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Gli storici e Michel Foucault. Interventi di Paola Di Cori, Lynn Hunt, Paolo Napoli, Valerio...

Date post: 02-Dec-2023
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285 CONFRONTI A trent’anni dalla scomparsa di Michel Foucault, nel giugno 1984, e a poco più di cinquanta dalla pubblicazione di Storia della follia si moltiplicano oggi le occasioni di riflessione intorno al dialogo, passato e attuale, tra l’intellettuale francese e la sto- riografia. Seminari e volumi collettivi, oltre alla pubblicazione di un ultimo volume dei Corsi al Collège de France (1972-1973), of- frono l’opportunità di ripensare a un rap- porto complesso, indubbiamente difficile, eppure intenso che ha legato gli studi sto- rici al pensiero foucaultiano, e di provare a immaginarne la prosecuzione 1 . «Contem- poranea» ha deciso di partecipare a questa riflessione coinvolgendo nel consueto con- fronto a più voci alcuni autori che si sono misurati a lungo con quel pensiero nei suoi molti percorsi e che si sono impegnati a svi- luppare qui un proprio contributo sulle po- tenzialità, l’attualità e i limiti di quell’incon- tro. Introducendo nel 1994 il primo volume dedicato a un bilancio del rapporto tra Fou- cault e la storia, Jan Goldstein scriveva che la sua immagine congiunta di filosofo e di storico era una di quelle che più tendevano a resistere a qualsiasi categorizzazione semplificata 2 , e sottolineava che a quella difficile congiunzione si doveva, almeno inizialmente, uno scarso riconoscimento da parte di entrambe le discipline e forse alcuni malintesi. Poco prima di morire, Foucault stesso, intervistato insieme ad Arlette Farge per commemorare la scom- parsa di un altro grande personaggio, Phi- lippe Ariès, si lasciava andare a una con- siderazione che faceva maggiore chiarezza sulla questione. Di fronte alle sollecitazioni Gli storici e Michel Foucault a cura di Emmanuel Betta, Paolo Capuzzo, Carlotta Sorba. Intervengono Paola di Cori, Lynn Hunt, Paolo Napoli, Valerio Marchetti Emmanuel Betta, Paolo Capuzzo, Carlotta Sorba Un filosofo-storico? 1 D. Bocquet, B. Dufai, P. Labey (dir.), Une histoire au présent. Les historiens et Michel Foucault, Paris, CNRS Alpha, 2013; H. Oulc’hen (dir.), Usages de Foucault, avant-propos de G. le Blanc, Paris, Puf, 2014; D. Lorenzini, A. Sforzini (dir.), Un demi-siècle d’Histoire de la folie, Paris, Editions Kimé, 2013; M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France, 1972-73, sous la direction de B.E. Harcourt, Paris, Ehess, Gallimard-Seuil, 2013. 2 J. Goldstein (ed.), Foucault and the writing of history, Oxford, Blackwell, 1994. Contemporanea / a. XVII, n. 2, aprile-giugno 2014
Transcript

285

c o n f r o n t i

A trent’anni dalla scomparsa di Michel

Foucault, nel giugno 1984, e a poco più di

cinquanta dalla pubblicazione di Storia

della follia si moltiplicano oggi le occasioni

di riflessione intorno al dialogo, passato e

attuale, tra l’intellettuale francese e la sto-

riografia. Seminari e volumi collettivi, oltre

alla pubblicazione di un ultimo volume dei

Corsi al Collège de France (1972-1973), of-

frono l’opportunità di ripensare a un rap-

porto complesso, indubbiamente difficile,

eppure intenso che ha legato gli studi sto-

rici al pensiero foucaultiano, e di provare

a immaginarne la prosecuzione1. «Contem-

poranea» ha deciso di partecipare a questa

riflessione coinvolgendo nel consueto con-

fronto a più voci alcuni autori che si sono

misurati a lungo con quel pensiero nei suoi

molti percorsi e che si sono impegnati a svi-

luppare qui un proprio contributo sulle po-

tenzialità, l’attualità e i limiti di quell’incon-

tro. Introducendo nel 1994 il primo volume

dedicato a un bilancio del rapporto tra Fou-

cault e la storia, Jan Goldstein scriveva che

la sua immagine congiunta di filosofo e di

storico era una di quelle che più tendevano

a resistere a qualsiasi categorizzazione

semplificata2, e sottolineava che a quella

difficile congiunzione si doveva, almeno

inizialmente, uno scarso riconoscimento

da parte di entrambe le discipline e forse

alcuni malintesi. Poco prima di morire,

Foucault stesso, intervistato insieme ad

Arlette Farge per commemorare la scom-

parsa di un altro grande personaggio, Phi-

lippe Ariès, si lasciava andare a una con-

siderazione che faceva maggiore chiarezza

sulla questione. Di fronte alle sollecitazioni

Gli storici e Michel Foucaulta cura di Emmanuel Betta, Paolo Capuzzo, Carlotta Sorba. Intervengono Paola di Cori, Lynn Hunt, Paolo Napoli, Valerio Marchetti

Emmanuel Betta, Paolo Capuzzo, Carlotta Sorba

Un filosofo-storico?

1 D. Bocquet, B. Dufai, P. Labey (dir.), Une histoire au présent. Les historiens et Michel Foucault, Paris, CNRS Alpha, 2013; H. Oulc’hen (dir.), Usages de Foucault, avant-propos de G. le Blanc, Paris, Puf, 2014; D. Lorenzini, A. Sforzini (dir.), Un demi-siècle d’Histoire de la folie, Paris, Editions Kimé, 2013; M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France, 1972-73, sous la direction de B.E. Harcourt, Paris, Ehess, Gallimard-Seuil, 2013.2 J. Goldstein (ed.), Foucault and the writing of history, Oxford, Blackwell, 1994.

Contemporanea / a. XVII, n. 2, aprile-giugno 2014

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3 A. Farge, M. Foucault, Le style de l’histoire, intervista apparsa su «Le Matin de Paris» del 21 febbraio 1984, ripresa in Dits et écrits 1954-1988, t. 4, sous la direction de D. Defert, F. Ewald, avec la collaboration de J. Lagrange, Paris, Gallimard, 1994, p. 652.4 Si vedano i dati forniti da A. Megill, The reception of Foucault by historians, «Journal of the history of ideas», 1987, 1.5 A.M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore all’origine dell’Italia unita, Torino, Einaudi, 2000, p. XII.

dell’intervistatore e di Farge stessa, che

insistevano sul profondo spirito di rottura

che animava i loro due percorsi, Foucault

rispondeva:

Oui mais Ariès était historien, a voulu faire œuvre d’historien. Alors que moi, au fond, je faisais de la philosophie. [...] Et ce que j’ai voulu faire était dans l’ordre de la philoso-phie: peut on réfléchir philosophiquement sur l’histoire des savoirs comme matériel his-torique, plutôt que de réfléchir sur une théorie ou une philosophie de l’histoire. D’une façon un peu empirique et maladroite, j’ai envisagé un travail aussi proche que possible de celui des historiens, mais pour poser des questions philosophiques, concernant l’histoire de la connaissance. J’attendais la bonne volonté des historiens3.

Quanto dunque ha funzionato la buona vo-

lontà degli storici su cui egli confidava, su

quali «piste» da lui disegnate – per usare un

altro termine foucaultiano – si è lavorato e

si può continuare a lavorare? Sarebbe forse

utile, come si chiede Valerio Marchetti nel

suo contributo, un censimento su come gli

storici hanno messo alla prova le sue tesi,

anche perché i percorsi della sua ricezione

nella storiografia, in Italia come all’estero,

costituiscono una questione per molti versi

aperta. Mentre le scienze sociali hanno

iniziato a confrontarsi criticamente con la

produzione foucaultiana sin dai tempi della

Storia della follia, fino alla metà degli anni

Settanta tra Foucault e la ricerca storica il

confronto è stato a dir poco episodico. Se

nel 1962 Robert Mandrou aveva recen-

sito con entusiasmo quella prima opera

sulle «Annales», fu necessario attendere

il 1977 perché un’altra rivista di storia, la

«American Historical Review», tornasse

a discutere di un lavoro di Foucault, con

una recensione di Sorvegliare e punire, fir-

mata, non a caso, da Hayden White, un al-

tro nome piuttosto irregolare per la ricerca

storica4. Nel caso italiano, d’altra parte, le

diffidenze di matrice storicista e idealista

verso l’approccio genealogico foucaultiano,

segnato da un’impronta nietzschiana, come

sottolinea Di Cori, sembrano aver avuto

un peso sostanziale nel modo con il quale

la storiografia italiana ha guardato, o non

ha guardato, alla ricerca di Foucault: dopo

la riprovazione firmata nel 1976 da Carlo

Ginzburg nell’introduzione a Il formaggio e

i vermi, occorrerà aspettare il 2000, a più di

quindici anni dalla sua morte, perché uno

storico italiano, Alberto Banti, ne La na-

zione del Risorgimento, faccia del confronto

con Foucault uno degli assi portanti della

propria proposta di ricerca5.

incontri e suggestioniÈ vero però che la riflessione foucaultiana

non ha lasciato inalterato il panorama

della ricerca storica. I contatti sono avve-

nuti su molti terreni, in forme e modalità

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6 Cfr. le due grandi opere dei Corsi tenuti da Foucault al Collège de France dal 1971 al 1983-84 e la pub-blicazione dei quattro volumi dei Dits et écrits 1954-1988, cit. È un’opera che comunque non manca di riservare continue sorprese, come testimonia la recentissima pubblicazione del corso tenuto a Lovanio nel 1981, Cfr.. M. Foucault, Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio (1981), Torino, Einaudi, 2013.

diverse – più ravvicinati, diretti, espliciti in

qualche caso, più pragmatici e creativi in

altri. Una prima considerazione da cui par-

tire riguarda i temi. È noto come sia stato

a partire da Foucault che già negli anni

Settanta si sono aperti cantieri di ricerca su

questioni fino ad allora del tutto ai margini

del lavoro storiografico: la follia, la clinica,

la sessualità, la prigione, su tutti. A esserne

toccati non sono stati solo i settori più ovvi,

la storia intellettuale, la storia della medi-

cina, la storia della sessualità, ma molti altri

campi tra cui la storia stessa della politica,

che iniziava da allora a trovare nel sé, nei

corpi e nel sociale delle traiettorie com-

pletamente nuove di sviluppo. In secondo

luogo, Foucault ha proposto all’attenzione

degli storici alcuni nuovi attrezzi concet-

tuali che oggi possono dirsi ormai entrati

stabilmente nel vocabolario degli storici,

talvolta quasi perdendo i riferimenti origi-

nari. Si pensi all’idea di pratiche discorsive,

alla biopolitica, alla governamentalità, ai

regimi di verità, alle tecniche del sé. Così,

c’è da chiedersi quanto sia diventato un

dato acquisito dalla ricerca storica che, nel

solco di una grammatica del potere ormai

ritenuta priva del principio di sovranità, sia

possibile afferrare i lineamenti del potere

disciplinare, guardando al di là dell’ap-

parato giuridico, a quella microfisica del

potere che investe concretamente e mate-

rialmente i corpi, costruendo attraverso la

loro disciplina – il quadrillage del lessico

foucaultiano – la loro soggettività.

Infine, terzo elemento da considerare, pro-

poste epistemologiche come quelle di ge-

nealogia e di archeologia hanno costituito

una sfida di grande rilievo nel ripensare

alla scrittura della storia nel momento

della crisi delle macro-narrazioni larga-

mente dominanti fino agli anni Settanta del

Novecento, che ha indotto un ripensamento

dei rapporti di forza interni ed esterni allo

stesso discorso storico. La distanza tempo-

rale che ormai ci separa da quegli anni, e la

disponibilità pressoché esaustiva della sua

opera6, consente oggi di confrontarsi più

agevolmente con un Foucault depurato sia

dalla sacralizzazione esegetica che spesso

ha accompagnato gli studi intorno alle sue

proposte, sia dai sospetti e dalle diffidenze

preconcette che hanno reso talvolta molta

dura la polemica con la storiografia. E di

affrontare in modo virtualmente più libero

la vitalità (o meno) dei suoi assunti, anche

storicizzando la sua parabola intellettuale.

La dimensione profondamente storica che

li percorre è indiscutibile. Non si tratta solo,

come ricorda qui Lynn Hunt, della più im-

portante meta-narrazione della modernità

emersa nel secondo dopoguerra, ma anche

della più profondamente intrisa di storicità,

poiché in Foucault tutto è storico, il sociale

prima di tutto. E la messa in discussione ra-

dicale della naturalità degli oggetti storici e

delle identità collettive è probabilmente il

lascito più forte che ci sia rimasto dal suo

pensiero. L’altro, di fondo, tematizzato qui

opportunamente da Paola Di Cori, riguarda

288

7 Cfr. l’introduzione al volume recente Une histoire au présent, cit., p. 12, e al suo interno il saggio di P. Chevallier, Que veut dire faire une histoire des problématisations?, pp. 121-136.8 Si veda E. Traverso, Il secolo armato. Interpretare le violenze del Novecento, Milano, Feltrinelli, 2012; e anche E. Betta (a cura di), Biopolitica e biopotere, «Contemporanea», 2009, 3.

il rapporto tra la storia e il presente. Se

quello di Foucault può essere considerato

un lavoro diagnostico, che analizza la re-

altà per trasformarla, una delle sollecita-

zioni più importanti rivolte agli storici è

stata quella di considerare il passato come

luogo di interrogativi sulle «problematiz-

zazioni» del presente7; non certo perché la

storia possa «insegnare» qualcosa o nella

convinzione che esistano strutture perma-

nenti che permettano un dialogo imme-

diato tra ieri e oggi, ma, al contrario, perché

la storia singolarizza l’attualità, mette alla

prova lo sguardo contemporaneo, gli dà i

mezzi di pensare diversamente.

Se c’è ormai un Foucault dei letterati, dei

politologi e degli antichisti, non è facile dire

se ce ne sia uno anche degli storici, ma la

cosa è poco rilevante se si pensa a come

dalle sue opere provenga un richiamo alla

necessità di far esplodere i saperi discipli-

nari. Non si tratta oggi di inseguire orto-

dossie e raggruppamenti, ma di capire se

e come lo storico possa ancora attingere a

una cassetta degli attrezzi molto ricca e arti-

colata senza rischiare di perdere le proprie

specificità, e anzi dialogando liberamente

con le sue suggestioni.

Paolo Napoli prova ad esempio qui a con-

frontarsi con l’idea di normatività, centrale

nel pensiero foucaultiano soprattutto a par-

tire dal corso al Collège de France del 1977-

1978 su Sicurezza, territorio, popolazione.

Egli mostra quali interrogativi l’operazione

storica faccia subire ai discorsi foucaul-

tiani, una volta precisamente situati; quali

reazioni critiche provengano subito dalla

storia sociale nei confronti della categoria

del disciplinamento, con una focalizzazione

sulla reale efficacia dell’azione discipli-

nante. In questo caso però, argomenta Na-

poli in modo convincente, alcune risposte

a quelle critiche sono già presenti nell’ela-

borazione foucaultiana e vanno oggi ripor-

tate alla luce. Emerge così in modo chiaro

il rilievo euristico della riflessione di quegli

anni, in particolare quando si consideri uno

dei suoi terreni teorici più fertili, vale a dire

la biopolitica. Si tratta di una categoria che

ha avuto maggior fortuna in ambito poli-

tologico e filosofico, ancorché siano state

colte le sue capacità di problematizzare in

maniera efficace la Shoah e le sue radici

anche in ambito storico8. Se il corpo e i

meccanismi del suo disciplinamento sono

stati al centro degli interessi di Foucault fin

dagli anni della Storia della follia è con il

1974, come mostra Valerio Marchetti, che

nel lessico foucaultiano emerge la defini-

zione di biopolitica per afferrare quel com-

binato disposto di disciplinamento religioso

e dinamiche di fabbrica che agiscono sulla

dimensione biologica dei corpi dei sudditi

e delle soggettività. Si indica così l’impor-

tanza di un ampio spettro di interventi che

la razionalità amministrativa di weberiana

memoria ha messo in campo per concre-

tizzare l’agire biopolitico non solo nella sua

parabola totalitaria. Qui – come sostiene

Marchetti – torna la questione dello stato,

sia nella discussione circa la scarsa centra-

lità che la riflessione foucaltiana gli ha at-

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9 Cfr. M. Connelly, Fatal misconception. The struggle to control world population, Cambridge (Mass.)-London, The Belknap Press of Harvard University Press, 2008.10 C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Torino, Einaudi, 1976; in questo passaggio si riferisce a M. Foucault (a cura di), Io Pierre Rivière avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello... Un caso di parricidio nel XIX secolo, Torino, Einaudi, 1976 [Paris, 1973].

tribuito, sia nel chiedersi se la stessa biopo-

litica si risolva tutta, o per la grande parte,

al di fuori dello stato e della dimensione

giuridica, come recenti studi sulla storia

trasnazionale delle forme di governo della

popolazione in età contemporanea hanno

segnalato9.

