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ELIO PETRI, IL CINEMA DI SINISTRA E L'INDUSTRIA CULTURALE: IL MAESTRO DI VIGEVANO E LA DECIMA...

Date post: 21-Nov-2023
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101 ELIO PETRI, IL CINEMA DI SINISTRA E LINDUSTRIA CULTURALE: IL MAESTRO DI VIGEVANO E LA DECIMA VITTIMA Andrea Minuz PETRI, PONTI, DE LAURENTIIS Nel suo studio su La decima vittima (1965), Lucia Cardone ri- corda che l’accusa più violenta della critica, il «peccato originale» da cui Petri non poteva redimersi riguardava il rapporto con i produttori. Proprio un film come La decima vittima esemplifi- cava in tal senso l’inserimento di Petri nel cinema dell’esistente, l’adeguamento alle sue strutture produttive. Una scelta che agli occhi dei «magistrati del gusto» 1 della critica di sinistra appa- riva ancora più imperdonabile proprio a causa del talento che il “compagno” Petri mostrava indubbiamente di possedere. La col- pa di film come La decima vittima era insomma quella di orirsi come oggetti di consumo perfettamente funzionali all’industria culturale. Opere «merceologiche», secondo un termine caro a Lino Miccichè, che a proposito del film di Petri evocava «orpel- li esterni», «emere eleganze» e una «sostanza confezionistica», segno di una distanza incolmabile dalle profondità adorniane dell’Arte, dai tormenti del realismo lucaksiano, dagli imperativi categorici di Aristarco, dalla «battaglia delle idee». Con il benefi- cio del tempo, abbiamo gioco facile nell’osservare che la nozione di industria culturale in possesso della critica era in molti casi ben più ingenua di quella che circolava nei film contro cui si scagliava (La decima vittima è un caso emblematico) 2 . 1 La definizione è di Elio Petri, cit. in Lucia Cardone, Elio Petri, impolitico. La decima vittima (1965), Ets, Pisa 2005. 2 Sull’ambivalenza dei rapporti tra industria culturale, intellettuali e cinema italiano negli anni Sessanta si veda l’ottima ricostruzione di Giacomo Manzoli, Da Ercole a Fantozzi. Cinema popolare e società italiana dal boom economico alla neote- levisione (1958-1976), Carocci, Roma 2013.
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ELIO PETRI, IL CINEMA DI SINISTRA E L’INDUSTRIA CULTURALE:

IL MAESTRO DI VIGEVANO E LA DECIMA VITTIMA

Andrea Minuz

PETRI, PONTI, DE LAURENTIIS

Nel suo studio su La decima vittima (1965), Lucia Cardone ri-corda che l’accusa più violenta della critica, il «peccato originale» da cui Petri non poteva redimersi riguardava il rapporto con i produttori. Proprio un film come La decima vittima esemplifi-cava in tal senso l’inserimento di Petri nel cinema dell’esistente, l’adeguamento alle sue strutture produttive. Una scelta che agli occhi dei «magistrati del gusto»1 della critica di sinistra appa-riva ancora più imperdonabile proprio a causa del talento che il “compagno” Petri mostrava indubbiamente di possedere. La col-pa di film come La decima vittima era insomma quella di offrirsi come oggetti di consumo perfettamente funzionali all’industria culturale. Opere «merceologiche», secondo un termine caro a Lino Miccichè, che a proposito del film di Petri evocava «orpel-li esterni», «effimere eleganze» e una «sostanza confezionistica», segno di una distanza incolmabile dalle profondità adorniane dell’Arte, dai tormenti del realismo lucaksiano, dagli imperativi categorici di Aristarco, dalla «battaglia delle idee». Con il benefi-cio del tempo, abbiamo gioco facile nell’osservare che la nozione di industria culturale in possesso della critica era in molti casi ben più ingenua di quella che circolava nei film contro cui si scagliava (La decima vittima è un caso emblematico)2.

1 La definizione è di Elio Petri, cit. in Lucia Cardone, Elio Petri, impolitico. La decima vittima (1965), Ets, Pisa 2005.

2 Sull’ambivalenza dei rapporti tra industria culturale, intellettuali e cinema italiano negli anni Sessanta si veda l’ottima ricostruzione di Giacomo Manzoli, Da Ercole a Fantozzi. Cinema popolare e società italiana dal boom economico alla neote-levisione (1958-1976), Carocci, Roma 2013.

