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ELEONORA D’AURIA, Napoli e Venezia: vecchi ponti e nuovi nessi

Date post: 01-Mar-2023
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CIRICE 2014 - VI Convegno Internazionale di Studi

Città mediterranee in trasformazione. Identità e immagine del paesaggio urbano tra Sette e Novecento

Napoli e Venezia: vecchi ponti e nuovi nessi

ELEONORA D’AURIAUniversità Suor Orsola Benincasa, Napoli, Italia

AbstractThis essay wants to testify the way Naples and Venice represented themselves in the modern iconography. There are many links, in architectural and iconographical terms, between Naples and Venice: opened to the sea and, so to say, to the world. In the meantime these towns are very different. The present essay wants to clarify these differences; needless to say that is a work in progress. Eventually the goal is to make some reflections about the role of two cities in the history of the modern representation.

Parole chiaveNapoli, Venezia, mare, iconografia, pittura. Naples, Venice, sea, iconography, painting.

IntroduzioneIl presente lavoro, che appare subito, si vorrebbe dire per definizione, un work in progress, intende analizzare e valutare le modalità di codificazione attraverso cui alcune città bagnate dal mare - ossia, per meglio dire, dei “porti di mare” - intesero perseguire il raggiungimento di una visione consolidata all’interno d’una più ampia iconografia. La forte caratterizzazione visiva, peculiare degli aspetti geomorfologici, offrirà la possibilità di verificare le testimonianze e le interpretazioni forniteci, come si sa in gran copia, dai viaggiatori del ‘Grand Tour’ fino alle ultime propaggini del secondo ‘900. Si tratta, in ultima analisi, di un arco di circa due secoli e mezzo. La forbice cronologica così individuata consente di abbracciare con qualche veridicità le evoluzioni e le strategie visive legate al modo in cui quelle città si sono offerte allo sguardo. Il progetto mira a circostanziare le connessioni di natura architettonica, ambientale e iconografica di Napoli e Venezia in particolare modo. Nel contempo il lavoro proverà a portarne allo scoperto le ovvie, sostanziali difformità. Napoli e Venezia come approdi; ma anche porti aperti su mondi e destini differenti. L’esito finale mira a fornire qualche ulteriore contributo, o spunto di riflessione, sui ruoli diversi che le due capitali furono chiamate a incarnare, seppure con differente capacità di adattamento.

1. Napoli Utopica rappresentazione o reale riproduzione della città, la veduta ha da sempre coinvolto molteplici aspetti dell’impianto urbanistico. Gli obiettivi che si volevano raggiungere si resero evidenti all’indomani di un decisivo riordino dei principali intenti esplicativi che gli artisti prima e gli architetti poi, intesero manifestare con le riproduzioni iconografiche delle città. Il termine iconografia, da sempre ambito molto vasto di indagine e di studio, vede in Cesare Ripa uno dei massimi codificatori. In misura maggiore il modus operandi di Panofsky offre ampie possibilità di discussione in merito all’interpretazione dei manufatti in base alla lettura iconografica che se ne può dedurre. I molteplici aspetti che coinvolgono questa disciplina non lasciano ampi margini di discrezionalità estetica ad un ambito di lavoro che partendo da una finzione iconografica si colloca non più nell’empireo rappresentativo ma nel reale oggettivo. Le città che per secoli hanno traghettato la loro visibilità su canali preferenziali, quali Venezia o Napoli, ebbero come vantaggio quello di percorrere un’ondata in piena. Riuscirono nel tentativo di acquisire identità locale attraverso la diffusione di un’immagine che presto sarebbe diventata emblematica dell’intero aspetto topografico cittadino. Cosa permise la rapida ascesa di una procedura utilizzata con maggiore o minore fedeltà ottica, fu la certezza di possedere un mezzo che oscillasse tra riscontro reale del visivo e un margine di indeterminatezza intesa quasi come licenza creativa dell’autore stesso. Per secoli le rappresentazioni intesero produrre effetti di mimesi o riconoscibilità. Questo obiettivo appartenne ovviamente alla categoria ritrattistica ma anche e in vario modo, alle rappresentazioni urbanistiche. Le immagini delle vedute urbane catalizzarono a partire dal Quattrocento un interesse che era per lo più di carattere artistico. Solo successivamente la