Difficoltà italianeSi può discutere se l’agenda foucaultiana

abbia lasciato qualche segno sulla storio-

grafia italiana. Ciò che certamente è man-

cato è stato però un confronto in profondità

con la sua opera. A trent’anni di distanza

qualche ipotesi di interpretazione si può

azzardare. Alcuni dei suoi temi, come si è

detto, hanno sollecitato il campo della storia

sociale e culturale: il grande internamento

e l’oggettivazione del corpo da parte dello

sguardo clinico, o la costituzione dei regimi

di verità razionale attraverso l’esclusione

della follia. Altre tracce sono state meno

battute: ad esempio la formazione di disci-

pline e istituzioni per l’addomesticamento

dei corpi e il governo delle popolazioni. An-

cora meno, va detto, vi è stato un approfon-

dito confronto con il suo metodo: la ricerca

archeologica delle formazioni discorsive

come principi storicamente determinati

della costituzione del sapere; la genealogia

che ricostruisce la mobilitazione dei saperi

esplorandone gli effetti di verità; la conce-

zione microfisica del potere come prodotto

di un eterogeneo tessuto di relazioni e come

complesso di tecnologie che permeano il corpo sociale.Quali le ragioni di tutto ciò? Possiamo indi-carne alcune, consapevoli che la questione richiederebbe maggiore approfondimento, che rinviano in parte alla specifica tempe-rie culturale attraversata dalla storiografia italiana negli anni Settanta, in parte a dif-ficoltà più diffuse nell’utilizzo di Foucault per gli studi storici. Una – più generale – si può rintracciare nello scarso interesse di Foucault per la questione delle «cause», ri-chiamata da Lynn Hunt nel suo intervento. Per uno storico, infatti, l’interrogarsi sul perché di determinati fenomeni è spesso, prima ancora che un principio dei fonda-menti metodologici, il quesito dal quale muove la passione stessa per il proprio la-voro. Tale quesito non è invece mai stato al centro dell’elaborazione foucaultiana, e quando Foucault si è cimentato con esso non ha offerto i più brillanti risultati della sua attività intellettuale. Un’altra ragione è stata identificata in modo icastico da Carlo Ginzburg nell’introduzione a Il formaggio e i vermi. «Ciò che interessa soprattutto a Foucault – scriveva – sono il gesto e i criteri dell’esclusione: gli esclusi, un po’ meno»10. Era un modo di notare che nel metodo di Foucault non ci sarebbe spazio per l’in-dagine, pur difficile e incerta, sulle classi subalterne e la cultura popolare. Ciò che cade fuori dall’ordine del discorso – questa l’obiezione di fondo – sembrava essere al più evocabile nelle forme della contempla-

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11 Tecnologie del sé. Un seminario con Michel Foucault, a cura di L.H. Martin, H. Gutman, P.H. Hutton, Torino, Bollati Boringhieri, 1992.

zione estetica e della fascinazione per l’al-

terità, ma non integrabile sul piano della

comprensione intellettuale. Tale accusa

ha segnato in modo forte la successiva ri-

cezione di Foucault nella storiografia ita-

liana, anche perché essa cadeva in una fase

in cui la microstoria si proponeva come la

via di uscita più convincente alla crisi delle

grandi narrazioni. Ricostruendo reti di re-

lazione, rapporti di potere, modalità di for-

mazione e utilizzo delle risorse materiali e

simboliche, tale approccio proponeva modi

che potevano sembrare affini alla micro-

fisica foucaultiana; in realtà ponevano la

questione della agency individuale su basi

completamente diverse e non compatibili

con l’analitica foucaultiana del potere/

sapere come produttori di soggettività.

Maggiori e più costruttive opportunità di

confronto sarebbero state probabilmente

possibili con la tarda opera foucaultiana,

quando nei seminari californiani l’intel-

lettuale francese si riavvicinava all’idea

di soggettività e iniziava a tematizzarne

diversamente i tratti11. La microstoria, in

altri termini, quantomeno nella sua ver-

sione più attenta alla dimensione culturale,

poneva il tema dei linguaggi in modi che la-

ceravano inevitabilmente ogni sistematiz-

zazione dell’ordine discorsivo e presuppo-

nevano una pluralità di voci in conflittuale

relazione tra loro, irriducibili l’una all’altra.

La stessa postura intellettuale di Foucault

e microstorici appariva assai distante: il

freddo e disilluso atteggiamento analitico

di Foucault, sebbene talvolta illuminato

da improvvisi squarci di fascinazione per

l’alterità che sfugge all’ordine discorsivo,

poco si conciliava con lo sfondo etico pro-

prio dello storico materialista definito da

Benjamin nelle Tesi sul concetto di storia,

il cui lavoro è calato nell’agone di una lotta

che non sembra avere fine. Questa distanza

ha impedito un confronto che sarebbe stato

indubbiamente fruttuoso proprio perché,

pur nelle radicali differenze, i due approcci

mostravano punti di forza non privi di una

qualche complementarità: lo sguardo rav-

vicinato all’eterogeneità dei linguaggi e

all’instabilità irriducibile della dimensione

del potere; la capacità di cogliere le grandi

tendenze della formazione delle istituzioni

e dei saperi moderni, con la loro pervasiva

forza di neutralizzazione, controllo, produ-

zione di soggettività.

Vì è poi un terzo ordine di motivi che spiega

il difficile incontro tra Foucault e la storio-

grafia italiana e riguarda soprattutto gli spe-

cialisti della contemporaneità. Le rapide in-

cursioni di Foucault sulla storia dei grandi

regimi di massa novecenteschi, benché

capaci di individuare terreni di indagine

che sarebbero meritevoli di serio approfon-

dimento, rimanevano interne a una genea-

logia del potere disciplinare e del governo

delle popolazioni nella quale potevano tro-

vare poco spazio le grandi passioni collet-

tive che avevano agitato e travolto il Ven-

tesimo secolo. Oggi però, lo abbiamo detto,

questo percorso, anche con le sue indubbie

criticità, può essere utilmente storicizzato.

Nel farlo ci si rende ben conto di quanto

profondamente l’opera di Foucault abbia

contribuito a decostruire molte delle incro-

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1 M. Foucault, Sui modi di scrivere la storia, 1967, in J. Revel (a cura di), Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, I. 1961-1970, Follia, scrittura, discorso, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 153.2 Riprendo in parte alcune considerazioni svolte in P. Di Cori, Foucault, la storia, la genealogia, il presente, «École», novembre 2001. Ringrazio Emmanuel Betta, Giovanna Procacci e Patrizia Veroli per osservazioni e chiarimenti sull’argomento di questo articolo, di cui sono la sola responsabile. Per esigenze di spazio ho dovuto ridurre la versione originale, eliminando buona parte dei riferimenti.3 I due libri vennero tradotti in italiano molto presto. Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976 [Paris, 1975]; La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1978 [Paris, 1976].4 S. Bologna (a cura di), Dieci interventi sulla storia sociale, Torino, Rosenberg & Sellier, 1981 e il fascicolo speciale di «Movimento operaio e socialista», della cui redazione allora facevo parte, dedicato alla storia politica, dal titolo Storia contemporanea oggi. Per una discussione, 1987, 1-2. Cfr. P. Di Cori, Soggettività e

stazioni ideologiche che hanno avvolto le

grandi narrazioni storiche contemporanee,

così come l’ingenuo soggettivismo che ad

esse intendeva contrapporsi, insinuando

dubbi cruciali e fecondi sulle modalità di

costruzione della soggettività e sulle fragili

radici intenzionali di ogni agire storico. E di

quanto quello foucaultiano sia un cantiere

denso di suggestioni con cui continuare a

misurarsi oggi, magari meglio e più di ieri.

Paola Di Cori

Un avvenire promettente, forse. Appunti su Foucault, storici e storiche in Italia

Dopo la pubblicazione de Le parole e le

cose nel 1966, in una intervista concessa a

Raymond Bellour a proposito della acco-

glienza ricevuta dal libro – insieme entu-

siasta e reticente – Foucault commentava:

«Mi ha colpito questo fatto: gli storici di

professione lo hanno riconosciuto come

un libro di storia e molti altri, che hanno

un’idea della storia vecchia e oggi senz’al-

tro superata, hanno gridato all’assassinio

della storia»1.

Sono osservazioni utili anche per conside-

rare quanto siano stati modesti, nel com-

plesso, il ruolo e l’influenza dell’opera fou-

caultiana tra gli storici italiani2. Pur tenendo

conto di oscillazioni, andirivieni e cambia-

menti subiti dalla disciplina in alcuni de-

cenni, il bilancio d’insieme è in effetti quello

di una fortuna assai scarsa. Quando furono

pubblicati la Storia della follia (1961) e Na-

scita della clinica (1963), nel contesto della

storiografia italiana dell’epoca, ancora assai

tradizionale e poco ricettiva alle novità, i due

libri passarono quasi inosservati. Quindici

anni dopo, nel periodo in cui escono, uno

dopo l’altro, Sorvegliare e punire (1975), sul

sistema penitenziario, e La volontà di sapere

(1976), primo volume di una progettata sto-

ria della sessualità3, l’interesse maggiore tra

gli storici italiani di provenienza marxista

era rivolto in modo particolare da un lato,

alle nuove sfide poste dalla storia politica;

dall’altro, a confrontarsi con la nascente ipo-

tesi di microstoria e con la storia sociale in

genere4. Rispetto a questi problemi, l’opera

foucaultiana non sembrava offrire risposte

292

pratica storica, ibidem, pp. 77-90. Si vedano anche due saggi che si soffermano su importanti temi del dibat-tito storiografico italiano – il primo del 1990, il secondo del 2008 – nei quali l’influenza di Foucault risulta chiaramente del tutto irrilevante. Cfr. G. Gozzini, Dentro la «scatola nera»: individualismo metodologico e razionalità, «Meridiana», 10, 1990; M. Salvati, La storiografia sociale nell’Italia repubblicana, «Passato e presente», 73, 2008, ripubblicato come Une histoire sociale à l’italienne?, «Vingtième Siècle», 100, 2008.5 Conoscenza e passione. Proposte di ricerca genealogica, in P.A. Rovatti (a cura di), Effetto Foucault, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 142. Cfr. anche la nuova traduzione italiana, Storia della follia nell’età classica, a cura di M. Galzigna, Milano, Rizzoli, 2011, e l’importante saggio introduttivo, ibidem, pp. 5-35, in cui Galzigna ripercorre l’importanza della letteratura nella formazione di Foucault, e «per comprendere l’esperienza-limite della follia», ibidem, p. 19.6 A. Farge, Face à l’histoire, «Magazine littéraire», 207, mai 1984, pp. 40-42.7 M. Foucault, La polvere e la nuvola, «Aut Aut», 181, gennaio-febbraio 1981, p. 45. Gli interventi sono stati pubblicati nel volume L’impossibile prigione, Milano, Rizzoli, 1981 [Paris, 1980], e la curatrice – Michelle Perrot – a chi le chiedeva, 35 anni dopo: «Michel Foucault ci serve ancora, al giorno d’oggi?» rispondeva con parole gonfie di ammirazione e riconoscenza, non stemperate dal tempo trascorso. L’intervista, a cura di Aline Chambras, è stata pubblicata in «L’actualité Poitou-Charentes», 99, hiver 2013, pp. 27-28. Si ve-dano anche le considerazioni di Paul Veyne nel suo recente Michel Foucault. Il pensiero e l’uomo, Milano, Garzanti, 2010 [Paris, 2008].8 Cfr. R. Barthes, Savoir et folie, «Critique», 17, 1961; M. Blanchot, L’oubli, la déraison, «Nouvelle Revue Française», 1961; M. Serres, Géometrie de la folie, «Mercure de France», août 1962.9 Cfr. R. Mandrou, F. Braudel, Trois clefs pour comprendre la folie à l’époque classique, «Annales», 1962, 4.10 Di Paul Veyne, oltre al volume già citato, Cfr. Foucault revolutionne l’histoire, in appendice al suo Com-ment on écrit l’histoire, Paris, Seuil, 1978, tradotto in italiano con il titolo Foucault e la storia, «Aut Aut», 181, 1981; R. Chartier, Au bord de la falaise. L’histoire entre certitudes et inquiétude, Paris, Albin Michel, 1998. I tre saggi di Michel de Certeau su Foucault sono inclusi in Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione, a cura di M. Ranchetti, Torino, Bollati Boringhieri, 2006.

soddisfacenti. Anche se i suoi libri venivano letti, le tesi principali erano scarsamente comprese e considerate con diffidenza. Per di più, la prosa densa di pathos e innega-bilmente affascinante, giocava paradossal-mente a sfavore; lo «stile-passione», scriveva Mario Galzigna all’indomani dalla scom-parsa, suscitava scandalo: era scandaloso che si coniugassero conoscenza e passione, considerate dimensioni incompatibili con la verità scientifica5.Anche in Francia, d’altronde, il clima era stato all’epoca tutt’altro che idilliaco. Come scriveva Arlette Farge all’indomani della scomparsa, «uno spazio bianco separa Fou-cault e gli storici», una terra di nessuno dove il confronto, iniziato fin dalla pubblicazione della Storia della follia, era destinato a riac-cendersi con sistematica periodicità e non è da considerarsi ancora concluso6. Il dibat-tito più importante, risalente al 1978, coin-

volse alcuni storici influenti, i quali – come

riassumeva Foucault rispondendo alle loro

obiezioni – apparivano uniti nello sforzo di

opporre «i piccoli fatti veri contro le grandi

idee vaghe; la polvere che sfida la nuvola»7.

Dire che i rapporti tra Foucault e la storio-

grafia dominante sono stati molto proble-

matici è quindi quasi un luogo comune. Per

di più, come tutti i luoghi comuni, non è

neanche del tutto vero. Accanto agli elogi

calorosi da parte di un buon numero di in-

tellettuali francesi di punta8, spicca il com-

mento ammirato con cui Braudel accolse

la Storia della follia in età classica quando

venne pubblicata nel 19619, e altrettanto

note sono l’amicizia e la stima che studiosi

come Paul Veyne, Roger Chartier o Mi-

chel de Certeau manifestarono per l’opera

foucaultiana in occasioni e pubblicazioni

diverse10. A questi si aggiungono alcuni

293

11 Una puntuale ricostruzione di questi legami si trova nella biografia di D. Eribon, Michel Foucault, Mi-lano, Leonardo, 1991. La bibliografia critica su Foucault è sterminata. Mi limito a rinviare ad alcuni siti web: il francese «Portail Michel Foucault», che include una gran quantità di materiali diversi, indici delle pubblicazioni e aggiornamenti bio-bibliografici; la rivista online «Foucault Studies» (pubblicata dal 2003); mentre, in italiano, esiste dal 2012 il sito www.materialifoucaultiani.it.12 Fin dagli anni Settanta diversi studiosi/e attivi nell’ambito della filosofia, sociologia, epistemologia, sto-ria della psichiatria, storia delle sessualità – formatisi in Italia ma soprattutto nei seminari e nei corsi di Foucault a Parigi – hanno contribuito a tradurre e curare gli scritti, oltre a considerare l’opera foucaultiana come strumento essenziale di analisi nelle proprie ricerche. Tra questi, ricordo in particolare Alessandro Fontana, Mario Galzigna, Valerio Marchetti, Pasquale Pasquino, Giovanna Procacci.13 Con una formula sviante, il fenomeno è stato etichettato come «French Theory» in seguito a un fortunato libro di F. Cusset, French Theory: How Foucault, Derrida, Deleuze, and Co. Transformed the Intellectual Life of the United States, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2008 [Paris, 2003]. Del volume esiste anche una recente versione italiana pubblicata dal Saggiatore nel 2012.

autorevoli esponenti della «nuova storia»,

giovani e meno giovani storici/che che la-

voravano nel solco della scuola delle Anna-

les – Michelle Perrot, Arlette Farge, Jacques

Revel – e outsiders come Philippe Ariès11.

