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I "sillogismi taciti". Conti tra Hutcheson e Wolff. In Atti del convegno "Antonio Conti. Uno...

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ANTONIO CONTI: UNO SCIENZIATO NELLA RÉPUBLIQUE DES LETTRES a cura di Guido Baldassarri Silvia Contarini Francesca Fedi I L P O L I G R A F O
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ANTONIO CONTI:UNO SCIENZIATO NELLA RÉPUBLIQUE DES LETTRES

a cura diGuido BaldassarriSilvia ContariniFrancesca Fedi

I L P O L I G R A F O

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© Copyright settembre 2009

Il Poligrafo casa editrice srl35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34

tel. 049 8360887 - fax 049 8360864

e-mail [email protected]

ISBN 978-88-7115-625-5

La presente pubblicazione viene realizzatacon il contributo del Dipartimento di Italianistica dell’Università degli Studi di Padova

Atti del Convegno InternazionalePadova, Palazzo del Bo27 febbraio - 1 marzo 2007

progetto grafi co Il Poligrafo casa editriceLaura Rigon

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7 Premessa Guido Baldassarri, Silvia Contarini, Francesca Fedi

13 Una diffi cile assimilazione: Conti, le metafi siche e la nuova scienza Ferdinando Abbri

27 Conti e la Massoneria Gian Mario Cazzaniga

45 La ‘denonzia’ di Antonio Conti per ateismo John Lindon

71 L’Arcadia della scienza. Qualche ipotesi di rilettura Alessandra Di Ricco

85 Antonio Conti nel dibattito settecentesco sul rapporto tra letteratura e scienza e sulla poesia didattica Elvio Guagnini

97 I carteggi Conti-Vallisneri Ivano Dal Prete

113 Antonio Conti e Scipione Maffei Gian Paolo Romagnani

143 I «sillogismi taciti»: Conti tra Hutcheson e Wolff Silvia Contarini

167 La traduzione e la circolazione del Rape of the Lock Francesca Fedi

INDICE

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189 La migliore armonia. Dialoghi e interlocutori per Il Globo di Venere Duccio Tongiorgi

211 Per l’edizione dei Dialoghi fi losofi ci Renzo Rabboni

243 I pensieri sulla musica di Antonio Conti Franco Arato

257 Dal «mistero teologico» alla «sapienza civile»: l’inno Sopra il lavacro di Pallade Annalisa Nacinovich

271 Conti e la fondazione del «Teatro Romano». Giunio Bruto e Marco Bruto in scena Beatrice Alfonzetti

303 «È nota l’istoria di Davide che suonando l’arpa danzava». I cori tragici dal Cesare al Druso Valentina Gallo

335 Sintassi e metrica nel Riccio rapito Rodolfo Zucco

365 Sogni di fi losofi . Antonio Conti tra Keplero e Muratori Gianmarco Gaspari

385 «Un ordine lunghissimo di spettri». La strada verso il sogno di Antonio Conti Rinaldo Rinaldi

401 «Scrivere e lagrimar»: Conti e la ripresa delle Eroidi nel Settecento italiano Salvatore Puggioni

425 L’infl usso contiano sulla Chioma di Berenice di Foscolo

Christian Del Vento

443 Indice dei nomi a cura di Salvatore Puggioni

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Silvia Contarini

I «SILLOGISMI TACITI»: CONTI TRA HUTCHESON E WOLFF

La prima lettera a Monsignor Cerati, volta a illuminare l’allegoria platonica del Globo di Venere, si apre con un’equazione tra il mondo visibile della natura e quello interiore della morale. Se per bellezza si intende «ciò che v’è di ordinato nella natura e nelle potenze sia de’corpi, sia degli spiriti», e per armonia «ciò che v’è di ordinato ne’ moti degli uni, e nell’azioni degli altri», ne deriva che «la bellezza riguarda l’ordine in ciò che è» e «l’armonia in ciò che si fa». Non a caso, argomenta Conti, «il Gravina chiama la bellezza virtù del corpo, come la virtù bellezza dell’animo, perché convenendo nell’istessa idea d’ordine si può poeticamente predicar l’una dell’altra».1

Il richiamo per certi versi obbligato al Gravina non esaurisce però il sistema dei riferimenti intertestuali su cui è costruito il ragionamento, perché subito dopo l’autore precisa:

La simmetria del mondo corporeo dipende da quella forza, qualunque essa sia, con cui prima s’attraggono le parti elementari della materia onde ne risulta una massa di fi gura e grandezza costante; le masse poi attraggono le vicine, e a proporzione le lontane, onde ne risulta il sistema de’corpi, qual è per esempio il Solare, del quale a suo luogo lungamente parleremo. La simmetria del mondo spirituale dipende, secon-do un ingegnoso moderno, dalla legge, con cui ogni uomo spinto dall’amor proprio cerca le cose utili a sé onde si conservi, e quindi sollecitato dalla benevolenza cerca le cose utili agli altri onde formi e mantenga la società.2

Se l’autorità implicita di Newton pare suffi ciente di per sé a garantire l’equili-brio del mondo corporeo, una nota nel testo avverte che «l’ingegnoso moderno» a cui si fa riferimento per la morale è il fi losofo scozzese Francis Hutcheson,

1 A. Conti, A Monsignor Cerati, Priore della Conventuale di Pisa, in Prose e poesie del Signor Abate Antonio Conti patrizio veneto, I, in Venezia, presso Giambatista Pasquali, 1739-1756, p. IX.

2 Ivi, p. XI.

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autore di quell’Inquiry into the Original of our Ideas of Beauty and Virtue (1725) che fi gura per ampi estratti negli inediti contiani3 come del complementare Essay on the Nature and Conduct of the Passions and Affections (1728), che l’abate padovano mostra di conoscere altrettanto bene. Tolto il richiamo singolo a Hutcheson, sul quale vale la pena di soffermarsi, il quadro della citazione sembra piuttosto convenzionale. Non è molto diverso, per fare solo un esempio, da quello che compare nella Lettre sur l’homme di François Hemsterhuis, che negli stessi anni divulga l’idea di una morale fondata sull’identità di piacere e virtù e sull’equi-valenza tra le dinamiche vitali dell’universo e i moti del pathos, vale a dire di quelle forze interiori in parte ignote che consentono all’anima di percepire la sua esistenza, dal momento che, al pari di ciò che avviene in natura, «elle ne sent qu’elle agit que par l’idée de réaction».4

Da questo punto di vista gli studi di Michel Delon sull’idea di energia e quelli di Strarobinski sopra action e réaction5 hanno chiarito da tempo che il paradigma della scienza, tra Descartes e Newton, costituisce l’orizzonte va-riegato entro cui si muove la ricerca di un’etica illuministica e razionale, ma al tempo stesso dipendente dall’universo oscuro delle passioni, che secondo un topos altrettanto diffuso rappresenta la terra incognita da esplorare con i nuovi strumenti della conoscenza, anche se per la verità un osservatore acuto come Vico aveva sostenuto fi n dall’inizio l’impossibilità di ricondurre le pulsioni dell’animo alle regole certe della matematica e della geometria.6 E prima di lui Malebranche, nel quarto libro della Recherche de la vérité, aveva osservato con parole non molto diverse che se «les géomètres font toujours quelques nou-velles découvertes dans leur science», la maggior parte degli uomini sembrano «incapables de rien conclure du premier principe de la morale», a causa della «vue confuse et imparfaite» delle passioni, e del fatto che non ci può essere equivalenza tra «les côtés des triangles» e le «inclinations perverses» all’origine

3 Come annota Badaloni, è probabile che il Conti avesse la prima notizia del trattato di Hutche-son da Antonio Cocchi, nella lettera da Londra del 6 marzo 1726 (N. Badaloni, Antonio Conti. Un abate libero pensatore tra Newton e Voltaire, Milano, Feltrinelli, 1968, pp. 115-117 e 162-164); ma al riguardo cfr. R. Rabboni, Speculare sodo, ragionar sentenzioso. Studi sull’abate Conti, Firenze, Olschki, 2008, pp. 151-152. Su Conti e Hutcheson si vedano anche le considerazioni di G. Gronda, Antonio Conti e l’Inghilterra, «English Miscellany», XV, 1964, pp. 135-174 (159-162), che discute l’interpretazione riduttiva di V.M. Hamm, Antonio Conti and the English Aesthetica, «Comparative Literature», VIII, I, 1956, pp. 12-27.

