benissimo per quello che mi pagò
li denari in casa sua».
Il 5 novembre fu interrogata Giovanna Mazzoni che era stata arrestata un mese
prima, la sera di S. Petronio. Disse che era stata a lungo l’amante di Bolognini che
poi aveva preso in casa una fiorentina che si chiamava Angela Caterina, descritta
come una donna trasgressiva che amava assumere diverse identità: «Era solita anche
vestire da huomo. Quando la detta Caterina vestiva da huomo si chiamava Felice, che
haveva duoi o tre nomi». Don Bolognini, che Giovanna chiama Giuseppe, come
rivendicando un diritto acquisito in tanti anni di intimità, le aveva fatto credere «che
sapeva fare delle alchimie e che sapeva cavare dell’oro dalle pietre e che sapeva
distillare e fare indutione del mercurio e fare dell’oro e dell’argento e che si faceva
con tagliare delle monete. Nella casa posta sul Pavaglione vi erano delli vetri voti e
pieni e delle ampolline con delle aque dentro, vi erano delli vetri col collo lungo a
guisa di zucche».
L’ 11 novembre il legato Pallavicini ordinò di citare a comparire il sacerdote
Francesco, fratello di Giuseppe Bolognini, che fu interrogato lo stesso giorno
dall’uditore Rainaldi. Disse che oltre a Giuseppe aveva un altro fratello in religione, il
gesuita Vincenzo, e due laici, Giovanni Battista e Fabio. Un altro, Orazio, era morto.
Abitavano tutti nel Pavaglione ma per contrasti per l’eredità si erano divisi. Per un
certo periodo Francesco aveva vissuto con Giuseppe, Giovanni Battista e la moglie di
questi ma poi don Giuseppe se ne era andato perché i due coniugi «borbotavano per
causa della fiorentina che Gioseppe si teneva in casa non essendo dovere che
ritenesse una putana e per questo vennero quasi alle mani insieme». Francesco
confermò parecchi indizi sull’attività di falsario del fratello svolta in una stanza della
loro casa e sullo spaccio di moneta, anche se si preoccupò di precisare che era al
corrente di questi particolari sulle pratiche illecite del fratello per sentito dire. Il 19
novembre il sottuditore interrogò di nuovo don Giuseppe Bolognini il quale disse che
i coni servivano per fabbricare orologi per conto del marchese Giuseppe
Montecuccoli (il quale ebbe cura di smentire inviando una testimonianza autenticata
che lo scagionava).
Il 3 febbraio 1673 il sottuditore Lucchesi interrogò don Domenico Burgoni,
arrestato a Modena circa un mese prima dal bargello del vescovo di quella città; dalle
carceri del vescovato dove era stato quindici giorni era stato portato nelle carceri del
ducato e da lì la sera prima era stato consegnato dal bargello del vescovo agli sbirri
del Torrone di Bologna a Castel Franco, vicino ai confini del Modenese. Lucchesi lo
interrogò nell’osteria del Chiù fuori porta S. Felice. Don Burgoni disse di aver abitato
a Bologna per otto anni e di essersene andato da circa uno per sfuggire alla corte
perché aveva saputo che carceravano tutti gli amici di Bolognini. Questi in un
interrogatorio successivo ne parlò come di un prete povero con pochi beni nel
modenese di rendita annua di 15 scudi, cercando così di avvalorare un movente (il
bisogno di denaro) che gettasse tutta la colpa su di lui. Da un confronto con alcuni
testimoni risultò che don Burgoni aveva spacciato moneta falsa allo speziale del
Pavaglione, Giovanni Battista Nucci; il 31 maggio gli vennero contestati dodici capi
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d’accusa e pochi giorni dopo gli vennero dati i termini per la difesa, poi prorogati due
volte.
Quanto a don Antonio Fabbri, nel frattempo era fuggito dalle carceri fin dal 15
settembre 1672 e il 22 marzo 1673 era stato incriminato in contumacia, nonostante
avesse chiesto l’impunità. Secondo la formula consueta gli era stata concessa purché
avesse detto la verità su se stesso e sugli altri «e somministri indicij tali che contro
gli assenti e contumaci si possa venire alla trasmissione dell’inquisitione e contro li
presenti a tormenti e che rattifichi il suo detto quante volte farà di bisogno
legitimamente e senza alcuna contraditione in faccia delli complici». Don Fabbri, che
aveva sostenuto la sua versione nel faccia a faccia col principale imputato e sotto
tortura e che aveva portato elementi decisivi per la tortura e l’incriminazione di don
Bolognini, dovette sentirsi comunque insicuro della sua posizione perché, se
l’immunità gli garantiva di scampare alla pena ordinaria per questo reato, e cioè alla
morte, non escludeva una condanna a qualche anno di galera e preferì cogliere
l’occasione di dileguarsi, quando si presentò.
Il 30 luglio Bolognini fu interrogato da Lucchesi sui frammenti d’oro trovati nella
sua casa al momento dell’arresto. Ammonito a dire la verità, il prete insistette a dire
di non aver mai fabbricato monete false. Il 7 agosto, poiché continuava a negare, fu
messo alle corde. Orgogliosamente don Bolognini disse ai giudici: «Loro non
aspettino che io dica altro che quello che ho detto; i pari miei morono con la verità in
bocca e non voglio dir altro». Poi il notaio scrisse che, sollevato in alto, tacque, poi
disse «oh Signore Giesù Christo mandatemi la morte io moro oh passione di Dio.
Corpus Christi salva me sanguis Christi lava me aqua lateris Christi lava me passio
Christi mundifica me» [Corpo di Cristo salvami, sangue di Cristo lavami, acqua del
costato di Cristo, lavami, passione di Cristo purificami]. Tacque e poi riprese con
un’altra serie di invocazioni in latino per tutta la durata del supplizio, mezz’ora, senza
confessare. Le litanie sono l’unica manifestazione esplicita della sua appartenenza
all’ordine sacerdotale che emerga dal processo.
Il giorno dopo fu interrogato di nuovo dall’uditore che lo sottopose alla tortura
della veglia, il terribile supplizio che ormai molto di rado veniva inflitto ai rei; quasi
nessuno riusciva a sopportarlo senza essere costretto a confessare quello che i giudici
volevano sentire e consisteva nel tenere in tensione con funi legate ai quattro arti
dell’inquisito e agganciate alle pareti con anelli; il malcapitato, completamente nudo,
restava così sospeso su uno sgabello col sedile a punta di diamante. Dopo le prime
due o tre ore del tormento della veglia il corpo del suppliziato si gonfiava anche se
venivano seguite le precauzioni che i chirurghi raccomandavano. «Sopra tutto si deve
stare molto oculato di essere presto ad accorrere alli svenimenti e deliquio del reo li
quali succedono spesso e che riducono li poveri rei in stato pessimo nel che il
chirurgo esperto deve essere sollecito in precederli e ristorare il reo con presidij
opportuni e necessarii di malvasie, aceti rosati & altre cose simili e se doppo havergli
somministrato li detti aiuti il deliquio non cessa il chirurgo deve calare il reo
protestando e predicendo la di lui morte. Li segni certi della prossima deficienza sono
il colore della faccia e di tutto il corpo mutato in pallore e la faccia del reo
cadaverosa, petto e braccia che comincino a farsi lividi & il respirare difficultoso e
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frequente se il collo sia fuor del naturale ingrossato se le ungie si facciano livide o se
le membra del corpo siino dissolute e quasi premorte, se si veda il corpo languido e
nell’estremità refrigerato con sudore freddo, se le palpebre calino, se dalla bocca esca
spuma».
Don Bolognini non riuscì ad affrontare una prova così dura e questa volta ammise
tutto: di aver fabbricato monete false, come le aveva fatte e come le aveva fatte
spacciare. La tortura durò in tutto tre quarti d’ora. Il 9 agosto fu interrogato di nuovo
dall’uditore per la rituale conferma della confessione, che doveva essere ripetuta a
distanza di ventiquattro ore fuori dalla camera dei supplizi perché fosse convalidata.
Lo stesso giorno il processo fu consegnato all’avvocato. Il 31 agosto il legato
dichiarò che don Giuseppe doveva essere degradato. Già il 16 agosto il cardinale
Altieri aveva inviato una lettera al vescovo di Cesena nella quale lo incaricava di
recarsi a Bologna per eseguire il rituale della espulsione dallo stato clericale, che fu
fatta lo stesso 31 agosto 1673 con le luci accese, alla presenza del cardinale
Pallavicini, di molti sacerdoti, dell’uditore, dei due sottuditori, del notaio e dei
testimoni. Bolognini fu prelevato dalle carceri del Torrone dagli sbirri, condotto
davanti al vescovo di Cesena che lo degradò «et habitis sacerdotalibus et clericalibus
spoliatum curiae saeculari tradidit et consignaviti» [e spogliato dall’abito sacerdotale
lo consegnò alla curia secolare]. Il 2 settembre fu emessa ed eseguita la sentenza che
lo condannava ad essere decapitato in carcere.
Il 17 novembre il legato conferì al giudice il potere di punire anche don Burgoni,
in considerazione alla gravità del delitto, compreso nella costituzione di Urbano VIII
poiché c’erano forti indizi di complicità in falsificazione di monete. Lo stesso giorno
don Burgoni fu interrogato dal sottuditore Giulio Carretti per mezz’ora ma non
ammise niente. Il giorno dopo fu sottoposto a sua volta alla tortura della veglia, alla
presenza dell’uditore. Durante la prima ora continuò a negare e poi a invocare Gesù e
chiedere dell’acqua e a implorare in dialetto il giudice: «Toleme giù toleme giù
toleme giù». Durante la seconda ora crollò e cominciò a confessare. Alla quarta ora
chiese ancora di essere messo giù. Aggiunse altri particolari alla confessione e
finalmente la tortura venne sospesa. In tutto era durata tre ore e un quarto. Anche lui
confermò la confessione davanti all’uditore il giorno seguente. Il 27 febbraio 1674 il
legato Bonaccorso Bonaccorsi lo fece degradare e il 3 marzo, lo stesso giorno in cui
fu emessa la sentenza, fu decapitato in pubblico. L’esecuzione, come quella di don
Giuseppe, rispettò l’appartenenza ad un ordine privilegiato e neppure per don
Burgoni fu decretata la disonorante pena della forca ma rispetto al nobile Bolognini,
che fu privato della vita nel chiuso della cella, l’umiliazione, per il povero prete
modenese, ci fu comunque.
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4. Preti non disciplinati
Nelle carte del Torrone degli anni Settanta e Ottanta del Seicento si incontrano
piuttosto spesso casi di preti che non si conformano al modello di vita appropriato al
loro stato, ma una reazione decisa del tribunale criminale si ha in genere quando i
comportamenti devianti sono «politici», come la falsificazione di moneta, o quando si
tratta di reati di sangue, e non quando le infrazioni sono attinenti allla sfera sessuale,
in quanto essi restano di competenza del foro ecclesiastico, il quale a sua volta sembra
non perseguirli con particolare accanimento, come nel caso denunciato il 27 ottobre
1672 da Giovanna Baldanza, moglie di Giovanni Franceschelli di Camugnano e
Carpineti, abitante a Bologna, la quale accusava di adulterio Camilla, moglie di suo
fratello Giovanni, contumace da quattro anni. Camilla, che non aveva avuto figli dal
marito, da quando era rimasta sola era stata traviata da don Cosimo Pinelli che
l’aveva ingravidata tre volte e si godeva anche i beni di Giovanni. Oltre a questo don
Cosimo aveva fatto sposare per forza a Geminiano Bellone sua nipote Maria, un ricco
sempliciotto di cui aveva usurpato i beni. Simili infamie commesse dal prete,
proseguiva la querelante, con «zitelle, vedove e maritate sono tante che non si possono
dire».
Un testimone disse di Camilla e di don Pinelli che si trattavano «come se fossero
moglie e marito cioè la Camilla nella casa di detto don Cosimo e don Cosimo va e si
trattiene in casa della Camilla, lavorano assieme le terre tanto di essa Camilla come
quelle di detto prete che ancor esso lavora in campagna come un contadino». Disse
inoltre che don Cosimo teneva in casa sua Geminiano Belloni «marito di Madalena
sua nipote la quale non sta altrimenti col marito ma la detta Madalena dorme in casa
della sudetta Camilla; detto prete si gode campi, prati e castagneti boschi et esso
Geminiano non puole godere delle sudette sue robbe cosa alcuna anzi che lo bastona e
maltratta per essere un poveretto che non ardisce risponderle». Camilla teneva i due
figli in casa, malgrado fosse una regola senza eccezione nella società postridentina che
gli illegittimi non fossero allevati nella casa della madre ma portati a Bologna, al
brefotrofio. Quello che era un comportamento biasimato e disonorevole era tanto più
riprovevole in quanto esibiva senza pudore i frutti di una relazione con un membro del
clero. Francesco Brunetti, l’ultimo dei parrocchiani di don Pinelli ad essere
interrogato, disse di non sapere «se Camilla e il prete fossero fra di loro parenti in
grado alcuno so bene che sono fra di loro amici da cinque o sei anni in qua et in
questo tempo li ho visti praticare assieme libberamente la qual pratica ha dato
scandolo massime che la detta donna ha partorito due volte che ne sono vivi un
ragazzo et una ragazza e fu anco detto che due anni sono che era pur gravida ma non
si è visto il parto e da quello magiormente il popolo si move a sospettare che tra loro
sia pratica carnale».
E’ un caso simile, come vedremo, a quello di don Antonio Nanni; come per
quest’ultimo, è difficile pensare che la curia arcivescovile non ne fosse informata
mediante la rete dei vicari foranei e degli sbirri che battevano la campagna per conto
del foro ecclesiastico. Ma l’esempio di don Antonio conferma che solo un fatto grave,
non legato alla sfera sessuale, faceva agire con durezza il foro arcivescovile. Quanto ai
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rapporti con il foro laico, poteva dover intervenire in casi in cui le competenze dei due
tribunali si intrecciavano, come dimostra la causa avviata il 16 maggio 1674, quando
venne annunciata in Torrone l’uccisione di Giovan Battista Calzolari, sbirro
dell’arcivescovado a Tolè. Il movente dell’omicidio si sarebbe rivelato connesso alle
funzioni di controllo dei costumi del clero che esercitavano in contado sia l’ucciso sia
Giacomo Lolli, il suo caporale, il quale disse che lo sbirro era stato ucciso «in onta
mia», cioè per vendicarsi di lui. Nell’ottobre precedente don Giacomo Lamari, prete
beneficiato di una chiesa detta la Chiesolina di Pieve di Roffeno, che si era portato in
casa una donna di mala vita gli aveva chiesto «di chiudere gli occhi» e di non
denunciarlo al foro arcivescovile. E’ probabile che in casi simili molto spesso gli sbirri
di campagna chiudessero gli occhi, vista la frequenza con la quale si ricontrano queste
situazioni irregolari, ma non fu il caso di Lolli il quale rifiutò e così fra lui e il prete
erano cominciati a nascere «de’ disgusti».
Don Giacomo Lamari non era solo un prete che non osservava la continenza
sessuale ma, come spesso succedeva, l’inclinazione a seguire i modelli di
comportamento dei laici non si limitava a questa debolezza, evidentemente scusabile
agli occhi dei superiori, ma si accompagnava alla tendenza ad emulare i
comportamenti più violenti di certi notabili di villaggio, soprattutto in montagna,
spesso appoggiati dal favore della rissosa nobiltà cittadina. Don Lamari con dieci o
dodici compagni - fra cui la sua donna armata di «una pistoletta curta» ! - erano andati
in sua assenza a casa sua a spaventare con intimidazioni la moglie del caporale Lolli
«minacciandomi in caso che io fussi voluto andare per fra priggione il detto don
Giacomo e la detta Maria sua donna» di ritorsioni. L’irreprensibile caporale non si
fece fermare da questo avvertimento: denunciò la scandalosa condotta di don
Giacomo contro il quale «fu fatto processo nella corte del signor cardinale
arcivescovo». La vendetta non si fece attendere: «Vennero a casa mia in mia assenza
due modenesi e ferirono mia moglie».
Il prete godeva di protezioni tra i membri dell’aristocrazia senatoria e l’abate
Grassi si prestò come mediatore per ricomporre il conflitto, chiedendo a don Antonio
Maria Zappoli di convincere Lolli a dare la pace a don Giacomo e a non denunciarlo
al tribunale criminale. Il caporale rispose che non aveva nulla in contrario «ogni volta
che fossi poi stato sicuro di poter viver quieto, ma perché sapevo che l’haveressimo
rotta presto perché il detto don Giacomo è un cervello torbido, che camina quasi
sempre in squadriglia», non aveva voluto accettare la composizione. Le imprese
criminali di don Lamari erano note da tempo: due anni prima lo sbirro Calzolari
insieme ad altri compagni aveva avuto uno scontro a fuoco con don Giacomo e alcuni
sgherri armati nel corso del quale era rimasto ferito Geminiano, un fratello di Pierone
Melli, uno degli uomini del prete, che poi era morto.
Dopo essere stato convocato al tribunale dell’arcivescovado don Giacomo non
era tornato alla sua chiesa ma era rimasto a Bologna, certo per poter attivare meglio la
rete dei suoi protettori, e si era ritirato nella chiesa del Baraccano, in luogo immune.
Da lì continuava a minacciare il caporale Lolli e andava dicendo che non voleva
tornare finché lo stesso Lolli e lo sbirro Calzolari erano vivi. Nella chiesa di don
Giacomo era andato ad officiare un prete modenese, anche lui fratello di Pierone
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Melli, che l’inchiesta che fece il tribunale del Torrone avrebbe individuato come
uccisore dello sbirro Calzolari; anche quel prete, e non solo don Lamari, seguiva lo
stile di vita violento che alcuni chierici avevano abbracciato: era stato visto in
compagnia di quattro modenesi armati e dopo l’omicidio era sparito. Come don
Giacomo si era dato alla macchia, insieme ai loro codazzi di sgherri e di donne
proterve. Il foro criminale del Torrone non incriminò, in questo caso, don Lamari per
la sua vita violenta e si limitò ad una sentenza esemplare contro il solo Pierone Melli,
l’esecutore materiale del delitto, che fu impiccato e che in questa vicenda finì per
pagare per tutti..
«Politico» in senso più proprio è un altro processo iniziato il 7 marzo 1671, quando
il massaro di Ceredolo, una comunità di pianura a pochi chilometri da Bologna,
denunciò il ferimento di Francesco Ballarini commesso da uno sconosciuto che si
riteneva fosse veneziano e di cui si sapeva solo che si faceva chiamare Francesco.
Entrano in scena infatti un bandito capitale famigerato, il conte Giuseppe Maria
Felicini, e un prete che fu accusato di essere in contatto epistolare con lui e parte della
rete di favoreggiatori mediante la quale il conte continuava a tirare le fila di molti atti
criminosi che si commettevano nella Legazione, nonostante fosse da anni contumace.
Il favoreggiamento di banditi capitali era uno dei reati più gravi contro l’autorità del
principe.
Ricevuta la denuncia, il sottuditore del Torrone Domenico Tinelli partì in cavalcata
con il notaio, il messo e ben dodici sbirri, munito di una licenza che gli era stata
rilasciata lo stesso 7 marzo dal legato Pallavicini con la quale gli veniva conferita la
facoltà di interrogare in luogo immune, di perquisire e arrestare anche ecclesiastici
sospetti. Appena arrivato a Ceredolo Tinelli fece carcerare don Domenico Elefanti,
parroco della comunità. Prima di sentirlo, andò a visitare Ballarini, che nel corso del
processo verrà descritto come «un huomo vecchio che sarà di età quasi di 80 anni». Il
sottuditore constatò che era stato colpito all’inguine. Il ferito gli fece un racconto
concitato e confuso che si riferiva ad una storia di violenza nel quale era implicato suo
figlio Carlo, già processato in febbraio per certe bastonate a Michele Galli. Galli era
latore di una lettera di Francesco Calzolari, figlio dell’oste di Casalecchio, al quale
Carlo Ballarini aveva offerto ripetutamente 50 doppie (ben 750 lire) perché uccidesse
Giacomo Franzoni per un regolamento di conti: Franzoni aveva ucciso poco prima un
fratello di Carlo. Calzolari aveva rifiutato e aveva anzi avvertito Franzoni, che era suo
amico, il quale aveva chiesto l’interposizione del conte Rizzardo Isolani. Da questa
torbida storia aveva avuto origine l’inimicizia tra Carlo Ballarini e Calzolari.
Mentre Carlo era latitante, al padre era arrivata un’ingiunzione scritta da parte del
conte Felicini, per obbligarlo a comporre la lite. L’ordine gli era arrivato con una
lettera recapitata per mezzo del veneziano che era stata letta da don Elefanti il quale si
era preso sottobanco una mezza doppia che Ballarini padre gli aveva dato per
invogliarlo a contribuire alla pacificazione delle parti. Il forestiero aveva detto di essere
stato mandato per sistemare la vertenza ma poi aveva sparato a tradimento a Francesco
Ballarini rifugiandosi subito dopo nel palazzo del conte Felicini, poco lontano dalla
chiesa. Il ferito disse di ritenere che l’agguato fosse stato ordito da Francesco Calzolari,
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figlio di Antonio, come vendetta trasversale per l’inimicizia che suo figlio aveva con
lui. Disse anche di credere che il prete fosse a conoscenza del piano.
La cavalcata durò pochi giorni e il 13 marzo don Elefanti fu interrogato dall’uditore
Carlo Rosati nelle carceri del Torrone. Era parroco di S. Antonio di Ceredolo da quasi
tredici anni; vi era stato messo dal conte Giuseppe Maria Felicini che aveva il
giuspatronato sulla chiesa.. Era questo il legame che giustifica il vincolo di gratitudine
e di dipendenza che legava il prete al potente protettore, un vincolo che spesso era alla
base del rapporto di reciproca obbligazione fra preti di campagna e nobili o notabili.
Don Domenico cercò in tutti i modi di occultare questo legame, senza riuscirci. Disse
che il conte si trovava da cinque o sei anni a Fivizzano, in Toscana, lungo la tortuosa
strada che portava al passo del Cerreto. Quanto a Carlo Ballarini, ne parlò come di un
violento che girava sempre armato di pistola e archibugio «massime quando è venuto
alla mia chiesa». Da un inventario che venne fatto durante la cavalcata per vincolarlo al
pagamento dei viatici, risulta che don Elefanti era un povero prete non molto agiato
che tuttavia possedeva un discreto numero di libri: quarantatre.
Il 29 marzo il massaro di Ceretolo comunicò la morte di Ballarini. Fu certo per
assistere alle sue esequie che Carlo lasciò il modenese, dove si era rifugiato, e finì nelle
mani degli sbirri. Il 4 aprile l’uditore lo interrogò – fatto del tutto inconsueto -
nell’appartamento del legato, che gli pose di persona le prime domande. Gli elementi
raccolti indussero il cardinale Pallavicini ad attribuire al notaio Giovanni Antonio
Casentini le facoltà necessarie per interrogare ecclesiastici in luogo immune. Casentini
con alcuni sbirri andò a Ceredolo a perquisire di nuovo la casa di don Elefanti dove
sequestrò una lettera che gli era stata consegnata il 19 febbraio 1671 e che era stata
scritta dal conte Felicini. In essa il conte ordinava al prete di intimare sia a Ballarini sia
all’uomo che aveva bastonato (cioè Michele Galli) di presentarsi al suo cospetto perché
voleva sapere come erano andate le cose.
L’uditore Rosati interrogò di nuovo in Torrone don Elefanti il quale disse che
l’ultima lettera che aveva ricevuto dal conte Felicini era quella portata il 19 febbraio da
un tale Francesco che parlava veneziano. Poiché don Elefanti pretendeva di non sapere
che Felicini era bandito capitale, fu acquisito agli atti il processo con la sentenza di
morte contro il conte per l’omicidio del banchiere Giovanni Davia emessa il 23
dicembre 1666 . Interrogato nuovamente dal sottuditore Tinelli l’1 maggio, don
Elefanti negò di sapere dove fosse il conte, perché fosse stato a Fivizzano e che avesse
cause in Torrone. Gli vennero mostrate tutte le quarantacinque lettere che gli erano
state spedite dal suo padrone e che erano state trovate a casa sua. Le prime erano state
inviate da S. Cesario (il primo luogo della latitanza di Felicini) e risalivano al maggio
1665. Interrogato ripetutamente, don Domenico pretese ancora di ignorare che il conte
era bandito capitale; più volte quando gli fu chiesto perché gli avesse scritto da un
certo luogo rispose che pensava che vi fosse «per suo spasso». Ammonito a dire la
verità, continuò a negare la sua complicità nell’agguato e a sostenere che non sapeva
che il veneziano dovesse ammazzare Ballarini. Scarcerato l’1 maggio, promise di
ripresentarsi in carcere dando fideiussione per 100 scudi.
Il processo proseguì ancora per qualche giorno con incalzanti interrogatori a
Calzolari, al quale furono fatte domande anche per corroborare i capi d’accusa contro
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don Elefanti, ma per entrambi le prove non erano piene e anche Calzolari fu rilasciato
il 13 giugno con precetto di ripresentarsi con fideiussione per 100 scudi. Don Elefanti
inviò al legato e all’uditore un memoriale non datato in cui diceva che «per causa del
signor conte Giuseppe Maria Felicini ha patito cinquantaquattro giorni di prigionia e
spese di cavalcate, processi et altri disaggi» e che cercava di ottenere il risarcimento
dei danni davanti al tribunale civile del vicelegato. Non sappiamo se il prete venne
risarcito; sappiamo invece che l’11 luglio l’uditore Rosati, a pochi giorni dalla sua
partenza per altra destinazione (lo avrebbe sostituito Gian Domenico Rainaldi)
consultatosi col legato e per suo ordine, lo assolse in considerazione della qualità del
reato e della persona e per insufficienza di prove [«facto verbo cum em.mo et de illius
ordine et mandato stante qualitate facti et personarum et deffectu probationis»].
Preti che tenevano mano ad assassini, sia pure non sempre condannati, erano
frequenti nei processi del Torrone degli ultimi decenni del Seicento. In confronto a don
Elefanti, andò meno bene a don Carlo Dalle Donne, un prete che girava armato al
servizio del marchese Antonio Pepoli; anche in questo caso il legato Antonio Pignatelli
aveva concesso all’uditore Paolo Sanesi la facoltà di interrogare gli ecclesiastici e di
pronunciarsi contro di loro. Il 14 marzo 1685 l’uditore emise le condanne in
contumacia di Galanti e Pepoli rispettivamente come sicario e mandante degli omicidi
del sottuditore Tommaso Sertini e dell’informatore del Torrone Marco Antonio Lelli.
A questi capi d’imputazione si aggiunse la conventicola armata. Antonio venne
condannato in contumacia alla decapitazione e alla confisca, alla privazione del
marchionato e alla demolizione delle case. La modalità della pena di morte di Galanti
fu formulata «ad terrorem», cioè per indurre negli spettatori il timore dell’inflessibile
rigore della giustizia: avrebbe dovuto essere mazzolato in testa, sgozzato e squartato;
anche i suoi beni avrebbero dovuto essere sequestrati. Don Carlo Dalle Donne, anche
lui contumace, fu condannato alla galera a vita, alla sospensione a divinis, alla
privazione dei benefici, ovvero delle rendite della parrocchia che officiava, alla
confisca dei beni. Tuttavia, malgrado la severità della sentenza, i Pepoli erano molto
potenti e potevano facilmente trovare la strada per ottenerne la cancellazione: la grazia
arrivò molto presto anche se fu concessa a caro prezzo sia per Antonio Pepoli – che
l’ottenne il 26 agosto 1687 dal legato Pignatelli pagando 2500 scudi –, sia per Dalle
Donne, al quale il 27 novembre dello stesso anno fu concesso il perdono, in cambio di
300 scudi. Di Galanti, invece, non si seppe più nulla: evidentemente rimase latitante e
la feroce sentenza contro di lui non venne mai applicata.
I preti sapevano di non essere soggetti al foro secolare, ma loro malgrado dovevano
adattarsi a subire il trattamento riservato ai criminali laici quando per gravi reati
venivano fatte valere le ampie attribuzioni di potere che venivano concesse al legato e
quindi al tribunale del Torrone. In tali casi non serviva a nulla invocare i privilegi
connessi all’ordine sacerdotale. Il 22 aprile 1676 il sottuditore Giulio Carretti fece il
riconoscimento formale di un uomo di alta statura di circa quarantacinque anni. Si
trattava di don Giacomo Burgaia di Mongiorgio, inquisito per rapina, il quale rifiutò di
dichiarare le sue generalità: «Io non voglio altrimenti dire il mio nome, né il mio
cognome, né il nome di mio padre, né la mia patria et essercitio, dico bene, che io sono
un sacerdote, e come tale io non pretendo rispondere, né voglio essere sottoposto al
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foro del signor cardinal legato di Bologna, però faccia Vostra Signoria quello che gli
pare, perché io assolutamente non voglio rispondere, né dire chi mi sia». Carretti
replicò che era soggetto al foro del legato in forza della facoltà concessa dal papa
Clemente X, tramite una lettera del cardinal Altieri, al legato Bonaccorso Bonaccorsi
con la quale lo autorizzava a procedere contro il prete purché non fosse condannato a
morte senza che il papa ne fosse informato. Don Burgaia si ostinò nel diniego e nel
rifiuto di riconoscere la giurisdizione del Torrone e la stessa autorità del papa: «Io dico
a Vostra Signoria che la santità di Nostro Signore non puole sottopormi alla giustizia
del signor cardinal legato, come corte seculare con tutto ciò nessuno puole havere
facultà sopra di me per essere io sacerdote». E ancora: «Io non voglio rispondere
assolutamente perché io pretendo di essere subordinato a monsignor vescovo di
Nonantola e non ad altri, e quando Nostro Signore havesse concessa la facultà al
signor cardinal legato di Bologna, il medesimo signor cardinal legato deve deputare un
giudice del foro episcopale e non del suo foro».
Il notaio gli lesse la lettera di Altieri, Burgaia replicò di aver inteso benissimo (la
ripeté per filo e per segno); «con tutto ciò io dico che non voglio rispondere agli
interrogatori che Vostra Signoria mi fa e faccia quello gli pare». Dopo ulteriori
resistenze vennero addotti vari testimoni che lo riconobbero formalmente come don
Burgaia un lungo e circostanziato interrogatorio; ad ogni domanda Burgaia risponse
«Io non voglio rispondere»; alla fine fu riassunta la confessione del suo complice
Sebastiano Mattarelli che confermò sotto tortura la colpevolezza di don Burgaia il
quale disse solo «a suo luogo e suo tempo dirò le mie raggioni». Nel fascicolo manca
la sentenza ma sul frontespizio del fascicolo è annotata la pena di don Burgaia, che fu
trasmesso alle galere a vita, mentre Mattarelli fu impiccato.