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Alla metà degli anni Sessanta, proprio in virtù del suo ta-lento e di una cultura cinematografica acquisita nel corso di un lungo apprendistato, Petri rappresentava un formidabile esempio di esplorazione delle possibilità del film medio – contraddizioni ideologiche incluse – cui la nostra critica appariva culturalmente impreparata. Un’esplorazione che Petri avrebbe capitalizzato con il successo di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) premiato con l’Oscar per il miglior film straniero e as-sunto dunque a prova lampante del tradimento dell’autore. La nozione di film-medio non è meno nebulosa di quella di film politico, ma la si può anzitutto ricondurre a un discorso sugli investimenti, a un modo di produzione, al tipo di consumo e di pubblico previsto, cioè, per usare un termine merceologico, al target. E nell’Italia dei primi anni Sessanta, il target del film medio attraversava una mutazione drastica e repentina, sintomo dell’affermazione di una cultura di massa che cambiava il suo assetto in concomitanza con i nuovi modelli di consumo. Il cine-ma politico di Petri non si comprende se non sulla scia di questa mutazione, dunque di un conseguente ampliamento dello spazio espressivo del film medio, e di una rinegoziazione del rapporto tra autorialità, genere e impegno. Da questo punto di vista, Il Maestro di Vigevano (1963) e La decima vittima, film che secondo una lettura consolidata non appartengono alla produzione più matura di Elio Petri, si offrono invece come un punto di svol-ta decisivo nella sua carriera. Com’è ovvio, l’incontro con i due produttori più “americani” del cinema italiano del dopoguerra, Dino De Laurentiis e Carlo Ponti, ridimensionò l’indipendenza creativa di Elio Petri ma significò anche e anzitutto budget più ampi e possibilità di impiegare divi internazionali (Alberto Sordi e Claire Bloom nel Maestro di Vigevano, Marcello Mastroianni e Ursula Andress per La decima vittima). Rispetto ai primi due film di Petri, L’assassino (1961) e I giorni contati (1962) si trattava di un salto notevole. Se il primo rientrava ancora negli schemi del film di genere – un noir riletto nell’ottica delle atmosfere esisten-zialiste allora assai in voga –, il secondo si connotava apertamente come un film difficile, pensato al di fuori delle strutture dei gene-ri, costruito su un grande attore di teatro pressoché sconosciuto al cinema (Salvo Randone), realizzato con ampia libertà artistica nel quadro della strategia della Titanus di Goffredo Lombardo

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volta a promuovere anche in Italia un’operazione in stile Nou-velle Vague. L’incontro con il modo di produzione industriale di Ponti e De Laurentiis diventerà invece per Elio Petri l’occasione di un ripensamento del suo rapporto con il cinema. Il repenti-no attraversamento delle contraddizioni dell’industria culturale innescato da questi due film è quindi un passaggio decisivo per comprendere l’opera cosiddetta “matura” di Petri. Il successivo A ciascuno il suo (1967), infatti, non segna solo l’incontro con le fi-gure chiave della fase più nota e cosiddetta “politica” – lo sceneg-giatore Ugo Pirro, l’attore Gian Maria Volonté, il direttore della fotografia Luigi Kuveiller –; il film tratto da Sciascia inaugura an-che un rapporto con modelli produttivi distanti da quelli di De Laurentiis e Ponti, legati nella fattispecie a figure come Giuseppe Zaccariello e Marina Cicogna (produttrice di Indagine al di sopra di ogni sospetto). Anche per questo, A ciascuno il suo assume nella letteratura su Petri il valore di una rinascita, di un nuovo inizio. Un film con cui, dopo i promettenti esordi e i tentativi di lavo-rare dentro i meccanismi industriali del cinema, Petri ritrova la possibilità di realizzare film più vicini ai suoi interessi. Tuttavia, come confessava egli stesso: «Si diventa registi imparando a fron-teggiare personalità così potenti come De Laurentiis e Ponti. C’è un momento in cui non si può fuggire di fronte ai produttori, anche questo fa parte del mestiere»3.

Torniamo dunque su questi due film. Concentrandoci soprat-tutto sulla loro progettazione e ricezione, proviamo a rileggerli sullo sfondo dei rapporti tra intellettuali di sinistra e industria culturale nell’Italia degli anni Sessanta. Per ricostruire la lavo-razione dei due film ci avvarremo di alcuni materiali inediti del Fondo Elio Petri, conservati all’Archivio del Museo del Cinema di Torino4. Prenderemo in considerazione alcuni interventi di Petri che permettono di isolare la cifra specifica della sua posizio-ne eterodossa, da un lato saldamente inserita nella cultura mora-lista del comunismo italiano, dall’altro estremamente refrattaria alle seduzioni del radicalismo e di quella vocazione nichilista che prenderà piede dopo il 1968. Una posizione che proprio nel re-cupero e nella difesa da parte di Petri dell’idea di «spettacolo» ha uno dei suoi maggiori motivi di interesse e originalità.

3 Alfredo Rossi, Elio Petri, La Nuova Italia, Firenze 1979, p. 49.4 Rimandiamo al saggio di Carla Ceresa nel presente volume.

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«DOVE POSSIBILE, DOBBIAMO ASSOLUTAMENTE FAR RIDERE»