4 F. Hemsterhuis, Lettre sur l’homme et ses rapports. Avec le commentaire inédite de Diderot, texte établi, présenté et annoté par G. May, New Haven, Yale University Press, 1964, p. 132.

5 Cfr. M. Delon, L’idée d’énergie au Tournant des Lumières 1770-1820, Paris, PUF, 1988 e di J. Staro-binski, Action et réaction. Vie et aventure d’un couple, Paris, Gallimard, 1999.

6 Cfr. G. Vico, De nostri temporis studiorum ratione, in Id., Opere, I, a cura di A. Battistini, Milano, Mondadori, 1990, pp. 131-133.

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della «fausse morale».7 Senz’altro più conciliante è in questo caso la posizione di Conti, che nel Dialogue sur la nature de l’amour insiste sull’analogia produttiva tra il mondo della fi sica e quello dello spirito chiamando in causa forze naturali misteriose, come l’elettricità e il magnetismo, per ribadire una volta di più la parentela tra «les loix qui conservent l’équilibre des Cieux» e «les loix qui font tantôt approcher et tantôt éloigner les Amants».8

Per quanto riguarda la lettera al Cerati, tuttavia, la questione appare più complessa, se non altro perché, per rimanere alle origini del problema, il rap-porto tra scienza e morale era stato uno dei temi più dibattuti della rifl essione politica e civile dell’Accademia di Medinacoeli,9 con cui si erano misurati, prima di Gravina, Gregorio Caloprese, Paolo Mattia Doria e lo stesso Vico, sulla scorta delle Passions de l’âme di Cartesio e della Recherche de la vérité di Malebranche.10 Ricollocate all’interno di un orizzonte dialogico complesso, in cui avevano preso forma non solo le Lezioni sull’origine degl’Imperj di Caloprese, la Vita civile di Paolo Mattia Doria e la stessa Scienza Nuova, ma anche il primo tentativo drammatico di Metastasio col Giustino, le osservazioni di Conti su Hutcheson acquistano un signifi cato più profondo e articolato. A guardar bene infatti, se si esclude il trasferimento in poesia al centro del Globo di Venere, dove il ricorso alle metafore della scienza serve soprattutto a rinnovare il patrimonio delle immagini mitolo-giche tradizionali,11 l’equivalenza meccanica tra la legge certa della gravitazione universale e i principî naturali che regolano la vita associata, vale a dire l’amor proprio e ciò che il fi losofo scozzese, adottando la terminologia ciceroniana comune a Cumberland, Pufendorf e Shaftesbury, chiama benevolenza, si presta quasi da subito a una serie di considerazioni critiche che segnano il progressivo distacco dall’Inquiry into the Original of our Ideas of Beauty and Virtue.

7 N. Malebranche, De la recherche de la vérité, texte établi, présenté et annoté par G. Rodis-Lewis, Paris, Gallimard, 1979, pp. 394-395.

8 Ivi, p. LXXVII.9 Cfr. in particolare E. Nuzzo, Verso la vita civile: antropologia e politica nelle lezioni accademiche

di Gregorio Caloprese e Paolo Mattia Doria, Napoli, Guida, 1984, e il più recente R.A. Syska Lamparska, Letteratura e scienza: Gregorio Caloprese teorico e critico della letteratura, Napoli, Guida, 2005.

10 Su questo punto mi sia consentito rinviare al mio saggio Anatomie delle passioni fra Sei e Settecento, in S. Contarini, Una retorica degli affetti. Dall’epos al romanzo, Pisa, Pacini, 2007, pp. 29-60.

11 A proposito dell’uso della scienza in poesia scrive Conti nella Lettre à Madame la Présidente Ferrant, «Que le Tasse eût été heureux s’il avoit sçu que nôtre Terre cache un autre Globe au dedans, et que ce Globe interieur a son Soleil, ses Etoiles et ses habitans. Voyez ce que Mons. Halley en a dit dans la theorie de l’Aimant. Si l’Arioste avoit connu l’anneau de Saturne, il y auroit envoyé son Ipogrife, il n’y avoit qu’à doubler ses ailes, et il n’auroit pas mal fait de le faire perdre dans le pays des Cometes» (Prose e poesie, II, cit., p. XCV). Su quella che è forse la differenza più signifi cativa con il pensiero del Vico ha scritto pagine acute M. Ariani, Drammaturgia e mitopoiesi. Antonio Conti scrittore, Roma, Bulzoni, 1977, pp. 73-78.

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Nella presentazione ragionata degli scritti che introduce il primo tomo delle Prose e poesie, per esempio, Conti annota con precisione:

L’Utchtsonio s’imaginò di aver ritrovato l’origine dell’ordine civile nelle attrazioni Newtoniane, le cui leggi egli fece comuni a’ corpi ed agli spiriti, pretendendo, che come ne’ corpi v’è una forza d’attrazione, che tiene unite tutte le parti del sistema corporeo, così negli spiriti vi sia un istinto, che li spinga, e li determini a tutto ciò, che può mantenere il sistema ragionevole, o la società, di cui fanno parte. La conser-vazione d’un tutto regolato ed armonico dipende e dalla conservazione delle parti, e da quella del rapporto che hanno tra loro, e la natura dovea provedere all’uno ed all’altro, onde ne’ corpi e negli spiriti pose quanto era necessario a tale provedimento. Diede dunque a’ corpi, se si crede all’Utchtsonio, ed una forza, con cui le loro proprie parti attraendo, conservano la massa, il volume, e la fi gura loro, ed altresì una forza, con cui attraendo i corpi vicini, ed a proporzione i lontani, conservano equilibrato il sistema, nel quale sono inclusi. Parimenti a noi la natura diede l’amor proprio, con cui, cercando quel che ci è utile, ci conserviamo, e ci diede la benevolenza, con cui cerchiamo quello che è utile alla società, per la conservazione della quale siamo non meno interessati, che per la nostra.12

E poco più oltre, dopo aver riconosciuto l’ingegnosità delle «analogie poe-ticamente prese»13 di cui aveva sperimentato in proprio l’effi cacia nel Globo di Venere,14 dichiara in maniera esplicita:

Io sono ben lontano dal credere, che questi istinti morali, questi sensi moralmente attrattivi né pur abbiano un mediocre grado di quella verosimiglianza fi losofi ca, che è necessaria per fondarvi sopra un principio di Fisica, non che di morale. Se egli è contro l’idee del naturale e del soprannaturale, che non hanno proporzione tra loro, il cercar le immagini delle leggi della Grazia nelle leggi della Natura, non è meno contro l’idee del corporeo e dell’incorporeo, che sono cose incommensurabili ed eterogenee il cer-car nelle leggi dell’attrazione de’ corpi le immagini dell’attrazioni degli spiriti, poiché ammesse queste attrazioni morali, si diminuisce la libertà, si toglie il merito alla virtù, e la giustizia del premio, che le è dovuto. Nasce il sofi sma dal confondere i fantasmi poetici co’ dogmi Filosofi ci, ed adoprare il senso e l’immaginazione, che conoscono confusamente gli oggetti allorché si debbe ricorrere all’intelletto, che solo distintamente li concepisce, e solo può determinare i principj della Metafi sica, della Logica, e della Mo-rale. Quest’ultima disciplina, per sé rigida e severa, potea ben ammettere gli ornamenti della Poesia Platonica in un tempo, che l’Idolatria non era ella stessa, che tutta un’opera di Poesia; ma il lume rivelato, e la morale Cristiana non permettono, che fi losofi camente si tratti delle cagioni libere col metodo e co’ principj delle necessarie.15

12 A. Conti, Prefazione, in Prose e poesie, I, cit., p. 7. 13 Ibid.14 Nella chiusa della seconda lettera al Cerati (Prose e poesie, II, cit., p. CLXXVII), Conti annota con

qualche ironia: «Io ringrazio dunque Mons. l’Utchtson del dono che d’un nuovo senso m’ha fatto, ma io lo prego a contentarsi, che, se la mia ragione non mi permette d’ammetterlo nel rigor Filosofi co, la mia fantasia è pronta ad adoperalo poeticamente, come ho fatto nel Sogno».