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veduta venne identificata come mezzo classificatorio di determinate strutture organizzative, la cui attenta osservazione permise di ottenere una chiara e semplificata immagine della realtà locale. Venezia e Napoli ebbero per secoli un carattere notevole in termini di affermazione topografica. Lo studio di tale disciplina ampliatosi a partire dal secolo del Gran Tour, cosa del resto prevedibile, ebbe l’effetto di instaurare una competizione tra una rielaborazione di carattere estetico dell’immagine e la semplice rappresentazione. La differenza era fornita dalla diversa matrice dalla quale l’elaborato traeva origine: vale a dire l’esigenza che a seconda degli ambiti di interesse, scaturiva dalla volontà di pervenire ad uno scopo reale o illusorio a seconda dei casi richiesti. La genesi del percorso trova maggiore spunto proprio nel Settecento. Il secolo dei lumi ebbe come ambizione quello di ricondurre l’espressione del sentire umano alla ragione finendo con il coinvolgere in questo tentativo anche le arti figurative.Il Grand Tour si affermerà a partire dalla seconda metà del ’700. In margine a tale fenomeno è possibile riconoscere quelle che furono le prerogative del disegno topografico. Le evoluzioni cittadine lasceranno un segno riconoscibile solo nelle carte stampate. Man mano che i caratteri evolutivi del territorio determinavano il consolidarsi di un processo inarrestabile di cambiamento ed evoluzione, il compito di testimoniare le tappe di questo processo venne affidato alle capacità che il mezzo topografico si apprestava a fornire. Il settore aveva a disposizione l’utilizzo di una storiografia cittadina testimoniata da una mappatura che nel corso dei secoli si farà sempre più organica ed ampia. Andò perso nel tempo quel carattere di ideale costruttivo che si evinceva nelle note rappresentazioni delle cosiddette “città ideali” per cedere sotto il peso di un nuovo e più maturo rigore documentario, testimoniato da inquadramenti prospettici in scala e dall’abbandono di una fantasiosa rielaborazione scenica. I termini del passaggio matureranno proprio a partire dal Settecento. Il secolo si dimostrerà consapevole delle scelte maturate in termini di filosofia sociale e di storia sociale. Ciò permetterà la messa a punto di una rappresentazione iconografica che ebbe come scopo il raggiungimento di un fine ben definito: illustrare in maniera fedele e rigorosa la città, sia con una indagine di tipo ravvicinato, sarà il caso delle vedute, sia con immagini topografiche, in grado di generare processi di identificazione visiva e riconoscibilità. L’esempio che si porterà avanti nelle successive pagine riguarda esclusivamente l’esperienza in tal campo raggiunta da due delle più fiorenti città marittime: Venezia e Napoli. Le realtà cittadine manifestarono nei corso dei secoli l’adeguamento ad un criterio esecutivo che affidasse alla rappresentazione cartografica la più totale riconoscibilità territoriale. Il determinarsi di tale esigenza raggiunse esiti sorprendenti proprio nei secoli presi in esame, e cioè in massima parte all’indomani del fenomeno cosiddetto del Grand Tour e successivamente con l’affermarsi del ‘800, secolo di indiscusso valore per quel che concerne lo sviluppo della tecnica fotografica,fino ad approdare al ‘900 e alle nuove indagini fotografiche realizzate da alcuni dei maggiori fotografi di genere. Il ‘900 maturerà una consapevolezza critica tale da porsi come antagonista nei confronti di quelle che furono le regole di un rigore rappresentativo che aveva imposto dei codici figurativi ben consolidati e frutto di un tradizionale quanto accademico concetto di estetica. In campo squisitamente pittorico ciò emerse distintamente già con l’annunciarsi delle avanguardie di inizio secolo, in termini architettonici ciò andò evidenziandosi con la perdita dei sostanziali riferimenti strutturali fin ad allora utilizzati. Il rinnovamento operato ebbe come effetto quello di produrre la messa in scena di una quadro rappresentativo, teatro di una interpretazione tutta personale dell’ambito di lavoro sul quale si interveniva. Questo vuol dire che il lavoro seguito minuziosamente fin nei dettagli, si risolse, in campo rappresentativo, in una interpretazione o riadattamento del metodo iconografico originale. La storia iconografica delle città ha prodotto testimonianze notevoli, nel tentativo di conferire organicità spaziale e strutturale tra ambienti architettonici e spazi paesaggistici. La moltitudine di testimonianze tutt’ora presenti inducono a ricercare la fonte prima che produsse il determinarsi di tale esigenza. Visto come mezzo di espressione visiva di una città, l’iconografia si porse come obiettivo quello di testimoniare le evoluzioni e i laceranti dissidi che attanagliano le vicende costruttive di realtà in continua evoluzione. I progetti evolutivi delle città ideali di metà Quattrocento cedettero sotto il peso di pressanti esigenze razionali e razionalistiche che ebbero, con l’affermarsi del XX secolo l’effige più duraturo e definitivo. L’apoteosi dell’indagine costruttiva di uno spazio abitativo ebbe ampi esempi evolutivi proprio nelle due città prese in esame. Si consolidava l’idea di giungere ad una rappresentazione che potesse ottenere adeguato risarcimento da un passato che aveva ahimé, trainato l’interesse verso un genere di rappresentazione poco conforme alla reale situazione sociale. La documentazione urbanistica, che raggiunse poi l’ apice nelle raffigurazioni di indagine fotografica testimonia le nuove realtà urbane sorte a cavallo dei secoli IX e XX per giungere ad una situazione, quella attuale, che vede l’affermarsi di un attitudine ad uno studio di differente criticità come quello del sottosuolo urbano. Va osservato