Il romanzo di Lucio Mastronardi, Il maestro di Vigevano, esce nel maggio del 1962 per la collana “I Coralli” di Einaudi, ac-compagnato da una grande promozione editoriale. Proprio da Vigevano, pochi mesi prima, aveva preso avvio il reportage di Giorgio Bocca sulla provincia del miracolo economico, inaugu-rato con un articolo apparso su «Il Giorno» dall’incipit divenuto celeberrimo, «fare soldi, per fare soldi, per fare soldi, se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste»5. Il momento per trasformare il libro di Mastronardi in una «commedia del boom» era propizio. Lo scrittore era al suo secondo romanzo ma già noto come personaggio della cronaca locale a causa di un proces-so per una lite con un ferroviere in seguito al quale sarà ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Alessandria (primo di una serie di episodi burrascosi che segnarono la vita difficile di Mastronardi). L’uscita del libro innescò subito furiose polemiche tra i vigeva-nesi, poco lusingati del ritratto impietoso datone dall’alterego romanzesco dello scrittore, il maestro Mombelli, protagonista della vicenda. Per De Laurentiis, l’adattamento cinematografico del Maestro di Vigevano si inseriva idealmente nel solco di Il boom (V. De Sica), uscito nei cinema nell’estate del 1963, commedia grottesca sul benessere e le repentine trasformazioni della società italiana, costruita sulla vicenda dell’imprenditore Giovanni Al-berti, interpretato da Alberto Sordi, costretto a vendere un oc-chio per non finire travolto dai debiti. Nel 1960, l’attore romano aveva firmato un contratto con De Laurentiis che lo impegnava fino al ’65 con tre film all’anno. In quel periodo, De Laurentiis era a caccia di film di qualità da costruire attorno a Sordi, sul modello di Una vita difficile, La grande guerra, Tutti a casa. Dopo aver ricevuto la proposta di realizzare un film con Sordi, Elio Petri si mette al lavoro con Age e Scarpelli. L’idea è quella di un film a episodi, per sfruttare al meglio le formidabili capacità camaleontiche dell’attore. Com’è noto, il progetto del film (I mo-stri) passerà invece nelle mani di Dino Risi. Nelle intenzioni di Petri, tuttavia, doveva essere un’altra cosa: «Era un film politico molto forte. I personaggi erano in un certo senso storditi ma non

5 Giorgio Bocca, Mille fabbriche, nessuna libreria, «Il Giorno», 10 gennaio 1962.

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alienati. Raccogliemmo sedici storie e Sordi doveva interpretare sedici mostri: è del resto portato alla caricatura espressionista del piccolo-borghese. Ma il film era politico, c’era dentro l’uomo politico, c’era Agnelli, c’era il chirurgo»6. Non che il romanzo di Mastronardi mancasse di spunti per una caricatura espressioni-sta. Ma il contesto della provincia lombarda in cui veniva calato Sordi era di certo assai più connotato rispetto alla libertà creativa di un film a episodi.

La collaborazione con De Laurentiis per il Maestro di Vigeva-no non parte sotto i migliori auspici. Lo testimonia ad esempio una raccomandata inviata a Petri da De Laurentiis, il 22 luglio del 1963: «Sono sbalordito della “tua leggerezza” nei confronti degli impegni con noi assunti»7, gli scrive il produttore allu-dendo al fatto che Petri sta lavorando nel frattempo allo sketch Amore nel pomeriggio per il film a episodi Alta infedeltà, scritto sempre con Age e Scarpelli, muovendosi così di fatto tra due set. Nel corso delle riprese, peraltro già travagliate per l’aperta ostilità di Vigevano nei confronti della troupe, De Laurentiis dà ulteriori prove del suo piglio di produttore autoritario:

«Est irresponsabile et da dilettanti stampare una scena più di due volte stop Ti prego pertanto disporre per il futuro di non stam-pare più di due volte perché in questo senso ho dato disposizioni allo stabilimento di stampa stop Il materiale continua ad essere ottimo saluti – Dino»8. Ancora, in riferimento al girato: «Ho vi-sto materiale della piazza va bene ma non fa ridere stop Ricordati che dove possibile dobbiamo assolutamente far ridere saluti – De Laurentiis»9.

Il produttore non era persuaso dell’impiego del capitale rap-presentato da Sordi. D’altro canto, la gestione dell’attore non era facile. Da tempo Sordi andava manifestando le proprie ambizio-ni autoriali, dichiarando l’esigenza di dirigere i suoi film. Come ricordava lo stesso De Laurentiis a proposito del periodo in cui

6 E. Petri, cit. in A. Rossi, Elio Petri, cit., p. 44.7 Raccomandata di De Laurentiis, Roma 22 luglio 1963 (Archivio Museo Na-

zionale del Cinema di Torino [d’ora in poi AMNC], Fondo Elio Petri, ELPE0199).8 Telegramma di De Laurentiis a Elio Petri, Roma 26 settembre 1963 (AMNC,

Fondo Petri, ELPE0202).9 Telegramma di De Laurentiis a Elio Petri, Roma 26 settembre 1963 (AMNC,

Fondo Petri, ELPE0203).

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aveva Sordi sotto contratto: «Sordi non era uno scritturato qual-siasi, si sentiva un autore e in fin dei conti lo era. A quel punto voleva imprimere una svolta alla carriera, dirigersi da sé, cosa che fece poi attraverso una ventina di film. Aveva sempre dato, del resto, un grande contributo di creatività ai personaggi che interpretava. A volte debordava, tendeva a sopraffare i registi, a cambiare le situazioni e i dialoghi all’ultimo momento. Me ne ac-corsi quando dovetti volare in Israele per dirimere i suoi contrasti d’opinione con il regista inglese che dirigeva I due nemici. David Niven, da attore disciplinatissimo, era sbalordito e spiazzato da quelle che giudicava intemperanze del partner italiano»10.

