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Educazione degli Adulti

Date post: 19-Jan-2023
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Alle mie cascate bionde. « I believe it’s time to lead a new era of mutual responsibility in educa- tion – one where we all come together for the sake of our children’s success ». Obama, 28 maggio 2008, Thornton, Colorado. 1
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Alle mie cascate bionde.

« I believe it’s time to lead a new era of mutual responsibility in educa-tion – one where we all come together for the sake of our children’s success

».

–Obama, 28 maggio 2008, Thornton, Colorado.

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Parte prima

Modelli didattici ed organizza-tivi per l’Eda.

di Marcello Bettoni

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Cap. 1 - Competenza e riflessione.

I. – Sì, certo, così è tutto più chiaro. Lui sale in amministrazione, ed io me ne resto qui. Così è tutto più chiaro – Stizza, dispetto, disappunto, ma anche quel senso dell’ineluttabile, del “logico

che vada così”. La rabbia, però, rimane. – Che debba dunque passare il resto dei miei giorni qui, in produzione? Non ne

posso più. Gente vecchia, stupida, ignorante, che non ha voglia di far niente, soprattutto

che non vede le cose, l’”organizzazione”, come la chiamo io… Già, l’esperienza, ma quale esperienza…? Se non riescono a vedere, a capire …

lavorano qua da vent’anni ma ne so di più io che sono arrivato l’anno scorso. E allora, se non è l’esperienza, cos’è? La scuola? Bella cosa la scuola…– Brutti ricordi affioravano alla mente di Paolo. La scuola per lui era solo un in-

sieme di immagini tristi, di fallimenti, di cose che non c’entrano con la vita, col la-voro, con i suoi interessi più vivi, come i motori, lo sport, le ragazze. Ovvio che poi uno lasci perdere.

– Ma dimmi te – pensava Paolino – (che rabbia quel diminutivo con cui lo chia-mano sul lavoro, quasi a sottolineare che lui è senza esperienza, l’ultimo arrivato, mettersi in coda, prego), dimmi te se uno a sedici anni può preferire la vita di Leopardi a un enduro 750 da smontare, rimontare, pulire, coccolare…e tutti quei numeri, in matematica. Dovrebbero vietarla, la matematica nelle scuole…solo il necessario per fare di conto e non farsi fregare col resto…–

E giù a fantasticare… fossi io un professore, fossi io il mio capo reparto, fossi io il mio titolare, le cose girerebbero meglio, la scuola non sarebbe così assurda, il mondo sarebbe migliore...

La settimana scorsa, l’ultimo scontro. – Mettile lì, quelle taniche – gli aveva detto il Piero, il suo caporeparto. Il Piero, il suo cruccio. Alto, brizzolato, quasi sessant’anni, occhi spenti di chi o

è sempre stanco oppure la vita gli ha già dato tutto, il Piero era davvero la sua di-sperazione.

All’inizio aveva pensato che se uno così era diventato il capo, a lui, a Paolino, sarebbe toccata in sorte, prima o poi ed inevitabilmente, la Presidenza della Re-pubblica.

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Non era un paradosso, ma una questione di proporzioni. Sentiva con ineccepi-bile chiarezza che se uno come il Piero, che a malapena sapeva pronunciare una frase intera in lingua italiana, lo avevano fatto caporeparto, per una pura questio-ne di distanze e di proporzioni a Paolino non sarebbe potuto toccare niente di meno che il Quirinale.

Perciò , speranze di promozione, di avanzamento, di aumento di stipendio, magari di cambiare reparto e salire in amministrazione –con le segretarie in mini-gonna- ce n’erano in abbondanza.

Questo i primi tempi. Settimana scorsa, si diceva. Il Piero insisteva, le taniche le voleva ai bordi del

vialetto. Così si faceva da sempre, e così voleva continuare a fare. Col Piero non si poteva discutere, perché – inferiore a tutti in dialettica – dopo il primo contraddit-torio se ne andava, ti piantava lì con la tua considerazione inoppugnabile. Non serviva avere una, dieci, cento ragioni, tanto si doveva fare come diceva lui, e ba-sta. Forse lo avevano messo lì anche per quello, perché col Piero era davvero diffi-cile litigare. Mai alzava la voce, mai se la prendeva. Ottuso, anche nei rapporti.

Sulle taniche, per esempio, la cosa era evidente. Metterle lì, ai bordi del vialet-to, voleva dire restringere il passaggio. Ora, anche se raramente, tuttavia ogni tanto-diciamo una volta al mese, arrivava un camion di fornitori un po’ più largo dei soliti furgoncini. Camion che, proprio a causa delle taniche, non riusciva a pas-sare. E allora? Indovina un po’ chi chiamavano a spostare le taniche? Lui, il Paoli-no, l’ultimo arrivato.

Che in questo modo si sentiva doppiamente sbeffeggiato. Primo perché chia-mavano lui, a fare il più stupido dei lavori, a spostare le taniche, secondo perché lui l’aveva detto.

Davvero così non si poteva andare avanti, e Paolino era deciso a cambiare qualcosa, nella sua vita.

II. Un giorno il Piero gli fa : – Senti, mi ha detto la Marilena che devi salire su. – Laconico come sempre, il Piero, ma l’avviso era di quelli intriganti. Marilena era di per sé intrigante, anzitutto. Minigonna perenne, sui trentacinque, certo un gran bel vedere rispetto ai nati stanchi della produzione. Soprattutto Ma-rilena voleva dire direzione del personale, cambiamento, miglioramento (giacchè peggiorare – dal suo punto di vista – non si poteva ).

La Direzione aveva deciso di vagliare i profili più interessanti e giovani, per creare una nuova figura di assistente alle vendite. Erano in lizza in tre, lui ed altri due ragazzi dell’ officina. Si pensava ad una formazione interna di almeno due anni, retribuita, con trasferte alle filiali estere ed ai grossi clienti insieme col ven-ditore, …La vita stava cambiando, lo sentiva.

Si era dato una sistemata e si era precipitato in Direzione. Il cuore gli andava a mille, gli sembrava di vederlo muoversi sotto la maglietta

appiccicosa per il sudore e la trepidazione… Appena entrato nell’ufficio, gli parve di sentire un odore strano, come di cara-

mello, di budino, qualcosa di dolciastro e nauseante a quell’ora di mattina e che soprattutto non c’entrava niente con un posto così.

Non fu quella la sola sensazione sgradevole. L’altra era la minigonna della Ma-rilena, sostituita da un anonimo paio di jeans. Una sensazione, tutto qua. Ma a volte siamo fatti di sensazioni, e quel paio di jeans (tutti in produzione portavano i jeans) gli parve un cattivo auspicio.

– Paolino, come sei messo col computer?

Che domanda strana. Ma che c’entra il pc?

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– Bene, son messo bene, scarico musica alla grande e mio fratello mi ha inse-gnato come si fa ad aprire un blog. –

– Sì, ma Office? Lo conosci Office? –– Office? Dice Word? Certo che lo conosco. Chi non conosce Word? – – Office è anche Word, ma non solo…per esempio il foglio di calcolo… sai gesti-

re gli ordini, le fatture? e dimmi, con l’inglese, come sei messo? Lo sai un po’? Ecco, l’inglese no, proprio non lo doveva toccare. Davvero, non era colpa sua,

ma delle professoresse, che ce l’avevano sempre avuta su con lui. Non tutte, ma quelle di inglese…

– Ehm…un po’ l’ho fatto a scuola…– – Vedi Paolino, la Direzione vuole valorizzare i giovani in azienda e pensiamo di

sceglierne uno della produzione da avviare ad una carriera commerciale…sai molti contatti con i clienti, bisogna avere capacità relazionali, saperci fare insomma…ti sentiresti all’altezza? ti interesserebbe? –

– Certo…sì… – – Ti faremo sapere, vaglieremo i profili e poi ti faremo sapere, d’accordo? –

1. Riflessione, autostima e motivazione Paolo non è più Paolino. Paolo è un giovane adulto con certezze e dub-

bi. Certezze che si possono sgretolare di fronte alle difficoltà, e dubbi che cercano con spasmodica ansia l’occasione per essere superati. Ciò che anzi-tutto colpisce nella sua storia è un atteggiamento critico, riflessivo e consa-pevole: un giudizio chiaro sul proprio caporeparto, sull’ambiente di lavoro, motivato ed argomentato da critiche puntuali e circostanziate. Paolo non è più un adolescente : è ormai uscito da quella fase di scoperta eccitante del-l'altro-da-sè (una sorta di alba primigenia nella quale tutti noi abbiamo in-contrato i colori della vita), e sta entrando in una fase di riflessione sul mondo esterno e sul proprio destino. Come adulto ha già un’immagine pre-cisa dell'ambiente in cui si trova ad interagire, di sé e della sua collocazione nel mondo. Una immagine che può essere sovra o sottostimata, ma che esi-ste, al di là degli evidenti limiti del suo pensiero. Ha cominciato a formarsi giudizi, opinioni, anche duri ed impietosi, ed ha – con tutti i limiti del caso – una chiara percezione di sé e della strada che intende percorrere.

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Anche sul proprio vissuto scolastico ha operato una riflessione, fatta di brutti ricordi ma anche di consapevolezze. Probabilmente si rende conto di avere abbandonato per incostanza, leggerezza, demotivazione. Forse Paolo non sa nemmeno che cosa sia l'autostima. Eppure questa percezione di sé e dell’ambiente che lo circonda è fortemente connessa con l’autostima e con la motivazione.

L’autostima nasce dalla valutazione della distanza che separa il sé reale dal sé ideale: è, in sostanza, il rapporto tra come siamo e come vor-remmo essere. Più ci percepiamo lontani da come vorremmo essere, minore è l’autostima che abbiamo di noi stessi.

Paolo tuttavia ha una percezione di sé molto superiore all’immagine che l’ambiente reale di lavoro gli restituisce, in termini di riconoscimenti del suo impegno e del suo modo di vedere le cose. E la mancanza di riconosci-menti dall’esterno fa scattare in lui «rabbia…stizza, dispetto, disappunto» , bombe pronte ad esplodere, oppure a convertirsi, a sublimarsi in motivazio-ne.

Gli studiosi sono concordi nel sostenere che l’autostima sia influenza-ta, nel corso della vita, dai successi e dai fallimenti personali, ed anche che sia fondamentale nell'adulto come leva motivazionale e come compagna del percorso di apprendimento. Uno dei luoghi comuni tra gli operatori Eda è che l’autostima nell’adulto sia un dato acquisito. In realtà essa, anche se è presente, è spesso labile e bipolare: oscilla tra picchi di orgogliosa rivendi-cazione di sè e momenti di incertezza. È stata infatti messa alla prova da ambienti di lavoro poco stimolanti e da esperienze scolastiche negative: chi rientra in formazione ha in genere un passato con qualche “ombra”, ed un secondo fallimento sarebbe esiziale per il suo futuro in formazione non-ché per la sua autostima.

Quanto alla motivazione, sembrerebbe che l’adulto ce l’abbia, che sia forte e nasca, come abbiamo raccontato, da una chiara percezione di sé e dell’ambiente attorno a sé. In genere, l’orizzonte in cui si muove tale moti-vazione può essere il desiderio di migliorare la propria cultura, la situazione professionale, o di recuperare il gap con amici e congiunti.

Tuttavia questa opinione diffusa ha spesso i colori di un luogo comu-ne.

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È forte nell’adulto il primo impulso motivazionale. L’adulto che si iscri-ve ad un percorso per ipotesi quinquennale ha una forte spinta propulsiva che tuttavia va interpretata e canalizzata nel tempo, altrimenti è destinata a dissolversi. Ad esempio, molti docenti che provengono dalla scuola diurna restano ammirati dall’ordine e dalla disciplina di una scuola serale o di un CTP e trovano commovente l’abnegazione di molti studenti lavoratori che riescono a mantenere occhi aperti ed attenzione vigile dopo una giornata di duro lavoro. Tuttavia scambiano per motivazione ciò che probabilmente è semplice autocontrollo e forza morale.

2. Riflessione e competenze Su cosa riflette Paolo? Anzitutto sul proprio passato, sul fallimento e sulla reale utilità della sua

esperienza scolastica. Il lavoro l’ha cambiato, lui è cambiato. Gli ha fornito un benchmark,

una pietra di paragone su cui misurare la scuola precedente. Ha sviluppa-to così una idea forte - anche se approssimativa e disturbata - di una scuola che serva al lavoro, alla vita ; ai suoi occhi il sapere deve essere collegato con l’azione, e questa con la vita.

Come dare torto ad un ragazzo che si senta più attratto da una motoci-cletta che dalla vita di un poeta? O dall’utilità dell’aritmetica elementare piuttosto che dalle equazioni di secondo grado che si risolvono spesso in una tecnica formalistica preconfezionata per raggiungere un risultato giu-sto, non si sa per chi e a che pro?

Francamente, come condannare un giovane di 16 anni che si sentisse più incline a sviluppare competenze chiaramente spendibili nella vita (od alme-no che lui giudicasse tali), del tipo “Come truccare un enduro?”, “Come non farsi fregare nei conti?”, “Come conquistare una ragazza?”. Se questa fosse stata la motivazione principale del suo fallimento scolastico, lo si po-trebbe giudicare un ragazzo indubbiamente poco docile, ma comunque in-telligente.

La sua proiezione nel futuro nasce dunque dalla riflessione sul passato e dalla rielaborazione dell'esperienza presente, nel nostro caso del colloquio con l’ineffabile Marilena, che gli chiede conto di due precise competenze : sapere l’inglese e saper usare il computer.

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3. Cosa è una competenza? In prima istanza sembrerebbe proprio un saper fare, e non un sapere

teorico, astratto, o un insieme di regole o di nozioni. Non è forse questo quello che un adulto come Paolo ci chiede, quando

decide di rimettersi in gioco e di rientrare in formazione? Non è forse quel-lo che il sistema produttivo richiede al giovane in cerca di impiego, o che ci chiede la vita stessa, dal saper accendere la caldaia al riuscire a consolare un amico in lacrime?

Ogni competenza è fatta naturalmente di abilità e di conoscenze. L’abilità è anch’essa un saper fare, ma più circoscritto, limitato ad un

ambito specifico. Ad esempio, saper salvare un documento in Word è una abilità. Invece, sapere dove si trova la funzione “Salva con nome” in Word è

una conoscenza. La competenza è la sintesi di queste due cose, esportata in un contesto

diverso ed in qualche misura nuovo. La competenza è, ad esempio, saper gestire un programma di videoscrit-

tura (ad es. Word), cioè è un insieme articolato di abilità e conoscenze : sa-per scrivere, modificare, formattare e salvare un documento.

Questa definizione, in prima approssimazione, non tiene naturalmente conto dell’appassionato dibattito scientifico sull’argomento, che non ci in-teressa in questa sede. Vediamo piuttosto le definizioni che ne dà il Miur : « La competenza è l’agire personale di ciascuno, basato sulle conoscenze e abilità acquisite, adeguato, in un determinato contesto, in modo soddisfa-cente e socialmente riconosciuto, a rispondere ad un bisogno, a risolvere un problema, a eseguire un compito, a realizzare un progetto. Non è mai un agire semplice, atomizzato, astratto, ma è sempre un agire complesso che coinvolge tutta la persona e che connette in maniera unitaria e inseparabile i saperi (conoscenze) e i saper fare (abilità), i comportamenti individuali e relazionali, gli atteggiamenti emotivi, le scelte

valoriali, le motivazioni e i fini. Per questo, nasce da una continua inte-razione tra persona, ambiente e società, e tra significati personali sociali, impliciti ed espliciti.»1

Oppure, nel D.M.139 si legge che « “competenze” indicano la compro-vata

1 MPI, Circolare 84/2005

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capacità di usare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o me-todologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professiona-le e/o personale; le competenze sono descritte in termine di responsabilità e autonomia. »2

Tornando all’esempio del colloquio del nostro racconto, la capacità di gestire ordini e fatture è una competenza tecnico-professionale, mentre quella di rapportarsi con i clienti è una competenza relazionale.

Se poi il candidato in questione avesse sviluppato una seria capacità di diagnosi dei problemi aziendali (perché un prodotto vende in certe aree e meno in altre, perché una macchina non funziona etc.), sarebbe in possesso di una competenza, quella del “saper diagnosticare” un problema, composta da molte conoscenze e molte abilità (osservare,esplorare,percepire,fare at-tenzione concentrarsi essere vigili,richiamare alla memoria, confrontare, rappresentare, schematizzare, decodificare, riconoscere, identificare, ana-lizzare, interpretare, ragionare).

Ed una siffatta competenza, altamente esportabile in altri ambiti azien-dali e sociali, si definisce trasversale.3

4. Imparare sempre e dappertutto. Paolo comincia, anche se in modo nebuloso, a comprendere che i saperi

concreti sono così importanti che perfino l'azienda è disposta ad investire sui propri dipendenti per trasferirglieli. Anche l'azienda sa essere una scuo-la. Marilena ha chiaramente parlato di formazione interna di due anni, a fianco del venditore, a contatto coi clienti, una scuola direttamente sul cam-po….così diversa ed eccitante rispetto a quei noiosi libri da pasticciare…

E quindi : nel lavoro, se vuoi rimanere “in pista”, devi pensare ad impa-rare, ad aggiornarti in continuazione, perché gli scenari cambiano, i clienti cambiano, i mercati cambiano, i sistemi operativi dei computer, le televi-sioni, la tecnologia dei cellulari, perfino i partiti politici non sono più gli stessi.

2 MPI, Decreto 22 agosto 2007, Regolamento recante norme in materia di adempimento del-l’obbligo di istruzione3 Gabriella Di Francesco (a cura di), Unità capitalizzabili e crediti formativi. Metodologie e strumenti di lavoro e I repertori sperimentali, ISFOL, Franco Angeli, Milano 1998

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Paolo intuisce, seppur confusamente, che non c’è più un tempo per la scuola ed un tempo per il lavoro, come una volta, ma che l’apprendimento deve essere permanente, (Lifelong Lifewide Learning), l’aggiornamento continuo e questo non solo è un percorso possibile, nella attuale società del-la conoscenza, ma obbligato, se non vuoi essere relegato ai margini del si-stema

5. Consapevolezza e riflessione nel percorso formativo. Crediamo che questo sia il punto di partenza attorno al quale debba

muovere tutta la riflessione sull’Istruzione degli adulti, lo specifico che essa dovrebbe detenere rispetto ai percorsi di istruzione riservati dai norma-li cicli scolastici : l’adulto possiede un grado di consapevolezza di sé e del-l’ambiente nel quale è inserito nettamente superiore rispetto a quello di un adolescente, delle capacità riflessive ed autocritiche dalle quali non si può prescindere nella progettazione di un intervento formativo.

Cosa implichi questo assunto, si vedrà più dettagliatamente in seguito, ma qualcosa si riesce ad intravedere fin da ora.

All’inizio del percorso formativo.

Non si può prescindere da questa consapevolezza nella proposta dell’of-ferta formativa, ma di deve renderla centrale. Non è più il tempo di conte-nuti e nozioni che si studiano perché “vanno studiati”. L’adulto deve poter vedere con chiarezza gli obiettivi del progetto formativo in cui si sta impe-gnando, le metodologie adottate, i tempi, il profilo professionale che si sta costruendo. Laddove possibile, deve poterli negoziare, condividere, assu-mere responsabilmente come orizzonte di impegno per i mesi a seguire me-diante un contratto formativo nel quale le parti (lui e la scuola) si impegni-no reciprocamente per il raggiungimento di un obiettivo.

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Inoltre, la presunta “forte” motivazione dell’adulto, come vedremo a suo tempo, è un luogo comune da sfatare. Qui possiamo dire soltanto che essa si basa solo in parte su una autostima già consolidata. Paolo in realtà ha una errata percezione di sè, probabilmente una autostima ipertrofica che in qualche maniera si è creato per far fronte al primo fallimento scolasti-co. Ma lo scontro con la dura realtà (l'incarico affidato ad un altro) lo scuo-te. Prima gli abbassa tremendamente l'autostima, che è un fatto dinamico e non statico. Poi però reagisce in modo sano: rabbia, dispetto, stizza sono potenti energie che, se volte in positivo, lo spingeranno a prendere una de-cisione importante per la sua vita. Questa autostima "altalenante", bipolare, è caratteristica comune a chi rientra in formazione.

Guai a darla per scontata come fosse già formata : essa è, relativamente alle tematiche scolastiche, il punto debole di chi rientra in formazione, ed è importante che l’istituzione la sappia gestire con un’offerta formativa ade-guata che non la deprima definitivamente, ma la trasformi in reale motiva-zione ad apprendere, al di là del mito del “pezzo di carta”.

Durante il percorso formativo.

È frequente trovare adulti che si accontentino dello mnemonicismo no-zionistico (che ha come grande alleata la devastante ondata dei quiz televi-sivi, i quali come se non bastasse peggiorano la situazione legando il nozio-nismo ad una immediata e facile ricompensa monetaria), ma dentro di sé ogni adulto certe domande, anche se non le esprime, se le pone : a che mi serve questo? Cosa sto imparando per il lavoro? Cosa sto imparando per la vita?

Lo si può facilmente notare dal giudizio molto critico che accompagna i ricordi della scuola diurna di molti giovani, terminata con un fallimento.

Perciò l’aspetto riflessivo e meta riflessivo sui contenuti e sui processi dell’apprendimento è un’altra linea portante attorno a cui sviluppare una proposta didattica ed organizzativa sull’Eda.

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Pensare di costruire un sistema standardizzato, uguale per tutti, senza specifiche attività di accoglienza, di valutazione delle compe-tenze acquisite, di tutoring e counseling che lo orientino, mettendolo nelle reali condizioni di non fallire una seconda volta, di valorizzare il suo vissuto, “costruendogli intorno” un percorso realmente sosteni-bile, su misura, significherebbe ignorare la specificità dell’adulto, e probabilmente sprecare la chance di formazione che lui stesso si è dato.

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Cap. 2 - La certificazione delle competenze.

III. Quella mattina appunto gli avevano detto che il prescelto era Danilo. Due anni più giovane di lui, con la patente.

– Chee? Ma anch’io ce l’ho la patente!!! Che significa?? – Il Piero, così asciutto, così scorbutico e zotico, adesso gli si leggeva in volto

che gli dispiaceva di vedere il Paolino così illividito, alla comunicazione della ferale notizia.

Perché il Piero, si dica ciò che si vuole, grezzo, testardo, limitato nei suoi oriz-zonti, era anche uno che si affezionava alle persone, uno che voleva bene, ed a Paolino, non si capisce perché, si sentiva legato, di volerlo come proteggere. E gli costava dire quelle cose.

– Ma la sua è europea, cerca di capire – gli fece per consolarlo. – Anche la mia è europea, ho guidato fino a Barcellona e la mia patente è vali-

da… –– Oh, senti Paolino, che vuoi che ti dica, così mi hanno detto, se vuoi saperne

di più sali in Direzione e chiedi quello che vuoi sapere…–

Paolo si precipitò in Direzione. Entrò trafelato ed ansimante dalla Marilena, spalancando la porta prima ancora di bussare, d’impeto. – Oddio, oggi ce l’ha la minigonna… Proprio oggi che i sogni mi si bruciano, lei ce l’ha la minigonna, lo fa apposta… –

– Vedi Paolino… –– Scusi, Le dispiace chiamarmi Paolo..? –Ora non poteva più tollerarlo. Sarebbe stato come avallare definitivamente

una condizione di minorità, di inferiorità. Non bastava che avessero scelto un al-tro.

– No certo, non mi dispiace. La patente europea è una certificazione che atte-sta quello che uno sa fare col computer. Per noi è un chiaro punto di partenza, è una garanzia, è un risparmio nella formazione . E poi l’inglese….Ma non disperare, dai, ci saranno altre occasioni, sei così giovane... –

Era davvero chiaro. Il computer e l’inglese. Il prescelto era messo meglio di lui, sia coll’informatica che colla lingua straniera. Non solo, ma poteva dimostrar-lo, con uno stupidissimo pezzo di carta.

- Sì, certo, è tutto più chiaro. Così è tutto più chiaro. –

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Paolo sperimenta sulla sua pelle l’importanza delle “tre i”: nell’ impre-sa, per crescere, ci vuole l’inglese e l’informatica. Si saldano così nella sua mente due convinzioni potentissime : 1. il saper fare è centrale nella vita e nel lavoro; 2. la scuola da cui proviene non l’ha affatto preparato a questa richiesta dell’azienda.

Una saldatura, un legame rafforzato dalla valenza emotiva propria delle esperienze negative.

Anche se non ha preso ancora alcuna decisione in merito, facciamo noi una analisi ed una riflessione, immaginando due possibili scenari:

1. Le competenze in azienda. Competenze formali.

Se Paolo volesse esibire all’azienda le competenze che possiede, quanto del suo percorso formativo precedente sarebbe utilizzabile, spendibile ai fini della sua progressione di carriera? Come potrebbe dimostrare nel suo curriculum vitae quello che sa fare?

Ammettiamo che Paolo provenga da due anni, conclusi con una o due bocciature, di Istruzione tecnica commerciale (ad es. un corso Igea diurno) : ha studiato informatica e commercial english.

Se anche avesse concluso la classe 2a con una valutazione positiva in Inglese ed in Trattamento Testi (l’equivalente dell’abc informatico), questo suo relativo “successo” non comparirebbe nel curriculum, e lui non potreb-be usarlo per soddisfare la richiesta dell’azienda. Del resto faticherebbe a dimostrarlo : dovrebbe esibire l’ultima pagella, che conterrebbe un crudo numero – un “sei ” –, e non la dettagliata descrizione di ciò che lui sa fare.

Questa è l'esatta situazione che gli è capitata davanti a Marilena. Se anche avesse concluso felicemente il suo corso di studi fino all’esa-

me di stato, le sue effettive competenze non risulterebbero da nessuna par-te. Si potrebbero tutt’al più desumere dai programmi scolastici, ma con alti margini di errore, data la grande varianza tra i modi di lavorare dei docenti e tra istituti. Lo stanno a dimostrare le programmazioni individuali (di cui parleremo nel capitolo seguente) ed i diversi livelli di preparazione degli

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studenti a seconda della sezione, dell’istituto, della Regione e dell’area geo-grafica di appartenenza.1

Invece, sarebbe importante che il sistema scolastico da cui proviene fos-se in grado di rilasciargli una certificazione dettagliata delle competenze acquisite in modo formale nel corso degli studi ..

Competenze informali. Sono passati degli anni dall’ultimo anno di scuola che ha frequentato, ed

è possibile che Paolo qualche competenza l'abbia acquisita sul campo: al la-voro, con gli amici, nella vita sociale. Quindi sarebbe molto importante che il sistema che lo aspetta fosse in grado di riconoscergli, di certificargli an-che le competenze acquisite in modo non formale (corsi di vario tipo) ed informale (tutto ciò che si impara senza volere, dalla vita, nel lavoro, in so-cietà).

Ad es., se Paolo avesse imparato l’inglese dalla frequentazione di una ragazza anglofona, (come Max, vedremo ) oppure avesse acquisito, come molti giovani, degli skills informatici da amici o parenti, dalla passione per la musica, (uso di software, navigazione in rete) etc., dovrebbe potersi ve-dere riconosciute queste abilità – e le relative competenze – in termini di crediti.

Essi lo agevolerebbero molto nel proporsi all’azienda : potrebbe dimo-strare « con uno stupidissimo pezzo di carta » le sue competenze, perchè qualcuno gliele avrebbe certificate.

Invece dobbiamo notare che Paolo fa fatica a vedersi riconosciute le sue competenze formali, non formali ed informali, dalla stessa azienda per cui lavora, in quanto il sistema di istruzione e formazione da cui proviene non gli ha rilasciato una certificazione trasparente nè flessibile.

1 Programme for International Student Assessment, OCSE 2006.

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Non è trasparente perché non permette di vedere “analiticamente” le competenze acquisite. O hai il diploma finale, il mitico “pezzo di carta”, o non hai nulla. Dietro il “sei ” od un “otto” ci sono programmi, strategie di-dattiche, metodi e scale di valutazione molto differenti tra loro. Un voto in pagella non ci dice nulla delle competenze effettive di una persona, non ci permette di verificarle analiticamente. Per lo stesso motivo il curriculum non è flessibile, cioè non è scomponibile in segmenti, in moduli, ciascuno dei quali certifica un saper fare, e ciascuno dei quali avrebbe un valore ed una spendibilità nel mercato del lavoro indipendentemente dalla felice con-clusione di tutto il percorso di formazione.

IV. La bandiera arrotolata, la sciarpa chiusa sotto il giubbotto, il berretto in ta-sca, quasi a volerlo nascondere. Seduto al finestrino della 90, il Paolino tornava a casa certe domeniche d’autunno, con il grigio di Milano nelle ossa e nel cuore…

Lorenteggio, su per il Naviglio e viale Liguria. Tutto uguale, tutto di un colore solo. Le case dietro alle case, le auto stanche ai semafori, le facce annoiate. Una cupezza, un plumbeo grigiore, quasi che il Milan potesse perdere solo d’autunno. Anzi, pensava di essere milanista perché per lui il Milan era colore, il calcio era co-lore. Il verde del prato, l’azzurro del cielo, il rosso sulle maglie e nella passione…luci a San Siro.

Ma quelle domeniche senza sole, quando la sua squadra perdeva, tutto si face-va più opaco e la bandiera, la sciarpa, il berretto a strisce rossonere erano quasi una nota stonata con il cupo della città e del suo cuore. Per quello li nascondeva.

Quel giorno per Paolo era un po’ la stessa cosa. Tornare a casa con una scon-fitta non è bello, non piace a nessuno. La giornata per la verità non era poi così brutta, un sole diafano, qualche nuvola incerta ed un cielo che per chi vive a Mila-no è fin troppo, un dono inaspettato. Era dentro che si sentiva il colore della scon-fitta.

La mamma gli avrebbe chiesto, il papà gli avrebbe chiesto, perfino la sorella gli avrebbe chiesto.

La sorellina, per cui era sempre stato un mito, lui così bravo nei giochi, nelle costruzioni, nelle bugie inventate all’ultimo momento, la piccola Susy oggi era, a scuola, la prima della classe. Liceo classico Berchet , mica zizzole…

Pesante fardello da nascondere, il suo. Non è come con la bandiera, la sciarpa, il berretto. Le tue speranze, i tuoi sogni, i tuoi desideri li puoi nascondere con faci-lità perché li hai messi in quei colori, anzi sono diventati quei colori, così gioiosi, belli, vitali, quando le cose vanno bene. E allora nasconderli, metterli via, mini-mizzarli e nascondere , metter via e minimizzare la sconfitta, è tutt’uno. La scon-fitta rimane, beninteso, ma dormiamoci sopra e domani si riparte, nuove sfide, nuove speranze, nuovi orizzonti di gloria.

Ma ora come si fa? Come si fa a nascondere? E a tornare a casa? Proprio non se la sentiva, il Paolino. – Prima passo al bar, dagli amici…

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V. Il Bar “Beh?” aveva, se ne converrà, uno strano nome. Messo all’angolo di Viale Liguria e viale Romolo, godeva di una posizione invidiabile ed era molto frequen-tato, sia da clientela di passaggio che da gruppi di amici o “compagnie”, come si dice qui ( lì come si dice?) che si davano appuntamento per passare il tempo o per progettare la felicità.

Paolo ci era affezionato al bar “Beh?”. Anzitutto perché era di proprietà di Luca e Gianmarco, due suoi amici d’infanzia. Luca in particolare era stato suo compa-gno di scuola, e quando avevano deciso di rilevare e ristrutturare l’attività del babbo, in una serata d’estate avevano chiesto in giro come si sarebbe potuta chiamare la nuova.

Ora Paolo non ricorda bene come fossero con precisione andate le cose : forse attorno ad una birra, forse detto en passant in auto mentre si tornava da una del-le scorribande estive – ah che bei tempi- fatto si è che l’idea di chiamarlo Beh? – ne era certo – era venuta a lui.

Poi, quando si è insieme, in gruppo, una parola dietro l’altra, le voci si confon-dono, i ricordi si illanguidiscono, più nessuno si rammentava con precisione da chi era uscita l’idea di chiamarlo in quel modo curioso. Ma Paolo ne era sicuro, e per un motivo semplicissimo : i fratelli si chiamavano Barbè – cognome tutt’altro che raro in Lombardia – per cui l’idea di un bar “beh?” gli piaceva assai.

Inoltre, ma questo l’aveva precisato poi, quasi a rivendicarne con orgoglio i di-ritti d’autore, quel beh? col punto di domanda era un misto di provocazione, di cu-riosità, di modestia, di chissà quante altre cose…

– Pensa a quanti significati ha il beh…”beh, che vuoi?” Oppure “beh, non sa-prei…” o ancora : “beh, che fai lì impalato? Vieni qua, entra a prendere un caffè!-

– Speriamo non venga preso come un belato…beeeehhhh…– e giù a ridere, tut-ti insieme, con la leggerezza della gioventù.

Erano tutti lì, i suoi amici, seduti attorno a quattro birre spumanti. Con loro

non doveva nascondere, minimizzare, ridurre. Anche se avessero saputo. Pure loro non avevano grandi successi professionali di cui andare fieri. Viveva-

no i loro vent’anni con leggerezza, forse con superficialità. – Paul, sai che il bar si allarga? Da lunedì servono pasti caldi a quelli della ban-

ca qui vicino…– – Wow, che dici, devo chiedere una percentuale sulle vendite? – – Percentuale? E perché? Sei un socio occulto? – – No, non sono socio, ma me lo sento un po’ mio questo Bar…il nome, vi ricor-

date chi ha avuto l’idea? – – Che c’entra, dice Max, il tuttologo del gruppo. Mica è quella la ragione del

successo. – – Ah no? – Paolo, punto nell’orgoglio, quella sera non vuole mollare, nemmeno

di un centimetro, su nessun argomento, neanche fosse stato sul campionato paki-stano di cricket.

– Lascia stare. Ma a proposito di socio occulto, guarda qua il mio stipendio, guarda il lordo, quello che pago di tasse, di contributi, di vattelapesca…–

Max sbatté sul tavolo con malcelata soddisfazione la sua busta paga, mostrò il

lordo ed il netto e cominciò a lamentarsi. – Hai visto che furto, su 3000 euro lordi me ne rimangono 1900, dai, una ladrata, nemmeno nel mese del conguaglio mi hanno spennato così. Lo stato sembra proprio un socio occulto, che non ti aiuta in niente, ma alla fine del mese pretende una fetta del tuo lavoro, come un socio di capitale si prende il suo dividendo…–

Quella del socio occulto il Max l’aveva sentita da suo padre, gli era piaciuta una cifra ed ora sapeva usarla benissimo.

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Lordo, netto, dividendo, contributi…ce n’era abbastanza per zittire Paolino, che

quando non capiva si ritirava in buon ordine, in attesa di tempi migliori. Solo il vattelapesca l’aveva studiato, ne era certo, ma non ricordava dove.

Max invece sapeva benissimo in cuor suo che 1900 euro netti, a ventidue anni, con la terza media e per un lavoro dipendente come il suo, non erano niente male. Quasi il doppio di Paolo, di Linux e del Giampi. Ma voleva vantarsi con gli amici, ribadire la sua “superiorità” in fatto di soldini, mascherandola sotto la veste di lamentela contro il governo, una tecnica che a tutte le latitudini dello stivale ga-rantisce una approvazione incondizionata.

Dipendente per modo di dire, dopo aver abbandonato gli studi a 16 anni, ave-va iniziato a lavorare nella fabbrichetta di papà. Due anni di Liceo “buttati via” di-ceva lui, che non gli erano serviti a niente.

– Putridi, mi sa che ci vedremo molto meno di sera, da settembre…– – Non mi dire che vai anche tu in palestra – disse il Giampi.

2. Le competenze a scuola

Se invece Paolo decidesse di rientrare in formazione, quanto il sistema

di Eda che lo accoglie sarebbe incentrato sul saper fare, al punto da ricono-scergli le competenze precedentemente acquisite e da sviluppargliene di nuove?

Notiamo che un secondo fallimento dell'adulto che rientra in formazione agirebbe molto negativamente sull’autostima della persona, che abbiamo visto essere fortemente altalenante e connessa con la motivazione... Ri-schieremmo di perderla.

Quindi, se il sistema Eda che la accoglie fosse analogo al sistema di Istruzione che lo ha a suo tempo “disperso” (analogo quanto all’organizza-zione dei curricula, alle metodologie di insegnamento, alla certificazione delle competenze, ai metodi di valutazione), non vi sarebbe un ragionevole motivo di attendersi un risultato diverso da un nuovo fallimento.

Rimarrebbero, è pur vero, delle speranze di risultato positivo, determi-nate più che altro da variabili aleatorie ed imprevedibili. Ad esempio Paolo è maturato, è più “strutturato”, ha una motivazione più forte, ha maggiore autostima, ambizioni diverse. Ma queste sono variabili proprie del soggetto, e non del sistema che lo accoglie, di cui invece vogliamo parlare. Il compi-to dell'istruzione è costruire un sistema che abbia in sé le ragioni della sua efficacia, e non la deleghi all'alea dell'impegno individuale.

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Per rispondere a questa seconda domanda, facciamo delle ipotesi reali costruendo degli scenari verosimili e tentando di descrivere la realtà così com'è.

– Se decidesse di rivolgersi ad un Centro Territoriale Permanente per una preparazione mirata in Inglese ed Informatica, che rispondesse alle sue esigenze contingenti ed immediate, con buona probabilità troverebbe un’of-ferta adeguata.

Molti CTP offrono una varia gamma di percorsi modularizzati, che ter-minano con la certificazione delle competenze acquisite. Ad esempio in In-glese, Informatica ed Italiano per stranieri.

Per lo più sono corsi che mirano a sviluppare alcune competenze basila-ri (ECDL Core, livello A1-B2 per L2, sia Italiano che Inglese).