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che il paesaggio urbano napoletano a seguito dei continui e successivi snaturamenti subiti ha visto perdere gran parte delle testimonianze capaci ancora di ancorare la lettura iconografica della città a fenomeni certi e databili. “… un indizio che aiuta a ricomporre il paesaggio urbano lo troviamo in un documento del dodicesimo secolo nel quale è già usata la moderna e popolare espressione “lastrico a coda”; essa costituisce un indizio prezioso poiché sta a provare che il sistema delle terrazze di copertura delle vecchie case era già in uso nel Medioevo. Ma si trattava di case molto più basse, generalmente a due piani, e cioè ancora umanamente proporzionate se le si paragona all’angustia presente” [R. Pane 1989, 6-7]. Lo scritto di Pane trova conferma in Cesare de Seta. Lo studioso ammette l’obiettiva difficoltà nell’individuare un quadro più preciso della topografia napoletana dal V al XII secolo “giacché le fabbriche superstiti sono rare e solo qualcuna è leggibile nelle sue forme originali [de Seta 1981]. La politica espansionistica del Quattrocento ebbe modo di sviluppare una rete di infrastrutture architettoniche che nei secoli avrebbero contraddistinto l’aspetto della città partenopea, almeno fin quando il riassetto del piano edilizio voluto da Pedro di Toledo non rese più disagevole la lettura dell’antica evoluzione costruttiva della città. Il secolo dei lumi, rappresenterà un’apertura in termini di evoluzione costruttiva a quello che fu il precedente periodo caratterizzato da un grigiore e da un ristagno in termini di costruzione edilizia. Quale fosse l’immagine di Napoli negli anni che precedono la dominazione austriaca è documentata dalla serie di rappresentazioni dovute al fiammingo Livinius Cruyl (1640-1720). A San Martino si conserva una dettagliata veduta prospettica capace di racchiudere tutta Napoli, da Posillipo al Ponte della Maddalena, Il tessuto connettivo del centro urbano è diventato talmente denso e stratificato da renderne difficile la lettura. La città riacquista respiro ad occidente verso San Martino, Chiaia e Posillipo; a settentrione verso Capodimonte e ad oriente verso Poggioreale. Le colline conservano ancora la loro ricca vegetazione, mentre i campi coltivati che si stendono in direzione della piana vesuviana sono punteggiati da piccolissime fabbriche. Tra le più belle rappresentazioni di Napoli, può figurare quella di J.B. Homan, che risale al 1727. Per quanto la veduta non possa dirsi fantastica, tuttavia in essa il tessuto urbano appare essere meno denso rispetto a quanto non fosse in realtà. Evidentemente ragioni di natura estetica hanno privato l’esecutore di una rigorosa impostazione oggettiva del registro figurativo analizzato. L’autore usò l’accorgimento di dilatare, senza alcun calcolo in scala, gli scarsi spazi liberi per rendere meglio leggibile il tessuto viario. Molto belli i disegni particolari che accompagnano la carta e che rappresentano il Palazzo dei Viceré, Castel Nuovo, Castel dell’ Ovo, il molo, piazza del Mercato, Sant’Elmo. Vi è poi una assai interessante veduta dei Campi Flegrei ed una manierata immagine del Vesuvio in eruzione. Nella Pianta del Duca di Noja (1775) la nuova configurazione urbanistica raggiunta dalla città di Napoli si legge chiaramente. La visuale risulta ancora maggiormente leggibile dalla veduta prospettica contenuta nella stessa pianta ed inserita nell’ampia ansa del golfo [de Seta 1981]. Notevole la scelta del punto di osservazione dal quale la veduta è tratta: La città è vista dalla strada costiera che mena alla Reggia di Portici. Questa prospettiva del tutto nuova, rispetto a quelle del Seicento, consente una lettura del piano urbanistico napoletano con occhi nuovi, e soprattutto permette di evidenziare in maniera netta la dimensione acquisita dalla città di Napoli a quell’’epoca. Gli ideali fuochi visivi della Napoli settecentesca appaiono facilmente distinguibili. La visione d’insieme ottenuta le conferisce quell’unità formale che valse ad affascinare i viaggiatori stranieri del tempo. A Giovanni Carafa Duca di Noja si deve dunque la “Mappa topografica della città di Napoli e dei suoi dintorni” pubblicata postuma nel 1775. La carta redatta in 35 fogli, comprende l’intera superficie urbana nord si estende fino al piccolo borgo di Nazaret, all’eremo dei Camaldoli a Capodimonte; a sud, arriva fino a mare, includendo l’isolo di Nisida; ad ovest abbraccia gran parte del territorio flegreo, fino a Bagnoli; ad est, infine comprende i territori fino a San Giorgio a Cremano, Portici e Resina. La pianta è redatta con i più aggiornati procedimenti di rilievo topografico, adottando la Tavoletta Pretoriana, strumento indispensabile per l topografia scientifica. Altro punto strategico e di efficace capacità identificativa con la città di Napoli è la Riviera di Chiaia rappresentata nei suoi successivi sviluppi da numerose vedute e piante. Tra le prime vanno ricordate quella di Medinacoeli (1698) e quelle, numerosissime, che raffigurano la città dalla parte di Chiaia [Penna 1966, 19 – 31]. Di particolare bellezza sono la Veduta di Napoli dalla parte di Chiaia sino al Vesuvio (1759) incisa da Giuseppe Aloja, e quelle del conte del Borgo, che risale al 1764, e di Etienne Giraud (1771). Né può essere omessa una delle più note e splendide vedute della città: quella di Ignazio Sclopis (1764) Nel prospetto generale della città di Napoli la finezza dell’incisione e la precisione della raffigurazione rendono con rara efficacia la magnificenza della città che mai come nel Settecento ebbe larga fortuna tra i viaggiatori italiani e stranieri che avevano in Napoli una tappa obbligata del Grand Tour. L’utopia urbana del tardo Settecento trova nella figura dell’architetto pugliese Vincenzo Ruffo uno dei massimi