A ciò si aggiunga la strana coppia, ovvero Claire Bloom con l’accento lombardo e Alberto Sordi, assortita da De Laurentiis sulla scorta della sua idea di internazionalizzare il cinema e lo stardom italiani, ma poco efficace nella drammaturgia della com-media italiana. Le pressioni subite da Petri sul set erano insomma ben diverse rispetto alla lavorazione de I giorni contati. Tuttavia, poteva contare finalmente su un efficace apparato produttivo e pubblicitario. Il film esce nei cinema italiani nel Natale del 1963. Anche nella frasi di lancio si esprime però la difficoltà di inqua-drare Il maestro di Vigevano nello standard produttivo della com-media italiana di costume:

A Natale sugli schermi di tutta Italia una nuova interpretazione di un grande attore: Alberto Sordi nelle vesti de Il Maestro di Vigeva-no. Il film tratto dall’omonimo romanzo di Lucio Mastronardi ha in sé tutti gli elementi di uno spettacolo vero, allegro, umano, co-mico e attuale: è il film che per Natale Dino De Laurentiis propone al pubblico. Per la regia di Elio Petri, il film è interpretato anche dalla bellissima Claire Bloom, l’indimenticabile, timida ballerina di Luci della ribalta […] È divertente, è commovente, è interessante, è curioso, è una novità11.

Nonostante il buon successo di pubblico, la critica inizia a prendere le distanze dal promettente regista esistenzialistico di I giorni contati. L’argomento principale, com’è facile intuire, ri-guarda il rapporto con il libro di Mastronardi. Per «La Stampa»

10 Tullio Kezich, Era innamorato della Mangano? A modo suo, «Corriere della Sera», 27 febbraio 2003.

11 «L’Unità», 23 dicembre 1963.

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si tratta di «un passo indietro di Petri incappato nella difficoltà di tradurre in film un romanzo forse intraducibile»12. Su «L’Unità», le imperfezioni del film sono ricondotte anche alle esigenze di De Laurentiis «nasce il sospetto che la libertà creativa del regista, non tanto dal coraggioso raffronto col romanzo sia stata condi-zionata, quanto da una certa sommarietà del copione e dalla ob-bligante scelta dell’interprete»13. Il confronto film-romanzo, tutto a vantaggio della complessità linguistica di quest’ultimo e dello schematismo della sua traduzione cinematografica, è ovviamen-te al centro anche della lettura di Moravia, che non esita però a riconoscere i meriti di Petri («un film che è certamente uno dei suoi migliori, se non il migliore»14). Ma «il contrasto tra la dignità morale della professione di maestro e la volgarità del me-stiere di scarparo», come scrive Moravia, prelude a quel conflitto tra culturale e industriale che prende forma in modo ancora più marcato con La decima vittima.

«UN OZIOSO ARREDATORE D’INTERNI»

«Non mi restava che far muovere dei personaggi schematici e in-trodurre una satira della scenografia, degli oggetti allora in voga, o che lo sarebbero stati di lì a poco in tutta Europa»15. Così Elio Petri commentava la vicenda produttiva di La decima vittima, un film che Carlo Ponti non voleva realizzare ma che gli fu girato dal collega De Laurentiis il quale, stando all’aneddotica, ruppe i rapporti con Petri dicendo al regista di farselo finanziare da Togliatti. Carlo Ponti si convinse a entrare nel progetto solo per il coinvolgimento di Marcello Mastroianni, assoldato da Petri grazie alla forte amicizia che li legava. La presenza di Mastroi-anni in una spy story ambientata nel futuro sembrava sulla carta adattarsi perfettamente a Carlo Ponti e alla sua idea di realizzare «un cinema fortemente connotato come italiano, ma di stan-

12 «La Stampa», 24 dicembre 1963.13 «L’Unità», 27 dicembre 1963.14 Alberto Moravia, I contrattempi del dialetto, «L’Espresso», 29 dicembre

1963, ora in Alberto Pezzotta, Anna Gilardelli (a cura di), Alberto Moravia. Cine-ma italiano. Recensioni e interventi 1933-1990, Bompiani, Milano 2010, p. 527.

15 A. Rossi, Elio Petri, cit., p. 49.

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dard internazionale»16. La possibilità di abbinare a Mastroianni Ursula Andress era un’ottima premessa. Petri, ovviamente, era attirato da altre cose. Anzitutto, dall’idea di elaborare con To-nino Guerra e Ennio Flaiano una sceneggiatura sulla «possibile borghesia dell’anno 2000», ovvero sulla «crudeltà dei rapporti interpersonali in un grande paese dalla tecnologia sofisticata e dal capitalismo avanzato»17, dunque di mettere in scena una sorta di pamphlet allegorico a partire da una lettura politico-sociologica del libro di Robert Sheckley, ma muovendosi dentro uno tra i generi cinematografici più in voga alle metà degli anni Sessanta. Carlo Ponti, tuttavia, si disappassionò quasi subito al progetto. Il budget fu ridimensionato nel corso della lavorazione, passando dal set newyorchese al quartiere Eur di Roma. Petri rischiò per-sino di essere licenziato prima ancora della fine del film quando chiese a Ponti di poter girare la sequenza finale in Africa. Anche Flaiano uscì presto dal film.