Pur nel livello basilare della proposta formativa, i CTP fanno degna-mente il loro mestiere.

Tuttavia il sistema di accertamento delle competenze in entrata nei CTP è limitato ad aree circoscritte (per lo più L2) ed a livelli piuttosto ele-mentari.

– Diversa è la situazione se Paolo ambisse a qualcosa di più: ad esem-pio riprendere il corso di studi precedentemente abbandonato.

Se decidesse per ipotesi di riprendere il corso di Ragioniere, lo aspette-rebbero esattamente gli anni di corso che gli mancano. Tutte le sere a scuo-la, per 4-5 anni, per 25-28 ore la settimana.

– Analogo discorso , se decidesse di cambiare tipo di corso (da un Itc ad un Itis), con in più un grosso scoglio in ingresso : dovrebbe affrontare esa-mi di Integrazione , ossia delle prove sui programmi delle materie che non ha studiato durante il corso di studi di provenienza.

– La tentazione di rivolgersi ad una scuola “privata”, di quelle che forni-scono miracolose soluzioni del tipo “4 anni in 1” dietro pagamento di una lauta retta di iscrizione, dopo aver frequentato lezioni “molto personalizza-te” e dopo aver sostenuto improbabili esami di idoneità alla classe 5° in Istituti parificati compiacenti, la tentazione, dicevamo, è forte.

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– Soprattutto difficilmente troverebbe sul territorio un coordinamento della variegata offerta formativa. L'Ufficio di relazione con il pubblico del comune di appartenenza di solito esibisce come in vetrina varie brossure di proposte formative, provenenti dal settore pubblico (corsi comunali, dei Ctp, molti corsi professionali organizzati dai CFP), e molte iniziative del settore privato.

Sicuramente non troverebbe una seria consulenza, una informazione completa, né tantomeno un servizio di orientamento che lo aiutasse a distri-carsi in questa variegata offerta ed a progettare un percorso formativo di rientro.

La risposta provvisoria alla domanda posta all'inizio del paragrafo è che non esiste un sistema Eda, ossia:

– non esiste un servizio di orientamento che lo aiuti a orientarsi nel pa-norama dell'offerta

–non esiste un sistema codificato di certificazioni di competenze atto a facilitargli il reinserimento od il passaggio.

Naturalmente, questo non significa che non ci sia nulla.

2.1 I crediti e i debiti in Sirio Ammettiamo che Paolo resista alla tentazione del “4 x 1” e provi ad in-

serirsi in un corso serale Sirio Amministrativi: troverebbe una piccola ma lieta sorpresa: l’esonero dalle materie in cui aveva la sufficienza alla fine dell’ultimo anno frequentato, anche in caso di non promozione. Otterrebbe dei crediti formativi. È questa una specificità dei corsi Sirio, che hanno rap-presentato, dopo la istituzione dei CTP2 , la maggiore novità dell’Eda in Ita-lia nell'ultimo quindicennio.

2 MPI, OM n. 455, Roma, 29 luglio 1997

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Se invece il consiglio della classe in entrata giudicasse recuperabili da lui stesso, nel corso dell'anno, i debiti in 1-2 materie, potrebbe ottenere l'i-scrizione alla classe successiva a condizione che saldi, durante l'anno, i de-biti nelle materie mancanti. Sono i debiti formativi.

Concretamente, se Paolo, bocciato in 2a Igea, fosse risultato non pro-mosso allo scrutinio finale, ma sufficiente in italiano ed Inglese, avrebbe diritto alla iscrizione alla 2° amministrativi Sirio con l’esonero dalle lezio-ni di queste materie e la automatica sufficienza in pagella.

Oppure, se al contrario per inserirsi in terza Igea gli mancassero soltanto Italiano e Matematica, potrebbe ottenere l'inserimento alla data classe me-diante dei debiti formativi, da assolvere durante l'anno scolastico.

Se invece chiedesse l’accreditamento di competenze acquisite in modo

non-formale o informale (quello che ha imparato, da sé, sul lavoro, da corsi non istituzionali, dalla vita), Sirio prevederebbe il loro accertamento me-diante una prova di ingresso organizzata ad hoc per l’individuo.

Nella realtà dei fatti questo sistema, sia del riconoscimento dei crediti formali, che di quelli non formali ed informali, non funziona.

Crediti formali.

L’offerta effettiva di formazione e di istruzione, sia nella scuola diurna che in quella serale, ruota infatti ancora attorno alle conoscenze.

In Sirio vengono spesse riconosciute in modo “cieco”, formale appunto, conoscenze che non esistono più o che non sono mai esistite. Semplicemen-te si assume, data la supposta equipollenza tra gli stessi anni di corso di scuole appartenenti a ordini diversi, che ad un "sei" in Inglese, rilasciato per ipotesi da un Liceo classico, equivalgano le conoscenze richieste per accedere ad un equivalente corso di Inglese di un Tecnico Commercia-le; ma non è così.

Al Liceo i programmi non ruotano attorno al commercial English, al tec-nico sì.

Quindi, alla equipollenza giuridica (ai fini dell’assolvimento dell’obbli-go, del valore legale del titolo di studio, dell’iscrizione a corsi universitari) non corrisponde affatto una equivalenza di conoscenze.

Come accreditare una conoscenza, data la estrema variabilità del percor-so didattico che ogni insegnante fa con la sua classe?

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Come accreditare delle conoscenze acquisite anni addietro, data la estre-ma labilità e volatilità delle stesse?

Soprattutto come pretendere di equiparare, in termini di obiettivi e con-tenuti, il programma di matematica di un Itis, di un Ipsia e di un Liceo classico?

Lo studente Eda spesso ha capito questa cosa meglio di quanto l’abbia capita il sistema che lo accoglie. Ha un’idea molto responsabile di quello che sa fare e non sa fare, e spesso rinuncia spontaneamente ad un credito in matematica poiché sa, in cuor suo, che ad esso non corrisponde alcun reale "saper fare".

Infatti una conoscenza, con buona probabilità si dimentica, mentre una competenza dura, in certi casi per tutta la vita.

Posso dimenticare come si chiama la dinamo, quel piccolo dispositivo che fornisce la corrente al fanale della bicicletta, ma non disimparerò mai come andare in bicicletta.

Naturalmente non tutte le conoscenze si dimenticano, ma rimangono so-prattutto quelle che sono saldamente ancorate ad un sapere operativo, fun-zionale. Se ha senso costruire un sistema di certificazione del sapere, è solo perchè è possibile individuare nella persona un nucleo di competenze (di base, tecnico professionali o trasversali) che rimangono nonostante il passa-re degli anni, proprio perchè sono quotidianamente sollecitate ed utilizzate.

Crediti non formali-informali.

La procedura seguita per il riconoscimento dei crediti informali e non formali sembrerebbe in Sirio più rassicurante : un esame specifico per lo studente in entrata, per accertare le sue effettive conoscenze sul programma che egli chiede gli venga accreditato.

Ma anche qui, l’obiezione è la stessa : se solo le competenze sono accre-ditabili, un test di ingresso orientato sulle conoscenze non accerta un bel nulla.

Nei fatti, le competenze ottenute non formalmente ed informalmente sono riconosciute oggi in Sirio in modo casereccio ed improvvisato, spesso discutibile ed arbitrario, da docenti frettolosi e superficiali, in assenza di qualsiasi raccordo od indicazione del comitato tecnico-scientifico dell'isti-tuto, che dovrebbe fissare in ogni scuola Sirio i criteri per il riconoscimento dei crediti informali e non formali.

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Debiti formativi.

La situazione dei debiti formativi è, se possibile, ancora più fragile. In-fatti se i crediti formativi sono poco praticati, ed interessano una percentua-le assai limitata di popolazione scolastica (non superiore al 5%), i debiti lo sono ancora meno.

E del resto, per recuperare questi debiti, lo studente è da solo. Viene la-sciato completamente solo con un programma che nel migliore dei casi è un elenco di nozioni, di conoscenze teoriche senza un aiuto, un orientamento, un minimo di tutoring e di consulenza. Inoltre deve cavarsela col program-ma della classe nuova, ed in più prepararsi nelle materie col debito.

I migliori ce la fanno. Ma considerando che con i debiti riescono a ca-varsela da soli, viene il sospetto che se la caverebbero comunque fino all'e-same di stato, per il quale la scuola manterrebbe ai loro occhi un ruolo inso-stituibile...

Last but not least, l'intera procedura dei debiti e dei crediti richiederebbe un sistema di standard minimi – riconosciuti e praticati quantomeno a livel-lo regionale – generale e modularizzato di certificazione delle competenze, con test ingresso e di uscita rodati e riconosciuti.

Per concludere : l'attuale meccanismo di riconoscimento dei crediti/de-

biti formativi in Sirio non funziona in quanto si basa sull’accreditamento di conoscenza, mentre in realtà soltanto le competenze – con le abilità e le conoscenze ad esse al-legate, – sono accreditabili.

E quindi : il sistema scolastico fatica a riconoscere a Paolo quello che sa fare, non solo per agevolarlo nella progressione di carriera, ma perfino per farlo rientrare in formazione. Come dire che non riesce a certificare le com-petenze non solo a soggetti terzi (l'azienda) ma nemmeno a se stesso.

2.2 Il passaggio tra indirizzi e tra sistemi in Sirio. Un’altra criticità del sistema dei crediti in Sirio sta nella incapacità di

valorizzare le competenze pregresse nel caso di passaggio dal sistema di istruzione a quello di formazione professionale e viceversa.

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Il motivo è sempre lo stesso: la mancanza di un sistema coordinato ed articolato di standard minimi, di una articolazione dettagliata delle compe-tenze nei vari ordini e tipi di scuola che renda agevole e possibile il trasferi-mento.

– Facciamo un esempio concreto . Se Paolo avesse una qualifica trienna-le di provenienza CFP o Ipsia, a che livello del percorso di istruzione si po-trebbe inserire? A quali crediti avrebbe diritto? Quali competenze ricono-scergli e quali no?

È evidente che in mancanza di un sistema organico ed integrato di com-petenze, declinate in standard di livello minimo, intermedio ed avanzato, competenze trasversali, di base, tecnico-professionali, orientate alle compe-tenze chiave, questo passaggio dalla formazione all’istruzione – e viceversa - non si può fare.

Nella realtà si fa – come nel caso di passaggio tra diversi tipi di corso – in modo arbitrario, in base a fantomatici criteri che il comitato tecnico scientifico di ogni scuola serale (anche quelle con due-tre classi) dovrebbe insediare.

– Nell'ipotesi che il nostro studente possedesse una promozione alla 3a classe geometri ed ambisse ad inserirsi in un corso industriale o ammini-strativo, dovrebbe sostenere degli esami di integrazione-idoneità, teorica-mente sui programmi delle discipline di indirizzo che non ha studiato nel biennio geometri. Questi esami di idoneità ed integrazione vengono svolti sulla base di programmi scolastici “indicati dalla scuola” (nel migliore dei casi), sui quali lo studente si deve preparare da solo, e terminano con una valutazione collegiale dei docenti che tra scusanti, giustificazionismi, man-canza di criteri effettivi per valutare le reali competenze e timore di non riuscire a comporre il proprio gruppo classe, a voler essere indulgenti si può definire “misericordiosa”.

Il paradosso degli esami di integrazione/idoneità è evidente : essi sareb-bero l'unico attuale e consolidato strumento normativo vigente che permet-terebbe una modularizzazione, una flessibilizzazione dell'offerta formativa, agevolando il rientro in formazione con la modulazione dei percorsi ai ritmi più consoni a quelli di ciascun giovane over 20.

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Ma l'istituzione scolastica si guarda bene dal proporli come modello, dall'incentivarli e diffonderli. Essi sono semplicemente tollerati, ben sapen-do che, articolati come sono su annualità di programmazione incentrate sul modello nozionistico delle shopping list (come si vedrà nel cap. successivo), produrrebbero un tracollo nella decenza della preparazione dei nostri studenti adulti qualora venissero promossi come modello per la ab-breviazione dei percorsi.

Del resto, osterebbe a questa operazione l’atteggiamento ostile di molti docenti e sindacalisti, che comprensibilmente farebbero l’equazione “per-corsi abbreviati = minori posti di lavoro”.

Ecco allora che si preferisce lasciare la possibilità del "4x1" alle scuole private, ai pochi che se le possono permettere, invece di costruire una credi-bile alternativa di percorso flessibile e modularizzato, in grado di dare una reale chance di rientro in formazione a migliaia di cittadini.

Alla faccia della democrazia e del diritto allo studio.

3. Conclusione. Forse è presto per rispondere in modo completo alla questione sollevata

da questo capitolo, e cioè : che tipo di offerta formativa trova oggi l’adulto che decide di rientrare in formazione.

Tuttavia qualche parziale risposta si può dare. – Ai fini di una progressione di carriera, il curriculum scolastico di

Paolo non è facilmente spendibile presso le aziende, in quanto non è traspa-rente nè flessibile.

– Ai fini di un rientro in formazione, il sistema scolastico fatica a rico-noscere all’adulto non solo le competenze informali e non formali, ma an-che quelle formali che esso stesso gli ha formato. Come dire che non riesce a certificare le competenze non solo per soggetti terzi, ma nemmeno per se stesso.

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– Il tentativo, pur lodevole, di costruire un sistema di riconoscimento di crediti (formali ed informali), fatto dalla sperimentazione Sirio (ormai pre-valente nel paese) per agevolare il rientro in formazione ed il passaggio tra corsi e tra il sistema di istruzione e quello di formazione, ha delle falle vi-stose, per un vizio d'origine e per una ragione di fatto.

Il vizio d'origine consiste nell'aver previsto un meccanismo per il rico-noscimento di crediti e per i passaggi che si innesta su programmazioni scolastiche e prassi basate sulle conoscenze, mentre esso ha senso e fun-ziona solo se l'offerta formativa ruota attorno alle competenze.

La ragione di fatto sta nella soluzione formale scelta per la amministra-zione di tale sistema di debiti/crediti : il fantomatico comitato tecnico-scientifico che ogni serale dovrebbe avere, e che dovrebbe dettare in gene-rale ed applicare nello specifico i criteri per la loro attribuzione. Tale comi-tato spesso non esiste e non sempre lavora nelle condizioni idonee.

Vi sono poi delle ragioni " lato docente", delle quali parleremo a suo tempo, nel capitolo sul mestiere di insegnare.

Quindi l'adulto che vuole riprendere il cammino là dove l'aveva interrot-to, non è per nulla agevolato.

Da una parte non esiste ancora un vero e proprio sistema dell'Educazio-ne degli adulti, inteso come una rete di centri di offerta formativa struttura-ta, intercomunicante ed organizzata. Non esistono standard comuni che ren-dano agevoli i passaggi tra corsi ed indirizzi e sistemi, ed una loro chiara ri-conoscibilità da parte del mondo produttivo e dei servizi. Esiste piuttosto una galassia variegata e composita di corsi, pubblici e privati, che spesso parlano ciascuno la propria lingua e che certificano ognuno ciò che può.

Dall'altra questo accade perchè non sono ancora le competenze il deno-minatore comune dell’impostazione curricolare della scuola italiana, del-l’Eda in particolare. Essa ruota prevalentemente attorno alle conoscenze, a programmi rigidi, articolati per saperi nozionistici e a metodi di valutazione incentrati sul sapere teorico. Nonostante la normativa ministeriale ed euro-pea “volino alto”, e certe realtà siano di sicuro successo (la alternanza scuo-la-lavoro, le esperienze di Impresa Formativa Simulata etc.) la realtà effetti-va e la prassi consolidata sono ancora “vecchio stampo”: e se questo è vero (sostanzialmente) per i percorsi "normali" di istruzione, lo è ancora di più per quelli dell'Eda.

Invece, solo un sistema articolato sulle competenze:

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1. renderebbe riconoscibili tutti saperi, indipendentemente dalla forma

con cui sono stati acquisiti 2. incentiverebbe il rientro in formazione, agevolando il passaggio tra si-

stemi e corsi diversi, con un’offerta più flessibile ed adattabile ai ritmi di apprendimento e di lavoro dell’adulto

3. incentiverebbe l’occupabilità, con riconoscimenti anche parziali di crediti direttamente spendibili nel mondo del lavoro.

Quella di cui l’adulto avrebbe bisogno è una scuola di responsabilità, che lo mettesse nella condizione di assumersi e di portare a termine gli im-pegni di studio e di lavoro, ma che gli venisse incontro con dei percorsi più flessibili, adattabili su sua misura, e non lo trattasse come un adolescente da controllare e monitorare, da valutare e sanzionare, o come un esecutivo da istruire ed addestrare.

Una scuola che lo sapesse accogliere, valutando e valorizzando le sue competenze pregresse, seguendolo e supportandolo nel suo cammino, per calibrargli intorno una formazione diversa da quella del vissuto scolastico non esaltante da cui proviene. Una scuola che gli rilasciasse delle certifica-zioni anche parziali di ciò che sa fare, spendibili anche nel caso in cui lui interrompesse per l’ennesima volta gli studi.

Una scuola, infine, che sapesse trasformare in lui la motivazione al tito-lo di studio in motivazione all’apprendimento, trasferendogli un’idea sem-plice : l’ascesa sociale e lavorativa cui probabilmente aspira è legata alla re-sponsabilità con cui è in grado di diventare egli stesso il terminale della propria professionalità e delle proprie competenze.

La tesi centrale del nostro lavoro è mostrare come un suo reale cambia-mento – nel senso delle competenze- implichi non solo una riforma, una trasformazione radicale, bensì un capovolgimento, un ribaltamento a 180° di tutto il sistema, che passa non solo attraverso azioni di struttura – già di per sé difficili, con tutte le resistenze sindacali e corporative del caso – ma soprattutto attraverso il punto cruciale di ogni attività di formazione : il modo stesso di atteggiarsi dei discenti e dei docenti, il vero cuore del-l’attività didattica.

E non c’è rivoluzione più difficile di quella che passa attraverso la con-sapevolezza delle persone.

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Cap. 3 – L’offerta formativa : il curriculum.

1. La programmazione didattica

Addentriamoci ora nel merito dell'offerta formativa erogata dai centri di formazione per adulti.

Se il nostro protagonista decidesse di rientrare in formazione, che tipo di istruzione troverebbe? Diversa da quella che ha abbandonato? Centrata sul-la formazione ad abilità e su competenze concrete ? In grado di accoglierlo e di seguirlo passo passo, per valorizzare una motivazione che in lui c'è ma è fortemente oscillante?

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Prendiamo in considerazione alcune schede di programmazione didatti-ca effettivamente utilizzate presso alcune scuole serali e presso corsi di lin-gua italiana per stranieri (L2), per cercare di capire come vengono progetta-ti gli interventi di formazione: l’assunto è che da un piano di lavoro si pos-sano desumere delle indicazioni su come questo lavoro verrà svolto.

La prima scheda di progettazione che presentiamo assomiglia alla clas-sica lista della spesa : è il programma di storia svolto in una classe 5° Sirio (serale).

Segue quella di un “corso di italiano livello avanzato” erogato da un CTP (Centro Territoriale Permanente)

Infine presentiamo un “modulo di riflessione sulla lingua” in uso in un istituto professionale.

Tab. 1 – La “Lista della spesa”

Programma di Storia, Classe V Sirio.

1. La Rivoluzione d’ottobre2. Il Fascismo3. Il Nazismo4. La seconda guerra mondiale5. La guerra fredda6. La storia della Repubblica italiana7. La fine del comunismo8. I grandi problemi della società contemporanea

Fonte: Programmazione di un triennio di istituto tecnico commerciale Sirio in provincia di Milano

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Tab. 2 - Corso serale di italiano L2 – livello avanzato

N. modulo Grammatica Conversazione ed ascolto

Mod. 1Presentazione dei principali verbi irregolari ( es. : Verbi servili e di movimento).

I partecipanti esporranno una breve presentazione di se stessi

Mod. 2 Il passato prossimo. La costruzione dei verbi regolari e la funzione degli ausiliari nella grammatica italiana.

Racconto di episodi di vita per approfondire insieme le modalità di utilizzo dei verbi e accrescere le competenze lessicali

Mod. 3 Il passato remoto. Il passato prossimo Ripercorreremo insieme episodi della vita reale.

Mod. 4 I pronomi soggetto ed oggetto. Gli avverbi di modo e di tempo

Esercizi di lettura e di pronuncia

Mod. 5 Il futuro: le modalità di utilizzo Le aspettative, i sogni e le emozioniMod. 6 Il modo condizionale. Dialoghi in diversi contesti lavorativiMod. 7 Il congiuntivo presente. Stesura di una lettera di

presentazione da allegare al Cv

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Ascolto di alcuni brani musicaliMod. 8 Il congiuntivo passato. Esercizi di

dettato.Simulazioni di colloqui di lavoro a partire dalla lettera di presentazione.

Mod. 9 Il periodo ipotetico. Presentazione in Power Point in gruppi di lavoro

Mod.10 Ripasso generale Visione di un cortometraggio. Esercizi di comprensione e dibattito

Tab. 3 – Modulo di riflessione sulla Lingua.

Obiettivi Contenuti Strumenti e

metodi

Verifiche Tempi

Aver ben chiaro la particolare strutturadella situazionecomunicativa.

Saper distingue-re e

riconoscere i diversi elementi che

concorrono a formare

una situazio-ne

comunicativa e la loro

funzione.

I tratti caratteristici di una situazione comunicativa:comunicazione ver-bale e nonverbale.

Gli elementi dellaComunicazione :

·1 Emittente·2 Ricevente·3 Messaggio·4 Codice·5 Canale·6 Contesto

Strumenti- Dispensa- Testo in ado-zione

Metodi- Lezione fron-tale- Discussioni in classe

- Soluzione de-gli esercizi pre-sentinella dispensa

Verifiche in itinereValutazione in iti-nere con esercizi guidatiVerifica sommati-va:Prova semistruttu-rata diverifica del rag-giungimento degli obiettivi

Durata10 orePeriodo

Sett.-Ott.

Fonte: Programmazione di un biennio di istituto professionale in provincia di Milano

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Fonte : Corso di italiano L2 per stranieri. CTP.

La prima osservazione è che le tre programmazioni hanno una comples-sità crescente : si va da un semplicissimo elenco dei macro-argomenti svolti in classe, ad una programmazione leggermente più dettagliata nel caso del corso di L2, ad una decisamente più strutturata nel terzo caso, quello di Lingua 1 “Riflessione sulla lingua”.

In tutti e tre i casi, tuttavia, ci si può fare questa domanda : ma lo stu-dente, alla fine, cosa ha imparato ?

Si risponderà : nel primo caso la rivoluzione d’ottobre, la I guerra mon-diale etc.., nel secondo i verbi regolari, il passato prossimo, il condizionale etc. Contenuti, nozioni, “sapere” teorico.

Solo nel terzo caso, nella colonna obiettivi, compare una abilità, un “sa-per fare” : « saper distinguere e riconoscere i diversi elementi che concorro-no a formare una situazione comunicativa e la loro funzione ».

Se la domanda quindi diventa : cosa imparerà a fare?, cosa potrà utiliz-zare nella vita e nel lavoro?, dobbiamo tristemente concludere che solo nel-la terza scheda di programmazione compare qualcosa di concreto, di opera-tivo : lo studente saprà riconoscere, in una certa forma di comunicazione, chi è il mittente, chi il destinatario, qual è il codice etc.

Una abilità, non certo una competenza, irrinunciabile per l'adulto in for-mazione...

1.1 La modularizzazione. Se prescindiamo per un attimo dalla "lista della spesa", osserviamo che

nelle altre due tipologie è ripetuta la parola "modulo". Difatti, la programmazione didattica nella scuola italiana e nell'Educa-

zione degli adulti è strutturata frequentemente attraverso una articolazione modulare.

Ricordiamo cosa è un modulo didattico ed a cosa dovrebbe servire la de-clinazione dei percorsi in unità modulari.

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Un modulo è una «...parte significativa, altamente omogenea ed unitaria di un più esteso percorso formativo, disciplinare o pluri, multi, interdisci-plinare programmato, una parte del tutto, ma in grado di assolvere ben spe-cifiche funzioni e di far perseguire ben precisi obiettivi cognitivi verificabi-li, documentabili e capitalizzabili»1.

Naturalmente l'articolazione modulare di un percorso serve per favorire la flessibilità organizzativa, per personalizzare il percorso di apprendimen-to, per facilitare i passaggi e l'attribuzione di crediti/debiti ed il loro ricono-scimento ed assolvimento. In altre parole, per capitalizzare le competenze acquisite.

Quindi, in un progetto come Sirio, in cui queste finalità erano centrali, essa è determinante.

Come avviene la articolazione dei percorsi didattici, nella realtà?Una considerazione preliminare, deduttiva.La modularità è efficace soltanto se incentrata sulle competenze, cioè se

ad ogni unità modulare corrisponde una chiara competenza da sviluppare e certificare. Infatti, solo la competenza è il denominatore comune tra per-corsi diversi e prassi didattiche diverse; solo le competenze possono dun-que permettere un riconoscimento reciproco di segmenti curricolari affatto eterogenei tra loro.

La modularità inoltre ha senso soltanto all'interno di un sistema regiona-le o nazionale di standard riconosciuti, pena lo svuotamento del suo effetti-vo significato.

Se invece, come appare chiaro dalle schede di programmazione che ab-biamo esaminato, l'impianto di fondo rimane quello della "shopping list", della lista della spesa organizzata sulla trasmissione di contenuti teorici e sulla loro verifica secondo il modello comportamentista (stimolo-risposta), su modalità erogativo-versative, trasmissive e frontali, il concetto stesso di modularità appare completamente svuotato.

Dalla deduzione teorica ai fatti. Nella realtà che abbiamo osservato, esaminando centinaia di piani di la-

voro dell'Eda, la parola "modulo" raramente compare, e quando compare corrisponde semplicemente alla distribuzione temporale delle vecchie e tra-dizionali unità didattiche in macro unità più o meno coerentemente aggre-ganti segmenti di percorso tradizionale.

1 Gaetano Domenici, Modularità e didattica, in G.Cerini e D.Cristanini (a cura di), A scuola di autonomia, Tecnodid, Napoli 1999

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Nessun riferimento ai prerequisiti, agli obiettivi cognitivi, alle strategie didattiche, ai tempi ed ai modi di realizzazione e soprattutto nessun riferi-mento alle competenze.

È questa indubbiamente la terza grande criticità del progetto Sirio, spie-

gabile anche con la rigida struttura temporale dei percorsi didattici : la scansione quadrimestrale cozza evidentemente contro la flessibilità recla-mata a gran voce dalla modularizzazione dei percorsi : se anche esistesse una coerente articolazione di segmenti formativi in Ufm, Ufc, Uda, Osa o qualsiasi altra tipologia di modularizzazione per competenze, nella attuale scansione temporale di un corso Sirio (anno scolastico, quadrimestri, lezio-ni compattate) sarebbe impossibile da gestire ed applicare.

In Sirio, l'assenza di una modularizzazione reale, quale invece dovrebbe

esserci, produce situazioni problematiche di non poco conto : l'aumento vertiginoso di utenti stranieri determina ad esempio la composizione di classi molto eterogenee quanto a competenze linguistiche di lingua italiana, nelle quali spesso l'azione didattica è ostacolata. Gli studenti stranieri, man-cando una reale offerta modularizzata, non possono essere dirottati su un percorso di L2 del quale avrebbero bisogno per sviluppare la lingua italia-na, ottenendo magari il credito nelle discipline tecniche o di una seconda lingua europea. Così rimangono nella classe con gli italiani, frenandone il lavoro, imparano poco la lingua del sì, e disperdono energie in modo im-proprio, quando potrebbero destinarle alle altre discipline.

Se sul fronte dei crediti/debiti, il meccanismo funzionava poco e male,

ma qualche risultato lo ha comunque conseguito (ha reinserito comunque in formazione un certo numero di giovani ed ha abituato docenti e studenti alla flessibilità dei percorsi come ad una categoria possibile ), sul fronte della scansione modulare dei percorsi possiamo dire che il fallimento di Si-rio è stato completo.

E la ragione consiste nel fatto che la modularizzazione ha senso pieno soltanto se articolata sulle competenze, poiché soltanto le competenze sono capitalizzabili.

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2. I modelli curricolari

Torniamo alle tre schede di programmazione : esse sono riconducibili a modelli di curriculum ben noti .

La prima e la seconda si rifanno al modello di gran lunga prevalente, nella scuola italiana, e non solo nell'Ida: il syllabus.

In sostanza si tratta di una lista della spesa : gli argomenti – intesi come conoscenze, sono elencati uno dietro l’altro, senza nemmeno riguardo per l’ordine di importanza, tutt’al più nell’ordine cronologico in cui si intende affrontarli. Nessun accenno alle strategie didattiche che si intendono utiliz-zare, al modello didattico a cui ci si ispira , ai tempi ed agli strumenti di realizzazione, alla valutazione.

E soprattutto nessun accenno alle competenze. Per lo più, nell’indicazione di questi argomenti, il docente, frettoloso o

no che sia, riproduce – non si sa quanto consapevolmente – il sommario del libro di testo, oppure presenta un ordine logico che gli viene dal corrispon-dente corso universitario frequentato, talvolta persino dai ricordi della sua scuola superiore. Si può dire che il focus in una programmazione di tal fatta sia sui contenuti, intesi come nozioni da recapitare ad un destinatario. Un percorso che potremmo definire "quantitativo" Non è citato alcun mo-dello didattico, ma un modello didattico, implicito, c’è . È quello versativo e trasmissivo : il sapere come un elenco di nozioni da riversare sul discente, il quale, a seconda di una serie di variabili, tratterrà chi il 30, chi il 60, chi il 90%.

Evangelico….

La terza invece concepisce il curriculum come prodotto. Quest'ultimo sembrerebbe qualcosa di più simile a ciò di cui Paolo e Cheng (i nostri due adulti che rientrano in formazione) hanno bisogno : un percorso nel quale ciò che hanno imparato a fare sia facilmente identificabile, rintracciabile, certificabile.

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In questa concezione del curriculum, riconoscibile (anche se blanda-mente) nella terza scheda presentata, quello che conta è il risultato, l’obiet-tivo, il prodotto finale, la prestazione. Visione vagamente aziendalista, che rimanda al lontano scientific management di F. W. Taylor, nel quale si pro-poneva una divisione del lavoro in operazioni specializzate (competenze?) ed una ristrutturazione del setting aziendale (lay-out, tempi e metodi) per ottimizzare i risultati ed abbattere i costi.

È sicuramente un passo in avanti rispetto alla lista della spesa, se non al-tro perché il focus, in questo caso, è posto non sul lavoro dell’insegnante, ma sui cambiamenti che egli progetta di determinare nei modelli di com-portamento dello studente.

Nella scheda portata come esempio vi è una declinazione degli obiettivi

didattici che richiama delle abilità e competenze.E difatti, di solito si segue un protocollo di progettazione di questo ge-

nere : Diagnosi dei bisogni - Formulazione degli obiettivi - Selezione dei contenuti - Organizzazione dei contenuti - Selezione delle esperienze di ap-prendimento - Organizzazione delle esperienze di apprendimento - Orga-nizzazione delle verifiche.

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In Italia, in ambito Eda, esistono alcuni modelli di unità di progettazione modulare che ricalcano questo protocollo ed assumono come riferimento la tradizione e la specificità dell'Educazione degli adulti : le UdA (Unità di apprendimento)2 e le Ufc (Unità Formative Capitalizzabili)3, le prime progettate per le materie di area geo-storico-artistico-sociale, giuridico-eco-nomica, tecnologica e logico-scientifica (massicciamente presenti nell'ob-bligo di istruzione) le seconde chiaramente orientate alla formazione pro-fessionale dei lavoratori.

Tuttavia, questa visione di curriculum come prodotto pone dei problemi:

a) esclude l'adulto dal processo decisionale su cosa apprendere e come apprendere

b) presuppone la misurabilità di tutti i comportamenti, cosa che non sempre è possibile. Anzi, a volte le abilità maturano molto tempo dopo che l’intervento educativo è stato effettuato, ed in sinergia con contesti diffe-renti; c) inoltre spesso tale progettazione non evita la frammentazione del curriculum in una serie di trivial skills e di nuovo si torna alla shopping list, ad una lista della spesa di micro abilità.

d) c'è infine il problema del livello di partenza del gruppo di studenti, per cui la programmazione potrebbe essere insostenibile e si dovrebbe pro-grammare dopo averli misurati e valutati uno per uno. Lo sa bene il docente Eda, che si trova sempre più spesso gruppi così eterogenei da essere impe-dito nella prosecuzione del lavoro. Inoltre c'è il problema degli imprevisti di percorso, che può stravolgere gli obiettivi prefissati.

Per ovviare a questi – ed altri – problemi, si è affermata nel tempo un’altra concezione : il curriculum come processo.

2 Mauro Levratti, Silvana Marchioro, Saverio Pansini, “Schema guida "matrice": Unità di Apprendimento (UdA), per la realizzazione di curricoli nelle aree geo-storico-artistico-so-ciale, giuridico-economica, tecnologica, logico-scientifica, dei linguaggi e della comunica-zione”;Saverio Pansini, “I riferimenti normativi per la didattica nell’EdA”; Mauro Levratti, “La didattica dell’EdA, nella prospettiva di un sistema integrato”; Silvana Marchioro, “ Le ragioni dell’Unità di Apprendimento”; Pasquale Calaminici, “ La didattica modulare nell’e-ducazione di base degli adulti”, in “L’Officina di Vulcano”3 Cfr. Isfol, La certificazione delle competenze in Italia: breve panoramica sul dibattito na-zionale dal 1993 ad oggi, Roma 14 –15 maggio 2002, p.8. Cfr. Isfol, Dossier documentale dei Laboratori territoriali sulla certificazione delle competenze, Roma 2002. Cfr. Isfol, G. Di Francesco (a cura di), Unità capitalizzabili e crediti formativi. Metodologie e strumenti di lavoro, Franco Angeli, Milano,1997, pp.14-21.

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« Pensare che un’azione formativa debba svolgersi secondo lo schema

obiettivi-risultati, dalla determinazione degli obiettivi come anticipazione

mentale dei risultati, alla predisposizione dei mezzi per conseguirli, al con-

seguimento di ciò che era previsto, alla prova di conformità tra risultati rag-

giunti e obiettivi inizialmente posti, significa sovrapporre all’andamento

reale dell’azione uno schema iper-razionale, che nella sua irrealtà non ci

permette di capire la effettiva logica del nostro modo di procedere, l’unica

praticabile e l’unica che può essere efficace (nelle azioni formative come in

tante altre nostre iniziative). Progettare e condurre un’azione secondo que-

sto schema … significa inibire o neutralizzare tutto ciò che potrebbe emer-

gere nella situazione formativa. … l’anticipazione e la predeterminazione

esaltano il potere decisionale individuale (del formatore o responsabile del

progetto), nel presupposto che i partecipanti all’attività formativa non pos-

sono prendere, da parte loro, alcuna decisione sull’andamento delle cose. Si

tratta di una illusione di razionalità». 4

Queste obiezioni, che troviamo molto serie, hanno dato luogo, in Italia, alla proposta delle Unità Formative Modulari (Ufm)5, che si ispirano alle impostazioni pedagogiche ed andragogiche di E. C. Lindemann, di M. Kno-wles e di E. Bourgeois.6

4 M. Lichtner, La qualità delle azioni formative. Criteri di valutazione tra esigenze di funzionalità e costruzione del significato, Franco Angeli 20025 Pasquale Calaminici e Pietro Cappè, Analisi delle Unità formative Modulari, in MIUR, Percorsi didattici per l’Eda,: Analisi dei modelli di formazione6 E. C. Lindeman, The meaning of adult education, Chicago,1926; Malcolm S. Knowles (1950) Informal Adult Education, Chicago: Association Press, pages 9-10. E. Bourgeois, Jean Nizet, “Apprentissage et formation des adultes”, Presses Universitaries des France, 1997

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In estrema sintesi (rimandiamo per approfondimenti ai testi in nota) la Ufm si propone come modello di curriculum incentrato non tanto sullo schema obiettivo-risultato, quanto piuttosto sulla valorizzazione dell’indivi-duo, sulla possibilità di costruirgli attorno un percorso “su misura”, estre-mamente personalizzato, sulla importanza delle attività di tutoring e di ac-coglienza, sulla negoziazione e l’accettazione dei contenuti e delle strategie di apprendimento da parte del discente adulto, e più in generale sulle «con-dizioni di partecipazione degli iscritti» cui il documento del 2 marzo 20007

si riferisce, definendole «centrali» per la costruzione di «percorsi aperti e flessibili» che intendono «favorire l’ingresso in formazione di soggetti adulti di ogni età».

Questa impostazione è molto interessante, particolarmente adatta a gruppi di adulti a basso livello di scolarità, stranieri da alfabetizzare etc.

Ma la domanda che a questo punto dobbiamo porci è : forse che gli ami-ci della shopping list usano nelle loro programmazioni, oppure nella loro pratica didattica, il modello delle Ufm ?

Abbiamo esaminato centinaia di piani di lavoro, incontrato e formato centinaia di docenti: il modello didattico prevalente è quello trasmissivo-versativo-frontale : il modello di curriculum imperante è il syllabus e che esistano possibilità di progettazione e di strategie didattiche è per lo più una cosa che, se è nota, non è praticata; che poi esistano modelli di unità forma-tive come le UdA, le Ufc (Isfol) o le Ufm è lungi dall’essere sospettato dal-la quasi totalità dei docenti Eda.

3. Il con-corso curricolare

Le programmazioni didattiche citate sono tre esempi di curricolo. Il termine “curriculum” riferisce l’insieme dei contenuti di un corso di studi, e più in generale viene esteso all’insieme degli studi e delle attività professionali che una persona ha svolto nel corso della sua vita (il curriculum vitae et studiorum).