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interpreti. Il suo Saggio sull’abbellimento di cui è capace la città di Napoli, è salutato come un ampio e ambizioso progetto di ristrutturazione urbana della città. L’intenzione era quello di trasformare la città sull’esempio delle principali capitali europee. Il decennio francese che vede aprire le porte al diciannovesimo secolo, impose un adeguamento alle nuove esigenze urbanistiche resesi necessarie con i lavori di ampliamento dall’impianto viario. Numerose le raffigurazioni pittoriche che testimoniano le metamorfosi del contesto urbano e soprattutto individuano l’adeguamento a politiche di differente natura. Il settecento vedrà ampliare il tentativo di una conoscenza minuziosa e dettagliata della realtà. L’intento però era di differente natura rispetto alla topografia. E’ possibile osservare come l’incidenza del dettaglio sia andato a favore di un atteggiamento non solo di natura documentaria bensì di compiacimento estetico. Le immagini di paesaggio lo testimoniano chiaramente. Con gli inizi del Settecento, in pieno “secolo dei lumi” la città con i suoi dintorni agli occhi dei viaggiatori, in prevalenza stranieri, muta aspetto e apparenze. Il rapporto con i luoghi storici e naturali, con la realtà urbana e con il patrimonio di varie memorie antiche e recenti, con i vari aspetti paesistici e con il ricco insieme di reperti archeologici e di tesori d’arte muta con il rapido evolversi della sensibilità e del gusto. Lo si percepisce immediatamente non solo sfogliando le diverse “guide” redatte in quel tempo da autori locali, tra tutte quella del Parrino, o leggendo gli scritti dei viaggiatori stranieri giunti a Napoli lungo l’intero arco di quel secolo, ma soprattutto nelle immagini realizzate dagli artisti dell’epoca, testimoni attenti delle nuove realtà che Napoli si apprestava a realizzare. Di nomi se ne possono elencare in quantità sufficiente per fornire l’idea della consistenza quantitativa oltre che qualitativa che il genere del vedutismo offriva. Gabriele Ricciardelli o Antonio Joli, due tra i più noti vedutisti attivi a Napoli nel secondo Settecento pongono il problema delle relazioni che allora di volta in volta si vennero stabilendo tra l’incisore-cartografo e il pittore di vedute urbane. Ancora Gaspar van Wittel cadenzerà il primo passo della veduta settecentesca. Una ripresa lucida del dato reale e una limpida oggettivante trasposizione nel dato pittorico, sono alcune delle alte doti che si riconoscono all’artista, il quale restituisce valore all’esperienza visiva e necessità alla lucida e sistematica organizzazione mentale dei dati sensoriali. Il paesaggio partenopeo in un fitto numero di splendide e luminose vedute – la “darsena delle galere”, il largo di Palazzo, la città del mare con Castel dell’Ovo, il Borgo di Chiaja con Mergellina, la grotta di Pozzuoli, la costa di Pozzuoli, il lungomare flegreo – è percepito analizzato e rivissuto come un grande teatro naturale, come il vasto scenario di un universo molteplice e vario. Lusieri, acquarellista di successo realizzerà proprio a Napoli alcuni tra gli acquerelli di più intensa emozione visiva e suggestivo lirismo pittorico, come nel caso della vasta e splendida veduta della città da Pizzofalcone o, più esattamente, dal Palazzo Sessa di Hamilton, del 1791 ora al Paul Getty Museum di Malibu. Spetta proprio a Giovan Battista Lusieri dipingere la veduta che meglio “fotografa” lo stato dei luoghi intorno agli anni Ottanta del secolo (Napoli da Ponente, Londra, già Stheby’s). Si tratta di uno splendido acquerello diviso in due fogli ed incompiuto che ci mostra tutta la città da Mergellina a Castel dell’Ovo. A sinistra, proprio nascenti dalla spiaggia, le case a schiera dei pescatori che dalle rampe per Posillipo fino alla Torretta formano una compatta cortina; subito dopo la Torretta costruita nel 1564 a protezione delle abitazioni dopo lo sbarco di pirati turchi avvenuto nel 1563.Al di la emergono i volumi del Palazzo che fu di Bartolomeo d’Aquino e della caserma di Piedigrotta. Tra la Torretta e la piccola stretta facciata di Santa Maria della Neve costruita da una congrega di pescatori nel 1571 si vede la fontana monumentale fatta costruire dal viceré Medinaceli. Proprio sopra la chiesa di Santa Maria della Neve spicca il complesso di San Francesco degli Scarioni; da cui una sottile striscia di costruzioni si snoda lungo il verde della collina ritrovabile nella Pianta del Duca di Noja(1775) e corrispondente al percorso dell’attuale via dell’Arco Mirelli e di calata San Francesco. Oltre la cupola di San Francesco degli Scarioni si riconosce il complesso della chiesa e convento dei Santi Giovanni e Teresa costruita tra il 1747ed il 1757 e – dopo alcuni casini e ville- la chiesa ed il convento di san Francesco alla cui destra emerge la mole di Villa Belvedere. Ritornati alla Riviera dopo la facciata di santa Maria della Neve ed alcuni palazzi si nota la lunga facciata del Palazzo del Principe di Teora Mirelli aperto al centro dall’arco che introduce alla strada per il Vomero. Segue una compatta cortina di palazzi fino alla facciata della chiesa di san Giuseppe a Chiaia fondata dai Gesuiti subito dietro alla quale s’intravede la cupola di Santa Maria in Portico. Quasi di fronte a San Giuseppe si protende nel mare l’isolotto di San Leonardo con l’antica omonima chiesa. In questa zona, tra S. Maria in Portico e S. Leonardo, Celano ricordava alcuni “bellissimi casini” [Celano 1970, 201]. Gli edifici appaiono sempre più lontani e piccoli, si distingue nettamente la lunga facciata del palazzo Alarcon di Mendoza concluso dalla torre di difesa contro le incursioni e la striscia di costruzioni che si snoda lungo il petraio e si conclude quasi ai piedi della mole di Castel Sant’Elmo; tra il castello e Villa