Anche in Italia le traduzioni curate da Fel-

trinelli, Einaudi e da qualche altra casa edi-

trice minore furono numerose e puntuali; e

alcuni italiani (estranei al gruppo raccolto

intorno alla ricerca in microstoria e alla

rivista «Quaderni storici», che si mantenne

sempre a una distanza assai critica) diven-

tarono ben presto collaboratori e attenti in-

terpreti del lavoro di Foucault12. Di chiara

ispirazione foucoltiana, anche se limitata a

poche/i studiose/i, è stata la collana dell’e-

ditore Marsilio «Il corpo e l’anima», diretta

da Mario Galzigna, che nel corso degli anni

Ottanta pubblicò una importante serie di te-

sti poco noti di storia della psichiatria, della

medicina e della sessualità.

I contesti in cui, contrariamente a quanto

avvenne in Italia, si può parlare di una vera

e propria rivoluzione avvenuta nel nome di

Foucault, vale a dire dove concetti e cate-

gorie portanti delle elaborazioni di questo

pensatore vennero utilizzati a piene mani

nelle ricerche e influenzarono profonda-

mente l’orientamento didattico di centinaia

di dipartimenti universitari, furono quelli di

lingua inglese, presso i quali, accanto alla

storia, cominciava a prosperare il territo-

rio disciplinarmente misto degli studi cul-

turali. L’autore de Le parole e le cose rap-

presentava anche il prodotto raffinato della

straordinaria stagione intellettuale vissuta

dalla Francia, che in quegli anni esercitava

un grandissimo fascino negli Stati Uniti,

grazie alla presenza assidua di alcune/i dei

suoi rappresentanti più noti, divenuti in

poco tempo protagonisti del palcoscenico

accademico e beniamini dei dipartimenti di

letterature comparate. L’opera di Foucault

si collocava infatti in un periodo di grande

fervore culturale nel paese, dove dal ci-

nema alla semiotica e filosofia, dalla nuova

storiografia alla psicoanalisi, antropologia e

critica letteraria, il mondo delle arti e delle

scienze si trovò al centro di grandiose tra-

sformazioni ben presto accolte anche fuori

dai confini francesi13.

Oltre a Stati Uniti, Canada e Inghilterra,

Sudafrica e Australia, anche i paesi latino-

americani subirono la ventata innovatrice

di Foucault, alimentata da alcuni memo-

rabili seminari, come le bellissime lezioni

294

14 Cfr. La verità e le forme giuridiche, 1973, in A. Dal Lago (a cura di), Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 2. 1971-1977, Milano, Feltrinelli, 1997.15 Cfr. nota 14.16 Cfr. P. Di Cori, French Feminism: tra Christine Delphy e Gayatri Spivak. Appunti, in S. Garbagnoli, V. Perilli (a cura di), Non si nasce donna. Percorsi, testi e contesti del femminismo materialista in Francia, Roma, Alegre, 2013.17 Di Joan Scott si vedano soprattutto i saggi raccolti nel volume Gender and the Politics of History, New York, Columbia University Press, 1988; in italiano Cfr. J.W. Scott, Genere, politica, storia, a cura di I. Fazio, Roma, Viella, 2013, e il mio saggio Visione critica della storia e femminismo, ibidem, pp. 249-304. Di Judith Walkowitz, autrice di una pionieristica ricerca di storia sociale, Prostitution and Victorian Society, Cam-bridge (Mass.), Cambridge University Press, 1982, si veda City of Dreadful Delight. Narratives of Sexual Danger in Late-Victorian London, Chicago, Chicago University Press, 1992, permeato dall’influenza fou-caultiana.18 Cfr. E. Weed (ed.), Coming to Terms: Feminism, Theory, Politics, London, Routledge, 1989; J. Butler, J.W. Scott (eds.), Feminista Theorize the Political, London, Routledge, 1992.19 Cfr. L. Hunt (ed.), The New Cultural History, Berkely, California University Press, 1989; N. Dirks, G. Eley, S.B. Ortner Dir (eds.), Power, Culture, History, Princeton, Princeton University Press, 1994. Di particolare interesse i più recenti studi di E.A. Clark, History, Theory, Text. Historians and the Linguistic Turn, Cam-bridge (Mass.), Harvard University Press, 2004, e G. Eley, A Crooked Line. From Cultural History to the History of Society, Ann Arbor, University of Michigan Press, 2005.20 Cfr. R. Robin, Histoire et linguistique, Paris, Colin, 1973.

svolte in Brasile nel 197314. I suoi libri co-

minciarono a essere prontamente tradotti

in inglese, spagnolo e portoghese, e nel giro

di pochi anni una fetta consistente di studi

storici in quattro lingue diverse poteva ri-

chiamarsi all’opera foucaultiana15.

Last but not least, grande è stata l’impor-

tanza di Foucault per l’emergente storia

delle donne angloamericana degli anni

Settanta-Ottanta, in particolare nella messa

a punto concettuale della categoria di «ge-

nere» e nelle ricerche sulla storia delle

sessualità. Per alcune storiche sociali af-

fermate, l’incontro con Foucault ha avuto

il significato di una vera e propria svolta16.

È il caso di Joan Scott, con una solida

esperienza nel campo della storia sociale

del lavoro in Francia, ma anche di Judith

Walkowitz, premiata studiosa della prosti-

tuzione nell’Ottocento vittoriano inglese17.

La complessa e prolungata discussione

sviluppatasi per oltre venticinque anni in

tutto il mondo occidentale e orientale in-

torno alla categoria di genere ha riguardato

in buona parte la concezione foucaultiana

sul potere18.

Esistono profonde differenze da un con-

testo all’altro. Nei paesi anglofoni non c’è

stato settore della ricerca storica che non

sia stato massicciamente investito dalla

prospettiva foucaultiana, come attestano

la quasi totalità dei programmi di insegna-

mento universitario di metodologia della

storia e alcune importanti raccolte che do-

cumentano l’emergere della nuova storia

culturale nella seconda metà degli anni

Ottanta19. In Francia e in America Latina,

oltre che nello sviluppo di alcune temati-

che (come è naturale primeggiano la storia

della follia, della sessualità, delle pratiche

di internamento e di disciplinamento), si

può parlare di una influenza importante

nel meno conosciuto e originale filone di

ricerche storico-linguistiche promosso da

Régine Robin e da Jacques Guilhaumou20.

Figura centrale del dibattito teorico femmi-

295

21 Alcuni seminari su Foucault si svolsero occasionalmente presso il Centro Virginia Woolf di Roma tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, ma la presenza di storiche era assai scarsa. Altrettanto assente è il riferimento a Foucault nel corso di dibattiti tra le fondatrici della Società italiana delle storiche negli anni dal 1989 in poi, impegnate intorno al tema della soggettività. Rinvio alla raccolta M. Palazzi, A. Scattigno (a cura di), Discutendo di storia, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990, e al mio contributo Soggetti-vità e storia delle donne, ibidem. Sul tema si veda soprattutto L. Passerini, Storia e soggettività: le fonti orali, la memoria, Firenze, La Nuova Italia, 1988. Nella raccolta intitolata Il femminismo degli anni Settanta, a cura di T. Bertilotti e A. Scattigno, Roma, Viella, 2005, che riunisce scritti di undici storiche di due genera-zioni attive in quel periodo, il nome di Foucault non compare.22 Rinvio su questi aspetti a P. Di Cori, Culture del femminismo. Il caso della storia delle donne, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, tomo II, Torino, Einaudi, 1997, pp. 803-861, ed Ead, Visione critica della storia e femminismo, postfazione al volume di J. Scott, Genere, politica, storia, cit., pp. 249-304.23 La versione italiana è compresa nel volume a cura di A. Fontana, P. Pasquino, Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977.24 Vedi anche le precisazioni fatte nella Prefazione all’edizione inglese di The Order of Things, 1970, in Archivio Foucault I, cit., pp. 241-247.

nista in lingua inglese, Foucault è rimasto

assai marginale in ambito nostrano21. Pur

noto e discusso, all’interno del femmini-

smo italiano Foucault non è mai stato un

riferimento metodologico importante per le

storiche impegnate a fare ricerca nell’am-

bito della storia del lavoro e della famiglia;

almeno fino alla conclusione del secolo

scorso22.

La genealogia, la soggettività, il presenteNel saggio su Nietzsche, la genealogia e la

storia sono presentati in un brillante tour de

force concettuale gli aspetti essenziali della

visione storica foucaultiana, a cominciare

dal rapporto con Nietzsche, dal quale viene

ripreso il termine «genealogia» in contrap-

posizione alla vana ricerca di una origine

che caratterizzerebbe il lavoro ormai con-

sunto dello storico tradizionale23. In oppo-

sizione a quest’ultimo, il genealogista non

vuole ristabilire la continuità tra passato

e presente; tanto meno cerca di «mostrare

che il passato è ancora lì, ben vivo nel pre-

sente». Egli non indaga l’origine di qualcosa

di identico, che ripetendo sempre se stesso

si trascina attraverso i secoli fino alla attua-

lità; al contrario, si sforza per individuare

una provenienza. Anziché analizzare ciò

che si è accumulato, concentra l’attenzione

su quanto si trova disperso, frantumato;

cerca le fratture, le emergenze, le irregola-

rità. Occorre fare della storia un uso «dis-

sociativo e distruttore d’identità» – afferma

Foucault – in contrapposizione a una storia

delle continuità, delle cause ed effetto, della

memoria cumulativa24.

Questa concezione non teleologica è alla

base dell’altro importante elemento del

pensiero di Foucault ritenuto assai proble-

matico perché in completa dissonanza con i

fondamenti della disciplina: la storia del pre-

sente. Mentre lo storico tradizionale lavora

sostanzialmente «per» il presente, Foucault

invita – in maniera esplicita in Sorvegliare

e punire – a fare una storia «del» presente;

vale a dire che quanto si offre come con-

temporaneità non deve essere intesa come

punto d’arrivo di un percorso, ma come

emergenza di un insieme di discontinuità

di cui porta le tracce. Anziché l’accumulo

di dati, egli cerca il problema; vale a dire

che si concentra «sugli elementi in grado di

296

25 Cfr. La polvere e la nuvola, cit., p. 50.26 Cfr. l’edizione italiana, Milano, Feltrinelli, rispettivamente 1998 e 2000.27 Cfr. J. Revel, Michel Foucault, un’ontologia dell’attualità, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003. In un sag-gio sulla fantasia in storia, Joan Scott ha ricordato quanto poco gli storici storicizzano le categorie di cui si servono, come quella di identità, generalmente considerata come verità auto-esplicativa: J. Scott, Fantasy Echo: History and the Construction of Identity, «Critical Inquiry», Winter 2001, 2, pp. 284-304, ora incluso tra i saggi raccolti in The Fantasy of Feminist History, Durham, Duke University Press, 2011, pp. 45-67.28 M. Foucault, Eterotopie, in Archivio Foucault 3. 1978-1985, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 307-316.29 Cfr. G. Procacci, Il governo del sociale, in Effetto Foucault, cit., pp. 184-192.

risolverlo». Infatti per il genealogista «l’ob-

bligo di dire tutto diventa indifferente». La

problematizzazione del reale costituisce

il punto essenziale per avviare una storia

del presente, una esigenza, quest’ultima,

che consente di «demistificare l’istanza glo-

bale del reale come totalità da restituire». È

questo il nocciolo della contrapposizione

tra Foucault e la storiografia tradizionale,

un contrasto che il filosofo esprime chia-

ramente nella famosa affermazione: «Non

esiste «il» reale da raggiungere a condizione

di parlare di alcune cose più «reali» di altre,

un reale che verrebbe perduto a profitto di

astrazioni inconsistenti, qualora ci si limi-

tasse a far comparire altri elementi e altre

relazioni»25.

Le conseguenze di una simile concezione

della realtà sono molteplici; una delle più

rilevanti riguarda niente di meno che la

naturalità degli oggetti storici. Secondo

la prospettiva genealogica, tale idea è del

tutto priva di fondamento. Contrariamente

a quanto si potrebbe pensare, infatti, la ri-

cerca foucaultiana si basa su una esaspe-

rata storicizzazione della realtà, secondo

la quale tutto ciò che esiste di fronte a noi

come oggetto di indagine è squisitamente

storico né potrebbe essere concepibile a-

storicamente.

A una simile visione Foucault si è mante-

nuto coerente lungo tutta la sua ricerca,

come emerge dagli argomenti studiati nel

corso di tre decenni: la follia, la clinica, il

carcere, la sessualità, la governamentalità;

ai quali bisognerebbe aggiungere tutti quelli

affrontati nei Corsi al Collège de France

che sono attualmente in via di pubblica-

zione – tra i quali ricordo Bisogna difendere

la società e Gli anormali (il primo affronta le

«origini» dello stato, del razzismo, dell’etno-

centrismo, della pulizia etnica; il secondo

riguarda patologie ottocentesche come la

masturbazione)26. Lungi dall’essere espe-

rienze o concetti che tornano identici da un

secolo all’altro, nella sua ricerca Foucault

ne ha rivelato la squisita natura storica,

mutabile e soggetta a improvvise deforma-

zioni. È questo uno dei debiti maggiori che

la storiografia contemporanea ha contratto

nei confronti della storia del presente di cui

soltanto in anni vicini a noi anche in Italia

si comincia a comprendere l’importanza27.

Insieme alla questione del presente, senza

dimenticare l’enfasi sullo spazio, caro alla

storiografia francese delle «Annales», che

Foucault trasformò in un profetico appello

eterotopico28, altri aspetti centrali della sua

riflessione sulla storia apparivano poco at-

traenti e/o incomprensibili per la maggior

parte degli storici italiani di allora; a co-

minciare da quelle relative alla soggettività

e al potere. Che cos’è un soggetto? Come

parlano i soggetti, e chi li fa parlare?29 Sono

297

30 Rinvio ai testi raccolti e introdotti in Rethinking Popular Culture: Contemporary Perspectives in Cultural Studies, a cura di C. Mukerji, M. Schudson, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1991, che include alcuni dei principali contributi a quel dibattito, i cui protagonisti provenivano dalla storia (Nata-lie Zemon Davis, Robert Darnton), dall’antropologia (Clifford Geertz, Marshall Sahlins), dalla sociologia (Pierre Bourdieu), dalla letteratura e dalla semiotica (Raymond Williams, Roland Barthes), dalla filosofia (Michel Foucault).31 Vedi G. Eley, A Crooked Line, cit. Sulla problematica natura della storia culturale rinvio a A. Arcangeli, Cultural History. A Concise Introduction, London, Routledge, 2012.32 Rispettivamente usciti in Francia nel 1961 e nel 1966; in traduzione italiana nel 1963 e nel 1967, en-trambi pubblicati da Rizzoli.33 Di recente Giovanni Levi ha scritto: «Gli autori che in qualche modo oggi ci paiono hermanos y colegas, non sono più Marx o Weber, Durkheim o Bourdieu, Braudel o Lefebvre ma Freud, Benjamin, Warburg, Foucault»: Cfr. I tempi della storia, «The historical Review/La revue historique», vol. VI, 2009, pp. 41-52, p. 46.

le domande che Foucault pone a un conte-

sto che rifiuta proprio la validità della do-

manda: questione incandescente per tutti

gli anni Sessanta e Settanta intorno a ciò

che allora veniva chiamata cultura popo-

lare, al centro di prolungate e assai vivaci

controversie, di cui giovani ricercatori di

oggi hanno forse appena sentito parlare.

Come fare una storia «dal basso» era una

questione che appassionava marxisti più o

meno ortodossi e/o critici, nuovi storici so-

ciali e microstorici30. Tra le altre cose, sono

proprio questi dibattiti ad aver favorito,

nel giro di pochi anni, l’emergere di aree

di ricerca disciplinarmente ibride come gli

studi culturali, postcoloniali, queer, ricon-

ducibili a quanto è noto con espressione ge-

nerica e certamente non priva di ambiguità,

come «svolta culturale»31.