7 Presidenza del Consiglio dei Ministri, CONFERENZA UNIFICATA (ex art. 8 del D.Lgs 28 agosto 1997, n. 281), SEDUTA DEL 2 MARZO 2000. Accordo tra Governo, regioni, province, comuni e comunità montane per riorganizzare e potenziare l’educazione perma-nente degli adulti. Repertorio Atti n. 223 del 2 marzo 2000

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Volendo fare un po’ di etimologia, esso viene dalle corse dei carri e del-le bighe nell’antica Grecia e nell’antica Roma, e si riferisce sia ai percorsi di gara che alla corsa vera e propria.

Questa idea di competizione, che ritroviamo abbastanza facilmente nel-l’idea di curriculum vitae, in quanto chi si propone per un lavoro pone auto-maticamente il proprio CV in competizione con altri, per un curioso capric-cio del caso si è riproposta nella scuola italiana a proposito dei curriculum inteso come “piano di studi”.

Infatti, nella tradizione scolastica italiana, esiste un meccanismo di con-corso nella definizione dei curriculum che prevede almeno tre soggetti : 1. Il ministero, con la definizione delle finalità e degli obiettivi educativi generali. 2. La singola istituzione scolastica, con la definizione del POF (Piano di Offerta Formativa)

3. Il singolo docente con la sua programmazione di classe

In particolare il Pof (che è la carta di identità della scuola) deve “ illu-strare la progettazione curricolare, extracurricolare, didattica ed organizza-tiva delle sue attività”.

Come dire : il ministero definisce, a livello nazionale, gli obiettivi edu-

cativi generali, il singolo istituto , mediante il POF, li specifica meglio in relazione al contesto culturale, sociale ed economico in cui opera, mentre il docente li declina in base alla situazione reale dei discenti avvalendosi della tanto sciorinata libertà di insegnamento, garantita dalla costituzione.

Dette così le cose, tutto funziona splendidamente. Anzi, in un afflato di generosità, si potrebbe supporre che i docenti che

hanno presentato una programmazione curricolare simile alla lista della spesa, quanto agli obiettivi, alle competenze e alle abilità, rimandavano al POF.

Niente affatto. Non solo perché il Pof non può certo entrare nel merito della progettazione didattica di ogni singola materia, delle verifiche, delle strategie, degli strumenti utilizzati. Ma soprattutto perché le scuole serali ed i CTP un POF, per lo più, non ce l’hanno.

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Se si fa una ricognizione dei Pof presenti in rete, si nota che nel Piano

dell’offerta formativa dell’Istituto raramente esiste una specifica sezione destinata all’Eda, men che meno agli obiettivi educativi generali della se-zione serale. Questo ultimo elemento poi manca anche nella maggior parte dei Pof dei CTP in rete. Non che questo sia determinante nella erogazione effettiva del servizio.

Infatti il motore dell’attività didattica è il lavoro quotidiano dei docenti, degli amministrativi e dei dirigenti, non certo il POF dell’ istituto, che a nulla serve se non c’è un sistema che responsabilizzi le persone con nome e cognome.

La declinazione della intera offerta formativa nel Pof ha inoltre una fun-zione orientativa della progettazione individuale dei docenti, non certo so-stitutiva.

4. La specificità dell’Eda

Tentiamo ora di rispondere alle domande iniziali del presente capitolo in base alle osservazioni fatte.

Quanto alla organizzazione dei curricoli, il nostro studente troverebbe un sistema con poche luci e molte ombre.

Il concorso a tre (Miur - istituto - docente) nella definizione dei curricoli non funziona in nessuno dei vertici del “triangolo” che lo dovrebbe attiva-re:

– Vi sono contraddizioni interne ai corsi serali (Sirio ed Aliforti) che rendono impossibile una effettiva modularizzazione dei percorsi per una reale capitalizzazione delle competenze acquisite. Manca l’adozione degli standard di competenze per l’Eda, sui quali del resto da anni si è fatto un approfondito lavoro8. Una ridefinizione dei curricoli è diventata indilazio-nabile.

8 Lucio Guasti (2002) , Le competenze di base degli adulti, Quaderni degli Annali dell’Istruzione, n. 97, Roma

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– Manca negli istituti di istruzione e formazione degli adulti la consape-volezza della propria specificità. La adozione di un Pof appositamente de-clinato sui bisogni specifici di un’utenza adulta ci sembrerebbe il primo passo da fare. Questo recupero di specificità deve passare attraverso la creazione di istituti dedicati all’Eda, come del resto il Decreto di costituzio-ne dei CPIA intende fare.

– Manca nei docenti, come dimostrato dall’analisi dei loro piani di lavo-ro e dalla gestione dei moduli in Sirio, una preparazione specifica a lavora-re su percorsi realmente modularizzati ed articolati per competenze. Molti di loro procedono col “pilota automatico” e ripropongono modelli didattici - con i quali sono stati formati - ad un’utenza ed in un contesto che richie-derebbero degli aggiustamenti e dei mutamenti anche considerevoli del loro modo di operare. Possiamo dire per ora che essi rivelano nel loro agire quo-tidiano la mancanza di una reale identità e specificità dell’Eda che emerge da tutto il sistema.

Quindi, per quanto la normativa (italiana ed europea) volino “alto”, ed abbiano ormai inserito l’Educazione degli adulti nello scenario più ampio dell’apprendimento permanente come condizione indispensabile per muo-versi verso la società della conoscenza, e per quanto il concetto chiave at-torno a cui ruota questo obiettivo ambizioso siano proprio le competenze, la realtà attuale è irta di contraddizioni.

Dalle quali si esce con una efficace e coraggiosa azione di sistema, che allinei il nostro Paese all’Europa. Ovvero con una riforma che metta mano all’Eda mediante un intervento normativo sistemico e globale. Di questo ci occuperemo nella parte terza.

Tuttavia vi sono aspetti che questa trasformazione per “competenze” porta con sé che implicano un capovolgimento di habitus, di atteggiamenti e di mentalità, che una semplice azione di sistema non riuscirebbe da sola a realizzare. Essi riguardano il modo di essere docente, di essere studente, di concepire le tecnologie. Ne parleremo più avanti, nei capitoli 5-6. Essi co-stituiscono il cuore del nostro discorso.

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Fin da ora comunque una piccola rivoluzione si accenna: quella che, ri-portando l’Eda al ruolo che le compete, superasse certe forme quasi “psica-nalitiche” di rimozione della sua specificità : dai Pof di Istituto, dalle attivi-tà di specializzazione delle SSIS9, praticamente inesistenti, ai titoli e requi-siti necessari ad insegnare in un corso per adulti : nessuno. Una rivoluzione nell’atteggiamento del legislatore che porterebbe l’Eda ad essere nei fatti, e non solo nel dettato normativo, da “Cenerentola” della scuola italiana ad anello insostituibile del sistema di apprendimento permanente (Lifelong Li-fewide Learning).

Cap. 4 - L’offerta formativa : l’ambiente sociale.

9 Con il D.L. 25 giugno 2008 , n. 112 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione Tributaria” il X ciclo di attività delle Scuole di specializzazione all’Insegnamento Superiore è sospeso.

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VI. Il Giampi era detto anche, ma a sua insaputa, se no si arrabbiava come una biscia, "Bello Ovunque".

Giacché bello era bello, senza dubbio. Un ragazzone di uno e novanta con un fisico da urlo, due occhi paradiso ed una zazzera di grano, che era diventato fa-moso per le previsioni del tempo.

Gli avevano chiesto di interessarsi del meteo per la gita di Ferragosto. Un pic-nic con le ragazze, in mezzo ai boschi del cuneese, non so se mi spiego. Il meteo era un compito chiave. Gianmarco e Luca dovevano occuparsi del posto (ma lo co-noscevano bene, ci andavano da piccoli), Max ci metteva il pulmino della ditta, Paolino (o meglio la mamma) pensava alla birra, le ragazze alle vivande. Una per-fetta suddivisione dei compiti.

Quella del Giampi era in fondo l’incombenza più semplice : occuparsi delle pre-visioni meteorologiche, e se queste fossero state incoraggianti, la gita si sarebbe fatta.

Ora, prendiamo un gruppo di ragazzoni di belle speranze, neanche un secolo in cinque, con le loro amichette, alla vigilia di un ferragosto in città, che possono or-ganizzarsi la prima uscita foris portas in grande stile : C’è per caso qualche forza della natura in grado di fermare un simile concentrato testosteronico?

Solo il Giampi poteva dirlo.Ed il suo verdetto meteorologico era stato incoraggiante : bello ovunque.Ora, se si vanno a leggere le cronache di quell’anno, si troverà che a Ferrago-

sto, nel cuneese, era successo di tutto : trombe d’aria, chicchi di grandine come noci, case scoperchiate, protezione civile col suo gran daffare.

Bello ovunque….e il Giampi a schermirsi, a dire io che c’entro con le previsioni se sono sbagliate, ma no che ho capito bene, mi credete imbecille, sta di fatto che quello del "Bello ovunque" era diventato un refrain che il Giampi si portava addos-so come le stimmate Padre Pio.

Ergo, forse perché dovunque andassero le donne se lo spolpavano cogli occhi, forse per quel tragico ferragosto, sta di fatto che “Bello ovunque” era ormai il suo nomignolo, da pronunciarsi tassativamente quando lui non c’era.

– In palestra? Macché palestra.,,, tuonò Max .Torno a scuola! –

VII. Sentire in silenzio quel gruppo di vitelloni della Bovisa non era facile.Un silenzio di forse un minuto.A Paolino batteva forte il cuore, come qualche ora prima dalla Marilena.

Non era però un silenzio assoluto. I cervelli di tutti si erano messi in moto. Le vite si erano messe in moto.

A nessuno piaceva il proprio lavoro. Tutti avevano almeno un motivo per la-mentarsi, tutti volevano crescere, migliorare. Le ragazze di Giampi e Linux poi fa-cevano lo Iulm, quella di Paolo la Bocconi, quella di Max aveva una specie di lau-rea breve. Ora, si sa che in genere le ragazze sono più tranquille, più diligenti, di-ciamo più brave a scuola, ma la cosa era chiaramente diventata per tutti un pro-blema.

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Che magari si manifestava nei discorsi al bar, o quando progettavano il futuro, oppure quando si parlava di politica, di società, di vita. Discorsi più consapevoli, più argomentati e documentati, quelli delle ragazze, meno esagerati e più calibra-ti. Nessuno lo diceva, questo, ma tutti lo capivano.

Come quando era uscito il problema dei magrebini.Bisogna sapere che a Milano, tra molti giovani, dire Magreb e dire sfigato,

spacciatore, delinquente è più o meno la stessa cosa. Una generalizzazione discu-tibile, si dirà, ma che ai loro occhi era fondata sull’evidenza della realtà che cade-va sotto i loro occhi, quando la sera attraversavano le strade di periferia, oppure uscivano la domenica mattina dal disco club, quando la città doveva ancora deci-dere se svegliarsi del tutto o continuare a crogiolarsi tra il tepore delle lenzuola. Pusher all’angolo, poveracci sulle panchine, rannicchiati sulle scalinate della cen-trale o nei giardini di Pagano, le notti stellate e gelide o quelle torride d’agosto. Tutti magrebini, tutti una razza da estirpare.

Appunto, il problema era esploso una di quelle sere (si fa per dire, saranno state le tre) mentre tornavano a casa, Paolo, Max, Giampi, con le loro ragazze, dopo una serata di ritmi folli all’Hollywood di Corso Como.

– Hai visto quante belle facce? – Fece il Giampi, commentando il consueto giro di “visi pallidi” davanti alla stazione.- Ma tu dimmi se un milanese non può nean-che uscire a farsi una passeggiata… stanno rovinando la città , ‘sti magrebini… – Al rogo, bastardi – il Max…

– Mica son tutti magrebini, quelli là – salta su la Lisa, che il suo Giampi se lo teneva bello stretto, ma quando una cosa non le quadrava, proprio non le riusciva di tacere. – Vedo dei cingalesi, o indiani… che sia. –

– Ehmbé, e qual è la differenza, Lisa? – – Max, ma te sai cos’è il Magreb? –– No, mi basta sapere cosa sono i magrebini. –– I magrebini sono quelli che vengono dal Magreb, se non sai cos’è il Magreb

non puoi dire se uno è magrebino. –– Azz.. .come la fai difficile… son quelle facce scure là, dài, te lo devo spiega-

re? – Fa il suo ragazzo , quasi a difendere le ragioni dell’ignoranza che lo accomu-nava al suo amico.

– Amore, ma allora, quando sono tornata da Porto Rotondo, ad agosto, ti ri-cordi…? Come ti piacevo con l’abbronzatura integrale? Ero bella scura…non sapevo ti piacessero le …magrebine…–

Erano le tre e qualcosa, la notte era ancora giovane. Il giorno prima aveva fi-nito di piovere ed il cielo era terso, l’aria fresca e leggera, il traffico scorrevole , i semafori tutti verdi, la metropoli giovane ed invitante, ma a quel punto fu chiaro a tutti che la serata aveva i minuti contati. Il Magreb si era messo di traverso.

Sarà stata quella considerazione della Lisa, davvero inoppugnabile, oppure la

consapevolezza che per reggere certi discorsi ci vuole un briciolo di informazione, oppure sarà stato il senso della distanza incolmabile (o colmabile?) tra di loro… sta di fatto che quando Laura disse che era stanca e voleva tornare a casa, subito Paolo (che non vedeva l’ora di appartarsi con lei), Max e gli altri acconsentirono.

E quella notte così giovane si trovò in pensione.

VIII. – Sì, torno a scuola. –

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Mica è facile rompere il ghiaccio, quando il silenzio è di quelli spessi, che si ta-gliano col coltello. Max era deciso, la cosa l’aveva meditata a lungo, e sentiva di dover dare delle spiegazioni.

Quella questione della scuola, sarà stato lo stimolo delle fidanzate, oppure lo “smacco magrebino ”, o forse l’insoddisfazione per un lavoro mediocre e sottopa-gato, gravava sulla vita di tutti quegli amici al bar.

– Voglio prendermi il diploma di Ragioniere, serve a me e a mio padre per la ditta, che un giorno sarà mia. Devo pur imparare certe cose per gestirla, no? –

– E ti tocca ricominciare dalla prima? – Saltò su il Paolino, che tra tutti loro era quello che, per motivi a noi noti, era già perfettamente sintonizzato su quel cana-le.

– No, qui sta il bello. Entro subito in seconda, mi tengono buona la prima, ed inoltre, almeno quest’anno , non devo fare due o tre materie. Sono andato ieri a parlare col vicepreside del serale di viale Jenner. –

– Ma va? Ganzo così, ma te scusa, non sei stato cannato in seconda liceo? –– Sì, ma siccome ero sufficiente in italiano e matematica, posso non frequen-

tarli in seconda ragioneria… è un credito scolastico. –

Paolino aveva il cuore in subbuglio. Gli si stava smuovendo, scoperchiando qualcosa. La giornata stava cambiando, la vita stava prendendo una piega, un senso ignoto fino a due ore prima. Ecco, ora so cosa voglio e cosa devo – pensava dentro di sé, cercando di dissimulare agli altri questo benessere, questa liberazio-ne che sentiva inaspettatamente aver preso il posto della frustrazione .

Eh sì, ora non gli importava tornare a casa, e rispondere alla mamma, al papà, alla sorellina brava ed impicciona . Non gli importava un fico secco perché lui ve-deva e sentiva con chiarezza la via, la strada da percorrere.

– C’è solo una roba che mi ruga – proseguì il Max. – Ho visto i programmi di seconda ragioneria, e mi tocca rifare certe cose che…–

– Tipo? – Fece Paolino, che ormai era diventato il suo unico interlocutore, mentre gli altri, spiazzati dall’annuncio, pensavano a come sarebbero cambiate le loro serate senza il suo fuoristrada e la sua garrula ironia.

– Tipo inglese od informatica. –

Ora, per comprendere questa uscita del Max, bisogna sapere che lui, nella fab-brichetta di papà, due cose le aveva imparate bene : a relazionarsi con i clienti ed a gestire gli ordini e le fatture. Le molte ragazze del nord Europa arpionate sul lungomare di Riccione e qualche cliente d’oltremanica completavano il quadro : in inglese se la cavava.

Inoltre il babbo lo aveva messo in ufficio, non solo per gli ordini e le fatture, ma anche per fargli apprendere qualcosa di informatica, visto che oltre la Play station quel suo unigenito dai riccioli neri non andava.

E difatti, in pochi anni il Max col pc era diventato una scheggia. Applicativi, In-ternet, persino la rete interna, tutto era in mano sua. Ormai si chiamava il tecnico solo di rado, se proprio il figlio del boss non ci arrivava. Gli amici lo sapevano, glielo riconoscevano, anche perché, a fronte di questo riconoscimento ufficiale si vedevano recapitate gratis le copie abusive di film, canzoni, giochi.

Max invece un riconoscimento di questo tipo lo voleva dalla scuola.

1. La società che forma.

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Vogliamo fare ora una riflessione più generale sull'apprendimento, che ci serve come trampolino di lancio per giungere al cuore del nostro discorso sulla rivoluzione delle competenze.

L'ambiente micro e macro-sociale nel quale siamo immersi, è origi-

ne, condizione e destinazione di ogni nostro apprendimento. Di questo bisogna tener conto nella proposta di una credibile offerta formativa per le nuove generazioni.

Anzitutto la conoscenza è un fatto sociale, in un senso molto banale ed

evidente a tutti. Le occasioni di apprendimento, per ognuno di noi, sono molteplici e quotidiane. Si impara da tutto e da tutti. La misura del nostro apprendimento dipende in buona sostanza dal nostro atteggiamento, ma so-vente assimiliamo conoscenze, competenze e modelli di comportamento dall'ambiente che frequentiamo e nel quale siamo immersi.

Di più : le caratteristiche dell'ambiente determinano il modo prevalente con cui noi entriamo in relazione con i dati di informazione che quotidiana-mente ci si riversano addosso, come uno tsunami spesso difficile da argina-re.

Ad esempio, le attuali forme di comunicazione (fiction, news, web, pub-blicità) sollecitano e stimolano continuamente uno stile cognitivo di tipo vi-sivo ed iconico, in quanto si basano su messaggi nei quali la prevalenza dell'immagine sul testo è netta.

Quindi, tutti noi siamo "costretti", nostro malgrado, ad esercitare di più questo nostro stile cognitivo, anche se non è in noi prevalente, stile che ri-sulta incentivare una comprensione analogica, olistica e globale della real-tà.

Le nuove generazioni (diciamo i neo-millennials, nati nell'ultimo ven-tennio del XX secolo) sono cresciute e si sono immediatamente adattate a questa continua sollecitazione di immagini, filmati e percezioni visive in genere.

È evidente perciò che anche le modalità del loro apprendere ne risultino influenzate. Lo stile cognitivo dei baby boomer (nati dal 1945 al 1964) e della x-generation ( nati dal 1965 al 1980) era diverso da quello dei millen-nial e dei neomillennial (nati dal 1980 in poi), e probabilmente la scuola di

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allora era funzionale a quello stile, con le sue lezioni frontali, con metodi analitico-discorsivi1.

Ma oggi?Un altro esempio, è il flusso dei dati in ingresso. Oggi chiunque di noi

deve fare i conti con un overflow di dati (informazioni, messaggi pubblici-tari, news) che deve saper gestire, organizzare, sistemare, a cui deve dare una collocazione mediante una personale attribuzione di significato. La mole di informazioni che ci raggiunge, a volte, è difficile da gestire: le nuo-ve generazioni si sono adattate molto velocemente al multitasking, cioè a "smaltire" contemporaneamente il traffico di dati, per lo più come un rou-ter fa con i bit.

Una scena ricorrente ed esemplificativa è quella del quindicenne che fa i compiti e ascolta musica, chattando contemporaneamente con 3-4 persone.

Ora, è probabile che a questa capacità di concentrarsi contemporanea-mente su più fonti non corrisponda parallelamente una reale competenza nell'organizzare produttivamente i dati in ingresso, nel selezionarli e va-gliarli criticamente, oppure nel ricercarli produttivamente in base ad una ri-chiesta specifica, od ancora nell'approfondire il loro significato mettendoli in relazione con altri. Cioè è probabile che al multi tasking delle nuove ge-nerazioni corrispondano superficialità, mancanza di organizzazione, di spi-rito critico e passività di fondo.

La formazione deve farsi carico di queste criticità : una scuola che si li-mitasse a sommare nuove informazioni a quelle già provenienti dall'am-biente sociale, intaserebbe il canale di entrata senza apportare un reale valo-re aggiunto nella capacità di comprensione della realtà. Una scuola che ri-proponesse tale e quale il modello comunicativo-informativo di trasmissio-ne del sapere, andrebbe ad aggiungersi agli altri canali in ingresso, annac-quando lo specifico del suo messaggio e confondendolo con le tante voci che reclamano ciascuna la sua quota di attenzione esclusiva.

2. Le condizioni dell'apprendere

1 Lance Bennet, Using Digital Media to Engage Your Citizens, New Millennium Learners Conference, Firenze, 7 Marzo 2007, (preparato per OECVD ed Indire)Eric Bruillard, ICT and education. Some considerations .IbidemJosep Maria Mominò, Julio Menenses, Digital inequalities in children and young people : a Technological matter? Ibidem

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Tuttavia la conoscenza è un fatto sociale in un altro e ben più profondo

significato: l'ambiente sociale, le relazioni col prossimo, sono non sola-mente l'origine delle informazioni, ma il terreno di coltura nel quale noi facciamo crescere e diamo significato a ciò che impariamo. Le interrelazio-ni con gli altri sono la condizione dell'apprendere, non tanto – e non solo – l'origine, il luogo e l'occasione.

Lo si veda nel racconto.Paolino ha una precisa consapevolezza di sè, della sua creatività e dei

suoi meriti. Lo si legga nella piccola creazione del nome da attribuire al bar. E sa anche dove fermarsi : quando Max comincia a parlare di qualcosa a lui poco noto, capisce che buona parte del discorso gli sfugge, e benché sia indispettito nel suo orgoglio montante, si rende conto che quello è il caso di stare zitto.

Tuttavia stanno maturando in lui alcuni modelli cognitivi che sono de-terminanti per la sua crescita intellettuale. In questo frangente (al bar), Pao-lo comincia a diventare consapevole, nella sua piccola e buffa "riflessione del vattelapesca", che il sapere implica un ordine gerarchico di conoscenze, alcune delle quali sono funzionali alle prime e dalle quali non si può pre-scindere.

Paolo, in altri termini, comincia a costruire i suoi "cassetti", ovvero i modelli cognitivi che lo aiuteranno a sistemare il sapere nel suo personale "armadio della conoscenza".

Per esempio, assetato di sapere com'è, egli intuisce che quel momento con Max sarebbe un’ottima occasione di apprendimento per lui, se solo possedesse alcuni strumenti concettuali che gli mancano : infatti, come co-noscere il conguaglio fiscale senza possedere il meccanismo dell'Irpef? sen-za sapere come essa viene trattenuta in busta paga e cosa siano le aliquote? Oppure : come comprendere il discorso del socio occulto se non si conosce la struttura societaria di una azienda, l'utile, il dividendo, forse anche il si-gnificato del termine "occulto"?

Molto significativo ci pare infine l'episodio del Magreb, dove si realizza

una vera e propria costruzione di conoscenza mediante un apprendimen-to situato ed in un ambito del tutto informale.

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3. La costruzione sociale della conoscenza. Il silenzio finale che suggella l'imbarazzo degli amici rappresenta in

qualche modo il suono della campanella di una bella lezione di vita che essi si sono dati a vicenda, ed al contempo conferma l'efficacia della lezio-ne.

– Una lezione nella quale manca un insegnante, o meglio nella quale

l'apprendimento si è dato tra pari.Questa è la prima differenza con l'approccio tradizionale : è il soggetto

che apprende al centro del processo formativo, non il docente inteso come depositario indiscusso di un sapere universale, che eroga la sua conoscenza dall'alto della sua posizione.

– La conoscenza poi è il prodotto di una costruzione attiva del soggetto : Paolo e gli altri inseriscono le nuove idee di Lisa dentro la conoscenza pre-cedente che è già in loro. Costruiscono nuova conoscenza aggiungendo nuovi mattoni a quelli che prima avevano in sè.

– Questo processo non è passivo, ma attivo ed è dinamico, prevede una ri-strutturazione delle conoscenze vecchie ed il loro superamento in relazio-ne al nuovo apprendimento. In questo senso non esistono conoscenze giu-ste e conoscenze sbagliate, come non esistono stili e ritmi di apprendimen-to ottimali. Secondo Bruner2 la conoscenza è un "fare il significato", vale a dire è un'operazione d'interpretazione attiva che lo stesso soggetto aziona tutte le volte che vuole comprendere la realtà che lo circonda.

– L'elaborazione di significato del gruppo di amici è avvenuta, appunto, in gruppo. Vale a dire : l'apprendimento non è un processo individuale, ma sociale, in cui l'interazione dialogica con gli altri concorre ad attribuire un significato alla realtà.

– Tale costruzione sociale della conoscenza passa attraverso una nego-ziazione di rappresentazioni differenti della realtà (quella di Paolo, Max e Giampi e quella delle ragazze), non è lineare e logico-consequenziale, ma dialogica.

2 Bruner, J., Brown. R.W. (1956), A Study of Thinking, Wiley, New York,

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– Mette la conoscenza in primo piano, relegandola sullo sfondo. Para-dossale ma vero. Una lezione teorica di geografia sulle regioni africane non avrebbe insegnato a tutti dove sta il Magreb meglio di quanto abbia fatto la consapevolezza - etica prima che tautologica- che non si può definire qual-cuno magrebino se non si sa dove sia il Magreb.

– L'aspetto riflessivo è anche stavolta centrale. Tutti si rendono proba-bilmente conto della fallacia dei loro pregiudizi dalla inconsapevole lezione di Lisa, che a ben vedere usa strumenti logici e dialogici classici, tautolo-gie quali il sillogismo e la reductio ad absurdum (il "paradosso di Portoro-tondo"). Gli strumenti sono antichi, ma il quadro non è la lectio divina, bensì il costruttivismo sociale.

– Non sfugga la dimensione etica e civile della lezione : un contributo significativo a consolidare le basi culturali della tolleranza e dell'accettazio-ne della diversità quali una lezione cattedratica sulla filosofia di Locke o Voltaire non sarebbero mai riuscite a fare. E questi ragazzi – come molti ra-gazzi di oggi – ne hanno un tremendo bisogno.

– Da ultimo, questa costruzione di conoscenza è stata realizzata in un ambiente informale, in un luogo e momento inconsueti : in auto, alle tre di notte, di ritorno da una serata in discoteca, e probabilmente a tassi alcole-mici maggiori di zero. Senza lavagne luminose, senza slide interattive, sen-za le algide luci al neon di un'aula super attrezzata...

4. Le competenze per la vita Ricapitolando: l'ambiente sociale è l'origine di tutto il nostro apprendi-

mento, di quello formale, non formale ed informale, in particolare di que-st'ultimo.

L'ambiente inoltre influenza gli stili di apprendimento, ne rende alcuni prevalenti su altri e cambia le modalità dell'apprendere di intere generazio-ni.3

Infine l'ambiente sociale è condizione dell'apprendere. Non si impara mai da soli, bensì imparare significa dare significato alle cose mediante una interrelazione cogli altri. E questo è vero in particolar modo per le compe-tenze.

3 Indire-Oecd, Convegno internazionale New Millennium Learners – Scuole, tecnologie, apprendimento, Firenze 7 marzo 2007

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Da ultimo - ed è ciò di cui vorremmo parlare ora, l'ambiente sociale è la destinazione finale dell'apprendere, nel senso che le conoscenze, le abilità e le competenze che acquisiamo sono destinate a ricadere su di esso. Ciò che impariamo dall'ambiente, all'ambiente ritornerà mediante la nostra azione, le nostre scelte, i nostri progetti sul lavoro, nella vita di tutti i gior-ni.

Questo significa che il sistema di istruzione deve focalizzare l'attenzio-

ne, al livello dell'obbligo, e consolidare, a livello tecnico-professionale, quelle competenze di base che servono per la vita, prima ancora che per il lavoro.

Si parla di queste core skills (basic skills, o anche key competences) dal-

la Conferenza mondiale dell'educazione4 e se ne sono occupati i grandi or-ganismi internazionali, dall'OMS5 – con evidentemente un taglio salutisti-co, legato al benessere della persona – all'Ocse6, per finire con l'indicazione delle 8 competenze chiave dell'UE7. Anche l'Italia ha fatto la sua parte, so-prattutto definendole in relazione alla spendibilità di queste core skills in ambito professionale8.

Quali sono? Se passassimo in rassegna i documenti internazionali, ci di-

lungheremmo troppo9. Ripartiamo invece dal racconto, da Giampi.Il quale ha fallito la sua mission, quella di informarsi sulle previsioni

meteorologiche, in modo clamoroso.Che cosa è successo? Erano davvero sbagliate le previsioni oppure qual-

cosa è andato storto nella ricerca di informazioni che ha fatto questo bel ra-gazzone dagli occhi blu?

4 Unesco, Conferenza mondiale dell'educazione, 19905 OMS, Life skills education in school, Ginevra 19936 OCSE, Esame delle politiche di istruzione, Roma 19937 UE, Competenze chiave per l'apprendimento permanente, Bruxelles 2005.8 Cfr. Isfol, La certificazione delle competenze in Italia: breve panoramica sul dibattito nazionale dal 1993 ad oggi, Roma 14 –15 maggio 2002.9 Una buona sintesi si trova in Flavia Marostica, Abilità, competenze e saperi nei documenti internazionali, dal 1990 ad oggi, reperibile in rete.

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Facciamo qualche ipotesi : ha interpretato erroneamente la cartina geo-grafica sul giornale, leggendo un parziale sole con nuvoletta, segno di ac-centuata variabilità, come una chiara indicazione di "bello ovunque"?

Oppure ha ascoltato con superficialità le previsioni in TV, confondendo giorni e regioni? Oppure gli sono mancati skills per fare una ricerca attiva nel web e per selezionare i siti di previsioni meteo più attendibili? Oppure, ancora, ha ascoltato previsioni sul week end troppo anticipate, e per-ciò poco attendibili? O ancora, più semplicemente, le previsioni non erano sbagliate, e lui, che non è stato "educato all'incertezza", ha sbagliato nel co-municare ai suoi amici un dato altamente probabile come una verità apodit-tica, guadagnandosi in tal modo un nomignolo fastidioso? O magari ( e non ci sarebbe da stupirsi) per Giampi "bello ovunque" e "bello dappertutto" non sono affatto espressioni equivalenti...

Lasciamo al lettore il piacere (e la fatica) di individuare le competenze

per la vita sottese nel racconto.

4. Sintesi provvisoria. Paolo non ha ancora deciso di rientrare a scuola, ma il cerchio delle no-

stre -e sue - riflessioni si sta chiudendo. Infatti le key competences, le com-petenze per la vita ci fanno capire che non aveva tutti i torti a lamentarsi di una scuola poco collegata con la vita. Paolo, senza saperlo, reclamava una formazione incentrata sulle competenze (e sulle competenze-chiave) perchè soltanto una scuola siffatta garantisce che i due binari, scuola e vita (lavoro compreso), siano paralleli.

Nel sistema formativo che lo aspetta, invece, i due binari divergono, ed a queste condizioni il treno della formazione deraglia ancora prima di parti-re.

Quella di cui Paolo avrebbe bisogno è una scuola che tenesse conto de-

gli stili cognitivi delle nuove generazioni, della sovraesposizione mediatica a cui sono quotidianamente sottoposte, di una scuola agile nel riconoscergli i saperi acquisiti in ambito non formale e informale perchè articolata attor-no ad un sapere concreto, capitalizzabile e spendibile.

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Di una scuola in cui il processo di apprendimento fosse concepito non più come esposizione ad un flusso di dati ed informazioni rispetto al quale il discente rimane in posizione passiva, ma nella quale una didattica attiva, fatta di attività laboratoriali, di studi di casi, di soluzioni di problemi, lo reimmergesse nel flusso costante dell'esistenza, anche se in forma mediata (dalle tecnologie, vedremo) e simulata; nella quale fosse guidato da un in-segnante tutor-consulente di processo, piuttosto che da un arido ripetitore di una cultura libresca, a costruire i propri modelli cognitivi, a rimetterli in di-scussione, a procedere per acquisizioni nuove e superamenti faticosi verso sistemazioni più ampie del proprio sapere; a riflettere su di sè e sui propri processi di apprendimento, abituandosi ad una metariflessione indispensa-bile per crescere ed autoemendarsi.

Insomma, una scuola che parta dalla realtà perchè alla realtà possa tor-nare, con efficacia per la persona e la società.

È tempo dunque di entrare in classe, di vederla questa scuola, per pesar-

ne quali rivolgimenti radicali essa implicherebbe rispetto all'esistente, e per entrare nel vivo del nostro discorso sulla rivoluzione delle competenze.

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Cap. 5 - La rivoluzione delle competenze.

IX. Ci sono dei giorni che scorrono vuoti, uguali ed insignificanti, uno dietro l’al-tro come perle di tristezza infilate in una collana che non si indossa mai. Altri in-vece in cui capita troppo, gli astri si danno appuntamento e la tempesta si scate-na.

Questo era uno di quei giorni e Paolino non sapeva dove mettere il cuore. Alla guida della sua Golf 1.6, con gli occhi sbarrati sulla strada, non sapeva se met-terlo nella nuova speranza nata e confermata in lui dal discorso al bar, nella con-solazione di sapere che anche Max la custodiva da tempo, nel desiderio di anda-re pure lui in viale Jenner ad informarsi oppure nella mortificazione con cui co-municare in famiglia la notizia della mancata promozione.

Paolo preferì il futuro, la speranza, la vita. A vent’anni, come dargli torto? – Viale Jenner …Uhm, è qua vicino, sono le sei e qualcosa… è una scuola se-

rale, dovrebbe essere aperta… Ma no, passo domani…Domani? E perché domani? Adesso non va bene? Perché aspettare? Perché perdere tempo? Ne ho già perso abbastanza, finora…Vado subito…prima passo a casa, magari mi lavo e mi metto bene…no, se passo a casa mi tocca spiegare, raccontare…vado subito, vado ora –.

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La nostra memoria è una facoltà misteriosa e prodigiosa. Non è un passivo ri-pescaggio di dati, come la memoria di un computer. Si attiva, si potenzia se tut-ta la persona, ma proprio tutta, è in fermento. Corpo, mente e cuore. E la me-moria di Paolino non faceva eccezione.

Difatti, che ad uno come lui potessero venire in mente i Promessi Sposi, a lui che badava all’”organizzazione”, alla logica delle cose, e che proprio la letteratu-ra non la filava, resta un mistero.

Fatto si è che quella trepidazione, quella ansietà, quella sospensione ed op-pressione del cuore che provava in quel momento gli ricordarono con precisione l’Innominato, alle prese con la decisione se andare o no dal buon Federigo a con-fessarsi, a liberarsi di un peso divenuto ormai insopportabile, a progettare una nuova vita.

Per la verità, nella sua testa non era tutto così chiaro, così nitido. Era un cro-giuolo di sensazioni, emozioni e ricordi allo stato larvale e confuso.

Entrò nell’androne buio ed umido della scuola, l’Istituto Tecnico G. Falcone di Viale Jenner.

Muri scrostati, vecchie porte di legno consumate dagli anni, dentro un viavai di ragazzi e ragazze con cartelle sulle spalle o libri in mano…Chiese ad una bidel-la come avere informazioni sull’iscrizione e quella, neanche fosse stata muta, gli mostrò col dito indice il corridoio, senza neanche proferire una parola.

In condizioni normali Paolo avrebbe replicato a quell’indice col dito medio. Ma non era in condizioni normali, bensì in quell’entusiasmo giovanile che ti fa volare alto sulle mediocrità della gente, talchè alla sgarbata sufficienza di quella “opera-trice scolastica” non fece nemmeno caso.

Dietro la vetrata dello sportello della segreteria una signora dall’aspetto molto curato lo guardò con aria scocciata e sufficiente. Che cosa vieni a rompere, a quest’ora? Non sai che tra poco stacco, devo ancora fare la spesa e per giunta mi si sta squagliando il mascara?

– Mi dica… –– Volevo iscrivermi alla scuola serale e volevo… –– Tenga i moduli, deve fare il versamento – lo interruppe villanamente. – Sì grazie, ma io volevo parlare con qualcuno che mi potesse indicare… –– Per il fiduciario vada là, in Vicepresidenza – chiuse in modo repentino, fis-

sando negli occhi la ragazza che stava dietro, quasi a dire : – Avanti il prossimo, che anche questo l’ho sbolognato ! –

– Come inizio non c’è male – , si diceva tra sé il Paolino…. – Mah, in fondo an-che l’Innominato ha trovato qualche intoppo, prima di arrivare da Federigo. –

– E chi sarà il mio Federigo? Il fiduciario? Boh, se l’han chiamato fiduciario deve essere uno che ispira fiducia, speriamo…–

Paolino aveva davvero bisogno di qualcuno a cui consegnare il suo cuore : le sue speranze, la sua storia scolastica, i motivi del suo fallimento, la sua ansia di riscatto, i suoi obiettivi… cercava qualcuno con cui riprogettarsi la vita, qualcuno che gli desse fiducia, oltre che ispirarla a lui.

Ma sì, il fiduciario doveva essere la persona giusta.

X. Il prof. Colantonio, docente di Italiano e Storia, con abilitazioni all’insegna-mento plurime e differenziate, sedeva alla scrivania della vicepresidenza immer-so nella lettura del "Sole 24 ore", pagina finanziaria, e scrutava con interesse le quotazioni del suo fondo obbligazionario.