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Belvedere si scorgono le verdi intatte pendici del Vomero in cui emergono rare costruzioni, certamente quelle che nella Pianta del Duca di Noja sono segnalate come case legate ai “Poderi dei PP: di S. Maria in Portico”, “dei Teresiani”, “degli Invitti”. La Riviera resa ormai verde dall’alberatura della Villa Reale, confluisce nel Chiatamone ai piedi di Pizzofalcone sovrastato dai profili della cupola di Santa Maria degli Angeli, della Nunziatella e del Gran Quartiere oltre il quale il Vesuvio fumante e la bianca lontanissima mole della Reggia di Portici concludono l’acquerello di Lusieri. La medesima aderenza al dettato visivo può osservarsi nell’Ottocento. Con la seconda restaurazione borbonica, nel 1815, non si ebbero variazioni né rallentamenti nei programmi edilizi e si confermarono molte delle Istituzioni politiche ed amministrative promosse dai francesi. La maggior opera di Ferdinando I delle due Sicilie fu la sistemazione del largo antistante il Palazzo Reale con un intervento di grande importanza urbanistica: la costruzione della chiesa di San Francesco di Paola e la creazione del largo di Palazzo, rese possibili delle demolizioni delle chiede e dei conventi esistenti a seguito della soppressione degli ordini religiosi perpetrata durante il Decennio francese, nonché dall’interesse di Murat a costruire in quel luogo un Foro laico. Ma l’edificio di maggior rilievo e anche l’opera più felice dell’architettura neoclassica è senza dubbio il Teatro San Carlo, opera di Antonio Niccolini, l’architetto più rappresentativo di questa età a Napoli. Gennaro D’Aloysio (Il Teatro San Carlo, Napoli, Coll. Privata) o Philippe Benoist (Interno del Teatro di San Carlo, Napoli,coll. Privata) sono solo alcuni dei nomi che possono essere citati per testimoniare con le loro realizzazioni pittoriche la costruzione del nuovo edificio. L’interno come l’esterno del teatro si offre come spunto per una analisi attenta degli inserti architettonici e decorativi che lo caratterizzano. Negli stessi anni con Ferdinando II, incomincia ad affermarsi una visione globale della struttura urbana; saranno allora individuati numerosi problemi cittadini più tardi risolti, mentre notevole fu l’interesse del sovrano per la creazione di assi periferici, tangenziali al più congestionato centro urbano. La più felice realizzazione in tal senso può considerarsi il corso Maria Teresa (oggi corso Vittorio Emanuele)la splendida strada a mezza costa che si svolge lungo le colline occidentali della città. Validissimo per riconoscere il tratto iconografico della città è proprio il progetto di Errico Alvino per il Corso Maria Teresa (Mergellina e il largo antistante la chiesa di Piedigrotta, 1854). Altrettanto significativa ai fini di una codificazione dell’iconografia cittadina sono le rappresentazioni della Villa Comunale, il cui impianto può ritenersi ultimato nel 1835. La prima parte, caratterizzata da principi di assialità propri del giardino alla francese, è costituita da vialoni rettilinei – inizialmente cinque, poi sette - di cui quello centrale è di gran lunga più ampio; progettati nel Settecento, seguono una direttrice prospettica che inquadra la collina di Posillipo alle spalle della Torretta. Al centro del vialone di mezzo, dove fino al 1826 era il celebre gruppo scultoreo del Toro Farnese, poi trasferito nel Real Museo Borbonico, viene sistemata, su proposta di Pietro Bianchi, una fontana costituita da una gran vasca di granito egizio, proveniente dal Tempio di Nettuno a Paestum detta ancora oggi delle paparelle. Uno splendido Saverio Della Gatta (Il Toro Farnese nella Villa Reale, 1824, Napoli, Coll. Privata) testimonia l’originale sistemazione del gruppo scultoreo e illustra sapientemente i tratti significativi della villa comunale. Agli occhi del passante che nei primi dell’Ottocento attraversava il largo di Palazzo (l’attuale piazza del Plebiscito ), il Palazzo Reale presentava ancora la facciata realizzata da Domenico Fontana, secondo i canoni del classicismo seicentesco, solo parzialmente modificata dall’intervento settecentesco di Luigi Vanvitelli, il quale al seguito di un cedimento strutturale del fronte decide di murarne alternativamente gli archi del porticato, creando una serie di nicchie destinate ad altrettante statue, realizzate molti decenni più tardi. L’artista Achille Gigante (Salita del Gigante,Napoli, coll. Privata) ce ne fornisce un ragguaglio, grazie all’opera da lui realizzata che permette di riconoscere l’originale assetto del prospetto di Palazzo Reale. Alla fine del secolo il Grand Tour, come itinerario istruttivo compiuto con un precettore –guida,tende ad essere sostituito, se non ancora da un vero e proprio turismo organizzato, dal più libero viaggio individuale o di gruppo, per ragioni di salute, per diletto o per curiosità verso un paese in trasformazione. Gran parte dell’immagine fotografica d’Italia è prodotta per questo pubblico per lo più straniero. La grossa espansione della produzione fotografica si verifica dal 1870 in poi, tuttavia già negli anni ’60 si registra a Napoli un’intensa attività professionale. Napoli è ritratta nel momento in cui la sua funzione urbana muta in modo radicale. La perdita del ruolo di capitale, il difficile inserimento nella complessa ed eterogenea realtà nazionale significano anche riconversione dell’asseto fisico attraverso gli interventi di trasformazione e risanamento finalmente realizzati e l’adeguamento del suo volto al nuovo modello proposto dall’unificante cultura urbanistica dell’Italia post-unitaria. Alinari e Brogi emergono distintamente come i due protagonisti di un momento storico che vede documentare le trasformazioni sociali della città di Napoli, Come per le riprese di Normand a Pompei, la fotografia sarà impiegata dagli architetti come