15 A. Conti, Prefazione, cit., pp. 7-8.

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Che la rifl essione sul libero arbitrio, le passioni e la volontà sviluppatasi a Napoli tra la fi ne del Seicento e l’inizio del Settecento sulla traccia delle Passions de l’âme potesse costituire una valida alternativa alla morale naturale di Hutcheson, lo prova del resto la citazione congiunta di Malebranche, Doria e Vico a monte del passo appena ricordato, la quale introduce e prepara l’immagine della virtù come «consenso delle potenze naturali e libere dell’anima». E infatti Conti stesso dichiara, poco più oltre, che proprio gli «aforismi» della Scienza nuova, letta e ammirata fi n dalla prima stampa del 1725,16 avevano mostrato «come dall’ordine introdotto nell’umane passioni la legislazione fece della ferocia, dell’avarizia, e dell’ambizione, i tre vizj, che sconvolgono tutto il genere umano, la milizia, la mercatanzia, e la Corte, e quindi la fortezza, e l’opulenza delle Repubbliche».17 In altre parole, agli «istinti morali» e ai «sensi moralmente attrattivi» descritti a più riprese nell’Inquiry, l’autore oppone l’idea vichiana di un «arbitrio umano» come «fabbro del mondo delle nazioni»,18 ribadendo quella «conformità della volontà con la ragione»19 che secondo Doria trasforma le «viziose» passioni in virtuose, «all’uomo e alla vita civile utilissime».20 Per avere una prova ulteriore, basta tornare alle pagine introduttive delle Prose e poesie nelle quali Conti, riassu-mendo i caratteri del suo sistema estetico frammentato ma coerente, dichiara che «le invenzioni de’ sistemi delle scienze e dell’arti inventate ed applicate all’anime» rappresentano un esempio della «bellezza delle potenze conoscitive», mentre «la bellezza dell’appetitive» consiste nell’«esercizio della virtù»,21 e chiamando in causa di nuovo il platonismo allegorico del Globo di Venere aggiunge:

Nella dissertazione sul Sogno io molto avea ragionato su questa, ma parendomi la digressione troppo lunga ed inopportuna, io la troncai per ristringermi alla spiega-zione delle cose particolari del sogno stesso. Molto piacque a Monsig. Cerati, ed al Sig. Muratori, i quali videro la dissertazione col Sogno, che io diffi nissi la virtù per l’abito, o l’atto che perfeziona il corpo e lo spirito, perfezione, che nel diffi nirla col Wolfi o per un consenso nella varietà, necessariamente inferii, che nella virtù v’era bellezza e armonia, giacché nella virtù s’includeva il consenso delle potenze naturali e libere dell’anima.22

La medesima defi nizione è ripresa con vigore nel trattato Dell’anima umana, dove Conti ribadisce che «l’idea più feconda della morale» è «quella della virtù»,

16 Cfr. G. Vico, Vita scritta da se medesimo, in Id., Opere, I, cit., pp. 70-71, che riporta un brano della lettera inviatagli dal Conti il 3 gennaio 1728.

17 A. Conti, Prefazione, cit., p. 7.18 G. Vico, Scienza nuova (1725), in Id., Opere, cit., p. 1009.19 P.M. Doria, La vita civile. Con un trattato sull’Educazione del principe, Torino, Pomba, 1852, p. 77.20 Ivi, p. 85.21 A. Conti, Prefazione, cit., p. 5. 22 Ibid.

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e rifacendosi proprio alle «Dissertazioni della bellezza mandate al sign. Muratori», dove la virtù compariva come «perfezione dell’anima e del corpo», spiega:

La perfezione è il consenso della varietà, come si disse; dunque per la virtù devono consentire in uno il senso, la fantasia, l’intelletto, le passioni, la volontà, potenze tra loro varie e che non si possono accordare che con quella somma fatica che ricerca somma forza; da questa defi nizione tutta ne dipende la morale, perché dalla virtù, o da questo consenso delle potenze dell’anima, dipende la felicità, che n’è il vero oggetto. Conseguenza di questa perfezione è la morale intrinseca, sulla quale gli scolastici e il Grozio fondarono il diritto delle genti, il Cumberlando e il Clarcke le relazioni e proporzioni immutabili, da cui nascono le convenienze delle azioni, ecc.23

Accanto ai nomi di Grozio e di Cumberland, la citazione di Clarke può avere un valore indicativo supplementare, se non altro perché proprio da un sostenitore di quest’ultimo, Gilbert Burnet, erano venute le critiche più radicali alla «bella struttura edifi cata dall’autore nella Ricerca sulla virtù», che a suo dire «mancava di suffi cienti fondamenta».24 Ma più ancora, forse, è utile osservare che l’intonazione generale del passo riecheggia la prima parte della Vita civile del Doria, là dove si afferma che «il primo oggetto de’ nostri desiderj è senza fallo l’umana felicità»,25 e si analizza il rapporto tra il «lume naturale», le incli-nazioni dell’animo e la volontà, per concludere che l’«umana felicità consiste nella conformità della volontà con la ragione».26

Se nel trattato forse più impegnativo di Conti la fi losofi a del bello di Hu-tcheson sembra quasi non lasciare tracce, rispetto alle deduzioni massicce tolte da Cartesio, Malebranche, Leibniz e Wolff, la critica diretta dell’Inquiry into the Original of our Ideas of Beauty and Virtue affi ora in concreto nelle due pagine manoscritte del Della prosa e della poesia intitolate Della Virtù. Dopo la sintesi puntuale di alcuni passi, l’autore introduce l’argomento che più doveva stargli a cuore, ovvero il rapporto tra virtù e libertà, a proposito del quale osserva: «l’Utcheson pone per fondamento della virtù da una parte un istinto naturale che ci porta ad amare i nostri simili, a voler loro del bene e a farne, dall’altra un sentimento morale che ci fà provar questo istinto sia in noi sia negli altri».27 Ma «se la virtù dipende da un puro istinto, ne consegue che sia una cosa arbitraria

23 A. Conti, Dell’anima umana, in Id., Scritti fi losofi ci, a cura di N. Badaloni, Napoli, Casa Editrice Fulvio Rossi, 1972, p. 167.

24 G. Burnet, Prefazione alle Lettere tra il defunto Signor Gilbert Burnet e il Signor Hutchinson [sic] concernenti Il vero fondamento della Virtù o Bontà morale, in F. Hutcheson, Saggio sulla natura e condotta delle passioni, tr. it. a cura di L. Turco, Bologna, CLUEB, 1997, p. 189.

25 P.M. Doria, La vita civile, cit., p. 45.26 Ivi, p. 77.27 A. Conti, Della prosa e della poesia libri tre. Biblioteca Comunale di Udine, Fondo Manin,

ms. 1357, c. 24r.

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di sua natura»,28 e comunque, se si accetta questa premessa si deve necessaria-mente «accordare anche alle bestie qualche grado di virtù». Infatti «lo stesso istinto ed inclinazione v’è anche nelle bestie», le quali «seguono le impressioni più d’ordinario che gli uomini», e il fatto che «lo stesso Utcheson schiuda il suo principio a tutti gli esseri sensitivi» è motivo suffi ciente «per farne vedere il poco fondamento».29 Di là dalla sostanza fi losofi ca delle obiezioni, è evidente che Conti non può accettare la conseguenza implicita nelle tesi di Hutcheson così riassunte, vale a dire che «se la virtù consiste in un istinto o negli effetti dell’istinto, egli è inutile d’istruirvi gli uomini».30 Per l’abate padovano, come già per Doria e Vico, la pratica quotidiana della virtù, preliminare alla costruzione dell’individuo e degli Stati, consiste infatti nel cartesiano «operare secondo ragione», poiché solo la ragione può insegnare agli uomini «d’aver riguardo al loro proprio interesse» mentre «esige pur che non sia pregiudizio agli interessi altrui».31