La causa iniziata il 12 maggio 1672 quando Giovanni Giacomo Palmerini e
Lancialino Lancioni avevano sparato fuori dalla chiesa a don Gabriele Santolini,
uccidendolo, è fra quelle che si interruppero – i principali inquisiti si diedero alla
macchia - ma mette bene in evidenza la violenza e l’irregolarità dei comportamenti del
clero nelle comunità più remote delle montagne, e conferma che per quanto riguarda la
sfera sessuale sembrano ancora godere della complicità dei paesani e della
condiscendenza della gerarchia ecclesiastica. Il sottuditore Matteo Lucchesi inviato in
cavalcata venne a sapere che Giovanni Giacomo era nipote di don Giovanni Palmerini,
rettore della chiesa parrocchiale e che era figlio di suo fratello don Giovanni Battista.
Circolava voce che l’omicidio fosse stato commesso «per causa di disgusti che sono
passati tra detto don Gabriele e don Giovanni Palmerini zio del detto Giovanni
Giacomo e don Giovanni Battista padre del detto Giovanni Giacomo per via di alcune
lettere che esso don Giovanni haveva fatto mettere ad una campana nova che fu fatta
alcuni anni sono dal commune quali lettere furno scarpellate e levate via dal detto don
Gabriele Santoli d’ordine delle genti del commune e ciò havutosi a male detto don
Giovanni rettore cominciò a portare odio al detto don Gabriele, che non gli parlava e
che detto odio lo dimostrò publicamente».
La seconda causa «de disgusti è stata perché tanto il detto don Giovanni rettore
quando don Giovanni Battista padre di esso Giovanni Giacomo fecero venire un prete
forastiere per sonare l’organo della detta chiesa et insegnare a cantare li putti e detto
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don Gabriele havendo havuto dispiacere di questo perché come quello che era virtuoso
et intendeva di sonare lui l’organo et insegnare alli putti fece sapere et intendere a detto
prete forastiere che andasse a fare li fatti suoi che non era di dovere che lui gli levasse
il pane e così detto prete se ne andò via; et havutosi ciò a male li sudetti curato e padre
di detto Giovanni Giacomo mandorno il medesimo Giovanni Giacomo a repigliare
detto prete conforme vi andò e condusse qua; e così esso don Gabriele procurava di
fare il possibile con le genti del commune che detto don Domenico non stasse qua in
paese». Per questo la gente diceva che Giovanni Giacomo avesse ucciso don Gabriele
«acciò essi suoi parenti non havessero disgusto che detto don Domenico dovesse
ritornare via». Un testimone disse che prima di darsi alla macchia Giovanni Giacomo
abitava nella sua casa poco distante dalla chiesa parochiale «in compagnia delli sudetti
preti padre e zio», di sua moglie e della serva. Anche in questo caso la condanna per
l’omicidio non colpisce un ecclesiastico né, per la verità, nessuno: l’esecutore
materiale, Giovanni Giacomo, si sottrasse alla giustizia con la fuga.
Per inquisire don Alessandro De Maria di Monteveglio, che aveva sparato a
Andrea De Maria colpendolo e colpendo anche sua moglie, il legato Lazzaro
Pallavicini aveva deputato il giorno stesso, per inquisire il prete, Nicola Carlini notaio
del Torrone e chierico. Il 7 ottobre 1672 Carlini partì in cavalcata. Interrogando il ferito
venne a sapere che don De Maria gli aveva sparato per il rendimento di conti di una
società che avevano insieme per la conduzione di una fornace e perché il prete non
voleva rispettare i patti. Una quindicina di giorni dopo fu annunciata la morte di
Domenica, la donna ferita. Il processo si interruppe; sul retro del fascicolo l’uditore
ha annotato in data 7 novembre la condanna che intendeva infliggere a don De Maria
(dieci anni di galera), in attesa di un’autorizzazione a procedere che, non sappiamo
perché, non gli venne data: le pressioni che potevano essere esercitate sui giudici per
influenzare l’esito dei processi quasi mai hanno lasciato traccia. Rimane la certezza
che don De Maria aveva cercato di frodare il suo socio e, non essendoci riuscito, aveva
impugnato l’archibugio e aveva sparato; un caso certamente non generalizzabile, ma
possibile dal momento che molti preti, ancora negli anni Settanta del Seicento giravano
armati, come i loro parrocchiani che periodicamente venivano arrestati perché alle
feste, alle processioni e nelle chiese stesse, portavano i loro archibugi, pronti a sparare
per “allegrezza”, un tripudio che spesso sfociava in tragedia.
Nei decenni successivi comportamente simili furono perseguiti duramente dal
tribunale criminale: agli inizi del Settecento decine e decine di persone furono arrestate
perché avevano partecipato a balli portando con sé le loro armi, ed ebbero spesso pene
pecuniarie molto salate. Così questo uso secolare dei contadini venne quasi del tutto
sradicato; si spiega dunque come mai, a metà Settecento, le liti sfociate in omicidio
risultino meno frequenti che nei decenni precedenti; le vendette di sangue praticamente
sparite, resta come una delle cause ricorrenti delle sparatorie tra i giovani la rivalità in
amore, ma anche in questo caso la rappresaglia più spesso si avvale del meno micidiale
bastone. Anche i preti che girano armati sono quasi del tutto assenti nei fascicoli
processuali, ma nelle zone più remote della montagna o in quei territori di pianura ai
confini fra più giurisdizioni, dove l’impunità sembrava garantita, casi di devianza si
incontrano ancora a metà del Settecento.
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5. Un caso «teribile e tremendo».
Per far emergere il comportamento scandaloso e prevaricatore di don Antonio fu
necessario un sospetto omicidio, una tesi dell’accusa che venne respinta
ripetutamente dai patrocinatori d’ufficio del Torrone, che in questo caso acquistano
maggiore visibilità del consueto, traducendo alla fine del lungo procedimento le loro
eccezioni in un’articolata scrittura difensiva in lingua latina. Essa fu presentata
all’uditore Egidio Ludovisi. il 31 ottobre 1746 dal dottor Giacomo Coralupi,
all’epoca procuratore dei poveri ed era stata redatta dal dottor Giuseppe Maria
Vernizzi, coadiutore dell’avvocato dei poveri Vincenzo Andrea Guinigi per Lorenzo
Brizzi. Brizzi era inquisito per la morte della moglie Maria Gentile Nanni che la notte
fra il 6 e il 7 marzo 1742 era stata trovata dai compaesani in un canale la cui acqua
azionava il mulino di Granaglione, apparentemente annegata. Al momento del
rinvenimento del cadavere Lorenzo era assente, o almeno così si pensava, essendo
andato da molti mesi a lavorare in Maremma. Questa migrazione stagionale
interessava gran parte dei montanari del Bolognese e quelli di Granaglione in
particolare, che lasciavano le proprie case da novembre a giugno, quando tornavano
per il raccolto di grano, per l’aratura, la semina e la vendemmia e poi ripartivano. Le
donne restavano sole per buona parte dell’anno, con vecchi e bambini.
.La linea di difesa del dottor Vernizzi si basava sulla presentazione della vittima
come di una donna di cui tutti sapevano che era debole di mente e che inoltre era
tormentata da frequenti attacchi di gelosia per il marito: il patrocinatore di Lorenzo
Brizzi voleva convincere i giudici che le voci che erano circolate subito per il paese
avevano attribuito la morte della povera Maria Gentile ad una disgrazia, e che era
precipitata in acqua o per caso o per un attacco di follia. Solo dopo alcuni giorni
avevano cominciato a diffondersi altre voci, questa volta malevole, originate da
alcuni parenti di sangue della donna che avevano imbastito quella che Vernizzi definì
una «storiella» di nessun fondamento ma nefasta per Lorenzo, per le sue sorelle
Maria Maddalena e Maria, e per un presunto complice, Pietro Antonio Agostini,
propagandola e facendola arrivare al tribunale con una denuncia presentata dal
massaro Giovanni Taruffi già il 14 marzo.
La morte di Maria Gentile, fosse stata o no provocata dal marito, che l’avrebbe fatta
eseguire materialmente da Agostini e dalle sorelle, era comunque il tragico epilogo di
una vicenda matrimoniale travagliata, per ricostruire la quale possiamo basarci sulle
stesse parole della donna perché le traversie giudiziarie dei due coniugi erano iniziate
già prima, nel 1740, quando, il 20 ottobre, Lorenzo Brizzi aveva sporto querela
davanti al vicario foraneo, l’arciprete di Cavanne (Borgo Capanne) don Paolo
Campoleoni, contro la moglie, affermando che l’aveva colta in flagrante adulterio con
Giuliano Taruffi e che gli aveva portato via tutto quello che aveva potuto da casa. Il
vicario, che aveva competenze nelle cause matrimoniali, interrogò vari testimoni che
furono concordi nel ritenere inverosimile che la donna potesse essere una ladra né
tanto meno un’adultera, conducendo sia lei sia Giuliano Taruffi una vita
irreprensibile.
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Ciò nonostante Lorenzo Brizzi, interrogato da don Campoleoni il 14 novembre
1740, continuò a tentare di screditare la moglie, accusandola anche di altre infedeltà.
Con questi pretesti lui giustificava le feroci bastonate che tutta Granaglione sapeva
che infliggeva a Maria Gentile. Come scrisse Campoleoni al vicario arcivescovile
Francesco Cotogni, che reggeva la chiesa metropolitana di Bologna per conto del
titolare, papa Benedetto XIV, gli era chiaro che l’uomo aveva fatto processare la
moglie non mirando ad altro «che a vedere, già che non gli è riuscito levarla dal
mondo, di procurare il divorzio e lasciarla senza il peso di allimentarla». Lorenzo
naturalmente non aspirava al divorzio come noi lo intendiamo, che avrebbe fatto una
fugace comparsa nel Bolognese solo con l’arrivo delle armate napoleoniche e la
promulgazione, nel 1804, del codice che portava il nome dell’imperatore: Lorenzo
auspicava che fosse sancita dall’autorità ecclesiastica una separazione «a mensa e a
thoro», una divisione della tavola e del letto coniugale, che lui già praticava nei fatti
ma che lo rendeva passibile di interdizione e scomunica.
Il vicario parteggiava apertamente per la moglie di Brizzi. Il 28 novembre 1740,
Campoleoni avuto modo di interrogare Maria Gentile, che aveva parlato di sé per la
prima e unica volta davanti a un giudice, ricordando che il suo matrimonio era stato
celebrato quattordici anni prima perché un prete loro lontano parente, don Antonio
Nanni, aveva persuaso suo padre, che «non ci aveva troppo genio», a concludere la
trattativa, dando alla ragazza come dote aggiuntiva un castagneto del valore di 1000
lire e 100 capre del valore di 500 lire. I primi giorni le cose erano andate bene fra i
due sposi; per i tre anni successivi un po’male e un po’ bene. Poi erano capitati in
montagna i missionari che cercavano di eliminare le sacche di resistenza agli sforzi di
catechizzazione e di disciplinamento dei costumi dei fedeli e, con buone ragioni, del
clero. Per quanto ne sapeva Maria Gentile, erano stati Paolo Nanni e Annibale
Battelli, cognato di Paolo, a chiedere ai padri missionari di indurre i superiori
ecclesiastici a mandare a Livorno «la Domenica, moglie di Antonio Brizzi detta
volgarmente la Gialla, madre di mio marito e mia suocera» affinché andasse a vivere
con Brizzi, soldato nella città toscana, dal quale viveva di fatto separata, conducendo
vita scandalosa. Questo ricorso fu attribuito a Maria Gentile e a suo padre Ludovico
Nanni ed eccitò in Domenica la Gialla un odio implacabile che sfogò chiudendo la
nuora in una stanza, picchiandola e maltrattandola, anche se era madre di una
figlioletta di pochi mesi.
Maria Gentile allora si era rifugiata dal padre dove era rimasta per cinque mesi. Poi
però, indotta dall’arciprete, era tornata alla casa del marito e della suocera dove aveva
subito ogni sorta di maltrattamenti ed aveva vissuto di stenti per cinque o sei anni,
senza che i familiari le fornissero gli alimenti; per mangiare aveva dovuto arrangiarsi
con la dote datale dal padre, ma poiché questa non era sufficiente aveva dovuto
integrarla andando a servizio dalle donne del paese. Il castagneto e le capre che erano
stati promessi da don Antonio Nanni se li godeva Lorenzo, che glieli aveva sottratti
con la violenza. Ogni tanto Maria Gentile tornava dal padre e anche quando stava a
casa del marito viveva separata da lui. Nel 1739, Lorenzo e e sua madre Domenica
l’avevano addirittura cacciata e il suo stesso confessore le aveva consigliato di
rifugiarsi a casa dei suoi. Poi però confessore e arciprete si erano di nuovo intromessi
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come paceri e l’avevano convinta a perdonare il marito, che glielo aveva fatto
chiedere perché per la sua condotta gli veniva negata l’assoluzione, ma una volta
ricomposto il nucleo familiare agli occhi del paese ed essendo per questo stato
riammesso ai sacramenti, Lorenzo, istigato dalla madre, l’aveva cacciata ancora una
volta dal letto coniugale e Maria Gentile era stata costretta a dormire presso il
focolare.
Neppure dopo la morte della madre Lorenzo aveva più voluto che la moglie
dormisse con lui. Il maggiore dei suoi figli soffriva nell’assistere ai maltrattamenti
inflitti alla madre e un giorno le aveva detto che il padre stava fuori tutta la notte,
cosa che alla poveretta causò sofferenza – come diranno in seguito molti testimoni
era malgrado tutto innamorata del marito – e nuovi litigi tra i due, tanto da indurre il
marito a tentare di liberarsi della moglie. Nell’agosto 1740 Lorenzo, dopo averla
attirata nel letto coniugale per sviare i suoi sospetti e farle credere in una
riconciliazione, aveva tentato di avvelenarle la minestra col mercurio ma Maria
Gentile aveva sentito in bocca una pallina e l’aveva sputata. La sera dopo Lorenzo ci
aveva riprovato mettendole il mercurio nel riso, ma lei se ne era accorta ugualmente e
non aveva mangiato. Anche quella sera erano andati a letto insieme ma poi avevano
litigato e lui l’aveva cacciata; secondo il suo racconto Maria Gentile aveva allora
recuperato il piatto di riso e gli aveva fatto vedere le palline di mercurio,
rinfacciandogli i suoi tentativi di ucciderla. La prova del fallito avvelenamento era
stata mostrata anche a una vicina, Domenica Marconi, e di tutto quanto era accaduto
la sera prima e nei giorni precedenti era stato messo al corrente lo zio Nicolò Nanni.
Lorenzo non si era dato per vinto e il 10 di settembre 1740 aveva messo del
mercurio in un piatto di lasagne. Maria Gentile, allora, dopo aver ancora una volta
scoperto l’argento vivo nel piatto e averlo mostrato al marito lo supplicò di
risparmiarla. Lui aveva promesso, purché la cosa non si fosse saputa in giro,
altrimenti le avrebbe sparato; poco tempo dopo però lui l’aveva citata davanti al
vicario foraneo, incolpandola di adulterio e furto, e lei allora aveva rivelato tutti i
tentativi di avvelenarla a cui era scampata: «Io intanto mi sono indotta a porgere
questa relatione contro mio marito dall’haver sentito che lui non si è vergoniato
d’imputarmi falsamente nel honore se bene io sia innocente né mai gli habbi fatto
alcun torto potendo io giurare davanti il Signore di non haver mai consciuto altro
uomo che lui havendo io più che probabile fondamento che esso habbia pratiche con
più donne, lo che penso si sappia anche per la parochia, che è quanto io ho da riferire
a Vostra Signoria per la pura e giusta verità implorando giustizia ed obligandomi
presentarmi dove potessi essere chiamata dalli Superiori».
Tra questa sofferta denuncia e la sua morte Maria Gentile si fece di nuovo
convincere dal marito, addirittura scappando dalla finestra dalla casa del padre, dove
si era rifugiata, per seguirlo a Bologna dove siglò il 5 luglio 1741 una dichiarazione
giurata, a scarico della sua coscienza. «Spontaneamente» confessò di essere stata
«erroneamente sedutta nel mese di novembre del prossimo passato anno 1740 a
portarsi alla Pieve delle Cavanne e colà esaminarsi d’avanti il signor Matteo Vivarelli
notaio bolognese alla presenza del signor arciprete delle Cavanne e in tale esame
asserire che detto Lorenzo Brizzi di lei marito abbia tentato di appropinarla il veleno
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sotto diverse circostanze di tempo, modo e qualità». In nessuno di questi casi poteva
affermare con certezza che il tentativo di avvelenamento ci fosse stato: «non ha
oltrepassato la linea di mero sospetto, a niun vero e real fondamento appoggiato, ma
solamente machinato e per diabolica ispirazione persuaso alla medesima Maria
Gentile da alcune femine verso il predetto di lei marito maligne». Dunque Maria
Gentile si era indotta ad indicare nelle voci malevole contro suo marito l’origine della
sua gelosia e delle sue paure. «Di maniera che tal sospetto, educato poi e coltivato da
continui susurri di dette femine e loro aderenti è stato causa che essa Maria Gentile
abbia concepito avversione ed odio contro detto di lei marito e che con esso siano
insorte liti ed amarezze per le quali essa Maria Gentile siasi separata totalmente da
detto di lei marito e levata dalla di lui casa».
Il rinvenimento del cadavere di Maria Gentile, otto mesi dopo, fece di nuovo
circolare quelle voci e da Granaglione furono spedite due lettere, una delle quali
firmata dallo zio della donna, Nicolò Nanni; da lui veniamo a sapere che c’era stato
un altro tentativo di avvelenamento dopo la dichiarazione di Maria Gentile che aveva
scagionato il marito; si era verificato durante le feste del Natale 1741, e si diceva
questa volta che fosse stato compiuto da Maria Maddalena, sorella di Lorenzo, che se
ne era andato in Maremma per fabbricarsi un alibi. Gentile era stata indotta da varie
persone a ritornarsene con lo stesso Lorenzo e una volta tornata fu poi «da esso
maltratata e con farla patire de fame e molte volte bastonandola a tal segno che fra
queste una volta li ruppe le braccia. Nelle feste poi prossime passate del Santissimo
Natale essa Gentile fu mandata alli Bagni della Poretta dalla Madalena sorella di
detto Brizzi».
La cognata le aveva dato da portare con sé «due libre di carne di porco, quale poi
cotta la prima volta non li fece male alcuno e la seconda volta mangiandone prima lei
fu per morire» e con lei altre sette persone della sua famiglia ma anche quella volta si
salvarono tutti. Dopo che si erano divulgate le voci di tanti tentativi di ucciderla, era
difficile pensare che la morte di Maria Gentile fosse stata accidentale o un suicidio,
anche perché quando era stata trovata annegata, il 7 marzo 1742, aveva la bocca
chiusa. L’accusa del paese fu corale: «Tutti poi gridano vendetta di tal fatto e dicono
che tanto essendo certi i delinquenti di questo caso teribile e tremendo» non
avrebbero potuto sfuggire alla giustizia.
Lasciamo per ora Maria Gentile sotto gli occhi del chirurgo di Bagni della
Porretta, Francesco Costa, che fece l’autopsia del cadavere e confermò che a suo
parere la donna aveva troppa poca acqua nei polmoni per essere morta affogata, e
occupiamoci di un altro personaggio chiave della storia, don Antonio Nanni. Per
capire in quali relazioni fosse con Maria Gentile occorre fare un passo indietro, al 18
dicembre 1740, quando il vicario foraneo, l’arciprete di Cavanne Paolo Campoleoni,
aveva scritto su don Antonio al vicario generale Francesco Cotogni, comunicandogli
che il prete aveva avuto un maschio e due femmine da una donna, la suocera di Maria
Gentile, Domenica Brizzi, che era morta non molto tempo prima. Don Antonio aveva
sempre esercitato la sua autorità sui suoi figli, Lorenzo, Maria Maddalena e Maria
Brizzi e sui figli di Lorenzo e Maria Gentile, suoi nipoti, esibendo pubblicamente la
sua parentela di sangue. Si disse che per odio nei confronti della nuora era stato lui a
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istigare il figlio affinché l’accusasse di adulterio con Giuliano Taruffi e con altri.
Campoleoni chiedeva che il prete, oggetto di scandalo e mormorazioni per tutto il
paese da anni, fosse costretto a rimanere in città finché non si fosse ravveduto e la sua
indecente condotta non avesse cessato di turbare le coscienze dei paesani.
Non bastava. Quando era morta Domenica, con la quale aveva vissuto per
quarant’anni, il vecchio don Antonio, nonostante avesse sessantasei anni, l’aveva
sostituita con una giovane donna, Giovanna Mattioli, vedova Gualandi. Un processo
era stato avviato presso il tribunale arcivescovile fin dall’ottobre 1740, quindi la
lettera di Campoleoni che esprimeva il suo sdegno per la condotta di don Antonio
non faceva che confermare le notizie sulla sua condotta sessualmente sfrenata che gli
inquirenti stavano raccogliendo. Giovanna, che aveva ventinove anni, era venuta via
dal paese per partorire una bambina a Bologna, dove a pagarle le spese sia per il parto
sia per la collocazione della piccola illegittima nel brefotrofio – chiamato a Bologna
ospedale dei Bastardini – che ammontarono a 5 lire, fu il vecchio don Antonio.
Il 25 gennaio 1741 Paolo Campoleoni aveva scritto di nuovo da Cavanne su don
Antonio Nanni e sulla tresca con la giovane vedova che aveva accompagnato a
Bologna e che si diceva apertamente che avesse ingravidata. Il 24 aprile successivo il
vicario generale aveva dato mandato di celebrare il processo informativo all’arciprete
Campoleoni, che in qualità di vicario foraneo operava per il foro ecclesiastico come
giusdicente in loco; quando gli elementi fossero stati sufficienti per consolidare un
sospetto ma non abbastanza per un’accusa, il vicario generale poteva mandare
cavalcate dal foro arcivescovile - così come venivano inviate dal foro laico - come
successe anche in questa vicenda. Per il momento era compito del vicario foraneo
raccogliere più indizi possibili interrogando insieme ad un notaio tutti quanti in paese
potevano essere informati della condotta di don Antonio. Il 6 maggio 1741
Campoleoni scrisse: «Caro mio signore in questi paesi stretti scandali di tal natura
che vengono da persone a Dio consegrate può figurarsi che male orribile cagionano
nelle anime, agionga lei un continuo di tant’anni, di modo che finita una prattica
invece di finirla ne cerca un’altra», cioè morta Domenica aveva iniziato la relazione
con Giovanna.
Secondo il vicario foraneo c’erano abbastanza elementi perché Carl’Antonio
Vannicelli, l’uditore criminale della curia arcivescovile, procedesse dando mandato al
vicario foraneo di dare inizio all’escussione dei testimoni. Gli interrogatori di
Campoleoni, rispetto a quelli raccolti per conto del tribunale criminale del Torrone
dai suoi ufficiali in cavalcata, lasciano margini di discrezionalità al vicario foraneo;
infatti il confine tra testimonianza giudiziale e confessione al direttore spirituale
sembra essere incerto: nella sua lettera scrisse infatti che un altro grave sospetto sul
prete, oltre a quelli che si apprestava ad elencare, lo teneva chiuso nella sua
coscienza. Espose poi quelli che gli sembravano elementi certi dell’esistenza di una
tresca fra don Antonio e la giovane vedova. In primo luogo c’era chi affermava che il
rapporto fosse iniziato quando viveva il marito di lei, Amedeo Gualandi. Si sarebbe
poi interrotto per un breve periodo, durante il quale Giovanna aveva accompagnato
Amedeo in Maremma. Là, come molti montanari, era morto; la vedova era tornata a
Granaglione e aveva ripreso a frequentare don Antonio. Testimone «quasi» oculare
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della relazione era don Lorenzo Nanni, nipote del prete (lo rincontreremo), che aveva
cominciato ad avere dei sospetti due anni prima, quando aveva visto la donna tornare
dalla canonica all’alba. Molti altri testimoni che erano disposti a confermare sotto
giuramento le voci raccolte in paese non potevano definirsi neppure
approssimativamente testimoni oculari. Per sentito dire riferirono che correva voce
che don Antonio fosse il padre della bambina della vedova Gualandi aggiungendo
che tutte le donne che capitavano a casa del prete venivano insidiate.
Il processo tornò a Bologna e Giovanna fu interrogata davanti all’uditore criminale
arcivescovile Vannicelli per due volte e alla seconda, il 20 luglio 1741, ammise di
avere avuto una relazione carnale col prete ma questi, interrogato a sua volta, negò
ogni responsabilità della sua gravidanza. Sentito nuovamente l’11 agosto 1741, disse
di non aver potuto metterla incinta perché Giovanna era a Bologna, lontana da lui,
nove mesi prima del parto. Don Antonio sostenne che in paese tutti gli volevano
bene, tranne i suoi parenti perché volevano mangiargli tutta la sua roba e avevano
diffuso calunnie su di lui. A don Antonio venne ingiunto di non allontanarsi da
Bologna e di non frequentare Giovanna pena la sospensione a divinis e la relegazione
nel castello di Ferrara per cinque anni
6. Il foro laico
Il 14 marzo 1742 Matteo Maria Vivarelli, notaio a Granaglione, aveva scritto al
posto del massaro, analfabeta, che l’ostessa Maria Antonia, vedova di Marco
Vangelisti, Pellegrina moglie di Nicolò Trombelli, e Rosa moglie di Domenico
Vangelisti avevano dichiarato «non essersi altrimenti la detta Gentile annegata di se
stessa ma che ella fu anegata dal mentovato Giovanni Lorenzo Brizzi di lei marito,
dalla Madalena di lui sorella» e con il concorso di Pietro Antonio Agostini di Casio.
Il massaro aveva interrogato le donne che avevano esposto cose più o meno simili a
quelle denunciate nelle due informazioni che erano state inviate dall’accusatore
anonimo e da Nicolò Nanni, zio di Maria Gentile. Malgrado queste denunce,
passarono due mesi prima che il procedimento nel foro laico si avviasse. E da tempo
ormai il corpo della povera donna era stato sepolto. Fu quindi necessario, per
acquisire elementi sulle cause della sua morte, interrogare il 16 maggio 1742
Francesco Costa, il chirurgo montanaro che aveva sezionato il cadavere,
convocandolo a Bologna, nel foro criminale del Torrone, davanti al sottuditore
Ceccarelli. Fu pertanto impossibile procedere come di solito operava il tribunale del
Torrone, cioè con la ricognizione del cadavere e la verifica del corpo del reato da
parte di un notaio o di un sottuditore con due chirurghi designati dal tribunale stesso
per constatare la morte e accertarne le cause. La verifica formale del corpo del reato
costituiva l’avvio obbligato dei procedimenti per morti violente e serviva a definire la
fattispecie criminale, mentre i passi successivi dovevano stabilire chi fosse
responsabile di quel reato specifico, ricostruendo le modalità con cui si era svolto il
fatto delittuoso e quali indizi potessero servire a identificare un colpevole,
verificando alibi e moventi.
Passò ancora un certo lasso di tempo e l’11 giugno 1742 il sottuditore Antonio
Almerighi, che fino a quel momento era stato impegnato a indagare su un altro delitto
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che si era verificato sempre in montagna, a Tolè, ricevette il mandato dall’uditore
Antonio Passeri - che si era consultato in proposito con il legato, cardinale Giulio
Alberoni - affinché si recasse in cavalcata a Granaglione per far luce sulle circostanze
della morte di Maria Gentile. Almerighi doveva procedere a verificare le prove
estistenti contro il marito della vittima, il principale indiziato, ma anche, come voleva
la formula di rito, «contro chiunque dovesse essere trovato colpevole» a seguito delle
indagini. Dal 12 al 14 di giugno il sottuditore procedette a numerosi interrogatori
extragiudiziali. Si trattava di una pratica che era stata apertamente introdotta negli
ultimi decenni e registrata sui fascicoli processuali come attività preliminare agli
interrogatori formali, con giuramento del testimone; serviva a capire come orientare
le indagini e a sondare la consistenza delle prove che potevano essere raccolte dalle
deposizioni ufficiali a sostegno della tesi accusatoria. Ad Almerighi gli elementi certi,
a parte le voci malevole che non mancarono di arrivare alle sue orecchie, non
dovettero sembrargli sufficienti per un’incriminazione se sentì il bisogno di
sospendere la cavalcata, lasciare Granaglione e recarsi a Bologna per consultarsi con
il suo superiore, l’uditore Passeri. Maria Maddalena Tombelli, sorella di Lorenzo
Brizzi, venne comunque carcerata e trasferita alle carceri del Torrone. Il fratello si era
dato alla macchia prima dell’arrivo di Almerighi e restò latitante anche in seguito.
Il 20 giugno il bargello riferì all’uditore di aver saputo che al momento della morte
di Maria Gentile si era sparsa la voce che il delitto fosse stato commesso da Pier
Antonio Agostini di Casio per mandato di Lorenzo Brizzi e con la complicità di sua
sorella Maria Maddalena: avvertito da un informatore sui suoi spostamenti, il
bargello aveva sorpreso e aveva arrestato Agostini fin dall’8 giugno, prima ancora
dell’arrivo della cavalcata a Granaglione, e successivamente lo aveva trasferito nelle
carceri del Torrone. Il 21 giugno, il sottuditore Almerighi interrogò il prigioniero che
alla domanda rituale sul suo mestiere rispose che era gargiolaro, cioè lavorava la
canapa. Lo stesso giorno fu interrogata anche Maria Maddalena Brizzi, moglie di
Francesco Tombelli, la quale disse che la madre era morta – si trattava, come
sappiamo, di Domenica la Gialla - e che suo padre era soldato nel granducato di
Toscana; la sorella Maria era invece sposata con uno stalliere che stava a servizio a
Bologna, e viveva separato da lei. Disse di conoscere Agostini che invece aveva
negato di conoscere lei.