– Gargiulo, tu che insegni economia, ma me lo vuoi spiegare perché la borsa americana sale e il mio fondo azionario scende? – Fece con smaccato accento si-culo

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– Sei sicuro di avere un fondo azionario e non obbligazionario, Fefè? – Repli-co il suo conterraneo, al quale si sentiva legato dalla nostalgia per le zagare ed i fichi d’india.

– Scusate, posso entrare? – Fece capolino Paolo dalla porta d’ingresso. – Certo, si accomodi pure. – Paolo si sedette. Gli era bastato quel “si accomodi” a farlo sentire più a suo

agio, rispetto a prima. Sistemandosi sulla sedia, si accorse che l’altro prof. lo squadrava con aria cu-

riosa ed impertinente. Paolo voleva confessarsi, voleva mettere la sua vita nelle mani di qualcuno, non gli garbava che ci fosse lì un avventizio col giornale in mano, la porta dell’ufficio aperta, bidelli che entravano ed uscivano.

L’ambiente aveva poco del confessionale, meno ancora della vicepresidenza, dell’ufficio tranquillo dove uno può parlare a fondo di sé, delle sue scelte di vita, del suo destino.

Documenti sparpagliati sul tavolo, ante di armadietti semi chiuse, sedie scompagne e malmesse, un disordine imperante che lo innervosiva e che cozza-va col suo desiderio di ordine, di mettere nella giusta priorità, ora che lo sapeva, le cose della sua vita.

E nemmeno "Il Sole 24 ore", dispiegato sulla scrivania, gli pareva un segno di grande attenzione. Insomma leggi il giornale o mi devi ascoltare?

Paolo si stava irritando, il fiduciario non era certo il Federigo in cui sperava, in cui riporre la sua vita ed il suo futuro, tutt’al più ecco un altro servitore che fre-na, ostacola, si frappone…ma che ci fosse, un Federigo, e che magari non fosse neanche una persona, bensì una materia, un nuovo modo di vedere la scuola, o fosse un bravo professore che lo aspettava a braccia aperte, ecco, di questo era certo, certissimo.

XI. – Sei qui anche tu per l’iscrizione? – Chiese la bella cinesina a Max, che stava pensando se aveva tralasciato di compilare qualche modulo, se aveva fatto cor-rettamente i versamenti, se….intanto la fila allo sportello si allungava.

– Sì, devo consegnare…– – Per essere cinese, ha una pronuncia perfetta, non c’è che dire…’sti musi gialli

– pensò il Max, il quale oltre ai magrebini provava un’avversione tanto forte quan-to ingiustificata contro tutti i musi tendenti al giallo che incontrava sul suo cammi-no. – In che classe? – Continuò la ragazza.

– Seconda ragioneria – fece il Max con dinoccolata nonchalance che tanto pia-ceva alle ragazze di buona famiglia che lui amava frequentare.

– Come me! Allora saremo compagni di classe – disse lei con un candido entu-siasmo che profumava di ingenua spontaneità.

La cosa non dispiacque a Max come avrebbe voluto. Primo perché Cheng era davvero deliziosa : minuta, neanche diciott’anni, due occhi neri ma di un nero profondo ed una pelle che di giallo non aveva proprio nulla. Secondo…beh, il per-ché non lo sapeva spiegare nemmeno lui, resta il fatto che c’era un altro bel moti-vo che rendeva tutt’altro che sgradevole quella nuova compagna di classe, lo sen-tiva, ma preferì non pensarci.

– Lo parli bene l’italiano, per essere cinese…– – Non sono cinese, sono laotiana …e comunque si vede che me l’hanno inse-

gnato bene – …sorrise Cheng – Dove, qui a scuola? – – No, al Cieffepì. – – Ah, quello di Lampedusa…–

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– Ehhh? Ma che dici? Quello è il CPT. Il Cieffepì è una scuola, insegnano tante cose, io là ho fatto un corso di formazione professionale e invece al CTP mi hanno insegnato l’italiano. –

CTP, CFP, CPT… Max si vergognò come un ladro, più per la sua ignoranza di fronte alla bella cinesina che per la gaffe in se stessa – Che bestia che sono, le ho dato della profuga, della clandestina, mo’ come faccio a rimediare? –

– Mi dica – irruppe la segretaria dall’aspetto curato, con un tackle falloso sulla poveretta allo sportello.

– Sì, volevo consegnare questi documenti – fece Cheng con aria riverente ed ossequiosa, tipicamente orientale

– Va bene così. Arrivederci. Mi dica…– – Ehi, quando ci vediamo? – Chiese Max, che d’istinto mise la segretaria molto

curata in stand-by ed arpionò Cheng per un braccio. – Ma a lezione, domani si comincia… – sorrise la ragazza.. Un tuffo al cuore, e la segretaria impaziente gli ribadì : – Mi dica, giovanot-

to! –

XII. – Non ci posso credere…Paolo! –– Max, anche tu qua? – Fece Paolo con finta sorpresa. Difatti lo aveva visto

posteggiare il suo Pajero ed aveva sospettato, anzi ne era certo, che si sarebbero ritrovati insieme, nella stessa classe.

– Ma non me l’hai detto che venivi anche tu…–– Eh sì… – Paolo arrossì. Era un tipo timido in fondo, non gli piaceva parlare di

sé, delle cose sue più intime. Notò Cheng, vicino alla quale Max si era piazzato, e le sorrise.

– Stasera si finisce alle 10 esatte, orario provvisorio, che dite, ci facciamo una birra dopo? – Fece il Max, più a Cheng che a Paolo per la verità, ma era davvero contento che il suo amico fosse in classe con lui.

– Bene, ragazzi – fece il prof Gilardoni dall’alto dei suoi 190 cm. di sapienza umanistica. – Quest’anno, tra l’altro, lavoreremo sui generi letterari e le tipologie testuali. Il vostro libro di testo parla dei generi a pag. 25 e delle tipologie a pag. 234. Prendete dunque a pag. 25, che vi voglio sentir leggere… –

– Pssttt … Max, ma te non avevi il credito, di italiano? –– Sì, ma ancora non è ufficiale… bisogna aspettare il Consiglio di classe…e chis-

sà quando lo fanno… e poi storia non ho il credito, e la fa sempre questo prof, per cui se non so ancora l’orario interno…insomma, in quali giorni fa italiano e in quali fa storia…–

– Mi hanno detto che la tipa di Inglese è ganzissima…– – Gnocca? –– Ma no, cioè non so, brava di sicuro. – – Cioè? – – E che ne so? Così mi han detto. – – Speriamo, perché se no mi annoierò a morte , a fare I am, you are…– – Intanto beccati questo… – facendo cenno a Gilardoni, che nel frattempo si

era addentrato in una improbabile spiegazione sui generi letterari, tanto inecce-pibile quanto noiosa.

– Che ne pensi di questa roba? Stronzate, secondo me…a un ragioniere non servono! –

– Servono, tutto serve, si chiama cultura di base – fece Paolo, che si sentiva in dovere di difendere l’istituzione.

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– Senti, io lavoro in azienda tutto il giorno, e non posso fare a meno di chie-dermi se quello che faccio mi serve sul lavoro. E secondo me questa roba dei ge-neri letterari non serve a nulla. –

– Eh, ma allora dovresti essere tu il nostro professore…– Paolino era buono e caro, ma quel tentativo di demolire l’istituzione prima ancora di cominciare a fre-quentarla davvero, proprio non lo digeriva. E siccome non aveva ancora impara-to la fine arte dell’ironia e del sarcasmo – che del resto è un portato della cultu-ra, oltre che dell’esperienza, – metteva tutto il sarcasmo e l’ironia di cui era ca-pace nel tono della voce.

– Che c’entra? Dico quello che penso…– – Guarda che questo prof. è uno moderno, un fanatico delle tecnologie, ci

porta spesso in laboratorio computer, mi hanno detto. – – Ah, ma quante cose sai…ti sei lavorato la bidella…? Hehehe – Ssssttt, volete tacere? – Fece Cheng con un sorriso che arrivò dritto dritto al

cuore di Max. La lezione andò avanti per due orette, impeccabile nella sua esposizione teo-

retica, e terminò col classico : studiare da pag. 25 a pag. 32. Ci mancavano i compiti a casa ed il fiocco sul davanti e si sarebbero trasformati tutti quanti, – muratori, operai, cassiere, impiegate della 2 A ragionieri – in provetti remigini.

Quando arrivò, il suono della campanella fu accolto come una giusta ricom-pensa alla pazienza portata. Almeno da Max, il più sensibile e critico. Per gli altri, tutta quella cultura trasfusa a pieni polmoni dal Gilardoni era grasso che colava… sentire parlare di tragedia, commedia, poesia era come un incanto, tanto più che il Gila – come lo chiamavano i colleghi – era uno di esperienza, che ci sapeva fare colle parole. Del resto questa è la convinzione diffusa, anche tra i docenti delle altre materie : che i prof di italiano, indipendentemente dalla sensatezza di quello che dicono, ci sappiano fare con le parole. Per questo motivo a loro si affi-da regolarmente la compilazione dei verbali.

Ad esempio il Gila era uno brillante, battutina sempre pronta, scilinguagnolo al vetriolo, e prenderlo in castagna nel suo lavoro o nella cronaca sportiva non era affatto facile.

L'ora successiva si aprì con un insolito pistolotto. – Ragazzi, vi devo fare una calda raccomandazione...Lo so che per molti di

voi è un sacrificio enorme trovare una mezz'ora tutti i giorni per ripassare, ma credetemi.... cinque mezz'ore distribuite in una settimana valgono molto di più di tre ore tutte insieme il giorno prima della verifica...Datemi retta, anzi, lo so che non mi darete retta, però è mio dovere spiegarvelo. Immaginate di mangiare un kilo di spaghetti in due sere: roba da lavanda gastrica, fareste una bella indige-stione ed in più vi verrebbero in odio per il prossimo millennio...Ora, non è me-glio gustarseli poco per volta, diciamo un etto ogni tanto, e goderseli per due-tre settimane? Digestione assicurata, gusto garantito... –

– Sì, prof, ma chi la trova mezz'ora al giorno? Anzi, alla sera, visto che di tempo non ne abbiamo...e poi non ci sono soltanto le sue materie... –

– Beh , si tratta di organizzarsi, ragazzi, di sfruttare tutti i ritagli di tempo, di utilizzare la tecnologia, se no che ci sta a fare? Per esempio, ce l'avete l'Ipod? Oppure, la sentite la musica sul telefonino? Bene, allora ripetete le cose che stu-diate e registratele, oppure registrate la mia lezione e caricatela sul lettore mp3, così ve la potete sentire in macchina, sul bus, dove volete...

– Sì, magari anche sul water – sussurrò Max caustico. – Shhh, ma cosa dici... Cheng lo rimbrottò con un sorriso divertito e disarmante.

– Max, non mi sembri molto persuaso... disse il Gila . – Devi sapere che noi abbiamo due tipi di memoria, quella a breve e quella a lungo termine. Ammettia-mo che Cheng ti dia il suo numero, e tu non hai carta e penna per scrivere... –

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– Ah pro', lo scrivo sul telefonino... –risata generale della classe, che ormai aveva intuito, come del resto il Gilardoni, che tra Max e Cheng c'era del tenero.

– Sì Max, ma se non hai neanche quello, te lo ripeti spasmodicamente fino a quando hai recuperato alla bell'e meglio carta e penna colle quali segnartelo, no? Questa è la memoria a breve termine, che dopo poco se ne va...Ordunque... –

Bisogna sapere che “ordunque” era la sua congiunzione preferita, ricercata e civettuola, che segnava il passaggio da una premessa evidente e scontata ad una conseguenza necessaria ed irrinunciabile: le bocche, estatiche, si aprivano e gli occhietti semichiusi dal sonno provavano un sussulto resipiscente.

– Ordunque, voi studiate così, e sbagliate....Immagazzinate tutto nella me-moria a breve, che tre ore dopo l'interrogazione se ne andrà, invece di fare come vi dico io: studiare poco per volta, un etto di pasta alla volta : si digerisce di più, si gusta di più, si immagazzina nella memoria a lungo termine, e vi rimarrà per sempre. Ricordate: se ricordo domani, so per una settimana, se ricordo tra una settimana ricorderò anche tra un mese, se ricorderò tra un mese, quelle cose sa-ranno mie per un anno, e se ricordo per un anno non le perderò mai più. –

Il discorso non faceva una grinza, eppure da questa battaglia il Gila usciva sempre sconfitto. Gli studenti continuavano a studiare all'ultimo momento, e lui non capiva perchè.

– Ah, dimenticavo, la prossima volta saliamo in laboratorio: per i più volonte-rosi, ci sono le mie videolezioni sul testo argomentativo, con tanto di esercizi a risposta multipla sui generi letterari. Ci loggheremo in piattaforma! –

– Mo’ c’è l’intervallo, poi vediamo ‘sto fenomeno di inglese… – fece Max a Cheng, con aria di sufficiente curiosità.

XIII. L'intervallo se ne era andato come tutti gli intervalli alla scuola serale, tra la sigaretta in cortile, il caffè alla macchinetta, lo struscio nel lungo corridoio. Come al solito la campanella suonava sul più bello, quando avevi cominciato a carburare qualche bel rapporto nuovo. Così per molti l'intervallo durava più del dovuto, e rientrare in classe poteva essere un problema, soprattutto se l'inse-gnante era di quelli tosti.

Il Gila andava a sere, e quella doveva essere una serata buona, perchè quan-do vide Caputo e Salvato , due studenti di 5a Amministrativi, rientrare in classe con dieci minuti secchi di ritardo, si limitò ad un'occhiataccia di quelle che dice-vano tutto. Con la bocca non fiatò, non ce n'era bisogno : era troppo impegnato a scandalizzarsi.

– Ma come è possibile che non sappiate calcolare una percentuale? Mi dite come fate a leggere un istogramma od un grafico sull'inflazione nel Terzo Reich se non sapete cosa sia una percentuale? Che razza di ragionieri volete essere? –

I ragazzi di 5a assistevano basiti alla sfuriata del Gilardoni, che era buono e bravo, ma a volte troppo pignolo ed esigente, e si lasciava trasportare in pisto-lotti insopportabili che parevano pretestuosi. Sì, perchè la classe, quella volta, sul nazismo era ben preparata. Sapevano tutte le date, i nomi dei gerarchi, e sa-pevano persino quelle parole tedesche impronunciabili che significavano le sigle SA ed SS. Erano davvero preparati in storia, quella sera, del resto quell'anno era l'ultimo, c'erano gli esami di stato, mica si poteva scherzare. Dunque che voleva ancora quell'uomo? Di che cosa si scandalizzava? Forse del fatto che nessuno in classe sapeva interpretare quell' istogramma sulle percentuali inflattive del '25-26 in Germania?

Tutto qua? Ma a lui che glie ne poteva importare, dato che faceva storia, e dunque le percentuali non erano affar suo? Perchè scaldarsi tanto? Codesto i ra-gazzi della 5a amministrativi non riuscivano a capire.

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– Ditemi un po', ma voi vi fareste fare l'Irpef da un commercialista che non sa calcolare le percentuali? Dareste in mano i vostri conti ad un ignorante simile?

La domanda era di quelle umilianti, ed il Gila a volte passava sulla gente come un carro armato. Non se ne accorgeva, ma l'amore della verità lo acceca-va, gli faceva dimenticare il politically correct, la sana e pacata moderazione che ti permette di galleggiare sempre nella vita, la cautela circospetta di chi, dietro il buonismo del “non ferire nessuno”, si nasconde nel quieto vivere. Lui no, non era di quelli. Lui era pacato, sempre, ma quando la causa lo meritava, spiccava il volo e diventava un torrente in piena, un caterpillar, un panzer d'assalto e non lo fermava nessuno. Non fosse stato com'era, avrebbe potuto diventare un eccel-lente equilibrista della vita, forse un politico.

Del resto le cose, dal suo punto di vista, apparivano leggermente diverse. – Possibile che a nessuno di questi 25-30enni – si chiedeva – passi per la

mente l'idea che è inaccettabile, per un quasi ragioniere, non saper calcolare una percentuale? Possibile che a nessuno di loro ribollisca un minimo di orgoglio, di consapevolezza che senza un accettabile livello di decenza delle tue conoscenze non puoi andare lontano? –

Questo delle percentuali era per lui un enigma, che non riusciva a risolvere, come quello dello studio all'ultimo giorno. Una delle tante cose che non gli qua-dravano, e sulle quali sentiva di non poterci fare niente.

Una sensazione che capita spesso a chi fa questo mestiere.

XIV. Mentre Paolino aveva superato brillantemente l’accoglienza a dir poco fred-da del nuovo ambiente e si era inserito con tanti buoni propositi e voglia di fare, propenso a vedere il positivo ed il buono anche laddove non era facile da trovare, Max si sentiva in una situazione decisamente diversa.

I suoi crediti scolastici da una parte, le sue conoscenze “aziendali” dall’altra, il suo essere avvezzo a guardare le cose con l’occhio del padrone, con lo sguardo al-l’efficienza ed al risultato, tutto questo lo faceva essere sempre molto critico nei confronti di ciò che non lo convinceva, delle storture che lo colpivano, fossero stati i programmi scolastici, il metodo dell’insegnante oppure le regole della conviven-za.

Ad esempio non capiva le giustificazioni dei ritardi, delle uscite, delle assenze. – Ci trattano come bambini. «Giustifico me stesso per essere entrato 15 minuti di ritardo, prof…, sa , avevo un cliente scozzese al telefono, non potevo rinunciare ad un ordine di 30 mila euro …»; oppure :« giustifico l’assenza di ieri perché….sono stato a casa a studiare….a prepararmi all’interrogazione»–.

Il rito delle giustificazioni si officiava tutte le sere, soprattutto nelle prime due ore. La prima ora, tra entrate alla spicciolata, compilazioni del registro, saluti e convenevoli, se ne andava in buona parte in formalismi burocratici e spreco di tempo: dei 50 minuti teorici se ne facevano sì e no 25.

La seconda ora andava meglio (dalle 19.15 alle 20), ma il picco delle presenze si raggiungeva dopo l’intervallo delle 20… dalle 21 in poi cominciavano le fughe : chi andava dalla morosa, chi a studiare per l’interrogazione di domani, chi a fare il turno di notte, chi semplicemente a casa perché di stare a scuola non aveva più voglia.

Perciò, si ricominciava con il rito del libretto alla cattedra : prof, io esco, mi fir-ma? Prof , vado a casa, mi segna sul registro?

Insomma, uno spreco inutile di minuti e di inchiostro che dapprima irritava, ma al quale ci si faceva ben presto l’abitudine.

I più fiscali erano i prof giovani, cosiddetti precari di fresca nomina, convinti che la scuola serale sia un clone di quella diurna . I più anziani, o con più anni di servizio, lasciavano spesso correre.

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1. La specificità dell'Eda : una rimozione inconsapevole?

Prima di iniziare, è opportuno sgombrare il terreno dall'equivo-co tra visione socio-assistenziale e visione formativa dell'Eda.

Nella prima concezione l'Educazione degli adulti è considerata un ambito di parcheggio temporaneo riservato ai gruppi socialmente de-boli ed emarginati (stranieri, analfabeti, dispersi dai percorsi scolasti-ci iniziali, disoccupati etc.).

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È un modo di vedere che non è nato intenzionalmente dal legisla-tore ma che è penetrato nella mentalità e nell'atteggiamento oggi dif-fusi tra molti operatori del settore. In questa visione, l'Eda assolve a due compiti di notevole rilevanza : emancipare questi gruppi sociali svantaggiati dalla loro condizione di minorità, subalternità e talora sfruttamento, ed offrire loro una via compensativa e sostitutiva dei percorsi scolastici non effettuati o non completati nella fase iniziale. Se quest'ultima funzione ha una sua giustificazione, la prima ci pare frutto di una sovrapposizione tra le attività di assistenza e di recupero sociale da una parte e quelle educative/formative dall'altra. Essa si basa sulla persua-sione che l'apprendimento sia l’elemento fondante di ogni inserimento so-ciale e professionale, e che «le politiche educative e formative in età adulta sono politiche sociali»1 . Tuttavia l’istruzione non è di per sè condizione sufficiente ai fini di una migliore collocazione occupazionale e quindi so-ciale, anche se ne è una condizione necessaria. Questa visione, di per sè giustificata, ha indirettamente contribuito a generare la tolleranza verso le inefficienze del sistema Eda e dunque ha alimentato in modo surrettizio la minorità di cui abbiamo parlato. L’Educazione degli Adulti deve invece recuperare la sua specificità : essa non è un servizio di socializzazione o di parcheggio, ma designa l’insieme dei processi di apprendimento, formali o di altro tipo, grazie ai quali gli individui, considerati come adulti dalle so-cietà alle quali appartengono, sviluppano le loro attitudini, arricchiscono le loro conoscenze, migliorano le loro qualifiche tecnico-professionali, acqui-siscono e sviluppano le competenze necessarie per rispondere ai propri bi-sogni personali e a quelli della vita e del lavoro, nella triplice prospettiva di un completo sviluppo personale, di cittadino e di lavoratore. È un empo-werment per chi vuole davvero diventare più competente e vuole assumer-sene la responsabilità. Se non si esce da questo equivoco, sotteso non solo nella normativa, ma anche nella tolleranza con cui si è sempre mantenuto un sistema zeppo di falle ed inadeguatezze, si continuerà a giu-stificare il continuo scadimento del settore e il suo livellamento verso il basso. Nell' Europa della conoscenza non ce lo si può permettere, perchè tutti i segmenti dell'apprendimento permanente devono concorrere con pari dignità al raggiungimento degli obiettivi di Lisbona e di una società della conoscenza. Non si vuole qui negare la funzione sociale dell'Eda, ma sotto-

1 Presidenza del Consiglio dei Ministri, Conferenza unificata (ex art. 8 del D.Lgs 28 agosto 1997, n. 281), Seduta del 2 marzo 2000, Repertorio Atti n. 223 del 2 marzo 2000.

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lineare che essa in Italia è stata spesso usata per giustificare la presunta mi-norità dell'Educazione degli adulti rispetto ai percorsi iniziali e dunque il suo scadimento qualitativo.

Il miglior servizio che la comunità possa fare per agevolare l'inserimen-to di uno straniero, invece, non è quello di offrirgli un'area di parcheggio, ma di insegnargli l'italiano, di trasmettergli competenze che lo qualifichino davvero e gli permettano di trovare un lavoro. L' Eda non può farsi carico di finalità che non le sono proprie, ma facendo bene il proprio lavoro riusci-rebbe a raggiungerle meglio.

L'Educazione degli adulti deve dunque acquisire pari dignità rispetto ai percorsi iniziali di istruzione e formazione.

È una visione ormai consolidata nella normativa nazionale ed interna-zionale, che ruota come si è visto attorno alle competenze, in quanto esse sono il denominatore comune non solo tra Istruzione, Formazione ed Educazione degli adulti, ma tra tutti i sistemi che si integrano nell’unico grande sistema dell’apprendimento permanente, il LLL (Lifelong and Li-fewide Learning) .

È questa la condizione che rende pensabile il passaggio tra i sistemi, tra corsi ed indirizzi scolastici in maniera certa e non arbitraria.

Questo non significa negare che per molti adulti, ciascuno nella pro-pria situazione personale, riprendere a studiare sia una seconda chance, una seconda possibilità. Significa piuttosto affermare che, se cade la distinzione tra un tempo scolare ed un tempo lavorativo della vita (Lifelong Learning), e se cade la persuasione che sia la scuola l'unico luogo deputato all'acquisi-zione delle competenze (Lifewide learning), ma si assume che in una socie-tà della conoscenza ci si debba formare «dalla culla alla tomba» – per usare un'espressione cara alle socialdemocrazie, – ne consegue che l'Educazione degli adulti sia destinata a conquistare pienamente la sua dignità, ed a otte-nere da parte del legislatore quell'attenzione e quella considerazione che in Italia non ha mai avuto.

La prima rivoluzione da attuare sarebbe proprio quella di dare al-l'Eda pari dignità rispetto agli altri percorsi di apprendimento.

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Nella situazione lombarda ed italiana abbiamo visto che le lacune nei Pof di istituto, nella formazione dei docenti (iniziale ed in servizio), le as-senze di strutture e di personale dedicato (dai dirigenti agli Ata), la man-canza di un sistema Eda, ci impediscono di parlare di deficienze casuali.

Esse invece rivelano il pregiudizio – certamente inconsapevole da parte del legislatore, ma penetrato tra molti operatori del settore scola-stico – della minorità dell'Eda rispetto ai percorsi iniziali.

Il primo passo da compiere – necessario ma di per sè non sufficiente – per cambiare habitus ed atteggiamenti acquisiti e consolidati, sarebbe quel-lo di far recuperare all'Eda la sua specificità.

Raccontiamo un aneddoto recente, rivelatore di questo pregiudizio in-conscio.

Circola in una scuola milanese il patto di corresponsabilità, che defini-sce i diritti e i doveri dell'istituzione, dei genitori e degli studenti.

Tra gli impegni che il genitore deve sottoscrivere c'è la responsabili-tà per i danni causati dal proprio figlio alle strutture ed alle attrezzature del-la scuola. Il patto viene girato, sic et simpliciter, alla sezione serale del me-desimo istituto. Lo studente adulto naturalmente sottoscrive gli impegni in quanto studente. Nessuno ha pensato a lui come adulto a tutti gli effetti, che si deve prendere anche le responsabilità che in una scuola diurna si prende il genitore. Risultato paradossale : l'adulto non sottoscrive la sua responsa-bilità sui danni che egli stesso può causare ai beni ed alle strutture della scuola.

Per fortuna c'è il codice civile...

1.1 Strutture dedicate

Abbiamo visto con quale carico di attese e timori Paolo scelga di rien-

trare in formazione. Una chiara consapevolezza di sè ed una motivazione iniziale molto forti lo sospingono, ma da sole non bastano : vanno guidate.

Va anzitutto orientato il suo rientro : nella giungla di corsi, pubblici e privati, Paolo deve essere guidato da una attività di orientamento e counsel-ling che lo aiuti a riprogettare il reinserimento in formazione dopo un'anali-si ed una definizione delle sue aspirazioni e dei suoi obiettivi. L'orientatore deve avere una visione chiara dell'offerta del sistema Eda, e deve orientare l'incontro con la domanda dell'utente.

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L'adulto deve quindi essere accolto nel percorso prescelto, vanno verifi-cate le sue competenze in ingresso, deve essere progettato e negoziato con lui un curriculum condiviso e personalizzato. Si sottoscrive con lui il patto formativo. Egli infine deve essere seguito, monitorato nel suo percorso ed eventualmente ri-orientato.

Tutto il contrario di quello che succede al nostro protagonista : una se-gretaria frettolosa e sgarbata, che liquida la «pratica» come una faccenda fastidiosa e marginale, ed insegnanti impreparati ad accogliere e ad orienta-re.

La specificità richiede anzitutto delle strutture dedicate : istituti con una propria autonomia gestionale e finanziaria, con una propria segreteria am-ministrativa, con una dirigenza specifica. Tutto il contrario di quello che accade nelle scuole serali e nei CTP, nei quali :

– il preside la sera non c'è mai (serale), per ovvie ed evidenti ragioni (dovrebbe lavorare 12 ore al giorno)

– quando c'è, è molto più pressato dalle problematiche della scuola diur-na (rapporti con i genitori, minori da seguire etc.) ed è comprensibile che destini al CTP od alla sezione serale le quote residuali delle sue energie

– il fiduciario si deve dividere tra attività di insegnamento, orientamen-to, accoglienza, organizzazione a fronte di un riconoscimento economico risibile e di una mancanza di preparazione specifica

– la segreteria la sera è chiusa (a chi si rivolge l'adulto se di giorno lavo-ra?)

Il recente decreto che istituisce i Centri Provinciali di Istruzione degli Adulti2 va indubbiamente nella giusta direzione.

1.2 L’insegnante Eda

2 Miur, Decreto Ministeriale 25 ottobre 2007

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Il secondo aspetto attraverso il quale realizzare la specificità dell'E-da muove senza dubbio dal lavoro degli insegnanti. Se stiamo ai dati del monitoraggio regionale del 2006/7, nelle scuole serali di Lombardia i do-centi con contratto a tempo determinato sono il 46,7%, nei CTP il 23,8%. In aumento, nei CTP, la percentuale di docenti con contratti d'opera, indi-spensabili per garantire l'offerta extraistituzionale dei corsi modulari. Nel complesso il rapporto tra i docenti precari e quelli a tempo indeterminato è anche in questo caso attorno al 50%.3

Questo alto livello di precarizzazione da una parte rende difficile proget-tare con continuità le attività didattiche, dall'altra è un indicatore di come probabilmente la scelta di insegnare in un corso per adulti sia spesso un ri-piego, da accettare quando nelle disponibilità i posti al diurno sono esauri-ti.

La scuola per adulti non è certo la scelta preferita per le molti docenti di sesso femminile (a livello nazionale la femminilizzazione dell'insegnamen-to è un dato evidente, con un rapporto di 8 a 2), più legate del maschio alle incombenze familiari, ma lo è per molti uomini che svolgono di giorno va-rie attività professionali (ingegneri, architetti, commercialisti, avvocati, procacciatori d'affari).

Anche in questi dati crediamo si possa leggere la "residualità" del setto-re.

Tuttavia il lato da cui essa appare con forza è quello della qualificazione degli insegnanti Eda. Il settore richiede un personale specifico che sia in grado di orientare la persona che rientra in formazione, e che quindi :

– abbia competenze di accoglienza e di tutoring – conosca l'offerta formativa globale del territorio – orienti ed assista nel tempo la scelta effettuata Infatti è tra i docenti che bisogna individuare quelle figure di raccordo

tra il discente ed il sistema dell'Eda (che non è oggi un sistema) in vista di un suo efficace inserimento.

3 A. Tropea (2008), “Presentazione dati monitoraggio USR sull’Eda 2006/7”, in “Il futuro dell’Eda 10 anni dopo Sirio, Milano, 14 gennaio 2008.

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La realtà invece è che manca in modo assoluto ogni impostazione pro-fessionale. L'esperienza della figura di tutor nei corsi Sirio è totalmente naufragata sia per la mancanza di una vera organizzazione curricolare e flessibile dei percorsi attorno alle competenze, come abbiamo mostrato, sia per una effettiva impreparazione di molti insegnanti ad esercitare efficace-mente questa funzione.

2. Il mestiere più vecchio del mondo Quello di insegnante è il mestiere più antico del mondo. Non tanto per-

chè dall'alba dei secoli i genitori trasmettono ai figli i primi rudimenti del linguaggio e del comportamento, quanto invece perchè, in Italia, essa è pro-babilmente la professione che è rimasta più legata al passato.

Riprendiamo un'immagine che da tempo circola nel web : se un chirurgo dei primi del secolo scorso entrasse in una sala operatoria oggi, probabil-mente faticherebbe a riconoscerla come tale, sia per la strumentazione che per i metodi di lavoro.

Lo stesso non potrebbe dirsi per un insegnante. Cattedra, banchi e lava-gna sarebbero un panorama per lui riconoscibilissimo, e temiamo anche molte metodologie di lavoro, almeno in Italia.

Quanto una trasformazione dei percorsi curricolari nella direzione delle competenze, attorno a standard riconosciuti e condivisi, implicherebbe un cambiamento di questa situazione, soprattutto all'interno della galassia del-l'Educazione degli adulti?

2.1 L'insegnante corriere.

Perrenoud esprime efficacemente e sinteticamente il cuore della nostra risposta:

Se si cambiano solo i programmi che figurano nei documenti, senza

scalfire quelli che sono nelle teste, l’approccio per competenze non ha nes-

sun futuro4.

4 P. Perrenoud (2003), “Costruire competenze a partire dalla scuola”, Roma.

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L'approccio per competenze può essere realizzato anzitutto se viene cambiato l'approccio all'insegnamento da parte dei docenti.

È una vera e propria rivoluzione copernicana, perchè centrata sul-l'apprendimento dello studente invece che sull'insegnamento del pro-fessore.

Di solito, nella parlata popolare, quando uno studente va a lezione priva-

ta per superare delle difficoltà in una certa materia, si dice che "va a ripeti-zione di matematica, di latino" etc.

Nell'espressione "ripetizione" è sotteso un preciso paradigma di insegna-mento . Hai difficoltà in matematica? Vieni da me che ti ripeto quello che a scuola non hai capito bene. Si trattano le difficoltà scolastiche come fosse-ro problemi di udito.

È riconoscibile qui il modello trasmissivo e frontale, prevalente nella scuola italiana e nell'Eda in particolare, come abbiamo mostrato da una analisi dei piani di lavoro dei docenti del settore. Esso si fonda su una se-quenza lineare e gerarchica del processo di insegnamento :

insegnante conoscenza studente apprendimento.

La linearità è così scontata che, quando l'apprendimento non si verifica, la preoccupazione è ripetere le stesse cose nello stesso modo. Persino lo studente particolarmente bravo, ma che eccede nelle domande critiche e ri-flessive, è visto come un fattore di disturbo. Il difetto è perciò sempre nello studente, mai nelle modalità trasmissive attuate dall'insegnante.

Tale impostazione ha una storia millenaria e poggia su una teoria del-l'apprendimento ben precisa.

La parola lezione deriva dal latino lectio, lettura, in quanto nel medioe-

vo la lezione partiva sempre dalla lettura di un testo sacro o di una auctori-tas (Bibbia o padri della Chiesa) che poi si commentava e si discuteva. Il testo si "depositava" sempre in modo fecondo nella testa dello studente, che fino all'invenzione della stampa a caratteri mobili poteva seguirlo prevalen-temente in forma orale.

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Dall'invenzione di Gutemberg in poi il processo di interiorizzazione si accentua, poichè la disponibilità di molte copie favorisce la lettura persona-le e la meditazione (ma non la metariflessione) a scopi di edificazione spiri-tuale. Tuttavia l'impianto sostanziale del modello trasmissivo rimane inalte-rato : il sapere viene calato dall'alto da una auctoritas indiscutibile (l'inse-gnante-ripetitore della parola di Dio) e viene depositato in un soggetto pas-sivo e recettivo.

Questo modello pratico di insegnamento viene supportato nel '900 dalle riflessioni comportamentiste sull'apprendimento.

J.B.Watson5 sostiene che la psicologia può parlare soltanto di ciò che è osservabile, ovvero i comportamenti dell'uomo, (comportamentismo) e che quindi insegnare significa attuare dei comportamenti-stimolo (ciò che l'in-segnante dice e fa) per determinare dei comportamenti-risposta (ciò che lo studente apprende).

L'apprendimento è concepito dunque come una forma di adattamento al-l'ambiente, come un mutamento del comportamento indotto dall'esperien-za.

Il nesso stimolo risposta è meccanico, consequenziale, ovvero dato un certo stimolo seguirà necessariamente la risposta. Se essa non arriva, si va a "ripetizione" dello stimolo.

Questa impostazione, ancora prevalente in Italia, ha una serie di evidenti limiti.

– Anzitutto considera l'apprendimento in modo meccanico, riduzionista

e semplicistico. La sua struttura coincide con quella del comportamento : il nesso stimolo-risposta. Si esclude ogni attività di rielaborazione dello sti-molo da parte del soggetto, trattato come un recettore passivo. Ma cosa av-viene davvero nella sua testa? È davvero una black box, una scatola nera che non può essere indagata?

– Presuppone che la conoscenza sia oggettiva, preconfezionata, uguale per tutti. L'insegnante parla e tutti sono in grado di seguirlo perfettamente, perche la logica consequenzialità cartesiana del discorso (il logos) è indi-scutibile ed inopinabile. Viene appiattito ogni stile conoscitivo, viene stan-dardizzato il ritmo di apprendimento. È la intollerante raison illuminista.

5 J.B.Watson (1913), “Psychology as the Behaviorist Views it”, in Psychological Review, 20, 158-177

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– Lo studente rimane in posizione totalmente passiva : «Tutto ciò che si deve fare è ascoltare» 6. In realtà abbiamo visto che oggi tutti noi siamo bombardati da un overflow di dati che crea un intasamento nel sifone della conoscenza : il miglior servizio che possiamo fare ai nostri ragazzi è quello di insegnar loro a smistarli, a cercare quelli che servono, a selezionarli, ad interpretarli in modo critico, ed insegnare loro i metodi per trattarli e quindi ad essere attivi manipolatori, non passivi fruitori, di conoscenza.

– La conoscenza rimane astratta, slegata dal contesto reale, non situata. Essa invece - nella vita come a scuola- si realizza con gli altri, nella sociali-tà. Gli altri in questo modello sono visti come fattore di disturbo, mentre in realtà l'ambiente sociale costituisce l'origine, la condizione e la destinazio-ne della nostra conoscenza. La quale non è una relazione privata tra docen-te e studente, ma è un processo per sua natura aperto, dialogico e costrutti-vo.

– È un modello in cui è l'insegnante al centro, e non lo studente; l'inse-gnamento e non l'apprendimento. È comodo per l'insegnante, in quanto lo deresponsabilizza : se il focus è l'insegnamento, le difficoltà che il singolo studente può incontrare sono viste come un intoppo, una scocciatura, una devianza e non come naturalmente facenti parte del processo di apprendi-mento. La shopping list è comoda, perchè impegna l'insegnante su quello che lui farà , non su quello che imparerà lo studente. Ed è comoda anche per lo studente, come vedremo.

– È un modello completamente inadatto a sviluppare ed a verificare del-le competenze, le quali invece ribalterebbero la prospettiva : da teacher-o-riented a student-oriented. È evidente che il modello trasmissivo sia inadat-to allo sviluppo di un saper fare, di abilità e capacità operative che si ricon-ducono a competenze base e chiave (ne citiamo una soltanto, tra le più si-gnificative : il problem solving).

6 Wilson, B. G. (1995). Metaphors for instruction: Why we talk about learning environ-ments. Educational Technology, 35 (5), 25-30.