Vale forse la pena, a questo punto, esaminare più da vicino gli snodi concet-tuali di un percorso che vede da una parte la concezione ottimistica della morale di Shaftesbury e Hutcheson, per tanti versi simile a quella contenuta nell’Essay on Man di Pope, e dall’altra l’etica razionalistica e cartesiana di Medinacoeli, a cui era debitore il Gravina, volta a illuminare la scienza dell’anima e i principî dell’«umana natura» in rapporto alla «vita civile». Nella prima lettera al Cerati, l’analisi delle tesi di Hutcheson si limita alla semplice esposizione, senza alcun giudizio di commento. Dopo aver introdotto l’immagine topica dell’uomo immerso nel «vasto Oceano» del mondo e «agitato dall’impeto degli elementi», che prelude a una descrizione dei rapporti tra senso e intelletto, passioni e volontà nei toni riconoscibilissimi di Malebranche, Conti precisa infatti, in apparente sintonia con il fi losofo scozzese:

Ciò che io qui chiamo giudizio connaturale, regolativo delle azioni morali, un Autor Moderno [Ricerca sull’origine della Bellezza, e della Virtù. Huctson] lo chiama senso interno, senso morale, senso dell’ordine. Senso perché precede ogni nostra cognizione, e si fa in noi, malgrado di noi; senso interno, perché non è affi sso agli occhi, all’orecchio, o ad altro organo esterno; senso dell’ordine, perché la bellezza e l’armonia non sono che ordine; senso morale perché dirige i costumi. Gli Stoici, se non m’inganno, lo chiamavano natura, perché secondo questi Filosofi (e Cicerone l’accenna in molte parti) l’operar secondo natura era un operare secondo la ragione, o secondo la virtù. Nel destarsi in noi questo senso d’ordine, non possiamo non amare e lodare la bellezza, non altrimenti che aperti gli occhi e tese l’orecchie non possiamo non vedere, o non udire.32

28 Ibid.29 Ivi, c. 24v.30 Ibid.31 Ivi, c. 27r.32 Ibid.

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E con un esempio che riunisce sotto il medesimo segno il mondo dell’estetica e quello della morale e rimanda in maniera compiuta all’allegoria del Globo di Venere ancora sullo sfondo, chiarisce:

Se nel mentre, che io attentamente mirassi o la Trasfi gurazione di Raffaele, o la Ve-nere de’ Medici un Uomo col pugnale alla mano mi sforzasse a dire, che il quadro, o la statua non sono belli nel genere loro, io lo direi con la bocca, ma nel dirlo il mio rimorso s’opporrebbe alla mia asserzione. Similmente per quanto odiassi un Uomo, che mi avesse insidiata la vita, o rapite le sostanze, io non potrei non ammirarlo, o non lodarlo nell’udire, ch’egli ha esposto generosamente se stesso per liberare da’ nemici la Patria. La distanza de’ climi, o del tempo non diminuisce od infrange la vivacità di questo senso, e leggendo noi l’antiche Storie ci sentiamo spinti ad ammirare, ed amare le virtù degli Eroi, e la bellezza delle Donne famose, se non collo stesso trasporto degli antichi, che ne riceverono giovamento e diletto almeno con molta commozione.33

Senza dubbio, i due passi citati riecheggiano la Prefazione dell’Inquiry into the Original of our Ideas of Beauty and Virtue, dove il senso interno è defi nito come «il nostro potere di percepire la bellezza della regolarità, dell’ordine e dell’ar-monia», e il senso morale «quella determinazione a provar piacere per la con-templazione delle affezioni, delle azioni o dei caratteri, appartenenti ad agenti razionali, che chiamiamo virtuosi».34 Difatti secondo Hutcheson «l’Autore della natura ci ha dotati per una condotta virtuosa assai meglio di quanto sembra che <i nostri> <alcuni> moralisti immaginino, provvedendoci di istruzioni tanto rapide ed effi caci quanto quelle che abbiamo per la conservazione del nostro corpo».35 La conclusione del paragrafo VIII del Secondo Trattato suona da questo punto di vista ancora più perentoria:

Resta assodato quindi che, come l’AUTORE della natura ci ha fatti capaci di ricevere, mediante i sensi esterni, idee piacevoli o sgradevoli degli oggetti a seconda che siano utili o nocivi ai nostri corpi, nonché di ricevere dagli oggetti uniformi i piaceri della bellezza e dell’armonia, perché ci stimolino alla ricerca del sapere e ci compensino per essa, o perché siano per noi una prova della sua bontà – giacché l’uniformità di per sé attesta la sua esistenza, che si abbia o no un senso della bellezza dell’uniformità –; <così> <alla stessa maniera> ci ha dato un SENSO MORALE per guidare le nostre azioni e darci piaceri ancora più nobili, cosicché, perseguendo soltanto il bene altrui, promuoviamo senza volerlo il nostro più grande bene privato.36

Com’è noto, l’intento del fi losofo scozzese è prima di tutto quello di «liberare la morale dal rigorismo e dall’immoralismo di Hobbes, Locke e Mandeville,

33 Ivi, pp. XIII-XIV.34 F. Hutcheson, Ricerca sull’origine delle nostre idee di bellezza e di virtù, tr. it. a cura di A. Lupoli,

Milano, Baldini & Castoldi, 2000, p. 110.35 Ibid.36 Ivi, p. 246.

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senza abbandonare la gnoseologia empiristica né tornare a una fondazione metafi sica a priori.37 Per questo motivo il senso morale è costantemente defi nito un istinto, un’inclinazione naturale profonda, al pari del meccanico senso di conservazione che spinge il corpo a cercare il piacere e fuggire il dolore. Sulla scorta di Hume, e inaugurando una tradizione che giungerà fi no a Pietro Verri e a Beccaria, i quali attraverso Rousseau fonderanno proprio sul paradigma fi siologico dell’empatia e sulla naturale avversione dell’uomo per le sofferenze altrui la battaglia contro la pena di morte e la tortura, Hutcheson sostiene che «la costituzione della natura umana» è di per sé «mirabilmente idonea a suscita-re compassione», e che tale sentimento, immediato e incoercibile, rappresenta «la voce stessa della NATURA».38

Ma il suo pensiero risulta ancora più esplicito nell’Essay on the Nature and Conduct of the Passions and Affections, dove vengono defi niti naturali «quello sta-to, quelle inclinazioni e quelle azioni verso cui siamo disposti da qualche parte della nostra costituzione, prima di qualsiasi nostra volizione», o che «derivano da qualche principio nella nostra natura che non è stato prodotto in noi dalla nostra arte».39 Infatti «uno stato di buona volontà, di generosità, di compassione, di aiuto reciproco» è il nostro «stato naturale, a cui siamo naturalmente inclini, e a cui effettivamente perveniamo tanto universalmente e con tanta uniformità, quando raggiungiamo una determinata statura e complessione».40 In altre parole, l’«idea amabile» che guida gli uomini nell’azione, in aggiunta e a volte in palese alternativa al concetto di utile e di «vantaggioso», prova a che la «percezione del bene morale non deriva dall’abitudine, dall’educazione, dall’esempio o dallo studio»,41 anche se Hutcheson ammette che «educazione e abitudine possono infl uenzare i nostri sensi interni ove questi già esistano antecedentemente, estendendo la capacità delle nostre menti di ritenere e confrontare le parti di composizioni complesse».42

Come si è già accennato, è questo il punto in cui il neoplatonismo di Shaftesbury e di Hutcheson si discosta maggiormente dalla rifl essione avviata dall’Accademia di Medinacoeli, che riprende l’analisi delle passioni in un’ottica fi losofi ca e politica secondo la quale, viceversa, l’educazione al buon uso della ragione e il dressage degli affetti in vista di una costruzione etica degli individui

37 Cfr. in particolare E. Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1991; L. Turco, Sympathy and Moral Sense: 1725-1740, «British Journal for the History of Philosophy», VII, 1999, pp. 79-101; A. Lupoli, Introduzione a F. Hutcheson, Ricerca, cit., pp. 5-70.

38 F. Hutcheson, Ricerca, cit., p. 367.39 F. Hutcheson, Saggio sulla natura e condotta delle passioni, cit., p. 116.40 Ibid.41 Ivi, p. 245.42 Ivi, p. 207.