Il 5 luglio Maria Maddalena fu di nuovo interrogata. Veniamo a saper che era
giovane - disse di avere ventiquattro anni – e che per questo non pretendeva di non
ricordare quando il fratello si era sposato con Maria Gentile, perché all’epoca era una
bambina (doveva avere circa otto anni). L’età dei congiunti e anche la propria veniva
dichiarata con molta approssimazione dai contadini del tempo, così come erano vaghi
i riferimenti cronologici a qualsiasi evento della propria vita. Se effettivamente Maria
Maddalena aveva ventiquattro anni nel 1742, allora doveva essere nata nel 1718.
Sulla data del matrimonio le dichiarazioni di Maria Gentile e di suo zio Nicolò Nanni
non corrispondono: secondo la donna le sue nozze erano state concluse nel 1726,
secondo lo zio nel 1727 o 1728. Per accertare l’età di Maria Maddalena al momento
della celebrazione del matrimonio abbiamo dunque dei riferimenti cronologici un po’
oscillanti ma anche se la data fosse stata effettivamente il 1726, come è probabile,
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comunque Maria Maddalena all’epoca non era poi così piccola come pretendeva. Del
resto, era abbastanza matura per ricordare che la cognata aveva avuto in dote dal
padre un castagneto del valore di circa 800 lire. Maria Maddalena disse poi che i figli
di suo fratello Lorenzo e di Maria Gentile erano due maschi, uno di circa dodici anni
e l’altro di otto: dunque la neonata che Maria Gentile diceva di aver tenuto tra le
braccia mentre la suocera la percuoteva doveva essere morta in fasce. I due figli
stavano a Bologna a studiare a casa di un certo Pietro Antonio Nanni, del quale non
sappiamo se fosse in rapporto di parentela con Maria Gentile, o con don Antonio, o
con tutti e due; dunque non era vero, secondo Maria Maddalena, che i due ragazzi
fossero stati allontanati dalla madre perché non assistessero alla sua uccisione, come
si diceva in giro. Quanto ai rapporti tra il fratello e la cognata, Maria Maddalena
confermò che erano burrascosi e che i due litigavano sempre. Interrogata sulle
presunte responsabilità di Lorenzo nella morte della moglie, Maria Maddalena
rispose che quando era stato trovato il cadavere lui era lontano dal paese, in
Maremma.
Pier Antonio Agostini, interrogato una seconda volta, disse di conoscere «qualche
poco la lettura stampata» ma di non saper scrivere, cosa che sembrava rendere
difficile che lui e Lorenzo, mentre questi era lontano da Granaglione, si fossero tenuti
in contatto mediante rapporti epistolari e che avessero potuto prendere accordi per
eliminare Maria Gentile. Almerighi lo stesso giorno ripartì in cavalcata, dopo aver
ricevuto dal legato Giulio Alberoni, l’8 luglio, le facoltà necessarie per interrogare
non solo Pellegrina Tambelli, suocera di Maria Maddalena, «ma ancora qualunque
altro congiunto de delinquenti, accioché per dificoltà di prova non resti impunito il
loro reato». Dunque, si trattava di un caso difficile, in cui per l’accertamento degli
addebiti mancavano elementi di fatto e in cui era necessario derogare dal principio
che non fosse opportuno interrogare i parenti del sospettato. Il 9 luglio la cavalcata
arrivò a Granaglione e il sottuditore e un notaio si installarono nella casa di un
notabile del luogo, Giovanni Antonio Lorenzini, che parve alla corte itinerante una
sede più consona dell’osteria del paese. Era infatti una pratica comune per la corte
itinerante quella di installarsi nelle osterie della comunità nella quale si svolgeva la
cavalcata per procedere agli interrogatori e anche carcerare i sospetti o i testimoni.
Questi ultimi potevano venire trattenuti se erano sospettati di essere reticenti oppure
se le loro dichiarazioni, particolarmente importanti per l’inchiesta, li esponevano al
rischio delle rappresaglie degli accusati o dei loro parenti.
L’ospitalità offerta alla corte era dunque un fatto non consueto che rivela la
partecipazione di tutta la comunità agli sviluppi del caso e per una volta l’arrivo di
sbirri e ufficiali del Torrone sembra essere stato atteso e non subito come una
interferenza esterna nei rapporti locali. Tutto il paese sembrava disposto a parlare per
rendere giustizia alla povera vittima.A distanza di mesi, si cercava di ricostruire le
circostanze del rinvenimento del corpo e il 10 luglio furono interrogati i due testimoni
che avevano assistito all’autopsia fatta da Francesco Costa, i quali affermarono che il
chirurgo aveva trovato poca acqua nei polmoni e invece aveva riscontrato un segno
bluastro nel collo della vittima e il viso, solitamente pallido e delicato, tutto arrossato.
Il massaro Giovanni Taruffi, che si trovava sul luogo quando il corpo di Maria
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Gentile Gentile era stato ripescato presso il mulino di suo zio Nicolò Nanni, raccontò
le circostanze del ritrovamento. Parlò inoltre della voce pubblica che si era sparsa
immediatamente e che individuava il colpevole nel marito per mano di Agostini e con
la complicità della sorella. Alla richiesta che precisasse meglio quali fondamenti
avesse l’opinione diffusa tra la gente, Taruffi rispose che era notorio che Lorenzo e
Maria Gentile, fin dai primi tempi del loro matrimonio, non avevano mai avuto pace,
che il marito aveva ripetutamente tentato di somministrare il mercurio alla moglie
d’accordo con la sorella e che per mano di essa aveva tentato di avvelenare con carne
di maiale anche sua suocera Maria Caterina e altri della famiglia della moglie a Bagni
di Porretta.
Taruffi aggiunse poi un particolare che non era emerso chiaramente a proposito del
matrimonio che si era celebrato nel 1726, quando Maria Gentile aveva vent’anni, e
del legame che allora si era creato tra lei e don Antonio: Domenica, moglie di
Antonio Brizzi, detta la Gialla, era «amica» – cioè amante - di don Antonio Nanni:
tutti sapevano che Lorenzo Brizzi e le sue due sorelle erano figli bastardi di don
Antonio e di Domenica, il cui marito non viveva con lei ma faceva il soldato a
Livorno. Confermò quanto aveva dichiarato Maria Gentile mentre era in vita, e cioè
che i missionari, che erano andati a Granaglione alcuni anni dopo il matrimonio fra
Lorenzo e Maria Gentile, avevano cercato di indurre Domenica ad allontanarsi dal
paese per far cessare lo scandalo della sua relazione col prete e ad andare dal marito
Antonio a Livorno, processandola presso la curia arcivescovile di Bologna. Taruffi
disse però che correva voce che l’intervento dei missionari nei confronti della suocera
fosse stato richiesto da Maria Gentile stessa e che da qui fosse nato l’odio tra i
coniugi.
Elisabetta, moglie di Giovanni Taruffi, interrogata a sua volta, confermò che sia
Lorenzo sia Maria Maddalena erano figli bastardi di Domenica la Gialla e anche lei
riportò la voce che la tresca del prete fosse stata denunciata ai missionari dalla
giovane sposa, forse in odio alla suocera, forse per gelosia del marito che aveva molte
amanti e un legame regolare con una parente, Domenica Macciantelli. Per la prima
volta veniamo a sapere qualcosa sull’aspetto fisico di Maria Gentile, definita «gracile
e vistosa», delicata e bella, tanto che il chirurgo Francesco Costa, quando aveva
esaminato il suo cadavere, malgrado le tracce della morte violenta sul suo viso, le
aveva attribuito 30 anni, mentre sappiamo che ne aveva trentasei. La donna era anche
virtuosa e la sua fama di donna casta non era mai stata offuscata, nemmeno quando il
marito era lontano, in Maremma e, a differenza di molte compaesane che
intrecciavano relazioni coi pochi uomini rimasti nella comunità, anche preti, si
manteneva rigorosamente fedele al marito.
Molti altri testimoni confermarono le parole di Elisabetta, tra i quali Marco Taruffi
che disse: «Se Vostra Signoria interrogherà tutto il paese di Granaglione sentirà
essere sempre stata una donna da bene di bon parentado e quieta che nessuno ha mai
potuto dire di lei, benché da suo marito sia sempre stata così maltrattata, perché non li
piaceva vederlo con certe prattiche, che per quanto si dice li conduceva fino in casa, e
particolarmente la Domenica Macciantelli». Dunque la donna rinfacciava al marito le
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sue «prattiche», le sue frequentazioni con altre donne, e questi reagiva malmenandola
e, a quanto si diceva, portandole in casa la sua «amica» prediletta.
Pellegrina Brizzi, vedova di Carlo Marconi, disse che il marito non la manteneva e
quando andava via non le lasciava il denaro per vivere; per questo Maria Gentile per
guadagnare qualche cosa doveva adattarsi anche a lavori pesanti e inadatti al suo
fisico esile: «andava a far legna», portava «lastre sulle spalle a muratori». Come altri
testimoni, Marco Taruffi disse che Lorenzo Brizzi era tornato dalla Maremma ma per
non farsi catturare dagli sbirri era rimasto entro i confini del granducato, a Pavana.
Per trovare elementi che confermassero le accuse di complicità in omicidio che da
molte voci erano rivolte a Maria Maddalena Brizzi, il sottuditore si avvalse della
facoltà concessagli dal legato di interrogare parenti stretti degli accusati e convocò
sua suocera Pellegrina, moglie di Nicolò Tombelli, la quale (come altri testimoni)
disse di aver visto Maria Maddalena in compagnia di Maria Gentile poco prima che
fosse trovata morta. Disse anche che Pier Antonio Agostini era amico della nuora e
del fratello di lei e dunque rafforzò i sospetti che potessero aver ordito insieme un
piano per eliminare la moglie di Lorenzo. La sua antipatia per la nuora, che in altri
interrogatori avrebbe manifestato più apertamente, la portava ad insinuare nella
mente dei giudici che avesse tentato di avvelenare Maria Gentile con la carne di
maiale, come si mormorava in paese.
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7. Confini superabili e prove vacillanti.
Il giorno successivo il caporale degli sbirri comunicò al sottuditore Almerighi di
aver arrestato sul territorio di Bagni di Porretta l’oste di Pavana, comunità nel
territorio del granducato di Toscana, ma a pochissima distanza da Granaglione. La
cattura dell’oste a Bagni di Porretta dovette essere fatta previo accordo con il
governatore del feudo per conto dei nobili bolognesi Ranuzzi, che consentirono agli
sbirri della Legazione di entrare nella loro giurisdizione. L’uomo non era accusato di
nulla ma venne fermato come testimone chiave. Nella sua deposizione disse che
Brizzi, descritto come un «giovanotto», aveva alloggiato alla sua osteria dove erano
andati a trovarlo Maria Maddalena e Agostini, poco tempo prima del rinvenimento
del corpo di Maria Gentile, cioè quando, secondo l’alibi dichiarato, avrebbe dovuto
trovarsi in Maremma.
Per verificare questo punto cruciale il sottuditore Antonio Almerighi interrogò
Matteo Andrei, di Granaglione, che era stato in Maremma da Ognissanti dell’anno
precedente ai primi di giugno 1742; Andrei disse che era con Lorenzo Brizzi quando
a marzo era arrivata la notizia che era annegata sua moglie. Brizzi lavorava ad una
carbonaia e Andrei lo aveva raggiunto là per informarlo. Aveva perciò colto la sua
reazione ed era in grado di riferire le parole che aveva detto: «Se mia moglie avesse
fatta una buona morte avrei volsuto fare un festino». Come a dire che si augurava che
non avesse sofferto e che fosse morta in grazia di Dio e che lui, per conto suo, non
aveva che da festeggiare la riacquistata libertà. Andrei affermò inoltre che
ultimamente lo aveva visto girare in paese armato di schioppo e pistole a bere a casa
di Francesco Tombelli, nonostante fosse latitante nel granducato.
Pavana Pistoiese e Granaglione erano divise da un confine facile da attraversare e
da poco più di un chilometro in linea d’aria: stare al di qua di quel limite immaginario
garantiva impunità e impediva alla giustizia pontificia di arrestare Lorenzo sul
territorio del granducato, ma quelle stesse barriere potevano allentarsi ed essere
varcate col favore delle tenebre, con la dimestichezza dei sentieri di montagna, con la
complicità degli amici, per tornare temporaneamente a casa. Francesco Tombelli, che
fu a sua volta interrogato, era cognato di Lorenzo e marito di Maria Maddalena e
confermò che, al tempo della morte di Maria Gentile, Lorenzo era con lui in
Maremma. Dopo vari interrogatori che avvalorarono la brutalità di Brizzi nei
confronti della moglie – era arrivato a fracassarle le ossa – e la gelosia di lei, che
sembrava essere una delle cause scatenanti quella violenza, il 17 luglio il sottuditore
interrogò Nicolò Tombelli, padre di Francesco e suocero di Maria Maddalena Brizzi.
Questi disse che la nuora il 7 marzo lo aveva pregato di andare di notte in Maremma
a farsi fare gli attestati che Lorenzo si trovava là al momento della morte della moglie
e per questo gli aveva dato 10 paoli (pari a uno scudo, o a 5 lire) e una lettera per il
fratello.
E’ una testimonianza molto compromettente perché la richiesta era stata fatta a
poche ore di distanza dal momento in cui presumibilmente era morta Maria Gentile.
Il suocero di Maria Maddalena avrebbe dovuto farsi dare delle «fedi» dalle autorità
del luogo (nel Grossetano) in cui si trovava Lorenzo che dimostrassero che non si era
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mai mosso di lì e gli costituissero un alibi. Un alibi a Pier Antonio Agostini lo fornì
Sabattino Presi di Casio: la sera del 6 marzo, quando era morta Maria Gentile, era a
veglia da lui e quindi non poteva essere l’esecutore materiale dell’omicidio. Un altro
compaesano di Agostini, Francesco Presi, disse che tempo prima, quando si erano
sparse le voci del complotto fra Lorenzo, Maria Maddalena e Pier Antonio, era stata
chiesta una fede che Agostini era effettivamente a veglia. Fra chi avvalorò l’alibi di
Agostini ci fu anche don Benedetto Altogradi, canonico regolare lateranense e
parroco di Casio.
Il sottuditore interrogò poi Maria Caterina, vedova di Ludovico Nanni, madre di
Maria Gentile, la quale disse che dal 1726 «per opera di un certo signor don Antonio
de Nanni da Lusara maritai in Lorenzo Brizzi e che essendo stata continuamente
maltrattata detta mia figlia stiede pochi mesi in pace col nominato suo marito». Disse
che Lorenzo era figlio bastardo di don Antonio e che le accuse fatte a lui e a
Domenica la Gialla quando erano andate le missioni in montagna erano state
ingiustamente attribuite a sua figlia la quale fu talmente «presa in odio» da Lorenzo e
da don Antonio, «che la poveretta non poteva più vivere quieta», era stata bastonata,
il marito le aveva portata in casa Domenica Macciantelli e aveva peccato con lei
praticamente sotto i suoi occhi. Nel 1740 aveva tentato tre volte di ucciderla col
mercurio. Erano stati rappacificati dalla corte arcivescovile, ma invano. Lorenzo era
poi partito per la Maremme e poco dopo Maria Maddalena aveva tentato di
avvelenare Maria Gentile con la carne di maiale. E’ la prima testimone che accusa
apertamente don Antonio di essere stato l’istigatore del figlio nella persecuzione della
moglie e nella sua soppressione. Poiché il processo è condotto da rappresentanti del
foro laico il notaio, quando riporta le parole della donna contro il sacerdote, non
trascrive il suo nome (non lo potrebbe fare senza esplicita licenza del foro
arcivescovile) ma lo indica come persona non nominata.
La cavalcata si concluse il 19 di luglio. Oltre un mese dopo, il 29 agosto 1742, il
sottuditore – questa volta in Torrone - interrogò di nuovo Maria Maddalena, contro la
quale praticamente c’erano le accuse di tutto il paese. L’interrogatorio fu lunghissimo
ma la donna non ammise nessuna responsabilità nella morte della cognata. Gli
inquirenti erano molto incerti e i tempi del processo rallentarono. Per accertare le
responsabilità di Maria Maddalena, il 13 settembre furono sentiti due periti
tossicologi che dalla sola descrizione dei sintomi riportati dalle parole dei testimoni
(vomito, diarrea ed altro), in mancanza del corpo del reato (la carne di maiale),
dovevano pronunciarsi sulla possibilità che Maria Gentile fosse stata avvelenata dalla
cognata. I periti non se la sentirono di esprimersi con sicurezza, affermando che la
carne di maiale avrebbe potuto produrre simili effetti anche senza che fosse stata
avvelenata.
Il 20 ottobre Antonio Almerighi interrogò di nuovo Maria Maddalena Brizzi
Tombelli alla quale vennero contestati gli elementi su cui la corte si fondava per
incriminarla: i capi d’accusa erano l’odio che portava alla cognata e la sua
incondizionata parzialità per il fratello; le trame occulte che qualcuno aveva
orecchiato dalle imposte chiuse della sua casa e che avevano coinvolto lei, Lorenzo e
Pier Antonio Agostini; il malessere che aveva colpito Maria Gentile e ai suoi parenti
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a Bagni della Porretta dopo che avevano mangiato carne di maiale; la sua possibilità
di accedere alla casa del fratello e della cognata per mettere il veleno. Le prove e gli
indizi, tuttavia, non erano solidissimi: un esame del cadavere descritto a distanza di
mesi dalla sepoltura; una perizia sull’autopsia di un chirurgo non nominato dal
tribunale; l’esclusione di una caduta accidentale in acqua, come si era potuto
accertare da un sopralluogo sul teatro dell’incidente che aveva constatato la presenza
di un muro di protezione; il ritrovamento di un pezzo di rocca per filare bruciata dopo
il presunto delitto poco lontano dallo stesso luogo (la rocca apparteneva a Gentile e
l’avrebbe avuta in mano quando era stata attirata fuori casa dalla cognata).
Si contestava poi alla donna il suo odio per Maria Gentile; si accusava Maria
Maddalena di essersi servita della sua figlioletta per andare a chiamare la vittima e
indurla a uscire senza sospetti; di aver orchestrato con cura la messinscena di un
invito a cena (alcuni testimoni avevano specificato che Maria Maddalena si era
procurata gli ingredienti con un giorno di anticipo e quindi l’invito non era
estemporaneo come pretendeva lei). Che non fosse stato un impulso improvviso lo
dimostrava anche il fatto che Maria Maddalena non aveva partecipato come al solito
alla veglia nella casa di Antonio Mellini, suo vicino e che Maria Gentile non fosse
uscita di casa per andare volontariamente ad annegarsi lo dimostrava un testimone
che l’aveva vista attraversare il fosso confinante con l’aia della sua casa, dopo aver
lasciato la via diretta per andare al mulino. La testimonianza di Margherita
Macciantelli aveva accertato che vicino alla casa di Maria Maddalena, dove si era
diretta Maria Gentile, forse stupita dell’invito, c’era un uomo appostato (Agostini? La
testimone non poteva affermarlo con certezza).
Come sempre, giocava un peso non indifferente nel dirigere i sospetti degli
inquirenti e nel rafforzare indizi non del tutto convincenti la «pubblica voce e fama»,
quello che mormorava la gente, che da subito aveva creduto di individuare i
colpevoli. Come vedremo, anche prima di questi fatti la «fama» di Maria Maddalena
non era specchiata e la sua condotta sessuale disordinata, cosa che l’aveva resa
incompatibile con la devota cognata. Alle accuse che le vennero rivolte la donna
rispose negando ogni addebito e dicendo «che in sostanza non avendo né tentato né
eseguito la morte di detta mia cognata non crederò di poter essere castigata per
giustizia in alcun conto». Dopo di lei, lo stesso 20 ottobre, fu incriminato anche Pier
Antonio Agostini a cui vennero contestati l’ amicizia con i fratelli Brizzi, la sua
presunta complicità con Maria Maddalena nel tentativo di avvelenamento ed altri
indizi più o meno vacillanti contro di lui.
Il processo accusatorio era concluso e toccava ai difensori vagliare le prove. L’11
dicembre 1742 il procuratore dei poveri, dottor Coralupi, fece la sua comparsa
davanti all’uditore e presentò le sue eccezioni; disse in particolare che non era
provato che un tentativo di omicidio fosse stato compiuto col veleno e che
l’esecutrice fosse stata Maria Maddalena per conto e su istigazione di Lorenzo,
perché tale tentativo di avvelenamento era stato realizzato ben trenta giorni dopo il
presunto abboccamento segreto, dopo cioè quelle parole che qualcuno aveva creduto
di cogliere dalle imposte chiuse della casa di Maria Maddalena dove Lorenzo avrebbe
chiesto ai due di sopprimere la moglie, la notte del 6 dicembre 1741. Non bastava a
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incriminare Maria Maddalena il fatto che avesse la chiave per entrare in casa del
fratello e di sua moglie: il possesso non implicava che l’avesse usata per mettere il
veleno nella carne; inoltre, nessuno l’aveva vista entrare o uscire da quella casa.
Coralupi concludeva richiamando la perizia dei tossicologi e la convinzione,
evidentemente diffusa, che la carne di maiale di per se stessa può far male. Anche lo
strangolamento, di cui sarebbe stato responsabile Agostini, non era provato perché a
suo dire il cadavere non presentava segni di violenza, affermazione difficile da
confermare come da smentire. Questa scrittura di Coralupi prova che anche prima del
1744 era invalsa nella procedura del tribunale criminale la pratica di presentare la
sintesi scritta delle motivazioni difensive, che presumibilmente sarebbero state
sviluppate dai patrocinatori d’ufficio nella congregazione criminale. Una pratica di
cui non c’è traccia fino ai primi anni del Settecento e che si sarebbe stabilizzata negli
anni precedenti alle Costituzioni di Benedetto XIV.
Il cadavere di Maria Gentile l’avevano visto solo un chirurgo di paese e due
testimoni, come lui montanari: il difensore cittadino, dottore in legge, ebbe buon
gioco nel mettere in dubbio che di un omicidio si fosse veramente trattato. Lo stesso
giorno, l’11 dicembre, la causa venne proposta alla congregazione criminale per la
discussione; il collegio giudicante decise che i carcerati dovessero essere rilasciati
perché la loro colpevolezza non era stata provata, ma che «procurandam vere esse
absentis capturam», cioè si doveva cercare di catturare il latitante Lorenzo. Il 30
dicembre l’uditore Antonio Passeri, visto il decreto di non colpevolezza della
congregazione criminale, fece scarcerare Maria Maddalena con la condizione che
giurasse di non vendicarsi dei querelanti (i parenti di Maria Gentile) e dei testimoni
che l’avevano accusata. Una decina di giorni dopo Agostini fu a sua volta rimesso in
libertà e poté tornare a casa alle stesse condizioni.
Lorenzo, sempre assente, verso la metà del 1743 presentò al legato una supplica
nella quale chiedeva di poter tornare per mantenere i suoi poveri figlioletti che senza
il padre erano costretti ad andare elemosinando. Il 9 settembre il legato rispose alla
richiesta di Lorenzo Brizzi, contumace da un anno, con un decreto di grazia alla
condizione che pagasse le spese processuali sostenute dalla corte in cavalcata. La
diaria (il viatico) prevista era all’epoca di 12 lire al giorno, più del salario mensile di
un operaio del filatorio. La cavalcata era durata circa un mese costò quindi a Lorenzo
una discreta somma, che gli fu fatta pagare anche come pena per le sevizie
continuative inflitte alla moglie, sulle quali non sembravano esserci dubbi.
Tecnicamente Lorenzo non era stato imputato né tanto meno interrogato, essendo
contumace, ma chiedendo la grazia aveva ammesso implicitamente la sua colpa:
molti processi per reati anche gravi si concludevano così, con un «accomodamento»
con il legato o, nei casi di omicidio sanzionati con la pena di morte, con lo stesso
pontefice, che si riservava di esaminare caso per caso e concedere o meno la grazia.
Per essere effettiva, la concessione del decreto di grazia richiedeva che i parenti delle
vittime perdonassero il colpevole, gli concedessero una pace stipulata davanti a
testimoni e sottoscritta di loro pugno con la croce, se analfabeti. Lorenzo aveva
faticato ad ottenere il perdono dei parenti di Maria Gentile, in particolare dalla
suocera. Il 29 settembre 1743 l’arciprete Paolo Campoleoni delle Cavanne attestò di
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aver chiesto ripetutamente la pace a Maria Caterina, madre di Maria Gentile, «la
quale mai però m’è stata negata ma fin’ora si è tirata alla longa. Finalmente avendo
fatte numerose instanze per detta pace, la sudetta Maria Catterina il dì 27 del cadente
mese di settembre venne da me e disse che avrebbe fatta la pace al sudetto Lorenzo
purché esse le avesse pagata la spesa fatta alla fu Gentile moglie del sudetto Lorenzo
per anni quattro in circa; secondo, che le avesse pagate un paio di scarpe che la fu
Gentile sudetta levò da una bottega al Bagno della Porretta e che a lei convenne
pagare; terzo, che si obligasse a non passare davanti la sua casa per ogni buon
riguardo eccettuata l’occasione di publiche processioni».
La madre di Maria Gentile per sottoscrivere la pace con il genero chiedeva denaro,
fatto non inconsueto in simili pattuizioni ma di rado documentato così esplicitamente.
In questo caso il denaro era un risarcimento delle spese fatte per mantenere la figlia
nei periodi nei quali era stata costretta a rifugiarsi nella casa paterna e anche il
rimborso di quel paio di scarpe rubate, episodio che fino a questo momento è l’unica
ombra che viene gettata, proprio dalla madre, sulla reputazione di Maria Gentile. Su
questo episodio non sappiamo nient’altro. E’ però da tener presente nel riflettere sulla
fondatezza di alcuni argomenti di parte opposta (e in particolare dell’accusa di aver
rubato in casa a suo tempo rivoltale dal marito) che non si possono pregiudizialmente
liquidare come infondati. Non solo denaro chiedeva Maria Caterina, ma anche che il
genero portasse rispetto per la sua casa e, tranne che durante le processioni, non vi si
avvicinasse, per non stimolare l’odio e il risentimento dei fratelli maschi di Maria
Gentile che, nonostante la pace sottoscritta, avrebbero potuto essere istigati alla
vendetta. Le richieste di Maria Caterina furono accolte e il 18 ottobre 1743 Lorenzo,
esibita la pace, chiese e ottenne dall’uditore Antonio Passeri la chiusura del
procedimento con l’impegno giurato di non offendere i suoi accusatori, cioè Maria
Caterina Nanni e i suoi figli, fratelli di Maria Gentile, e dopo aver versato il denaro
richiesto dalla suocera.
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8. Il foro ecclesiastico.
La cavalcata mandata dalla curia criminale del Torrone era da poco arrivata a
Granaglione quando, l’11 giugno 1742, comparve nella curia arcivescovile di
Bologna il reverendo Annibale, figlio del defunto Ludovico Nanni, per denunciare
don Antonio Nanni, suo lontano parente, come responsabile della morte di sua sorella
Maria Gentile. Il figlio sarebbe stato infatti istigato da lui, per antichi rancori nei
confronti della nuora e perché apertamente parziale nei confronti di Lorenzo,
continuamente in conflitto con la moglie. Fra i testimoni che potevano sostenere la
sua accusa citò Giuliano Taruffi, lo stesso che Lorenzo aveva preteso di aver sorpreso
in flagrante adulterio con Maria Gentile. Il 18 luglio, proprio mentre la cavalcata del
sottuditore Almerighi tornava a Bologna dopo aver esaurito gli interrogatori in paese,
il vicario generale della curia arcivescovile affidò il processo a don Mariano
Vannicelli, sacerdote e protonotario apostolico, che con un notaio andò a sua volta in
cavalcata a Granaglione, scortato dagli sbirri dell’arcivescovado - che agivano
parallelamente alle forze del tribunale del Torrone sia in città sia in contado - perchè,
come fu scritto nel fascicolo processuale che era stato appena aperto, in quei tempi
difficili di guerra, le strade erano infestate da disertori e malviventi. Il 21 luglio
Vannicelli arrivò e si installò in una casa privata a Bagni della Porretta. Qui si
presentò il caporale degli sbirri di montagna che aveva raccolto informazioni in giro
ed aveva saputo che don Antonio era conosciuto in tutto il paese come «uomo
scandaloso, usurario e prepotente il quale voglie far denari su quel d’altri et con
estorsioni de poveri e che principiò fin da chierico una prattica disonesta con la
Domenica Macciantelli la quale poi si maritò in Antonio Brizzi». Nonostante fosse
stato processato dall’arcivescovado, su segnalazione dei padri missionari, aveva
continuato la relazione per quarant’anni, finché la Gialla era morta.
A quanto era stato riferito agli sbirri e agli ufficiali del tribunale del Torrone si
aggiungono nuovi particolari, come se le domande poste da o per conto del tribunale
ecclesiastico inducessero la gente ad essere più esplicita, forse per il timore di
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sanzioni spirituali e forse perché la consuetudine col confessionale rendeva più facile
aprirsi ai sacerdoti o persino ai loro emissari, gli sbirri dell’arcivescovado. Diventa
chiaro così come mai potesse essere notorio per tutto il paese che i figli erano di don
Antonio (la donna non aveva rapporti con altri) e nello stesso tempo formalmente
fossero figli legittimi: quando Domenica si accorgeva di essere incinta faceva venire
a casa il marito per attribuirgli la paternità. La donna aveva avuto così vari figli di cui
i tre sopravvissuti che don Antonio trattava apertamente come propri. Ulteriori
particolari sulla incontinenza sessuale del prete erano stati raccontati al caporale degli
sbirri: dopo avergli attribuito un’insaziabile lussuria - «tenta a mal fare tutte le
donne» - fu riferito che una certa Domenica Mellini tempo addietro si era nascosta
per sfuggirli rimanendo al freddo tutta la notte e si era detto che per questo era morta.
Non basta: aveva messa incinta la moglie di Pietro Lenzi mentre l’uomo era in
Maremma. I mariti, migranti per quasi tutto l’anno, lasciavano delle donne sole che
se volevano trovavano sempre qualcuno disposto a consolarle e don Antonio era tra i
più intraprendenti..