Gli infuocati anni Settanta e la loro problematica ereditàIn una prima fase – dopo l’uscita della Sto-

ria della follia e di Le parole e le cose32 – il

filosofo è stato accolto in Italia da un misto

di entusiasmo e stupore, uniti a una dif-

fusa incomprensione del pensiero. Rima-

sto sostanzialmente estraneo agli sviluppi

delle principali tendenze storiografiche del

paese, un cambiamento cominciò a profi-

larsi verso la metà degli anni Novanta. Nel

frattempo erano intervenuti alcuni fattori

che attenuarono il clima di diffidenza del

periodo precedente: in primo luogo, si ac-

celerò quel processo di anglicizzazione,

per così dire, della cultura umanistica – nel

senso che cominciarono a adoperarsi testi,

categorie e concetti della cultura europea

così come venivano elaborati in contesti

anglofoni, e reimportati in Italia sotto forma

di riferimento privilegiato, anche se spesso

risultato di traduzioni da altre lingue. A

questo si aggiunse la presenza di genera-

zioni di ricercatori/trici giovani, formate

prevalentemente sui modelli imposti dal

predominio della cultura in lingua inglese.

Inoltre, l’accettazione di Foucault è stata

facilitata a mano a mano che venivano

pubblicati molti testi inediti e le lezioni al

Collège de France su temi di rilevante at-

tualità – la biopolitica, le eterotopie, la go-

vernamentalità, il razzismo, la malattia

mentale, le carceri; per dirne solo alcuni.

Un inevitabile processo di svecchiamento e

provincializzazione ad opera di studiosi più

giovani e un sopraggiunto malinconico di-

sincanto da parte di storici prestigiosi della

generazione più anziana33.

298

34 Si pensi ai temi affrontati su riviste uscite nell’ultimo decennio, come «Zapruder» e «Genesis».

Anche altri soggetti controversi o conside-

rati con diffidenza hanno subito un destino

analogo; a cominciare dalla storia delle

donne e dal vasto campo delle sessualità,

accettate obtorto collo come mali neces-

sari, che l’establishment storiografico ha

digerito con qualche riserva soltanto après

coup, per così dire. Il bombardamento me-

diatico e le vicende politiche italiane, dal

canto loro, hanno trasformato aree tema-

tiche riguardanti corpi e sessualità, carceri

e manicomi, taciute e conosciute male, in

problemi incandescenti e irrisolti intorno

ai quali è impossibile rimanere indiffe-

renti. Questioni ampiamente anticipate

dalle analisi deflagranti contenute in testi

come Sorvegliare e punire e La volontà di

sapere.

Lo sviluppo dell’interesse per temi quali

quelli legati alle identità sessuali, alle po-

litiche sociali relative a immigrazione,

territorio e povertà, alla biopolitica, alla

governamentalità, a partire dalla fine degli

anni Novanta in poi, hanno favorito la in-

dubbia rinnovata centralità di cui Foucault

gode attualmente, cui ha contribuito in ma-

niera determinante la presenza di giovani

leve, intervenute nel frattempo a rinnovare

metodologie e oggetti di studio, ansiose di

sperimentare nuovi percorsi di ricerca e

del tutto estranee/i all’animosità che aveva

caratterizzato le prese di posizione del pe-

riodo precedente34. Allo stesso tempo, si è

verificato un altro fenomeno tipico di questi

tempi di crisi profonda degli studi umani-

stici in generale, che si potrebbe descrivere

come uno stato di naturalizzazione e inte-

grazione «senza problemi»: Foucault non è

più circondato da quell’aura di eccitazione

ammirata o di sdegno ostile che lo aveva

accompagnato in vita.

In quei tempi neanche troppo lontani, i

dibattiti su questioni metodologiche e teo-

riche risuonavano delle contrapposizioni

politiche e ideologiche che riempivano

di odio e di passioni gli animi e le piazze.

Gli anni Settanta sono stati un decennio

esuberante, contraddittorio e anche molto

violento; ricco di straordinarie esplosioni di

creatività, di rabbie e di invettive, in cui an-

che la discussione intorno a un archivio o a

un libro poteva fornire l’occasione di furie

incontenibili – con le armi, o solo con le pa-

role. Tracce di quei toni infuocati dovevano

risuonare per un po’ anche nel decennio

successivo; Foucault ne ha fatto le spese,

insieme a qualche altra/o.

Quasi tutto allora sembrava possibile, e la

«nuova» storia sociale apriva le sue porte

per ospitare clandestini ed emarginati di

ogni genere. Sfogliare le annate delle «An-

nales» e di «Past and Present», di «History

Workshop» e del «Journal of Social His-

tory», di «Quaderni storici» e di «Memoria»

di quel periodo fa spuntare un sorriso di

simpatia nostalgica e di desiderio: quanto

ottimismo di fronte alla moltiplicazione

dei soggetti, delle nuove fonti da poco sco-

perte, delle metodologie che si aprivano a

chiunque fosse dotata/o di immaginazione

e voglia di esplorare a fondo biblioteche e

archivi. Mescolato nella folla variopinta,

Foucault poteva entrare in territorio storico

con i suoi pazzi, malati e detenuti; salvo tro-

varsi a dover uscirne subito dopo, appena

bisognava fare i conti con le discontinuità,

299

35 C. Ginzburg, Prefazione a Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Torino, Einaudi, 1976, pp. XI-XXXI. Prendendo di mira in particolare il testo di Foucault Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mio padre, mio fratello..., Torino, Einaudi, 1976 [Paris, 1973], Ginzburg scrive: «Ciò che interessa soprattutto a Foucault sono il gesto e i criteri dell’esclusione: gli esclusi un po’ meno». E più avanti: «L’irra-zionalismo estetizzante è dunque lo sbocco di questo filone di ricerche. Il rapporto, oscuro e contraddittorio di Pierre Rivière con la cultura dominante, è appena accennato [...] Ci si estasia di fronte a un’estraneità assoluta che in realtà è frutto del rifiuto dell’analisi e dell’interpretazione», pp. XVI e XVII.

le formazioni discorsive e una visione ca-

povolta del rapporto tra passato e presente.

Nessun serio confronto sui problemi di

natura assai complessa sollevati dai dibat-

titi su La polvere e la nuvola ebbe luogo in

Italia; al più si cercava di capire quanto e

come ne discutevano i francesi o gli anglo-

americani. La questione venne risolta rele-

gando Foucault al campo della filosofia e

considerando l’intera sua riflessione sulla

storia un prodotto teorico estraneo agli

obiettivi della disciplina storica e alla tra-

dizione di studi prevalente al di qua delle

Alpi. Dopo il commento di inappellabile

condanna che faceva bella mostra di sé

nelle pagine introduttive de Il formaggio e i

vermi (1976), di Foucault si parlò sempre di

meno e velocemente scomparve dalle note

a piè di pagina35.

A sfogliare le riviste italiane di storia degli

anni Ottanta e Novanta, e anche oltre, ra-

ramente se ne trova menzionato il nome.

Insieme a lui, anche altri autori francesi,

anglo-americani, tedeschi, ritenuti dei mau-

dits dalla storiografia più influente, condi-

vidono il mesto destino di desaparecidos

dalle bibliografie, condannati a una sorta

di darwinismo storiografico; così Michel de

Certeau, Hayden White, Dominick La Ca-

pra, Roger Chartier, Koselleck e altri/e. Gli

editori traducevano i loro libri, che erano

venduti, esauriti e anche letti, senza che

queste letture riuscissero a debellare so-

spetti, diffidenze, silenzi e censure; senza

che questi autori fossero inclusi nei libri da

portare all’esame e tanto meno insegnati.

Mentre le riviste in altre lingue europee di-

battevano animatamente intorno alla crisi

che stava investendo i principali modelli

di riferimento teorici e metodologici della

disciplina – dal marxismo alla storia delle

mentalità, dallo storicismo al funzionali-

smo – in Italia prevalse una diffusa indif-

ferenza per tutto ciò che non riguardava da

vicino alcuni specifici indirizzi di ricerca

«autorizzati» che diventavano quasi auto-

maticamente autorevoli.

La svolta microstorica, il principale contri-

buto degli anni Settanta al rinnovamento

degli studi storici, sembrò soddisfare l’ansia

di raggiungere nuovi traguardi di scientifi-

cità e si impose come modello della ricerca

superiore a tutti gli altri; i suoi apporti, per

l’epoca moderna in particolare, sono stati di

indubbio rilievo nel campo della storia della

famiglia e del lavoro, e ben presto i con-

fini identitari della disciplina si trovarono

a fare i conti con nuovi parametri che ne

delimitavano possibilità e rilevanze; quali

alleanze favorire, quali accostamenti con-

siderare minacciosi. Erano benvenuti gli

apporti sociologici della network analysis,

ma considerati come pericolosi giochi di

fantasia quelli suggeriti dall’antropologia di

Geertz, per non parlare di Clifford e Rabi-

now. La sacrosanta battaglia contro alcune

300

36 Tra i molti contributi sulla microstoria e su Carlo Ginzburg, di particolare interesse è quello degli storici catalani J. Serna e A. Pons, Cómo se escribe la microhistoria. Ensayo sobre Carlo Ginzburg, Madrid, Cáte-dra, 2000. Si veda anche, degli stessi autori, El historiador como autor. Éxito y fracaso de la microhistoria, «Prohistoria», 1999, 3, pp. 1-27; consultato online all’indirizzo: www.uv.es/j.serna/historiauator.htm.37 In una raccolta del 1993 sui rapporti tra antropologia e storia, l’unico a parlare di Foucault come di un riferimento indispensabile per le proprie ricerche in tema di storia della sessualità è il compianto storico olandese allora attivo in Italia Bruno Wanrooij. Cfr. il suo intervento Conoscenza della realtà e concetto di cultura, in Storia e antropologia storica, a cura di G. Musio, Roma, Armando, 1993, pp. 126-127.38 J. Revel, Nota all’edizione italiana, in Id. (a cura di), Giochi di scala. La microstoria alla prova dell’espe-rienza, Roma, Viella, 2006 [Paris, 1996], pp. 17-18. Scrivendo a dieci anni di distanza dalla prima edizione, Revel valutava i cambiamenti intercorsi nel frattempo: «L’impostazione propriamente micro-analitica, vale a dire fondata sulla ricostruzione particolareggiata di tutte le transazioni interpersonali all’interno di un contesto determinato, sta progressivamente cedendo il passo rispetto a una crescente riflessione sulla natura delle fonti e all’analisi più stringente e approfondita della cultura degli attori sociali, che comporta aperture sempre più ampie nei confronti della storia culturale in senso stretto», p. 17.

malattie italiane dure a morire – l’ideologia

politica, lo storicismo idealista, la confu-

sione teorica, la scarsa dimestichezza con

i grandi modelli della ricerca francese e in-

glese – si impose con una severità che non

ammetteva repliche né consentiva aperture

di dialogo e di confronto critico36. Chi – pro-

veniente dalla Francia, dall’Inghilterra o

dalla Germania – intorno alla metà degli

anni Novanta avesse gettato uno sguardo

su quali fossero i luoghi e gli obiettivi della

discussione storiografica in Italia avrebbe

potuto constatare l’assenza di dibattito me-

todologico, e anche lo scarso interesse per

i temi sollevati da Foucault e da altri sgra-

diti ospiti37. Il clima generale stava tuttavia

cambiando velocemente, come non mancò

di osservare Jacques Revel nel 200638.

Per gli storici e anche per molte storiche

attivi/e in Italia dopo il Sessantotto e forma-

tisi in quel periodo, Foucault è un autore del

tutto irrilevante per i propri studi, e viene

raramente menzionato nelle principali ri-

viste di storia del paese nei decenni imme-

diatamente successivi. Una volta chiusasi

la stagione cosiddetta «dei movimenti»,

gli uomini rimessa la cravatta e le donne

il tailleur, la presenza di Foucault risulta

scarsa, tardiva, episodica, come insabbiata.

In ubbidienza alla ferrea legge italica degli

orticelli disciplinari che vieta di sconfinare

e di mettere il naso fuori dalla propria ap-

partenenza accademica, l’autore della Sto-

ria della follia rimane un nome che circola

quasi esclusivamente in ambito filosofico.

Durante quel periodo un insieme di pro-

blematiche insite nel modo di apprendere,

studiare e sviluppare conoscenze attra-

verso discussioni aperte rimase irrisolto, e

più che altro messo da parte. Nel passaggio

ai «terribili» anni Ottanta, tradizioni ricche

di studi innovativi, animate da brillanti e

cosmopolite personalità nel campo delle

scienze umane e sociali e nelle arti subirono

un progressivo ripiegamento, chiudendosi

a ogni confronto, travolte e contagiate dal

processo di irreversibile verticalizzazione

del potere nelle istituzioni, rafforzatosi con

la crisi del sistema universitario dell’ultimo

decennio.

Un aspetto su cui invitare a una conclu-

sione riflessiva intorno al rapporto assai

problematico tra Foucault e la storia ri-

guarda il ruolo dell’intellettuale: eroe pro-

tagonista, o analista della contemporaneità

che lavora discretamente ai margini? Come

301

39 M. Gribaudi, La lunga marcia della microstoria. Dalla politica all’estetica?, in Microstoria, cit., pp. 10-11.40 Maurice Florence (pseudonimo con cui Foucault firmò la voce che scrisse di se stesso per il Dictionnaire des philosophes, Paris, 1984), Foucault 1984, in Archivio Foucault 3. 1785-1985, cit., pp. 248-252, p. 259.41 La vita degli uomini infami, 1977, in Archivio Foucault 2, cit., pp. 245-262, p. 259.42 Il riso di Michel Foucault, in M. de Certeau, Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione, cit.; i brani citati sono a p. 131. Una versione ridotta (dalla quale mancano proprio le pagine qui richiamate) è compresa nella raccolta a cura di P.A. Rovatti (a cura di), Effetto Foucault, cit.43 Sugli usi di Foucault nell’attualità rinvio all’importante raccolta a cura di M. Galzigna, Foucault, oggi, Milano, Feltrinelli, 2008, e in particolare all’Introduzione e al denso saggio del curatore, La disciplina e la cura, rispettivamente pp. 7-28 e 45-105.

ha ricordato di recente Maurizio Gribaudi, «il successo conosciuto dalla microstoria dagli anni Ottanta in poi, la sua internazio-nalizzazione e la sua progressiva istituzio-nalizzazione, ha fatto dimenticare che molti dei suoi protagonisti degli anni Settanta, con il loro lavoro, avevano voluto aprire una discussione prima di tutto politica, e non soltanto un dibattito storiografico»39. Negli interventi intorno alle proposte della microstoria e nelle ricerche dei suoi più autorevoli interpreti, l’elemento mancante riguarda infatti la discussione intorno a una figura che negli anni Settanta era stata cen-trale nei luoghi dove più ferveva la discus-sione politico-culturale: l’intellettuale mili-tante, protagonista di battaglie culturali, che si confronta con un potere concepito come esterno a se stessi. Per Foucault si tratta di studiare la «costituzione del soggetto come oggetto di se stesso [...] le procedure con cui il soggetto è portato a osservare se stesso, a analizzarsi, a decifrarsi, a riconoscersi come ambito di sapere possibile». Esami-nare un «potere» che si presume di poter co-noscere, o le procedure utilizzate per assog-

gettare e «governare»40? Nelle pagine de La

vita degli uomini infami prorompe spazien-

tito: «Come sarebbe indubbiamente facile

smantellare il potere, se esso si limitasse a

sorvegliare, spiare, sorprendere, proibire

e punire; ma esso incita, suscita, produce;

non è semplicemente occhio e orecchio, ma

fa agire e parlare»41.

Certeau ha ricordato che, con Foucault, l’in-

tellettuale non svolge più un ruolo eroico

di fronte al potere. La sua è «una storia

senza eroi e senza nomi propri, una storia

diffusa, anonima ed essenziale». L’oggetto

«non riguarda più direttamente degli attori,

bensì delle azioni; non dei personaggi il

cui profilo si staglia sullo sfondo della so-

cietà, ma delle «operazioni» che, in un moto

browniano, tessono e compongono il fondo

della tela»42.

Nella difficile congiuntura attuale, quando

storici e storiche, insieme a tante/i altre/i,

umaniste/i e non, si interrogano (ci inter-

roghiamo) sul senso del proprio lavoro,

tornare a rivolgere un occhio autocritico a

questo coraggioso cartografo del presente

può offrire qualche via di fuga, ma soprat-

tutto tanti utilissimi attrezzi di lavoro43.

302

1 M. Foucault, The History of Sexuality, Volume I: An Introduction, New York, Pantheon Books, 1978, p. 23.2 Ibidem, p. 103.3 M. Foucault, Madness and Civilization: A History of Insanity in the Age of Reason, London, Routledge, 20012, p. 256.