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e degli Stati costituisce un momento imprescindibile nel percorso della civiltà e in quello preliminare della conoscenza di sé. A separare Hutcheson dal maestro di Gravina e di Metastasio contribuisce del resto anche la visione della natura umana, che nelle lezioni sopra l’Origine degl’Imperj appare segnata da un ago-stinismo di fondo, se pure fi ltrato attraverso Malebranche, secondo il quale le passioni «éblouissent notre esprit par de fausses lueurs, et elles le couvrent, et le remplissent de ténèbres».43 Prima di concludere che la «disposizione al male» può essere «vinta e superata da una vigorosa e potente ragione», poiché nell’uomo «albergano semi di virtù, i quali inaffi ati con la disciplina, coi buoni ricordi e co’ la ragione possono da cattivi farci diventar buoni», la rifl essione di Caloprese sulla metafora biblica della «pianta infelice» si fonda infatti sul riconoscimento esplicito di una natura corrotta, cui fa seguito la convinzione che la «virtù non si conseguisce senza una lunga disciplina e senza una gran fortezza d’animo».44

Al pari di Hutcheson, l’indagine di Caloprese muoveva all’origine da Hobbes. Con toni anche più accesi, la prima delle lezioni sull’Origine dell’Imperij si era impegnata a confutare le tesi di quei «corruttori della civil prudenza» che «si sono imaginati l’idea dell’uomo a guisa d’un mostro spaventoso formato dalla natura non ad altro fi ne, che a nuocere altrui; cioè senza amore, senza fede, senza giustizia, senza onestà, che non sa amare altro che se stesso ed il proprio interesse».45 Ma a differenza di Hutcheson, secondo cui «gli uomini hanno per NATURA un senso morale della bontà delle azioni»,46 tanto che «il nostro Senso mo-rale rappresenta la virtù come la più grande felicità per chi ne è in possesso»,47 Caloprese ammette con San Paolo che «gli uomini sono formati dalla natura con inclinazione ad amarsi l’un l’altro»48 e che «questo amore li rende vaghi di vivere in cittadinanza più tosto che in solitudine»,49 ma precisa al contempo che «tra’ beni che possiamo possedere in questa vita non ci ha cosa che s’uguagli in perfezione ed in bontà al buon uso del libero arbitrio, il quale consiste in una ferma e costante volontà di vivere e di operare secondo il dettame della ragio-ne».50 Ancora più deciso nel rilevare l’ambiguità costitutiva della natura umana,

43 N. Malebranche, De la recherche de la vérité, cit., p. 45.44 G. Caloprese, Dell’origine dell’Imperij. Lezione terza, pubblicata in appendice a S. Suppa, L’Acca-

demia di Medinacoeli fra tradizione investigante e nuova scienza civile, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1971, p. 192.

45 G. Caloprese, Dell’origine dell’Imperij del sig.r Gregorio Caloprese. Lezione prima, in S. Suppa, L’Accademia di Medinacoeli, cit., p. 178.

46 F. Hutcheson, Ricerca, cit., p. 356. 47 Ivi, p. 52.48 G. Caloprese, Dell’origine dell’Imperij del sig.r Gregorio Caloprese. Lezione seconda, in S. Suppa,

L’Accademia di Medinacoeli, cit., p. 185. 49 Ivi, p. 186.50 G. Caloprese, Dell’origine dell’Imperij del sig.r Gregorio Caloprese. Lezione quarta, in S. Suppa,

L’Accademia di Medinacoeli, cit., p. 206.

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divisa tra la percezione fallace dei sensi e la guida sicura della ragione, è il Doria, quando discutendo nelle pagine introduttive alla Vita civile le conseguenze della scienza politica del Machiavelli, ribadisce che «la malizia, come via più brieve e dalla passione dettata, la stessa natura la insegna», laddove «la vera virtù solo con diffi cile studio e con reiterati abiti si acquista, e con continue riminiscenze si mantiene».51 E riguardo al potere illusorio dei sensi e alla «naturale ripugnanza che sente l’anima nello astrarsi dalle immagini delle cose sensibili»,52 che costi-tuisce anche l’argomento della più nota dissertazione vichiana, precisa, con un lessico neoplatonico che anticipa la Scienza nuova:

Certa cosa è che l’anima nel nostro nascere viene interamente nella materia sepolta, permodoché le prime sensazioni ch’ella sente nel comparire in questo immenso teatro del mondo sensibile sono le immagini delle cose esteriori, alle quali tutta ella si volge con la volontà non dal raziocinio guidata, non essendone ancor capace; ond’è che le prime potenze, che l’anima esercita, sono la immaginazione e la volontà; potenze certamente dell’anima, ma potenze che solamente esercitano la loro facoltà nelle immagini che da’ corpi esteriori all’anima si suggeriscono. Egli è ben vero però che, se ella a noi un sì grande disavvantaggio cagiona quanto è quello d’immergere la nostra anima prima ne’ sensi e nelle immagini che nelle conoscenze, pure in ricompensa ella ci somministra il modo di sprigionarci da quelle e di squarciare con la rifl essione quel velo che nell’ignoranza ci tiene miseramente inviluppati. Per pruova di ciò veggiamo ch’ella pone in tutte le umane menti quasi un ordinato progresso di geometria in quei raziocinj medesimi che gli uomini ne’ loro consueti discorsi tentan di fare, e ne’ quali, se l’ordine dalla natura prescritto ben seguir sapessero, potrebbero la conoscenza di quel vero che hanno in loro stessi perfettamente ischiarire.53

Ciò che traspare da tutto il passo, e che doveva senza dubbio colpire un lettore della qualità di Conti, è soprattutto un’etica intesa non come senso morale interno, ma piuttosto come analisi meditata delle passioni, costruita, al pari di ogni altra forma di conoscenza, sulla progressione razionale delle idee, perché, come afferma il trattato Dell’anima umana, «il pensiero è analogico all’azion del lume e può trattarsi cogli stessi principi di geometria».54 E infatti le pagine delle Vita civile erano lì a testimoniare che solo dai «piccioli sillogismi» con cui l’anima esprime la facoltà di combinare le «infi nite percezioni che delle cose esteriori ha formate» può nascere e svilupparsi «quel giudicio alla nostra conservazione necessario», perché «all’idee e al giudizio che la mente forma delle cose si unisce il giudicio che fa delle loro proprietà, e dell’utile e del danno che a lei cagionano».55

51 P.M. Doria, La vita civile, cit., p. 29. 52 Ivi, p. 46.53 Ibid.54 A. Conti, Dell’anima umana, cit., p. 197.55 P.M. Doria, La vita civile, cit., p. 48.

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Ma qui la conclusione del Doria andrà riportata per intero, perché illumina di una luce nuova il nesso tra scienza e morale che in Hutcheson appariva decli-nato in maniera difettosa, e, tolti gli accenti neoplatonici più evidenti, prepara in qualche modo la via al riconoscimento di quei «sillogismi taciti» che più tardi, grazie a Wolff, consentiranno a Conti di disegnare per intero il diagramma della conoscenza, includendovi le prime percezioni indifferenziate e quei sentimenti oscuri, non ancora sottoposti al vaglio della ragione, che hanno tanta parte nelle dinamiche dell’arte. «Continuando il suo ammirabile progresso», scrive Doria,

la natura ci somministra la facultà di combinare e di dividere sino allo ’nfi nito le idee composte e questi sillogismi primi di già formati; in quella guisa appunto che in geometria veggiamo avvenire di tanti ammirabili problemi e teoremi, li quali d’altro non sono composti che di verità tutte chiare a parte a parte; ond’è che divengono diffi cili solamente perché, essendo formati di grande numero d’illazioni, obbligano la nostra mente ad una lunga attenzione per isceglierne una verità al senso ignota ed anche alle volte ripugnante. La quale è al senso ripugnante a cagion ch’è involta in molte verità separatamente tutte chiare, ma oscure nel suo composto: ond’è che le cose astratte altro non sono che verità composte ed involte in molte verità a parte a parte chiare, ma che nostra mente per bene intenderle ha bisogno di bene ed ordina-tamente dividere, ch’è ciò che la geometria insegna.56