Si era ampiamente parlato di Lorenzo e di Maria Maddalena anche davanti al
sottuditore del Torrone, mentre non si sapeva nulla della loro sorella Maria; il
caporale degli sbirri dell’arcivescovado era però riuscito ad accertare che era sposata
con Antonio Ugolini di Casio, mentre dagli interrogatori del Torrone era stato
nominato genericamente come uno stalliere. Dalla relazione del caporale emerge poi
un altra caratteristica di Maria Gentile: non sapeva tenere a freno la lingua. Quando,
poco dopo il matrimonio, si era accorta della tresca tra la suocera e don Antonio
l’aveva raccontata in giro e il marito e tutti i suoi parenti avevano cominciato ad
odiarla. Don Antonio avrebbe detto allora al figlio che era meglio se l’uccideva e che
poi ci avrebbe pensato lui a riconciliarlo con la giustizia.
Come nella cavalcata del sottuditore Almerighi, venne interrogato il chirurgo di
Bagni di Porretta, Francesco Costa. L’uomo, relativamente giovane ma sicuro del
fatto suo – dichiarò di avere trentanove anni – ripeté con sicurezza che Maria Gentile
non poteva essere morta per annegamento perchè non aveva acqua nei polmoni.
Domenica 22 luglio, dopo aver assistito alla messa, Vannicelli interrogò Maria
Caterina Nanni della quale, come per tutti i testimoni, i fascicoli del foro ecclesiastico
di danno una sommaria descrizione: si trattava in questo caso di una donna di 57 anni
che per vivere filava, tesseva e cuciva. Disse che la divulgazione della relazione e la
segnalazione ai missionari erano state attribuite da don Antonio Nanni a Maria
Gentile e a Ludovico, il defunto marito di Maria Caterina e padre di Maria Gentile,
confermando il motivo dell’astio del prete nei confronti della nuora e dei suoi
familiari: l’avvelenamento con la carne di porco, di cui era accusata Maria
Maddalena, aveva messo a repentaglio la vita di molti di loro.
Dopo aver convocato altri testimoni, su segnalazione del caporale degli sbirri, don
Mariano Vannicelli scrisse al governatore di S. Marcello Pistoiese perché gli fosse
consentito di interrogare Pietro Ferrari, che si trovava sotto la sua giurisdizione. In
attesa di una risposta Vannicelli riprese gli interrogatori dei testimoni, fra i quali
Maria Antonia Lorenzini vedova Vangelisti, che conduceva l’osteria già appartenuta
al marito e che dette una descrizione particolarmente dettagliata del rinvenimento del
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corpo di Maria Gentile, come già aveva fatto davanti ai rappresentanti del foro laico.
Maria Antonia disse di aver visto il cadavere e di aver notato che aveva la faccia
gonfia, il che poteva avvalorare l’ipotesi che Maria Gentile fosse stata strangolata.
L’ostessa confermò quanto già si sapeva sulla vita scandalosa di don Antonio; a
differenza di quanto era stato riferito agli ufficiali del Torrone ai quali erano state
sottolineate soprattutto la vita irreprensibile di Maria Gentile e le violenze che aveva
dovuto subire dal marito e dalla suocera, davanti a don Mariano Vannicelli, giudice
delegato del foro ecclesiastico, viene rappresentata anche la vita dissoluta di
Lorenzo, particolari che avevano turbato le coscienze ma che non avevano trovato il
modo di esprimersi davanti al sottuditore Amerighi, che forse non aveva ritenuto
rilevante ai fini delle indagini sollecitare descrizioni dettagliate sulle sue abitudini
sessuali. Soprattutto, tali abitudini erano ascrivibili a figure di reato gravi per il foro
ecclesiastico e di sua specifica competenza: Lorenzo frequentava varie donne ma
aveva una relazione continuativa con Domenica Macciantelli, sposata con Biagio
Tombelli, sua cugina da parte di madre entro il quarto grado e sua comare di
battesimo.
Per il diritto canonico tale relazione si poteva doppiamente rubricare nella
fattispecie dell’incesto: sia per la parentela di sangue, sia per la parentela spirituale.
Dopo aver tentato varie volte di avvelenare la moglie, costringendola a denunciarlo,
Lorenzo per liberarsi dalle sanzioni ecclesiastiche aveva convinto Maria Gentile, che
era andata a vivere dal padre, a tornare con lui «et fece tante cose che la indusse ad
andare a Bologna a disdirsi» cioè a ritrattare la denuncia, «et essa, che voleva bene et
era innamorata di suo marito fece quel tanto che suo marito volle et don Antonio
Nanni fu quello che maneggiò le cose per agiustare Giovan Lorenzo et che non si
parlasse di veleni dati alla moglie». Dopo aveva continuato a maltrattarla e poi,
quando Lorenzo era lontano dal paese, a Bologna dove il padre era relegato, Maria
Gentile era stata avvelenata ancora una volta, con la carne. Aveva avuto violenti
attacchi di vomito e di dissenteria ed era corsa a rifugiarsi dall’ostessa dove era
migliorata. La donna concluse la sua lunga testimonianza dicendo di essere convinta
che la morte di Maria Gentile era stata provocata dalle sorelle Maria e Maria
Maddalena Brizzi con la complicità di Pier Antonio Agostini.
Molte altre persone che si presentarono perché citate da Vannicelli erano state
sentite pochi giorni prima da Almerighi durante la cavalcata del Torrone. Rispetto
alle dichiarazioni rese in quell’occasione, si conferma come le risposte negli
interrogatori tendano ad arricchirsi di particolari più intimi e soggettivi, come se il
giudice arcivescovile avesse instaurato un rapporto più simile a quello tra penitente e
sacerdote in confessionale che a quello, segnato spesso da diffidenza reciproca, del
testimone davanti a una corte di giustizia. Anna Maria Vivarelli, moglie di Marco
Marconi, una donna di quarantacinque anni che filava e tesseva la tela, disse di essere
stata esaminata anche da quelli del Torrone «quando li giorni passati fecero la
cavalcata et mi esaminarono per esser io vicina all’abitazione di detta Maria Gentile».
Per questo era informata dettagliatamente dei maltrattamenti che la donna subiva,
come già aveva riferito ad Almerighi. Questa volta aggiunse però che Maria Gentile
non poteva essersi suicidata perché era molto devota. Tassello dopo tassello, le
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immagini sfocate della vittima e dei suoi presunti assassini si precisano, delineando
personalità complesse e moltiplicando gli interrogativi sulla natura accidentale o
criminosa del fatto. Anche Maria Angela Marconi, moglie di Giuseppe Taruffi, una
donna di ventiquattro anni presumibilmente benestante se come sua occupazione
dichiarò «d’attendere alla casa e fare di quei lavori che fanno le donne», era già stata
interrogata dal sottuditore del Torrone. Era fra la piccola folla che si era accalcata
davanti al cadavere dopo che lo avevano ripescato dal canale ma, come disse lei
stessa, aveva distolto quasi subito lo sguardo e delle condizioni del corpo poteva
parlarne solo per sentito dire. Con le sue orecchie aveva sentito Maria Maddalena
Brizzi gridare, quando le era stato riferito quello che si diceva contro di lei, «che se
doveva pagare una cavalcata ne voleva pagar tre, perché ne voleva far ammazzare
sette o otto et così far finire di parlare alla gente».
Il 25 luglio don Mariano Vannicelli celebrò la messa e, dopo alcuni interrogatori
che vertevano tutti sul ritrovamento del cadavere, ricevette la risposta, datata 24
luglio, di Giovanni Filippo Buonaparte, capitano di giustizia di S. Marcello Pistoiese
il quale aveva scritto di non avere il potere di dare esecuzione a richieste trasmesse da
qualsiasi tribunale, anche dello stesso granducato, senza il consenso del tribunale
criminale di Firenze al quale aveva inoltrato la lettera di Vannicelli. Il permesso non
venne mai e non possiamo sapere che domande Vannicelli volesse porre a Pietro
Ferrari. Nel frattempo Lorenzo Brizzi, come sappiamo, era rifugiato a Pavana ma il
figlio del massaro di Granaglione denunciò a don Mariano che andava in giro per il
paese armato di schioppo per portar via la roba del padre sotto sequestro cautelativo,
una misura che veniva presa per evitare che i sospettati si sottraessero all’obbligo di
pagare le spese processuali e i viatici della cavalcata. L’uditore emise un mandato di
cattura che però sappiamo non ebbe esito perché fino al 18 ottobre 1743 l’uomo restò
latitante.
Il 28 luglio fu sentito Giuliano Taruffi, il supposto amante di Maria Gentile, che
risultò essere un uomo benestante di quarantacinque anni che da una ventina di giorni
si era trasferito a Lucca dove aveva aperto una bottega di teleria. Aveva mandato
relazioni al Torrone e al foro arcivescovile sulla morte di Maria Gentile mentre
ricopriva l’ufficio di massaro di Granaglione e per questo temeva la vendetta di
Lorenzo Brizzi; chiedeva perciò che si provvedesse alla sua protezione. «Ei io di
questo ne ho dato querella tanto in Torrone quanto in vescovato acciò che sia
proveduto perché per la relazione che ho data per debito del mio ufficio non devo
essere tenuto in suspicione di guardarmi la vita perché purtroppo tutto l’intreccio è
stato fatto da don Antonio Nanni». La relazione che lui aveva mandata
all’arcivescovado era stata scritta da Matteo Maria Vivarelli, notaio foraneo di
Granaglione che fungeva anche da coadiutore del vicario Campoleoni
nell’amministrazione della giustizia in contado per il foro ecclesiastico. Matteo Maria
Vivarelli, interrogato a sua volta, disse che Lorenzo Brizzi faceva tutto quello che
voleva il padre e che Maria Gentile «vedendo le domestichezze che passavano tra don
Antonio Nanni et la Gialla non ebbe prudenza di tacere ma le raccontò». Don
Antonio allora aveva tentato di farla processare come ladra e in seguito aveva istigato
il figlio ad accusarla di adulterio.
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Che dietro al complotto per assassinare Maria Gentile ci potesse essere il suocero lo
confermò anche un altro prete, il reverendo Bartolomeo Nanni, di cinquantun anni,
che non aveva rapporti stretti di parentela con don Antonio ma che da ventidue anni
esercitava la cura d’anime come cappellano alla sussidiale di S. Lorenzo di Lustrola,
la chiesa officiata da don Antonio stesso. «La Maria Gentile Nanni non ha volsuto
pratticare in casa di don Antonio Nanni, anzi una volta volendo suo marito che vi
venisse essa non volse andarvi perché essendo essa una buona figliuola timorata di
Dio non voleva vedere le cose che faceva don Antonio et per ciò esso la prese in odio
grandemente et ha sempre continuato ad odiarla».
Se molti testimoni vennero interrogate sia dal sottuditore Almerighi sia dall’uditore
Vannicelli, quest’ultimo aggiunse nel suo fascicolo altre deposizioni interessanti e
che mettevano a fuoco il ruolo di comprimaria di Maria Maddalena meglio di quanto
non fosse risultato dalle indagini del Torrone. Sua suocera Pellegrina Taruffi, moglie
di Nicola Tombelli, non risparmiò neppure questa volta le accuse alla nuora e
sottolineò la parte avuta nel far avvertire il fratello della morte di Maria Gentile
perché si facesse fare le dichiarazioni che era in Maremma, procurandosi così un
alibi. Sappiamo già che ad andare in Maremma era stato lo stesso marito di
Pellegrina, Nicola Tombelli, che evidentemente non condivideva l’astio della moglie
per la giovane nuora.
Durante uno dei presunti tentativi di avvelenamento della moglie fatti di persona da
Lorenzo, per casa erano circolati due muratori che imbiancavano le stanze e che
dichiararono di aver visto Maria Gentile mentre scopriva le palline di mercurio nel
cibo. Uno di essi era Antonio Agostini, vicino di don Annibale, fratello di Maria
Gentile, e l’altro Bartolomeo Fiornovelli il quale disse che dopo l’avvio delle indagini
Maria Maddalena Brizzi lo aveva fatto chiamare perché una lettera di don Antonio da
Bologna l’aveva avvisata che stava per arrivare la cavalcata «et che perciò facessi in
modo che io andassi fuori di paese per quindici o venti giorni et anco un mese che mi
avrebbe pagato le mie giornate perché desiderava che io non palesassi di quei veleni
che avevano dato a detta Maria Gentile et io ci risposi che non volevo partirmi
assolutamente et essa mi replicò che se fossi chiamato dalla giustizia non palesassi
cosa alcuna et io replicai che se fossi chiamato dalla giustizia bisognarebbe che
dicessi la verità».
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9. Lo «Stallone» e il «Mulo»
Ma è soprattutto contro don Antonio che si moltiplicarono i testimoni della sua
condotta scandalosa. Giovan Battista Tombelli, un possidente di sessant’anni, disse
che conosceva don Antonio dall’infanzia e che «contro di lui parlano anche le pietre
in materia di donne et lo chiamano lo stallone dell’Albarese». A quale località si
riferisse il testimone non è chiaro: nelle montagne a ovest di Lustrola tra Gaggio e
Belvedere c’è un paese che attualmente si chiama Albarelli, ma è difficile credere che
si riferisse a quello. Alberese è il nome della principale località costiera della
Maremma grossetana ed è più probabile che l’espressione volesse significare il ruolo
di supplenza che don Antonio faceva a tutti quegli uomini di Granaglione che
emigravano per la maggior parte dell’anno. «Stallone» però è un termine
inequivocabile e certamente inadatto a qualificare un prete. Tombelli sapeva molti
particolari sul comportamento del vecchio amico, che aveva iniziato la relazione con
la Gialla a diciotto anni, quando era ancora chierico. Il marito era servito solo per
coprire le paternità del prete: confermò che veniva da Livorno quando lei era incinta.
C’era in paese un’altra ragazza che dicevano fosse figlia sua e della moglie di Pietro
Lenzi, che si chiamava Domenica. Si sapeva anche che gli aveva partorito una figlia
Giovanna Mattioli, vedova Gualandi. L’arciprete delle Cavanne, Paolo Campoleoni,
dopo il processo l’aveva fatta allontanare dal paese. Scandalosa non era solo la
condotta sessuale di don Antonio ma anche la sua spregiudicatezza nel vessare i più
deboli anche se le prepotenze contro i poveretti le faceva fare al figlio Lorenzo, detto
«il Mulo di don Antonio» che girava sempre armato e teneva in casa anche Lorenzo
Lenzi, bandito per omicidio e suo sgherro.
La testimonianza di Tombelli a proposito di altre relazioni dello «Stallone
dell’Albarese» fu confermata da altri che direttamente o indirettamente ne avevano
avuto esperienza. Tra essi Pietro Lenzi, un uomo che aveva già sessantaquattro anni
ma che per vivere doveva ancora adattarsi ad andare in Maremma dall’inizio
dell’inverno fino a tutto giugno, il quale disse che una dei suoi sette figli, Domenica,
non era figlia sua, ma di don Antonio che per convincere sua moglie a cedergli le
aveva detto che «le donne a darne agli altri fanno peccato, ma dandone a lui non
fanno peccato alcuno». Lo aveva querelato, vent’anni prima, in arcivescovado ed era
stato deciso dall’arciprete delle Cavanne e da un tale Camillo Buttelli che si era
prestato come intermediario che desse la pace a don Antonio in cambio di 30 lire, una
corba di farina di castagne e tre pecore. Gli era stato anche promesso che la ragazza
sarebbe stata mantenuta e sistemata in modo onorevole «e che esso don Antonio
avrebbe allogata questa ragazza», le avrebbe cioè dato una dote e un marito, «ma mi è
sempre restata e l’ho ancora». Rosa Mellini, moglie di Giovanni Battista Lenzi, una
donna di trentotto anni che oltre a filare andava col marito in Maremma a fare il
bucato per gli uomini, disse che mentre lei era via don Antonio aveva cercato di
stuprare sua sorella Domenica la quale poi era morta per il freddo patito per
sfuggirgli. Entrambe le storie, sia quella della figlia di Lenzi sia quella di Domenica
Melini erano state raccontate anche al sottuditore Almerighi ma questi non aveva
mandato per procedere contro una persona ecclesiastica e aveva riportato le
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testimonianze e gli episodi omettendo però di nominare don Antonio in riferimento
ad essi.
Una cosa era essere «stallone», un’altra istigatore di omicidio, e don Vannicelli non
trascurò nulla per acquisire elementi di prova. Il foro laico non sembra aver
proceduto con molta severità contro la vita scandalosa di don Antonio e il pagamento
di 30 lire e circa altrettanto fra pecore e farina sembra una penitenza piuttosto mite
per i ripetuti e abituali peccati della carne di don Antonio. Questa volta, però, il
cadavere di Maria Gentile era una presenza inquietante e le domande che vennero
fatte ai testimoni furono incalzanti e circostanziate; questo fece emergere molti
particolari che durante la cavalcata di Almerighi non erano stati riferiti. Pietro
Tognetti, un coltivatore proprietario di trentacinque anni, riferì che don Antonio
diceva al figlio che sua moglie era una pazza e che avrebbe fatto bene ad
ammazzarla. Molto più dettagliata fu la deposizione di don Francesco Antonio
Taruffi, di soli trentanove anni ma già da tredici curato della chiesa di Granaglione
che portò a don Mariano Vannicelli la fede di morte di Maria Gentile, dalla quale
risultava che al momento del decesso aveva trentasei anni. Su don Antonio disse che
correva dietro a tutte le donne, cosa già riferita da molti, ma anche che prestava a
usura e girava armato lui stesso, non solo Lorenzo «il Mulo». Quanto all’odio per
Maria Gentile, esso era nato dopo le sue chiacchiere sui comportamenti della suocera
e sui maltrattamenti subiti per i quali era stata consigliata a sporgere querela contro il
marito, cosa che aveva fatto, come sappiamo, davanti al vicario foraneo Campoleoni.
Il vicario generale, al quale il vicario foraneo aveva esposto il caso, gli aveva
ordinato di non impartire a Lorenzo i sacramenti se non si riconciliava con la moglie;
per questo non era stato ammesso alla celebrazione della Pasqua e dell’Ascensione
del 1741. Il padre penitenziere Premoli gli aveva mandato le citazioni per farlo
dichiarare pubblicamente interdetto, sanzione gravissima, che poneva chi veniva
colpito ai margini della vita comunitaria; per questo Lorenzo si era adattato a
riprendersi in casa la moglie dopo averla blandita e dopo averle certamente fatto
molte promesse di trattarla con rispetto e affetto. Ricevuti i sacramenti della
confessione e dell’eucarestia in occasione della festività dell’Assunzione, a metà di
agosto, sappiamo che aveva subito ripreso a maltrattarla.
Don Antonio, condannato a rimanere relegato a Bologna dopo la vicenda del parto
della vedova Gualandi, era ritornato infrangendo il precetto e il 6 dicembre, notte di
S. Nicola, si era incontrato con i figli a casa di Maria Maddalena per congiurare
contro la nuora. Lorenzo era andato in Maremma per costituirsi un alibi mentre don
Antonio era tornato a Bologna portando con sé i due figli di Maria Gentile. Di uno di
essi, il maggiore, il dodicenne Giovan Battista, particolarmente legato alla madre, si
poteva prevedere che avrebbe potuto sventare il piano come aveva già fatto in
occasione dei tentativi precedenti di avvelenarla: le aveva riferito che il padre aveva
portato a casa una fiaschetta di mercurio, facendole nascere dei sospetti. Quanto al
dubbio che Maria Gentile si fosse suicidata o che fosse caduta nell’acqua per
disgrazia il prete, che aveva descritto il suo corpo, che con ogni probabilità aveva
osservato con attenzione quando l’aveva benedetto da morta, disse: «La Maria
Gentile Nanni quando era vivente era di volto piccolo, scarno e bislongo et era anche
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di corporatura più tosto ordinaria et quando si vidde morta non se li trovò acqua in
corpo, aveva il volto gonfio, tondo e rosso et anche la gola nella parte superiore assai
gonfia».. Il suicidio, poi, era molto improbabile considerata la grande devozione di
Maria Gentile. Anche lui disse infatti che era una donna molto osservante.
Il 13 agosto furono richieste due perizie per stabilire, sulla base delle tante
descrizioni del corpo della vittima, quale potesse essere stata la causa della morte.
Furono interpellati Giuseppe Cuzzani, che serviva come medico legale anche il
Torrone, il quale disse che dai segni descritti la morte poteva essere stata per
avvelenamento ma anche per «un sussulto epilettico al contatto con l’acqua», se si
fosse gettata o se fosse caduta. Giacomo Napolini, in forze all’ospedale di S. Maria
della Morte di Bologna e perito chirurgo del tribunale arcivescovile non lo
contraddisse ma dette la stessa, vaga risposta, cosa del tutto lecita in considerazione
del fatto che si erano dovuti basare non sull’osservazione diretta del corpo ma su
dichiarazioni dei paesani, che continuarono ad essere raccolte anche dopo l’intervento
dei due medici legali. Così il 18 settembre fu sentita Rosa Lorenzini, moglie di
Domenico Vangelisti, che descrisse la morta come una donna molto pia e che si era
appena confessata (quindi era improbabile che si fosse suicidata); quando ai segni sul
corpo, le erano apparsi strani perché in vita «era una creatura ben fatta, minuta di
volto et non gonfia nel volto et ne meno nella gola, avendo anzi una gola minuta e
galante che sembrava una dama».
Da Bologna, a cavalcata conclusa, per ordine del vicario generale da don Mariano
Vannicelli fu inviata una lettera ad Angelo Arrighi, notaio foraneo della curia
arcivescovile a Bagni di Porretta, che gli conferiva le facoltà necessarie ad interrogare
il «medicinalista» del luogo, Salvatore Costa, medico e speziale, sui veleni che
vendeva nella sua bottega. La comunità era feudo dei conti Ranuzzi ma in questo
caso non fu necessario il loro consenso per procedere all’interrogatorio: Bagni di
Porretta, separata dalla giurisdizione del legato di Bologna, non lo era da quella
arcivescovile, facendo parte della stessa diocesi, e quindi il notaio foraneo poté
tranquillamente procedere per conto del foro ecclesiastico. Un’altra lettera venne
inviata dallo stesso Vannicelli a Matteo Maria Vivarelli, notaio foraneo di
Granaglione, perché facesse la perizia sull’alveo del canale. Né quest’ultima, che
venne inviata il 2 ottobre, né la testimonianza dello speziale, che venne acquisita lo
stesso giorno, sembrano aver portato elementi di prova decisivi; sono tuttavia un
esempio dell’accuratezza con la quale il vicario generale procedette nelle indagini.
Lo stesso 2 ottobre 1742 fu inviata da Roma una lettera del cardinale Giovanni
Giacomo Millo, datario del papa, che ordinava per volere di Benedetto XIV al suo
vicario generale a Bologna di condannare don Antonio all’esilio e alla sospensione a
divinis, pena la detenzione per dieci anni. Quando la lettera arrivò alla casa di don
Antonio a Bologna, da dove non avrebbe dovuto allontanarsi, furono subito inviate
varie citazioni a presentarsi, ma inutilmente, finché il 14 dicembre fu ufficialmente
accertato che il prete se ne era andato con i bambini, i figli di suo figlio Lorenzo, che
ancora stavano con lui. L’8 gennaio 1743 fu spiccato un mandato di cattura. In realtà
don Antonio non era andato molto lontano e il 10 gennaio Giuseppe Vivarelli di
Granaglione, un mulattiere di trent’anni, disse che se ne stava a casa sua a Lustrola,
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pronto a scappare ad ogni avvisaglia di pericolo oltre i vicinissimi confini della
Toscana. Don Mariano Vannicelli e l’uditore criminale e avvocato fiscale Carlo
Antonio Vannicelli (suo padre) ricevettero un’altra lettera del cardinal Millo, datata
19 dicembre 1742: qualora, nonostante le ripetute citazioni, don Antonio non si fosse
presentato, si doveva procedere in contumacia non solo con l’esilio e la sospensione a
divinis ma anche col sequestro dei beni, con i quali pagare le spese della cavalcata.
Il 19 gennaio, in seguito alla richiesta di procedere presentata da Pietro Cavazza - il
procuratore fiscale sostituto che rappresentava l’accusa –, il vicario generale
Francesco Cotogni esaminò gli atti del processo e emise un ultimo mandato di
comparizione prima di pronunciare una sentenza in contumacia, che avrebbe
impedito all’accusato di godere del diritto di difesa. Restata senza risposta anche
questa citazione, il 4 febbraio Cavazza si presentò di nuovo al vicario generale, al
quale chiese formalmente di concludere la causa con la sentenza. Il vicario lo fece:
vista la querela presentata da don Annibale Nanni, visto il processo che ne era
seguito, vista la contumacia (di per sé indizio di colpevolezza), visto l’allontanamento
da Bologna, dove aveva la relegazione, riferita la causa e il ristretto del processo al
papa e al suo datario cardinale Millo, che avevano risposto con la lettera del 19
dicembre, sospese a divinis don Antonio e lo condannò all’esilio, pena dieci anni di
detenzione se non lo avesse rispettato. A differenza di quanto era stato indicato dal
cardinale Millo, la sentenza non menzionava il sequestro dei beni e il pagamento
delle spese della cavalcata. Nella sentenza non si specificava il capo di accusa
accertato ma vista la pena si può ritenere che ad essere punita fu la condotta
scandalosa del prete mentre l’istigazione all’omicidio non fu ritenuta
sufficientemente provata..
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10. Adulterio e incesto.
Lorenzo Brizzi non era stato interrogato, né condannato, né catturato dal tribunale
del Torrone e dal 18 ottobre 1743 era stato graziato e aveva potuto tornare a
Granaglione ma esattamente sette mesi dopo, il 18 maggio 1744, il caporale degli
sbirri di montagna dell’arcivescovado aveva fatto rapporto all’uditore Carl’Antonio
Vannicelli annunciandogli che Lorenzo e Domenica Macciantelli, moglie di Biagio
Tombelli, amanti da dieci anni, nonostante fossero parenti di terzo grado e compari di
S. Giovanni, cioè di battesimo, erano stati sorpresi a letto insieme dai suoi sbirri che
avevano fatto irruzione nella casa di Domenica. Lui, completamente nudo, aveva
cercato di sottrarsi alla cattura facendo resistenza con lo schioppo e la pistola che
aveva tenuti a portata di mano, ma era stato fatto rivestire ed era stato portato con la
sua donna al carcere dell’arcivescovado. I reati per i quali vennero processati furono
l’adulterio e l’incesto: risultarono essere effettivamente secondi cugini, quindi entro il
quarto grado della proibizione canonica e inoltre la qualificazione di incesto era
aggravata dalla parentela spirituale, cioè dal comparaggio, che creava un
impedimento altrettanto inderogabile della parentela di sangue.
Domenica fu interrogata per prima, il 24 maggio; la donna non era più
giovanissima: dichiarò di avere trentotto anni. Era sposata da diciassette e abitava con
il marito in una casa di proprietà del fratello, don Pellegrino Macciantelli; filava e
tesseva. Delle circostanze del suo arresto non negò l’evidenza e disse che Lorenzo
«era lì nel letto a peccar meco». La relazione, come molte altre in paese, era favorita
da regolari interruzioni della convivenza col coniuge che duravano a lungo: «Mio
marito è in Maremma che sono otto mesi et vi va ogni anno». Domenica confermò
che Lorenzo era suo compare perché gli aveva tenuto a battesimo un figlio; quanto
alla parentela di sangue non fu molto precisa e disse solo di aver sentito che suo
padre e la madre di Lorenzo fossero parenti. Negò che quello col cugino fosse un
rapporto mercenario: non si era mai fatta pagare «perché gli volevo bene». Lorenzo
Brizzi fu sentito tre giorni dopo; dichiarò di avere trentaquattro anni e di essere
«uomo libero e vedovo»; lui non andava abitualmente in Maremma ma faceva vari
lavori in paese: il mulattiere, lo zappaterra, il bracciante a giornata, il venditore di
sale. Spudoratamente e protervamente cercò di negare la sua relazione con Domenica,
dicendo che al momento dell’arresto era nudo perché gli abiti gli irritavano le
emorroidi e non volle ammettere che lui e la donna stessero facendo l’amor. Fu più
preciso sulla sua parentela con Domenica, che giustificava la sua frequentazione della
donna e i loro rapporti confidenziali: il padre di sua madre, Serafino Macciantelli e il
nonno paterno di Domenica erano fratelli, confermando che erano secondi cugini e
che la loro era una parentela abbastanza stretta, di terzo grado.
Il processo a Bologna restò sospeso circa un mese, in attesa che fossero resi noti gli
elementi che nel frattempo venivano raccolti da una cavalcata inviata a Granaglione,
che era stata sollecitata fin dal 7 maggio da una lettera del vicario foraneo
Campoleoni il quale aveva attirato l’attenzione del tribunale arcivescovile sulla
condotta sessuale di Lorenzo Brizzi e aveva provocato l’arresto suo e di Domenica.
Dopo l’interrogatorio dei due amanti. il vicario generale incaricò di indagare
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l’arciprete Paolo Campoleoni e il notario foraneo Matteo Maria Vivarelli; le facoltà
necessarie per procedere agli interrogatori a Granaglione furono conferite loro con
una lettera del 29 maggio 1744 scritta dall’uditore Carlo Antonio Vannicelli. Nella
lettera si raccomandava al vicario foraneo di attenersi alle costituzioni apostoliche
Super reformatione tribunalium da poco pubblicate a Bologna, tra l’inizio di febbraio
e la fine di marzo le quali, emanate per il foro laico, venivano quindi seguite anche
dal tribunale arcivescovile, le procedure del quale sono per molti aspetti ricalcate su
quelle del Torrone. L’uditore Vannicelli avvertiva in particolare di fare il processo
con l’assistenza degli sbirri e a spese di Lorenzo Brizzi mettendo sotto sequestro i
suoi beni. Al notaio sarebbe spettato come diaria per l’esercizio delle sue mansioni
uno scudo al giorno.