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Perchè è inadatto a questo compito? Perchè la competenza non è riduci-bile ad una semplice risposta ad uno stimolo, bensì risulta dalla capacità di adattarsi a situazioni complesse, sempre nuove ed imprevedibili, non ripro-ducibili mediante stimoli standardizzati 7. La competenza è un sapiente mix di conoscenze, abilità, attitudini e qualità morali che non può essere verifi-cata con test a scelta multipla o con interrogazioni orali, ma osservando la reazione della persona di fronte a situazioni complesse, in task operativi, nel suo rapporto con gli altri. La competenza è un fare attivo ed intelligente che non può essere innescato da un discorso arguto o da una semplice vi-sione di slide.

Anche qui, un paradosso : il modello trasmissivo dà per scontato che la

conoscenza sia un processo lineare, e che sia un oggetto di comunicazione che si deposita necessariamente nella testa dello studente. Se così non acca-de, è perchè vi è in lui un deficit conoscitivo: non studia (non ripete a casa), non sta attento, non capisce bene e deve andare a ripetizione. Un buon drill and practice (leggasi "martellamento" ) risolverà il problema.

Quindi da una parte la programmazione "lista della spesa" dà per cer-ta la ottenibilità del risultato, dall'altra però non vuole impegnarsi su di esso : strano, perchè nella sua "logica", quella comportamentista, la risposta sarebbe garantita dalla consequenzialità con cui essa deriva dallo stimolo.

Gilardoni rappresenta un bravo docente, che probabilmente non dà tutto

quello che potrebbe ai suoi studenti, perchè è prigioniero di questo modello versativo-erogativo in cui la star è sempre lui. Preparato, dialetticamente in-superabile, con tratti spiccati di modernità (appassionato di tic, che applica nella didattica), è probabilmente tra i migliori incontri che a Paolo potesse capitare di fare. Eppure l'impressione che abbiamo, dalla passività che le sue lezioni inducono, dal loro livello astratto e teorico, dalle consegne agli studenti (studiare da pag. a pag.) è che non fornisca il miglior servizio pos-sibile all'utenza variegata e composita che si ritrova, e che soprattutto un tipo in gamba come lui potrebbe fornire.

7 Lucio Guasti (2002) , Le competenze di base degli adulti, Quaderni degli Annali dell’Istruzione, n. 97, Roma

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Le perplessità di Max sono invece concentrate sul contenuto – le cose che sul lavoro non servono – , ma noi sappiamo che sono determinate dalla mancanza di una programmazione incentrata sulle competenze, sul saper fare per saper essere.

Gilardoni è il prototipo dell’«insegnante-corriere» che consegna il pacco del sapere a prescindere dal destinatario e dal contenuto del pacco. Ma l'ap-prendimento è ben altro dalla consegna di un pacco, lavoro comodo, sbriga-tivo ed assai poco gratificante.

I limiti del suo insegnamento cominciano nel momento in cui non esso non tiene conto delle molteplici variabili della conoscenza: la sua dinamica relazionale e sociale, lo stile cognitivo dell'allievo, il carattere situato delle competenze.

Non si vuole buttare a mare il modello trasmissivo come tale, solo pun-tualizzare che esso non è l'unico, non è il più «naturale» (nonostante l'appa-renza) e soprattutto non è il più indicato per un'utenza adulta.

Esso funziona in modo eccellente con gli studenti già autonomi e parti-colarmente intuitivi (quelli bravi, che probabilmente se la caverebbero an-che da autodidatti), e funziona benissimo con sequenze addestrative ed istruzionali, ma lascia ai margini lo zoccolo duro, la massa critica della po-polazione scolastica e soprattutto lascia ai margini lo sviluppo delle compe-tenze.

2.2. Il consulente di processo Gilardoni viene criticato da Max perchè spiega cose che non servono al

lavoro ed alla vita. Sappiamo che il nodo è la mancanza di competenze. Ma ora possiamo dire in modo più preciso che Gilardoni non tiene conto delle caratteristiche del processo di apprendimento, così come le abbiamo deli-neate : la sua dinamica relazionale e sociale, lo stile e le modalità cognitive dell'allievo, il carattere situato dell'a conoscenza.

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Se guardiamo allo sviluppo del pensiero pedagogico dopo il comporta-mentismo, individuiamo i tre orientamenti che hanno contribuito in modo decisivo a chiarire il processo di apprendimento.

Il costruttivismo

Anzitutto l'ambiente cognitivista ha spostato l'attenzione sulle dinami-che di apprendimento interne alla persona, per indagare non solo i compor-tamenti manifesti ed osservabili, ma i processi interiori. Quindi è stata rifiu-tata l'idea comportamentista di una mente umana inconoscibile e misterio-sa.

Anzi, con il costruttivismo (Piaget8, Ausubel9) si è precisato come il soggetto apprende: ri-costruendo quello che già sa, rielaborando gli schemi mentali e le conoscenze che aveva prima.

Il rinnovamento dell'insegnamento di cui parliamo si colloca nella scia del ribaltamento kantiano della conoscenza che il costruttivismo ha realiz-zato rispetto alle visioni precedenti (comportamentismo in primis), incen-trate sulla conoscenza come passivo adeguamento della stessa alle strutture del reale (adaequatio intellectus et rei)

Quando il soggetto conosce – dicono i costruttivisti – cambiano le sue griglie interpretative della realtà, ovvero egli modifica le strutture ed i mo-delli cognitivi precedenti riadattandoli ai nuovi input che gli provengono dall'esterno.

Ne consegue che la conoscenza è un processo attivo, dinamico e dialet-tico del soggetto, non un suo passivo adeguamento ad una realtà già data.

Il cognitivismo sociale

8 J. Piaget (1967), Lo sviluppo mentale del bambino, Einaudi, Torino.9 D. Ausubel, (1978) Educational Psychology. A cognitive view. New York: Holt, Rinehart & Winston. 1968.

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Sempre in ambito cognitivista si è sviluppata la persuasione che la cono-scenza abbia una natura relazionale e interpersonale (Vygotskij10, Bru-ner11) : gli altri, il milieu social sono l'origine, la modalità e la destinazione della nostra conoscenza.

La quale dunque non è un fatto privato ed individuale, e gli altri non rappresentano affatto un impiccio. È vero l'esatto contrario. Anche in que-sto caso il ribaltamento di prospettiva è evidente.

Se torniamo per un attimo al nostro racconto, ritroviamo puntualmente il carattere costruttivo ed interpersonale della conoscenza in una delle più im-portanti competenze sociali (l'educazione alla cittadinanza) riconosciute dall'Unione europea.

La sera del Magreb (cfr cap. VII) i ragazzi hanno costruito conoscenza in modo paradigmatico : hanno immagazzinato nuove informazioni (cosa sia e dove sia il Magreb), hanno cominciato a risistemare i propri modelli mentali (razza non caucasica = magrebino), hanno applicato tautologie (sil-logismo e reductium ad absurdum) in maniera così efficace, drammatica, viva quale un corso (frontale?) di logica matematica non sarebbe mai riu-scito fare, hanno iniziato un percorso di attivazione di una competenza fon-damentale per la cittadinanza attiva (la tolleranza razziale).

Non è forse un esempio, questo, della natura relazionale e sociale del-l'apprendimento? Di quanto esso possa darsi al di fuori della scuola, in un ambito informale?

L'apprendimento situato

10 Lev Vygotskij (2001), Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche , 9a ed. Roma-Bari, Laterza11 Bruner, J., Brown.R.W. (1956), A Study of Thinking, Wiley, New York,

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Una terza direttrice emersa negli studi psico-pedagogici del '900 fa capo a Kurt Lewin12 e A.N. Leont'ev13, i quali hanno dimostrato che l'apprendi-mento è un processo situato, che avviene all'interno della vita reale e dei rapporti materiali e sociali, e non è una qualità interiore dello spirito uma-no. In altri termini la costruzione di conoscenza si genera sempre a partire dalla relazione tra lo spirito umano ed il contesto sociale, ovvero in una si-tuazione data e concreta.

Per capirlo, torniamo alla serata magrebina, la quale ci mostra come gli apprendimenti più significativi per la vita non si costruiscono all'algida luce di lampade al neon, nel chiuso di una biblioteca o davanti al monitor di un computer. Le vere competenze per la vita passano attraverso la carne ed il sangue, i sentimenti ed i dolori. Si costruiscono nella vita ed usano i matto-ni più imprevedibili e le situazioni più irripetibili. Max si chiederà : dove collocare Cheng (e l'imprevisto sentimento che prova per lei) nella sua per-sonale Weltanschaung, fatta di pregiudizi razziali contro tutti coloro che hanno la pelle diversa dalla sua? Ci chiediamo noi : come avrebbe gesti-to questa risistemazione valoriale nella sua testa senza il contributo fonda-mentale delle sue amiche, del paradosso di Portorotondo e più in generale senza gli effetti "distruttivi" della serata magrebina?

Il processo dell'apprendimento è dunque ricco di variabili, è non è affat-to riducibile alla sequenza lineare insegnamento-apprendimento che il mo-dello trasmissivo vorrebbe far credere.

Più che insegnanti-ripetitori-corrieri, burocrati della cultura, servono professionisti che inneschino questo processo, lo seguano, lo correggano, ma lascino in primo piano il soggetto discente, l'adulto che impara. Servono dei consulenti di processo, dei veri professionisti.

La scarsa considerazione sociale di cui godono gli insegnanti è un fatto.

12 Lewin, K. (1935) A dynamic theory of personality. New York: McGraw-Hill.13 AN Leont'ev, MJ Hall (1978), Activity, consciousness and personality, Prentice-Hall Englewood Cliffs, NJ

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Quindi l'idea di rilanciare la figura docente mettendola in secondo pia-no, per collocare al primo posto lo studente ed il suo apprendimento potreb-be sembrare provocatoria ed esautorante. Potrebbe sembrare, ma non lo è: perchè in questo modello di apprendimento il docente svolge molti ruoli , e deve avere molte più competenze: disciplinare sì, ma anche pedagogica, re-lazionale, strutturale: è architetto della conoscenza (instruction designer), è coach, motivatore, segue tutto il processo, lo orienta, lo controlla e lo valu-ta ...

Se si vuole realizzare per davvero una società della conoscenza attraver-so il paradigma delle competenze, non v'è altra strada: recuperare una pro-fessionalità che è attualmente svilita da una interpretazione immiserente del mestiere di insegnante.

2.3 Attivo, cooperativo, situato Attivo, cooperativo, situato : questo in estrema sintesi l'apprendimento

perseguito da un docente che non si limiti ad essere un corriere del sapere. Vediamolo nel dettaglio :

L'apprendimento è centrato sullo studente, non sull'insegnante, il quale

mantiene un ruolo di facilitatore e consulente di processo, scomparendo via via che lo studente raggiunge autonomia (fading): non è più il direttore e l’erogatore del sapere. In questo processo la conoscenza è costruita dallo studente collocando i nuovi input dentro il sapere precedente e riorganiz-zando i propri modelli cognitivi.

L'apprendimento è attivo e concreto : La persona che apprende è impe-gnata in precisi compiti operativi, e perciò l'apprendimento è responsabiliz-zante, in quanto ciascuno deve rendere conto del prodotto finale. In questo senso è gratificante e divertente, perchè coinvolge in primo piano il discen-te in un processo nel quale lui è il protagonista. Non può non passare attra-verso un learning by doing, una didattica laboratoriale, un working by pro-jects (lavorare per progetti).

È significativo ed euristico : privilegia una conoscenza in cui è il discen-te a scoprire ed attribuire il significato dei collegamenti logici, delle analo-gie e differenze, piuttosto che constatarle passivamente da una trattazione teorica preconfezionata (meaningful learning).

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È simile alla vita reale : parte da un set di elementi complessi, caotici, da sistemare ed organizzare in funzione del risultato, e ruota attorno alla com-petenza del problem solving (imparare a reperire le soluzioni alle difficoltà operative che via via si riscontrano).

È situato e contestualizzato: parte sempre da problemi e contesti reali o tutt'al più simulati, e quindi privilegia lo studio di casi e la soluzione di pro-blemi.

È personalizzato, nel senso che prevede la possibilità di raggiungere le stesse competenze anche attraverso lo sviluppo di temi ed argomenti diver-si, facendo leva sulle attitudini e gli interessi dello studente.

È collaborativo e conversazionale : non prescinde dagli altri, ma si rea-lizza in comunità di dialogo e di confronto, che riproducono la natura dialo-gica e non lineare, problematica e non sequenziale, negoziale e non autori-taria della conoscenza.

È multimediale, cioè non si fonda su un'unica forma - monologica, ora-le- di rappresentazione della realtà, ma per definizione ne mette a confronto molte.

Infine è riflessivo, ritorna sempre su se stesso, sui propri percorsi me-diante una didattica dell'errore, una metariflessione sulle proprie dinamiche di apprendimento.

Ce n'è abbastanza, crediamo, per delineare la nuova figura di docente dell'Eda, da corriere-ripetitore a consulente di processo ed elicitatore di competenza.

3. Il mestiere di studente : la finzione augustea

Questo cambiamento a 180° deve avvenire anche per lo studente il qua-le, in un sistema organizzato per competenze, sarebbe costretto a cambiare mestiere...

La scarsa efficacia dell'attuale modello didattico è percepita dagli stessi

studenti adulti, che si rendono conto della volatilità del loro tipo di prepara-zione, orientata sulle conoscenze. Se ne rende conto anche Gilardoni, impe-gnato in una battaglia dalla quale esce sempre sconfitto : tentare di convin-cere i suoi ragazzi a studiare poco per volta.

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Egli intuisce il limite di una preparazione nozionistica, erogata in modo frontale, ma non va oltre la constatazione della volatilità implicita nella per-manenza delle conoscenze e decide di combatterla con consigli peraltro sensatissimi sul metodo di studio (cap. XII) .

Chi ha ragione? Lui o i suoi ragazzi? Probabilmente nessuno. Infatti allo studente adulto poco importa che quello che si impara sia

destinato a scomparire entro breve tempo: a lui interessa che vada bene l'interrogazione.

Il focus è decisamente sul successo scolastico, sul conseguimento del ti-tolo di studio, del «pezzo di carta» come strumento indispensabile di asce-sa sociale e di miglioramento della posizione lavorativa.

Poco importa che si impari davvero, e che si accumuli dopo interminabi-li veglie notturne una mole confusa di informazioni nella memoria a breve termine, buona parte delle quali si saranno dissolte il giorno dopo la verifi-ca.

Tanto, si sa, «là fuori» vai avanti non certo per quello che sai. Se hai un pezzo di carta, la raccomandazione giusta, la conoscenza, un buon posto lo trovi. Per imparare? C'è tempo, dopo, in azienda...

Ma l'errore è anche di chi formula la proposta didattica : il docente, l'i-stituzione.

Se l'offerta didattica si limita alle conoscenze, è inevitabile che anche la valutazione si attesterà al livello di sufficienza non appena riconoscerà nel discente un «congruo numero» di nozioni.

In fondo, ad uno come Gilardoni interessa solo innalzare la percentuale di informazioni ritenute dallo studente, portandole, diciamo, dal 40% al 60-70%. Ancora non si pone il problema di trasmettere delle competenze. Il suo modello didattico di riferimento è trasmissivo-versativo.

Se l'offerta si accontenta delle conoscenze, lo studio matto e disperatis-simo delle ultime ore prima della verifica è sufficiente e giustificato. Ed i risultati delle prove, costruite per accertare la presenza delle nozioni, lo te-stimoniano. Non serve immagazzinare nella memoria a lungo termine, non serve studiare poco per volta ed esercitarsi, se non in casi lampanti dove il saper fare (es. la matematica) è tutto.

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In questo lo studente adulto ha ragione : compresso tra otto ore di lavo-ro, cinque ore serali di frequenza, un minimo di vita personale, provato dal-la stanchezza e sollecitato dalla necessità di studiare per l'interrogazione, e soprattutto irregimentato in un curriculum di studio non flessibile, non per-sonalizzabile né adattabile alle sue esigenze o ai suoi ritmi personali, dal suo punto di vista egli non sbaglia nell'optare per la via più semplice,più «economica»: una preparazione veloce che gli permette di raggiungere il massimo risultato possibile col minimo sforzo, in vista della «certifica-zione finale», un pezzo di carta che sarà davvero solo un pezzo di carta.

Il risultato complessivo è la «finzione augustea» : io faccio finta di inse-gnarti, di trasmetterti del valore aggiunto per la vita, e ricevo in cambio lo stipendio; tu fingi di imparare ed in cambio ricevi il pezzo di carta.

Come nel principato di Augusto, una finzione condivisa con cui il prin-cipe fingeva di lasciare intatte le strutture repubblicane e il popolo fingeva di crederci. Così la situazione restava in equilibrio... ma in nuce c'era la tra-sformazione da cittadini a sudditi.

Un patto che fa comodo ad entrambi : qui, in nuce, vi è la mancata for-mazione degli adulti, che rimangono in una condizione cognitivamente su-bordinata e non possono prendere l'ascensore per la vita...

3.1 Apprendimento e responsabilità Una trasformazione dei curricoli e dell'insegnamento attorno alla logica

delle competenze costringerebbe gli studenti a «cambiare mestiere», a tra-sformare la motivazione al diploma in reale motivazione all'apprendimento. Le domande del prof Gilardoni, scandalizzato perchè i suoi ragazzi di 5a non sanno calcolare una percentuale, trovano così una risposta.

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Se il mestiere di studente non ruota attorno alle competenze, a ciò che lui impara, bensì è incentrato sui programmi che la scuola gli impartisce, l'allievo non farà mai il salto qualitativo di prendersi carico del proprio sa-pere e delle proprie lacune. Lascerà che sia la scuola a definirli e valutarli, salvo che il sistema di valutazione della scuola ha ormai maglie troppo lar-ghe per poter garantire che ad un programma svolto corrispondano effetti-vamente dei saperi acquisiti. E salvo poi scoprire che il sistema di certifica-zione di quello che lui sa fare non è di certo concepito per agevolargli la ri-cerca di un posto di lavoro o la possibilità di crescita professionale, come il caso di Paolino ci dimostra.

In altre parole, il tema implicito nella rivoluzione delle competenze è quello della responsabilità personale. Competenza implica responsabili-tà.

Responsabilità del docente non solo della efficienza della sua progetta-zione didattica (la «Lista della spesa») ma anche della efficacia dei risultati che raggiungono i suoi ragazzi.

Responsabilità dello studente, che è costretto a far passare in primo pia-no i contenuti dell'apprendimento (le competenze) ed a relegare in secondo piano i voti, la promozione, il pezzo di carta (ed anche i modi, spesso poco onorevoli ed ortodossi, con cui si è disposti a raggiungere l’obiettivo).

Una trasformazione radicale nel modo di essere studente nella quale egli si pone non più come la variabile di un'offerta didattica di tipo trasmissivo, ma il centro, l'autore responsabile ed insostituibile del proprio percorso di formazione.

In questa luce, le situazioni paradossali come quella del patto di corre-

sponsabilità o del meccanismo burocratico di registrazione dei ritardi, delle uscite anticipate e delle assenze, tutt'ora vigente negli istituti per adulti, tro-va la sua naturale soluzione.

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In sintesi : un' Eda con pari dignità rispetto agli altri percorsi di forma-zione; una scuola centrata sull'apprendimento e non sull'insegnamento; un insegnante consulente di processo, con molte sfaccettate competenze pro-fessionali, responsabile delle competenze che i suoi studenti sviluppano, e non solo del suo lavoro di trasmettitore del sapere; un adulto responsabile e motivato rispetto al proprio apprendimento, e non orientato al «pezzo di carta». Questo il senso di una trasformazione, di un capovolgimento che non può derivare soltanto da una azione di riforma strutturale, ma che passa attraverso una profonda rivoluzione di habitus, di atteggiamenti, di mentali-tà.

4. Otium e negotium

Da ciò deriva un corollario molto semplice, ormai pacificamente recepi-to nella normativa italiana europea, ma che ancora fatica ad affermarsi nelle politiche dell’Eda. La distinzione tradizionale e rigida tra percorsi di istru-zione e percorsi di formazione, nell’Eda non ha più senso di esistere. Se si vuole favorire il rientro in formazione di milioni di cittadini e permettere il raggiungimento degli obiettivi di Lisbona, bisogna guardare alle competen-ze come all'unico denominatore comune che riesce a mettere in comunica-zione, senza compartimenti stagni, i vari sistemi, in un continuum che è l'apprendimento permanente14

Infatti il passaggio tra sistemi è possibile soltanto all'interno di un sistema di crediti e certificazioni di competenze.

Ostano a questa trasformazione delle resistenze particolarmente pertina-ci nella nostra cultura, che si fondano sulla contrapposizione tra il sape-re umanistico e il sapere professionale, tra il sapere disinteressato e quello finalizzato all'utile, tra la cultura teorica ed astratta e quella manuale ed operativa. Le competenze tendono ad abbattere questa rigida distinzione, in quanto ruotano su una concezione psicologica e pedagogica dell'apprendi-mento molto meno semplicistica della semplice «consegna» di un contenu-to di informazione.

14 Nell’ Accordo stato regioni 2 marzo 2000 si legge che si deve « sia integrare l’educazione iniziale e quella continua con crediti e certificazioni, sia con il superamento della divisione tra “cultura generale” e abilità professionali.)

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La contrapposizione tra sapere utile e sapere disinteressato, tra otium e negotium, ha un cuore antico.

Aristotele nell'antica Grecia parlava del primato della filosofia, forma suprema di conoscenza, sulle altre scienze, poichè libera da urgenze prati-che ed operative, e del primato delle scienze teoretiche sulle altre forme di conoscenza più «contaminate» col mondo (le scienze pratiche e poietiche). L'operatività manuale, la tecnica era «roba da schiavi». Questo atteggiamento snobistico nei confronti del sapere tecnico-professionale si è consolidato nel corso dei secoli ed ha attraversato tutta la nostra cultura me-diterranea, passando attraverso la contrapposizione tra otium e negotium presso i Romani e la definizione delle arti liberali – le uniche degne di esse-re professate da un uomo libero – nel medioevo.

Con l'affermarsi del capitalismo si è consolidata invece nel mondo an-glosassone una diversa visione del sapere, più pragmatica ed operativa, che ha sostanzialmente rifiutato di sottoscrivere la conventio ad excludendum nei confronti del sapere tecnico e professionale, anzi l'ha inglobato in una visione della cultura meno umanistico-ciceroniana e più funzionale all'ope-ratività ed al risultato, tipica del mondo degli affari.

Il sistema scolastico del nostro paese è rimasto sostanzialmente refratta-rio a questa trasformazione, ed è restato invece ancorato ad una struttura formativa caratterizzata dalla preminenza delle conoscenze rispetto alle competenze. Nello specifico del nostro modello scolastico, per esempio, i licei, bacino privilegiato per la formazione delle classi dirigenti, generano sapere teorico, gli istituti tecnici generano prevalentemente competenze tecnico-professionali, mentre gli istituti professionali tendono ad accentuare le abilità.

Vale a dire: il primato del sapere teorico sul sapere operativo emerge non tanto dalla struttura vagamente «classista» degli ordini scolastici, quan-to dalla persuasione che, nella formazione delle competenze più elevate, quelle a cui deve essere formata la futura classe dirigente del Paese, prima venga la formazione umanistica ed intellettuale e poi, per poter operare concretamente, si debba procedere all’operazione ed all’applicazione; la concettualizzazione è cioè la condizione indispensabile per operare.

«Maggiore é il possesso della concettualizzazione, maggiore la possibi-lità di una operazione. Il percorso formativo si sostanzia così in una forma

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prolungata di studio che demanda l’applicazione alla fase successiva, quella del cosiddetto mondo del lavoro»15.

Oggi non è più così : non vi è più un tempo scolare ed un tempo del la-voro, ma ci si muove nel quadro del LLL (Lifelong Lifewide Learning); inoltre le nuove acquisizioni della psicologia e della pedagogia dell'appren-dimento ci dicono che esso deve essere attivo, cooperativo e situato; che devono cambiare i percorsi e le metodologie, che devono essere predisposti nuovi curriculi incentrati sulle competenze e sulla didattica attiva come re-quisito indispensabile per una efficace sistemazione delle conoscenze teori-che, e si impone quindi una revisione dei curricoli nazionali. Nell'Eda in particolare questa revisione è diventata urgente ed indilazionabile.

Cap. 6 - Le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione

15 Accordo stato Regioni, 2 marzo 2000, 3. Aspetti pedagogici

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XV. Il Gilardoni con le Tic viaggiava che era una scheggia. Aveva fatto creare, sul sito della scuola, uno spazio apposito dove gli studenti potevano entrare, scaricare le sue lezioni, stamparle, vedere delle belle diapositive di presentazione e perfino fare degli esercizi che si autocorreggevano all'istante, di modo che potevi sapere subito a che livello di preparazione ti trovavi. L'iniziativa aveva avuto un certo successo e lui, che era un entusiasta di natura, si era messo a studiare il modo di preparare dei video delle sue lezioni di storia : " così mi avranno a disposizione on demand...", si diceva.

Video fatti niente male : la sua faccia che spiegava da una parte, le diapositive dall'altra. E per la storia del '900, anche dei filmatini d'epoca, scovati su Internet, che facevano tanto "Rai Educational". Insomma, grande impatto, grande succes-so.

E i voti di tutti si erano alzati tantissimo, un punto e mezzo la media della clas-se. Il Gila ovviamente ne era fiero, i suoi colleghi lo guardavano chi con curiosità, chi con diffidenza, ma tutti con stima. Il preside poi stravedeva per lui, al punto che lo aveva ficcato nella "commissione per l'implementazione delle tecnologie nella didattica", una roba strana che nemmeno lui capiva bene a cosa dovesse servire.

Solo che un giorno, per una di quelle curiosità sfiziose e malsane che non si sa mai da dove vengano e soprattutto dove portino, si era peritato di fare una picco-la indagine su come i suoi studenti studiavano storia, ed aveva fatto una scoperta a dir poco disarmante : 22 su 22 stampavano il testo scritto delle videolezioni e se lo portavano a casa da studiare. Nessuno, dico nessuno che si vedesse il suo bel faccione che spiegava.

– Ma allora, che ve le ho fatte a fare le videolezioni? se vi basta stampare un file di word di quello che dico, tanto vale restare in classe e leggere il libro... –

Quasi quasi si stava pentendo, ma subito dopo si pentì d'essersi pentito : – Ma in fondo, cosa posso volere di più? I ragazzi sono migliorati, io ho fatto

un bel lavoro, ho guadagnato stima e considerazione, cosa voglio di più? – Se n'era fatta una ragione, l'aveva accettato come uno degli incerti del mestie-

re, ed aveva ricondotto il tutto al solito discorso dello studio dell'ultimo giorno. Eppure c'era un tarlo che gli rodeva, come se qualcosa gli sfuggisse, ed aveva

l'impressione che era lo stesso tarlo che, inconsapevolmente, lo aveva portato ad impicciarsi di come i suoi ragazzi effettivamente studiavano.

E concludeva : facevo bene a starmene tranquillo, era tutto perfetto, prima. E intanto il tarlo rodeva, rodeva...

XVI. – La prof di inglese vi aspetta in laboratorio, aula 23, primo piano… –bofon-chiò la bidella dall’uscio dell’aula.

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La classe si trasferì disordinatamente, con una transumanza chiassosa che non potè essere ignorata da un gruppetto di docenti attardati in corridoio a parlottare.

Le lezioni di inglese si svolgevano in modo molto diverso dalle normali lezioni a cui gli studenti della 2 A Amministrativi potevano essere abituati.

Anzitutto non si ascoltava e basta, ma si…faceva. Per esempio conversazioni e giochi di ruolo. Ognuno doveva immedesimarsi in

un ruolo diverso e sostenere una conversazione minimale su quello. Commessa-cliente, mamma-figlio, segretaria-boss….

Una fatica improba, per chi era abituato allo studio della grammatica soltanto : ci si doveva immergere in una situazione, studiare bene le parole-chiave, le frasi tipiche, prepararsi alle domande impreviste, allenarsi nella pronuncia, a compren-dere bene quella dell’interlocutore…insomma, nessuno nelle ore di inglese poteva rilassarsi come col Gila.

Sì, perché il Gila, col suo eloquio forbito, con le sue metafore ardite, con la sua voce calda e suadente, dapprima ti interessava, poi ti rapiva, infine ti cullava e ti preparava al meritato riposo notturno, dopo una intensa giornata di lavoro-studio. E talvolta questo benedetto riposo cominciava prima ancora del suono dell'ultima campanella...Le ultime ore era l’ideale. Il Gila era come la camomilla sul divano prima di addormentarsi : caldo, rassicurante, avvolgente.

Ma con la prof di inglese era l’esatto contrario : sempre elegante nei suoi tail-leur grigi o nelle sue gonne linguette, gentile ma determinatissima, la Lanfranchi era un’ira di Dio : ti coinvolgeva, ti faceva lavorare, ti metteva in primo piano, tal-chè non potevi rincantucciarti nell’angolino ed assistere passivamente alla lezione, in attesa della campanella e della birra finale. No, lei ne aveva sempre una : ricer-che in rete su siti in lingua, giochi di ruolo, sketches da preparare, spezzoni di film in lingua o di note trasmissioni televisive… ed il bello è che uscivi sveglio dalle sue lezioni.

– Stasera ragazzi vorrei farvi conoscere un blog di musica…dovete dire la vo-stra, segnalare gruppi, farvi un “giro” di amici virtuali che condividono gli stessi vostri gusti musicali… Coraggio, non abbiate paura, inserite la vostra password..il profilo? Beh mettete due righe, se avete una foto è meglio… e non dimenticatevi di taggare...ricordate, in rete, se non taggate, non esistete...Taggo, ergo sum... Come? Ma ovvio, in inglese, Cheng! –

XVII. Max aveva due problemi belli grossi. Il primo erano le lezioni di inglese, che gli piacevano troppo, nelle quali era attivo ed anzi svolgeva un ruolo di assi-stente in campo della Lanfranchi : aiutava i compagni, girava tra le postazioni del laboratorio, talvolta anticipava la prof in un argomento od in una risposta. Tutta-via si sentiva un po’ sprecato, perché lui l’inglese, a quel livello, lo sapeva già, ne aveva parlato con la professoressa ma non avevano trovato un modo per risolvere la questione.

– Fossimo stati a settembre, potevi richiedere un credito informale, ma adesso è tardi per farti l’esame, siamo già a gennaio …aveva detto.

La Lanfranchi non era un grande problema, tuttavia, e Max se ne fece presto una ragione, anche perché le lezioni di inglese erano un modo per stare vicino a Cheng, per aiutarla…E qui cominciava il secondo problema di Max. Gli occhi di Cheng. Lui se li sentiva addosso dovunque andava, sul Pajero, tra i banchi dell’au-la, in fabbrica. Era diventata la sua ossessione, lei così diversa da lui, o meglio da come lui si sarebbe immaginata la ragazza dei suoi sogni. Invece era Cheng che continuava a sognare, di giorno e talvolta anche di notte.

La sera no. La sera Cheng era lì vicino... – Max, mi aiuti un po’ in italiano? Guarda, io col Gila proprio non riesco ad

avere la sufficienza, faccio troppi errori nelle parole –

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– Nelle parole? Che vuoi dire? Ah, nello scritto vuoi dire…– – Guarda qua – e gli allungò il tema – Madonna, è un bagno di sangue….uhm…vediamo il voto.. urka , 3 , “ortogra-

fia, sintassi e scelta dei tempi verbali disastrose”…cos’è, te l’ha dato ieri? – Sì, non avrò la sufficienza il primo qudiermestre…– – Quadrimestre…– Scricciolo…adorava correggerla quando usciva con certi strafalcioni, e adorava

ancora di più sentirglieli fare, così tenera, da proteggere, da difendere dalle aspe-rità dell’italiano.

Ma che era quello topino dagli occhi a mandorla, che gli aveva rubato il cuore? Che era quel musetto giallo, quella Cinderella di Chinatown che gli scombussolava le certezze? Magrebini, cingalesi, musi gialli, dove li avrebbe collocati ora nella sua personale Weltanschaung? E soprattutto, come giustificare una cotta simile da-vanti ai suoi amici?

Il problema di Cheng invece era molto più concreto : andava benino in tutte le materie, ma italiano non riusciva.. Troppo alta, inarrivabile per lei la richiesta del Gila : generi letterari, testo poetico, parafrasi…e poi l’italiano scritto…Ah, che bello al Ctp, quando le lezioni di italiano erano davvero utili, quando imparava ogni giorno cose nuove: ecco, erano un po’ come le lezioni di Inglese della Lanfranchi : concrete, spendibili, soddisfacenti.

1. Il soggetto e la realtà

Il recupero della centralità del soggetto conoscitivo significa dunque al contempo recupero della realtà che è origine, condizione data e destinazio-ne dell'apprendimento.

Recuperare la centralità del soggetto implica infatti collocarlo in una realtà situata, concreta e complessa esattamente come è la vita reale, in cui non basta ascoltare, leggere e ripetere, ma si deve agire, risolvere proble-mi, relazionarsi con gli altri.

Il modello trasmissivo e frontale di insegnamento presenta una realtà che non esiste : logica, astratta, rigida e sistemica, e mette il discente in condizione di rapportarsi da solo di fronte ad essa, in modo individuale. La realtà invece (la famiglia, il lavoro, i rapporti con gli altri) non ha nulla di tutto questo: è priva di logica, di modelli teorici, è flessibile e cangiante, non è rigida e sistemica ma caotica ed è per sua natura intessuta dei nostri rapporti con gli altri.

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Per interpretare questa realtà complessa è necessario rifarsi ad un diver-so paradigma di apprendimento (il costruttivismo sociale e situa-to) che metta in primo piano il soggetto, lo inserisca in un ambiente molto più realistico e verosimile di quello costituito semplicemente dalla cattedra contrapposta ai banchi, ambiente in cui trovi spazio una didattica attiva, la-boratoriale, problematica e situata, intessuta di relazioni e cooperazione. In caso contrario la schizofrenia tra la realtà e la scuola diventa insanabile.

La cifra di questo recupero della realtà sono le competenze, è il saper fare utile alla vita da cui Paolo è partito con le sue riflessioni.

Dunque, se questa è la consegna, cosa possono fare le Tecnologie del-l'Informazione e della Comunicazione?

2.1 Le Tic come acceleratore di processo Che le tecnologie siano un impareggiabile acceleratore del processo di

apprendimento, all'interno della modalità trasmissiva e frontale dei conte-nuti di insegnamento, è assolutamente fuori da ogni discussione, e la ragio-ne è pure facile da comprendere : se insegnare significa trasferire pacchetti di informazioni, è evidente che le tic riescano a farlo meglio di chiunque al-tro: le elaborano e trasmettono in quantità più massiva, in modo più veloce, puntuale, flessibile e mobile,efficace e pervasivo di quanto non faccia la trasmissione orale/scritta del docente e del libro di testo. La competizione è impari. Pensiamo all'efficacia ed alla velocità realizzativa delle presentazio-ni, delle slide, dei filmati, delle immagini, dei podcast.

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Se pure consideriamo la dinamica comportamentista dello stimolo-ri-sposta, le Tic offrono con l'interattività semplice uno straordinario poten-ziale di velocizzazione nel trattamento di una grande mole di informazio-ni (le risposte a scelta multipla, le checking list, i matching, i sondaggi e questionari, le lezioni con feedback etc. disponibili in rete), costruibili da qualsiasi docente in un ambiente dedicato di apprendimento (LMS).

Non parliamo poi della loro pervasività e versatilità : con un click lezio-ni, esercizi e quant'altro possono essere caricati/scaricati, eseguiti, corretti, inviati, visualizzati, ascoltati, trasferiti su un dispositivo mobile, da qualsia-si parte della terra ci sia un pc ed una connessione alla rete ed in qualsiasi momento del giorno e della notte. Un'aula virtuale sempre aperta, 365 gior-ni l'anno.

Se apprendere significasse soltanto ricevere, il problema di una crescita indefinita delle conoscenze umane sarebbe risolto1.

Sappiamo che non è così; ma ad ogni buon conto la velocizzazione, l'in-terattività, la pervasività, pur essendo di per se stesse straordinarie non fan-no altro che migliorare l'efficienza del modello a noi noto. Ovvero : le Tic accelerano i tempi di consegna del pacchetto di informazioni e ne facilitano la distribuzione. Dunque il fallimento od il successo di un percorso di ap-prendimento dipende non dall'uso o meno delle Tic, ma dalla bontà della scelta del modello didattico per quella situazione data2.

1 Questo modo di vedere ci pare l’esatto corrispondente nella teoria dell’apprendimento di un’altra teoria fisica (meglio sarebbe dire metafisica) molto antica e molto famosa : « Possiamo considerare lo stato attuale dell'universo come l'effetto del suo passato e la causa del suo futuro. Un intelletto che ad un determinato istante dovesse conoscere tutte le forze che mettono in moto la natura, e tutte le posizioni di tutti gli oggetti di cui la natura è composta, se questo intelletto fosse inoltre sufficientemente ampio da sottoporre questi dati ad analisi, esso racchiuderebbe in un'unica formula i movimenti dei corpi più grandi dell'universo e quelli degli atomi più piccoli; per un tale intelletto nulla sarebbe incerto ed il futuro proprio come il passato sarebbe evidente davanti ai suoi occhi ». Pierre Simon de Laplace, Introduzione a Saggio filosofico sulle probabilità, Theoria - Editori Associati, 19872 M. Bettoni, M. Mangiavini, Dal latino al database, in Didamatica 2007, Atti, pag 127, 3.2.