Michel Foucault offered the most compel-

ling meta-narrative of modernity of the

post-World War II era, which makes him

the successor to the great social theorists of

the nineteenth and early twentieth centu-

ries, namely Karl Marx, Max Weber, Emile

Durkheim and Sigmund Freud. Like them,

and unlike other postmodernists such as

Jacques Derrida or Jacques Lacan, Fou-

cault developed his positions through his-

torical investigations, and though the term

«modernity» did not appear very often in

his work, he challenged some of the most

common assumptions about it. In the first

volume of The History of Sexuality (1976),

for example, he insists that the presumed

liberation of sexuality in our time from

centuries of repression was not liberation

at all because the previous attempts to con-

trol and even suppress desire had actually

aroused it. «Toward the beginning of the

eighteenth century,» he maintains, «there

emerged a political, economic, and techni-

cal incitement to talk about sex»1.

the Eighteenth-century turning pointIn the eighteenth century, by Foucault’s ac-

count, doctors began to warn parents about

the dangers of children masturbating. In the

nineteenth century, whole new categories of

sexual perversion took shape in the courts

and medical journals, and then at the end

of the nineteenth century, the homosexual

became a distinct type requiring extensive

medical discussion. Our current sexual free-

dom is not freedom at all because we have

been convinced by the discourses about sex

that sexuality is key to our identity. What we

express in our supposed sexual liberation,

then, is only the deployment of sexuality that

serves the purposes of power. «It [sexuality]

appears rather as an especially dense trans-

fer point for relations of power: between

men and women, young people and old

people, parents and offspring, teachers and

students, priests and laity, an administration

and a population»2.

The major elements of Foucault’s meta-nar-

rative are visible in these arguments about

sexuality. He clearly accepted the view that

the modern period represented a fundamen-

tal break with past practices, a position re-

peated in several of his books. In Madness

and Civilization (1961), for instance, he

argues that the apotheosis of the «medical

personage» at the end of the eighteenth cen-

tury «would authorize not only new contacts

between doctor and patient, but a new rela-

tion between insanity and medical thought,

and ultimately command the whole modern

experience of madness»3. The end of the

Lynn Hunt

Foucault’s Meta-Narrative

303

4 M. Foucault, The History of Sexuality: Vol. I, cit., pp. 93, 157 and 105-106.5 Ibidem, pp. 104-105.

eighteenth century and the beginning of the

nineteenth century took pride of place again

and again in his work. Despite this reliance

on the notion of the modern and its rupture

with the past, Foucault nevertheless rejected

any meta-narrative of progress and libera-

tion through reason. In short, he developed

the antithesis to Hegel’s progress of the con-

sciousness of freedom. Knowledge did not

lead to power and thence to freedom; as the

history of sexuality, among other subjects,

showed, power itself created knowledge

that served the purposes of discipline. His-

tory demonstrated the progress of the power

of a disciplinary society.

Power is productivePower should not be thought of as negative

and only juridical, Foucault urges, as some-

thing that always says no, that restricts,

censors, and suppresses. Instead power is

productive and energetic. It follows then

that «One must not think that by saying yes

to sex, one says no to power; on the con-

trary, one tracks along the course laid out

by the general deployment of sexuality».

By saying yes to sex, one is saying yes to

power. Foucault therefore disputes any

notion of the authenticity of sexual iden-

tity, asserting that the very feeling that the

truth of our identities lies deep within us in

our sexual desires and longings was itself

the product of «a great surface network»

in which stimulation, pleasure, discourse,

knowledge, control and resistance were all

linked to one another. In fact, Foucault was

contesting any notion of authentic identity

that escaped the effects of power and in par-

ticular the discourses of power4.

In Foucault’s meta-narrative, the modern

regimes of power/knowledge produced a

disciplinary and even a carceral society. In

the history of sexuality, discipline took the

forms of «hysterization of women’s bodies»,

«pedagogization of children’s sex», «social-

ization of procreative behavior,» and «psy-

chiatrization of perverse pleasures»5. Even

more telling than the control of sexuality, in

this regard, was the invention of the mod-

ern prison. With its surveillance, discipline

through the control of space and time, and

production of docile bodies, the prison pro-

vided the model for all modern institutions,

from the school to the army and factory.

«These two great “discoveries” of the eigh-

teenth century – the progress of societies

and the geneses of individuals – were per-

haps correlative with the new techniques

of power» Foucault writes in Discipline and

Punish (1975), «and more specifically with

a new way of managing time» by segment-

ing it, classifying it, and making total use

of every minute. The knowledge and very

existence of society and the individual

thus were produced by new techniques of

power. The individual was simply the ef-

ficient nodal point of surveillance and in-

ternalization, not the knowing subject who

could transform the world through self-

conscious agency. The rejection of cruel

forms of punishment toward the end of the

eighteenth century and their replacement

by the institution of the prison did not mark

the victory of humanitarianism, Foucault

304

6 M. Foucault, Discipline and Punish: The Birth of the Prison, New York, Random House, 1978, p. 160.7 M. Foucault, The History of Sexuality: Vol. I, cit., p. 152. On new ways of approaching emotions and the body (and some skepticism about them) see the discussion in Ahr Conversation: The Historical Study of Emotions, «The American Historical Review», 2012, 5, pp. 1487-1531.8 M. Foucault, Discipline and Punish, cit., p. 194. For Foucault’s use of «totalizing» see G. Burchell, C. Gor-don, P. Miller (eds.), The Foucault Effect: Studies in Governmentality; with two lectures by and an interview with Michel Foucault, Chicago, University of Chicago Press, 1991.9 M. Foucault, Discipline and Punish, cit., pp. 23-24. On psychoanalysis, see The History of Sexuality: Vol. 1, cit., pp. 111-113.

concludes, but rather the rise of a sinister

new form of power over individuals6.

Foucault thus offered a compelling alterna-

tive to Marxist, modernization, and liberal

humanist or Enlightenment meta-narra-

tives. While doing so, he refused the explicit

language of causality and concentrated

instead on how new forms of power and

knowledge pervaded bodies, like capillaries

in the skin or viruses in the bloodstream. His

was not an Annales-school style history of

mentalities, he confirms, but rather a «“his-

tory of bodies” and the manner in which

what is most material and most vital in them

has been invested». This history of bodies

pushed historians to rethink the ways they

habitually conceptualized their project. The

history of sexuality, prisons, clinics, mad-

ness, and the social sciences themselves can

never be approached in the same fashion as

before, even when historians or social sci-

entists disagree with Foucault’s conclusions.

Moreover, the history of bodies is far from

exhausted as a topic or approach, though

now it is being undertaken with more at-

tention to what cognitive science says about

how the mind works and more concern for

how mind and body interact7.

Foucault’s avoidance of causal language

left a number of questions open. What pro-

pels the investment of «what is most mate-

rial and most vital in them [bodies]»? The

answer is power, but this answer proved to

be too general, too «totalizing» to use Fou-

cault’s own term, to be entirely convincing.

In Discipline and Punish, Foucault claims

that «In fact power produces; it produces re-

ality; it produces domains of objects and rit-

uals of truth. The individual and the knowl-

edge that may be gained of him belong to

this production». In short, power produces

everything from the individual to the social

sciences and their claims to knowledge

about the individual. All the possible ques-

tions about causality are answered by refer-

ence to this one category, power8.

Although Foucault had a degree in psy-

chology and wrote extensively about the

emergence of psychology and psychiatry as

sciences of the individual, he never offered

any kind of psychological analysis. For him

psychoanalysis was part of the deployment

of sexuality in the late nineteenth and twen-

tieth centuries. It could not offer a privileged

perspective on sexuality because it was part

of the apparatus that created sexuality as

a category. Foucault never examined the

ways in which the mind entered into the

investment of «what is most material and

most vital» in bodies. He claimed in Disci-

pline and Punish to be offering a «history

of the modern soul,» but he approached it

exclusively through an examination of the

«political technology of the body»9.

305

10 M. Foucault The History of Sexuality: Vol. I, cit., p. 92.11 Ibidem, pp. 94-95.12 Ibidem, p. 159.

Foucault’s definition of power turned at-

tention away from rulers and elites toward

techniques. Because he was trying to break

with the standard models of political the-

ory, he avoided the standard language of

political analysis. At times, his own lan-

guage was diffuse and even obscure. In

the first volume of The History of Sexual-

ity, where power is extensively discussed,

he says, «power must be understood in the

first instance as the multiplicity of force re-

lations immanent in the sphere in which

they operate and which constitute their

own organization». Power is also a process,

he continues, a system of support between

force relations, thus a chain, but also a se-

ries of disjunctions and contradictions, thus

an array of gaps, and lastly a set of strate-

gies crystallized in institutions and in the

state apparatus10.

The emphasis on techniques made power

seem both omnipresent and motiveless:

«Power is not something that can be ac-

quired, seized, or shared...power is exer-

cised from innumerable points». No one

person or group has power. This view

made any revolutionary overthrow of

power or even a major change in regime

virtually inconceivable. Power was not a le-

ver wielded to produce intentional effects:

«Relations of power are not in a position

of exteriority with respect to other types of

relationships». In other words, the social

relations of the mode of production, as in

Marxism, or access to economic resources,

as in modernization theory, cannot explain

the inequalities of power. Indeed, nothing

outside of power can explain how power

works, according to Foucault. «Power

comes from below», he maintains, but not

because it comes from the lower classes.

Power takes shape inside «the machinery

of production, in families, limited groups,

and institutions». It therefore follows that

«Power relations are both intentional and

nonsubjective». Power is imbued with cal-

culation, but not the calculation of rulers,

higher castes, or economic elites. The tac-

tics, strategies, and rationalities of power

form «comprehensive systems», but «no

one is there to have invented them». Power

may have produced knowledge about any

number of domains of life, but that knowl-

edge has little effect on power itself. Power

is always superior to knowledge11.

Since power is paradoxically both «nonsub-

jective» and «intentional», it is not surpris-

ing that Foucault’s meta-narrative is non-

teleological and teleological at the same

time. It is non-teleological because Foucault

rejects all the goals of history held out by

other meta-narratives, in particular that of

liberation. One day there will be a different

economy of bodies and pleasures, he sug-

gests, but he makes no predictions about its

nature. Then «people will no longer quite

understand how the ruses of sexuality, and

the power that sustains its organization,

were able to subject us to that austere mon-

archy of sex»12.

Yet despite Foucault’s disclaimers, power

itself seems to be the telos of history. Al-

306

13 Ibidem, pp. 95, 101-102.14 Ibidem, pp. 138-139, 141, 143.

though he explicitly denies that «power is

the ruse of history, always emerging the

winner» (responding to Hegel who held

that history was the ruse of reason), not

much stands in the way of «force rela-

tions». Power may depend on «a multiplic-

ity of points of resistance», but in fact these

points serve more as «target, support, or

handle» than as true adversary. Resistance

never seems to coalesce into anything truly

threatening in Foucault’s depiction. It is

power, after all, that defines the space for

resistance. Power has all the strategy, «tac-

tical efficacy», and «multiple and mobile

field of force relations» on its side. On the

other side of the battlefield are to be found

only «relatively obscure areas of tolerance,»

hardly a match for the martial enthusiasms

that seem to come naturally to power13.

Moreover, power appears to be increasing

its hold throughout the modern period. If

people began in the nineteenth century to

demand rights to life, health, happiness,

or self-expression, it was because the new

procedures of power had begun to be di-

rected at life itself. The dissemination of

power through ever-tinier capillaries of

social life created those new responses.

«Now it is over life, throughout its unfold-

ing, that power establishes its dominion».

This power over life took two forms: the

disciplining and optimization of individual

bodies and a bio-politics of the population.

These developments fostered the develop-

ment of capitalism and marked «society’s

“threshold of modernity”». Yet Foucault

was not particularly interested in the re-

lationship to capitalism that he mentions

and then drops, and for him «modernity»

is not particularly attractive. Power just

seems to increase and with it discipline

and bio-power. Nazism may represent «the

paroxysm of a disciplinary power», but all

Western regimes participate in these de-

velopments. In Foucault’s meta-narrative

there is no possible distinction between

democracy, fascism, or communism. They

all attempt to increase discipline and bio-

power14.

the doors left openFoucault did not set out to provide a new

meta-narrative. He was more interested

in examining how power worked than

why it worked in the way it did. Although

he claimed to be interested in the interac-

tions between discursive transformations

and transformations outside of discourse

(economic, political, and social change), in

fact he focused on what he called intra-dis-

cursive and inter-discursive dependencies.

He remained throughout his career deeply

suspicious of the language of causality: «I

would like to substitute the study of this

whole play of dependencies [intra, inter,

and extradiscursive] for the uniform, sim-

ple activity of allocating causality; and by

suspending the indefinitely renewed privi-

leges of cause, to render apparent the poly-

morphous interweaving of correlations».

In his emphasis on the discontinuous in

history, he refused to fill the gaps between

events with «the dim plenitude of cause or

by the nimble bottle-imp of mind (the one

307

15 The Foucault Effect, cit., pp. 58-59. The piece first appeared in «Esprit», 371, May 1968.16 M. Foucault, The History of Sexuality: Vol. I, cit., p. 116; C. Gordon (ed.), Power/Knowledge: Selected Interviews and Other Writings, 1972-1977, New York, Pantheon Books, 1980, quote p. 160.17 M. Foucault, The History of Sexuality: Vol. I, cit., p. 93. C. Gordon (ed.), Power/Knowledge, cit., quotes pp. 142 and 98.

solution being the symmetrical twin of the

other)». Rather than write a history of the

mind, he insisted, he was writing a history

of discourse15.

Foucault was no doubt right to question the

use of «cause» or «mind» as explanatory fill-

ers. At the same time, however, his refusal

to consider either of them created problems

for his account. He repeatedly referred to

certain temporal ruptures, especially at the

end of the eighteenth century, but he never

explained what made those periods criti-

cal. Writing of the history of sexuality, for

example, he confirmed that «It was during

the same period – the end of the eighteenth

century – and for reasons that will have to

be determined, that there emerged a com-

pletely new technology of sex». By not of-

fering any reasons for the importance of

the period himself, he left the door open to

a reaffirmation of Marxist or moderniza-

tion explanations or, for that matter, to any

other plausible story line. In an interview

published in 1977, for example, Foucault

responded to a question about whether the

Panoptic system of surveillance of prisons

applied to all of industrial society and was

itself produced by capitalism. His response

was «I have no answer, except to say that

these forms of power recur in socialist soci-

eties». They may have appeared first in cap-

italist societies, but the techniques were eas-

ily transposable to other political orders16.

The question of mind is, if anything, even

more salient, since Foucault investigated

topics that would seem to have a direct

connection to mind, for example, mad-

ness, sexuality, and even discourse. He was

interested above all in how the mind was

shaped from the outside by the «the omni-

presence of power». While most historians

simply ignore the question of mind, Fou-

cault positively railed against it, in particu-

lar against the notion of psychic depth. For

him what mattered most was bodily sur-

face. Since «power is co-extensive with the

social body», according to Foucault, «there

are no spaces of primal liberty between

the meshes of its network». The individual

mind is not a location of resistance, for the

individual is only «an effect of power... The

individual which power has constituted is

at the same time its vehicle»17.

The «how» questions are vital, and the criti-

cisms I am proposing are not intended to

diminish the importance of Foucault’s re-

markable accomplishments. Indeed, they

depend upon them. His meta-narrative was

the most important alternative offered to

Marxism, modernization theories (Weber

and Durkheim, for example), or Freud’s

account of psychic repression as the cost of

civilization. It is the influence and fruitful-

ness of his meta-narrative that makes his

refusal to treat the issues of cause and mind

so significant.

Cause and mind intersect at the crossroads

of meaning, for causes make the meaning

of a narrative explicit and the mind is the

place where meanings are developed, as-

308

1 Sicurezza, territorio, popolazione, Milano, Feltrinelli 2005 [Paris, 2004].2 Da Histoire de la folie (1961) a Surveiller et punir (1975) il tema delle forme di normatività è un asse più o meno sotterraneo, ma mai episodico, della ricerca foucaultiana.3 V.G. Oestreich, Geist und Gestalt des frühmodernen Staates, Berlin, Duncker & Humblot, 1969, pp. 179 ss.4 Per le quali si rinvia ai rilievi precisi di M. Dinges, Frühneuzeitliche Armenfürsorge als Sozialdisziplinie-rung, «Geschichte und Gesellschaft», 17, 1991, pp. 5-29.

sayed, sorted, distributed, and reformulated.