La decima vittima va anzitutto collocato nell’orizzonte di un rilancio dei film di genere. Il successo di questi film era il se-gno di una trasformazione dei gusti del pubblico italiano dopo la buona predisposizione all’opera difficile di Fellini o Visconti nel fatidico 1960, fenomeno ben sintetizzato nella formula del «superspettacolo d’autore», coniata da Vittorio Spinazzola. A metà del decennio, la capacità dell’opera d’autore di intercettare ampie fasce di pubblico sembra già esaurita. Le file per vedere La dolce vita lasciano il posto all’inaspettato quanto straripante successo di Per un pugno di dollari. La mutazione del pubblico è sotto gli occhi di tutti. In un’intervista rilasciata a «Il Messag-gero», De Laurentiis afferma: «credo che un film debba essere compreso da tutti. Se questo non avviene l’opera è sbagliata. Sono in molti a pensare che “il boom” del western e del fantapo-liziesco sia causato proprio da una reazione del pubblico ai film cosiddetti impegnati»18. Il fantapoliziesco di cui parla De Lau-rentiis è un’allusione al fenomeno James Bond e alle sue molte-plici riscritture, in cui rientra anche La decima vittima di Petri. Fenomeno di successo internazionale, ovviamente, ma che una

16 Barbara Corsi, Con qualche dollaro in meno. Storia economica del cinema italiano, Editori Riuniti, Roma 2001, p. 176.

17 Ibidem.18 Dichiarazione di Dino De Laurentiis in «Cinema 60», 61, 1967, p. 11.

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volta calato sulla scena intellettuale italiana innesca un dibattito più o meno apocalittico sulle strategie dell’industria culturale e sull’«alienazione» di un pubblico sempre meno incline a seguire le indicazioni della critica. La cultura italiana si insospettisce. Le polemiche sulla pericolosità del modello Bond riempiono riviste e rotocalchi19. Vale la pena di citare di nuovo Giorgio Bocca che ora dilata l’incipit del suo reportage vigevanese in una prospet-tiva quasi spengleriana:

Con l’ultimo James Bond la confessione del secolo arriva alla sin-cerità estrema: nel mondo contemporaneo sopravvive un unico va-lore, il denaro che nel sesso ha una componente piacevole, ma non indispensabile. Resta l’amore fisico ma scompare l’amore passione, unica passione vera essendo quella dell’oro […] Gli intellettuali che fabbricano Bond hanno evidentemente capito che una bella confe-zione con un minimo di alibi di finzione assicura, nel mondo con-sumistico, il passaggio di qualsiasi merce. Di film in film essi hanno caricato la dose dell’immoralismo e immagino che l’esperimento abbia superato ogni loro più audace aspettativa: lo spettatore medio è pronto ad accogliere qualsiasi mostruosità.20

La critica cinematografica italiana, coinvolta in prima linea nel dibattito sui pericoli ideologici del fenomeno “Bond”, in-travede nella creatura di Ian Fleming il simbolo del definitivo assoggettamento di un sempre più sfuggente “spettatore medio”. Per capire cosa porta gli spettatori a seguire le avventure di 007 e a disertare i film di Antonioni, si scomodano Gramsci e Freud, i persuasori occulti di Packard e la teoria della magia di Mauss. Aristarco se la prende con i «nipotini nostrani di Goldfinger» e con quegli intellettuali, come Mario Soldati, accondiscendenti verso il cinema di consumo, i quali arrivano a riconoscergli «una splendida rifinitura sul piano spettacolare e tecnico», osservazio-ne quanto mai pericolosa perché incline a sottovalutare il potere

19 Sulla ricezione del fenomeno Bond in Italia sulla stampa popolare, si veda: Gabriele Rigola, «L’eroe di questa nostra epoca, il simbolo dei nostri desideri segreti». Il fenomeno Bond in Italia attraverso i periodici e le riviste femminili (1964-1968), in Matteo Pollone (a cura di), James Bond. Fenomenologia di un mito (post)moderno, Bietti, Milano 2016 (in corso di stampa).

20 Giorgio Bocca, Gli intellettuali che fabbricano Bond, «Il Giorno», 30 gennaio 1966.

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suggestionante di tale spettacolo21. Questo è il clima in cui viene accolto il film di Petri, i cui riferimenti al “bondismo” sono ben sintetizzati dalla presenza di Ursula Andress.