Campoleoni tra il 5 e l’11 giugno interrogò varie persone, facendo pervenire
resoconti regolari a Bologna che avrebbero in seguito indotto il vicario generale a
inviare una cavalcata. Il vicario foraneo ascoltò i testimoni dell’arresto di Lorenzo e
Domenica, i quali confermarono che i due erano nudi e precisarono che a letto con
loro c’era anche la figlioletta di Domenica. Salvatore Lenzi, un contadino di
venticinque anni, era al corrente della tresca; interrogato anche su Maria Maddalena
Brizzi, disse che dava scandalo e traviava i giovani del paese. Suo fratello Lorenzo,
raccontò Pellegrino Taruffi, un giovane calzolaio, non si limitava alla relazione con
Domenica ma corteggiava altre donne del paese. La sua deposizione arricchisce
l’immagine fino a questo momento quasi feroce del figlio di don Antonio, «il Mulo»
del prete, di particolari inattesi. Secondo Taruffi, lui e Lorenzo un giorno erano
insieme a casa di Maria detta la Corsetta, moglie di Nicolò Lenzi, che era seduta su
una panca e a un certo momento Lorenzo le aveva battuto la mano sulla spalla,
dicendole di fargli posto «e prendendo in mano un libro detto Li reali di Francia,
cominciò a leggere, io allora me ne andai e non pensai ad altro benché anche all’ora
vi fosse la voce per Granalione che il sopradetto Lorenzo havesse cativa pratica con
questa donna». Un approccio cortese, quello di Lorenzo Brizzi, riferito da una voce in
parte dissonante da tutte le altre, che ci racconta di uno stile di seduzione attribuibile
solo ad un uomo non grossolano. Il giovane Taruffi, che a sua volta sapeva leggere e
scrivere, aveva ricevuto le confidenze di Maria Gentile la quale gli aveva giurato
«d’aver veduto con gli ochii propri Lorenzo suo marito per una fenditura di un uscio
di sua casa lo stesso Lorenzo haver copula con la sopradetta Domenica in occasione
che la Domenica stessa era andata da lui per cucirle delle camisie». Una donna che
non sapeva tacere, una donna che origliava per alimentare la sua gelosia, una moglie
ingombrante per un uomo che amava la leggerezza delle storie dei cavalieri.
Marco Brizzi, un giovanotto di diciotto anni che viveva di rendita ed era abbastanza
istruito da firmare la sua deposizione, disse fra l’altro di sapere che Maria Maddalena
aveva ha una tresca con un sacerdote, don Lorenzo, parente di don Antonio,
pettegolezzo confermato da Domenico Taruffi, un calzolaio di ventisei anni, anche
lui in grado di firmare. Domenico raccontò di averne avuto la certezza mentre con un
amico origliava di notte alle finestre; arrivato al portico della casa di Maria
Maddalena si era appostato e aveva visto uscire il prete. Anche in questo caso col
vicario foraneo le inibizioni dei testimoni sembrano allentarsi e dalle loro bocche
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escono particolari che ai giudici laici di città non vengono rivelati: il vicario
conosceva nel bene e nel male la vita di paese, quell’intreccio inestricabile di
solidarietà e di malanimo, di omertà e di frenesia di parlare e di sapere dal quale
nascevano le voci che correvano nella comunità: lo sapeva come giudice e come
confessore e in quanto tale con lui le coscienze potevano liberarsi con minore
reticenza.
Pellegrina, vedova di Nicola Trombelli, suocera di Maria Maddalena, espresse
come sempre apertamente il suo malanimo nei confronti della nuora, ma questa volta
più del solito. Prima rispose ad una domanda su Domenica Macciantelli, raccontando
che, per far tacere la gente sulla sua tresca con Lorenzo Brizzi, il fratello don
Pellegrino, curato di Badolo, l’aveva portata a Bologna, riuscendo a tenerla lontana
dall’amante per quattro anni. Interrogata poi su Maria Maddalena, la suocera disse
che, quando l’aveva sposata, il figlio era uscito uscito di casa. Era dunque il fatto,
inconsueto, di aver preferito la vita coniugale agli obblighi della parentela e in
particolare a quelli con la madre che aveva invelenito Pellegrina, una volta rimasta
vedova; questa volta della nuora disse che era «così perfida e scelerata di modo che a
lei basta guardare un giovanotto per tirarlo alla rete: uno dei segni che dà la Madalena
ai giovanotti perché vadano da lei si è mostrare in publico di bravare e contendere
con loro». Uno dei suoi amanti, secondo il giovane contadino Angelo Antonio
Vangelisti, sarebbe stato Marco Brizzi. Vangelisti si era trovato in casa di Maria
Maddalena quando erano presenti anche i due nipoti, figli del fratello Lorenzo e di
Maria Gentile. «Fecero un letticciolo dove missero da una parte li due ragazzi, e
dall’altra vi ero io, e nel mezzo eravi Marco e Maddalena ed anche all’ora sospettai
che volessero montarsi adosso».
Ci fu chi parlò senza reticenze delle sfrenatezze sessuali delle due donne, Domenica
e Maria Maddalena, e dei loro tentativi di traviare altre donne, come la matura Giulia,
moglie di Nicola Macciantelli, di quarant’anni, la quale disse che Domenica aveva
cercato di farla incontrare a sorpresa con Lorenzo Brizzi, a suo dire per scopi
innominabili. Le testimonianze aprono squarci inediti che possono essere riferibili,
direttamente o indirettamente, alla morte di Maria Gentile: le dissolutezze nelle quali
sembrano coinvolti parecchi paesani passano in secondo piano come tali e acquistano
importanza come moventi dell’omicidio.
Giovanni Taruffi, un proprietario che viveva di rendita, disse di Lorenzo che «ha
sempre auto un odio intestino contro la povera sua moglie la quale sebene fosse
d’ottimi costumi e di belissime fatezze ad ogni modo questo disgraziato non poteva
vederla». A proposito della relazione con Maria detta la Corsetta confermò che
Lorenzo «andava da lei a leggere romanzi ed io non solo vedevo tutto questo ma
ancora sentivo cantare e stare alegramente perché le stavo vicino di casa». Mentre il
marito si divertiva con le sue amiche, Gentile si rodeva dalla gelosia e lo controllava:
anche Taruffi sapeva che la donna aveva colto sul fatto Lorenzo con Domenica,
spiando i loro amplessi da una fessura della porta. Giovanni Taruffi, concluso il suo
lungo interrogatorio, era tornato indietro per aggiungere un nuovo particolare che
conferma la natura conviviale e allegra di Lorenzo, che amava divertirsi e corteggiare
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le donne e che a un ballo aveva suonato la chitarra e ronzato attorno a Maria Angela,
moglie di Giuseppe Taruffi.
Il 10 di giugno, casualmente, passò da Granaglione Domenica, moglie di Giovanni
Pedrucciani di Pavana, in Toscana ma appartenente alla diocesi di Bologna, insieme
col figlio Benedetto che testimoniò di aver sentito dire che i giorni precedenti la
morte di Maria Gentile Lorenzo era tornato nascostamente dalla Maremma. Era un
particolare in più che riportava alla morte di Maria Gentile e su di essa si diresse
l’interesse del vicario foraneo nelle ultime due deposizioni. L’anziana Rosa, moglie
di Domenico Vangelisti, disse che tutto il paese coralmente parlava contro Lorenzo,
Maria Maddalena e Domenica e che Maria Gentile, quando era stata avvelenata con
la carne, non aveva voluto portarla al massaro per paura d’essere ammazzata e
perché, avendo già fatta la ritrattazione a Bologna, temeva che dicessero che era
matta. Maria Gentile le aveva raccontato anche che una volta aveva seguito
nascostamente il marito fino alla casa della Corsetta e altri episodi, tra cui quello
della fessura nella porta attraverso la quale aveva scorto il marito insieme con
Domenica. Una volta lui era uscito e lei era corsa alla finestra per vedere dove
andava, lui se ne era accorto, era tornato indietro e l’aveva picchiata; ma lei era uscita
di nuovo e aveva visto che si era incontrato con la Maria, moglie di Giovan Battista
Santi.
L’ultimo interrogatorio fatto da Campoleoni fu l’11 giugno. Anna, moglie di
Antonio Marconi, raccontò che Maria Gentile una volta aveva sorpreso il marito con
Domenica Macciantelli in un castagneto «e quando Lorenzo vidde la moglie la prese
alla gola, minacciandola che se lei parlava la voleva strozzare». Anche lei origliava,
facilitata dal fatto che dall’abitazione di Domenica la separava solo un muro e
riusciva a distinguere bene le parole. Un giorno aveva sentito Maria Maddalena
Brizzi che diceva alla Macciantelli: «Hò strelina [oh stellina, cara mia], il veleno non
li fa più, quando il veleno non li fa più io sono per far scrivere al prete» intendendo
che si doveva chiedere a don Antonio cosa fare per liberarsi di Maria Gentile. Il
dialogo con Domenica era proseguito con oscure allusioni ad un incontro con un
uomo che doveva avvenire la terza settimana di Quaresima e che la testimone aveva
poi interpretato, dopo il rinvenimento del cadavere di Maria Gentile, come un piano
per liberarsi di lei con l’aiuto di un complice, Pier Antonio Agostini.
Mentre l’inchiesta preliminare di Campoleoni, di cui lui informava regolarmente
l’uditore Carl’Antonio Vannicelli a Bologna, stava per concludersi, fu comunicato al
vicario foraneo l’imminente arrivo del reverendo Mariano Vannicelli in cavalcata per
condurre ulteriori interrogatori. Don Mariano Vannicelli (che qui apprendiamo
essere figlio dell’uditore Carl’Antonio) effettivamente arrivò a Granaglione, l’11
giugno, munito delle facoltà necessarie che gli erano state conferite dal vicario
generale Cotogni in data 8 giugno. Una volta arrivato in paese gli si presentò il
caporale degli sbirri per riferire quanto aveva appreso dagli informatori e in
particolare che Anna Maria Vivarelli, Antonio Marconi, Matteo Macciantelli, Angelo
Michele Vangelisti, Sabatino Berti – molti dei quali avevano già deposto davanti a
Campoleoni - erano tutti a conoscenza della tresca tra Lorenzo e Domenica.
Interrogato il giorno successivo, Vangelisti e Sabatino Berti ripeterono di essere stati
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presenti come testimoni quando gli sbirri avevano fatto irruzione in casa di Domenica
Macciantelli e li avevano colti sul fatto; Antonio Marconi, un pastore di
cinquant’anni che abitava vicino alla casa di Domenica, poté dire di aver sentito varie
volte cigolare il letto quando Lorenzo si recava a trovare la cugina. Anche sua moglie
Anna Maria Vivarelli, di cinquantasette anni, dimostrò la stessa indiscreta curiosità
per gli affari della sua dirimpettaia: disse che vedeva e sentiva tutto e che era certa
della relazione; una certezza che i coniugi Marconi evidentemente non avevano
tenuto per sé se affermarono che come loro tutto il paese era informato della tresca.
Anna Maria però disse qualche cosa di molto più grave e compromettente, e cioè che
aveva sentito i due amanti parlare di un piano per uccidere Maria Gentile.
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11. Origliare e spiare.
Le testimonianze si moltiplicarono e dalle voci sulla relazione i discorsi scivolarono
sul comportamento deviante delle donne della famiglia di don Antonio e di nuovo
sulla morte sospetta di Maria Gentile. Vi fu chi si limitò a dire, come Maria Tombelli,
moglie di Giovan Battista Santi, di aver visto che Lorenzo e Domenica «si trattavano
come morosi», e Antonia Mellini, una giovane donna di ventisei anni, associò nel suo
giudizio negativo Maria Maddalena Brizzi a Domenica Macciantelli dicendo che
entrambe erano donne «di cattivo odore», di pessima reputazione, e che suo marito
non voleva che le frequentasse. Annibale Mattioli, il marito di Antonia, pastore e
come tanti spesso lontano da casa, specificò che Maria Maddalena aveva cercato di
traviare sua moglie dicendole «che era matta a volermi bene et a portarmi rispetto e
far conto di me ed essermi fedele et ci dava ad intendere che io andavo da un’altra
donna». Anche lui disse che Maria Maddalena e Domenica erano di «malo odore» e
confermò che aveva proibito alla moglie di frequentarle «perché anche a me mi
preme la mia riputazione benché sii un povero pastore tanto quanto preme a qualsisia
persona del mondo et non voglio per quanto posso che veruno svii mia moglie;
questo è quanto posso dirle perché io sono un pastore che sto ora in qua et ora in là
che non posso poi sapere tutto quello si facci per il paese».
Lo stesso giorno fu interrogato Biagio Tombelli, di quarantadue anni, anche lui
pastore, marito di Domenica Macciantelli. Disse di non sapere niente dell’arresto
della moglie perché il giorno in cui era stata carcerata lui era a Grosseto, a lavorare in
Maremma. Aveva chiesto alla figlia di otto anni; Maria Angiola, cosa andava a fare a
casa loro Lorenzo Brizzi e la bambina aveva risposto «prontamente che veniva a
dormire con la mamma, cioè la sudetta Domenica stava in mezzo del letto nuda; da
una parte teneva Lorenzo Brizzi e dall’altra parte lei, cioè Maria Angiola. Dimandai
alla suddetta mia puttina cosa faceva Lorenzo Brizzi a letto con la mamma et essa mi
rispose che quando erano lì a letto tutti e due nudi si baciavano sempre et facevano
scossare il letto et ciò hanno sempre fatto tutti i giorni che voi siete stato in Marema».
I due amanti mangiavano insieme e, come disse Maria Angiola, la madre metteva il
vino e Lorenzo il pane. Portava anche la sorella Maddalena e i suoi figli a mangiare:
più che il tradimento sembrava bruciare a Biagio che la donna avesse per Lorenzo dei
riguardi che non aveva per lui: che all’amante facesse i tortelli, che gli cucisse delle
camice. Insomma si sentiva defraudato perché facevano bisboccia a sue spese e
chiedeva di essere «reintegrato della robba giaché non posso essere reintegrato nel
mio onore».
Giovanni Taruffi, già interrogato da Campoleoni, disse di Lorenzo Brizzi che aveva
«tenuto sotto sopra tutti li uomini d’onore di questo paese perché dava la caccia a
tutte quelle donne che poteva» mentre «haveva per moglie la più bella donna di
questo paese»; lui però non aveva mai voluto bene alla povera Maria Gentile, «ma
bensì tutto il giorno ed anche le notti intiere stava dietro a putanare con la Domenica
Maziantelli moglie di Biagio Tombelli». Taruffi disse poi che sul collo di Maria
Gentile si vedevano chiaramente i segni dello strangolamento e che il ventre era
piatto e non gonfio d’acqua. Per provare l’aggravante dell’incesto per quello che era
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un adulterio dimostrato dalla flagranza, i più vecchi vennero interpellati per
ricostruire la genealogia dei due amanti. Lo stesso Taruffi, che aveva sessantasei
anni, disse di saper «descrivere tutta la discendenza delli abitanti di questo
commune» ma il più preciso fu Matteo Macciantelli, un pastore di ottantasette anni, il
quale, interrogato sulla «parentela e discendenza di Lorenzo Brizzi» disse che lui e
Domenica erano «dello stesso stipite e consubrini al terzo grado di consanguineità:
Lorenzo Macciantelli ebbe due figli, Domenico e Serafino. Domenico ebbe Giovan
Battista, Giovan Battista ebbe Domenica, moglie di Biagio Tombelli. Da Serafino
venne Domenica, moglie di Antonio Brizzi, che ebbe Lorenzo». Il testimone era
figlio di Lorenzo Macciantelli, come Domenico e Serafino. Il 19 giugno il reverendo
Vannicelli, a conclusione della cavalcata, consultò per ulteriore scrupolo i libri
parrocchiali, verificando la consanguineità dei due amanti.
Il 17 giugno 1744, mentre si trovava ancora a Granaglione, don Mariano Vannicelli
aveva aperto un’altra inchiesta, , per accertare il reato di pratica carnale tra Maria
Maddalena e don Lorenzo Nanni, avvalendosi delle facoltà che gli aveva conferito la
lettera del vicario generale dell’8 giugno. Il caporale prese informazioni sul prete e un
confidente gli indicò come persone a conoscenza dei fatti Giovanni Domenico
Taruffi, Marco Brizzi, il giovane diciottenne già sentito, e Elisabetta Andrei. Taruffi,
di ventisei anni, un altro calzolaio in grado di firmare la sua deposizione, assecondò
con entusiasmo e con malcelata malevolenza la domanda del giudice sui
comportamenti sessuali di don Lorenzo: «Adesso io ci raconterò la vitta e i miracoli.
Don Lorenzo Nanni doppo che lo conosco è uno di quelli che le donne che non puole
havere le lascia per carità, ma quelle che puole havere non ci fa rusco [non le butta
via], ma ci fà suo dovere, cioè se le gode carnalmente quanto può». Con Maria
Maddalena «si sono sempre conversati, amoreggiati et l’istessa Madalena l’ha
racontato più volte a me, ed essendo io giovinotto che ci ho tenuto dietro per mio
spasso, per vedere questo prete, che fu l’anno passato, che diavolo facceva con questa
femina et io con Marco Brizzi andassino alla casa della suddetta Madalena et ci
ponessimo in ascolto et udissimo che si ansava. Allora cominciassimo ad urtar nella
porta della casa, per farci un po’ di paura et incominciassimo così per nostro spasso a
dire alla Madalena sudetta della buzarona [puttana], allora don Lorenzo Nanni fugì
fuori dalla suddetta casa per la porta della stalla, che ansava ancora et essendo di
notte tempo verso le ore tre della notte verso il fine dell’autunno del anno scorso, il
suddetto si vedeva aver paura d’esser veduto». Che fosse il povero prete a scappare
dalla casa della sua amante, spinto dal greve e impietoso scherzo dei giovanotti del
paese lo aveva visto bene, perché era una notte serena con la luna.
Marco Brizzi, che come sappiamo già viveva di rendita ed essendo giovanissimo e
senza pensieri poteva divertirsi come voleva, esordì allo stesso modo dell’amico:
«Adesso io ci racconterò la vitta e i miracoli di don Lorenzo Nanni, [che] di sua
bocca dice che non vi è donna in questo paese che non l’abbia goduta carnalmente et
io ce lo credo poiché a vederlo come io ho veduto va dietro alle donne come fa un
cane quando va dietro alla lepre ed è uomo feminista». Raccontò lo stesso episodio
avvenuto sotto le finestre di Maddalena, aggiungendo che «ci ingeniavamo anche di
vedere ma non ci riuscì, ma solo udissimo gnicare [cigolare]». Elisabetta Andrei, di
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trent’anni e ancora «putta», ragazza da marito, che si presumeva quindi fosse illibata,
parlò di un convegno dei due in un bosco, dove lei si era addentrata cantando;
certamente si era nascosta, anche lei, la «putta», per occhieggiare qualche scena
piccante da divulgare in paese, e dopo poco aveva visto arrivare Francesco Tombelli,
il marito di Maria Maddalena, armato di pistola, ma don Lorenzo lo aveva fatto
fuggire a bastonate. L’episodio non aveva però causato un contrasto insanabile tra i
due uomini: come vedremo, non molto tempo dopo avrebbero collaborato per far
fuggire Maria Maddalena dal carcere.
La cavalcata terminò il 19 di giugno e l’1 luglio furono consegnati all’uditore i due
processi fatti a Granaglione. Il processo di Bologna, che era stato sospeso per
acquisire nuovi elementi dai paesani, riprese il 6 luglio, con l’interrogatorio di
Domenica Macciantelli che negò di aver saputo dei tentativi di avvelenamento di
Maria Gentile da parte di Maria Maddalena Brizzi. Due giorni dopo Domenica chiese
di essere interrogata di nuovo affermando di voler dire la verità e ammise di essere
stata a conoscenza sia degli avvelenamenti sia dell’omicidio compiuto dalle sorelle
per ordine di Lorenzo Brizzi. E’ la prima volta che in relazione alla morte di Maria
Gentile viene chiamata in causa Maria, personaggio finora defilato nella ricostruzione
degli eventi, la quale fu carcerata subito, il 9 luglio, giorno in cui
contemporaneamente venne emesso l’ordine di cattura per Maria Maddalena.
Nemmeno una settimana dopo, e senza essere stata interrogata prima – almeno
formalmente -, il 15 luglio Maria Brizzi ottenne l’impunità. Il 17 luglio fu interrogata
e disse che era stato Pier Antonio Agostini a gettare in acqua la cognata. Il 18 luglio
Giacomo Felice Calzolari, sollecitatore dei carcerati, in qualità di patrocinatore
d’ufficio chiese che Maria, che aveva la febbre, fosse liberata, dichiarando a suo
nome che appena guarita sarebbe tornata in prigione. La richiesta fu accolta con la
condizione che, se non si fosse ripresentata, avrebbe perso l’impunità. Felice
Zaccarini, medico dei carcerati del foro arcivescovile, attestò la malattia della donna.
Il 16 settembre don Lorenzo Nanni chiese ed ottenne la cancellazione del processo
purché desse garanzia di non frequentare più Maria Maddalena e di vivere in maniera
consona al suo stato, pena la sospensione a divinis, la reclusione e altre sanzioni ad
arbitrio del vicario generale. Anche in questo caso una semplice ammonizione per
una relazione nota a tutto il paese.
Due mesi dopo, il 18 novembre Lorenzo Brizzi fu interrogato. Negò la relazione
con Domenica Macciantelli e venne messo a confronto con lei: continuò a negare
anche se Domenica confermò la sua deposizione durante la tortura degli zufoletti alla
quale venne sottoposta per il tempo della stesura del verbale. La donna in molte
occasioni aveva parlato del suo amore per Lorenzo come di una passione, quasi una
possessione diabolica, alla quale aveva tentato più volte di sottrarsi.
Il 19 dicembre il vicario generale fece scrivere al notaio foraneo di Granaglione
Matteo Maria Vivarelli di raccogliere la deposizione di Maria, moglie di Bonaventura
Brizzi, detta la Galante, e di Salvatore Lenzi; gli chiese anche di far venire a Bologna
sua moglie Lorenza. Il 28 dicembre 1744 arrivò la risposta di Vivarelli: La Galante
risultò essere una sarta di sessantaquattro anni ma non una teste di grande rilievo.
Quanto a Lenzi, non era stato interrogato perché da molti mesi si trovava in
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Maremma. Lo stesso giorno fu interrogata nel foro ecclesiastico Lorenza Marconi
moglie del notaio, che era stata condotta a Bologna dal suo consorte. Negò quello che
sosteneva Maria Maddalena Brizzi, e cioè che avesse tenuto mano nell’intrigo
amoroso fra Lorenzo Brizzi e Domenica accogliendoli a mangiare a casa sua. Fu
interrogato anche il marito e il notaio sostenne di non avere niente di nuovo da dire
sulla tresca, sugli avvelenamenti e sull’omicidio. Il 30 dicembre Pietro Cavazza,
procuratore fiscale sostituto, chiese che fosse messo agli atti il decreto del vicario
generale fatto il 21 novembre che autorizzava la scarcerazione di Domenica
Macciantelli, grazia che le era stata ottenuta dal sacerdote Giulio Vivarelli, suo
parente, a condizione che restasse a Bologna fino alla fine del processo, pena la
pubblica fustigazione e l’esilio. La donna dette come suo recapito a Bologna la casa
della vedova Angela Vizzani.
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12. Omicidio, disgrazia o suicidio ?
Il 30 luglio 1744 la curia arcivescovile aveva aperto un nuovo fascicolo per provare
l’accusa di omicidio proditorio contro don Antonio Nanni, Lorenzo, Maria
Maddalena e Maria Brizzi, che godeva ancora dell’impunità, e Pietro Antonio
Agostini detto Zambelli. A quel punto delle indagini il vicario generale Francesco
Cotogni, visto il processo contro don Antonio per la sua vita scandalosa e la
successiva contravvenzione dell’esilio, aveva scritto a Lambertini, papa e arcivescovo
di Bologna, per informarlo sui risultati delle inchieste aperte e gli era stato ordinato di
chiedere l’estradizione del prete dal granducato. Il 4 agosto da Firenze fu risposto a
Cotogni che don Antonio se ne era andato e che si sarebbe cercato di arrestare almeno
Maria Maddalena e Agostini. Il 20 agosto il vicario generale informò il suo
corrispondente, Giulio Rucellai, che il prete abitava a Campeda e qualche volta a S.
Marcello Pistoiese. Il 4 settembre Rucellai annunciò che il 27 agosto «dopo una fiera
resistenza fu arrestato il prete Nanni». Maria Maddalena si era buttata dalla finestra
ed era fuggita sul territorio pontificio. Gli sbirri del granduca non erano invece
riusciti a trovare Trucchi (altro nome con cui viene indicato Agostini). Alla fine il
prete fu carcerato a S. Marcello; le trattative fra i due stati per l’estradizione andarono
per le lunghe. Di fatto il prete venne tradotto nelle carceri arcivescovili di Bologna
non prima del 2 ottobre.
Di Maria Maddalena si diceva che si fosse rifugiata nel Modenese. Il 7 ottobre le
spie del bargello arcivescovile permisero di localizzare il rifugio della donna e di
Agostini a Castiglione dei Pepoli e cinque giorni dopo una lettera di Gian Carlo
Vespignani, governatore di Castiglione per conto dei feudatari, comunicò l’arresto
dei due. La consegna doveva avvenire al confine fra il territorio della Legazione e
quello del feudo, nel comune di S. Damiano. Tombelli, marito di Maria Maddalena,
era con lei quando era stata catturata mentre il 20 ottobre don Lorenzo Nanni, che
avrebbe dovuto stare lontano dall’amante secondo l’ingiunzione fattagli poco più di
un mese prima, aveva tentato di corrompere le guardie di Castiglione per farla
fuggire. Il governatore Vespignani aprì il processo per la tentata evasione e trattenne
Maria Maddalena, mentre Agostini venne consegnato agli sbirri dell’arcivescovado.
Il 10 novembre don Mariano Vannicelli comunicò che don Antonio Nanni era nelle
carceri dell’arcivescovado; otto giorni dopo il vicario Cotogni conferì a Vannicelli le
facoltà necessarie per aprire il processo di omicidio contro don Antonio. Il 19
novembre, Domenica Macciantelli, in segreta da sei mesi, mandò a dire a don
Vannicelli che non aveva detto tutto quello che sapeva sulla morte di Maria Gentile
per paura di rappresaglie. Fu subito interrogata e confermò che Lorenzo e i suoi
parenti avevano congiurato per uccidere la donna, con l’aiuto di Pier Antonio
Agostini. Questi, sentito lo stesso giorno dopo un riconoscimento formale davanti al
giudice delegato don Mariano Vannicelli, disse che a volte si faceva chiamare
Zambelli che era il nome del secondo marito della madre (Trucchi invece era il suo
soprannome), di avere trentasei anni e di fare il gargiolaro. Stabilita la sua identità
negò di aver avuto mandato di uccidere la moglie di Lorenzo e incolpò Maria e Maria
Maddalena, che erano state istigate dal fratello.
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Il 21 novembre Maria Maddalena lasciò le carceri dei feudatari di Castiglione, dove
si trovava dall’11 ottobre, e passò a quelle arcivescovili. In una lettera spedita il 2
dicembre ai giudici della curia arcivescovile dal governatore di Castiglione, Gian
Carlo Vespignani, fu fatto un breve rapporto nel quale Vespignani diceva di aver
avuto ordine dal conte Cornelio Pepoli di carcerare a nome della Chiesa don Lorenzo
Nanni per aver tentato di corrompere le guardie e raccontava la fallita evasione di
Maria Maddalena: appena catturata lei e il marito avevano trattato con Giuseppe
Galassi, caporale degli sbirri e custode delle carceri. Per corromperli il marito,
Francesco Tombelli, aveva cercato denaro a Granaglione e nelle comunità vicine e
aveva raccolto la bella cifra di 10 zecchini, pari a 20 scudi (o 100 lire). Galassi aveva
fatto uscire la donna e l’aveva accompagnata verso l’uscita facendola salire per una
scala ma il governatore li aveva sorpresi e aveva sventato la fuga. Il 16 dicembre era
venuto don Lorenzo Nanni tentando di corrompere anche Giuseppe Mazzanti, il
nuovo caporale. Don Lorenzo, il chierico Elmi, amico di don Lorenzo, e Francesco
Tombelli, tutti armati, erano andati a Castiglione per fare evadere Maria Maddalena
ma Tombelli e don Elmi erano stati arrestati. Don Lorenzo si sottrasse invece alla
cattura; subito dopo anche il suo amico fu rilasciato perché ecclesiastico. Anche in
questo caso la pena per chierici che giravano armati e contrastavano gli emissari della
giustizia, in questo caso feudale ed ecclesiastica, restarono impuniti, don Lorenzo
perché si era di fatto dato alla macchia, don Elmi in considerazione del suo stato
clericale, probabilmente del fatto di non avere precedenti e della sua giovane età.
Don Mariano Vannicelli interrogò Maria Maddalena il 28 novembre. La donna
disse che quando era fuggita da Granaglione era stata avvertita da Lorenza Vivarelli,
moglie del notaio, che stava per arrivare la cavalcata. E’ la seconda volta che si parla
di un’amicizia tra le donne malfamate che erano sotto processo e la rispettabile
Lorenza: forse l’esecrazione pubblica dei loro costumi non era così corale né la loro
devianza così certa. Maria Maddalena, negò poi la paternità di don Antonio, almeno
rispetto a Lorenzo, argomentando che se fosse stato vero che il fratello era figlio del
prete, questi non gli avrebbe data in moglie Maria Gentile Nanni perché sarebbero
stati cugini (non disse a che grado, né nel corso del processo don Vannicelli si
preoccupò di accertarlo). Maria Maddalena accusò Agostini di aver ucciso Maria
Gentile gettandola in acqua con una spinta, come poteva confermare Domenica
Nanni, sorella di don Antonio, che aveva visto la vittima con il suo assassino.
Maria Maddalena fu interrogata di nuovo il 4 dicembre. Disse di essere stata sette
mesi nelle carceri del Torrone nel 1741 e che solo quando era uscita aveva saputo
dalle voci che circolavano in paese come erano andate le cose riguardo alla morte di
Maria Gentile, cioè della congiura fra Lorenzo Brizzi, Pier Antonio Agostini e
Domenica Macciantelli per buttare Maria Gentile in acqua. Domenica accusava lei,
lei accusava Domenica. Per accreditare la sua versione fece un racconto lunghissimo
sulla passione sfrenata che Domenica aveva per suo fratello e fra le altre cose affermò
di nuovo che Lorenza Vivarelli, la moglie del notaio, era a conoscenza della tresca e
la favoriva. Di don Lorenzo Nanni disse che era suo cugino acquisito perché la madre
del prete e sua suocera erano sorelle.