Foucault reduces meanings to the effects of

the operation of discourses of power. Mean-

ings end up in the mind – Foucault certainly

does not deny their existence – but mean-

ings are not affected by mind in Foucault’s

account. Mind for him is merely the vessel

of meaning. In his view, the rules and prac-

tices of discourse, themselves ultimately

produced by power, determine the expres-

sion and experience of meaning. Even the

interiority of the self is the product of dis-

course for Foucault. It is time, now, to re-

habilitate cause and mind as central to the

human experience of meaning.

Paolo Napoli

Oltre l’obbedienza. Michel Foucault e le normatività

Il corso al Collège de France del 1978, Si-

curezza, territorio, popolazione1, rappre-

senta una svolta rilevante nella riflessione

di Michel Foucault nel variegato campo

delle pratiche e categorie normative.

Prima di allora era stato il turno delle disci-

pline che, dal XVII secolo, organizzano le

istituzioni reclusive e manifatturiere e re-

golano le condotte delle individualità «do-

cili» a vario titolo ivi ospitate2. La prigione

è solo l’esempio più clamoroso di tradu-

zione pratica del verbo «disciplinare», e

non è un caso che dopo Sorvegliare e pu-

nire Foucault sia stato agevolmente anno-

verato tra i rappresentanti del paradigma

storiografico noto come Sozialdisziplinie-

rung. Alla stregua delle grandi scansioni

idealiste prodotte dallo storicismo webe-

riano (Rationalisierung, Modernisierung,

Sekularisierung, Konfessionalisierung), la

Sozialdisziplinierung descriverebbe il pro-

cesso che accompagna la nascita dei mo-

derni stati territoriali europei, i quali non

avrebbero potuto prendere forma senza

lo sviluppo di minuziose strategie d’in-

quadramento delle popolazioni3. La storia

sociale ha reagito a questo tipo di lettura,

e durante gli anni Ottanta e Novanta del

secolo scorso il paradigma in questione è

stato sottoposto a dure critiche, soprattutto

negli ambienti della rivista «Geschichte

und Gesellschaft». Senza entrare nei detta-

gli di tali prese di posizione4, il difetto prin-

cipale del modello forgiato da Oestreich

sarebbe un’idea reificata di disciplina che

occulterebbe così la differenza tra disegno

istituzionale e assimilazione da parte degli

attori. La comprensione storica resterebbe

309

5 Cfr. C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi, Torino, Einaudi 1976, p. XVI.

gravemente mutilata del suo senso più

concreto, cioè la reale efficacia dell’azione

disciplinare. Occorreva invece mutare la

prospettiva, osservando i destinatari delle

norme e il modo in cui se ne appropriano

e le impiegano contestualmente nel gioco

della negoziazione sociale. In questa luce

potevano già apparire lungimiranti i rilievi

di Carlo Ginzburg, che accusava l’autore

de L’histoire de la folie di non interessarsi

troppo ai soggetti in carne e ossa e di con-

centrarsi soltanto sugli apparati e le tec-

niche di assoggettamento, autentica fonte

di «contemplazione estetizzante»5 per un

ricercatore fondamentalmente legato al

protocollo strutturalista.

Ci possiamo chiedere, tuttavia, in che mi-

sura anche Foucault sia coinvolto dalla

delegittimazione del paradigma della So-

zialdisziplinierung. Sorvegliare e punire af-

fronta il tema delle discipline in segmenti

determinati della società, mentre per Oe-

streich sarebbe la stessa nascita dello stato

moderno l’effetto di una dilatazione delle

procedure correttive sulla totalità del ter-

ritorio e della popolazione. Le discipline

di Foucault operano invece nelle prigioni,

nelle officine, negli ospedali, nelle scuole,

nei riformatori, ma non rinviano a un qua-

dro statuale come matrice di un disegno

regolamentare unitario. Questi luoghi ap-

paiono meritevoli di attenzione da parte

della polizia come snodi strategici per il

controllo del territorio e della popolazione.

Ma se si considerano dal punto di vista dei

codici interni di condotta, delle regole che

governano i soggetti individualmente e in

gruppo, queste istituzioni sono intelligibili

autonomamente e non come elementi di

una totalità politica. Solo al livello di seg-

menti sociali precisi è possibile eventual-

mente verificare quell’attitudine all’obbe-

dienza immediata che è il risultato di un’a-

zione disciplinare efficace.

Ma il modello della Sozialdisziplinierung

può andare incontro anche ad altre obie-

zioni sul piano della storia e della teoria del

diritto. La formula stessa, disciplinamento

sociale, suppone che l’esistenza delle norme

coincida con la loro capacità a cambiare le

condotte e a organizzarle in un modo pre-

ciso. In mancanza di tale risultato le norme

sono destinate a svanire dal teatro storico,

restando pura retorica di cancelleria. Da

questo punto di vista la storia sociale e la

Sozialdisziplinierung, pur agli antipodi, si

trovano a condividere lo stesso presuppo-

sto: le norme esistono solo se osservate e ap-

plicate. Tuttavia, su un piano strettamente

storico, misurare il grado di esistenza delle

norme alla luce della loro efficacia rischia

di rivelarsi una mossa inadeguata. Per l’An-

cien Régime, infatti, la possibilità di verifi-

care l’applicazione delle norme sulla base di

inchieste giudiziarie è spesso compromessa

da due fattori: a) nello stesso magistrato so-

vrintendente l’ordine pubblico, le preroga-

tive giurisdizionali sono spesso inseparabili

da quelle regolamentari, cosicché è difficile

capire a che titolo una disposizione è presa;

b) la difficoltà incontrata dai tribunali nel

dotarsi dei testi ufficiali dei regolamenti, che

erano spesso annunciati con forme aleato-

rie di pubblicità.

Ma oltre a queste motivazioni storiche oc-

corre anche considerare una ragione di

310

6 A.R.J. Turgot, Œuvres de Turgot et documents le concernant, 5 vol., ed. G. Schelle, Paris, Alcan 1913 (rist. Glashütten in Taunus, Auvermann 1972), V, p. 154.7 Déclaration portant suppression de tous droits établis à Paris sur les blés, farines, pois, riz, etc., in F.A. Isambert, Recueil général des anciennes lois françaises, Paris, Plon, 1821-1833, t. XXIII, pp. 324-325.

ordine più teorico. La norma è un concetto

deontico e come tale suppone lo scarto

tra essere e dover essere. Costatare perciò

che i comportamenti non seguono le re-

gole, come si compiace di ripetere a ogni

piè sospinto la storia sociale, scade in un

semplice truismo perché ogni norma si

costruisce storicamente in virtù dell’irridu-

cibilità al fatto. Non si può ignorare che i

dispositivi giuridici creano una realtà an-

che quando il loro contenuto è disatteso.

Altrimenti si rischiano situazioni parados-

sali come quelle del controllore generale

Turgot, deciso ad abolire tutti i regolamenti

di polizia che ostacolavano il commercio

frumentario. In una Déclaration del 5 feb-

braio 1776 il ministro di Louis XVI ricorda

che tali regolamenti sono inapplicabili

perché, se messi in pratica, priverebbero

Parigi dei propri mezzi di sussistenza nel

giro di una decina di giorni6. Ma che senso

ha invocare l’abolizione di norme reputate

pericolose e che come tali non hanno mai

trovato applicazione? Il controllore, pur

riconoscendo la loro inoperatività, attribu-

isce a questi regolamenti, in principio pura-

mente virtuali, la responsabilità del blocco

dei mercati e, in definitiva, dell’insufficiente

approvvigionamento della popolazione. La

penuria sarebbe lo stadio finale di un pro-

cesso innescato all’origine dai regolamenti

di polizia, anche se questi – e qui sta il pa-

radosso – non sono mai stati applicati. «Ce

n’est qu’à l’inexécution de ces lois que Paris

a dû sa subsistance. Mais l’inexécution de

telles lois ne suffit pas à rassurer le com-

merce que leur existence menace encore»,

sottolinea significativamente il testo legis-

lativo7. Turgot vuole svelare la funzione

di qualcosa che si è concretato soltanto

nella lettera della legge e che possiede solo

validità formale. E tuttavia suppone che

quest’ultima sia una condizione sufficiente

a provocare il danno della penuria e che,

eliminata la causa, anche l’effetto sparirà.

Ecco un caso esemplare in cui si tratta di

armonizzare la validità – adozione formale

da parte dell’autorità competente – e l’effi-

cacia – applicazione da parte dei destina-

tari: funzionari e cittadini – della norma

giuridica. Grazie a un artificio intellettuale

piuttosto spregiudicato, Turgot tenta la so-

luzione attribuendo ai dispositivi giuridici

una forza che non si traduce in compor-

tamenti sociali corrispondenti ma in una

situazione di pericolo e di turbativa minac-

ciosa. Il determinismo zoppo del control-

lore generale – spiegare uno stato di fatto

in virtù della presenza soltanto formale di

una causa – fa appello in definitiva all’alea

della possibilità, più che al riscontro dell’ef-

fettività. La responsabilità delle norme, se-

condo Turgot, risiede in un pregiudizio che

esse, nonostante tutto, sono incapaci a re-

alizzare. Situazione singolare: si gioca con

elementi potenziali che però producono

storia. Come va allora considerata la pre-

senza fantasmatica del diritto denunciata da

Turgot (ed eventualmente dalla storia so-

ciale)? Probabilmente occorre richiamare

311

8 C.G. Hempel, The Function of General Laws in History [1942], in P. Gardiner (ed.), Theories of History, New York, The Free Press of Glencoe, 1959, p. 345.9 H. Vahinger, Die Philosophie des «Als ob», Berlin, Reuther & Richard, 1911, p. 262. L’opera fu composta nel 1863.10 Foucault étudie la raison d’État, intervista del 1979 con M. Dillon, in M. Foucault, Dits et écrits, t. 3, Paris, Gallimard 1994, p. 805. Sulla finzione storica si veda anche Les rapports de pouvoir passent à l’intérieur des corps, intervista con L. Finas, «La Quinzaine littéraire», 247, 1977, in Dits et écrits, t. 3, cit., p. 236.

una ben nota distinzione epistemologica.

L’approccio al diritto è spesso guidato da

un’esigenza cognitiva non pertinente poi-

ché le norme sono considerate alla stregua

di fenomeni naturali ai quali applicare ana-

loghi criteri di verifica empirica. È come se

si ammettesse un concetto unico e generale

di legge, valido per le scienze naturali e sto-

riche. Secondo la formula riduzionista pro-

posta da Carl G. Hempel, una legge gene-

rale è «un’asserzione di forma condizionale

universale che può essere confermata o in-

validata da controlli empirici opportuni»8.

L’equivoco sorge allora dalla pretesa di

verificare la legge giuridica nella storia con

gli stessi criteri che reggono la verifica della

legge scientifica nella natura. L’osservatore

non può, infatti, nutrire la stessa aspettativa

gnoseologica e prognostica nei riguardi di

una legge naturale o di una legge storica,

com’è il caso della regola giuridica. Il mo-

dello ideale della prima è l’ipotesi, mentre

la legge giuridica si basa sulla finzione; l’i-

potesi è di ordine cognitivo, la finzione di

ordine pratico. Poiché è una rappresenta-

zione mentale provvisoria, per produrre

conoscenza l’ipotesi ha bisogno di una

verifica sperimentale, altrimenti cessa di

esistere. In mancanza di tale prova l’ipotesi

è falsa. La finzione, invece, non richiede

alcun dato cognitivo perché non pretende

di accedere alla verità dell’oggetto. Il suo

scopo è orientare, fornire «uno strumento

metodico per raggiungere dei risultati»9. Il

lavoro con la storia di Foucault s’inscrive

agevolmente in questo secondo versante

epistemologico e, del resto, è lui stesso ad

ammetterlo quando sostiene, seriamente e

non per civetteria, di praticare «une sorte de

fiction historique [...] J’essaie de provoquer

une interférence entre notre réalité et ce

que nous savons de notre histoire passée.

Si je réussis, cette interférence produira de

réels effets sur notre histoire présente. Mon

espoir est que mes livres prennent leur vé-

rité une fois écrits – et non avant»10.

La logica del governoPrecisato tutto ciò, ritorniamo al corso del

1978, Sicurezza, territorio, popolazione, in

cui se da un lato appare chiaro il tentativo

di prendere congedo dal modello discipli-

nare su scala statale, dall’altro il criterio

dell’obbedienza, che della disciplina è il

correlato essenziale, è rivalutato quando si

descrivono il governo pastorale e l’istitu-

zione più universale di tutte, la chiesa cri-

stiana. E tuttavia non è su questa parte del

corso, né su questa ambiguità irrisolta che

vogliamo soffermarci, quanto sulla tensione

opposta che spinge Foucault a interrogarsi

sulla normatività senza passare inevita-

bilmente attraverso lo schema comando-

obbedienza. Da questo punto di vista la sua

analisi conferma le acquisizioni condivise

da larga parte della teoria giuridica nove-

312

11 H.L.A. Hart, Il concetto di diritto, Torino, Einaudi 1965 [Oxford, 1961], cap. 4.12 M. Foucault, Il faut défendre la société, Cours au Collège de France, 1976, sous la direction de M. Bertani, A. Fontana, Paris, Seuil-Gallimard, 1997, p. 150 (tr. it. Bisogna difendere la società, Milano, Feltrinelli, 1998).13 M. Foucault, La volonté de savoir, Paris, Gallimard, 1976, p. 125 (tr. it. La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1976).14 Il faut défendre la société, cit., p. 29. Cfr. anche Le jeu de Michel Foucault, intervista con J.A. Miller e altri, «Bulletin périodique du champ freudien», 10, 1977, in Dits et écrits, t. 3, cit., p. 307.15 Comment s’exerce le pouvoir?, in Dits et écrits, t. 4, cit., p. 237.16 Le jeu de Michel Foucault, cit., p. 299.17 _Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 80.

centesca che ha cercato di rimuovere una

contingenza empirico-sociologica come

l’obbedienza per pensare la realtà della re-

gola di diritto. Se per Hart l’obbedienza è

un concetto troppo complesso per farne la

spia della norma giuridica (semplicemente

perché si può compiere o no un certo atto

indipendentemente dall’esistenza di un co-

mando)11, secondo Foucault è un parame-

tro irrilevante per capire come funziona la

normatività di quel fenomeno moderno che

è la biopolitica della popolazione. Il modello

di governo che si addice a quest’ultima

non implica la divaricazione tra autorità

che emette l’ordine e risposta sociale più o

meno conforme. Foucault rigetta queste op-

posizioni binarie, la sua storia non è quella

dei sovrani né quella dei popoli, ma di ciò

che mette in relazione questi due termini12.

In questo modo si riconosce un ruolo cen-

trale al «mezzo», una nozione che acquista

una marcata autonomia tanto dal momento

deliberativo degli attori quanto dallo scopo

dell’azione. Gli eventi storici non sono il ri-

sultato di un disegno ordito dai titolari d’in-

teressi, perché per Foucault gli attori sono

dei soggetti «situati» in strategie senza stra-

teghi. Se c’è intenzionalità, questa è colta

solo nelle sue manifestazioni locali e con-

giunturali13. Non è, ad esempio, l’identità

borghese a dare un impulso programmato

e di lungo periodo al corso storico, ma al

contrario sono i meccanismi di esclusione

della follia, della sorveglianza e della ses-

sualità che hanno evidenziato l’esistenza di

un profitto economico e di un’utilità politica

da cui la borghesia ha tratto vantaggio14.