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Quella di saper scegliere le strategie più idonee per una data utenza, per quei contenuti e per quel livello di ingresso è infatti una delle competenze basilari del docente. Prendiamo Gilardoni. Le sue video-lezioni sono un successo o no? Ha proposto ai suoi allievi un modello di apprendimento idoneo agli obiettivi didattici che lui ha in testa o no? La risposta è : sicura-mente sì. Lo stanno a confermare i risultati, nettamente migliorati, della classe. Lui ha in testa solo la modalità erogativa e versativa, e coerentemen-te trasmette i contenuti con uno strumento che ne facilita e semplifica la di-stribuzione.

Le tecnologie hanno velocizzato ed essenzializzato il suo percorso. Met-tere in rete il testo di una lezione, ovvero di un insieme di nozioni, di fatti e di idee che sdipanano la storia in un racconto coerente, significa facilitare e ridurre all'osso i contenuti della verifica, significa depositare "pillole di es-senzialità" nella testa dei ragazzi. Si aggiungano le esercitazioni "drill and practice" (risposta multipla, matching, check list etc.) e la spiegazione orale : il risultato non può essere che buono. Merito delle tecnologie, dunque? Merito della piattaforma on line, di Internet? Merito delle videolezioni?

No: non è merito delle videolezioni, perchè per i ragazzi è stato molto più comodo stamparsi il testo scritto. Su 22, nessuno a casa ha studiato sul-le videolezioni. Dieci fogli di carta da portare al lavoro e da leggere nei tempi morti, ecco il vero mobile learning; e non è merito di internet, perchè se avesse distribuito delle fotocopie, si sarebbe risparmiato un sacco di la-voro.

La vera tecnologia che ha determinato il successo dell'iniziativa (se si eccettuano le verifiche on line) è quella della fotocopiatrice.

Se ben usate, le tecnologie (non solo le Tic) sono straordinarie come ac-celeratore, distributore e gestore di contenuti interattivi, ma sempre all'in-terno del paradigma trasmissivo e frontale dell'apprendere. Nulla più.

Ecco quello che rode a Gilardoni : della bellissima cattedrale che lui ha costruito (l'ambiente on line, il sito, detto anche piattaforma, LMS -Lear-ning Management System) poco è servito a determinare l'incremento della performance dei suoi studenti. Con la sola fotocopiatrice avrebbe raggiunto risultati analoghi.

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Consegnare "pacchetti" di nozioni, di idee, di nomi e di date in questo modo è molto più efficiente che non spiegare il libro di testo, scritto sempre per un pubblico ideale che non esiste nella realtà. Lui invece le copie le ha scritte collo stesso linguaggio che utilizzerà nelle verifiche, utilizzando solo contenuti selezionati ad hoc. Un lavoro meritevole, fatto apposta per i suoi ragazzi. Realizzare un prodotto multimediale come le videolezioni, invece, nulla ha aggiunto o trasformato alla bontà del processo di consegna : il con-tenuto di conoscenza è stato elaborato in un prodotto di sicuro effetto, ben confezionato e spettacolare, ma gli studenti hanno preferito delle sane foto-copie, più portabili e flessibili.

Ma se si fosse posto come obiettivo far acquisire delle competenze stori-che nei suoi allievi, la musica sarebbe cambiata, e lo strumento, la metodo-logia avrebbero dovuto mutare completamente. Come?

2.1.1 I learning objects Prima di rispondere a questa domanda, una riflessione. Gilardoni è in

buona compagnia.Se apprendere significasse soltanto ricevere, si diceva, il problema di

una crescita indefinita delle conoscenze umane sarebbe risolto. Questa vi-sione ha guidato l'umanità fino a pochi decenni or sono, ed è ancora oggi radicata in molti settori della cultura e dell'educazione, al punto che ha por-tato al grande miraggio dei learning object, nella cui logica anche il nostro amico prof si è mosso.

È individuabile una linea ben precisa, nel pensiero razionalista occiden-tale, che ha cercato, con i più nobili intenti, una costruzione del sapere uni-versale mediante una ridefinizione del linguaggio e delle regole di deriva-zione sulla base del modello della matematica, e che con ciò stesso ha pre-teso di risolvere il problema dell'apprendimento trattandolo alla stregua del-la consegna di un pacchetto di informazioni.

Ha cominciato Cartesio, cercando di ridurre il sapere universale ai suoi minimi termini, essenzializzandolo alla verità prima indubitabile (il cogito, ergo sum) per poi ri-costruire su questa un nuovo edificio della conoscenza.

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Poi ci si è messo Leibniz : se noi riuscissimo a costruire un linguaggio universale, diceva, fatto di caratteri non ambigui ma condivisi, di rego-le combinatorie certe e definite, il ragionamento si ridurrebbe a una combi-nazione di caratteri, a un gioco di scrittura, a una manipolazione meccanica di simboli, in breve a un calcolo. Ogni problema diventerebbe risolvibile in un numero finito di passaggi attraverso una successione altrettanto finita di istruzioni, applicate mediante un preciso algoritmo di calcolo. Una volta definito questo linguaggio e queste regole di derivazione, ogni problema sarà risolto : le incomprensioni tra gli uomini saranno appianate trovandosi attorno ad un tavolo e dicendo : "calculemus". Scompariranno i problemi di apprendimento, poichè le definizioni e le regole di questo linguaggio saran-no così chiare che anche agli sciocchi saranno aperte le porte del sapere.

L'idea di ricondurre la trasmissione del sapere e la comunicazione ad una procedura di tipo razionalistico-deduttivo era mossa da nobili finalità etiche : ridurre il linguaggio a calcolo, ad una sequenza di procedure mec-canizzate e controllabili, significava porre le premesse per un appianamento delle divergenze tra gli uomini e la costruzione di un mondo di pace e di cultura. In un secolo come il XVIII, ancora attraversato da guerre di religio-ne, questo programma di pacificazione aveva indubbiamente un grande va-lore civile.

Nessuno oggi dubita però che l'apprendimento sia molto di più e molto altro : competenza, collaborazione, comunicazione, emozione, progettuali-tà, risoluzione di problemi, prendere decisioni. Persino nella risoluzione di un'equazione o di un problema matematico oggi sappiamo che il decision making ha un ruolo fondamentale. Il paradigma razionalista, cartesiano-leibniziano tende a frazionare il sapere in pacchetti di informazione, in pil-lole sempre più digeribili ed autoconsistenti, in unità di conoscenza che – dice E.Morin – "non sono la soluzione del problema del sapere, e tantome-no dell'insegnamento, ma sono il problema stesso"3.

Questo paradigma di edificazione del sapere ha dato luogo al grande mi-raggio dei learning objects.

3 E. Morin (2000), La testa ben fatta. Riforma dell'insegnamento e riforma del pensiero, Milano, Cortina

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Cosa sono? Le videolezioni di Gilardoni, brevi unità digitali di appren-dimento tematico, sono un tentativo inconsapevole di costruire un learning object : unità di apprendimento autoconsistenti, modulari, reperibili, riusa-bili e interoperabili, impiegabili in contesti diversi. Sono in altre parole pacchetti di informazioni, a loro volta scomponibili nei loro costituenti (gli "asset", le risorse), che combinate in un sapere unico, il sapere universale. Praticamente sono risorse on-line (pagine web, video/audio, animazioni) che trattano un certo argomento, e che sono dotate di una tale autonomia e modularità da essere dei mattoni autoconsistenti dell'edificio universale del-la conoscenza, riusabili e trasferibili in un numero indefinito di contesti.

Naturalmente sono state date delle specifiche di standard, per rendere uniformi i vari L.O., il più famoso dei quali è lo SCORM (Shareable Con-tent Object Reference Model).

Esistono in rete molti repository di Learning Objects, archivi di queste pillole di conoscenza che le Tic mettono a disposizione dell'umanità per una crescita indefinita del sapere..

Se planiamo alla nostra realtà dell'Eda, notiamo che anche in Italia que-sta impostazione ha prodotto delle notevoli iniziative : il sogno di omologa-re i moduli didattici in sequenze gerarchicamente costituite di asset di co-noscenza, distribuibili all'utenza degli adulti in formazione con l'aiuto delle tic, per elevarne la preparazione di base ha portato all'esperienza di Puntoe-du EdaSerali.

Va detto che l'iniziativa, in sè lodevole, deve però essere accompagnata da precise indicazioni d'uso : i learning objects da soli rappresentano pillole indigeribili per l'utente medio dell'Educazione degli adulti. Se le si usa con una chiara consapevolezza didattica, come risorse all'interno di un percorso di apprendimento guidato e sorvegliato di stampo costruttivista, collaborati-vo e relazionale, a supporto ed integrazione della didattica laboratoriale at-tiva,4 essi possono avere un valore. In caso contrario, sono l'ennesima catte-drale nel deserto, costruita senza una seria progettazione didattica che tenga conto della specificità dell'Eda.

4 http://puntoedu.indire.it/

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2.1.2 Il paradosso dell'informatica. Un'altra riflessione, che conduce ad un paradosso ed apre un problema. Quando agli inizi del '900 il comportamentismo definiva la teoria del-

l'apprendimento essenzialmente in termini dei comportamenti osservabili stimolo-risposta, tralasciando completamente ciò che avviene all'interno della mente umana , il quadro si componeva :

le scienze psico-pedagogiche da una parte si devono disinteressare di ciò che avviene nella mente umana, che per definizione è inconoscibile, inson-dabile. Esse devono concentrarsi sui comportamenti osservabili, in quanto solo ciò che è verificabile empiricamente è descrivibile in termini scientifi-ci.

Dall'altra parte, ciò che accade dentro la "scatola nera", dentro il sogget-to, ovvero il pensiero dell'uomo ed i suoi processi cognitivi è riducibile a linguaggio, a calcolo matematico, come afferma esplicitamente David Hil-bert, un matematico tedesco di fine '800 : «tutta la nostra cultura attuale, nella misura in cui si basa sulla penetrazione intellettuale e sull'asservimen-to della natura, trova il suo fondamento nella matematica »5.

5 Hilbert, D. (1985). `Ricerche sui fondamenti della matematica', a cura di V.M. Abrusci. Bibliopolis (1969), pp. 492.

stimolo

risposta

risposta

Mente umana,

black box

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Si chiarisce così la concezione della struttura verticale e gerarchica del-l'albero della conoscenza : le radici ed il tronco sono fatte di matematica, con la quale noi possiamo «descrivere l'attività del nostro intelletto, redi-gendo un protocollo delle regole in base a cui procede realmente il nostro pensiero». Pensare, parlare e scrivere sono la stessa cosa che calcolare, ov-vero formare ed allineare proposizioni secondo un algoritmo di regole pre-cise e condivise.

Negli anni '30 i neopositivisti, con le Basissätze e la polemica sui proto-colli rincareranno la dose.

Perchè abbiam fatto questo discorso? Il motivo è semplice : la logica sottesa a questa impostazione scientista e

neopositivista è all'origine dell'informatica, o meglio di quella gnoseologia che, partendo dalla teoria della calcolabilità, attraverso i teoremi di Gödel, è approdata all’ipotesi di Church-Turing (il fondatore dell'informatica) ed al-l'analogia tra mente e macchina6.

Cioè l'informatica sarebbe la più chiara dimostrazione che Leibniz ave-va ragione : essa infatti è in grado di riprodurre tutte le espressioni del pen-siero (che nell'ipotesi scientista equivalgono al linguaggio) in forma multi-mediale, mediante la definizione di un semplicissimo alfabeto (il codice bi-nario con due "lettere", 0 e 1) e di un preciso sistema di algoritmi istruzio-nali. Cioè il linguaggio dell'informatica corrisponde alla lingua universale vagheggiata da Leibniz.

Se così stanno le cose, emerge una contraddizione : da una parte si so-stiene che le Tic (che si basano sulla digitalizzazione ed elaborazione di dati) siano funzionali ad una concezione trasmissiva, meccanica ed opera-zionale dell'apprendimento, i cui limiti sono stati mostrati. Dall'altra le si propone come liberatrici da questo asservimento al paradigma scientista, ottuso ed ottundente, dell'apprendimento meccanizzato e le si concepisce come funzionali al recupero degli aspetti reali, comunicativi, affettivi, ludi-ci e costruttivi della conoscenza.

Come si spiega questa contraddizione?

6 Silvano Tagliagambe, L’immagine delle Ict : temi e problemi, Azione ID n. 158578 realiz-zata a cura dell’Agenzia per la Formazione e il Lavoro - Milano

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2.2 Tic e didattica attiva

Torniamo a Gilardoni. Prendiamo una delle tre competenze di base del-l'obbligo di istruzione (area storico-sociale)7, ed ammettiamo che Gilardoni volesse svilupparla nei suoi allievi : Comprendere il cambiamento e la di-versità dei tempi storici in una dimensione diacronica attraverso il con-fronto fra epoche e in una dimensione sincronica attraverso il confronto fra aree geografiche e culturali.

Una competenza impegnativa. Attraverso quali abilità va raggiunta? at-traverso quali contenuti?

Dallo stesso documento: «Leggere - anche in modalità multimediale - le differenti fonti letterarie, iconografiche, documentarie, cartografiche rica-vandone informazioni su eventi storici di diverse epoche e di differenti aree geografiche» ( abilità). E tra i contenuti : «Le diverse tipologie di fonti»

Tab. 1 – Competenza storica nei quattro assi ministeriali.

7 MIUR, Il nuovo obbligo di istruzione. Cosa cambia nella scuola? Miur, settembre 2007, Roma

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Competenze Abilità/capacità Conoscenze

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Comprendere il cambia-mento e la diversità dei tem-pi storici in una dimensione diacronica attraverso il con-fronto fra epoche in una di-mensione sincronica attra-verso il confronto fra aree geografiche e culturali

Leggere - anche in mo-dalità multimediale - le diffe-renti fonti letterarie, icono-grafiche, documentarie, car-tografiche ricavandone infor-mazioni su eventi storici di diverse epoche e di differenti aree geografiche

Le diverse tipologie di fonti

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Fonte: Il nuovo obbligo di istruzione. Cosa cambia nella scuola? Miur, settembre 2007, Roma

Si propone in altri termini un insegnamento della storia più simile al la-voro analitico dello storico, che parte dalle fonti e risale ai fatti ed ai pro-blemi, e non – come si fa oggi – viceversa.

Ora, ci sono due modi di partire dalle fonti : o presentando e leggendo sul libro di testo una selezione opportunamente effettuata di fonti storiche che convergono alla definizione dell'argomento scelto, oppure utilizzare quell'immensa banca dati spontanea – il Web – per realizzare una ricerca attiva.

Quale dei due metodi è più attivo e coinvolgente? quale dei due simula in modo più credibile il lavoro dello storico? Quale risponde meglio alla impostazione costruttivista, collaborativa e situata della conoscenza, che abbiamo visto essere la sola idonea a sviluppare delle competenze?

Anche le indicazioni del ministero possono essere svolte nel modo sba-gliato, in vista di una semplice conoscenza di fonti. Il documento dovrebbe meglio dire : "Saper reperire, selezionare, inventariare ed interpretare....le differenti fonti ...". Altrimenti si corre il rischio di affrontare l'approccio alle fonti con la vecchia modalità trasmissiva.

Quella della ricerca in rete, della selezione delle fonti, della loro inter-pretazione ci pare una competenza fondamentale non solo all'interno di per-corsi curricolari, ma soprattutto intesa come competenza chiave del cittadi-no, dato che ormai il Web è diventata LA risorsa imprescindibile per lo stu-dio, il lavoro, la ricerca, la comunicazione, l'esercizio dei propri diritti di cittadinanza, la partecipazione alla vita democratica. Quindi imprescindibi-le per un percorso destinato agli adulti.

E' talmente imprescindibile che non esiste consiglio di classe, dalla pri-maria alla superiore, in cui non ci sia almeno un insegnante che non dia ai propri allievi delle "ricerche" sugli argomenti più disparati, (immagine che è entrata persino nello sketch pubblicitario di un operatore telefonico nazio-nale).

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Anche qui, una grande finzione. Si finge di non sapere che esse verran-no effettuate al 99% sul web, così ci si può permettere di non porsi il pro-blema: come avvicinare i ragazzi alla ricerca in rete, come educarli alla se-lezione, alla lettura ed alla comprensione critica delle fonti, quando nem-meno da parte dei docenti si sa cosa sia un motore di ricerca, quale sia la sua logica, quali debbano essere i criteri di selezione delle fonti più atten-dibili? E per gli adulti la situazione è più grave, perche normalmente non hanno mamma e papà che fanno la ricerca per loro!

La ricerca in rete : una competenza trasversale, spendibile in tutti gli ambiti disciplinari, una competenza di cittadinanza (perfettamente corri-spondente al profilo realizzato dall'E-citizen), una competenza per la vita.

E dunque anche la competenza indicata dal Miur trova la sua naturale area di applicazione nella didattica attiva e laboratoriale, dove per defini-zione si possono reperire, inventariare, selezionare le differenti fonti lette-rarie, iconografiche, documentarie, cartografiche di cui parla il Miur, al fine di realizzare dei prodotti concreti (una presentazione multimediale, un au-dio/video, un sito) che attivino non soltanto la funzione cognitiva, ma quel-la operativa, progettuale, di problem solving della persona (ci riferiamo ad attività didattiche come la webquest, la sitografia ragionata, etc).

Per un esempio di attività laboratoriale storica, rimandiamo alla parte terza.

2.3 Comunicare e cooperare Tuttavia non si apprende attraverso il semplice fare: l'attività deve esse-

re accompagnata dal pensiero, dalla riflessione. Le azioni devono essere in-teriorizzate, agite interiormente, devono diventare modelli di azione per es-sere esportabili in altri contesti e diventare dunque competenze. Apprende-re è un procedimento tutt'altro che lineare e sequenziale, per cui la metari-flessione, la consapevolezza dei propri percorsi e delle proprie procedure di apprendimento sono centrali non solo per lo sviluppo delle competenze di-sciplinari (ammesso che si possa parlare ancora in questi termini "comparti-mentali") , ma soprattutto per quella competenza chiave, l'imparare ad im-parare, che per l'adulto ed il cittadino è fondamentale.

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Inoltre, questo "fare" riflessivo e consapevole avviene di solito con gli altri e mediante gli altri. Sono gli altri che ci vedono, ci criticano, ci valuta-no, con i quali dobbiamo lavorare, mediare, negoziare, se vogliamo costrui-re qualcosa insieme. Da una squadra di calcio ad una squadra di ministri, saper lavorare in team è la condizione fondamentale per il successo finale. Inoltre è dal dialogo con gli altri che si rafforzano e si validano le nostre competenze linguistiche, che si riconosce l'efficacia dei nostri schemi ope-razionali oppure li si cassa e se ne cercano di nuovi è più corretti.

Partiamo, come al solito, dalla realtà.La prof. Lanfranchi, vero riferimento per la didattica attiva e cooperati-

va, punta molto sugli aspetti comunicativi, che le Tic favoriscono in misura esponenziale : dalla creazione di attività ludiche (scenette e rappresentazio-ni teatrali), alla partecipazioni a gruppi di interesse (resi possibile dai social network del Web2), a fiction più caserecce ma più probabili quali il role-playing. Del resto è comprensibile, data la natura eminentemente comuni-cativa della sua disciplina: inglese.

L'apprendimento cooperativo è particolarmente adatto per gruppi etero-genei di adulti italiani e stranieri in molte discipline; sviluppa una serie di competenze trasversali e di life skills come il peer learning (capacità di ap-prendere dai pari), la capacità di lavoro in team, la interdipendenza positiva e corresponsabilità. Inoltre la condivisione di risorse sollecita un aiuto ed un incoraggiamento reciproco, la necessità di imparare a gestire i conflitti per contribuire al raggiungimento dell’obiettivo previsto facendo la propria parte, l’autovalutazione e l'automonitoraggio, la consapevolezza dell’im-portanza del proprio contributo per arricchire l’apprendimento del gruppo mediante feed-back reciproci.

Infine cooperare accentua la rilevanza data allo sviluppo di abilità co-gnitive e sociali quali l’imparare a chiedere, l’imparare a rispondere, ad ascoltare ed a riflettere.

La coppia di aiuto che si forma (Max con Cheng) è spontanea, vista an-che la simpatia reciproca. Tuttavia in condizioni normali la definizione del-le modalità chiare e precise del lavoro in coppia spetta al docente, il quale deve sapere come muoversi.

2.4 Riflettere

101

E la metariflessione? Che ruolo ha la acquisizione di consapevolezza dei propri processi di apprendimento nelle attività didattiche di tipo collaborati-vo? Prendiamo ad esempio lo studio della grammatica : invece di essere qualcosa di calato dall'alto, come fosse un sistema di regole da cui dedutti-vamente si ricavano le competenze linguistiche, esso diventa una riflessio-ne sulle strutture linguistiche chiamate in causa dalle reali situazioni comu-nicative nelle quali la Lanfranchi ha "ficcato" (ci sembra il caso di dire) i suoi studenti. Ecco cosa si intende per apprendimento situato, basato su si-tuazioni comunicative reali (anche se simulate), nelle quali la regola gram-maticale trova un suo perchè come chiarimento, fondamento e giustifica-zione della corretta soluzione ad un problema comunicativo dato.

Mediante il confronto collaborativo è necessariamente richiesta inoltre la capacità di argomentare per convincere l'altro della bontà della pro-pria strategia. La quale così deve emergere, oggettivarsi, diventare visibile.

La metacognizione viene anche incentivata dall'uso - collaborativo o in-dividuale - di applicativi (ora presenti anche come interfacce web, senza necessità di installazione) per la realizzazione e la condivisione in rete di mappe concettuali e mentali. Realizzare una mappatura od un planning gra-fico dei propri od altrui percorsi mentali rafforza l'apprendimento significa-tivo (meaningful learning), i passaggi logici, le interconnessioni trasversali, e favorisce la elicitazione di collegamenti inopinati e creativi altrimenti de-stinati a rimanere nell'ombra in una riproposizione puramente verbale e non grafica. Ovvio che in teoria tutto questo possa essere realizzato anche con carta e penna: ma le possibilità che le Tic offrono (collegamenti ipertestuali a siti esterni, caricamento di immagini e file multimediali, pubblicazione e condivisione in rete – Cmap Ihc) ne elevano esponenzialmente le potenzia-lità.

Ci preme qui sottolineare come il meaningful learning sia particolar-mente funzionale all'apprendimento in età adulta, è cioè alla piena assun-zione di responsabilità circa il proprio apprendimento che rappresenta la ci-fra della rivoluzione delle competenze lato studente. In altri termini : studio per capire ed imparare, non per ottenere la sufficienza – la promozione – il pezzo di carta.

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Un altro esempio è la valutazione tra pari (peer review).Il tema della valutazione delle competenze da parte del docente è delica-

to e complesso; tuttavia la valutazione è essa stessa uno strumento di ap-prendimento che stimola fortemente la metacognizione : ci riferiamo sia al-l'autovalutazione (lo studente valuta il proprio lavoro), sia alla valutazione dei prodotti dei propri pari (i compagni).

Il problema sono le condizioni con le quali effettuare questa meta-valu-tazione, affinchè sia efficace. Le tecnologie pongono in essere queste con-dizioni.

Andiamo con ordine: diamo il setting di una procedura di attività didat-tica destinata agli adulti che sfocia in una valutazione tra pari ed in un'auto-valutazione :

Tab. 2 – Setting delle operazioni di peer review con Moodle.

Azione Attore

1.Assegnazione di un task operativo

2.Negoziazione e condivisione criteri di valutazione

3.Inserimento criteri e scala di valutazione nel sistema

4.Settaggio attività

5.Esecuzione individuale

6.Valutazione dei lavori

7.Redistribuzione random dei lavori

8.Valutazione dei lavori

9.Valutazione delle valutazioni degli studenti

10.Autovalutazione studente

11.Valutazione ponderata e finale

Docente

Docente - Studenti

Docente

Docente

Studenti

Docente

Sistema

Studenti

Sistema

Studenti

Sistema

Fonte : M. Bettoni, M. Mangiavini, Dal latino al database, in Didamatica 2007, Atti, pag

123, 2.3.

103

Questo setting, ai punti 7, 9 ed 11 rende insostituibile il ruolo del siste-ma : esso infatti (fase n.7) garantisce l'anonimato e la casualità nella redi-stribuzione dei lavori tra i pari (gli studenti); rende automatica la valutazio-ne delle valutazioni degli studenti (fase n. 9), per esempio mediante il cal-colo dello scarto quadratico medio tra la valutazione del docente e dello studente (ovvero : quanto più la valutazione dello studente si allontana da quella del docente, e quindi dai criteri negoziati e condivisi, tanto minore sarà il voto assegnato alla valutazione dello studente) ; infine (fase n. 11) automatizza la valutazione ponderata conclusiva, dando indicazioni allo studente sulla propria autovalutazione.

Senza lo strumento tecnologico l'anonimato non avrebbe potuto essere garantito – con evidente pregiudizio della affidabilità delle valutazioni (pensiamo a come Max potrebbe valutare il lavoro di Cheng) – ed il lavoro del docente ne risulterebbe quintuplicato.

Questo setting è stato sperimentato in una scuola milanese per adulti uti-lizzando la attività "Workshop" del notissimo LCMS Moodle8.

2.5 Un esempio : la Videopoesia. Torniamo ai dubbi iniziali di Paolino: ha ancora senso studiare Leopardi

in una scuola per adulti? Non è meglio restarsene a casa a truccare la pro-pria moto da cross? Ascoltarne la vita in modo passivo probabilmente no. Fare la parafrasi delle sue poesie, probabilmente no. Imparare che "aere" equivale ad aria, che il Romanticismo è un movimento che..., proba-bilmente no. Conoscere gli anni di composizione dei piccoli idilli, sicura-mente no.

Ma riconoscere ed apprezzare le opere d'arte, sì (è una competenza). Oppure mettersi in gioco cercando di interiorizzare il messaggio universale di una poesia e usando la propria creatività per costruire un prodotto multi-mediale, sì. Riflettere, confrontarsi e capire se si hanno tutte le conoscenze e abilità per capire la bellezza, sì.

Più in generale : a che cosa serve l'italiano?

8 M. Bettoni, M. Mangiavini, Dal latino al database, in Didamatica 2007, Atti, pag 123, 2.3.Anche in M. Mangiavini, M. Bettoni, Dal "Latino nella rete" a "Missione podcasting".La costruzione collaborativa della conoscenza per le discipline umanistiche. Share Conference, Innovare l’e-learning attraverso la condivisione ed il riuso. Campus Coste S. Agostino, Università di Teramo, 14 dicembre 2006.

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Serve a capire le notizie del telegiornale, a leggere il bugiardino che ac-compagna un farmaco, a capire le istruzioni per montare un mobile fai da te..., a leggere una statistica, il giornale, serve a raccontare in modo breve e vivace la trama dell'ultimo film che hai visto, a fare il resoconto della gior-nata di lavoro alla fidanzata senza che lei si metta a sbadigliare... e molto altro.

Serve ad imparare a condividere ed esprimere le proprie opinioni, scri-vendo commenti su un blog, ad imparare a scrivere con una didattica labo-ratoriale, a saper leggere non solo testi, ma anche immagini, per non rima-nere facile preda di una pubblicità, ma capendone le intenzioni comunicati-ve; ad esempio con un video di you tube da smontare per sequenze, analiz-zare e su cui riflettere.

Queste sono competenze. Come insegnare queste cose con una lezione frontale, dove gli studenti sono passivi ricettori e non sono coinvolti diretta-mente? Fare, sbagliare, correggersi è la chiave per saper fare.

L'adulto in particolare ha bisogno di questa sequenza di apprendimento: – realizzare un prodotto – riflettere (sul prodotto) – sistemare le conoscenze mancanti – riflettere (sul processo di apprendimento per imparare ad imparare – saper riprodurre in situazione nuova (lo specifico della competenza).

Rimandiamo, per la programmazione dettagliata, alla parte terza.

2.6 Docenti Eda e Tic: una bella rivoluzione...

Le competenze indicate dal Miur e da questa scheda di programmazione si possono raggiungere soltanto attraverso una didattica attiva, un imparare mediante il fare nel quale le Tic rappresentano lo strumento privilegiato di operatività laboratoriale e progettuale.

Certo che è un bel rivolgimento, per Gilardoni.

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La sua impostazione didattica deve capovolgersi : da semplice erogatore di conoscenza (spiegazione frontale, videolezioni, testo degli appunti in Word) ad architetto della conoscenza, a facilitatore, consulente, tutor. Deve progettare un percorso che saranno gli allievi stessi a costruire, e rispetto al quale lui rimarrà in posizione apparentemente più defilata : suggeritore, orientatore, consulente di processo, con una funzione di supporto, di aiuto che sfuma via via che lo studente acquisisce autonomia, capace di persona-lizzare il percorso del suo allievo. Ma prima di questo, un professionista con competenze accentuate di progettazione didattica e di architettura pro-cedurale. Deve aprirsi a competenze trasversali, forse nuove per lui : dalla scheda leggiamo che si utilizzano concetti matematici, statistici, economici, che si richiedono competenze digitali (applicativi come Excel e Word, Cmap), competenze nella navigazione del web 1 e del web 2 (i siti specifici dove reperire i dati e dove trattarli), linguistiche (purtroppo i siti migliori sono in inglese), di gestione "dello spogliatoio" (saper costruire gruppi funzionali, coppie di aiuto efficienti).

Come vedremo, le Tic oggi rappresentano non una disciplina, ma il lin-guaggio preminente della comunicazione, del lavoro e delle attività legate all'apprendimento.

Ed è un bel rivolgimento anche per gli studenti, che entrano in un pro-cesso operativo per loro estremamente più soddisfacente e gratificante, an-che se più faticoso.

Gilardoni rappresenta comunque un caso eccezionale, in quanto dimo-stra di possedere versatilità ed interesse nei confronti delle tecnologie : pos-siamo immaginare perciò quale tipo di rivolgimento generazionale si ri-chieda a tutti gli altri.

Difatti che oggi esista un vero e proprio digital divide tra l'insegnante medio della scuola italiana (con un'età media attorno ai 50 anni) ed i propri ragazzi, è un fatto9 abbastanza acclarato. I neomillennial ed il trentenne oggi sono digital native, sono nati nelle tecnologie, e se non sono abili con esse, sono privi di paure e pregiudizi nei loro confronti.

9 M. Bettoni, Ed@learning – Le Tic come catalizzatore ed enzima dell’Educazione permanente sul territorio, in Atti del Congresso nazionale Aica 2007, Cittadinanza e Democrazia digitale, Politecnico di Milano, 20-21 settembre 2007, pag. 127 segg.

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Tra i docenti invece è frequente riscontrare un "blocco" mentale, in quanto a questa minorità tecnologica si accompagna un senso di paura nei confronti dello strumento: la conseguente frustrazione allontana e scoraggia dal suo utilizzo.

Vi è inoltre un grosso pregiudizio, dettato dal tam tam metropolitano oltre che dalla scarsa consapevolezza didattica: Tic a scuola = Fad (Forma-zione a distanza) = meno posti di lavoro. Si pensa cioè che a una diffusione delle Tic corrisponda l'esautoramento della figura docente e la perdita di posti di lavoro, in uno scenario nel quale i contenuti, liberamente distribuiti mediante la rete, potranno raggiungere capillarmente le persone ciascuno nella propria casa, sul proprio palmare, nei posti di lavoro.

Insomma, niente più bisogno di scuola nè di insegnanti. Si confonde l'e-learning con la formazione a distanza, quasi che l'e-learning fosse una ver-sione digitalizzata della scuola Radio Elettra, nel nostro Paese tra i primi casi di home content delivery (scuola per corrispondenza).

Invece è vero tutto il contrario : non possiamo non notare che questo at-teggiamento sia figlio da una parte di paure irrazionali, dall'altra di un ra-gionamento di comodo (che libera dall'onere di confrontarsi con le tecnolo-gie per cavalcarle). E che soprattutto sia la conferma della concezione tra-smissiva, versativa e frontale dell'insegnamento, prevalente tra i docenti Eda e più in generale della scuola italiana. Soltanto chi concepisce questa attività come una consegna di pacchetti di contenuti ad un anodino destina-tario, può arrivare a temere scenari come quello prima descritto.

Invece l' e-learning è attività a scuola, da fare con gli altri, che richiede però una nuova figura di docente con una precisa professionalità tecnologi-ca e delle sviluppate competenze didattiche.

3. La realtà virtuale e la realtà potenziata

Per quanto possa sembrare uno scenario ai nostri occhi futuribile, vale la pena dar conto delle pratiche più avanzate che ci provengono da oltreocea-no, in quanto indicatori del trend di sviluppo futuro.

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Se stiamo al rapporto del National Research Council, l'equivalente del CNR negli Stati Uniti, i modelli di apprendimento a cui ci si dovrebbe ispi-rare sono tre : quello comportamentista (trasmissivo frontale, adatto per presentazioni addestrative), quello cognitivista (fondato su una didattica co-struttivista ed attiva, su un learning by doing guidato da un docente-tutor) e quello fondato sull'apprendimento situato, che si sviluppa in contesti auten-tici, con attività nelle quali il lavoro di esperti costituisce un modello per l'apprendistato (mentoring) 10.

Quest'ultimo appare il più difficile da realizzare, per evidenti motivi lo-gistici : creare contesti autentici e destrutturati nel mondo reale, da usare come palestre di apprendimento sotto la guida di docenti che diventano esperti-coach- mentor, è praticamente impossibile.

Tuttavia le tecnologie aiutano, in quanto si possono creare ambienti vir-tuali e realtà potenziate che riproducono la realtà vera in modo simulato, immergendo la persona in un contesto simile al mondo reale.

Quello dell'apprendimento situato è un tema fondamentale per le com-petenze, in quanto affronta il nodo centrale del “trasfert”: uno degli aspetti che caratterizza la competenza rispetto all'abilità è la capacità di trasferire, di applicare il set di conoscenze ed abilità acquisite in un dato contesto in un contesto diverso : l'apprendimento situato rende più trasferibile la com-petenza proprio perchè la sviluppa dentro un ambiente prossimale al mondo reale.

3.1 Ambienti virtuali.

Che differenza c'è tra guardare la barriera corallina da una barca dal fondo di cristallo e fare un'immersione reale con bombole e respiratore?11

10 National Research Council, How People Learn: Extended Edition (2000),11 M. Bricken, Mondi virtuali: nessuna interfaccia da progettare, in M. Benedikt (a cura di), Cyberspace, cit., pp. 377-378 : “L”uso di un casco con visori (HMD, head-mounted-display) e di indicatori di posizione ci permette di superare la barriera dello schermo e di interagire direttamente con varie forme di informazione in un ambiente inclusivo. La peculiarità di questa distinzione tra guardare ed essere inclusi può essere illustrata dalla seguente analogia. Guardare una grafica tridimensionale su uno schermo è come guardare nell’oceano da una barca col fondo di vetro. Guardiamo in un ambiente animato attraverso una finestra piatta, e sperimentiamo lo stare su di una barca. Guardare un mondo virtuale usando lo schermo stereografico è come immergersi con la maschera. Ci troviamo al confine di un ambiente tridimensionale, da cui guardiamo nella profondità dell’oceano;

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Oppure tra vedere una casa di Barbie dall'esterno e trasformarsi in Ken per vederla dall'interno?

Cambia il punto di vista, il sistema di riferimento : dall'esterno della ca-setta di bambola come dalla barca dal fondo di cristallo io vedo dentro (la casa, il mare), ma mantengo il mio sistema di riferimento fuori : considero la realtà studiata come un oggetto esterno, ed il mio frame of reference è eso-centrato.

Se invece mi immergo o mi trasformo in Ken , acquisisco un punto di vista ego-centrato : toccherò i coralli, le conchiglie, vedrò i pesci che mi ruotano attorno; oppure mi siederò sulla poltrona di bambola, camminerò sul tappetino etc.

Queste metafore vogliono introdurre ai MUVE (Multi User Virtual En-vironment), siti web nei quali gli studenti si scelgono un'identità virtuale (un avatar) ed interagiscono con variabili di contesto e con gli altri parteci-panti virtuali in un ambiente simulato.12 La forza di questa realtà simulata sta nel poter immettere l'allievo in una prospettiva bi-centrata, ovvero sia eso-centrata che ego-centrata, mantenendosi in contatto con il mondo reale pur immergendosi in quello virtuale.

Gli studi effettuati13 dimostrano come questa immersione stimola lo svi-luppo di competenze, rafforza la motivazione e la conoscenza soprattutto negli allievi meno dotati e solitamente meno partecipi al normale lavoro di classe.

sperimentiamo l’essere, al limite tra la superficie e la profondità del mare. Usare un HMD stereoscopico è come tuffarsi nell’oceano indossando un autorespiratore. Ci immergiamo nell’ambiente, ci muoviamo tra i coralli, ascoltiamo il rumore delle balene, raccogliamo conchiglie da esaminare e conversiamo con altri sommozzatori. In questo modo cerchiamo di raggiungere la piena comprensione del mondo subacqueo. Noi siamo lì”.12 Everquest (http://eqlive.station.sony.com). Whyville ( http://www.whyville.net ) River City dell'università di Harvard (http://muve.gse.harvard.edu/muvees2003 ). Quest Atlantis (http://atlantis.crlt.indiana.edu/start/index.html) 13 Dede C., Nelson.B, Ketelhut D., Clarke J:, & Whitehouse P.(2004) Designed-based research stategies for studying situated learning in a multi-user virtual environment. Proceedings of the sixth international conference on the learning sciences, pp.158-165.Mahweh, NJ, Lawrence Erlbaum ; Barab S., Thomas M., Dodge T, Carteaux R., & Tuzun H. Making learning fun: Quest Atlantis, a game without guns. Educational Technology Research and Development.

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3.2 Realtà aumentata

Con le Tic si può dunque simulare una realtà fittizia e realizzare un ap-prendimento situato, ma si può anche “aumentare”, potenziare la realtà “vera”.

Immaginiamo di essere studenti che camminano per la città e devono fare una ricerca sull'inquinamento; ciascuno ha un palmare collegato non solo alla rete ma anche al GPS (la tecnologia dei navigatori satellitari), op-pure un dispositivo RFID (Radio Frequency Interference Device) che ci permette di raccogliere dati sulla composizione chimica delle acque, del suolo, dell'aria man mano che ci muoviamo attraverso le vie e le piazze del-la città.