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alternativa economica e rigorosamente prospettica di quel disegno che, dalla fine del Settecento, aveva utilizzato le nuove regole della geometria descrittiva di Monge. In questo senso diviene strumento efficace dell’insegnamento accademico e della promozione della cultura architettonica. La produzione Alinari si qualificherà fin dai suoi inizi in questa direzione. Si ritornerà ad usare il termine documentazione nel secondo Novecento con le testimonianze di alcuni dei maggiori fotografi dell’epoca: Mimmo Jodice ci fornisce un esempio notevole. La sua capacità di conferire lirismo all’immagine utilizzata come specchio delle molteplici realtà napoletane, lo elevano a grande interlocutore capace di spiegare i laceranti conflitti che attanagliano la città Spetta a Giuseppe Gaeta recuperare l’antica tradizione iconografica per calarsi nella descrizione dei più interessanti scorci napoletani. Al fotografo si riconosce la capacità di dialogare tra ambiente esterno e apparato decorativo interno per condurre l’attenzione ai numerosi esempi architettonici ed urbanistici che caratterizzano la planimetria della città di Napoli da un punto di vista storico-artistico.

2. Venezia Venezia presenta le medesime possibilità di porsi come valida testimonianza di un’evoluzione che trova nell’impianto urbanistico il rispecchiamento della politica di adeguamento del tessuto cittadino alle esigenze dell’ambiente locale. Le minime trasformazioni e l’allargamento, nei limiti del possibile, dell’ abitato sono state documentate dalla capacità di chi intendeva mostrare i vari aspetti di una città che per secoli ha traghettato la sua esistenza tra differenti mondi, Oriente ed Occidente. A Venezia, città d’acqua per eccellenza, l’Arsenale è l’espressione più chiara della visione del passaggio graduale dalla terra al mare, tramite l’architettura, le banchine, gli scali di alloggio e le imbarcazioni che nascono sulla terraferma per poi lasciarla e prendere il mare, navigando prima in laguna e poi verso il mare aperto per raggiungere terre lontane. La storia di Venezia può essere raccontata attraverso gli spostamenti degli uomini sull’acqua, cominciando dalle popolazioni che scapparono, in barca, per fuggire alle invasioni barbariche. Prende da qui avvio la storia della Laguna. A partire dal IX, la sede del Doge fu trasferita da Malamocco a Rialto dando inizio al periodo aureo di Venezia. L’Arsenale è il luogo simbolo della potenza marittima e ne rappresenta la più viva testimonianza storica. Gli impianti cantieristici sono stati progressivamente dismessi dopo il secondo conflitto mondiale, determinando un periodo di degrado ed abbandono. La destinazione a nuove attività in grado, da un lato di tutelare la memoria storica, e dall’altro di restituire un ruolo importante nel contesto urbano, ha segnato un nuovo corso della storia dell’Arsenale: oggi è un ‘area multifunzionale destinata a diventare polo scientifico, culturale e produttivo attraverso un ampio progetto di riqualificazione. Attività espositive e di spettacolo sono ospitate negli edifici assegnati in concessione temporanea alla Biennale di Venezia, comprendenti tutte le aree e gli edifici ad est e a sud della darsena, ad esclusione di quelli in uso alla Marina Militare. Questo rapporto endemico e primordiale della città con l’acqua ha ispirato una sezione della IX Biennale, nel 2004, dedicata alle trasformazioni di aree urbane fondate sulla valorizzazione delle relazioni terra-acqua. La storia iconografica delle città ha registrato come un sismografo le onde di una trasformazione che ha visto nel corso degli anni, la città di Venezia fronteggiare disagi scaturenti dalla difficoltà di gestire un impianto architettonico la cui principale prerogativa è quella di costruire un sistema organico con l’ambiente lagunare. Il Grand Tour ha permesso la conoscenza e l’affermazione di interessanti visioni architettoniche tese a stabilire un legame viscerale e sinergico tra architettura e contesto locale. I grandi protagonisti del vedutismo, esercitarono a tal punto la loro abilità tecnica da assumere la prerogativa di testimoni oculari di un determinato frangente storico. È questo il caso di Canaletto, Bellotto, in misura più contenuta Guardi. Visione e scenario in egual misura, le vedute veneziane non hanno nulla del possesso indiretto, del materialismo di tanta arte nordica nei relativi generi. Le scene di Canaletto per Sigismund Streit includono gli interessanti pendants notturni di due delle quattro festività religiose serali annuali della città, soggetti rari per i vedutisti veneziani. Una di esse (La vigilia di San Pietro, dopo il 1755, tela, Gemaldegalerie) registra la vigilia del 29 giugno, festività dei Santi Pietro e Paolo. San Pietro di Castello, la chiesa rappresentata, ebbe grande importanza locale. Illuminata dalla luna dal fondo, la romantica veduta, dipinta dopo il ritorno dall’Inghilterra nel 1755.56 è tra le più interessanti. Offre uno sguardo d’insieme che non trova compiacenza nel dettaglio quanto in una più organica fusione ambientale e architettonica. La altre vedute, di carattere più convenzionale, evidenziano la capacità di indagine analitica sperimentata dal pennello dell’artista. Il canal grande visto dal ponte di Rialto (1758-63, tela, Gemaldegalerie), include una veduta della casa di Streit, Palazzo Foscari, il secondo edificio a sinistra. L’austera compagna della tela, incredibilmente efficace,