Questa autonomia dei mezzi organizzativi

e regolamentari, che creano tanto le forme

di assoggettamento quanto i criteri per de-

cifrare la realtà, deve essere compresa alla

luce del «governo», che nel 1983, un anno

prima di morire, Foucault aveva elevato a

categoria eponima del potere: «Gouverner

c’est structurer le champ éventuel de l’ac-

tion de l’autre»15. La funzione «governo»

coordina un insieme eterogeneo di ele-

menti discorsivi e materiali che Foucault

chiama «dispositif»16. L’attitudine a incidere

sull’ambiente, piuttosto che direttamente

sulle azioni, affiora già nel corso del 1978,

nel tentativo di affrancarsi dalla classica

visione della Zweckmässigkeit weberiana,

cioè dell’agire finalizzato a uno scopo pre-

ciso. Foucault insiste sulle «tattiche» come

strumento privilegiato del governo, men-

tre la «legge» è considerata un mezzo che

rinvia circolarmente alla figura politica

del sovrano. Le tattiche sono l’espressione

dell’atto di disporre le cose, cioè di «fare

in modo che, mediante alcuni mezzi, que-

sto o quel fine possa esser realizzato»17. E

313

18 Ibidem, p. 29.

tuttavia i soggetti non pilotano il processo,

ma vi sono coinvolti solo di riflesso poiché

gli obiettivi delle tattiche sono immediata-

mente una porzione del mondo esterno e,

indirettamente, chi potrebbe essere impli-

cato dal cambiamento così prodotto. Gover-

nare significa prendere congedo dal rap-

porto lineare tra l’autorità che vuole e de-

cide da un lato e i destinatari che eseguono

dall’altro. Il «mezzo» di potere non funziona

più come cinghia di trasmissione diretta tra

i due poli della volontà e dell’obbedienza.

A differenza delle tecniche legali, che sono

l’espressione di una sovranità residente

su un territorio presidiato da una capitale

come centro di potere; e diversamente an-

che dalle tecniche disciplinari, che struttu-

rano gli spazi all’interno dei quali gli ele-

menti si distribuiscono in modo gerarchico

e funzionale, la prerogativa delle «misure

di sicurezza», come strumenti preferiti

dalla razionalità di governo, consiste nel-

l’«astrutturare un ambiente in funzione di

serie di eventi o elementi possibili»18.

Mutuata alla meccanica di Newton, Fou-

cault definisce la nozione di «milieu» come

«ce qui est nécessaire pour rendre compte

de l’action à distance d’un corps su un au-

tre». Questa visione richiama la logica del

governo che opera sui fattori d’influenza

più che sulle condotte individuali e collet-

tive. Ma spezza anche il monismo causale

mezzo-fine e apre le porte a una visione

più articolata della normatività in cui il re-

gistro imperativo comando-obbedienza è

la variabile minore di una razionalità più

complessa. Storicamente la svolta decisiva

avviene, come sempre nella cronologia fou-

caultiana, nella seconda metà del XVIII se-

colo, quando l’avvento dell’economia come

sapere politico impone una nuova lettura

dei fatti sociali oltre che i rimedi appro-

priati. Al governo non si chiedono norme

per realizzare uno scopo determinato – il

benessere dei sudditi tipico del modello po-

liziesco – ma di allestire le condizioni per la

libertà degli individui. Occorre individuare

un nuovo soggetto storico, la popolazione,

in grado di frapporsi all’applicazione dello

schema comando-obbedienza tipico delle

istituzioni disciplinari che, invece, suppon-

gono un individuo trasparente al precetto

della norma e perciò pronto a osservarla.

Ed è sempre questa identità che è la popo-

lazione a mettere in crisi lo schema classico

hobbesiano del rapporto di obbedienza che

lega il popolo alla volontà sovrana. L’asse

verticale governanti-governati è imprati-

cabile quando si ha di fronte un soggetto

denso come la popolazione, percorso da

troppe variabili statistiche per essere re-

golato come l’individuo sottomesso alle

tecniche disciplinari o come l’astrazione

unitaria del soggetto collettivo «popolo» su

cui si esercita la sovranità. La popolazione

non si comanda, ma si gestisce e si tratta

in un senso realmente medico-amministra-

tivo. La popolazione non obbedisce come

tale, ma esprime desideri conseguenti alla

sua doppia identità di specie umana, da

un lato, e di pubblico, dall’altro. Se il ber-

saglio del governo è la popolazione, l’atto

di governare non può realizzarsi in ter-

mini di Sozialdisziplinierung. E non solo

per l’inadeguatezza dei mezzi allo scopo,

ciò che la storia sociale ha da sempre mo-

314

19 La legge «imagine le négatif», dice Foucault, perché ha bisogno d’inventariare obblighi e divieti, men-tre la disciplina costruisce un modello d’uomo «complémentaire» a quello della realtà rispetto al quale quest’ultimo deve normalizzarsi. Ibidem, pp. 48-49.20 Cfr. J.Y. Grenier, A. Orléan, Michel Foucault, l’économie politique et le libéralisme, «Annales HSS», 2007, 5, pp. 1155-1182.21 Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 43.

strato agevolmente. Andando oltre questo facile obiettivo, Foucault intende rimettere in questione nell’ambito della politica quel modello di razionalità strumentale che da Aristotele giunge a Weber. Dietro la cri-tica alle normatività legali e disciplinari, entrambe adagiate sullo zoccolo comodo dell’obbedienza, si compie uno sforzo più radicale che consiste nel ripensare, col conforto di esempi storici, i meccanismi dell’agire strumentale e la loro inidoneità a spiegare la logica del governo. Lo schema del mezzo sottomesso al fine che è proprio della funzione burocratico-amministrativa alla Weber non basta a farci capire come funziona il governo. Qui entra in gioco una tecnologia gestionaria più complessa, che esige un altro rapporto tra agenti, azioni ed effetti. Invece di elaborare un piano che si proietta su uno scopo prestabilito, e individuare pertanto i mezzi in grado di compierlo, la logica del governo procede innanzitutto da un’analisi oggettiva delle forze in gioco. Su questa realtà sono chia-mati in seguito a intervenire gli strumenti di governo – i «dispositivi di sicurezza», li chiama Foucault – che non sono il pro-dotto di una volontà sovrana o disciplinare, bensì il frutto di una regolazione scaturita dal gioco reciproco tra i vari elementi della realtà. Diversamente da criteri normativi come la legge e le tecniche disciplinari che rinviano a un mondo ideale19, il governo si legittima dal contesto in cui è chiamato a operare ed impiega gli elementi in funzione

delle circostanze concrete. La misura di sicurezza è la tipologia normativa che de-scrive al meglio questa complicità tra deci-sione e realtà, tra norma e fatto. Tra gli altri esempi Foucault evoca quello della penu-ria frumentaria, un evento endemico alle società d’Ancien Régime letto attraverso schematizzazioni che gli storici dell’econo-mia non sarebbero pronti a sottoscrivere20. Nella seconda metà del Settecento i Fisio-crati francesi incarnano un’esigenza di governo inedita perché scompongono il fe-nomeno della penuria su due scale: quella della popolazione, al cui interno la penuria è destinata a scomparire, e quella dell’indi-viduo, in cui invece può persistere anche a costo di mietere vittime, esattamente come il vaccino contro il vaiolo, altro esempio utilizzato da Foucault per descrivere la biopolitica della popolazione, che può com-portare il sacrificio di vite umane visto che s’inocula un veleno, ma poi si rivela uno strumento di protezione sanitaria generale. L’economia elabora dispositivi il cui refe-rente è la popolazione nel suo insieme, su questa entità è misurata la loro efficacia, mentre le disfunzioni sono possibili e nor-mali nelle situazioni particolari. Nella lo-gica del governo economico, la parte è solo intelligibile nel tutto, la sua ragion d’essere storica si giustifica riguardo all’evento glo-bale21. Alla luce di questa promessa si ca-pisce perché le nozioni di progetto, delibe-razione e scelta su cui si articola l’azione strategica restano ai margini della visione

315

22 Ibidem, p. 15.23 Ibidem, p. 47.

post-legale e post-disciplinare che cattura l’interesse (forse anche il fascino) di Fou-cault. L’imperativo strategico formulato da Clausewitz – «Tu punterai l’obiettivo più importante e decisivo che le tue forze ti consentiranno di raggiungere e sceglierai a tal fine la via più certa che ti sentirai di seguire» – rappresenta il modello d’azione che i dispositivi del governo economico revocano in scacco. Non si tratta di appli-care alla realtà un piano concepito pre-ventivamente, ma di sfruttare il potenziale proprio a una realtà. È un modo di pensare l’efficacia senza piegarsi alla dittatura del «piano» e al monismo causale mezzi-fini. Si tratta piuttosto di capire «in quale campo di forze reali occorre situarsi per condurre un’analisi tatticamente efficace»22. La con-tiguità tra soggetto, azione e realtà descrive una situazione d’immanenza, perché non si governa il corso delle cose da un luogo privilegiato, superiore e esterno ma alla luce delle condizioni reputate esistenti. Un mondo di effetti senza cause: questo è l’obiet tivo analitico e pratico di una razio-nalità di governo, l’economia, che mostra tutta la sua insensibilità verso il problema della «causa» come principio pilota della successione degli eventi.Resta tuttavia da precisare meglio cosa significhi questa immanenza tra attori, azioni e stati di cose che Foucault ricono-sce nell’approccio analitico della raziona-lità economica e nel «governo» che essa esprime. Non si tratta di un positivismo racchiuso dogmaticamente in formule come rebus sic stantibus, che è il marchio di fabbrica del pragmatismo politico e, in

teoria della conoscenza, designa un reali-smo fondato sull’esistenza incontestabile dei fatti che sono lì davanti ai nostri occhi. La situazione non è una semplice evidenza empirica iniziale ma è mediata da un con-cetto che Foucault impiega un po’ sbriga-tivamente e che meriterebbe invece ben altri approfondimenti: la pertinenza. Ritor-niamo all’esempio della penuria. L’obiet-tivo «pertinente» dell’azione economico-politica del governo, osserva Foucault, è la popolazione e non la molteplicità degli individui. S’introduce così una cesura che non è data, che non è inscritta nelle cose o nei fatti, ma è prodotta da un gesto istitutivo proprio alla tecnica di governo e al disegno descrittivo e normativo che essa comporta. Come tecnica di governo il liberismo eco-nomico dei Fisiocrati può fare appello al corso naturale delle cose a condizione di ammettere una separazione completa-mente artificiale tra il livello «pertinente» dell’azione di governo, la popolazione, e quello «non pertinente» che è quello dei singoli. La popolazione è pertanto un’u-nità fittizia creata da un discorso che deve giustificare un’azione di governo in grado di produrre effetti generali sulla ricchezza della società nel suo complesso. La norma-tività del «governo» sarebbe inconcepibile senza questa deviazione artificiale e stru-mentale che sostituisce una realtà fisica come i soggetti in carne ed ossa, bersagli materiali diretti dell’articolazione mezzi-fini, con un oggetto «pertinente», cioè «con-siderato come» funzionale a una diagnosi e a una strategia regolamentare23. La defi-

nizione di un’entità pertinente su cui agire

316

1 M. Foucault, La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1978, p. 121 [Paris, 1976]. Il testo che propongo in queste pagine riprende una delle tre lezioni che ho tenuto a un seminario sulla biopolitica organizzato da Roberto Esposito all’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa (Napoli) nell’ottobre 2002. Le mie relazioni, in realtà, non vertevano sulla biopolitica così come essa si viene definendo alla fine del dician-novesimo secolo, ma su alcuni trattati medico-politici della prima età moderna (per esempio: R. de Castro, Medicus-politicus sive de officiis medico-politicis tractatus, Coloniae, Froebenianum, 1614).

è l’alternativa plastica al piano predetermi-

nato e alla combinazione mezzi-fini che

caratterizza invece lo stretto rapporto di

causalità dell’agire strumentale. La «perti-

nenza» non è pertanto l’espressione di una

volontà che ordina di fare o non fare, ma

indica un livello di realtà che non esiste

già, ma è istituito come esistente. L’essere

pertinente dell’azione di governo prevale

sul legame di appartenenza che associa

il mezzo al fine, la via più certa per rag-

giungere l’obiettivo prescelto, come diceva

Clausewitz. Ma soltanto dopo questo gesto

istitutivo dell’oggetto-popolazione il dispo-

sitivo di governo può operare nella realtà,

come sostiene Foucault. La popolazione

non obbedisce e ciò nonostante svolge

un ruolo decisivo nella costruzione di un

tipo di normatività che abdica a un’idea

di ordine politico volontarista e impera-

tivo. La società non si cambia per decreto,

osservava Montesquieu. Ma governarla,

avrebbe chiosato Foucault, può rivelarsi

pericolosamente rassicurante.

Valerio Marchetti

Biopolitica e biostoria

«Il genocidio è il sogno dei poteri moderni».

Ma il sogno genocidiario, che conclude la

Volontà di sapere, non è fatto dai poteri mo-

derni perché riappare, quasi fosse portato

dall’invasione di un’orda barbarica, «l’an-

tico diritto di uccidere» che si arrogava la

sovranità. Si dà «perché il potere si colloca

e si esercita al livello della vita, della specie,

della razza» – vale a dire: a livello di quei

fenomeni che «investono» le «popolazioni»

in modo organico1.

Proviamo a ridurre all’essenziale il capitolo

Diritto di morte e potere sulla vita per sal-

dare il primo al secondo enunciato. Il po-

tere di esercitare il diritto di morte sui sud-

diti viene abbastanza presto attenuato nella

sua assolutezza. Resta però, nel sovrano e

nei sudditi, l’idea che debba essere impera-

tivamente esercitato nel caso in cui il corpo

del re si trovi esposto al pericolo. Se un ne-

mico minaccia la sua esistenza, il sovrano

chiama infatti il popolo a difendere lo stato

(cioè il suo corpo) con le armi. Il re, scrive

Samuel Pufendorf, esercita in questo caso,

del tutto legittimamente, il diritto di esporre

alla morte la vita dei sudditi. Fermiamo

l’attenzione sul potere indiretto di vita e

di morte (sfera della pace e della guerra)

lasciando perdere il potere diretto di far

vivere o far morire il suddito che infrange

317

2 M. Foucault, La volontà di sapere, _cit., pp. 119-120. Cfr. E. Kantorowicz, I due corpi del re, Torino, Ei-naudi, 1989 [Princeton, 1957]. Mi riferisco, in particolare, al settimo capitolo: Il re non muore mai. Foucault usa la versione francese di S. Pufendorf, Le Droit de la nature et des gens, II, Amsterdam, H. Schelte, 1744, p. 334.3 Ibidem, pp. 120-121.

la legge (sfera della penalità). Mettiamo

anche da parte il punto di vista di Thomas

Hobbes e la domanda se vi sia una qualche

relazione tra la forma giuridica simboleg-

giata dal gladio e un tipo storico di società

in cui il potere si esercita essenzialmente

come istanza di prelevamento, istanza al

cui apice si pone per l’appunto il privilegio

d’impossessarsi della vita e di sopprimerla.

Non è però che la trasformazione dei mec-

canismi di potere in corso nell’età moderna

porti all’elisione dell’istituto che impone al

sovrano di prelevare la vita dei sudditi. È

che questo istituto non è più la forma prin-

cipale (anche simbolicamente) dell’eserci-

zio del potere2.

Ciò che conta è che, mentre la pena di morte

viene sempre maggiormente limitata nel

diritto criminale (nella testa dei teorici più

consapevoli addirittura essa decade), il pre-

lievo di sangue resta in vigore per la guerra.

Anzi. S’accresce a dismisura nei rapporti

conflittuali tra le popolazioni che invece,

al loro interno, sono oggetto di ogni atten-

zione e cura: rafforzamento continuo dei

corpi e degli spiriti, controllo permanente

della moralità e della fisicità, misurazione

accurata dello stato di salute e di morbilità.

Il prelevamento dell’esistenza del suddito

diventa insomma una modalità che (avreb-

bero detto gli esegeti della ragion di stato)

si esercita in deroga, ma s’iscrive di forza

nei programmi di accrescimento delle forze

della vita collettiva, in virtù della nuova

concezione dei rapporti tra guerra e popo-

lazioni, territorio e sicurezza. «Le guerre

non si fanno più in nome del sovrano che

bisogna difendere. Si fanno in nome dell’e-

sistenza di tutti. Si spingono intere popola-

zioni ad uccidersi reciprocamente in nome

della loro necessità di vivere. I massacri

sono diventati vitali. È come gestori della

vita e della sopravvivenza, dei corpi e della

razza, che tanti regimi hanno potuto con-

durre tante guerre, facendo uccidere tanti

uomini»3. È a questo punto della Volontà di

sapere che si trova la frase sul sogno di ge-

nocidio da cui sono partito e che ho preso

come guida per penetrare all’interno del

primo discorso foucauldiano sulla biopo-

litica.