Sulle pagine di «Cinema Nuovo», emerge anzitutto il peso anzi la bolla di scomunica della collaborazione con Ponti: «La de-cima vittima, prima della firma di Petri, porta il marchio di fab-brica di Carlo Ponti, le cui idee sul cinema, e i mezzi per imporle, sono largamente noti. E questo, se non spiega tutto, spiega certo molte cose»22. Si parla di un film del «filone qualunquistico-sen-timentale in cui il cinema italiano sembra consumare da tempo le sue spericolate audacie con approvazione dei superiori»; Petri è definito «un ozioso arredatore di interni»23. Per altri il film è un’occasione mancata, segnata da una non piena adesione allo scetticismo del romanzo di Schekley: «Petri non permette che sia reso per intero il vaticinio funereo del suo scrittore, di un domani impotente, aberrato e dalle comunicazioni paurose. Anzi, volta un po’ in scherzo la faccenda […] lasciando a scenografi, co-stumisti e operatore di descrivere un mondo superstite»24. Sulle pagine di «Cinema 60», Alberto Abruzzese colloca il film sullo fondo della battaglia culturale in corso:

La decima vittima appare debole se confrontato con i risultati della letteratura che lo riguarda, non solo, ma anche ambiguo nelle in-tenzioni. Petri risulta con questo film un indice indicativo di quel meccanismo che, da tempo, andiamo combattendo su questa rivi-sta: volere (perché non si può o non si sa fare altrimenti) iniettare “impegno” (esso stesso frutto bastardo di una politica culturale) in schemi spettacolari, che a questo sono estranei. Voler cioè condurre un discorso laddove nessuno, dal produttore al fruitore, è disposto a sentirlo.25

Si potrebbe aggiungere che proprio la critica, prima ancora del pubblico e dei produttori, appariva indisposta all’ascolto dei tentativi di aggiornare il matrimonio tra impegno e spettacolo

21 Guido Aristarco, Il western all’italiana e la lettera rubata di Poe, «Cinema Nuovo», 179, 1966, p. 6.

22 A. F., La decima vittima, in Ivi, p. 57.23 Ivi, p. 58.24 Gian Battista Cavallaro, La decima vittima, «Cineforum», 50, 1965, p. 876.25 Alberto Abruzzese, La decima vittima, «Cinema 60», 61, 1967, p. 58.

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dei film d’autore dei primi anni Sessanta. Come nota Lucia Car-done, l’ambivalenza della messa in scena di Petri era ed è invece uno dei punti di forza di La decima vittima:

Ciò che a prima vista può sembrare un omaggio si rivela, ad un esame più attento, una critica feroce. La sensualità dello sguardo di Petri ha finito per mascherare l’intento polemico e per occulta-re la volontà satirica. Un film che si pone consapevolmente criti-co rispetto alla pubblicità, alla cultura di massa, al design, viene dunque letto, paradossalmente proprio nei termini di un prodotto glamour, aggiornato sulle ultime tendenze della moda. La scattante compattezza del racconto, il piglio sinuoso dello stile e la sapiente costruzione figurativa – componenti essenziali della coreografia di maschere ordita dal film – hanno determinato valutazioni superfi-ciali, nonché la classificazione di La decima vittima nei termini di un elegante esercizio di stile.26

Vale la pena riportarne alcuni passaggi da due documenti del periodo, provenienti dall’archivio personale di Elio Petri. Si trat-ta di due lettere, la prima di Luciano Mastronardi, l’altra del critico Giovanni Grazzini. Entrambi testimoniano la propria so-lidarietà al regista, ma ribadiscono anche la difficoltà di guardare al rapporto tra arte e industria se non in termini oppositivi, con Mastronardi che paventa l’ipotesi di ritirarsi nel silenzio e Graz-zini che invita Petri a «non vergognarsi» tutto sommato di La decima vittima:

Caro Elio, ho seguito sui giornali la lavorazione del tuo quarto film (e mezzo), “La Decima vittima”; adesso sto seguendo le recensioni. Il film non l’ho ancora visto, ma mi riprometto di vederlo quando sarà su a Milano. La critica, di questi tempi, è particolarmente spie-tata con tutti i grandi: Fellini, lo stesso Visconti, l’anno scorso An-tonioni, nel cinema; Moravia e adesso Calvino stanno sopportando una fucilazione continua. Il talento viene messo in dubbio da gente senza talento, con biliosità e livore del resto naturali. Tu sei, per ora, l’ultima di queste illustri vittime […]. Cerchiamo di essere chiari e spietati con noi stessi, cerchiamo insomma la complicità delle vittime, la nostra complicità. Tu, caro Elio, hai fatto due film meravigliosi; I giorni contati sono un capolavoro (l’ho rivisto in una retrospettiva) e, quello che più conta nell’arte, a distanza di tempo,

26 L. Cardone, Elio Petri, impolitico, cit., pp. 95-96.

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emergono particolari, emergono momenti che alla prima lettura, presi dalla trama, passano inosservati […] Quando tu mi parlavi di film fantascientifico, io avevo un brutto presentimento: queste genere mi pareva estraneo alla tua esistenzialistica sensibilità […] Oggi è tempo di confusioni, di avanguardie, di prefabbricazioni industriali; è difficile, quasi impossibile non cadere nel gioco. Si dovrebbe smettere, come hanno fatto Rossellini nel tuo campo, e Vittorini nel mio. Ma anche questo è un errore. C’è ancora tanto da dire, tanto da rappresentare.27

Scrive invece Giovanni Grazzini:

Il cinema ormai è quello che è, e credo che un regista, prima di imporsi ai produttori (benché nessuno penso ci sia mai riuscito, se non ha rischiato tutto di tasca propria: eroismo che non si può pretendere) – deve inghiottire molti bocconi amari. L’importante, direi, è continuare a fare il mestiere con pulizia, non calare le bra-che. È per il timore che un uomo come te, che stimo sinceramente, si consegni interamente alle ragioni commerciali, che io ho il do-vere di tirarti la giacca […] La decima vittima non è poi un grande tradimento del quale tu ti debba vergognare […] Sono sicuro che stringendo i denti acquisterai tutto il rispetto che meriti.28

«HO LETTO GUY DEBORD, MA SE SI IMBOCCA QUELLA STRADA…»

Anche in virtù della sua lunga militanza nella critica, Petri in-tervenne a più riprese nel dibattito sul cinema italiano. Le testi-monianze rilasciate nel periodo compreso tra I giorni contati e l’esperienza con Ponti e De Laurentiis ci offrono un quadro della sua idea sul cinema in rapporto alle trasformazioni dell’industria culturale degli anni Sessanta. Petri insiste spesso sull’espressione «cinema di idee», su come questo possa o debba conciliarsi con le esigenze commerciali del film. Di fatto, è possibile leggere alcuni di questi scritti come una riflessione in prima persona sul suo rap-porto con il modo di produzione industriale di Ponti e De Lau-rentiis. Nel 1962, in qualità di giovane esordiente o quasi, Petri

27 Lettera di Lucio Mastronardi – dopo l’uscita del film e le prime recensioni, Vigevano 10 dicembre 1965 (AMNC, Fondo Petri, ELPE0214).

28 Lettera di Giovanni Grazzini, Milano 18 dicembre 1965 (AMNC, Fondo Petri, ELPE0216).

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partecipa al questionario di Vittorio Spinazzola per radiografare la situazione del cinema italiano. Rispondendo a una domanda sugli “ostacoli” che si incontrano nello sviluppo di questa profes-sione, Petri si focalizza sul rapporto con il pubblico: «Una incom-prensione fondamentale è quella per la quale si scambia ancora oggi il cinema per semplice svago», specificando però che «come spettatore sarei ben triste se mi togliessero i film d’avventure, o i film di Totò; non vorrei semplicemente che tutto si riducesse al loro livello». «Quello del pubblico», prosegue Petri, «è un grande ostacolo nello sviluppo di un cinema di idee o quantomeno di problemi, e essendo il cinema uno spettacolo – e questo nessuno di noi può negarlo nemmeno il più calvinista – ha come naturale destinazione il pubblico». Questo apparente paradosso è risolto proprio da quegli autori «controcorrente» – Petri cita Stroheim, Visconti, Antonioni – che non solo riescono più o meno faticosa-mente a realizzare i loro film contro la diffidenza dei produttori, ma che dimostrano come a poco a poco ciò che sul momento appare controcorrente può trasformarsi in «affare» per l’industria del cinema. Con tutte le difficoltà del caso, Petri indica nei pro-duttori gli unici soggetti in grado di trasformare il capitale cultu-rale del cinema in capitale economico, ma individua nella cen-sura politica il vero ostacolo insormontabile del cinema italiano: «Un impedimento grave nella ideazione del film è rappresentato certamente dal loro costo presumibile, ma per smontare questo ostacolo si può aguzzare l’ingegno. Per quanto ci si sforzi, invece, la censura politica resta un ostacolo quasi insormontabile, poiché raggiunge gli uomini di cinema giù nel subconscio […] io ten-terei volentieri il ritratto di un giovane uomo politico (di Mario Alicata, per esempio, o di Giulio Andreotti, o di tutti e due in un medesimo film); un film in cui le sedi e le insegne della vita politica siano quelle reali: esiste un produttore, in Italia, disposto ad affrontare un’impresa simile?»29. Il passaggio è interessante per vari motivi. Petri anticipa anzitutto il progetto di film politico che perseguirà in modo concreto a partire da A ciascuno il suo e che troverà poi in Todo modo il suo esito più radicale. Esito che, appunto, si scontrerà anche con inedite difficoltà di censura (che

29 Tutte le citazioni sono tratte da Vittorio Spinazzola, Inchiesta: i registi degli anni 60, ora in Jean A. Gili (a cura di), Elio Petri. Scritti di cinema e di vita, Bulzoni, Roma 2007, pp. 85-89.

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non riguardano la sua produzione quanto la sua distribuzione e circolazione a seguito del fatale gioco di specchi con la realtà del-la cronaca). D’altro canto, la vena cronachistica («sedi e insegne reali»), lascerà presto spazio alle sfumature dell’allegoria e a un registro visivo grottesco. Già nel 1964, Petri rilasciava interviste in cui confessava di avere già pronto un soggetto sulla gestione del «potere politico» in Italia, messo a punto durante l’elezione di Saragat, le cui sedute parlamentari ha seguito direttamente: «il titolo che ho in mente per questa favola moderna su come nasce un Presidente (un presidente immaginario in uno stato immagi-nario) è “il vuoto di Potere”»30.