Nel mosaico composito che si è venuto fi n qui delineando, si può includere a questo punto un passo della lettera inviata da Leibniz a Conti il 6 dicembre 1715, dove il fi losofo tedesco riformula la questione delicata del rapporto tra senso e ragione con parole destinate a schiudere un nuovo campo di indagini, come conferma ancora una volta la terza parte del Dell’anima umana. Osserva Leibniz in riferimento alla defi nizione del bello proposta dal suo interlocutore:

Vous avez raison, Monsieur, pour expliquer la nature du Beau, de joindre aux pro-portions la douceur ou la suavité, c’est à dire des raisons physiques ou sensibles aux raisons mechaniques ou intelligibles. Cependant il est vray que les raisons physiques sont toujours occultement Mechaniques, comme la Musique fait connoistre, dans laquelle la suavité depend des proportions cachées aux sens, et découvertes par la raison. La nature en cachant aux ames les dernieres raisons, et en leur presentant des perceptions confuses, crée autant de nouveaux etres en apparence ou de nouvelles qualités, lesquelles comme disoit Democrite, subsistent nÒm≈ animi, non re, mais qui sont un merveilleux ornement du monde.57

Anche da un frammento epistolare come questo si capisce che la polemica nei confronti di Hutcheson non poteva dirsi conclusa, ma doveva proseguire sul

56 Ivi, p. 48.57 Cfr. Der Briefwechsel von Gottfried Wilhelm Leibniz mit Mathematikern, Herausgegeben von

C.L. Gerhardt, Hildesheim, Georg Olms Verlagsbuchhandlung, 1962, p. 267.

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terreno complementare dell’estetica, che costituisce anche l’argomento della seconda lettera al Cerati. Fin dal primo soggiorno francese, del resto, Conti si era posto a rifl ettere sulla «natura, le proprietà e gli effetti della bellezza» racco-gliendo «tutto ciò che dopo Platone dissero sul Bello Aristotele, Boezio, S. Cle-mente Alessandrino, S. Giustino, S. Basilio, indi Sant’Agostino, S. Tomaso, e gli Scolastici» per compararlo «con quanto poi ne dissero Torquato Tasso, Agostino Niffo, Mylord Sasfburis, il Crousazio, l’Uctsonio, e quanti altri o ne’ Giornali, o con Trattati a parte in prosa od in verso scrissero su lo stesso soggetto».58

Il primo testo nel quale compare un abbozzo di teorie estetiche è di fatto la Lettre à Madame la Présidente Ferrant del 1719, in cui l’autore sostiene, in maniera piuttosto convenzionale, che «dans les Tableaux poëtiques on ne cherche que l’imitation de la belle Nature».59 Ma subito dopo questa affermazione generica, il testo si libera delle formule canoniche per riportare il discorso all’ambito delle passioni, e affrontare lo statuto di quelli che nel Dell’anima umana defi nirà, in accordo con Leibniz, i «fantasmi poetici».60 Per «natura» Conti intende, infatti, «non seulement ce qui existe réellement hors de nous», ma soprattutto «tout ce à quoi les hommes d’un certain Siècle, et d’un certain pays ont donné l’existen-ce», sia «par la force de leurs prejugés», che «par la certitude de leur croiance».61 E applicando immediatamente la teoria al genere tragico, che in quegli anni veniva esplorando sia con la scrittura del Cesare che con l’esercizio critico sui testi del teatro classico e dell’ammiratissimo Racine, aggiunge ancora:

Par le mot de belle nature je designe ce qui nous charme dans le choix, et l’arran-gement des objets. Le grand art du choix consiste à présenter l’objet par la face, et dans la situation qui plait, qui touche, et qui surprend d’avantage [...]. Le grand art des arrangements consiste à préposer l’intrigue sans faire trop d’hypothèse, à les resoudre par des combinaisons les moins forcées, et à passer d’une avanture à l’autre, par des degrez et des nuances imperceptibles, augmentant toujours la passion et la tenant toujours en suspens; c’est ainsi que Sophocle a conduit son Œdipe, le Tasse sa Jerusalem, et Racine sa Phedre, et son Athalie: il y a des choix, et des arrangements réels absolument, et par hypothèse.62

Rispetto alle qualità esterne, visibili e misurabili, dell’estetica classicistica e cartesiana di Crousaz, che con Hutcheson rappresenta l’interlocutore privilegia-to dell’autore, il ragionamento si concentra insomma su quello che è a tutti gli effetti il «portrait très naturel des passions humaines».63 Non per nulla, l’esempio

58 A. Conti, Prefazione, cit., p. 2.59 A. Conti, Lettre à Madame Ferrant, in Id., Prose e poesie, II, cit., p. LXXXIX.60 Cfr. A. Conti, Dell’anima umana, cit., p. 97.61 Ivi, p. LXXXIX.62 Ivi, pp. LXXXIX-XC.63 Ivi, p. XCI.

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è costituito dal microcosmo patetico della Liberata (su cui si era soffermato an-che Caloprese nel suo celebre raffronto tra Ariosto e Tasso),64 dove ciascuno dei personaggi possiede «un degré different» di «ferocité» e di «valeur» che produce alla fi ne un «accord admirable dans le tout ensemble».65 Da questo momento anzi l’architettura perfetta del testo tassiano diviene, insieme alle tragedie di Racine, il punto di partenza di una ricerca che si concentra sulle regole sconosciute della gradazione, «neppur nominate dagl’interpreti d’Aristotele», ma di fatto «necessa-rie alla perfetta tragedia come quella della prospettiva ad una perfetta pittura»,66 perché con esse viene in primo piano «l’arte» del drammaturgo e la sua capacità di «destare successivamente nell’anima l’idee e i sentimenti che la dilettano».67

Ma vediamo meglio in che modo tutto questo ha a che fare con la rifl essione su Hutcheson della seconda lettera al Cerati, dove Conti riprende il discorso allegorico sul Globo di Venere e sul rapporto tra bellezza e virtù con lo sguardo ancora rivolto all’Inquiry into the Original of our Ideas of Beauty and Virtue, come mostrano numerose tessere intertestuali tra cui non mancano le riprese parodi-che. Fin dall’inizio sembra evidente che il ragionamento dell’autore muove da una rilettura ironica del libro in vista della confutazione defi nitiva. Ricorrendo a un topos diffuso all’interno della cultura dell’empirismo, che oppone alla «spiegazione» dei fenomeni un’«osservazione» mobile e aperta nel rifi uto del sistema, Hutcheson aveva decretato per esempio alla fi ne della seconda sezione del trattato, dedicata alle «affezioni e passioni»:

Lasciamo spiegare ai medici o agli anatomisti i diversi moti nei fl uidi o nei solidi corporei che accompagnano ogni passione; cioè quelle disposizioni del corpo che rendono gli uomini inclini alle passioni, o che si formano in noi a causa del perdu-rare o del frequente ritorno della passione. Il nostro scopo è soltanto di osservare, in generale, che probabilmente determinati moti nel corpo accompagnano ogni passione per una legge prestabilita della natura e, viceversa, che l’indole che è adatta a ricevere e a prolungare quei moti nel corpo infl uenza le nostre passioni in modo da intensifi carle e prolungarle.68

A questa immagine, destinata a rimanere nella mente del lettore proprio per le implicazioni metodologiche che suggerisce, e che certo non poteva non

64 Cfr. G. Caloprese, Lettura sopra la Concione di Marfi sa a Carlo Magno contenuta nel Furioso al canto trentesim’ottavo, Napoli, Bulifon, 1691.

65 Ibid.66 A. Conti, Dissertazione sull’Atalia del Racine tradotta in lingua italiana, in Id., Versioni poetiche,

a cura di G. Gronda, Bari, Laterza, 1966, p. 110. Su questo punto rinvio per completezza al mio inter-vento Conti e Racine: la traduzione dell’Athalie, in Teoria e prassi della traduzione, a cura di A. Daniele, Padova, Esedra, 2009, pp. 11-32.