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ELEONORA D’AURIA

raffigura Il campo di Rialto (1758-63, Gemaldegalerie). Sulla sinistra si trovano il centro degli orafi, la Ruga degli Orefici e il Palazzo dei Dieci Savi, con il Campanile di San Giovanni Elemosinario sullo sfondo. Al centro e a destra si trovano le Fabbriche Vecchie di Rialto. Notevole per testimoniare l’immagine della città a quell’epoca resta il dipinto sempre appartenente al Canaletto che mostra Santa Maria della salute dal Canal Grande ( 1730, tela, Gemaldegalerie). L’impianto prospettico e la sottile indagine iconografica permette una visione chiara della situazione dell’epoca. Sono queste le immagini emblematiche di una cultura artistica che nel corso dei secoli non andò perdendo il proprio inscindibile legame con la laguna. L’orditura dei canali ha condizionato l’edilizia, fin dalle origini. A strutture legate generalmente alla forma e all’estensione di ogni isola: in alcune di esse lunghe e strette ha determinato una soluzione a calli con corpi di fabbrica perpendicolari ai canali o alla fondamenta lungo di essi. Tale tipo di struttura è ritrovabile in tutta l’antica edilizia lagunare quando ebbe a risolvere la sistemazione di fasce di terreno lungo i lidi marini che hanno esigua profondità. In esso il sistema viario secondario è pressoché perpendicolare a quelle arterie principali di traffico, e soltanto alcune di queste vie minori comunicano attraverso un ponte con l’insula vicina. L’Ottocento vede tra i protagonisti del genere di paesaggio l’artista Ciardi. In esso sono facilmente ritrovabili alcune delle caratteristiche principali della visione lagunare. Lo spirito di osservazione dell’artista si arresta ad un punto differente rispetto ai suoi predecessori settecenteschi. Guglielmo Ciardi concentra il proprio lavoro non più verso una analitica ricerca del dettato visivo, ma scorgendo proprio tra le insule e le calle, nuove forme insite nella natura creativa dell’artista. Al 1869 è da collocarsi uno dei capolavori dell’artista: Canale della Giudecca (1869, Ca’ Pesaro, Galleria Internazionale d’Arte Moderna). Condividendo la passione per il realismo l’artista riproduce una zona periferica della città, immersa nel silenzio del primo mattino. Il taglio obliquo, scandito in profondità dalle alberature delle imbarcazioni, permette allo sguardo di spaziare verso la luminosità del primo cielo, in un estatico sentimento dell’infinito. Illuminate dal primo sole, riconoscibilissime, la chiesa del Redentore e le case della riva diventano astratte fasce di luce, a sottolineare la qualità meditativa e insieme nostalgica della veduta. L’eredità del vedutismo settecentesco affonda in maniera pregnante in Ippolito Caffi. Autore di due dei più esemplificativi quadri che l’ottocento veneto abbia prodotto. Moloe riva degli Schiavoni, (1858, Ca’ Pesaro, Galleria Internazionale d’arte Moderna) è un opera che documenta come il bellunese Caffi seppe rinnovare la tradizione vedutistica con un personale gusto per l’attimo fuggente e la ricerca di tagli inediti. Nel suo anti-monumentalismo ridusse le