Ma l’aspetto ancora più degno di nota ai fini del nostro di-scorso è la volontà di Petri di non separare il cinema di idee dal-lo spettacolo, ovvero di realizzare film personali ma in stretto rapporto con il pubblico e con l’industria, guardando cioè alle esigenze di uno e dell’altro. Sempre nel 1964, ovvero a cavallo tra l’esperienza con De Laurentiis e quella con Ponti, a ridosso del tracollo della Titanus, questa certezza sembra fare i conti con la realtà difficile della ricerca di uno spazio di manovra all’interno dell’industria. «La crisi strutturale del cinema», scrive Petri in un articolo su «Cinema 60», «ha provocato la sparizione del piccolo produttore e porta alla formazione di un mercato monopolistico, nel quale non ci sarà posto per la produzione di film diversi da quelli che incassano già sulla carta. Il cinema di idee dovrà farsi largo, fuori delle strutture industriali, senza servirsi di esse»; ma «un film di idee può oggi contare sul pubblico di un romanzo di successo: è già qualcosa; è a questo pubblico che bisogna rivol-gersi e partire da questo dato economico»31. Il successo dell’ope-razione Gattopardo, prima ancora che il proprio caso personale, legato al film di Mastronardi, si offre agli occhi di Petri come una concreta possibilità di rilancio del film di idee, nel contesto di un modo di produzione che va via via irreggimentandosi.

Consumata anche la burrascosa esperienza con Carlo Ponti, la riflessione di Petri si fa più amara ma allo stesso tempo ancora più lucida nel mettere a fuoco il paradosso costitutivo del rap-porto tra il film di idee, l’industria e il pubblico:

30 Un film di Elio Petri sulle elezioni presidenziali, «L’Unità», 20 dicembre 1964.31 Elio Petri, Gioco di squadra e specialità individuali, «Cinema 60», 44, agosto

1964, ora in J. A. Gili (a cura di), Elio Petri. Scritti di cinema e di vita, cit., p. 91.

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Cerchiamo di spiegarci come sia potuto accadere che il film di idee – anche quello più chiaramente impegnato in una battaglia di rin-novamento – non possa trovare altro, in Italia, che l’appoggio dello spettatore borghese contro cui in teoria è schierato: mancandogli in modo assoluto la simpatia del pubblico popolare. In che cosa hanno mancato gli autori di quei film? […] Le contraddizioni sono tante ed evidenti: una è questa: alcuni dei film più coraggiosi ap-parsi negli ultimi anni in Italia, in Francia, in Gran Bretagna sono stati prodotti con capitali americani: per giunta, se hanno avuto successo, lo devono ai pubblici borghesi europei ed americani. È lo stesso fenomeno dell’industriale collezionista di Guttuso – dico per semplificare – o queste contraddizioni vogliono dire qualcosa d’altro, che ci sfugge, ma che, individuato, possa aiutarci a capire di più quello che si deve fare?32

Difesa del capitale americano e richiamo all’empatia con il pubblico popolare. Ce n’è abbastanza per collocare Petri – il Petri critico, oltre che il regista – in una posizione anomala nel quadro della cultura cinematografica e del dibattito tra intellettuali e cul-tura di massa alla metà degli anni Sessanta. Certo, Petri manifesta una comprensibile ambivalenza (per formazione, per credo po-litico) nei confronti dell’industria cinematografica “pesante” dei Ponti e De Laurentiis; è indubbio che quando scrive cose come «il cinema ha oggi un nemico pericolosissimo in certa industria che tende a commercializzarlo, svuotarlo di interesse, a togliergli vigore e carattere»33 ha probabilmente in mente la sua esperienza con i due produttori. Forse, come lo stesso Petri confessava, an-che attraverso il burrascoso rapporto con i due grandi produttori del cinema italiano ha appreso la necessità della difesa a oltranza del carattere comunicativo del film, la necessità di cercare sempre un pubblico. La convinzione che il cinema di idee non fosse la negazione dello spettacolo ma – potremmo dire – la sua prose-cuzione con altri mezzi, si esprime soprattutto nel netto rifiuto delle posizioni settarie, radicali e oltranziste che si affermeranno dopo il 1968, posizioni che Elio Petri leggeva nel solco di una pe-ricolosa, nichilistica vocazione allo scacco e all’autodistruzione:

32 E. Petri, Crisi o vitalità?, «Cinema 60», 62-63, aprile-giugno 1967, ora in J. A. Gili (a cura di), Elio Petri. Scritti di cinema e di vita, cit., p. 93.

33 Elio Petri ha fiducia nel cinema italiano, «Cineforum», 62, febbraio 1967, p. 97.

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Forse è giunto il momento di rinunciare semplicemente a fare ci-nema. Per qualcuno come me, che fa film per il grande pubblico, la struttura drammatica tradizionale è la formula più semplice e forse anche più facile. Concessioni al pubblico? Francamente non credo, mi sento io stesso parte di questo pubblico […] A me piace lo spettacolo. Ho letto Guy Debord e La società dello spettacolo. Ma se si imbocca questa strada, bisogna distruggere tutto quello che ci circonda. Tutto è spettacolo: una vetrina, un’andatura, una maniera di guardare, di vestirsi. L’uomo, è l’uomo che ama lo spettacolo. Accettare lo spettacolo significa accettare la propria condizione.34

34 Intervista a Elio Petri, «Jeune Cinéma», 74, novembre 1973, p. 23.


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