Come si è sviluppato, nel corso della storia

moderna, il potere sulla vita? Ricorrendo a

un lessico che viene dalla scienze mediche,

la Volontà di sapere stabilisce la seguente

polarità: a un’estremità l’anatomopolitica

del corpo umano (il corpo umano come

macchina); dall’altra la biopolitica della

popolazione (il corpo umano come spe-

cie). Sarebbe utile approfondire le relazioni

che s’instaurano tra l’anatomia politica

del corpo individuale e la biopolitica delle

popolazioni. (Servirebbe anche per fare

un censimento delle ricerche storiche che

questo schema ha prodotto. Le strade per-

corse da Foucault per arrivare a formulare

le sue tesi dovrebbero essere sempre per-

lustrate dagli storici sulla base di una do-

cumentazione più ampia.) La relazione tra

amministrazione parcellizzata dei corpi e

318

4 Ibidem, pp. 123-124.5 Per la genealogia della rivendicazione «controllo operaio» nella Russia del diciassette, «Primo maggio», 15, 1981, pp. 17-25; Russia 1918: il sapere operaio contro la forza lavoro, in Sapere e potere, Milano, Multhipla, 1984, pp. 197-213.

gestione globale della vita ha infatti consen-

tito la formazione di quella complessa rete

di saperi che ha generato la nuova forma di

assoggettamento dei corpi e la nuova forma

di controllo della vita delle popolazioni. Si è

aperta in questo modo l’era di un biopotere

che, tra l’altro, rappresenta un elemento in-

dispensabile allo sviluppo del capitalismo.

Il capitalismo, scrive Foucault svolgendo

una serie di approcci abbandonati in parte

dall’indagine storica e aprendo al contempo

una pista di ricerca che troverà appena

qualche ascolto nella storia sociale, «non ha

potuto consolidarsi che a prezzo dell’inseri-

mento controllato dei corpi nell’apparato di

produzione e grazie a un adattamento dei

fenomeni di popolazione ai processi econo-

mici»4.

Mi sembra che, utilizzando il riferimento

all’inserimento dei corpi nell’apparato di

produzione (sistema di fabbrica) e all’a-

dattamento della vita delle popolazioni ai

nuovi processi economici, potrebbe essere

ancora utile riprendere e sviluppare lo

schema sulle differenti strategie di governo

dei corpi che ho proposto altrove5.

Prendiamo di nuovo come modello la

quarta sezione del primo libro del Capitale

che pone nella fabbrica il processo di pro-

duzione del corpo del lavoratore moderno.

Liquidando la tradizione manifatturiera

e abolendo la cultura delle figure operaie

che si esprimono nel mestiere, il sistema

di fabbrica consegna infatti il disciplina-

mento del corpo alla macchina: all’automa

che sancisce il passaggio dalla sussunzione

formale alla sussunzione reale del processo

lavorativo al capitale. Ogni comportamento

operaio nella società è ricondotto a una

nozione di corpo che continua a muoversi

fuori della fabbrica come pura appendice

della macchina. Vale a dire dell’automa che

gli ha sottratto ogni potere incorporando gli

elementi del suo sapere e lo ha trasformato

modificando la struttura fisica dei suoi gesti

prima di aggredire la sua coscienza.

Se eliminiamo Sorvegliare e punire, oltre

ad alcune sezioni della Storia della follia,

si potrebbe dire che Michel Foucault, nella

Volontà di sapere, cui si fa quasi sempre ri-

ferimento quando si discute delle tecniche

di disciplinamento, ha parlato del processo

di produzione del corpo borghese: un corpo

che, lungo il corso dell’età moderna, sem-

bra venga formato del tutto al di fuori del

luogo di lavoro. La macchina non entrerà

mai a determinare i suoi gesti, a circoscri-

vere il suo tempo, a delimitare i suoi spazi.

Il disciplinamento religioso sembra essere

quello che, almeno nella fase iniziale, si fa

quasi per intero carico del corpo borghese

e della sua produzione, prima di conse-

gnarlo alle scienze laiche dell’educazione

che dilagano nel diciannovesimo secolo,

sotto l’egemonia del pensiero medico ancor

più che di quello pedagogico. L’uno e l’altro

disciplinamento, integrandosi a vicenda,

in circoli che a volte si sovrappongono e

che a volte si diametralizzano, addestrano

il corpo borghese al comando della società

e dell’economia imponendo dei modelli di

319

6 M. Foucault, Gli anormali, Milano, Feltrinelli, 2000 [Paris, 1999].7 M. Foucault, La volontà di sapere, cit., pp. 124-125.8 M. Foucault, La naissance de la médecine sociale, in Dits et écrits. 1954-1988, t. 3, Paris, Gallimard, 1994, pp. 207-228. Foucault non ha mai parlato in modo disteso della biopolitica nemmemo nelle innumerevoli in-terviste che rappresentano lo strumento prediletto per riformulare e differenziare questioni già affrontate.9 M. Foucault, Les mailles du pouvoir, in Dits et écrits, cit., t. 4, pp. 182-201.10 M. Foucault, La technologie politique des individus, in Dits et écrits, cit., t. 4, pp. 813-828.11 M. Foucault, «Bisogna difendere la società», Milano, Feltrinelli, 1998 [Paris, 1997].

governo di sé che preparano un corpo (an-

che «collettivo») per la politica6.

Ritorniamo adesso alla citazione di Michel

Foucault sul rapporto tra biopotere e svi-

luppo del capitalismo:

Se lo sviluppo dei grandi apparati di stato, come istituzioni di potere, ha assicurato il mantenimento dei rapporti di produzione, i rudimenti d’anatomo- e di bio-politica, inven-tati nel XVIII secolo come tecniche di potere presenti a tutti i livelli del corpo sociale e uti-lizzate da istituzioni molto diverse, [...] hanno agito a livello dei processi economici, del loro sviluppo, delle forze che li sostengono con la loro azione; hanno operato anche come come fattori di segregazione e di gerarchizzazione sociale, agendo sulle forze rispettive degli uni e degli altri, garantendo rapporti di do-minazione e effetti di egemonia. L’adeguarsi dell’accumulazione degli uomini a quella del capitale, l’articolazione della crescita dei gruppi umani con l’espansione delle forze produttive e la ripartizione differenziale del profitto, sono stati resi possibili in parte dall’e-sercizio del biopotere, nelle sue forme e nei suoi molteplici procedimenti. L’investimento del corpo vivente, la sua valorizzazione e la gestione distributiva delle sue forze sono stati in quel momento indispensabili7.

«Biostoria e biopolitica»La pubblicazione dei Dits et Ecrits, met-

tendo a disposizione una quantità enorme

di documenti sparsi e spesso introvabili, ci

consente di capire meglio come, alla fine

della Volontà di sapere, emerga la nozione

di biopolitica. La prima menzione del ter-

mine, usato poi con molta parsimonia e

con notevoli oscillazioni, sembra essere

fatta nel 19748, in Brasile, nelle lezioni di

medicina sociale che Foucault teneva all’u-

niversità statale di Rio de Janeiro. Il testo

(a lungo conosciuto solo in una improv-

visata e controversa versione lusitana)

ci consente di allargare il campo di affio-

ramento del discorso. Anche il secondo

intervento, alla fine del 1976, è affidato a

una conferenza brasiliana9. Dunque: su-

bito dopo la conclusione della Volontà di

sapere. Il terzo intervento è molto tardo ed

eccentrico rispetto a quelli precedenti. Si

trova all’interno del seminario The politi-

cal technology of individuals tenuto all’U-

niversità del Vermont. Risale quindi al

1982 e va accostato (ma non sovrapposto)

a ciò che resta della biopolitica nei corsi

del triennio 1977-198010.

La schematica analisi che ho proposto

all’inizio va dunque collocata tra le due

conferenze brasiliane, che sembrano farle

da paratie al fine della costituzione del

campo. Questo campo, tuttavia, diventa

pienamente visibile solo se vi si inserisce

il corso Il faut défendre la société11, messo

insieme da Foucault proprio mentre finiva

di scrivere la Volonté de savoir. Ma la que-

stione affrontata a Rio de Janeiro ed elimi-

320

12 J. Ruffié, De la biologie à la culture, Paris, Flammarion, 1976; M. Foucault, Bio-histoire et bio-politique, in Dits et écrits, cit., t. 3, pp. 95-97.13 M. Foucault, Bio-histoire et bio-politique, cit., pp. 96-97.

nata, per motivi che restano ancora in gran

parte oscuri, dalla Volonté de savoir, pur

essendo stata ripresa in Il faut défendre la

société, non ha trovato conclusione. Si può

però fare avanzare il discorso ricordando

la recensione al libro di Jacques Ruffié,

Dalla biologia alla cultura, intitolata Bio-

storia e biopolitica (ottobre 1976). Foucault

vi denuncia, tra l’altro, lo spregiudicato uso

politico del termine razzismo a proposito

della «vergognosa» risoluzione dell’Onu sul

sionismo (si tratta del famoso documento

di equiparazione tra sionismo e razzismo).

Si tratta di una presa di posizione di grande

rilievo. Viene pronunciata proprio nel mo-

mento in cui, dai circoli della nuova destra,

si avviava l’attacco ai grandi genetisti an-

tirazzisti di Francia (da Jacques Monod a

François Jacob) e della sinistra internazio-

nale. Dietro l’attacco, mascherato dall’ideo-

logia di appoggio alle lotte di liberazione del

popolo palestinese, covava infatti – bene ac-

ceso – il tizzone antisemita12.

Foucault schematizza in questo modo la

materia relativa alle razze umane. Primo:

«Come la specie non dev’essere definita

attraverso un prototipo, ma da un insieme

di variazioni, così la razza, per il biologo, è

una nozione statistica: una “popolazione”».

Secondo: «Il polimorfismo genetico d’una

popolazione non costituisce un decadi-

mento. Costituisce un [evento] biologica-

mente utile. La “purezza” è invece il risul-

tato di processi, il più delle volte artificiali,

che indeboliscono e rendono più difficile

l’adattamento». Terzo: «Una popolazione

non può definirsi in base ai suoi caratteri

morfologici manifesti. La biologia moleco-

lare, per contro, ha permesso di trovare dei

fattori dai quali dipendono la struttura im-

munologica e il bagaglio enzimatico delle

cellule: caratteri il cui condizionamento è

rigorosamente genetico». Pur nell’econo-

mia d’una recensione, Foucault – a partire

dal ruolo dei «marcatori sanguigni» che

«sono oggi, per il problema delle razze, ciò

che furono i caratteri sessuali per le spe-

cie all’epoca di Linneo», ma «con la diffe-

renza che, mentre la tipologia sessuale ha

permesso di fondare per molto tempo le

grandi classificazioni botaniche, l’emato-

tipologia autorizza attualmente a dissol-

vere l’idea stessa di razza umana» – riesce

a fare apparire la Volontà di sapere senza

citarla. Nella conclusione, egli si cimenta in

una proposta positiva di biopolitica. Nelle

analisi di Ruffié, «si vedono formulate con

chiarezza le questioni d’una biostoria che

non sarebbe più la storia unitaria e mitolo-

gica della specie umana attraverso i tempi,

e una biopolitica che non sarebbe affatto

quella delle spartizioni, delle conservazioni

e delle gerarchie, ma quella della comuni-

cazione e del polimorfismo»13.

«Lo stato moderno è apparso là dove non c’era né potere politico né sviluppo economico»Nella conferenza La nascita della medi-

cina sociale troviamo ciò che manca nella

Volontà di sapere e che invece costituisce

il nocciolo di Bisogna difendere la società.

321

14 M. Foucault, La naissance de la médecine sociale, cit., pp. 207-208.15 Ibidem, p. 210.

Il lessico si presenta qui come una sorta di

procedimento che inverte, in laboratorio, la

lingua scientifica (progettuale, propositiva)

del diciottesimo secolo: «La biostoria è l’ef-

fetto, registrato a livello biologico, dell’in-

tervento medico sulle popolazioni»; «La

biostoria è la traccia che ha potuto lasciare

nella storia della specie umana quel potente

intervento della medicina che inizia nel di-

ciottesimo secolo»; «La storia della specie

umana non resta indifferente alla medica-

lizzazione». Le tre definizioni, anche se non

possiamo qui allegare i discorsi che rias-

sumono e nemmeno possiamo ricostruire

il procedimento attraverso il quale si sono

formate, sono però in grado di servire da

avviamento. Si vede infatti che Foucault,

cominciando a rispondere alla domanda

sul come sono scomparse alcune malattie

alla fine del diciannovesimo secolo, sostitu-

isce con il termine medicalizzazione (médi-

calisation) quello di progresso (progrès).

Basta esaminare le acquisizioni della storia

sociale della medicina con l’analoga osser-

vazione che la storia della seconda età mo-

derna è marcata dalla scomparsa di diverse

malattie infettive ben prima delle grandi in-

novazioni chemioterapiche14.

Per il modo in cui comincia la conferenza

brasiliana, e seguendo lo schema che essa

svolge, sembrerebbe che Foucault non in-

tendesse andare oltre il discorso su Les équi-

pements sanitaires già affrontato in Généalo-

gie des équipements de normalization pub-

blicato dal Cerfi nello stesso 1976. E invece

ecco apparire, quando ormai l’intervento

sembrava chiuso, un breve ma importante

approfondimento. Si tratta del paragrafo

consacrato allo sviluppo tedesco della Me-

dicina di stato. Ciò non significa mettere in

posizione secondaria le partizioni francese

(Medicina urbana) e inglese (Medicina del

lavoro), tanto più che esse sono incompa-

rabilmente più documentate e articolate.

Significa far affiorare un problema che si

collega alle maglie di Bisogna difendere la

società. Parlare oggi di Staatswissenschaft è

abbastanza facile. Ma nel 1974 era più che

giustificato il rilievo mosso agli storici fran-

cesi di non essersi fino ad allora occupati

del problema della nascita d’una scienza

di stato in Germania. Leggiamo i due si-

gnificati che vi trova Michel Foucault: da

una parte, un sapere il cui oggetto è lo stato

(«non solo le risorse naturali del paese o

le condizioni di vita della popolazione, ma

anche il funzionamento della macchina

politica»); dall’altra, i metodi per mezzo dei

quali lo stato «produce e accumula le co-

noscenze che gli permettono di garantire il

suo funzionamento»15.

Allarghiamo la prima osservazione: «Lo

stato, come oggetto di sapere, come stru-

mento e luogo d’acquisizione di conoscenze

specifiche, s’è sviluppato più rapidamente

in Germania che in Francia e Inghilterra».

Non è semplice stabilire le ragioni di questo

fenomeno. La prima spiegazione dell’inte-

resse che la Germania dell’età moderna ha

mostrato per i saperi di stato (la frammen-

tazione territoriale che obbliga a sostituire

i rapporti di forza con altri tipi di relazione)

non è certamente molto convincente, so-

prattutto per chi conosca la storia italiana,

322

16 Ibidem, pp. 210-211.17 Ibidem, pp. 211-212.

che mostra un’analoga debolezza del pro-

cesso unitario, ma presenta, per quanto ri-

guarda la statizzazione dei saperi, un segno

inverso. Né vale molto dire che, mentre i

grandi stati unitari dell’Europa moderna ri-

uscirono a funzionare relativamente bene

con le loro potenti macchine da guerra, in

Germania fu la stessa dimensione ridotta

degli stati che rese necessaria e possibile

la coscienza discorsiva del funzionamento

statale della società. Anche la spiegazione

addotta (debole sviluppo se non stagna-

zione dell’economia) si presta a dubitazioni

molto forti16.

Eppure, il modo in cui Michel Foucault

riformula l’osservazione, ricavata dalla ri-

cerca storica in atto negli anni Settanta, è

ricca d’implicazioni. Da un giudizio che

non supera l’evidenza dei fatti («Il concetto

moderno di stato, con tutto il suo apparato, i

suoi funzionari, il suo sapere, si svilupperà

in Germania prima che negli altri paesi po-

liticamente più potenti come la Francia ed

economicamente più sviluppati come l’In-

ghilterra»), deriva una specie di assioma

che stimola la ricerca: «Lo stato moderno

è apparso là dove non c’era né potere po-

litico né sviluppo economico». È vero, po-

stilla Foucault, che nel mercantilismo tutte

le nazioni dell’Europa si preoccupavano

della salute della popolazione. Ma, mentre

Francia e Inghilterra limitavano il loro in-

tervento a stabilire le statistiche di natalità e

mortalità, la Germania inventava qualcosa

di completamente nuovo: la scienza di stato

e la scienza dello stato17.


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