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Aggiunse altri particolari il 9 dicembre, coinvolgendo anche la sorella Maria, alla
quale Lorenzo aveva ordinato di chiedere a Pier Antonio Agostini di uccidere la
moglie. Negò invece di aver avuto lei mandato di ammazzarla e di aver mai cercato
di avvelenare Maria Gentile. Disse che la sorella l’aveva incolpata dopo aver avuta
l’impunità, mentre lei era stata leale nei confronti dei suoi familiari perché era fuggita
per non dover testimoniare contro il fratello. Chiamò in causa di nuovo anche
Domenica, dicendo che voleva farsi sposare da Lorenzo, dopo aver ucciso anche il
proprio marito Biagio Tombelli. Maria Maddalena e Domenica furono messe a
confronto . Dopo uno scambio di accuse il notaio annotò in latino che il
contraddittorio era degenerato in una rissa verbale: «deinde ambo coeperunt verbis
iniuriosis invicem se afficere ut duo canes rabidi» [e poi cominciarono e scambiarsi
insulti come due cani rabbiosi], e proseguì a descrivere la scena dicendo che non
aveva potuto riportare le parole esatte perché strepitavano, parlando
contemporaneamente, e solo gli era riuscito di capire che Domenica accusava Maria
Maddalena di adulterio con don Lorenzo Nanni e Maria Maddalena accusava
Domenica di adulterio con Lorenzo Brizzi. Solo dopo parecchio tempo il notaio era
riuscito a calmare le due donne e l’interrogatorio si era concluso, senza che esse
avessero cambiato in nulla le loro rispettive versioni dei fatti.
L’11 dicembre fu fatta venire da Casio con la scorta degli sbirri dell’arcivescovado
l’impunita Maria Brizzi che ribadì e precisò le sue accuse ai fratelli e ad Agostini.
Lorenzo Brizzi, interrogato a sua volta, disse di non sapere che la moglie era stata
avvelenata. Negò di averla querelata ma ammise di aver consegnata al vicario foraneo
Campoleoni una relazione in cui raccontava di aver trovato la moglie in casa con
Giuliano Taruffi e che don Antonio l’aveva accusata di furto «et sopra queste cose il
signor dottor Campoleoni fece processo». Per averla trovata con Taruffi l’aveva
rimandata da suo padre. Tempo dopo lei piangendo gli aveva confessato che era stata
«subornata da Nicolao Nanni, da ser Matteo Maria Vivarelli notaro, et dal signor
curato di Granaglione a dirci che io ci avevo dato il velleno che essendosi andata a
confessare non la volevano assolvere et io ci dissi che bisognava che venisse a farmi
la scolpacione», cioè la ritrattazione delle accuse contro il marito che secondo quanto
sosteneva Lorenzo sarebbe stata fatta per insistenza di Maria Gentile. Disse poi che
era stato in Maremma dal dicembre 1741 al maggio successivo (Maria Gentile era
stata trovata morta il 7 marzo 1742).
Il 19 dicembre 1744 Lorenzo, Maria Maddalena e Agostini furono messi a
confronto con Maria, l’impunita, che fu sottoposta al supplizio degli zufoletti ad
purgandum, cioè per togliere i sospetti, derivanti dalla sua indegnità morale,
sull’attendibilità delle sue accuse, che ripeté sotto tortura. Due giorni dopo Maria
venne scarcerata, con obbligo di ripresentarsi alla corte se convocata; il
provvedimento fu preso durante la visita ai carcerati fatta per celebrare il prossimo
Natale dal vicario generale, da Floriano Solfi canonico della cattedrale, da Carlo
Antonio Vannicelli uditore criminale e avvocato fiscale, dal reverendo cancelliere
maggiore Gaetano Lemma, dall’ uditore Luca Antonio Sgargi, da Francesco degli
Antoni, avvocato dei carcerati, da Ercole Valla procuratore fiscale della curia
episcopale. Anche in questo la procedura del foro vescovile e del foro laico erano
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identiche: quest’ultimo infatti effettuava regolarmente visite settimanali per
esaminare l’andamento dei processi e concluderli con rito sommario, mentre alle
feste più solenni procedeva alle visite graziose nel corso delle quali si concedevano
grazie e sospensioni dei procedimenti.
Il 4 gennaio 1745 Maria Maddalena Brizzi fu formalmente accusata: le fu contestato
il complotto ordito il 6 dicembre 1740 fra lei, Lorenzo e Maria per uccidere Maria
Gentile e inoltre il fatto di aver avuto la chiave della casa di Lorenzo e di averla usata
per avvelenare la carne; la macchinazione con la sorella per coinvolgere Agostini
nell’omicidio, di aver trattato Domenica Macciantelli come «morosa» del fratello; di
aver attirato la cognata fuori di casa la notte del delitto e di aver preparato la cena.
Ulteriori prove erano le accuse sostenute in contradditorio da Maria, l’essere andata
dal muratore Fiornovelli ingiungendogli di non parlare del veleno, l’essere fuggita, la
pubblica fama che lei e Agostini fossero gli assassini, l’aver preteso di aver saputo
del delitto solo dopo la scarcerazione. Ai suoi dinieghi fu obiettato che nelle sue
deposizioni aveva detto sei menzogne accertate: aveva negato che il 6 dicembre 1740
il fratello avesse pranzato a casa sua; aveva negato di aver avuto la chiave della casa
di Lorenzo; aveva detto che non era a veglia la notte del 6 marzo 1742 per cause
diverse da quelle esposte dai testimoni; aveva negato di aver comprato pesce per la
cena per i suoi complici; aveva detto di essere andata a casa di Fiornovelli per un
motivo diverso diverse da quello che era risultato dalle testimonianze; infine, aveva
negato la relazione col prete Lorenzo Nanni. Anche Pier Antonio Agostini fu
incriminato per aver trattato l’assassinio con Lorenzo Brizzi, per aver complottato
con le sorelle di Lorenzo, perché accusato dalla deposizione di Maria, per la pubblica
fama che era l’esecutore dell’assassinio, per le sue fughe e le sue bugie.
Venne interrogato ancora Lorenzo Brizzi che giustificò la sua stretta relazione con
don Antonio, con cui abitava a Bologna, «perché esso mi ha mantenuto alla scuola et
io l’ho servito in tutto quello che mi ha comandato perché io sono un poveretto che
ho bisogno di lui». Furono raccolti gli ultimi elementi di prova della colpevolezza di
Agostini da due montanari che confermarono che l’uomo aveva cercato di convincerli
a dichiarare che il 6 di marzo era a Casio. Il 21 gennaio per Agostini, Lorenzo e
Maria Maddalena fu fissato il termine di dodici giorni per difendersi.
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13. Il processo difensivo
Dopo gli interrogatori per l’accusa, il 29 maggio 1745 il procuratore dei poveri
Giovanni Battista Tadolini chiese formalmente copia del processo accusatorio per
poterlo esaminare e decidere una linea difensiva per Lorenzo, Maria Maddalena e
Agostini; il procuratore fiscale sostituto Pietro Cavazza non trovò nulla da eccepire
purché il fisco mantenesse sempre la facoltà di aggiungere nuovi indizi (facoltà di cui
il procuratore fiscale si avvalse). Con fisco si intendeva l’organo che tutelava davanti
all’autorità giudiziaria gli interessi del sovrano, controllando che fosse rispettata la
legge, e la persona fisica che svolgeva tale funzione era appunto l’avvocato o
procuratore fiscale. A Bologna tale ufficio per particolare privilegio della città non
era presente nel tribunale laico del Torrone; c’era invece in quello arcivescovile. Ad
una data non specificata ma compresa tra l’acquisizione del processo accusatorio e
l’avvio del processo difensivo, il 13 agosto, il vicario generale Cotogni ammise gli
articoli che gli vennero presentati da Tadolini, vale a dire i punti che si intendevano
provare nel processo difensivo, interrogando nuovi testimoni e contrastando i capi
d’accusa. Il processo difensivo, che abbiamo visto praticamente assente nei processi
esaminati nell’anno campione 1750 e già molto raro nei decenni precedenti, compare
in questa causa nel foro arcivescovile, con le stesse modalità seguite dal foro laico.
In questa occasione il procuratore dei poveri sostenne che Maria Gentile «dava
segni di vaccillante ed era tenuta da tutti che ne avevano cognizione per una donna
semplice e pazzarella, che raccontava essa spontaneamente le più intrinseche
confidenze che seguivano fra sè e Lorenzo Brizzi suo marito. Che la gente di
Granalione e comuni circonvicini che avevano cognizione della di lei semplicità se ne
prendevano spasso e gioco facendosi raccontare da lei ciò che una donna di perfetta
mente non avrebbe detto e raccontato». Un segno di pazzia fu «buttarsi giù un giorno
da una finestra con pericolo della vita a solo fine di seguitare il marito che veniva a
Bologna». Inoltre «bene e spesso per gelosia si disgustava con suo marito e allora
dava in ismania e disperazione persino a volersi andare ad annegare et amazzarsi».
Quando era stata trovata morta «nacque fama nel paese che ella vi fosse andata a
buttare dentro per disperazione in cui era data per esserle pochi giorni prima state
rubbate in casa le castagne che le aveva consegnate il di lei marito Lorenzo Brizzi».
Dopo tre o quattro giorni mentre tutti «la reputavano annegata per disperazione», don
Francesco Taruffi curato di Granaglione, il suo cugino Giuliano Taruffi e altri
Taruffi, con Matteo Maria Vivarelli notaio di Granaglione «si fecero autorità della
voce sparsasi che si era veduto Lorenzo Brizzi in paese e che era stato quegli che
aveva uciso sua moglie e buttata nel bottazzo del molino». Si sosteneva inoltre che
Lorenzo si trovava nella Maremma di Grosseto, che i Taruffi avevano sempre nutrito
risentimento per Lorenzo e Maria Maddalena Brizzi ed erano stati uditi dire che a chi
avesse portato loro la notizia che i due erano stati impiccati avrebbero dato volentieri
due zecchini (20 Lire). L’animosità del notaio Vivarelli, invece, non si sa da che cosa
fosse originata ma è ricordata anche in altre occasioni, così come ci sono
testimonianze sul legame fra sua moglie Lorenza, Lorenzo Brizzi, la sua amante
Domenica Macciantelli, sua sorella Maria Maddalena. Non è quindi troppo
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inverosimile supporre che il malanimo del notaio Vivarelli fosse provocato
dall’eccessiva dimestichezza della moglie con gente di «cattivo odore».
Prima che iniziasse il processo difensivo, il 27 luglio 1745 l’uditore criminale
arcivescovile Carl’Antonio Vannicelli interrogò di nuovo Lorenzo Brizzi che ammise
di aver fatto chiedere due anni prima la pace alla madre di Maria Gentile dal curato di
Granaglione e anche dall’arciprete Campoleone «et mi pare che venisse una lettera
del signor sott’auditore Almerighi il quale pregava detto signor arciprete interporsi
per detta pace et detta pace dissero di farla con certe condizioni che non mi ricordo
mò adesso, cioè che ci pagassi certe bagatelle, cioè certe cose che devono essere nel
rilascio che mi fece il Torrone». Si trattava di un fatto grave perché la richiesta di
pace – alla quale era seguita la cancellazione del procedimento in Torrone – gli
veniva ora contestata come un’ammissione di colpevolezza. Quanto alle condizioni
poste dalla suocera Maria Caterina (il pagamento del vitto per la figlia e delle scarpe
rubate e il non doversi avvicinare alla sua casa) che Lorenzo pretendeva di non
ricordare disse: «Dette condizioni le avranno dimandate ma la Maria Cattarina et la fu
Maria Gentile godevano la dote di detta Maria Gentile et essa Maria Gentile lavorava
per loro onde io pretendevo non essere tenuto a cosa alcuna et queste instanze non le
hanno fatte a me che se mi avessero dimandato qualche cosa per detta mia moglie
mentre viveva io ce lo avrei dato, anzi io avanzavo e avanzo ancora dieci scudi, cioè
lire 50 capitale residuale di detta dote con li frutti di due o tre anni del qual credito
non ho mai avuto niente et così credo che dovessero contentarsi, rimettendomi
sempre a quello che decreteranno li signori superiori» .
L’acquisizione di questo nuovo elemento – la pace e le sue circostanze, che il solito
Campoleoni aveva procurato di accertare su incarico del vicario generale «perché
questa prova importa confessione del delitto» – era stata fatta il 22 giugno 1745
quando il vicario foraneo aveva interrogato Maria Caterina, la suocera di Lorenzo,
che disse di ricordarsi di aver chiesto il rimborso del vitto «et con altre condizioni e
reservationi che non mi sovengono ma bensì seranno ben note al detto signor vicario
foraneo che di me più ne aveva premura». Una stoccata allo stesso Campoleoni che a
suo tempo l’aveva incalzata perché sottoscrivesse la pace. Un testimone affermò che
il figlio maggiore di Maria Caterina, Giovan Domenico Nanni, non aveva preso parte
alla pace perché non era in paese. Disse anche lui che il sottuditore Almerighi aveva
indirizzata una lettera all’arciprete perché i parenti di Maria Gentile facessero la pace
a Lorenzo. Il sottuditore del Torrone, combattuto da dubbi sulle prove raccolte, aveva
quindi voluto chiudere il processo per l’annegamento di Maria Gentile con la grazia
al marito, un compromesso che non avrebbe evitato la riapertura del caso anche nel
foro laico. A Brizzi vennero dati altri tre giorni per le difese, alla luce dei nuovi
elementi emersi, ma il procuratore dei poveri Tadolini non ne approfittò, e si riferì
agli articoli già presentati da tempo. Il 30 luglio, compiute le formalità, tra le quali la
richiesta, avanzata dal procuratore fiscale sostituto, che il processo fosse celebrato a
spese dei richiedenti, cosa che avveniva regolarmente anche per i processi difensivi
del Torrone, benché senza alcuna istanza del procuratore fiscale che, come sappiamo,
non c’era.
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Il processo difensivo iniziò il 13 agosto 1745 e fu condotto dall’uditore criminale
Carl’Antonio Vannicelli. Di Maria Gentile, Giovanni Domenico Lenzi disse che era
«una buona creatura che andava spesso alli santi sacramenti et era sempre conosciuta
per una che abbia il suo ingegno et non aveva alcun segno d’esser pazza, ben è vero
che Lorenzo Brizzi la maltrattava et ci dava poco da mangiare per quanto sentivo a
dire. Lorenzo Brizzi non la trattava da marito cioè come deve il marito et attendeva
ad altre femine come si sa publicamente. Quando la Maria Gentile e Lorenzo Brizzi
erano disgustati assieme essa procurava di lavorare per campare et una volta ho
sentito a dire ch’esso andò a prendere detta Maria Gentile dalla di lei casa paterna et
di sua madre et la condusse via acciò che ci facesse una discolpazione d’averci
volsuto dare il veleno». Lenzi, benché citato a testimoniare per la difesa, non ebbe
difficoltà a dire che fama che si era sparsa per il paese era che Maria Gentile fosse
stata buttata nel fiume, che non era possibile che si fosse buttata da sé (perché troppo
devota per farlo) e che fosse stata annegata per ordine di suo marito da Maria
Maddalena e Agostini, ma il testimone non sapeva dire chi fossero stati i primi a dire
queste cose e su quale fondamento le avessero dette. Si sussurrava inoltre che
Lorenzo si fosse fatto fare le fedi di essere in Maremma ma che fosse tornato
nascostamente.
Antonio Mellini disse che Maria Gentile era una donna «assai da bene, timorata di
Dio, savia et non ho mai saputo né veduto in lei veruna sciocchezza o balordaggine;
la gente del commune diceva che era ben matta a voler stare ad abitare con il di lei
marito che la trattava così male et se li dicevano che era matta era per la troppa di lei
bontà». Di tutti gli articoli della difesa, uno per uno, disse che erano falsi. Angelo
Matteo Bertozzi descrisse la vittima come donna «di ottimi costumi, timorata di Dio,
savia e non ho mai saputo che sia donna sciocca né balorda né matta, anzi pareva una
creatura molto savia e molto buona». Anche per Francesco Maria Mellini, Maria
Gentile era timorata di Dio e savia e non matta «anzi mi raccontò che suo marito la
trattava tanto male che la voleva condurre a segno di qualche disperazione et quando
mi raccontò questo fatto fu allora quando si raccoglievano le castagne anzi mi
raccontò che le era convenuto fuggir da una finestra acciò suo marito terminasse
d’offenderla et se ne era fuggita a casa della di lei madre».Sulle circostanze della sua
morte c’era chi diceva che si fosse buttata «ma questi che dicevano queste cose erano
donnigiole di Granaglione delle quali non so dirci né il nome né il cognome», ma poi
al sesto articolo della difesa Mellini rispose contraddicendosi: «Io non sentii dire da
veruno che essa si fosse andata ad anegare per disperazione, né per altra causa».
Giovan Battista Tombelli disse a sua volta di aver sempre avuto una buona
opinione di Maria Gentile che oltretutto «descendeva da buoni parenti», e quanto alla
presunta follia «non l’ho mai tenuta né per pazza né per sciocca. Essa era alle volte in
qualche smania per li gran strappazzi che ci faceva suo marito, del quale era affatto
inamorata et una volta che essa era andata a casa di suo padre per li strappazzi che ci
faceva suo marito fu lusingata da Lorenzo suo marito et essa di nottetempo fuggì
dalla casa paterna et andò con Lorenzo suo marito il quale poi la condusse a Bologna
a disdirsi di una relazione data nel tribunale che detto Lorenzo avesse volsuto dare il
veleno et la pazzia che fece detta Maria Gentile fu quella di tornare con suo marito
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perché se non fossi ritornata con suo marito forse non sarebbe incorsa in tante
disgrazie che gli sono succedute doppo perché suo marito non li dava il vito
necessario»: per procurarsi da mangiare faceva erba e portava legna per gli altri. Non
l’aveva vista morta ma non aveva mai creduto che fosse annegata perché non si era
gonfiata d’acqua. E concludeva amaramente: «La Maria Gentile se avesse ricevuta
qualche volta qualche finezza amorosa da suo marito lo raccontava a qualche persona
confidente per l’amor che portava al marito, ma non raccontava poi mai quello che
fanno marito e moglie. Io so bene che detta Maria Gentile si doleva per gelosia del
marito ma non ho mai saputo che per gelosia si volesse amazzare o anegare»
Il 27 agosto, ultimo giorno degli interrogatori per la difesa, il figlio dell’uditore
criminale, don Mariano Vannicelli interrogò don Francesco Vangelisti il quale disse
che con Lorenzo Brizzi era andato a scuola di lettura e scrittura a Granaglione dal
cappellano don Giovanni Matteo Brizzi. Aveva saputo della morte di Maria Gentile
mentre stava a Pistoia, dove era andato a studiare e per questo non sapeva niente.
Maria Gentile aveva detto però alla madre di don Francesco che il marito non voleva
dormire con lei e che l’aveva voluta avvelenare. Per seguire Lorenzo a Bologna era
scappata da casa di suo padre dalla finestra, ma calandosi da un’altezza di circa due
metri, non gettandosi come una pazza, e non si era fatta niente.
Nessun articolo a difesa degli imputati era stato confermato dai testimoni citati.
Anzi, tutti avevano insistito sulla sanità mentale di Maria Gentile, tranne per quella
gelosia che viene per la prima volta rappresentata come un sentimento inspiegabile,
generata da un amore incomprensibile ai suoi paesani. La gelosia di Maria Gentile, la
sua insensata speranza di ricevere attenzioni da Lorenzo stridono con l’immagine
galante e un po’ vacua del lettore dei Reali di Francia: forse la ragione di quella
incompatibilità stava proprio nel contrasto tra il «feminismo» del marito e la richiesta
di fedeltà della devota moglie. Ma Lorenzo era rappresentato anche come «il Mulo di
don Antonio», che girava armato fino ai denti con i suoi amici (chierici e laici) e che
a detta dello stesso chirurgo di Granaglione Francesco Costa, aveva fracassato un
braccio alla moglie e forza di botte. Insomma, i giudici della curia arcivescovile erano
incerti e dalla fine di agosto al 30 dicembre la causa restò sospesa.
Il vicario generale e i ministri fiscali della curia arcivescovile finirono per mandare
al papa un memoriale nel quale scrissero che ciascuno degli imputati accusava gli
altri e negava per se stesso ogni accusa. «Et essendo questa causa stata fatta anche
dalla curia del Torrone contro de laici, et non havendo certamente sortito di provare
ciò, che ha provato detta curia arcivescovile, essa curia del Torrone assolvette li
mandatari non però come innocenti, et quanto a Lorenzo Brizzi fu liberato dalla
contumacia per via di grazioso rescritto fatto dal signor Passeri allora uditore del
Torrone in nome dell’eminentissimo Alberoni legato. In oggi li signori diffensori
portano le sudette assolutorie e pretendono che trattandosi tra meramente laici non
possa questa curia arcivescovile procedere contro d’essi ex defectu jurisdictionis.
Onde sebbene si creda detta eccezione insussistente, tuttavia, per togliere di mezzo
ogni cavilazione e dubbio ricorrono gli oratori genuflessi alla somma giustizia della
Santità Vostra suplicando la medesima colla suprema sua autorità sanare ogni preteso
difetto di giuridizione ad effetto che detta curia arcivescovile proceda contro de
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delinquenti alla condegna punizione, anche non ostante le indebite assolutorie e
grazie superiormente narrate, massime trattandosi di delitto enorme et atrocissimo il
quale riusciria di pessimo esempio se restasse impunito». La risposta del papa arrivò
il 20 gennaio 1746 e comunicava che avocava a sè la causa e la affidava al Torrone,
ordinando che dalla curia arcivescovile venissero trasferiti al foro laico gli atti e i
carcerati. Il successivo 26 febbraio 1746, come risposta di un altro memorale nel
quale si chiedeva che cosa si dovesse fare di don Antonio, fu scritto «che già sembra
assicurato per la pena dell’ergastolo», cioè della reclusione, e pertanto «non sia
presentemente per consegnarsi alla curia del Torrone atteso che l’impunita non lo
rende in modo alcuno complice del mandato», anche se in realtà si pensava che fosse
il principale istigatore e che non fosse stato nominato per paura; se fosse stato
chiamato in causa nel processo del Torrone avrebbe potuto essere consegnato.
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14. Il secondo processo del tribunale criminale del Torrone.
I fascicoli acquisiti dalla curia arcivescovile furono studiati attentamente; poiché a
condurre questo secondo processo fu di nuovo Antonio Almerighi, si può pensare che
sia stato lui a vagliare gli elementi raccolti dai Vannicelli e dal vicario foraneo
Campoleoni. Si prese tutto il tempo necessario e solo il 26 giugno 1746 si fece
condurre davanti Domenica Macciantelli, in carcere da quindici giorni. Non ne cavò
molto e la fece ripresentare il 30 giugno. Le venne contestato che sperava di sposare
Lorenzo dopo aver progettato di uccidere il suo stesso marito con un fungo
avvelenato e che lei fosse complice dell’omicidio di Maria Gentile; l’accusavano
inoltre la confessione della congiura fatta a casa sua il 6 dicembre 1740 rilasciata da
Maria Brizzi e la deposizione di Maria Maddalena Brizzi che affermava che Maria
Gentile fosse stata fatta morire per causa sua. Alla fine dell’elencazione dei capi di
accusa le vennero concessi tre giorni per le difese. Almerighi aveva interrogata e poi
incriminata Domenica perché era l’unica che non fosse già stata processata dal
Torrone; tutti gli altri elementi su cui la congregazione criminale doveva pronunciarsi
erano stati già acquisiti dal 1742 in poi, dal Torrone o dal foro ecclesiastico. La
parola passava alla difesa e si trattava di un compito molto gravoso se fu scomodato
l’avvocato Giuseppe Maria Vernizzi, coadiutore del vecchio avvocato dei poveri
Vincenzo Andrea Guinigi, che sarebbe morto nel 1748 a settantanove anni, lasciando
Vernizzi titolare dell’ufficio. Il risultato della fatica di Vernizzi fu la scrittura Pro
Laurentio Britio cum curia Turroni, juris che fu prodotta in causa da Giacomo
Coralupi solo il 31 ottobre, dopo aver ottenuto vari rinvii dei termini per la difesa. Si
tratta di un esempio estremamente raro di requisitoria scritta e inserita nel fascicolo
processuale: abbiamo così la possibilità di valutare l’apporto dell’avvocato dei poveri
in sede di congregazione criminale.
Per l’omicidio di Maria Gentile, che insisteva a definire pazza, follemente
innamorata e presumibilmente quindi suicida, il dottor Vernizzi aveva patrocinato gli
imputati anche nel foro arcivescovile, perché le competenze del suo ufficio
comprendevano entrambi i fori e fra le altre eccezioni aveva opposto le risultanze del
primo processo del tribunale del Torrone e l’assoluzione già riportata da Brizzi nel
foro laico. La linea di difesa che fu tenuta nella nuova discussione del caso in
Torrone si basò sulla liceità di annullare la grazia del legato Alberoni e il decreto
dell’uditore Passeri a suo tempo emessi. Vernizzi citò la costituzione di Clemente
XII, In supremo justitiae solio, pubblicata a Roma il 1° febbraio 1734 là dove diceva
che non era consentito ai legati processati, condannati e banditi per omicidio senza
speciale mandato del papa graziare. Dal rescritto del legato Alberoni e dal decreto
emanato dall’uditore Passeri era evidente che né il principe né il giudice avevano
derogato dalla retta via del diritto, in quanto non c’era stata nessuna sentenza di
condanna per omicidio; infatti dal processo informativo non risultava nulla che
potesse provare la colpevolezza di Brizzi, in quanto oltre alle voci raccolte dal
reverendo Annibale, fratello di Maria Gentile e dalla loro madre Maria Caterina
Nanni, lo accusava solo la contumacia.
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Ora il fisco, argomentava Vernizzi, pretendeva che l’assoluzione di Brizzi del 1743
fosse stata ingiusta sulla base di prove raccolte negli ultimi due anni. Era però stato
assolto con la formula amplius hac de causa non molestari, vale a dire che non
poteva essere più processato per la stessa imputazione. I tribunali non dovevano
essere usati per perseguire vendette private dei nemici, che si accaniscono a cercare
accuse ingiuste e falsità, subornando testimoni «prout in praesenti casu in quo novae
probationes quas curia archiepiscopalis se acquisivisse iactabat non consistunt nisi in
depositione cuiusdam mulierculae cui acuta febre laboranti fuit impetrata impunitas,
nullo habito respectu quod ipsa soror esset eiusdem Laurentii et perinde ab
inculpando fratrem in causa capitali a Jure reprobatae» [come in questo caso nel
quale le nuove prove che la curia arcivescovile pretendeva di aver raccolto non
consistono se non nella deposizione di una donnetta alla quale, tormentata dalla
febbre, era stata concessa l’impunità, senza nessun riguardo al fatto che si trattava
della sorella di Lorenzo e per la stessa ragione ricusata dal diritto come teste d’accusa
del fratello in una causa capitale].
Agli impuniti, secondo l’avvocato, si doveva dare poco credito e cercò di sostenerlo
citando più volte come autorità dottrinale Giovan Domenico Rainaldi, che era stato
uditore del Torrone negli anni Settanta del Seicento e aveva scritto due fortunati
trattati di pratica criminale Le Observationes e la Sintaxis. Soprattutto, Vernizzi non
si risparmiò nello sfoggio di magniloquenza forense. «Oh pauperes judicum animae,
qui inanis gloriae cupidi et ut videantur in mundo horribiles et valorosi curant illicitis
et indirectis viis reorum confessiones extorquere et utinam verae essent cum bene
sciam ut plurimum eas falsas reperiri quando praesertim delictum habet complices et
uni assertorum complicum promittit iudex impunitatem ut alios detegatur cum aliud
non procuret is, qui impunitatem habuit, quam se ipsum salvare et quo in alios
detegendos mali iudicis voluntati consentire» [Oh povere anime dei giudici, che
bramosi di vana gloria e di essere considerati terribili e animosi agli occhi del mondo
si sforzano di estorcere confessioni ai rei con mezzi illeciti e subdoli; e almeno
volesse il cielo che tali confessioni fossero vere, mentre so bene che molte volte si
rivelano false, specialmente quando un crimine ha dei complici e ad uno dei presunti
corresponsabili il giudice promette l’impunità perché denunci gli altri, poiché quello
che ottiene l’impunità si preoccupa solo si salvarsi e assecondare l’obiettivo del
cattivo giudice denunciando altri].
Passarono ancora dei mesi e il 10 marzo 1747 il procuratore dei poveri Giacomo
Coralupi si ripresentò all’uditore sostenendo l’innocenza di Lorenzo Brizzi
dall’accusa di essere il mandante o un complice dell’uccisione di Maria Gentile
Nanni e dell’incesto con Domenica Macciantelli. Per la prima imputazione c’era
l’assoluzione ottenuta nel 1743. Per la seconda, il suo assistito negava la relazione
della quale a suo dire non c’era una prova conclusiva; ma anche ammettendo che
l’accusa avesse fondamento, si trattava di delitto che stando alla prassi del tribunale,
non era punito con le severissime pene dei bandi (l’esecuzione capitale) ma l’entità
della sanzione era decisa a giudizio dell’uditore. Coralupi per questo si appellava alla
clemenza del giudice per un reato compiuto per eccitazione dei sensi, in un momento
di perdita del controllo.
70
A difesa di Pier Antonio Agostini il procuratore disse che all’ora della morte di
Maria Gentile era a Casio, come potevano confermare vari testimoni. Per Maria
Maddalena Tombelli negò validità alle deposizioni di Maria, sorella sua e di Lorenzo,
impunita nella corte arcivescovile. Infine, per Domenica Macciantelli disse che non
gli risultava ci fosse una parentela di sangue con Brizzi - lo affermava malgrado le
ricostruzioni genealogiche dei testimoni e la verifica fatta dagli inquirenti sui libri
parrocchiali. In definitiva, l’argomentazione che aveva più fondamento era che la
parentela spirituale non suscitava l’orrore che suscitava quella di sangue e che
rendeva questo crimine ripugnante. L’incesto, ripeteva poi Coralupi, era punito ad
arbitrio del giudice e di solito per le donne, creature deboli, anche in forma più
blanda. Rivolgendosi all’uditore Egidio Ludovisi, chiedeva di decidere una pena
tanto leggera quanto remoti erano i gradi di parentela, pena che in questo caso si
poteva considerare già scontata con la lunga detenzione.