Possiamo inoltre intervistare personaggi virtuali e fare quindi una vera e propria investigazione sul problema che ci è stato assegnato : scrivere una relazione sullo stato dell'inquinamento della nostra città.

Lo studente in questo modo gioca a fare lo scienziato, il ricercatore, sforzandosi di applicare la metodologia della ricerca scientifica . La realtà che gli si presenta non è una realtà semplice, ma potenziata, aumentata, in quanto il lavoro di raccolta dati gli è stato semplificato, preparato : lui deve solo decidere quali utilizzare ed inserire nella sua relazione finale, e quali conclusioni raggiungere. Naturalmente il lavoro è collaborativo ed in team: mediante la rete le informazioni raccolte vengono scambiate e utilizzate cooperativamente per la redazione del report finale.

Anche in questo caso gli studi14 hanno dimostrato che questo tipo di im-mersione in una realtà potenziata può effettivamente impegnare lo studente in un pensiero critico ed in uno scenario autentico. Gli studenti che parteci-pano a queste attività dichiarano di sentirsi “investiti” di un compito preci-so e dunque molto motivati. Soprattutto essi possono sviluppare una com-petenza di base, chiave, per la vita, il problem solving, imparando a cerca-re, selezionare e sintetizzare i dati con il metodo più appropriato, quello scientifico-sperimentale.

14 Klopfer E., Squire K. & Jenkins H.,(2003) Augmented reality Simulations on PDAs. Studio presentato alla conferenza nazionale della American Education Research Association (AERA), Chicago.

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4. Tic come simulazione.

Per quale motivo abbiam fatto questo veloce approfondimento su scena-ri che ci possono sembrare tanto lontani dalla nostra realtà quotidiana? An-zitutto per mostrare le straordinarie potenzialità delle Tic in ordine all'ap-prendimento delle competenze, ed in secondo luogo per introdurre la rifles-sione sul rapporto tra scuola e realtà.

4.1 Tic, realtà e simulazione.

Abbiamo detto che il senso delle competenze è recuperare una dimen-sione dell'istruzione e della formazione utili alla vita, in grado di introdurre al mondo del lavoro ed alla realtà esterna; siamo quindi approdati alle tec-nologie dell'informazione ed infine alle realtà virtuali e aumentate come agli scenari più efficaci coi quali attuare un apprendimento situato, per l'ac-quisizione delle competenze ed il recupero di una scuola a stretto contatto con la realtà.

E questa non può non apparire come una contraddizione : recuperare la realtà vera mediante realtà fittizie e virtuali.

I problemi aperti sembrano due :Anzitutto definire il rapporto tra scuola e realtà; secondariamente chie-

dersi se l'uso delle Tic non comporti più rischi che benefici, ad esempio tra-smettendo più automatismi che senso critico, ostacolando la formazione di un io strutturato, di una personalità forte ed ancorata al reale mediante la pratica di identità fittizie in ambienti virtuali.

4.1.1 Scuola e realtà.

Tra scuola e realtà esterna c'è e ci deve essere una cesura : la scuola non deve duplicarla, mancherebbe alla sua missione : quella di introdurre alla realtà ma nel contempo prenderne le distanze per valutarla criticamente, di entrarci ma al contempo restarne fuori, mantenendosi libera15.

15 L.B. Resnick, “Learning in School and Out”, Educational Researcher, 16/9 (1987), pp. 13-20 (tr. it. in C. Pontecorvo – A.M. Ajello – C. Zucchermaglio (a cura di), I contesti sociali dell’apprendimento, Milano, LED, 1995).

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Inoltre la scuola ha un'altra importante funzione : semplificare la realtà per agevolarne la comprensione e preparare alle asperità del primo impatto : un ruolo parentale che la scuola esercita con modalità tecniche e simulate, e non affettive come fa la famiglia. Ora, l'approccio alla realtà che la scuola fornisce è sempre simulato, e le tecnologie rappresentano la ci-fra identificativa di questa simulazione. Esse permettono di mantenere questo difficile equilibrio tra il recupero della realtà – che deve essere fatto in modo potente mediante lo sviluppo delle competenze, – e la specificità della formazione, che deve mantenere le distanze e distinguersi dalla realtà per valutarla.

La simulazione infatti permette di attuare una prospettiva bicentrica, che è la somma scomposta della prospettiva esocentrica dell'osservatore non partecipe e della prospettiva egocentrica che si prende carico responsabil-mente del processo di apprendimento, perchè il soggetto discente ne viene coinvolto16.

Da notare che le tecnologie attuano la simulazione anche nel modello trasmissivo : con la differenza che la realtà che simulano è la stessa realtà scolastica, e non la realtà “vera” (il lavoro, i rapporti sociali ed economici). Per esempio, le videolezioni di Gilardoni simulano le lezioni in classe. Gli esercizi multiple choice simulano un compito in classe od un'interrogazio-ne; le pagine web od i file in word da scaricare simulano il libro di testo o gli appunti.

4.1.2 Simulazione ed estraniazione dalla realtà

Il secondo problema sui rischi ed i limiti delle tecnologie pare molto più concreto e sembra possa avere una valenza assoluta: il rischio segnalato è che le chat, i profili virtuali, le realtà simulate ostacolino la formazione di una forte e strutturata identità personale, che può avvenire solo mediante relazioni ed affetti autentici .

16 Marilyn Salzman, Chris Dede, and R. Bowen Loftin, "VR's Frames of Reference: A Visualization Technique for Mastering Multidimensional Information," Proceedings of the SIGCHI Conference on Human Factors in Computing Systems: The CHI Is the Limit (New York: ACM Press, 1999), pp. 489–495, http://portal.acm.org/toc.cfm?id=302979&type=proceeding.

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Ci si chiede se le Tic inducano passività ed affievolimento del senso cri-tico, indebolimento complessivo del sé autentico e relazionale oppure «se esse possano essere d’ausilio, attraverso la crescente familiarità con la co-municazione e i suoi processi, allo sviluppo di un’autentica capacità di dia-logo e di apertura all’altro, da cui può scaturire anche una migliore cono-scenza del proprio io17.»

In una parola, le tic accentuano i rischi di estraniamento dalla realtà?Per quanto riguarda l'Educazione degli adulti, la loro valenza è minore,

in quanto l'adulto ha normalmente un io molto più strutturato di quello di un ragazzino od un giovane.

In secondo luogo non bisogna confondere tra l'uso “libero” ed irrespon-sabile della rete a cui vengono talvolta abbandonati i minori (anche da pra-tiche didattiche superficiali – vedi le “ricerche”) con l'uso consapevole e guidato delle tecnologie a scopo didattico che qui si propone.

Facciamo un esempio banalissimo : la chat.L'uso didattico della chat è incentrato su un compito operativo, su una

riflessione specifica ed è ben diverso dalla deriva solipsistica a cui molte persone si abbandonano nelle chat room, dietro identità virtuali che danno vita a relazioni simulate. Inoltre lo strumento deve essere utilizzato sotto il diretto controllo del docente ed in contesti formativi ben precisi, a supporto di una attività didattica progettata nel dettaglio. Insomma, l'utilizzo a scopo didattico delle Tic è ben altra cosa, e passa attraverso una dettagliata e re-sponsabile attività di progettazione , di sorveglianza e di monitoraggio del docente in ambiti prevalentemente scolastici.

4.1.3 Simulazione e gioco

Infine la simulazione – a cui le Tic danno accesso – è l'essenza del gio-co, il quale ha un forte connotazione emotiva e dunque cognitiva18.

17 Silvano Tagliagambe, L’immagine delle Ict : temi e problemi, Azione ID n. 158578 realizzata a cura dell’Agenzia per la Formazione e il Lavoro - Milano18 D. Goleman, Emotional Intelligence, trad. it. Intelligenza emotiva, Milano, Garzanti 1996.

H.Gardner, Frames of Mind. The theory of multiple intelligences, New York, Basic Books 1983. Forma mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Milano, Feltrinelli 1987. K. Oatley, Best Laid Schemes. The Psychology of Emotions, Cambridge, Cambridge University Press, 1992 (trad. it. Psicologia ed emozioni, Bologna, Il Mulino, 1997). A. R. Damasio, L'errore di Cartesio, Adelphi, Milano1995.

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Il gioco non è altro che uno scenario in cui valgono le stesse regole (o comunque regole molto simili) che vigono nella realtà esterna ( un'impresa, un ambiente sociale o naturale in cui bisogna effettuare una ricerca , etc.) , con in più un'altra meta-regola : “questo è un gioco”. Una meta-regola che relativizza tutte le altre. Questa finzione è importante nei bambini perchè «li mette in condizione di svolgere la loro attività esplorativa e imitativa dei comportamenti degli adulti senza correre il rischio di essere ripresi e san-zionati a causa di un’inesatta riproduzione del comportamento che “imita-no”»19.

Nella istruzione degli adulti invece la simulazione ludica mantiene la funzione parentale di “protezione ed avviamento alla realtà” che è tipica della formazione scolastica, e di cui l'adulto che rientra in formazione ha un particolare bisogno, considerati i fallimenti da cui proviene e la fragilità della sua motivazione in entrata.

Perciò le Tic, rendendo possibile la simulazione del gioco assolvono be-nissimo a questa funzione protettiva e parentale, allenando al contempo alle competenze richieste nella vita e nel lavoro.

5. L'antinomia dell'informatica : le Tic, metalinguaggio.

Resta dunque da chiarire il paradosso di cui al 2.1.2 : può il linguaggio dell'informatica essere considerato liberatore dall'asservimento della lingua meccanizzata sognata da Leibniz?

Come fa ad essere il “liberatore” da questa concezione trasmissiva e meccanica dell'apprendere, se ne rappresenta il più evidente e conclamato prodotto?

19 Bateson, G. (1996) Questo è un gioco. Perché non si può mai dire a qualcuno: «Gioca!», Milano, Raffaello Cortina Editore

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È un falso problema, che rivela la sua natura antinomica: il linguaggio dell'apprendimento non è il linguaggio delle tecnologie, per quanto ad esse si possano ridurre le espressioni multimediali della conoscenza. Il linguag-gio dell'apprendimento è il linguaggio della vita, della scienza, della cultu-ra, è il linguaggio di sempre. È fatto di parole, di immagini, di testo e di ipertesto, di suoni, filmati e musica. È indubbiamente un iper-linguaggio, rispetto a quello quotidiano, che ci può mettere di fronte talvolta, come ab-biamo visto, anche ad una iper-realtà. Ma nulla aggiunge al linguaggio na-turale che usiamo ogni giorno.

Il linguaggio delle tecnologie è invece, rispetto a questo, un meta-lin-guaggio, utilizzato dal linguaggio naturale per impacchettare, confezionare e trasmettere più efficacemente le proprie informazioni.

Mediante la sua immensa capacità di elaborazione e di calcolo, l'infor-matica riduce il linguaggio naturale ad un metalinguaggio che dà luogo a content di tipo multimediale : spetta all'educatore utilizzare in modo consa-pevole il linguaggio potenziato che le Tic gli mettono a disposizione, ma con maggiore competenza tecnologica e responsabilità nei confronti del-l'apprendimento dei propri studenti.

XVIII. L’anno se ne andò velocemente, le serate si allungavano, i termosifoni erano sempre più tiepidi fino a quando, una sera, uscendo prima del solito, Paoli-no notò che il cielo di Milano rosseggiava.

Quel cielo di Lombardia, così bello quando è bello…e quando riesci a vederlo, di tra le cimase…

Il cuore gli si allargò: la giornata non era finita, c’era ancora luce, non doveva andare a casa, ingurgitare qualcosa e poi ficcarsi nel letto, perché la sveglia, l’in-domani, sarebbe stata implacabile, come sempre…No, la sera continuava, la vita continuava…una leggera brezza, un leggero tepore anticipava l’estate, sì l’estate, il caldo, le serate con la compagnia, con la morosa, il mare.

Certo non era stato un anno semplice. La fatica, le rinunce, ma anche le soddi-sfazioni, le gioie. Non dovevano più esserci momenti umilianti, come quel giorno dalla Marilena. Non avrebbe più dovuto essere il Paolino per nessuno, se non per la sua mamma che lo chiamava così con la voce del cuore e della tenerezza.

Per tutti gli altri il Sign. Paolo Chinnici, il ragionier Paolo Chinnici, un bel gior-no. Forse.

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Parte terza

Modelli didattici ed organizza-tivi per l’Eda.Implicazioni.

di Marcello Bettoni

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Cap. 2 - La responsabilità delle competenze.

1. Responsabilità, centralità della domanda e com-petitività.

Il riordino dell'Educazione degli Adulti è una questione che può essere

affrontata soltanto all'interno di un contemporaneo riassetto di tutta l'offer-ta di apprendimento permanente. Esiste in parlamento, allo stato dell'arte, un disegno di legge1, al quale sono stati mossi dei rilievi correttivi da parte della Conferenza delle regioni e delle provincie autonome2.

L’impianto che il Ddl segue è di tipo deduttivo : si parte dalla enuncia-zione di principi – peraltro universalmente condivisi – di definizioni e di fi-nalità (artt. 1-3), e si prosegue con la deduzione ( «Ai fini di», «al fine di»…) delle linee applicative.

Il limite di questa impostazione è di considerare l’intervento del legisla-tore prevalentemente nell’ottica della ristrutturazione dell’offerta formati-va, sottostimando le criticità dell’attuale ordinamento e le istanze della do-manda.

Il tema che vogliamo sviluppare è invece quello della centralità della domanda e della realtà «effettuale» dalla quale il riassetto di un settore do-vrebbe muovere.

1 Schema di disegno di legge concernente "Norme in materia di Apprendimento permanente”, 21 dicembre 20072 Conferenza delle regioni e delle province autonome. Parere sullo schema di disegno di legge recante “Norme in materia di apprendimento permanente” - Punto 4) elenco A – Conferenza Unificata, Roma, 15 novembre 2007.

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Nel caso di specie, la domanda di formazione adulta in questi ultimi due decenni si è profondamente trasformata : rientro in formazione di un nume-ro sempre maggiore di adolescenti fuoriusciti dai percorsi iniziali, crescita esponenziale degli stranieri, imprese che richiedono maggior flessibilità ed adattabilità, precariato diffuso, mutamento degli stili cognitivi dei neomil-lennials, aumento nel numero degli anziani, digital divide in seguito alla diffusione delle ICT.

L’attuale ordinamento, inoltre, è zeppo di falle ed inadeguatezze, e non può bastare un percorso di deduzione degli interventi legislativi, se esso non tiene conto delle criticità del sistema attuale3, che più che un sistema appare essere una galassia.

Il nostro approccio è invece capovolto : dalla analisi della realtà si giun-ge ad indicare un possibile percorso che focalizzi tre elementi chiave del riordino del settore : la centralità della domanda di formazione, la re-sponsabilità di tutte le parti coinvolte nell’apprendimento permanente e la competitività tra i vari soggetti che erogano l’offerta.

Da ultimo, chiariamo che l’insistenza su termini quali domanda-offerta e competitività non intende ingenerare equivoci sulla specificità della forma-zione degli adulti e più in generale del sistema scuola, facendolo diventare una dépendance dell’azienda.

Anzi, come avremo modo di mostrare, avversiamo l’idea aziendalista di una competenza intesa come prestazione e ne rivendichiamo invece le pe-culiarità formative ed etiche, orientate alla educazione del cittadino e del-l’uomo.

Lungi dall’essere una istanza aziendalista, la chiave di lettura che qui proponiamo – un approccio che muove dalla domanda formativa – ne costi-tuisce l’esatto contrario : una maggior aderenza alla realtà (che non è solo lavoro), alla vita, in ultima istanza alla persona.

2. L’offerta didattica : la definizione degli standard di competenza

3 Nel Ddl si legge: «Ai fini della presente legge si intende per apprendimento formale, quello che si realizza nel sistema nazionale di istruzione e formazione», art.2, comma 1.

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Il primo fattore di criticità su cui intervenire è la mancanza di un sistema

nazionale di standard di competenze. È indubbio che ci si debba muovere dal concetto di standard : prima di

costruire un curriculum reale, e dunque un’offerta formativa concreta, è ne-cessario definire uno standard, ossia un set definito di comportamenti "mi-surabili", che descriva, predica e certifichi la competenza.

Il modello pedagogico sotteso al concetto di standard è quello compor-tamentista, e va incontro ad una serie di obiezioni molto solide : se si tratta di misurare oggetti tangibili, l'unità di misura funziona benissimo, ma l'affi-dabilità decresce quando abbiamo a che fare con processi di apprendimen-to, con oggetti "mentali". Inoltre la competenza, come abbiamo visto, è ca-pacità di adattamento a problematiche nuove ed impreviste, a situazioni concrete che si presentano inopinatamente, per cui l'idea di una validazio-ne standardizzata è in stridente contrasto con essa.

Tuttavia, nonostante i suoi limiti, per elevare la qualità del sistema for-mativo, non pare esserci alternativa alla elaborazione di un sistema di stan-dard specifico per l'Eda. È la strada che è stata decisamente intrapresa dal-l'Europa4 e dagli Usa5 ; ormai il tema della definizione degli standard ha ac-quisito una autonomia oggettuale e si è svincolato dalla sua originaria fun-zionalità al più limitato dibattito sulla valutazione, dal quale era originaria-mente nato.

Tutti i sistemi di istruzione e di Eda hanno imboccato la strada dello studio e della progettazione di standard con un consenso politico generale «basato su traguardi chiari, consistenti, che siano una sfida per l'apprendi-mento [...] al fine di migliorare le pratiche educative dell'istruzione e della verifica»6.

4Commissione europea, The European Qualifications Framework for Lifelong Learning, Bruxelles, 14 febbraio 20085Council for Basic Education, Standards for Excellence in Education, Washington 1998. National Institute for Literacy, Equipped for the Future Content Standards, Washington, 20006 I. Pritchard, Judging Standards in Standard-based reform, Perspective, Vol. 8, n.I, Summer 1996

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In Italia un lavoro pregevole è stato fatto dall'Indire7 e crediamo che da qui ci si debba muovere per predisporre un sistema di standard formativi minimi di riferimento attorno a cui far ruotare tutta l'offerta formativa Eda, implementando ed integrando le opzioni specifiche dell'istruzione, della formazione professionale, dell'apprendistato, della formazione tecnica superiore, con un modello che tenga conto anche della galassia della forma-zione continua (ad esempio i fondi interprofessionali)8.

Anche se appare scontato affermarlo, la riorganizzazione dei curricoli deve avvenire attorno ad idee molto semplici : la modularizzazione ; la per-sonalizzazione dei percorsi per la creazione di corsie formative a scorri-mento differenziato, che permetta all'individuo di conseguire delle compe-tenze di base o una riqualificazione professionale secondo un percorso ed un ritmo di studio consoni ai propri impegni, ai propri turni di lavoro, ai propri stili cognitivi ; la certificazione delle competenze. È scontato perchè questa visione risale almeno al "Patto sociale per lo sviluppo e l'occupazio-ne" tra governo, sindacati ed imprese del lontano 19989.

Solo che, come spesso accade, il legislatore, ha buttato il cuore oltre l'o-

stacolo, ovvero ha previsto un dover essere normativo senza predisporre gli strumenti operativi per la sua effettuazione. Infatti, ogni enunciazione di principio su modularizzazione, personalizzazione dei percorsi, certificazio-ne delle competenze è destinata a rimanere lettera morta se non si procede – prima – alla definizione di un sistema nazionale di standard ed alla conse-guente definizione dei percorsi formativi11.

7 Lucio Guasti (2002) , Le competenze di base degli adulti, Quaderni degli Annali dell’Istruzione, n. 97, Roma8La definizione degli standard formativi minimi per le competenze di base è iniziata con la direttiva 22 del 6 febbraio 2001, che individua 4 aree di competenze di base dell’adulto : socio-economica, dei linguaggi, scientifica e tecnologica. Per quanto riguarda le competenze tecnico-professionali tale definizione può muovere dal Repertorio delle professioni istituito presso il Ministero del lavoro e della previdenza sociale (art. 52 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276) che definisce ed aggiorna gli standard formativi e di certificazione a partire dalle figure professionali esistenti nel tessuto produttivo del Paese (nella definizione di questi standard ci si può avvalere delle esperienze dell'Isfol, degli Ifts e dei fondi interprofessionali). 19 Si prenda ad esempio le criticità del sistema di debiti-crediti di Sirio oppure quelle relative alla applicazione della OM 87/2004.

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Solo se si riduce tutta l'offerta didattica al comun denominatore delle competenze si mettono in condizione i vari subsistemi di dialogare tra loro, di implementarsi, di predisporre segmenti comuni di percorso, di prevedere passaggi e passerelle, rientri e riconoscimenti di crediti, in una visione or-ganica e non frammentata come quella attuale.

La misurabilità delle competenze rende inoltre possibile la comparazio-ne tra le differenti offerte formative erogate sia da soggetti pubblici, sia da soggetti privati, e la valutazione dei risultati conseguiti da parte del sistema di valutazione nazionale. Innesca infine un circolo virtuoso e competitivo in grado di migliorare l’intera offerta formativa del sistema.

3. La costruzione dei curricoli : competenze tecnico-pro-fessionali e competenze chiave.

Nella costruzione dei curricoli, decisivo è il mix tra competenze di base, competenze tecnico professionali, competenze trasversali e competenze chiave.

Con quale criterio effettuare questo mix? A quale tipo di competenze dare priorità?

A nostro avviso, nei percorsi dell’obbligo il focus deve essere prevalen-temente sulle competenze di base, mentre nelle qualifiche e nei diplomi si deve puntare – ovviamente in modo non esclusivo – sulle competenze chia-ve e trasversali, su tutte l’imparare ad imparare ed il problem solving.

Infatti, quanto durano le competenze tecnico-professionali?“Esse vengono superate a ritmo incalzante, coinvolgendo qualsiasi posi-

zione lavorativa, e devono quindi essere rinfrescate in tutto il corso della vita. Si è calcolato ad esempio che una preparazione universitaria ha una durata di dieci anni, mentre le conoscenze specialistiche in ambito profes-sionale “invecchiano” dopo cinque anni, quelle tecnologiche dopo tre e quelle informatiche addirittura dopo un anno”10.

10 Oswald Lechner, Barbara Moroder, “ Le competenze chiave ...un trampolino verso il mondo del lavoro di domani”, Istituto di ricerca economica della Camera di Commercio di Bolzano, gennaio 2002.

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L’estrema obsolescenza di queste competenze, destinata ad accelerare sempre più, rende evidente che un curriculum scolastico che porti ad una qualifica o ad un diploma non può puntare nel dettaglio sulle competenze richieste dal mondo del lavoro al momento dell’ingresso nel percorso, per-ché il rischio che all’uscita non ci si ritrovi la realtà sperata è davvero ele-vato.

Si tratta di consegnare all’individuo delle competenze permanenti, stabi-li, non evanescenti, che vadano oltre le semplici abilità tecniche, e lo metta-no in grado si risolvere problemi, di auto aggiornarsi, di aprirsi al nuovo in autonomia e responsabilità11.

3.1 Disinteresse o prestazione?

Nelle varie visioni che intendono ispirare il sistema di istruzione e for-mazione, se ne segnalano due diametralmente opposte, ma che per una biz-zarra coincidenza paiono inficiate dal medesimo vizio di fondo : una conce-zione dell’istruzione avulsa dalla vita reale.

Ci riferiamo da una parte alla visione della cultura e della sua trasmis-sione come una forma di sapere puro, disinteressato, non inquinato da fina-lità pratiche o peggio ancora dalle leggi del mercato, dell’utile e del profit-to. Concezione che ci pare riconducibile al pregiudizio greco-romano di di-sprezzo per le arti e le tecniche operative, ed al primato del sapere teoretico e della conoscenza disinteressata, che ha attraversato la cultura europea ed è giunto fino a noi.

È una visione antica, ma che ha ancora, più o meno consciamente, molti adepti tra gli intellettuali, i docenti e gli uomini di cultura italiana.

Dall’altra invece assistiamo alla esaltazione delle competenze e della loro misurabilità in termini di prestazione. Essa è indubbiamente una con-seguenza della Rivoluzione industriale e dell’avvento del sistema capitali-sta come prevalente organizzazione del lavoro.

È una contrapposizione tra l’aristotelico puro amore per il sapere e il sa-pere utile, e come tutte le contrapposizioni genera estremismi.

11 Il 18 dicembre 2006, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno approvato una Raccomandazione ‘relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente’.

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Secondo quest’ultima visione pragmatico utilitaristica il “concetto di competenza nasce nell’ambito degli studi lavoristici e della pratica formati-va sul lavoro. Da una dimensione tecnicistico-professionale, si amplia a comprendere una dimensione procedurale dell’agire umano definibile come sapere/conoscenze in azione”12.

Secondo il nostro parere invece, la competenza nasce dalla natura ope-razionale dell’apprendimento, come gli studi di psicologia e di pedagogia hanno dimostrato13, e non dalla concessione ad una moda aziendalistica o da un primato dell’economia.

Tale concezione ci sembra molto sbagliata e pericolosa : sbagliata per-ché riduce il margine di specificità della scuola e della formazione, che come abbiamo detto è quello di abbracciare tutti gli aspetti della realtà, tut-ta la vita e non solo il lavoro e misconosce il ruolo critico di discontinuità che l’istruzione deve avere14; pericolosa perché conduce a derive parados-sali, a un atteggiamento nei confronti del sapere che impedisce di apprezza-re le elevate competenze innescate da insegnamenti non strettamente riferi-bili al mondo economico e produttivo.

3.2 Il modello-prestazione ed il caso del latino.

Un caso tipico è la prestazionalizzazione delle competenze. Nella matri-ce competenze/prestazioni-tipo15 si sostiene che la competenza equivale ad una prestazione, e che esiste un modello unico di processo, una identica struttura operativa dietro le più disparate prestazioni.

12 (Le parole chiave dell’Educazione degli Adulti nella prospettiva del Lifelong Learning di Aureliana Alberici Roma, 16 giugno 2005)13 Vedi sopra, capitolo 5, par. 2.314 L.B. Resnick, “Learning in School and Out”, Educational Researcher, 16/9 (1987), pp. 13-20 (tr. it. in C. Pontecorvo – A.M. Ajello – C. Zucchermaglio (a cura di), I contesti so-ciali dell’apprendimento, Milano, LED, 199515 Miur, Rete per la Qualità nella Scuola, Matrice competenze/prestazioni tipo, in www.requs.it.

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Sia che decidiamo di andare dal barbiere, sia che stendiamo una relazio-ne o realizziamo un pezzo al tornio, seguiamo sempre la stessa sequenza di operazioni, ovvero una prestazione : programmiamo le attività, definiamo gli obiettivi e i risultati attesi, attuiamo, controlliamo, gestiamo le informa-zioni, le risorse, le relazioni, noi stessi, risolviamo i problemi. È evidente come questo modello cerchi di forzare la realtà per far rientrare tutte le competenze nel concetto di prestazione; la forzatura è così evidente da mi-sconoscere quelle che non sono riducibili ad esso, lasciando in tal modo fuori dalla porta lo specifico dell’istruzione e della formazione, vorremmo dire la vita stessa.

Ad esempio è una prestazione «trovare un partner»: «fare un regalino» è una attività pianificata per raggiungere il risultato atteso. Innamorarsi? Non è contemplato, non rientra nel modello.

Si sacrifica alla sua universale applicabilità la bellezza dell’apprendere in modo disinteressato, e soprattutto si sacrificano le competenze più eleva-te che non rientrano nel modello.

Un esempio tipico è il caso del latino. Facciamo questo esempio anche a costo di sembrare fuori luogo, in una ricerca che ha per oggetto l’Eda, poi-ché la traduzione da una lingua classica è una delle palestre più efficaci per l’allenamento al problem solving, dunque per lo sviluppo di una di quelle competenze chiave che resistono all’obsolescenza dei saperi tecnico-pro-fessionali, e che quindi andrebbe perseguita più di altre.

Invece, nella applicazione del modello al latino, la casella della fase «ri-soluzione dei problemi» resta desolatamente vuota. Non vi è posto per competenze avulse dall’utilità pratica (utili all’azienda), quali la capacità di prendere una decisione su problemi complessi, la gestione contemporanea di più scenari in una logica abduttiva, oppure la metariflessione o la rifles-sione sui valori morali16. E pensare che queste stesse high skill sono al cen-tro del decision making di un professionista, di un manager, di chiunque abbia a che fare con la gestione di problemi complessi e non lineari.

16 Mangiavini M., Didattica e tecnologia delle lingue classiche, in P. Ardizzone, P.C. Rivoltella, Media e tecnologie per la didattica, Vita e Pensiero , 2008

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Invece l'abilità traduttiva abitua al controllo del linguaggio, al dominio della complessità; ad operare confronti con modelli linguistici e culturali diversi, a cogliere e a rispettare la diversità, quindi a riferire il pensiero al-trui senza deformarlo; rende consapevoli circa l'uso dei mezzi tecnici che consentono di manipolare il linguaggio e di persuadere. In particolare è ef-ficace difesa dai meccanismi occulti della persuasione pubblicitaria, giorna-listica e politica, in quanto ne potenzia la decodifica (media education).

La presunta universalità della matrice riconduce ad un identico algorit-mo operativo la risoluzione di un problema di meccanica quantistica e le operazioni quotidiane di evacuazione intestinale, ma si perde buona parte delle competenze più elevate, alcune competenze chiave e soprattutto lo specifico dell’istruzione.

3.3 Lo specifico della scuola.

Nella costruzione di un curriculum orientato al conseguimento di una qualifica o di un diploma è dunque opportuno dare rilievo non solo alle competenze tecnico-professionali, che sfociano in una precoce professiona-lizzazione destinata ad una rapida obsolescenza, ma soprattutto alle compe-tenze stabili e permanenti, che diano autonomia e che si possano re-investi-re (problem solving ed imparare ad imparare), ed alle otto competenze chiave indicate dall’Unione Europea, ovvero ad una concezione di compe-tenza che non veda l’uomo esclusivamente come lavoratore (prestazionaliz-zazione delle competenze), ma come cittadino (le competenze di cittadinan-za) e soprattutto come persona.

Particolare enfasi crediamo che debba essere data all’imparare ad impa-rare, quello che una volta si chiamava il metodo di studio, la competenza che è fornita di un plusvalore destinato ad auto accrescersi nel tempo in mi-sura esponenziale.17

Lo specifico della scuola, infine, ci sembra quello di “svolgere un parti-colare tipo di ‘lavoro intellettuale’, che consiste nel ritrarsi dal mondo quo-tidiano, al fine considerarlo e valutarlo, un lavoro intellettuale che resta

17 “The most important of these competences is the ability to learn -maintaining the curios-ity and the interest in new issues and skills -without which lifelong learning cannotexist” EU, Report from the Commission of 31 January 2001: The concrete future objectives of education systems.

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coinvolto con quel mondo, in quanto oggetto di riflessione e di ragiona-mento18”

Una scuola profondamente immersa nella realtà, ma che non coincide, non si esaurisce e non si appiattisce sulla realtà, e sappia guardarla con sen-so critico e distacco, in un ambiente protetto e guidato.

3.4 L’aspetto etico delle competenze.

Vi è infine un ultimo aspetto di cui tener conto, nella costruzione di un curriculum per l’Eda, che sfugge sia all’approccio riduzionistico aziendali-sta, sia a quello più globale, incentrato sulle competenze chiave : la centra-lità della persona umana e con essa la centralità dell’aspetto etico del suo agire.

Le competenze non si possono ridurre alla somma delle conoscenze e delle abilità acquisite. La competenza ha una dimensione etica e personale - psicologica da cui non si può prescindere. Ad esempio, l'attivazione, il trig-ger di un comportamento è fornito sia da tratti del carattere (volizione, am-bizione, impegno, costanza, autocontrollo), sia da doti morali (comprensio-ne e dedizione agli altri, autostima, solidarietà, disponibilità a lavorare in team).

Che se ne fa un’azienda di un tecnico competentissimo, ma indisponen-te, incapace di gioco di squadra e che perde la pazienza per un nonnulla? Che se ne fa una scuola di un insegnante enciclopedico ma incapace di em-patia, di comprensione e dedizione agli altri, di senso della solidarietà e di autocontrollo? Che se ne fa un distributore commerciale di un venditore bravissimo nel comunicare e persuadere i clienti, ma privo di ambizione, impegno e costanza?

18 L.B. Resnick, “Learning in School and Out”, Educational Researcher, 16/9 (1987), pp. 13-20 (tr. it. in C. Pontecorvo – A.M. Ajello – C. Zucchermaglio (a cura di), I contesti sociali dell’apprendimento, Milano, LED, 1995,pp. 61-83.

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Nei documenti dell’Unione Europea si intuisce che il trigger di una competenza è in ultima analisi un habitus, un insieme di qualità morali, eti-che, ma non si va oltre al riconoscimento che queste sono altre competenze, chiamate « personali » (la capacità di adattamento, la tolleranza nei con-fronti degli altri e delle autorità, il lavoro di gruppo, la capacità di risolvere problemi e di prendere rischi, l’indipendenza)19, quasi si avesse timore a ri-conoscerne la specificità etica, che pertiene alla sfera morale della persona.

In realtà, nella costruzione curricolare la stessa cittadinanza deve ruotare attorno alla realizzazione della persona, e non solo attorno alla funzionalità del curriculum ai bisogni del mondo del lavoro, o all’esercizio dei diritti ci-vili e politici.

L’orizzonte ultimo della cittadinanza crediamo che debba essere un re-cupero della humanitas in senso ciceroniano, in cui le competenze chiave siano realizzabili solo attorno al concetto di responsabilità della persona : mediante lo sviluppo delle proprie potenzialità essa giunge alla realizzazio-ne di sé come uomo, e solo dopo, in quanto cittadino, mette se stessa al ser-vizio degli altri, nel lavoro, nell'impegno sociale e politico.

Questo concetto ci sembra particolarmente utile ad affrontare un tema che di solito nell’Eda viene sottovalutato, perché scarsamente funzionale alla concezione prestazionalistica delle competenze: l’invecchiamento atti-vo, in cui la fase della quiescenza non sia vista come un lento spegnersi e declinare, ma venga affrontata con le competenze necessarie a ritrovare in-teresse, motivazione e senso dell’esistere20, e non releghi ai margini della vita sociale i nostri pensionati, ormai “vecchi arnesi che non servono più”.

4. Una best practice.

19 Commissione delle Comunità europee, Relazione della Commissione. Gli obiettivi futuri e concreti dei sistemi di istruzione, Bruxelles, 31.01.2001, COM(2001) 59 final , punto 20 : «personal competences (such as adaptability, tolerance of others and of authority, team work, problem solving and risk taking, independence»20 Schema di disegno di legge concernente "NORME IN MATERIA DI APPRENDIMENTO PERMANENTE, Art. 8, 21 dicembre 2007

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Durante il quadriennio 2004-2008, in provincia di Milano, i Poli territo-

riali Eda sono stati impegnati in attività di progettazione finalizzate a speri-mentare nuove soluzioni curricolari ed organizzative, in vista della costitu-zione dei CPIA21. Diamo a puro scopo esemplificativo due attività modulari che sintetizzano in qualche modo quanto sin qui affermato : la forte critica alla prestazionalizzazione del concetto di competenza e la formazione spe-cifica degli insegnanti Eda.

1. La prima attività modulare riguarda le competenze di base di lingua italiana L1 : essa recupera dalla finestra quell'analisi testuale ed extratestua-le che uccide la bellezza del testo poetico con figure retoriche e metriche, con parafrasi banalizzatrici nemiche dell'arte, con racconti piagnucolosi di biografie straordinarie e improbabili. Attraverso il medium tecnologico essa raggiunge le competenze disciplinari e di cittadinanza. Essa parte da una traduzione intersemiotica (dal linguaggio della poesia al linguaggio multimediale) che stimola fortemente l'apprendimento emotivo; consente lo sviluppo di una competenza chiave quale quella espressivo-creativa; svi-luppa tutte le abilità relative alla comunicazione (parlare, scrivere, ascolta-re, leggere) ; promuove una riflessione metacognitiva e arriva all'analisi at-traverso la riflessione , la discussione, il superamento di teorie ingenue; fa appropriare della poesia con lo stupore e il senso del bello (ed è una compe-tenza che supera il concetto di prestazione, pur comprendendola).

In sintesi attua quell'apprendimento costruttivistico, collaborativo e si-tuato avvalendosi pienamente del medium tecnologico.

L'attività è regolarmente attuata da almeno tre anni nelle scuole di Lom-bardia (non solo Eda) del biennio superiore, con risultati molto positivi, ed è stata oggetto di un percorso di formazione a docenti di tutta Italia, me-diante la piattaforma Indire di For22.

2. La seconda attività muove dallo sviluppo delle capacità di ricerca in rete di dati quantitativi e mira ad educare alla loro rappresentazione grafica, alla loro interpretazione ed alla produzione di un report scritto.

21 Miur, Decreto Ministeriale 25 ottobre 2007. 22 Per una visione completa dell'attività, si rimanda a M. Bettoni, M. Mangiavini, Videopoesia, ricostruire il testo poetico, in www.indire.it , "For" (2008) . Per una visione delle videopoesia realizzate dagli studenti : www.youtube.com/07videopoesia

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Tab. 1 – Attività modulare di Italiano L1 : La Videopoesia

Titolo Competenza

UD1 La videopoesia (ORE 8) Saper elaborare un prodotto multimediale su un testo poetico scelto, traducendo il linguaggio testuale in scritto-iconico-fonico ed utilizzando le tecnologie digitali in modo creativo ed espressivo

UD2 La riflessione sui testi: che cosa è una poesia? (ORE 10)

Saper cogliere gli i caratteri specifici di un testo poetico, comprendendone il contenuto globale e riconoscendo semplici elementi fonico-ritmici.