tradizionali iconografie urbane a meri spunti per studiare nuovi effetti di luce. Ciò emerge chiaramente nella veduta del Molo. Il Palazzo Ducale si defila nello scorcio, mentre le colonne trattengono l’ombra della mobile massa di nubi , in un inedito dialogo tra le architetture e il cielo. Anche il formato della veduta del bacino di San Marco (Panorama dal ponte della Veneta Marina, 1858, Ca’ Pesaro, Galleria Internazionale d’Arte Moderna) colta da un ponte presso l’Arsenale, è emblematico della ricerca di una nuova spazialità. Lo sguardo sembra transitarvi, soffermandosi sull’acqua immobile come uno specchio lucido, che raddoppia la luminosità del panorama urbano stagliato sul trascolorare del cielo nel suggestivo momento vespertino. Gli esempi citati, a cui va aggiunto il caso di Pietro Fragiacomo, testimoniano la capacità dell’arte di porsi a testimoni delle varie seppur lente metamorfosi che il tessuto urbano subisce a seguito dei cambiamenti strutturali insiti nelle necessità costruttive man mano emergenti. Per terminare, l’impatto che il paesaggio subisce nelle evoluzioni del Novecento ebbe ripercussioni nei termini di un cedimento delle facoltà di mimesi raggiunte nei secoli precedenti dall’arte delle vedute. Il posto del cartografo cede il passo ad artisti che imposero una lettura differente del piano urbano. Gino Rossi, geniale ritrattista, deve all’influenza di Gauguin la palese ripresa delle campiture uniformi e dei profili marcati. Douarnenez (1913, Ca’ Pesaro, galleria Internazionale d’Arte Moderna) riflette la tecnica dei fauves. La gamma spenta e malinconica dei colori appare legata alle ricerche cubiste, cui l’artista si accosterà sempre più negli anni successivi. Tale contatto porterà ad abbandonare la ricerca di una imitazione oggettiva del reale per favorire la personale lettura interpretativa che l’artista affida al proprio bisogno di esprimersi liberamente. Marina (1950 Ca’ Pesaro, Galleria Internazionale d’Arte Moderna) opera di Virgilio Guidi, evidenzia il processo di semplificazione che l’artista persegue nella volontà di conferire nuove istanze di assolutezza alla rappresentazione, quasi monocroma, giungendo a collocarsi come culmine del momento più sintetico ed intenso dell’attività del pittore e al contempo ergendosi a simbolo di un processo che vede l’erosione delle caratteristiche salienti dell’antica rappresentazione iconografica.

Napoli e Venezia: vecchi ponti e nuovi nessi

ELEONORA D’AURIA

BibliografiaBASSI, E. (1962). Architettura del sei e settecento a Venezia, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane. BRUSANTIN, M. (1980). Venezia nel Settecento: stato, architettura, territorio Torino, Einaudi. DE SETA, C. (19811 ). Napoli, in Le città nella storia d’Italia, Napoli, Laterza. DE SETA, C. (1977). Napoli nel Settecento, Milano, Il Polifilo. NANI MOCENIGO, M. (1938), L’Arsenale di Venezia, Roma, Ministero della Marina. ONGANIA,F. (1900), Calli e canali, Venezia, Ongania. PENNA, R. (1996). La villa comunale di Napoli, in «Napoli nobilissima», V, fasc. 1, gen.-feb.


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