Tuttavia, il processo non era ancora concluso e il 3 ottobre 1747 la congregazione
criminale decise la tortura per tutti e quattro gli inquisiti. Il 5 ottobre, prima di essere
messa alle corde alla presenza del sottuditore Almerighi, Maria Maddalena sostenne
di aver detta la verità e che se non fosse stato così non avrebbe voluto stare quattro
anni in simili miserie, riferendosi alla lunga vicenda processuale e al fatto che, se
avesse saputo qualcosa di più, la carcerazione, la latitanza e i disagi sarebbero stati
sufficienti a farla parlare. Il medico chirurgo la visitò e disse che andava soggetta a
«violenti insulti eppilettici utterini con spuma alla bocca e gagliarde convulsioni» e a
un’artrite e che pertanto torturarla la metteva in pericolo di vita. Come era prassi, il
sottuditore si adeguò alla perizia dei medici. Agostini fu invece giudicato idoneo a
sostenere il tormento, che subì per un’ora senza parlare. Il 9 ottobre lo stesso rituale si
ripeté per Domenica Macciantelli; risultò che aveva avuta una lussazione composta
ad una spalla e il dottor Giovanni Antonio Galli la dichiarò inabile a sopportare la
corda.
Dieci giorni dopo congregazione criminale fu chiamata a decidere per Agostini,
Maria Maddalena e Domenica Macciantelli, i primi due imputati di omicidio e la
terza anche di incesto. Le due donne furono condannate alla detenzione in casa di
correzione per cinque anni mentre Agostini venne esiliato. Quanto a Lorenzo Brizzi,
la congregazione criminale gli inflisse la galera per sette anni per l’incesto e per
l’omicidio dispose che venisse torturato. L’uomo resistette per un’ora alle corde,
invocando la giustizia di Dio e l’aiuto di S. Antonio. Il fatto che avesse sostenuto la
prova senza confessare indusse i giudici a considerare insufficienti gli elementi di
colpevolezza: a Lorenzo restò la non lieve pena per l’incesto, per il quale nessuno
poteva con fondamento sostenere la sua innocenza. La sentenza fu pronunciata
dall’uditore l’1 dicembre 1747. Il 16 giugno 1748 Giovanni Domenico Nanni
sottoscrisse di suo pugno la pace per Maria Maddalena. Nove giorni dopo la donna
ottenne anche quella di di Marco Nanni anche a nome di Giovanni Antonio Nanni,
che si trovava a Venezia. Il 3 luglio anche l’ultimo fratello di Maria Gentile, don
Annibale, quello che con più determinazione aveva promossa l’azione giudiziaria,
firmò la riconciliazione con Maria Maddalena, che il giorno dopo venne rilasciata
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dalla casa di correzione. Non vi restò molto neppure Domenica Macciantelli, che uscì
dall’istituto di pena il 30 ottobre 1748.
Don Antonio Nanni si rivolse al cardinal legato Giorgio Doria, presentandosi come
un vecchio inoffensivo e malato di settantatre anni «al presente detento per due anni e
mesi nelle carceri di questo foro arcivescovile imposturato [accusato ingiustamente]
d’avere falsamente cooperato nella morte di Maria Gentile fu moglie di Giovanni
Lorenzo Brizzi che si anegò per la qual causa l’oratore medesimo è stato conosciuto
innocente ed approvato tale dalle scritture fatte in suo favore dall’illustrissimo signor
avvocato Vernizzi». Chiedeva la grazia che si arrivasse alla conclusione del processo
contro i carcerati nel foro criminale «dal qual sciolimento ne nascerà la liberazione
del povero oratore che trovasi in miserie tali che moverebbe a pietà sino li sassi,
essendogli costata la predetta causa migliaia di scudi e di più agravato da continue
indisposizioni per la di lui lunga prigionia dalla quale non potrà liberarsene se prima
non sarà spedita [conclusa] la causa nel foro dell’eminenza vostra reverendissima
assicurandolo il detto oratore che non mancherà porgere continuate preghiere
all’Altissimo per la di lei lunga conservazione ed ogni sua maggior esaltazione».
La supplica è senza data perché senza rescritto – la risposta dei destinatari delle
suppliche, quando c’era, veniva datata - e non risulta, fra le grazie concesse in dieci
anni dal legato Giorgio Doria, alcun atto di clemenza per don Antonio. La sua cattura
da parte del tribunale arcivescovile risaliva al novembre 1744 e quindi la supplica
doveva risalire ai primi mesi del 1747. Dal contesto si capisce che il prete sollecitava
la chiusura del procedimento, richiesta che effettivamente era stata soddisfatta alla
fine del 1747, con la sentenza di condanna contro Lorenzo. E’ impensabile che don
Antonio sia rimasto ancora rinchiuso nelle carceri del foro arcivescovile: il foro laico
non solo non l’aveva mai chiamato in causa ma non aveva preso una posizione
precisa sul dilemma iniziale – omicidio, suicidio o disgrazia – neppure nei confronti
di Lorenzo, preferendo infliggere a lui e alle due donne pene per la loro condotta
sregolata, presto rimesse a Maria Maddalena e a Domenica, e inviare Pier Francesco
Agostini in esilio.
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15. Il processo di don Lugatti.
A pochi anni di distanza il tribunale criminale del Torrone si trovò di nuovo a dover
mettere sotto processo un sacerdote i cui comportamenti non avevano suscitato
scandali per intemperanze sessuali, ma che manifestavano le stesse attitudini alla
violenza già rilevate nella vicenda precedente – abbiamo visto don Antonio, don
Lorenzo Nanni e il suo compagno don Elmi girare armati – che a due secoli dalla fine
del concilio di Trento non erano state ancora del tutto conculcate dalla pervasiva
politica di disciplinamento imposta dal concilio stesso per regolare i comportamenti
di laici ed ecclesiastici. Né gli esempi di deviazioni dal modello del buon pastore di
anime si trovavano solo nelle montagne, dove ancora periodicamente si recavano le
missioni per pacificare gli animi e regolare la condotta di fedeli e clero.
L’1 aprile 1752 il bargello degli sbirri di Bologna fece rapporto ad uno degli otto
notai del tribunale del Torrone e gli riferì che dallo scorso febbraio lo sbirro Angelo
Job (chiamato anche Jobbi) era stato carcerato in un’osteria a Bazzano, ai confini tra
il Bolognese e il Modenese. Job, da tempo latitante, aveva ucciso tre anni prima
Paolo Gherardi nell’osteria del Piratello, località poco distante da Imola e compresa
nel territorio della Legazione di Romagna. Svolgendo delle indagini e ricorrendo ad
informatori il bargello aveva accertato che l’uccisione non era avvenuta nel corso di
una rissa ma per mandato di don Domenico Lugatti e di suo fratello Giuseppe; il
crimine ricadeva quindi nella fattispecie dell’omicidio premeditato, passibile di pene
più severe di quanto non fossero quelle previste per fatti delittuosi attribuibili a
scoppi improvvisi e incontrollati d’ira.
Il movente del delitto risaliva ad eventi accaduti otto anni prima, nel 1744. Paolo
Gherardi, la vittima, abitava alla Crocetta - una località di pianura tra Bolognese ed
Imolese dove don Domenico e Giuseppe Lugatti erano affittuari di una grande tenuta
del marchese Alfonso Ercolani - e faceva il muratore, mentre suo fratello Giovanni
era guardiano a servizio dei Lugatti. I Gherardi furono incolpati di un furto di canapa
e dopo un breve processo Paolo fu trasmesso alla galera per cinque anni nonostante
fosse rimasto, tra la gente che lo conosceva, «non leggier sospetto che una tal
processura potesse essere fatta per opera delli detti Lugatti col mezzo di testimoni
non veridici e da loro subornati». Giovanni aveva chiesto ragione ai padroni per la
condanna di Paolo e per questo era stato licenziato dai Lugatti che nel giorno di
venerdì santo lo fecero attirare da Francesco Poggipollini, detto Chiccone, loro nuovo
guardiano, all’osteria di Castel Guelfo dove Giuseppe Lugatti lo aveva accoltellato.
Castel Guelfo era un feudo di giurisdizione del senatore Malvezzi e quindi il
processo per questo crimine fu celebrato dal suo governatore, Nicola Cappi, che
assolse Giuseppe Lugatti concedendogli l’attenuante della legittima difesa: in
quell’occasione molti testimoni furono disposti a dichiarare di aver sentito Giovanni
Gherardi minacciare i Lugatti, o almeno così si leggeva nei verbali del processo.
Tornato dopo cinque anni dalla galera, Paolo Gherardi si era stabilito come cameriere
all’osteria del Piratello, poco lontano dalla Crocetta, e tale vicinanza sembrò
minacciosa ai fratelli Lugatti i quali, dopo aver cercato di indurlo ad andarsene, lo
avevano fatto uccidere dallo sbirro Angelo Job prima che potesse attuare la vendetta.
73
Si appurò da subito che del delitto c’era una testimone oculare: Orsola Manaresi,
ostessa del Piratello. Dal momento dei fatti erano passati tre anni e si era aspettato di
rintracciare il presunto colpevole per aprire un fascicolo su di lui in Torrone, senza
procedere in contumacia come si sarebbe fatto cinquant’anni prima. Il tempo
trascorso rendeva più difficile individuare i testimoni e meno nitidi i loro ricordi. A
questo inconveniente supplì in parle l’integrazione tra il foro criminale del Torrone e
gli altri che al momento dei fatti avevano avviato o anche concluso (come nel caso
del governatore di Castel Guelfo) atti giudiziali relativi a questi delitti.
Il giudice del Torrone, l’uditore Filippo Mirogli, informato dal notaio, informò a
sua volta il legato Giorgio Doria che in via eccezionale ordinò che l’ostessa Orsola
fosse ascoltata extragiudizialmente, cioè senza farla giurare né verbalizzare le sue
deposizioni; altri testi dovevano essere sondati allo stesso modo per poter stabilire in
quale direzione indirizzare le indagini e per stabilire con la dovuta cautela quanto si
potesse accertare per poi comunicarlo al papa. La faccenda era infatti delicata e
richiedeva il conferimento di poteri straordinari perché era implicato un sacerdote.
Don Domenico Lugatti, come fu subito accertato, in passato era stato sospeso a
divinis da Benedetto XIV. Sapppiamo già che Prospero Lambertini in quanto
arcivescovo di Bologna aveva giurisdizione sui delitti nei quali erano implicati gli
ecclesiastici della diocesi e che le sue prerogative erano esercitate dal vicario
generale Cotogni. Avute le informazioni necessarie, tuttavia, Benedetto XIV il 20
aprile fece pervenire una lettera al legato Doria, spedita dalla segreteria di Stato e
datata 15 aprile, con la quale il papa affidava al tribunale criminale sottoposto allo
stesso legato, cioè al Torrone, la causa dell’omicidio di Paolo Gherardi cum
facultatibus procedendi, . anche se Domenico Lugatti era sacerdote e il Torrone il
foro laico. L’ordine fu trasmesso all’uditore Mirogli che emise mandato di cattura
contro i due fratelli Lugatti, i quali furono arrestati il 27 aprile. Il legato dispose la
perquisizione della loro casa alla Crocetta. Poiché se si trattava di delitto capitale
compreso nelle facoltà che gli erano state conferite come legato e per speciale
mandato fatto al suo tribunale, Doria deputò per procedere a compiere queste
perquisizioni il reverendo Gaetano Almerighi, con l’assistenza del padre, il
sottuditore Antonio Almerighi. Ancora una volta l’intreccio fra giurisdizione laica ed
ecclesiastica nello Stato pontificio rendeva possibile aggirare la separazione dei fori,
non solo conferendo ai cardinali legati, governatori «temporali», anche giurisdizione
in spiritualibus, in quanto principi della Chiesa, ma anche investendo del potere di
condurre materialmente i processi e i suoi atti (come la perquisizione) a un membro
ecclesiastico dello staff del Torrone. Don Gaetano, notaio, viene dunque ad assumere
il ruolo che normalmente sarebbe spettato al sottuditore Antonio Almerighi, suo
superiore, che fu temporaneamente declassato ad assistente.
Il 28 aprile la corte si portò in cavalcata sui luoghi del delitto per raccogliere
testimonianze e indizi e perquisì le case dei Lugatti alla Crocetta e a Castel S. Pietro
dove non trovarono guardie armate ad impedire inquinamento delle prove ma solo
servi degli stessi Lugatti. Quando finalmente arrivò il tenente degli sbirri la casa era
stata ripulita.Il 1° maggio, sempre a Castel S. Pietro, il reverendo Gaetano Almerighi
interrogò con l’assistenza del padre, il sottuditore Antonio, Orsola Morelli, moglie
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dell’oste Antonio Manaresi di Imola, già sentita extragiudizialmente. La donna disse
che l’uccisione di Paolo Gherardi, alla quale era stata presente, datava a tre anni
prima e non era stata la conseguenza di un alterco. La morte di Giovanni, fratello di
Paolo, risaliva al 1744 e Paolo era stato ucciso cinque anni dopo - scontata la
condanna per il presunto furto della canapa - per non aver voluto concedere ai Lugatti
la pace e il perdono per l’omicidio del fratello. La pace dei parenti era necessaria
perché Giuseppe Lugatti potesse chiedere la grazia e la cancellazione di ogni
procedimento contro di lui. La donna parlò del sicario che aveva ucciso Paolo
Gherardi, lo sbirro Job, come di un uomo di circa trentacinque anni, di media statura,
di pelle scura e butterata dal vaiolo, e «in volto brutto assai»; Le successive
descrizioni dei connotati dello sbirro rese da altre testimoni sono tutte
sostanzialmente concordi, soprattutto in un particolare: che Job portava i capelli con
due lunghi riccioli ai lati del viso.
Orsola siglò la sua deposizione con la croce: era analfabeta, come la maggior parte
delle donne ancora in questi anni, mentre le carte processuali di questi anni
documentano come anche in contado molti uomini sapessero firmare di proprio
pugno. Fra essi suo marito Antonio Manaresi, interrogato come quasi tutti gli altri in
quanto testimone de auditu, cioè per aver sentito raccontare i fatti: non aveva assistito
all’omicidio, e la sua deposizione si basava su quanto gli era stato riferito dalla
moglie. Precisò che Paolo Gherardi non aveva voluto fare la pace con i Lugatti
perché non avevano trattato di persona con lui, ma avevano preteso che l’accordo
fosse siglato da un frate in loro rappresentanza.
Il 5 maggio, dopo altri interrogatori, quello a Pietro Antonio Tartaglia, di Castel
Guelfo, produsse un elemento nuovo, accertando che Job era accompagnato da una
donna, che un altro testimone avrebbe poi descritto come «secca e magra». Nel
frattempo vennero incarcerati Giacomo Toppini, fornaio dei fratelli Lugatti alla
Crocetta - che risultò essere suocero di Paolo Gherardi -, e Giuseppe Calzoni, stalliere
e cocchiere degli stessi Lugatti. Una lettera del legato di Ravenna, il cardinale Mario
Bolognetti, al legato di Bologna, cardinale Giorgio Doria, concedeva ai giudici del
Torrone di procedere alle indagini e agli interrogatori entro i confini della sua
giurisdizione per l’omicidio di Paolo Gherardi commesso da Job al Piratello d’Imola
e trasmise il fascicolo degli interrogatori che erano stati raccolti in Romagna subito
dopo questo delitto.
I due Almerighi impiegarono tutta la giornata del 7 maggio per esaminarlo.
Interrogarono poi Girolamo Nardi, sbirro della squadra del tenente Zesi, il quale
raccontò che Job, quando era stato consegnato loro dagli sbirri di Romagna, aveva
reagito dicendo che nella Legazione di Bologna non era incriminato e che non
avrebbero dovuto consegnarlo ai giudici del Torrone. Alla sua donna, che era
presente alla cattura, aveva raccomandato di andare dai Lugatti perché lo aiutassero a
cavarsela. Di essa, che era stata testimone oculare del delitto come l’ostessa Orsola,
venne di nuovo data una descrizione che avrebbe dovuto mettere gli sbirri sulle sue
tracce, ma che in realtà aggiunse poco a quanto già si sapeva: «è una donna
d’alquanti più anni d’età di lui, grande di statura e magra in volto». Il 9 maggio gli
Almerighi sentirono di nuovo Orsola Manaresi la quale aggiunse che al momento
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dell’uccisione all’osteria, oltre a lei e alla donna di Job, c’era anche una ragazzina, di
nome Pasquina, che successivamente sarebbe stata identificata e interrogata. Ripetè, e
si disse disposta a ripeterlo cento volte e a giurarlo, che Paolo non era armato e che
non aveva provocato Job in alcun modo, quindi che l’omicidio aveva l’aggravante
della premeditazione.
Il fornaio Giacomo Toppini, interrogato a sua volta, disse che la figlia Domenica
era stata sposata con Paolo Gherardi ma era morta dopo un anno dal matrimonio .
Parlò dei fratelli Gherardi come di «due buoni mustazzi» – due ardimentosi – dei
quali i Lugatti «avevano soggezione» e per liberarsene avevano accusato Paolo, che
andava dicendo per il paese che li voleva ammazzare, del furto della canapa.
Processato e condannato Paolo a cinque anni di galera, anche il fratello Giovanni si
era messo a inveire contro i Lugatti; per questo era stato licenziato da guardiano e in
seguito gli era stato teso l’agguato. Il 10 maggio fu acquisito il processo celebrato nel
1744 dalla curia feudale di Castel Guelfo per l’omicidio di Giovanni Gherardi. Anche
questo fascicolo venne attentamente studiato dai due Almerighi. Nel corso della
stessa giornata interrogarono per concessione dei feudatari di Castel Guelfo il dottor
Pietro Sarnesi, nativo del marchesato di Vignola, nel Modenese, e da oltre vent’anni
medico condotto a Castel Guelfo; egli descrisse le ferite che aveva constatato sul
corpo della vittima.
Fu sentito poi Antonio Vergoni, testimone dell’omicidio di Giovanni, che confermò
le dichiarazioni rese al governatore di Castel Guelfo nel 1744 e che, come tutti gli
altri che vennero reinterrogati, fu indotto a recarsi davanti ai giudici del Torrone da
un’ingiunzione del governatore stesso. Fra essi un testimone particolarmente
credibile, un possidente che viveva di rendita a Castel Guelfo, di Giovanni Gherardi
disse che «non era uomo solito ad eseguire le minaccie che faceva, che non si era mai
saputo avesse neppur dato uno schiaffo ad alcuno, ma era così uno sbaiaffone che
quando aveva bevuto un poco diceva quello che gli veniva alla bocca e per dirla le
offese le faceva a Domenedio perché di quando in quando andava buttando qualche
bestemia di bocca». Uno sbruffone, dunque, ma non un uomo pericoloso, sosteneva
Vergoni, smentendo la tesi che era stata accolta nel 1744 dal governatore della corte
feudale di Castel Guelfo per mandare assolto Giuseppe Lugatti, per una presunta
legittima difesa.
Almerighi padre e figlio si accorsero presto che in quel processo qualcosa non
andava: dopo che gli fu letta la deposizione resa a suo tempo, Clemente Bettelli
affermò che le sue parole erano state travisate, se non deliberatamente falsificate:
«Ma io assolutamente, e non posso sbagliare, le dico e replico che non ho fatto questo
esame, non sono mai stato esaminato sopra quel particolare dal detto governatore»,
che era Nicola Cappi e che lo aveva interrogato a proposito di supposte minacce fatte
da Giovanni Gherardi, «e nemmeno da quel Dionigi Marini che lo conoscevo ed era
un suo servitorello milanese e so che lo andava facendo scrivere, e siccome sentì e
credo che esaminasse uno di detti miei figli che erano informati di quello che sapevo
io, così bisogna che quello che dissero loro lo mettesse in bocca mia e come glielo
avessi deposto io». Il governatore e il suo cancelliere avrebbero quindi adattato la
testimonianza, registrando le minacce di Gherardi ma non che era notoriamente
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inoffensivo. Clemente Bettelli commentò poi tra sé e sé: «Ma almeno che avesse
scritto quello che io potevo dire di verità, essendovi in detto mio esame lettomi delle
cose che non me le sono mai imaginate ed in sostanza è solo vero tutto quello che ho
detto e deposto in questo mio esame e nella conformità che ho deposto e non con
quelle alterazioni che ho ben sentite nel supposto esame lettomi».
Domenico Maria, uno dei figli di Bettelli, del governatore Cappi disse che
«avendomi ricercato [interrogato] sopra detto omicidio in una stanza della sua
abitazione tra noi due soli e sopra le lamentazioni di detto Giovanni [Gherardi] e
minaccie, io gli dissi quelle cose che ho dette a lei qui adesso e le scrisse in poche
righe, non già come è stato fatto qui da loro, di suo proprio carattere su della carta,
ma non mi diede giuramento e mi mandò via così senza darmelo che mi credei
volesse esaminare mio padre e mio fratello Giuseppe che sopra tali cose erano
respettivamente più informati di me, ma non fu poi chiamato né esaminato alcuno di
loro». Quindi quello che il teste credeva essere stato un interrogatorio extragiudiziale,
senza le indispensabili formalità e il giuramento, era stato registrato come una
testimonianza giudiziale. Nella sua deposizione davanti agli Almerighi, Bettelli parlò
di lamentele di Giovanni Gherardi contro i Lugatti che gli avevano fatto condannare
il fratello Paolo, e a fanfaronate: «sbaiaffature di voler fare e dire contro di loro, ma
queste minaccie come gli ho detto le faceva quando era ubbriaco e non ha però mai
eseguito cosa alcuna», anzi lo aveva visto più volte «scappellarsi davanti ai Lugatti».
Altri dissero di Giovanni Gherardi che era uno «sbaiaffone» e un ubriacone
bestemmiatore ma che non aveva mai fatto male a nessuno. Un altro testimone
affermò che Giovanni minacciava sì i Lugaresi «ma per verità devo dire che questo
era un uomo che si ubbriacava tanto spesso che era quasi sempre ubriaco e quando
aveva bevuto un poco diceva tutto quello che gli veniva alla bocca e quel che è
peggio aveva in bocca la bestemia e non ho mai saputo che abbia mai dato fastidio a
nessuno ma il suo solito era andare sbaiaffando».
Martedì 16 maggio 1752 Angelo Job venne identificato formalmente e poi
interrogato. Disse che il soprannome che aveva da sbirro era Franchino «perché ero
franco nel fare il mio uffizio, quando i compagni dicevano che si doveva andar a fare
qualche cattura mi esibivo di andar avanti agli altri». Suo padre era barbiere, una
professione onorata, ed abitava a Bologna. Secondo il suo racconto queste buone
referenze famigliari lo avrebbero reso sospetto nel crudele ambiente della sbirraglia e
sosteneva che era stato più volte licenziato nel corso degli undici anni in cui aveva
servito «non essendo io razza di sbirro facendo mio padre il chirurgo». Disse che
dopo la cattura a Bazzano era stato tenuto in segreta a Bologna nel Torrone tredici o
quattordici giorni e poi condotto alla Toscanella, al confine fra Imola e Bologna, dove
era stato preso in consegna e incarcerato dagli sbirri di Ravenna per alcuni giorni, poi
era stato portato a Faenza il sabato precedente e da lì ai confini con Toscanella. Infine
il tenente degli sbirri Zesi, detto Marletta, lo aveva portato in quell’osteria di Castel
S. Pietro dove i due Almerighi lo stavano interrogando. Le peregrinazioni del
prigioniero corrispondono al tempo che era stato necessario per condurre in porto le
trattative fra le due Legazioni per stabilire a chi spettasse la giurisdizione sul
prigioniero che era finalmente approdato nelle mani dei giudici del Torrone.
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Interrogato disse di avere moglie, Teresa Ruberti, sposata undici anni prima e
«saranno da quattr’anni in cinque che la medesima non volse stare più con me che
non gli conferiva [non le giovava] l’aria fuori di Bologna e non avrebbe volluto che
avessi più fatto lo sbirro e però ella se ne tornò a Bologna». La donna con cui stava
attualmente era di Scandiano e si chiamava Annunziata; lo aveva sempre seguito o
raggiunto nelle varie sedi in cui prestava servizio, chiamata da sue lettere. Del delitto
disse di aver ucciso «uno» all’osteria del Piratello di Imola, per disgrazia. Prima di
essersi allontanato da Bologna per intraprendere l’infamante carriera di sbirro doveva
aver assecondato la volontà del padre, che certo aveva altro in mente per lui, e aver
frequentato per alcuni anni la scuola: firmò infatti la sua deposizione con mano sicura
e tratto elegante. Qualche giorno dopo un testimone, Antonio Travisani, sbirro, che
era stato bargello della curia feudale di Dozza e che aveva avuto Job alle sue
dipendenze per un certo periodo, avrebbe detto che Angelo Job si faceva chiamare
Giuseppe Franchini perché, per sua stessa confessione, «non era razza di sbirro ma
figlio di un galantuomo». Non è chiaro se avesse voluto nascondere la sua origine
civile, o proteggere il padre dalla vergogna di un figlio sbirro. Comunque, il bargello
di Dozza lo aveva licenziato perché era violento e, malgrado all’epoca avesse con sé
la moglie, aveva una tresca con tale Anna, moglie dello sbirro Rocchetti che era
scappata con lui portando via al marito beni per 15 o 16 scudi.
.Interrogato di nuovo a distanza di alcuni giorni Job disse di avere precedenti.
Aveva accoltellato un uomo vent’anni prima ma non era stato condannato perché
aveva sostenuto la legittima difesa e non si era potuto provare che fosse morto per le
ferite ed era stato graziato. Una seconda volta era stato imprigionato per certa tela che
veniva accusato di aver contrattato illecitamente, «ma non si era potuto provare
nulla». Sulla grazia che gli era stata concessa per il primo reato disse poi di credere
che il padre «mettesse in mezzo» il senatore Zambeccari «che è suo compare». La
seconda volta la moglie aveva trattato per la sua liberazione per mezzo del cameriere
del marchese Malvezzi. Raccontò che Paolo Gherardi nell’osteria del Piratello lo
aveva provocato, lo aveva minacciato con la pistola, lo aveva insultato e aveva
sparato per primo.
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16. La condanna e la grazia
Il 21 maggio i membri della corte, in virtù delle facoltà loro concesse, da Castel S.
Pietro si trasferirono a Imola, a pochi chilometri ma nella Legazione di Romagna, per
«impinguare» il processo – cioè raccogliere nuovi elementi probatori – e si
installarono nel palazzo apostolico, residenza del governatore della città il quale mise
una stanza a disposizione degli emissari del Torrone. Anche qui ci fu chi disse che
Giovanni Gherardi aveva proferito delle minacce contro i Lugatti per la condanna del
fratello ma che si sapeva che «era un chiaccharone e non v’era da dar mente perché
era ubbriaco dalla sera alla mattina e già si sapeva che ogni poco di vino lo
riscaldalva» e che quando era guardiano «con tutte le sue armi, con una bacchetta
ognuno era buono di farlo scappare e per sei o sette anni avanti che lo conoscevo non
ho saputo che avesse mai dato fastidio ad alcuno».
Sabato 27 maggio fu interrogato Giuseppe Calzoni il quale, prima di essere trasferito
alle carceri di Imola, era stato trattenuto a Castel S. Pietro ventitre giorni come
testimone reticente; condotto davanti al sottuditore e a don Gaetano Almerighi, disse
che durante la detenzione gli era venuto in mente qualche cosa sull’omicidio di
Giovanni Gherardi. In realtà raccontò poco e niente. Non fu il solo a essere carcerato
dopo un interrogatorio extragiudiziale perché gli ritornasse la memoria: Francesco
Baldazzi detto Gnaccherini, di Castel Guelfo, aveva detto di non sapere nulla «onde
lei credendo che non volessi dirci la verità ed acciò vi pensassi meglio a dirla prima
di giurare fece trattenermi e condurre in queste prigioni e voglio ben poi dirgliela e
non patire per alcuno». Giuseppe Emiliani di Crocetta, carcerato da ventidue, giorni,
ortolano, era stato interrogato a Castel S. Pietro extragiudizialmente «ma avendo
creduto forse che io non le dicessi la verità sopra il fatto del uomicidio» di Giovanni
Gherardi «mi fece trattenere».
Don Gaetano Almerighi interrogò fra gli altri ecclesiastici Giuseppe Faella, priore
del convento di S. Giuseppe di Imola, il quale disse che Francesco Poggipollini, il
complice di Giuseppe Lugatti, in fuga dopo che il padrone aveva ucciso Giovanni
Gherardi, era andato a lavorare la terra del convento. Qui aveva confessato al priore
Faella che si era rifugiato lì perché dai Lugatti veniva addossata la colpa del delitto
tutta a lui. Successivamente, il reverendo Lorenzo dalla Sfera ripetè come tutti che
Giovanni Gherardi era un beone innocuo, aggiungendo di essersi offerto come
intermediario tra lui e i fratelli Lugatti pochi giorni prima dell’omicidio.«Era unico
per minacciar tutti e per bestamiare massime quando era ubbriaco, come era quasi
sempre, ma per la pratica che io ne avevo posso dirle che mai aveva dato fastidio ad
alcuno e questo è ben quello che nel mercordì di passione sudetto io andai dicendo al
detto Giuseppe Lugatti, suggerendogli che lasciasse andare quelle chiacchere che gli
venivano riportate sopra l’andar sbaiaffando di detto Giovanni e che avesse lasciato
fare a me, che ci avrei rimediato, ma non ebbi occasione di vedere più detto
Giovanni».
Soprattutto, a Imola gli Almerighi sentirono alcuni testimoni che si erano trovati
nelle vicinanze dell’osteria del Piratello il giorno dell’omicidio di Paolo, tre anni
prima. Scontata la galera, Paolo, che faceva il cameriere per gli osti del Piratello,
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aveva preso l’ordinazione da Job e dalla sua donna e si era diretto in cantina, mentre
Job sosteneva che era andato in cucina dove c’era un fucile e che con quello lo aveva
minacciato. Mercoledì 7 giugno Angelo Job fu messo a confronto con lo sbirro
Girolamo Nardi e con un altro testimone, Girolamo Ferri, ma insistette a negare di
aver affidato all’Annunziata, la sua donna, il compito di avvertire i Lugatti perché lo
aiutassero a sfuggire alla giustizia; non voleva ammettere di aver agito su loro
mandato e continuò a sostenere la tesi della legittima difesa. Il giorno successivo Job
fu fatto riconoscere fra altri due detenuti con connotati simili da altri due testimoni,
Francesco Biondi e da Francesco Cerè; subito dopo furono messi a anche loro
confronto con Job e confermarono «in faccia» a lui le deposizioni già rese, che lo
incriminavano.