UD3 Dal contenuto al tema (ORE 6) Saper leggere ed apprezzare un testo poetico,cogliendone le tematiche .Acquisire consapevolezza di riflessione linguistica.

fasi abilità conoscenze strategie strumentiU.D. 1

Azione didattica: scelta e condivisione di testi poetici ‘800 - ‘900

Aula Pc; risorse della rete

1. Movie maker

Utilizzare Moviemaker

Didattica laboratorialeAddestramento mediante tutorial

Aula PC -Software Moviemaker

2 Ricerca di immagini

Saper effettuare una ricerca di immagini in rete

Motori e siti per immagini

Esplorazione guidata in rete;didattica laboratoriale

Aula Pc; risorse della rete

3. Pubblicaz.

Salvare e pubblicare una VP

Salvare e pubblicare

Esercitazione guidata Didattica laboratoriale

Aula pc M. Maker

Fonte: Progetto CPIA “Ulisse, riprendere il viaggio”, Polo Legnano-Rho-Magenta, A.S.2007/8 autore : M. Mangiavini

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Tab. 2 – Attività modulare di Scienze umane e storia : Il sottosviluppo

Titolo Competenza

Competenza : Saper produrre dei report quantitativi e discorsivi su un dato argomento che dimostrino la conoscenza del problema e la capacità di interpretarlo, mediante la ricerca in rete di informazioni ed approfondimenti - Accertamento delle competenze : in itinere - 18 ore

fasi abilità conoscenze strategie strumenti

1 La ricerca in rete (6 ore)

raccogliere ed organizzare le info di base sul s. sviluppo emerse dal brainstorming

ricostruire una prima info sul Sottosviluppo

la ricerca in rete mediante motori di ricerca, la selezione delle fonti (siti sul sottosviluppo).Gli indicatori quantitativi

la percentuale. Grafici a torta, curve ed istogrammi

Brainstorming

Attività laboratoriale guidata

Tutoring personalizz. coppie d’aiuto

Lab pc, rete, Word, Google, Wikipedia, www.undp.org,

2 L'uso e l'interpretazione delle fonti (6 ore)

usare e leggere un indicatore demografico

distinguere un paese s.sviluppato con gli indici

gli indicatori economici, quelli demografico-sanitari, quelli educativi, l’HDI

www.undp.org www.indexmundi.com

Lez. frontale. Problem solving. Case study

Project working

Lab pc, rete, Word, Google, Wikipedia

3 Produzione di un testo articolato in paragrafi con tabelle e grafici (6 ore)

produrre con excel e word un report interpretativo con grafici e tabelle

le cause del sottosviluppo : storiche, economiche, geografiche etc.la geografia del sottosviluppo

Attività laboratoriale assistita

Pc, rete, videolezioni, word, excel

Fonte: Progetto CPIA “Ulisse, riprendere il viaggio”, Polo Legnano-Rho-Magenta, A.S.2007/8

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5. L’offerta organizzativa: il domino delle responsabilità. Chi deve provvedere alla definizione degli standard? Chi alla costruzio-

ne dei curricoli? Chi alla certificazione delle competenze?Secondo la nostra Costituzione le norme generali sull’istruzione sono

materia di legislazione esclusiva dello Stato, mentre sono “materia di legi-slazione concorrente quelle relative alla […] istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della forma-zione professionale”23.

I principi costituzionali in questione, in merito alle responsabilità di ge-stione del sistema scolastico, sono due : quello di concorrenza tra Stato ed enti locali (Regioni, Province, Comuni e Comunità montane) e quello di sussidiarietà.

5.1 Il concorso di competenza

L’articolo 117 della Costituzione attribuisce alle funzioni esclusive dello Stato la fissazione delle norme generali sull’istruzione (lettera n), i cui li-velli essenziali devono essere determinati e garantiti sull’intero territorio nazionale dallo Stato. Le Regioni, dunque, hanno tre confini, nella loro au-tonomia sull’istruzione: uno superione, la competenza esclusiva dello stato sulle norme generali, e due inferiori, l’autonomia riconosciuta dalla Costi-tuzione e dalla legge alle istituzioni scolastiche e il concorso di competenza degli enti locali (Province e Comuni).

Nell'accordo stato-regioni del 2000 si legge che «la pianificazione e la programmazione dell’offerta formativa integrata rivolta agli adulti rientra-no nelle competenze delle Regioni, cui esse assolvono secondo quanto pre-visto dagli ordinamenti regionali».

Più sotto, la Provincia «concorre con la Regione alla definizione delle scelte di programmazione in tema di educazione degli adulti», e quindi an-che «i Comuni e le comunità montane concorrono con la Regione e la Pro-vincia alla definizione delle scelte di programmazione in tema di educazio-ne degli adulti24».

23 Costituzione della Repubblica Italiana, art. 11724 Presidenza del Consiglio dei Ministri, Conferenza unificata (ex art. 8 del D.Lgs 28 agosto 1997, n. 281), Seduta del 2 marzo 2000, Repertorio Atti n. 223 del 2 marzo 2000, 7.4.

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Questa impostazione ci pare ingeneri confusioni di ruoli, sovrapposizio-ni di funzioni, conflitti di competenze e problemi di coordinamento tra li-velli di governo. Chi fa che cosa?

Facciamo due esempi : le Regioni, oltre che della istruzione professio-nale, si occupano della gestione dell’intera rete scolastica, mentre gli altri enti locali sono responsabili della manutenzione degli edifici. Tale frantu-mazione nell’attribuzione della responsabilità determina almeno due effetti negativi : il free-riding tra i governi locali ed i conflitti purtroppo ancora ideologici tra amministrazioni con differente orientamento politico. Le Re-gioni infatti non sono stimolate a razionalizzare la rete scolastica, in quanto non ne gestiscono i costi di manutenzione; né i comuni ad eliminare un plesso inefficiente, perché gli eventuali risparmi in termini di personale do-cente e Ata affluirebbero allo Stato centrale e non agli enti territoriali.

Un altro esempio : nella scuola media abbiamo poco più di dieci alunni per docente, contro i 14,6 della media Ocse. Il Quaderno bianco sulla scuo-la attribuisce alle inefficienze della rete scolastica circa un terzo di tale ec-cesso, stima confermata anche dal più recente rapporto della Commissione tecnica sulla finanza pubblica25. Una razionalizzazione nelle procedure di attribuzione delle competenze di gestione della rete produrrebbe da sola un risparmio ed un miglioramento dell’offerta complessiva.26

Il meccanismo del concorso di competenza ci pare la strada più sicura per ingenerare il classico scaricabarile in cui tutti concorrono e nessuno fa.

Peraltro, una ridefinizione forte delle competenze regionali sull’istruzio-ne va nella direzione di una applicazione del Titolo V della Costituzione, di recente riformato, che attribuisce alle regioni una forte autonomia. Ci pare che vada in questa direzione il disegno di legge delega in attuazione dell’ar-ticolo 119 27, che attribuisce alle Regioni una forte autonomia in materia scolastica, al pari di sanità ed assistenza, e quindi anche sull’Eda.

25 Commissione tecnica per la Conferenza stampa di presentazione del Rapporto intermedio 13 dicembre 2007 .26 Il concorso di responsabilità è di derivazione napoleonica, e la strutturazione centralizzata della scuola italiana ne è un portato evidente. Anche il sistema di certificazione degli apprendimenti, in Francia, si basa sulla suddivisione di responsabilità tra il Ministero dell'Educazione Nazionale ed il Ministero del Lavoro.

27 Schema di disegno di legge “ Attuazione dell’articolo 119 della Costituzione : delega al governo in materia di federalismo fiscale”

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Dunque, la definizione dei curricoli dovrebbe essere una chiara preroga-tiva regionale, anzitutto per il disposto dell’art.138 del d.lgs.112 del 1998, che conferisce alle Regioni la competenza in merito all'Eda, ed in secondo luogo per l'esperienza accumulata dalle stesse in tema di definizione degli standard formativi minimi (SFM) della formazione professionale, in parti-colare con la declinazione degli Osa relativi ai percorsi sperimentali di istruzione e formazione professionale (regione Lombardia) prevista dalla Conferenza unificata Stato-Regioni del 19 giugno 2003.

5.2 L’offerta formativa locale

La declinazione a livello locale e la costruzione effettiva dei percorsi, il loro adeguamento alla realtà del tessuto produttivo ed occupazionale del territorio sono un compito chiave.

Essa dovrebbe consistere in un'offerta formativa specifica per quel terri-torio, che sia in grado di soddisfare puntualmente, celermente ed efficace-mente la domanda di competenze che viene dal sistema economico e pro-duttivo e dai cittadini, coordinandosi con i centri di servizi per l’impiego ed agevolando il collegamento col mondo del lavoro. Ci pare il ruolo dei Co-mitati locali per l'Eda, che dopo l'istituzione dei CPIA dovrebbero avere medesima giurisdizione territoriale dei Centri provinciali. Fatte salve le specifiche competenze, i soggetti che dovrebbero far parte di questi Comi-tati locali sono stati individuati dall'Accordo del 2000 :

a) il sistema di istruzione; b) il sistema regionale della formazione professionale; c) il sistema dei servizi per l’impiego; d) le reti civiche delle iniziative per l’educazione degli adulti e) le infrastrutture culturali (biblioteche di EE.LL., musei, teatri...); f) le imprese; g) le associazioni (culturali, del volontariato sociale, del tempo libero,

delle famiglie, ecc.); h) le università; i) i Comuni del territorio interessato.

5.3 La certificazione delle competenze

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La criticità emerge indubbiamente nel momento di predisporre le moda-lità di certificazione delle competenze acquisite, che deve comunque essere attuata localmente in base a procedure di assessment definite in modo uni-forme sul territorio nazionale, per garantire equità ed uniformità (Comitato Nazionale per l'Eda), insieme alle procedure per la certificazione dell'ap-prendimento informale e formale.28

Come evitare che ad identiche certificazioni corrispondano differenti li-velli di attendibilità nel reale possesso delle competenze dichiarate?

Il principio deve essere che chi eroga il percorso di formazione deve es-sere distinto da chi ne certifica i risultati.

Se prendiamo come riferimento il sistema inglese, il più attento alla re-sponsabilità, gli Awarding Body dettagliano le conoscenze e le abilità ri-chieste da un determinato standard professionale e definiscono i metodi di valutazione, certificano le scuole (i futuri CPIA) e svolgono verifiche ester-ne (audit) per garantire che i candidati siano equamente e correttamente esaminati. A loro volta gli Awarding Body rispondono al QCA (Qualifica-tions and Curriculum Authorithy) e ne vengono accreditati29.

Si crea in tal modo un circolo virtuoso di responsabilizzazione in cui, come in un domino, la responsabilità di ogni istituzione è condizione del funzionamento delle altre, e l'equilibrio complessivo garantisce la qualità dei risultati raggiunti. Dal 1987, anno di introduzione del NQVs al 30 giu-gno del 2006, sono state rilasciate oltre 5 milioni di certificazioni, con un innegabile beneficio per il sistema produttivo britannico. Tale forte respon-sabilizzazione è anche del lavoratore che richiede la certificazione30.

Responsabilità e competitività emergono dunque :

28 artt. 3-4 DDL 21 dicembre 200729 nella guida dell'Awarding Body Edexcel si sottolinea anche che i materiali utilizzati per le verifiche durante la formazione devono rimanere distinti dalle prove d'esame che certificano il possesso di una competenza30 La competenza può essere misurata sul luogo di lavoro mediante l'osservazione diretta del lavoratore nelle sue attività quotidiane, oppure in contesti simulati, e si può avvalere anche di testimonianze dirette di colleghi e dirigenti, escludendo in tal modo gli esami, peculiarità prevista anche nell'OM 87/2004.

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1. nella struttura a domino del sistema di definizione/certificazione degli standard di competenza, nella quale ciascun soggetto istituzionale si assu-me la propria responsabilità, senza sovrapposizioni di ruoli e fuorvianti meccanismi di concorso che creano conflitti, problemi di coordinamento, spreco di risorse ed inceppano il sistema.

2. nella attribuzione di una piena responsabilità a tutti i soggetti coinvol-ti, dagli enti locali (Regione, Provincia, Comune), alle autonomie scolasti-che, infine al formatore ed allo studente.

Infatti il principio di responsabilità funge da ordinatore e regolatore a due condizioni :

1) se ne è certa ed univoca l'attribuzione ad un soggetto preciso 2) se esiste un efficiente meccanismo sanzionatorio per le inadempienze.

5.4 L' E-portfolio Le competenze certificate danno luogo a dei crediti formativi, spendibili

per il passaggio ad ordini diversi di formazione : un credito capitalizzabile. Abbiamo detto che ogni competenza deve costituire un credito capitalizza-bile; il termine credito è attinto dal linguaggio finanziario e suppone la esi-gibilità. Se non è esigibile, più che un credito è una speranza. L'unico modo per renderlo esigibile è renderlo liquido, cioè scambiabile; per essere scam-biabile deve essere facilmente accessibile alla domanda e quanto più possi-bile trasparente.

A ciò soccorre il "Libretto formativo del cittadino", il corrispondente di Europass europeo31 sintesi delle competenze acquisite nel corso della vita, che viene gestito e rilasciato a cura delle Regioni e Province Autonome nel-l'ambito delle loro esclusive competenze in materia di formazione profes-sionale e certificazione delle competenze.

31 Europass, Decisione n. 2241/2004/CE. Decr. Interministeriale del 10 ottobre 2005 : “Il Libretto Formativo del cittadino è uno strumento pensato per raccogliere, sintetizzare e documentare le diverse esperienze di apprendimento dei cittadini lavoratori nonché le competenze da essi comunque acquisite: nella scuola, nella formazione, nel lavoro, nella vita quotidiana. Ciò al fine di migliorare la leggibilità e la spendibilità delle competenze e l'occupabilità delle persone”.

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Molto più funzionale alla responsabilizzazione ci sembra l'idea di far convergere le evidenze delle certificazioni acquisite, le verifiche effettuate durante il proprio percorso di apprendimento, i progetti realizzati in un portfolio elettronico che si costruisce nel tempo, col quale il lavoratore po-trà, definendo la propria identità digitale, affiancare al proprio curriculum vitae un album potenzialmente infinito delle proprie competenze, del pro-prio profilo, consultabile dal datore di lavoro che fosse intenzionato ad as-sumerlo32.

Ci si potrebbe chiedere se l'e-portfolio debba essere gestito e controllato dall'istituzione (che dovrebbe essere l'agenzia per il lavoro o l'ente di for-mazione, oppure il Comitato locale per l'Eda, di cui entrambe fanno parte), oppure liberamente gestito dal lavoratore, all'interno di un ambiente istitu-zionale on line . Secondo noi è questa seconda strada da perseguire, non tanto perchè la logica del controllo totale sui materiali inseriti sarebbe one-rosa da sostenere, quanto perchè, proprio come nella presentazione del cur-riculum, ciascuno deve rispondere personalmente delle competenze che di-chiara di possedere; ed in questo caso le evidenze pubblicate sono sotto gli occhi di tutti : ciascuno deve assumersi la responsabilità di quelle che inse-risce o che millanta.

Da ultimo, relativamente alla scuola superiore ed alla costruzione di per-corsi modulari, gli strumenti giuridici, allo stato dell'arte, per riconoscere il passaggio da una classe all'altra sono gli esami idoneità/integrazione e, li-mitatamente ai passaggi dalla formazione all'istruzione, gli accertamenti previsti dalla OM 87. Sarebbe del tutto inutile sottoporre gli studenti ad un esame di idoneità alla classe successiva per regolarizzarne il curriculum, in quanto ogni modulo superato è già stato certificato e la competenza dimo-strata.

Dunque l'esame, senza una finalità selettiva, potrebbe risolversi in una riflessione sulle evidenze inserite nel proprio e-portfolio, mediante un ap-proccio critico e migliorativo dello stesso. L'utilizzo di questo strumento nei paesi anglosassoni per la metariflessione sui propri percorsi è molto dif-fuso, e le possibilità offerte dalla metataggatura e dalla rete (CMS e social network) sono davvero notevoli.

32 “Ora l'immagine più adatta è forse quella del lavoratore "a portfolio" che porta con sé l'album delle sue capacità, atteggiamenti, esperienze, motivazioni e con questo negozia continuamente il valore economico di sé stesso, perché in fondo è di questo che si tratta”, in Adriano De Vita (2002), La certificazione delle competenze nelle PMI, Franco Angeli Milano.

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L'e-portfolio dunque, per : la identità digitale, la metariflessione sui pro-pri processi di apprendimento, la certificazione delle competenze, l'occupa-zione.

5.5 La responsabilità del docente e dello studente.

Vediamo ora le ricadute nel segmento terminale della filiera formativa : studente e formatore.

In primo luogo la competenza richiama lo studente ad una forte respon-sabilità sul proprio percorso, costringendolo a superare la semplice motiva-zione legata al "pezzo di carta" per una che ruoti attorno all'apprendimento.

In secondo luogo il percorso di rientro in formazione deve essere orien-tato e monitorato, ma soprattutto negoziato e condiviso con i formatori me-diante un bilan dès competènces33. Lo studente deve farsi carico del piano personale di qualificazione che sottoscrive, deve diventare pienamente con-sapevole del deficit di conoscenza da saldare, accertare il proprio personale bilancio di competenze, firmare infine un patto di corresponsabilità con l'i-stituzione che lo coinvolga in prima persona.

Infine, la caratteristica più spiccata del sistema britannico è la opzionali-tà di parte del percorso modulare, a testimoniare che il coinvolgimento e la responsabilizzazione dell’adulto nella negoziazione del percorso di appren-dimento non si limitano alla fase di accoglienza e di orientamento/tutorag-gio, ma penetrano nella struttura curricolare, rispettando attitudini, prefe-renze, stili cognitivi della persona a parità di competenza da conseguire. In-somma, una personalizzazione dei contenuti, oltre che dei ritmi di appren-dimento.

In questo contesto, la liberalizzazione totale della frequenza costituisce un semplice corollario.

Il ruolo di formatore Eda è il perno del sistema, nonostante il suo posi-

zionamento terminale.

33 L’espressione “bilancio delle competenze” deriva dal sistema Eda francese.

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Le competenze che l’allievo deve raggiungere richiamano una nuova professionalità docente, che come detto ponga al centro l'apprendimento degli studenti piuttosto che i contenuti da erogare : la responsabilità sul proprio lavoro non sta nella quota di programma ministeriale riversata, ma nella quota di competenze effettivamente acquisita dall'allievo.

Questa impostazione richiede una revisione delle metodologie di inse-gnamento che si fondi sulla natura attiva, costruttiva, cooperativa, comuni-cativa e situata dell'apprendimento mediante il medium delle Tic34.

A questo revisione, di per sè considerevole, si aggiungano le implicazio-ni che derivano dalla specificità Eda.

Nelle attività didattiche di cui sopra (Tabb. 1 e 2), è sottesa la consape-volezza dei paradigmi di apprendimento e delle conseguenti strategie, la padronanza del medium tecnologico (web 1, 2 ed applicativi) e dei metodi di ricerca in rete. A ciò si aggiunga una discreta conoscenza della lingua in-glese, fondamentale per la navigazione e la ricerca di soluzioni didattiche e tecnologiche. Ne emerge un quadro di professionalità ben descritto dal Fra-mework europeo35.

Il problema è : come motivare gli insegnanti a tanti e tali cambiamenti? Il nostro corpo docente è tra i più vecchi d'Europa (il 90% ha più di 40

anni, contro il 64% della media OCSE), mentre i docenti giovanissimi sono l'1% contro il 18% della media OCSE, a causa dei nostri percorsi di forma-zione e di reclutamento del tutto inadeguati.

Da studi effettuati risulta che nel settore del pubblico impiego gli inse-gnanti hanno la incidenza massima di depressione e burn out nonostante il numero medio di allievi per classe sia ottimo (10,2), contro i 14,6 della me-dia OCSE, e quindi li ponga in condizioni ottimali per lavorare.

I risultati sono invece deludenti, perché i ripetenti delle scuole superiori sono il quadruplo della media Ocse: l'8,8 per cento, contro una media del 2 per cento.

34 V. sopra, capp. 5 e 6.35 : A Common European Framework for Teachers’ Professional Profile in ICT for Education, Edizioni Menabò Didattica, Roma 2005.

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La realtà Eda, in particolare, ha altre due criticità : l'abbondanza di pre-cari, attorno al 50%, sia nei CTP che nei serali36 e l'abbondante numero di professionisti, che spesso destinano all'insegnamento le quote residuali del loro impegno professionale.

In tutta la normativa sull'Eda si sottolinea la necessità, da tempo, di un sostanzioso intervento sulla formazione dei docenti Eda.

Se l'età media e la demotivazione professionale sono reali, ne consegue a nostro avviso che l'idea di intervenire con corsi di formazione /riqualifica-zione/aggiornamento non è la strada migliore.

Nel prossimo decennio il turn over dei docenti sarà notevole ed il legi-slatore dovrebbe puntare decisamente sulla formazione e sul reclutamento delle nuove leve piuttosto che sulla riqualificazione di coloro che non sen-tono la necessità di riqualificarsi.

Le nuove leve.

Anzitutto è necessario prevedere, per tutti i percorsi di laurea che danno accesso alla professione docente, delle conoscenze pedagogiche e di meto-dologia didattica. Quindi è necessario superare la logica di procedure con-corsuali basate sull'accertamento delle conoscenze, ed istituire invece scuo-le di formazione all'insegnamento in cui il tirocinio sia centrale. In questo senso la sospensione dell'attività delle SSIS va nella direzione diametral-mente opposta : nelle SSIS per la prima volta riflessione didattica e tiroci-nio venivano coniugati.

Per le nuove leve il possesso dell'ECDL dovrebbe essere obbligatorio, insieme ad un percorso di formazione sull'utilizzo didattico delle Tic37

36 A. Tropea (2008), “Presentazione dati monitoraggio USR sull’Eda 2006/7”, in “Il futuro dell’Eda 10 anni dopo Sirio, Milano, 14 gennaio 2008.

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I docenti in servizio.

L’azione sui docenti in servizio dovrebbe prevedere significativi incenti-vi finanziari per chi "tira la carretta" (premi al merito, per esempio a chi consegue l'ecdl) ed un meccanismo che incentivi e riconosca l'impegno; per chi svolge contemporaneamente la libera professione appare più indica-ta la via dei contratti d'opera, che solleciterebbe l'emersione di chi è moti-vato in modo esclusivo alla professione docente. Il formatore deve essere valutato in base ai risultati che mediamente i suoi allievi raggiungono. Una programmazione modulare per competenze del proprio piano di lavoro mette in condizione il docente di impegnarsi non su quello che lui farà, ma sui risultati che i suoi allievi conseguiranno: un passaggio fondamentale. Anche qui, la fine del ruolo permanente del docente a favore di contratti tri-quinquennali con valutazione finale, e possibilità di rinegoziare il proprio contratto, ci pare un corollario.

6. La centralità della domanda.

È tempo di tirare le somme.Paolino è rientrato in formazione : non sappiamo se la sua sia una storia

di successo o se si è disperso per una seconda volta, come capita a molti de-gli iscritti di una scuola serale.

Di sicuro sappiamo che non ha trovato vita facile, ma un sistema ineffi-ciente (pieno di criticità ed incongruenze) ed inefficace (fornisce una prepa-razione di scarsa qualità).

Invece, abbiamo mostrato come la costruzione di un domino di respon-sabilità dei soggetti Eda (dallo Stato centrale, alle Regioni, ai Comitati lo-cali, al docente fino allo studente) attorno alle competenze sia la via per guadagnare l’efficienza del sistema, ovvero la sua funzionalità interna.

Ma è sufficiente a garantirne l’efficacia, ovvero la preparazione in usci-ta dei nostri giovani?

6.1 La qualità del prodotto educativo

37 Il modello di formazione on line più idoneo appare quello di For, cioè un modello interattivo, dialogico e cooperativo.

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Stando all’annuale rapporto Ocse38, «l'Italia per numero di diplomati si colloca al venticinquesimo posto (su trenta) superata dalla Polonia, dalla re-pubblica Slovacca e da quella Ceca. Ma siamo sorpassati anche dalla Co-rea, dal Cile e dal Perù 39». Abbiamo 44 diplomati su 100 abitanti contro i 66 della media Ocse e gli 88 degli Usa, esattamente la metà, un gap da ter-zo mondo.

Se poi guardiamo al numero dei diplomati che a tre anni dal diploma hanno un posto di lavoro, il dato è sorprendente : nel 2004 solo il 47% la-vorava, meno della metà40, ed il dato è in calo dal 2001.

Come dire : molti diplomati non riescono ad essere assorbiti dal mercato del lavoro, eppure sono pochi.

Delle due l’una : o il nostro sistema economico è arretrato, e non è in grado di assorbire profili qualificati (la domanda è superiore all’offerta), oppure i diplomati sono nominalmente qualificati, ma il loro è solo un pez-zo di carta, e il mercato non li vuole.

E siccome la prima ipotesi è da scartare (abbiamo troppo pochi diploma-ti, non troppi!), non resta che porci il problema del pezzo di carta. Perché è solo un pezzo di carta?

6.2 La competitività del sistema Italia e del sub-sistema istruzione.

Nell’economia pianificata sovietica, i negozi erano pieni di prodotti elet-tronici che nessuno voleva. Non che le case abbondassero di tv, hi-fi etc., ma la qualità dell’offerta era così bassa da deprimere la domanda.

E la qualità era bassa perché mancava il meccanismo regolatore della domanda-offerta, che seleziona i migliori prodotti al prezzo più competiti-vo. Le aziende statali producevano televisori secondo una pianificazione centralizzata ed in regime monopolistico.

38 Ocse, "Uno sguardo all'Educazione", 2005.39 Salvo Intravaia, in “Pochi diplomati e laureati, allarme Ocse per l'Italia”, in “Repubblica”, 5 gennaio 200640 Istat, I diplomati e il lavoro, Roma, 13 settembre 2006. Del restante 53%, il 34% è iscritto all’università, il 19% risulta non occupato.

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Nel nostro Paese il tema della competitività è al centro del dibattito poli-tico ed economico, e tutti sono concordi nell’affermare che essa non è solo una questione di costo del lavoro, ma soprattutto di formazione e di ricerca.

Le macrotrasformazioni economiche, tecnologiche e sociali del nostro pianeta nell'ultimo ventennio hanno innescato nei sistemi produttivi un pro-cesso di mutazioni strutturali, di dislocazione di attività industriali verso paesi emergenti, di riorganizzazione interna all'insegna della efficientizza-zione, di taglio dei costi. La globalizzazione dei mercati, la mancanza del-l'ombrello protettivo della Lira e delle sue periodiche svalutazioni hanno messo le aziende del nostro Paese di fronte al dilemma : trasformati o soc-combi.

L'offerta si è quindi riorganizzata riducendo i costi di produzione, flessi-bilizzando le dinamiche occupazionali, realizzando mergers ed acquisi-tions, adattandosi al nuovo.

La scuola italiana invece, e l’Eda – figlia di un dio minore – no : a fron-te di tali trasformazioni è rimasta sostanzialmente immobile, per incapacità politica ma soprattutto, crediamo, perchè in essa l'offerta di istruzione e formazione non è se non in minima parte orientata dalla domanda. Infatti :

– l’offerta è decisa e pianificata centralmente invece che essere sensibile alla domanda del territorio.

– non esiste un mercato della formazione ma le istituzioni scolastiche operano in regime monopolistico : non si fanno concorrenza tra loro, nono-stante la autonomia riconosciuta ad ogni singolo istituto41 postuli come orizzonte la competizione dell’offerta formativa.

– se concorrenza v’è, essa è al ribasso, nel senso che gli istituti tendono ad abbassare il livello soglia del successo scolastico per garantirsi il mante-nimento del numero dei “clienti”42.

– tale concorrenza al ribasso è garantita dal valore legale del titolo di studio. Se tutti i diplomi sono equivalenti, è ovvio che la domanda si orienti verso le scuole più facili, che “costano” meno.

Laddove l’offerta è stata costretta a fare i conti con la domanda, cioè

41 Legge 15 marzo 1997 n. 5942 Le statistiche Ocse sono concorsi nell’indicare nel tempo una progressiva perdita di competitività del sistema scolastico italiano. Vedi Ocse, "Uno sguardo all'Educazione", 2005. E questo fenomeno rischia di acuirsi con i nuovi piani di dimensionamento del governo sugli istituti scolastici.

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con la realtà, ha dovuto adattarsi e migliorare, oppure ha dovuto soccombe-re43.

6.3 Competenza e competitività

Dunque la qualità della scuola è determinata dalla mancata concorrenza tra i soggetti formatori. E se non c’è competitività, è difficile che nasca la competenza. Questo legame è inscritto nell’etimo delle due parole e nella storia dell’Eda europea. Competenza e competitività derivano dal verbo la-tino "cum-petere", ovvero "convergere verso un medesimo punto, andare insieme in una medesima direzione".

Se più soggetti muovono contemporaneamente ed indipendentemente verso la medesima direzione, cercando di ottenere il medesimo obiettivo, si pongono in concorrenza tra loro : da ciò deriva l'idea di competizione, che ha la stessa radice di competenza. Mandare il proprio curriculum di compe-tenze ad un'azienda significa mettersi in competizione con altri nel mercato del lavoro.

Inoltre il termine competere ha una sfumatura giuridica, e nasce dalla territorialità del diritto : più precisamente le controversie giuridiche conver-gono, spettano al giudice competente, cioè al giudice che è legittimato ad esprimersi su una data questione perchè ne ha giurisdizione. Il quale ha fa-coltà di giudicare in una data materia poichè se ne intende, è "competente".

È pertanto evidente che, se ci affidiamo per la soluzione di un proble-ma a chi ne ha competenza, ne postuliamo la responsabilità delle soluzioni che ci propone, e delle quali deve quindi rispondere.

Il filo rosso che lega inscindibilmente responsabilità, competitività e competenza è confermato anche dalla recente storia delle grandi trasforma-zioni Eda attuate in Europa.

Infatti la prima grande risistemazione dei curricoli professionali attorno al concetto delle competenze è arrivata - non per caso - dal mondo anglo-sassone - che abbiamo visto essere portatore di una visione pragmatica ed operativa dell'apprendimento e del sapere, contrapposta alla visione teori-ca, umanistico-ciceroniana tipica della cultura latina.

43 Ci riferiamo al fenomeno conosciuto come la “fuga dei cervelli”.

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Negli anni '80 il governo di M. Thatcher dava vita al National Vocatio-nal Qualifications (NVQs), il primo grande sistema di ridefinizione dei cur-ricoli e delle qualifiche professionali. Il quadro all'interno del quale nasceva era a ben vedere molto simile a quello che si presenta oggi nel nostro paese :

– la mancanza di un chiaro sistema di servizi di orientamento per il cit-tadino ed il lavoratore che volesse (ri)entrare in un percorso di riqualifica-zione professionale

– barriere nell'accesso alle qualifiche e nelle modalità del trasferimento e riconoscimento dei crediti professionali

– prevalenza delle conoscenze sulle competenze, sia nei percorsi tradi-zionali , sia nei metodi di valutazione.

– mancanza di procedure per il riconoscimento dei crediti informali e non formali.

La finalità ultima era rilanciare la competitività del sistema britannico, e la strada che si scelse fu proprio quella di attribuire all'individuo ed alle istituzioni una grande responsabilità nella gestione e nella costruzio-ne dei percorsi di apprendimento.

6.4 Domanda ed offerta formativa : l’uomo vergine di bol-li.

Dunque, rilanciare l’Eda significa costruire un domino di responsabilità basato sulla competitività tra i soggetti che erogano formazione, pubblici o privati che siano, purchè in possesso dei requisiti prescritti, e riconosca alla persona la libertà di scegliere chi lo formerà meglio. È una soluzione che innescherebbe un meccanismo di competizione al rialzo – e non al ribasso, come avviene ora – tra i soggetti erogatori, e che farebbe piazza pulita di tutti i diplomifici – privati o pubblici – lasciando sul mercato chi garantisce qualità.

Naturalmente non si può certo pretendere che sia l’Educazione degli adulti a fare da apripista ad una trasformazione che deve riguardare invece tutta la scuola italiana.

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La Regione Lombardia si sta muovendo in questa direzione44 con il cri-terio della quota capitaria45, con l’introduzione della dote scuola, “che se-gna il passaggio dal principio dell’offerta a quello della domanda46” e con interessanti esperienze di dote assegnata agli adulti per attività di formazio-ne, specializzazione o riqualificazione, di cui si è parlato nella seconda par-te di questo stesso testo.

Tuttavia queste iniziative sono destinate a rimanere inefficaci se non si scardina il perno del sistema ad offerta garantita sul quale la scuola italiana si fonda : quel valore legale del pezzo di carta che equipara ope legis ciò che può essere certificato solo dal mercato del lavoro e dalla vita stessa : la reale competenza del lavoratore.

Ci piace terminare con una citazione da Luigi Einaudi, che si battè con-tro l’introduzione del valore legale del titolo di studio già nell’Assemblea costituente, convinto che esso fosse solo apparentemente uno strumento di democrazia e di egualitarismo, che in realtà introduceva profonde disugua-glianze tra il vero merito e la vera competenza.

“La verità essenziale qui affermata è: non avere il diploma per se mede-

simo alcun valore legale, non essere il suo possesso condizione necessaria

per conseguire pubblici e privati uffici, essere la classificazione dei candida-

ti in laureati, diplomati medi superiori, diplomati medi inferiori, diplomati

elementari e simiglianti indicativi di casta, propria di società decadenti ed

estranea alla verità ed alla realtà; ed essere perciò libero il datore di lavoro,

pubblico e privato, di preferire l'uomo vergine di bolli»47.

44 Cfr. sopra, parte seconda, 3.345 L.r. 19/2007 art. 28 c.1.46 d.g.r. 6114 del 12 dicembre 200747 Luigi Einaudi, Scuola e libertà, in Prediche inutili, Torino, Einaudi, 1959, p. 57.

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Epilogo. O prologo?

Che giornata schifosa! Meno male che stava finendo... Le quattro e tre quarti. Curva sulle ultime dichiarazioni Iva, Elena non vedeva

l'ora di indossare il cappotto, sistemarsi i capelli, stendersi un filo di rossetto, come faceva sempre all'ora di andare via e rituffarsi nel gomitolo di strade, nell'in-gorgo della sera; e poi finalmente a casa, a ristorar le pene di una giornata male-dettamente storta.

Le cinque meno cinque. Quell'errore sugli ammortamenti della Telmar s.r.l. non lo doveva fare. E' vero, il capo non le aveva detto niente, non l'aveva rimpro-verata come si sarebbe meritata. Era un buon diavolo, un amico di famiglia, e poi i bilanci li rivedeva sempre lui, con una cura dalla quale non sarebbe sfuggito neanche un cent. Le cinque e dieci. L'aveva guardata però con un'aria di commi-serazione, di sufficienza, per la serie sei una buona a nulla, ti tengo qua perchè sei la figlia di un mio caro amico, e niente più. O almeno, così le era sembrato. E questo la Ely non poteva sopportarlo. Le cinque e trentacinque, il tempo non pas-sava e gli occhi davanti a windows le bruciavano.

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E poi le sue colleghe, tutte ragioniere diplomate, tutte sapute, mentre lei si era fermata in seconda e non ne aveva voluto sapere di studiare; meglio uno sti-pendio sicuro, si era detta, meglio godere subito le piccole grandi gioie della gio-ventù con i ragazzi e con le amiche. Le cinque e cinquanta, le cinque e cinquanta-cinque, quella dannata lancetta, perchè non si muoveva? Ecco, le sue colleghe, con quegli sguardi maliziosi, quei silenzi imbarazzanti. Umiliazione, rabbia...le sei e un quarto, le sei e venti, non vedeva l'ora di precipitarsi a casa, chiudersi in ca-mera, mettere su Vasco e pensare, pensare e piangere, versare calde lacrime, li-berarsi di tutta quella rabbia orgogliosa che le mordeva dentro, chissà da dove ve-niva, chissà da dove...Alle sei e trenta se n'erano andati tutti, e la Ely era rimasta sola coi suoi pensieri; si era alzata dalla scrivania, aveva chiuse tutte le imposte, spento i pc, aveva preso il cappotto, le chiavi ed era uscita. – In fondo il capo si fida di me, se mi lascia l'intero studio da chiudere. –

– Si fida, certo, per girare la chiave – obiettava a sè stessa infilandola nella toppa e ruotandola con un accanimento ostinato e rabbioso. Lei in quello studio in fondo era solo l'ultima arrivata, la factotum, la fattorina per le operazioni banca-rie, diciamo pure la portinaia... Lentamente, mentre udiva scorrere l'ingranaggio oliato della serratura, cominciò ad accorgersi di una luce davanti a sè, prima sof-fusa, poi sempre più insistente, penetrante, nitida; quasi un faro nella fioca pe-nombra dell'androne dell'elegante palazzo liberty di Via Ariosto. Confusa, per un attimo vacillò. Alzò gli occhi e, per la prima volta, la vide. Grande, davanti a lei, nel mezzo della porta di palissandro, campeggiava la targa dorata. Una rivelazio-ne.

Rag. Paolo Chinnici - Rag. Cheng Hi ZhouStudio Commercialista Associato

Sbigottita folgorata sgomenta, aprì leggermente la bocca, inarcò le belle so-pracciglia, accennò un timido sorriso.

E per la prima volta, davvero per la prima volta dacché lavorava lì, desiderò con tutta l'anima che su quella targa dorata ci fosse anche il suo nome.

NdA. Gli estenuanti brainstorming con Marialetizia Mangiavini hanno reso possibile questo lavoro. A lei va un vivo e riconoscente ringraziamento.

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