Questi confronti difficilmente erano risolutivi perché l’inquisito manteneva la
propria versione, e così fece Job che, probabilmente con l’aiuto occulto dei Lugatti, il
giorno dopo, 9 giugno, ruppe le catene e fuggì dal carcere. Lo sbirro Girolamo Nardi
avrebbe poi riferito che il tenente Zesi aveva trascurato di sorvegliare i carcerati, che
parlavano liberamente tra loro e dalla finestra con i testimoni. Fu interrogato
Ludovico Marchi di Imola, oste all’insegna del Cappello dove mangiava e dormiva il
tenente, trascurando i detenuti e portando con sé anche una donna spacciata per sua
moglie. Il processo segnò una battuta d’arresto. La corte si trasferì di nuovo a
Bologna dove, il 20 giugno, il legato approvò formalmente gli atti fatti fino a quel
momento.
Una nuova fase si aprì il 25 di luglio quando l’uditore Filippo Mirogli interrogò
personalmente Giuseppe Lugatti, carcerato già da tre mesi in Torrone. Lugatti si
qualificò come mercante di campagna (vendeva olio e granaglie) e affittuario del
marchese Ercolani alla Crocetta, che descrisse come una tenuta che si estendeva tra i
territori del bolognese, dell’imolese e del feudo di Castel Guelfo e che comprendeva
una ventina di poderi, il mulino da farina, da polvere e da tabacco, varie casette
affittate e tre osterie, una alla Crocetta, una a Medicina e una a Casale. Per essa
pagava d’affitto 15.000 lire l’anno in quattro rate. Viveva in comunione col fratello
don Domenico nella casa dell’ospizio dei Cappuccini della Crocetta di cui don
Domenico era cappellano. Specificò i termini del contratto d’affitto, la conduzione a
mezzadria dei singoli poderi, con braccianti assoldati per lavori straordinari, gli affitti
pagati dai locatari delle case, i salari corrisposti ai due fattori, ai cantinieri, alle due
serve di casa e al cocchiere che conduceva lo sterzetto, una piccola carrozza aperta.
Giuseppe era sposato, con cinque figli e uno in arrivo. Teneva aperta una casa di
proprietà a Castel S. Pietro, che affittava mantenendo però a sua disposizione due
stanze per mandare a scuola due figlie, una di dodici anni e l’altra di cinque. Questo
particolare non quadra con un’immagine di brutalità senza sfumature dei due Lugatti:
la sensibilità per l’educazione delle ragazze, a metà Settecento, non era
evidentemente estranea ai notabili di contado più arroganti.Sempre il 25 luglio don
Gaetano Almerighi, con l’assistenza del padre Antonio, interrogò poi don Domenico
Lugatti, arrestato dal 27 aprile.
Sabato 5 agosto, davanti a Filippo Mirogli, Job, catturato, venne riconosciuto
formalmente e all’uditore diede particolari inediti sulla sua formazione e sui suoi
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rapporti famigliari: disse che il suo primo mestiere era quello di barbiere, che
esercitava col padre «ma da undici anni in qua essendomi disgustato con mio padre
per la seconda moglie che prese» se ne era andato di casa. Dopo l’evasione dal
carcere era fuggito sullo stato veneto ed era stato arrestato a Padova. Al momento
della fuga aveva una catena attraverso la vita, la mano destra ammanettata, manettoni
di ferro ai piedi, un collare di ferro al collo con una catena passata attraverso un
anello di ferro. Da tutto questo era riuscito a liberarsi con un coltello a serramanico
che non gli era stato tolto durante la perquisizione. I giudici sembrano credergli e
nessuna guardia venne messa sotto accusa.
Dieci giorni dopo venne catturata anche Annunziata, la donna di Job, anch’essa
portata davanti all’uditore Mirogli il 18 agosto, dopo numerosi interrogatori
extragiudiziali. Si qualificò come Lucia Montanari di Modena, «donna libera».
Interrogata su quale fosse la sua occupazione rispose: «Non ho alcun particolare
mestiere, ma faccio quel mestiere che fanno le donne, cioè filare, cucire, far calzette,
tessere e non ho abitazione in alcun luogo essendo andata girando in qua ed in là da
molti anni in compagnia di detto Angelo». Lui le aveva promesso che l’avrebbe
sposata, la faceva passare per sua moglie e la chiamava Annunziata, non disse perché.
Confermò di aver visto il suo uomo sparare a Paolo Gherardi ma non ammise che
l’avesse fatto per mandato, né lo fece negli interrogatori successivi.
Intanto Giuseppe Lugatti era tornato davanti a Filippo Mirogli al quale disse di
essere già stato processato e assolto per grazia per l’omicidio di Giovanni Gherardi
dal tribunale feudale di Castel Guelfo. Gli fu obiettato, come pochi anni prima aveva
argomentato l’avvocato che aveva difeso Lorenzo Brizzi, che la grazia per omicidio
poteva essere concessa solo dal papa. Nel caso di Brizzi si era dedotto da questo che
l’atto di clemenza non era stato concesso dal legato per un omicidio, e che quindi la
morte di sua moglie non doveva essere qualificata come morte violenta. Nel caso di
Lugatti lo stesso argomento giocò contro di lui perché fu sostenuto che la sua
assoluzione era nulla a tenore della costituzione di Clemente XII In supremo iustitiae
solio, dell’1 febbraio 1734, che toglieva ai giudici e agli stessi legati la facoltà «di
potere assolvere, graziare, comporre o in qualunque altro modo grazioso rimettere li
rei d’omicidio con dichiarazione che questa facoltà è riservata al solo sommo
pontefice». Giuseppe Lugatti, incalzato ripetutamente dall’uditore che lo interrogò
anche nei giorni successivi, negò che gli elementi emersi dal processo lo
incriminassero. Un chiaro tentativo di contrastarli fu la deposizione di Domenico
dall’Osso, contadino su uno dei poderi della tenuta Ercolani, quindi dipendente dei
Lugatti, il quale disse che Giovanni Gherardi aveva proferito minacce contro i suoi
padroni entrando ubriaco e armato anche in chiesa. Il 18 settembre Mirogli, sulla
scorta di numerose testimonianze raccolte, contestò a Giuseppe Lugatti di aver dato
ricetto a malviventi e di essersene servito come sicari per sequestri di persona e
tribunali privati. Si era cioè arrogato il diritto di farsi giustizia da solo in alcuni
episodi di furto, costringendo i presunti colpevoli a confessare dopo averli tenuti
legati e rinchiusi per alcuni giorni. Lugatti replicò di non aver inteso agire contro la
giurisdizione del principe ma per dare poi i colpevoli in mano alla corte.
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Il tenente Zesi, fuggiasco, era stato ripreso quasi subito: il 22 agosto, quando venne
interrogato dall’uditore Mirogli, risultava infatti carcerato da due mesi e due giorni
nelle carceri arcivescovili dove era stato condotto dagli sbirri che lo avevano estratto
dal luogo immune di S. Caterina di Saragozza. L’uditore l’informò che la sua cattura
da luogo immune era seguita «di speziale ordine e comando di Nostro Signore». Le
aree degli edifici di culto – chiese e sagrati – erano escluse dal potere del foro laico e
chi vi si rifugiava avrebbe dovuto godere dell’immunità. Ma in questo, come in molti
altri casi, gli sbirri del Torrone avevano avuto l’autorizzazione alla cattura. Nello
Stato pontificio, e in particolare a Bologna dove il papa era anche arcivescovo, foro
laico e foro ecclesiastico, più che ostacolarsi a vicenda, sembrano ancora una volta
agire in maniera concertata ed efficace. Sbirri del Torrone ottengono la facoltà di
agire in luogo immmune; gli stessi fanno mettere il prigioniero sotto custodia nelle
carceri del foroecclesiastico da dove viene poi prelevato per essere interrogato
dall’uditore del Torrone. A questi Zesi disse che aveva fatto di tutto per custodire il
prigioniero e lo ripeté il 7 settembre quando fu sentito di nuovo. Il 18 ottobre fu
esiliato.
Altri interrogatori accertarono vari casi nei quali i Lugatti avevano fatto
intimidazioni ai parenti delle vittime per ottenere la pace (per una pace non
sottoscritta Paolo Gherardi era stato ucciso). Né si limitavano ad esercitare pressioni
solo per se stessi: un testimone, Giacomo Andrea Bennoli, disse che chi era querelato
o bandito andava a rifugiarsi dai Lugatti. Dopo di lui, Giovanni Battista Serragli,
negoziante di grani, asserì che con i buoni uffici dei Lugatti aveva avuto la
liberazione da una querela ma poi li descrisse come prepotenti e omicidi. Antonio
Ponti di Molinella, fattore del marchese Gaspare Bolognini nella sua tenuta a Villa
Fontana, disse che suo padre, durante la legazione precedente stato processato per
frodi alimentari e contrabbando «e pur troppo condannato a spendere di molto» ed era
stato latitante per più di un anno con l’aiuto dei Lugatti.
Giuseppe Buscaroli, interrogato sulla fama dei Lugatti, disse che erano «prepotenti
che con le loro prepotenze anno messo assieme la maggior parte della robba che
hanno, mentre le loro prepotenze le fondavano ed hanno sempre fondate sull’ombra
della casa Ercolani, in ricettare ed assicurare banditi e contumaci di tutte le Legazioni
ed altre parti alla Crocetta e con degli uomini di questa fatta mettevano terrore a chi
gli pareva facendoseli andar dietro armati di bocche da fuoco ed a chi le davano ed a
chi le promettevano e gli pareva di aver sempre in pugno come si suol dire gli sbirri e
la giustizia mentre tenevano mano ai ladri di cavalli ed a gente che cometteva
qualsivoglia iniquità e Dio sa quante relazioni [denunce] sarebbero andate alli
tribunali se non fossero stati essi di mezzo in ogni cosa, particolarmente nei contorni
di Castel S. Pietro, Castel Guelfo, Selva, Crocetta e Medicina, ed in somma pareva
che fossero loro il legato di Bologna e dove si mettevano anche nelle cose più grandi
e quasi impossibili ne riuscivano con facilità».
Interrogatori e confronti si protrassero per quasi un altro anno. Il 6 novembre venne
accolta la richiesta della difesa dei Lugatti di controinterrogare tre testimoni
dell’accusa, che però non modificarono significativamente le dichiarazioni già rese.
Agli inizi di dicembre cominciò anche il processo difensivo durante il quale
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dovevano essere raccolte altre testimonianze atte a impugnare le prove e gli indizi che
i giudici avevano raccolto contro gli imputati. E’uno dei rarissimi casi di processo
difensivo, che conferma come solo persone influenti e danarose se lo potessero
permettere, anche se in questo caso, come in altri, non sembra aver alleggerito
l’impianto delle accuse contro gli inquisiti. Fra coloro che si presentarono, indotti
dalla moglie di Giuseppe Lugatti, ci furono Filippo Giovannini di Bologna, cameriere
del marchese Alfonso Ercolani, e soprattutto due religiosi, ma nessuno riuscì ad
essere abbastanza convincente e soprattutto a contrastare la prova acclarata che
Giuseppe Lugatti aveva compiuto un omicidio.
Quanto a Job, era a sua volta certamente colpevole dell’uccisione di Paolo Gherardi,
ma non era del tutto certo che lo avesse fatto per mandato, e il 30 aprile 1754 la
congregazione criminale decretò che dovesse essere torturato. Il 12 maggio una
lettera inviata da Roma dal segretario di Stato, Silvio Valenti Gonzaga, comunicò al
legato le facoltà conferitegli dal papa di sottoporre Job alla tortura della veglia, il
terribile supplizio che ormai molto di rado veniva inflitto ai rei; perché
particolarmente efferata, veniva dunque autorizzata non più dalla congregazione
criminale ma direttamente dal pontefice. Un segnale in più che sulla opportunità della
tortura come strumento per strappare la verità agli inquisiti anche nello stato
pontificio si praticavano maggiori cautele rispetto al passato.
Tuttavia, Job non fu torturato: una perizia dei medici del 27 maggio lo dichiarò
inidoneo sia al tormento della fune sia a quello della veglia. Il 5 giugno 1754 la
congregazione criminale condannò Angelo Job e Giuseppe Lugatti alla trireme a vita.
Per il sacerdote fu disposta la reclusione a vita, purché provvedesse ai propri alimenti.
Altrimenti anche per lui la pena sarebbe stata la stessa degli altri due. Tuttavia il
decreto della congregazione criminale fu formalizzato dalla sentenza dell’uditore
Mirogli, l’8 giugno successivo, solo per Angelo Job. I Lugatti avevano fatto ricorso
alla clemenza del papa e il 4 settembre il segretario di Stato da Roma comunicò al
legato l’autorità conferitagli da Benedetto XIV di commutare la condanna dei Lugatti
con la relegazione ad Ancona, lasciando allo stesso legato la facoltà di decidere se
avvalersi di tale autorità ed elargire la grazia. Il cardinale Giorgio Doria non la
concesse e il 16 settembre 1754 Mirogli pronunciò la sentenza contro i fratelli Lugatti
(rispettivamente trireme a vita e reclusione a vita). Uno degli ultimi atti di clemenza
di Doria era stato invece quello registrato pochi giorni prima, l’11 settembre, nel libro
delle suppliche, a favore del dottor Nicola Cappi, deferito alla giustizia per mancanze
formali e sostanziali nel processo da lui fabbricato come governatore di Castel Guelfo
contro Giuseppe Lugatti per omicidio di Giovanni Gherardi. Per la grazia il dottor
Cappi concordò il pagamento di 25 scudi.
Protezioni e risorse economiche non mancavano ai Lugatti e quello che non era
riuscito con il legato Doria riuscì con il suo successore, il cardinale Fabrizio
Serbelloni. Il 20 aprile 1756 il legato concesse infatti ai due fratelli, che si erano
nuovamente rivolti al papa, la grazia di cancellare la loro condanna, avvalendosi delle
facoltà che gli erano state conferite da Benedetto XIV. L’atto di clemenza di
Serbelloni, tuttavia, costò caro: 600 scudi (ma per i Lugatti la cifra non era proibitiva:
era pari a 3000 lire, un quinto di quanto pagavano ogni anno al marchese Ercolani per
83
l’affitto della tenuta della Crocetta). Per il traviato Angelo Job non ci fu invece alcuna
remissione di pena. Le raccomandazioni che in passato suo padre e sua moglie gli
avevano procurato questa volta non lo aiutarono.
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Conclusioni.
Da una ricognizione puramente quantitativa della tipologia di reati che vengono
perseguiti a metà Settecento si può ricavare una immagine ambivalente della società
bolognese di quegli anni: dentro alle mura ricchi cittadini e nobili che denunciano
ripetutamente furti sempre più audaci e invocano una stretta repressiva che ponga un
argine alla pressione dei disperati che si affollano per le strade e nelle chiese, pronti
ad afferrare un borsellino o anche un semplice fazzoletto di seta. Sempre meno la
città è teatro di quegli scontri sanguinosi che cinquant’anni prima avevano riempito i
fascicoli del tribunale del Torrone. Ma un’altra immagine inattesa emerge da due
case studies tratti dalla stessa fonte, e in questo caso in continuità con il passato:
quella dei preti violenti e fornicatori che sopravvivono tenacemente nel contado, del
tutto alieni da quei comportamenti compunti e ben distinti dalla schiera dei fedeli,
dalle loro debolezze, che costituiva l’identikit del pastore di anime. Il tribunale
arcivescovile, d’altra parte, si rivela disposto a perdonare o a ammonire blandamente
i peccati della carne anche se, all’occorrenza, è del tutto in grado di far parlare gli
abitanti delle comunità, come e più dei giudici del tribunale laico.
La campionatura dei processi celebrati nel tribunale criminale del Torrone a metà
Settecento ci dà solo in parte un quadro dell’attività giudiziaria bolognese nel
Settecento. Non sappiamo quasi nulla di come funzionava il foro ecclesiastico, che
finora è stato esplorato quasi esclusivamente per conoscere quanto i dettami
postridentini in materia matrimoniale fossero stati applicati. E’ certo un lavoro che
prima o poi andrà affrontato, anche per avvalorare alcune ipotesi che sono emerse
dall’esame di alcune grosse cause celebrate tra gli anni Settanta del Seicento e gli
anni centrali del Settecento. In tutti questi casi si rende evidente come la distinzione
fra il foro laico e il foro arcivescovile non implicava necessariamente un’assoluta
separazione fra le due procedure: un clero che si rivela particolarmente riottoso e
restio ad adeguarsi ai modelli tridentini ancora in pieno Settecento è stato perseguito
proprio perché il tribunale «laico» del Torrone ha potuto avviare inchieste per
concessione pontificia mettendo sotto accusa dei chierici, rei di crimini
particolarmente gravi, giungendo fino a comminare la pena di morte. Ho usato
prevalentemente l’espressione più corrente, anche se sono consapevole che nel caso
dello Stato pontificio piuttosto che di giurisdizione «laica» sarebbe più appropriato
parlare di giurisdizione «temporale», essendo ai vertici di entrambi i fori due persone
ecclesiastiche - a Bologna due cardinali: il legato e l’arcivescovo - e questo talvolta,
invece di intralciare le procedure, ne migliorò l’efficienza.
Con la causa per la morte di Maria Gentile Nanni si apre uno squarcio nel tessuto,
apparentemente ordinato secondo severi modelli di comportamento, della società di
metà Settecento, ed entrano in scena donne proterve, preti violenti e fornicatori e i
loro figli, noti a tutto il paese. Molti dei suoi esponenti affermano che nella loro
comunità non accadrebbe mai nulla che valga la pena di discutere e divulgare, se non
fosse per don Antonio, le sue amanti e i suoi bastardi. Negli anni di Benedetto XIV la
stretta della giustizia sembra accentuarsi, anche se, per don Antonio Nanni, le ripetute
denunce della sua condotta licenziosa sporte dai paesani si erano concluse per diverso
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tempo con blande ammonizioni ed era stato necessario il cadavere di Maria Gentile
per far convergere le indagini su una famiglia che offendeva i benpensanti del paese.
Per questa cattiva fama, coralmente confermata da tutti i testimoni, il prete donnaiolo
e il suo degno figlio furono da molti ritenuti capaci di uccidere la pia nuora e moglie,
ma i voluminosi processi non dissiparono del tutto il dubbio che la poveretta, pazza di
gelosia e sfinita dai maltrattamenti del marito, in definitiva si fosse gettata nel canale
di sua volontà, come sosteneva l’avvocato difensore del prete e dei suoi figli.
Nel caso di don Antonio Nanni foro laico e foro ecclesiastico hanno proceduto
parallelamente e il primo, dopo aver concluso l’iter processuale, lo riaprì dopo anni in
seguito alle acquisizioni del foro ecclesiastico: una vera e propria integrazione
reciproca, autorizzata dall’arcivescovo e cioè da papa Benedetto XIV,
simultaneamente sovrano, pontefice e metropolita di Bologna. A smentire
l’impressione superficiale di una caotica sovrapposizione di competenze, c’è nella
causa che coinvolse don Antonio – come si può osservare in altri processi – anche la
cooperazione dei tribunali feudali che trasmettevano verbali degli interrogatori di
imputati e testimoni e li facevano confluire ai fori superiori e nell’inchiesta
principale. Se non si tratta di un rapporto gerarchico istituzionalizzato, un rapporto di
collaborazione si instaurava però con accordi stretti di volta i volta tra i singoli
giusdicenti, insomma attraverso una rete di scambi personali che colmavano dislivelli
e fratture del sistema.
Quello di don Antonio non è l’unico esempio di sacerdote la cui vita non si
conforma al modello edificante proposto ai giovani seminaristi dal 1563: molti se ne
incontrano negli anni Settanta del Seicento e malgrado la stretta repressiva che fu
attuata a cavallo dei sue secoli, ancora nel 1752, a conferma che don Antonio non era
poi un caso isolato alla metà del XVIII secolo. Lo dimostra la causa contro don
Domenico Lugatti, mandante dell’omicidio Paolo Gherardi, avvenuto all’osteria del
Piratello, fuori Imola, al di là dei confini della Legazione di Bologna; anche in questo
caso venne avviato uno scambio di lettere per consentire al tribunale del Torrone di
operare nella Legazione di Romagna, separata da quella di Bologna e retta da un
proprio legato, in accordo con i giudici delle città romagnole e, ancora, con quelli di
feudatari bolognesi. Questa volta tutta la procedura fu affidata alla curia del Torrone,
sia pure incaricando un esponente ecclesiastico dell’organico del tribunale.
Due sono, quindi, i fili conduttori che ho cercato di seguire: uno è quello delle
procedure che poterono essere messe in atto dal foro laico anche fuori del proprio
ambito giurisdizionale – si trattasse di comunità di confine per le quali i testimoni di
un reato dovevano essere interrogati al di là del limite territoriale, o di piccoli feudi di
nobili bolognesi, che sembrano tutti disposti a riconoscere la superiore autorità del
legato, anche se i processi vengono avviati da propri giusdicenti, o infine del foro
arcivescovile, che aveva una capillare presenza sulla diocesi, attraverso i vicari
foranei, ma che poteva vedere avocare i processi dal tribunale del Torrone. Il secondo
tema, che si intreccia col primo, sono i processi che riguardano il clero indisciplinato.
Dagli anni Settanta del Seicento in casi di reati molto gravi il foro laico prende il
sopravvento, in alcuni casi con implacabile crudeltà. A metà Settecento la causa di
don Antonio ci mostra tutta la perizia procedurale del foro arcivescovile, ma alla fine
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è ancora il Torrone a emettere la sentenza. Rimane aperta la domanda che
inevitabilmente si pone: non tanto quanto questi case studies siano rappresentativi dei
comportamenti diffusi tra il clero a metà Settecento, ma quanto tali esempi di
repressione abbiano voluto incidere con più vigore e stabilmente su una realtà che in
precedenza solo eccezionalmente si lasciava venire alla luce, in casi di omicidio o di
reati comunque gravi, mentre sui comportamenti sessuali la tolleranza sembra essere
stata abbastanza generosa.
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Nota bibliografica e fonti
Per un inquadramento generale dello Stato pontificio nel periodo di Benedetto
XIV rimandono ancora insuperati la voce di Mario Rosa nel Dizionario Biografico
degli italiani e i volumi di Franco Venturi dedicati al Settecento riformatore, in
particolare il vol. I, Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969,
specificamente alle pp. 98 e sgg. dove si parla del declino dei domini della Santa
Sede e dei passaggi di truppe durante la guerra di successione austriaca. Per
Lambertini arcivescovo di Bologna si veda Mario Fanti, Prospero Lambertini
arcivescovo di Bologna (1731-1740), in Benedetto XIV (Prospero Lambertini),
Convegno internazionale di studi storici, Cento, 6-9 dicembre 1979, a cura di
Marco Cecchelli, Centro studi «Girolamo Baruffaldi», vol I, pp. 165-233. Per i
rapporti del papa con la città e sulle sue condizioni economiche si veda Alfeo
Giacomelli, Economia e riforme a Bologna nell’età di Benedetto XIV, in
Benedetto XIV, cit., vol II, pp. 873-913. Sull’opera di riforma – ma solo per
quanto riguarda le riforme economiche e non quelle, ancora tutte da studiare, dei
tribunali dello stato – sono ancora utilissime le numerose opere di Luigi Dal Pane,
in particolare Lo Stato pontificio e il movimento riformatore del Settecento,
Milano, Giuffrè, 1959.
Per i rapporti tra Bologna e Roma e l’amministrazione della giustizia da parte
del Tribunale del Torrone si rimanda – anche per la bibliografia di riferimento - a
Giancarlo Angelozzi, Cesarina Casanova, La giustizia criminale in una città di
antico regime. Il tribunale del Torrone di Bologna, Bologna, CLUEB, 2009. Per
una comparazione fra le condizioni della società a metà Settecento e il secolo
precedente si veda di Ottavia Niccoli, Storie di ogni giorno in una città del
Seicento, Roma-Bari, Laterza, 2000. Per uno studio delle cause matrimoniali
discusse dal tribunale arcivescovile di Bologna si veda Lucia Ferrante, Il
matrimonio disciplinato: processi matrimoniali a Bologna nel Cinquecento, in
Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo
ed età moderna, a cura di Paolo Prodi, Bologna, il Mulino, 1994, pp. 901-927.
Per la crisi del setificio si rimanda ai numerosi lavori di Carlo Poni citati
nell’importante saggio di Alberto Guenzi, L’identità industriale di una città e del
suo territorio, in Storia di Bologna, diretta da Renato Zangheri, 3, Bologna
nell’età moderna, I, Istituzioni, forme del potere, economia e società, a cura di
Adriano Prosperi, Bologna, Bononia University Press, 2009, pp. 449-524, dal
quale emerge una ricostruzione molto più complessa delle fasi di espansione e di
declino della manifattura serica. In particolare, si veda alle pp. 492-493: «Si
potrebbe addirittura considerare la crisi della prima metà del Settecento come
un’occasione per imporre alle forze produttive la ricerca di una via d’uscita che
veniva individuata nella ricerca della grande dimensione. In ogni caso, il crollo del
setificio di rivelò un processo molto più complicato di quello immaginato e
descritto fino a qualche anno fa».
Tutto il volume curato da Prosperi va comunque tenuto presente per integrare la
bibliografia su Bologna in un periodo lungo. Sulle condanne a morte, è stata
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utilizzata l’utilissima appendice della tesi di laurea di Antonia Cirigliano, La
criminalità in una città di antico regime, discussa nel a.a. 1994/95 con Paolo
Prodi, nella quale ha collazionato vari elenchi di giustiziati.
Sulla tolleranza delle comunità rurali nei confronti del concubinato dei preti si
veda Sara Luperini, Il gioco dello scandalo. Concubinato, tribunali e comunità
nella diocesi di Pisa (1597), in Trasgressioni. Seduzione, concubinato, adulterio,
bigamia (XIV-XVIII secolo), a cira di Silvana Seidel Menchi e Diego Quaglioni,
Bologna, il Mulino, 2004, pp. 383-415.
Per l’anno campione ho spogliato i voll. dell’Archivio di Stato di Bologna
(ASB), Torrone, nn. 8120/2, 8120/3, 8122/2, 8122/3, 8123/2, 8124/2, 8125/2,
8125/3, 8126/3, 8127/2, 8128/2, 8128/3, 8129/2, 8129/3, 8130/2, 8130/3, 8131/2,
8131/3, 8132/2, 8132/3, 8133/2, 8135/2, 8136/2, 8136/3, 8138/2, 8139/2, 8139/3,
8141/2.
Per il processo contro gli speculatori che nel 1750 e negli anni precedenti
avevano affamato le comunità della montagna si veda ASB, Torrone, vol. 8131/3,
fasc. 44, Super extractionibus tritica ac diversarum bladarum extra status,
monopoliis aliisque. Sulla buona fama di Domenico Calligari, ASB, Torrone, vol.
7032, fasc. 4.
Sulla riforma attuata da Benedetto XIV nelle procedure dei tribunali si vedano
Le cinque costituzioni del SS. Signore nostro Benedetto XIV sommo pontefice
sopra la riforma della curia civile e criminale di Bologna, in Bologna
MDCCXLIV per il Sassi successore del Benacci per la stamperia camerale.
Sulle grazie concesse dal cardinale Giorgio Doria si fa riferimento ad ASB, libri
Supplicationum nn. 111-112.
Sulla violenza nobiliare e contadina degli ultimi decenni del Seicento e sulla
sua repressione si veda Giancarlo Angelozzi, Cesarina Casanova, La nobiltà
disciplinata. Violenza nobiliare, procedure di giustizia e scienza cavalleresca a
Bologna nel XVII secolo, Bologna, CLUEB, 2003.
Per la Costituzione di Urbano VIII si veda Confirmatio & innovatio
Constitutionis Pii papae V contra monetarios eiusdemque ad quascumque
personas ecclesiasticas saeculares ac cuiusque ordinis, nec non etiam militarium
regulares ampliatio et extensio, in Magnim Bullarium Romanum editio Novissima
octo voluminibus comprehensa, tomus quintus iuxta exemplar Romae ex
typographia Reverendae Camerae Apostolicae, MDCLXXII, Luxemburgi
sumptibus Andreae Chevalier, bibliopolae & typographi, pp. 123-124, constitutio
LXIX.
Per l’incriminazione e la condanna di don Giuseppe Bolognini e don Domenico
Burgoni si veda ASB, Torrone, vol. 6996/2 (il processo occupa tutto il volume).
Per la vicenda di don Cosimo Pinelli si veda ASB, Torrone, vol. 7021, fasc. 2
(senza titolo)
Per la vicenda di don Giacomo Lamari si veda ASB, Torrone, vol. 7019, fasc.
in fine, non numerato.
Su don Elefanti e la sua posizione nel conflitto fra Ballarini e Calzolari si
vedano ASB, Torrone, vol 6963, fasc. 77, Super percussionibus cum archibusio et
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vulneribus cum aliquali in personam Michaelis Galli de commune Casalecchij e
vol. 6964/1, fasc. 6, Super archibusiatis et vulnere cum periculo viate de
mandato explosis in personam Francisci Ballarini de commune Cerreduli et
homicidio exinde secuto.
Per la condanna del conte Giuseppe Maria Felicini vedi ASB, voll. 6889 e 6962,
fascc. non numerati.
Sul processo ad Antonio Pepoli e a don Dalle Donne vedi ASB, Torrone, vol.
7255/2, fasc. non numerato, Contra Marchionem Antonium de Pepulis, Joseph
Galantem et rev. Carolum dalle Donne. La supplica e la grazia concessa da
Pignatelli sono in ASB, libri Supplicationum, n. 95.
Il processo a don Giacomo Burgaia è in ASB, Torrone, vol. 7031, fasc.16.
L’uccisione di don Santolini, le rivalità con lui per la cura delle anime e il
ménage dei preti Palmerini, zio e padre dell’uccisore, sono raccontate in ASB,
Torrone, vol. 6974/1, fasc. Super homicidio appensate cum archibusiatis in
personam reverendi Gabrieli Santolini.
Il processo a don De Maria è in ASB, Torrone, vol. 6993, fasc. 11, senza titolo.
La vicenda di don Antonio Nanni e della morte di Maria Gentile è stata
ricostruita da ASB, Torrone, vol. 8062/2, fasc. 1, Super praetensa submersione ac
aliis, di oltre 1000 carte nel quale sono contenuti anche i processi pro curia
archiepiscopali che vennero consegnati ai giudici del Torrone quando Benedetto
XIV rimise la causa nelle mani del legato.
Il processo ai fratelli Lugatti è in ASB, Torrone, vol. 8160/4, fasc. 83, Super
pluribus delictis.