67 A. Conti, Dissertazione sull’Atalia, cit., p. 110.68 F. Hutcheson, Ricerca, cit., p. 44.

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condividere, allude probabilmente il passo iniziale della lettera al Cerati, in cui Conti, dopo aver dichiarato che l’intento che guida tutta la rifl essione è quello «di provare l’inutilità del nuovo senso inventato per la bellezza da un Matematico Scozzese», chiosa quasi ammiccando al testo di Hutcheson:

Se un Anatomico esperto aprendoci il cadavere di un Uomo o di una Donna ci mo-strasse la struttura, l’ordine, l’uso delle viscere, di tutte le parti loro, la cognizione che ne ricaveremmo, Mons. ci recherebbe meraviglia e diletto; ma nulla ci gioverebbe alla presente quistione, in cui non cerchiamo che la bellezza esterna del corpo umano. Non v’è bisogno né di ferri, né d’infusioni, né di lenti o di microscopj per iscoprire, che quanto v’è nel corpo umano d’ossa, di viscere, di membrane, di muscoli, d’arterie, di vene, di nervi, è involto in una superfi zie tenue, liscia, e colorita, la quale con le sue parti è l’oggetto materiale e corporeo della bellezza.69

L’intento parodico appare anche più evidente se si considera che tale dichiarazione preliminare non rende affatto giustizia alla sostanza del testo. Dopo un’approfondita disamina critica delle «spezie e forme»70 della bellezza e delle diverse teorie estetiche dall’antichità al Rinascimento, che ragionano in termini di armonia delle parti, regolarità e proporzione, Conti conclude infatti quasi inaspettatamente:

I sensi, Mons. sono come quelli che parlano una lingua che non intendono; io voglio dire, che per via del senso della vista si scorgono tutte le proporzioni, che hanno le parti tra loro, ed al tutto; ma non è la vista che discerna i termini delle proporzioni, che gli compari, che gli astragga, che gli combini, in somma che sopra vi rifl etta. Il rifl esso e la sua direzione, o sia l’attenzione necessaria per discernere, comparare, astrarre, comporre, sono tutte opera della mente; ond’è che l’idea della bellezza è una cosa affatto incorporea, perché senza questi rifl essi non si può concepire né l’ordine, né il moto, né le spezie delle parti e dei colori, da cui la bellezza dipende.71

Se si considerano le obiezioni rivolte a Hutcheson sul rapporto tra intelletto e morale, passioni e volontà, l’intenzione del testo traspare ancora una volta con chiarezza. Richiamandosi al ruolo dominante dell’intelletto nell’esperienza esteti-ca, sia nel caso dei piaceri «diretti» che di quelli defi niti con Castelvetro «obliqui», vale a dire generati indirettamente dalla rifl essione sulla «perfezione» della natura, Conti ribadisce che «il piacere della bellezza» è sempre «piacer tutto intellettuale», sia «perché il vero oggetto della bellezza è incorporeo», sia «perché indipendente-mente ancora dalla fantasia, e dal senso, la mente non lo gode che ragionando».72 Del resto, precisa ancora la lettera, il «piacere intellettuale» dell’esperienza estetica

69 A. Conti, A Monsignor Cerati, cit., p. CXLII.70 Ivi, p. CXLV.71 Ivi, p. CLI.72 Ivi, p. CLXXI.

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viene riconosciuto anche dall’autore dell’Inquiry, allorché ammette «un senso interno, il quale certamente ha per oggetto cose incorporee».73 Quello che forse ha ingannato l’Utchtson», «è stata la diffi coltà di separar dall’idea della bellezza le passioni che l’accompagnano»: considerando che la dolcezza «che si sente ed anzi si cerca di sentire» riguardo a un oggetto che colpisce gradevolmente l’immagina-zione «per lo più segue l’idea della bellezza», egli «ne fece un senso a parte».74

Dinanzi a una confutazione tanto diretta, che quasi subito assegna al suo interlocutore un ruolo di secondo piano, è evidente che la strada battuta nel secondo testo indirizzato al Cerati non può che essere un’altra. Anche sul piano dell’estetica l’autore traccia una linea continua fra la tradizione razionalistica di Cartesio e di Malebranche e la fi losofi a di Leibniz e di Wolff, alla luce della quale riesamina i topoi usurati dell’estetica classicistica. Attraverso il recupero dell’immagine cartesiana dell’orologio, più volte impiegata dai «moralisti» na-poletani per sondare l’equivalenza imperfetta tra la meccanica e le scienze della vita, e comunque fertilissima all’interno della cultura di Medinacoeli, Conti si concentra sul rapporto tra l’«artefi ce» e «i fi ni» dell’opera, osservando:

In un Orologio le ruote, il timpano, l’elastro, e le altre parti, sono e simetrizzate, e congegnate in maniera, che tutte insieme cospirano coi moti loro a battere, o ad indicare l’ore, e i minuti, corrispondentemente al corso del Sole per cui l’orologio fu fatto. Suppongasi che due, tre, ed anche tutte le parti sieno mirabilmente propor-zionate nelle loro strutture, ma che dal consenso delle lor proporzioni, o dalla loro varietà ridotta all’uniformità, non ne risulti l’uso per il quale l’orologio fu fatto; l’idea di questo difetto lasciandoci a desiderare il principale della macchina, c’impedirebbe il piacere, che nasce in noi dalla meraviglia dell’ingegnoso meccanismo. Or non v’è alcuno, che per la propria esperienza, e per l’osservazione quotidiana non sappia, che il corpo umano è fatto per durar qualche tempo sulla terra, per operare secondo le disposizioni degli organi, di cui Dio l’ha provveduto, e per eseguir operando i comandi dell’anima, per la quale Dio l’ha creato. Nel corpo bellissimo dunque si debbono a prima vista scoprire nelle parti, e nel tutto, e nelle azioni loro, i fi ni proposti.75

Complice il recupero accorto di Félibien, secondo cui la bellezza «nasce dalla proporzione e dalla simmetria che s’incontra tra le parti materiali e corporee» mentre «la grazia si genera dall’uniformità de’ moti interiori cagionati dagli affetti»,76 l’attenzione si rivolge quindi all’universo interiore delle espressioni patetiche, che esprimono «i consigli, i dubbj, l’elezioni, le inclinazioni, le passioni dell’anima».77 Quasi naturalmente, l’ottica del fi losofo si sovrappone a quella del

73 A. Conti, A Monsignor Cerati, cit., p. CLXXV.74 Ivi, p. CLXXVI.75 Ivi, p. CLII.76 Ivi, p. CLIII.77 Ivi, p. CLIV.

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drammaturgo, che negli stessi anni era occupato a sperimentare fi no in fondo sulla scena «a qual punto le passioni s’esprimono per via del gesto, e quanto quest’espressione piace alla fantasia per le innumerabili idee che risveglia, e senza la quale la bellezza più perfetta resta languida, o morta».78

È all’interno di questa sintesi originale, fatta di tessere diverse e comple-mentari, che affi ora per la prima volta l’idea in seguito dominante dei «sillo-gismi taciti», desunta dalla Psychologia empirica, e destinata a divenire una sor-ta di cifra interna riconoscibile negli scritti dell’abate padovano. Come scrive Conti, riassumendo con un’espressione felice il pensiero dell’allievo di Leibniz, «il Wolfi o spiega i diversi stati dell’anima per la serie de’ sillogismi taciti, ch’ella continuamente va tessendo»:

taciti, non perché sieno simili a quelli di un uomo che seco parla, o di un fi losofo, che seco sillogizza, ma perché dall’idee confuse ed oscure, delle quali appena l’anima è conscia, ella è costretta a operare, ed i diversi stati della sua mente corrispondono alle premesse diverse, a cui poi consegue lo stato espresso dalla conclusione.79

Quello con Wolff è certamente un incontro decisivo, se è vero che nella stratigrafi a complessa del Dell’anima umana i «sillogismi taciti» ricorrono di frequente per illustrare la natura di un percorso estetico nel quale la catena interiore dei sentimenti e delle idee risvegliate dalla prima, immediata perce-zione fi sica dell’arte, dà poi vita a creazioni di senso sempre nuove e diverse, a seconda del protagonista dell’esperienza. Il passo più noto merita di essere trascritto per intero:

Leggendo un libro, per esempio l’Ariosto, non si fanno nell’occhio che le proiezioni de’ caratteri o di certe linee nere dipinte sul bianco, le quali non hanno alcun rapporto alle battaglie, a’ paladini, a’ castelli incantati, agl’ipogrifi , ed all’altre cose, delle quali abbiamo, leggendo, l’idee, idee composte, e che, tra loro unite, fanno una serie di taciti sillogismi, se ben non vi si rifl etta, perché, senza accorgersi, leghiamo le fi gure de’ caratteri a’ suoni imparati ai sensi, coi fantasmi che si destano in noi per via di proporzioni e d’analogie sovente lontanissime, le quali ci fanno intender cose che non mai abbiamo vedute. Lo stesso è di chi ascolta a leggere, il quale prontamente sostituisce alle vibrazioni de’ suoni che si fanno nel suo timpano l’idee, che portano seco l’analogie. Si moltiplicano i giudizi ed i sillogismi secondo la dottrina di chi leg-ge ed ascolta, e secondo che il lettore o l’uditore ha più vivacità d’immaginazione, più acume d’ingegno ed è meglio disposto per la profondità e sodezza dello spirito a risolvere in un istante l’idee ne’ loro primi principi e ad incatenarle tra loro.80

78 Ivi, p. CLV.79 Ivi, p. CLXVI.80 A. Conti, Dell’anima umana, cit., p. 83.

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Per illustrare visivamente al lettore la realtà percettiva delle «idee composte che tra loro unite fanno una serie di taciti sillogismi»,81 Conti sceglie Les bergers d’Arcadie di Poussin (meglio conosciuto come Et in Arcadia ego), sul quale si era già soffermato Dubos nelle Réfl exions critiques sur la poésie et sur la peinture.82 Ma rispetto alla descrizione minuziosa dell’archetipo francese, che non distoglie mai l’attenzione dai personaggi del dipinto, il passo parallelo del Dell’anima umana, quasi anticipando l’estetica psicologica di Diderot, si interroga sulla «interminabile progressione dell’idee e de’ sillogismi taciti» suscitati da un’im-magine che «ha in sé del misterioso e dell’allegorico», sui «mille rifl essi e discorsi sulla caducità della vita e su la fragilità della bellezza»83 che accompagnano lo spettatore alla vista del quadro.

Si tratta ancora una volta di un mutamento di prospettiva che conduce a rivedere la teoria di Hutcheson riguardo all’«universale accordo degli uomini sulle loro sensazioni della bellezza derivanti dall’uniformità e della varietà»,84 accolta almeno in parte nella lettera al Cerati, dove Conti si era limitato ad attirare l’at-tenzione sulla «cagione» interiore di questo piacere, «la quale ormai passa dalla fi sica alla metafi sica, anzi alla parte più dilicata di questa, che è la Psicologia».85 Viceversa, come ribadirà più tardi Diderot, dinanzi alle dinamiche mutevoli della ricezione, dove il «giudizio» estetico appare condizionato dalla qualità del sentimento e dalle sue variabili interne, quello dell’universalità del bello diviene un principio teorico di poco conto, che nulla dice intorno alla sostanza della percezione. Infatti

nel mirar il quadro del Pucino, un fi losofo vi discorre sopra più profondamente d’un altro, che non abbia mai meditato sulla morte. Un uomo avvezzo ad abitar tra rupi e caverne vedrebbe meno, nelle campagne inondate dal Nilo, che un altro avvezzo a vivere tra campagne fi orite e tra giardini; perché al primo riuscendo nuovo lo spettacolo, egli è così occupato nel farne le prime comparazioni che tutto in esse si perde, là dove il secondo che ha mille termini nella mente per comparare gli oggetti presenti passa celermente dall’uno all’altro e compone i rapporti de’ rapporti all’in-fi nito. Il primo quasi a null’altro attende che a’ colori o agli sbattimenti del lume e de’ colori sugli oggetti che vede, perché il colore, come si disse, è il vero oggetto della vista e l’esperienza dimostra che più si distingue una sfera rossa da una sfera bianca ed eguale, che una sfera ed un cubo dipinti dello stesso colore; ma chi ha l’abito di comparar molte cose diverse non è meno attento ai colori che alle distanze ed ai

81 Ibid.82 Cfr. J.B. Dubos, Réfl exions critiques sur la poésie et sur la peinture, I, Genève-Paris, Slatkine, 1967

(réempression ed. Paris 1770), pp. 56-57.83 Ivi, p. 84.84 F. Hutcheson, Ricerca, cit., p. 193.85 A. Conti, A Monsignor Cerati, cit., p. CLXIII.

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moti delle fi gure che vede, e compara l’altre che ha già vedute; in questi giudizi si determina l’anima a que’ confronti che gli sono più familiari e che gli han fatto più impressione nell’animo.86

Che le Réfl exions critiques sur la poésie et sur la peinture possano costituire, ben più di quanto si è creduto,87 un testo di riferimento sicuro per Conti, lo prova l’attenzione rivolta a quei «fantasmi artifi ciali» che altro non sono se non le passions artifi cielles di Dubos: veri e propri simulacri degli affetti nei quali, a differenza dei «fantasmi naturali che riceviamo dalle sensazioni», l’«artifi cio consiste ne’ giudizi e ne’ sillogismi che accompagnarono l’invenzione». Ma se a Dubos, come del resto a Gravina, interessa soprattutto elaborare una teoria della fi nzione che trasforma in arte il contenuto dell’esperienza, depurandolo dei suoi elementi più oscuri, Conti si sofferma da innovatore sulle cause e gli effetti della percezione estetica, sul ruolo dell’intelletto che stabilisce le comparazioni e sull’immaginazione, nutrita dalle passioni, che «ingrandisce le immagini», poiché non vi sono «giudizi più frequenti di quelli in cui all’immaginazione la passion si frammischia». Il «nostro amore è il nostro peso»: «egli ci dirige e ci trae verso quella parte a cui pende, come appunto la gravità dirige e spinge tutti i corpi al centro della terra».88

Da questo punto di vista le considerazioni espresse nel fi losofi co Dell’anima umana suggellano un percorso già iniziato in parte nella lettera al Cerati, dove Conti aveva osservato per la prima volta che «ne’ più ingegnosi, cioè in coloro che hanno più facilità e prontezza a discernere, e a combinare in uno le proporzioni e le somiglianze, cresce quasi all’infi nito il numero de’ taciti sillogismi sul corpo bello», aggiungendo che «più che questo numero cresce, più l’anima ragiona», e «più ch’ella ragiona più gode, perché sente la propria forza, ed esercita la propria natura».89 Per illustrare meglio la premessa, il testo rimandava il lettore all’epi-stola al Bentivoglio che apre il Cesare, dove compare una defi nizione che vale la pena di ripetere anche qui, perché al senso interno di Hutcheson sostituisce l’idea cartesiana, confermata da Wolff,90 di una bellezza come riconoscimento «di qualche nostra perfezione, sia questa vera od apparente»: un «diletto» che «na-sce da quell’azione, che fa l’anima nel rapportare l’imitazione alla cosa imitata, o sia nel comparare l’originale alla copia», perché «l’anima comparando ragiona,

86 A. Conti, Dell’anima umana, cit., p. 84.87 Cfr. G. Gronda, Conti e l’Inghilterra, cit., p. 148.88 A. Conti, Dell’anima umana, cit., pp. 84-85.89 A. Conti, A Monsignor Cerati, cit., p. CLXVI. 90 Cfr. C.W. Wolff, Psychologia empirica methodo scientifi ca petractata qua ea, quae de anima humana

indubia experientiae ae fi de constant, continentur et ad solidam universae philosophiae practicae ac theologiae naturalis tractationem via sternitur, Veronae, Typis Dionysii Ramanzini, 1736, p. 528.

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e ragionando sente la propria forza e la propria bellezza, e ne gode».91 Dinanzi alla «serie innumerabile di sillogismi taciti» suscitata dalla esperienza estetica, così concludeva la lettera al Cerati, «l’anima non potrà che molto ragionare, e ragionando compiacersi di se stessa, e compiacersi di quella cosa che gli dà occasione di sentire la propria perfezione». Dunque «il vero oggetto della bellezza è incorporeo» e, nonostante la manifesta dipendenza «dalla fantasia e dal senso», la mente «non lo gode che ragionando»,92 dal momento che «la comparazione è tutta opera della mente» e «il piacere n’è tutto intellettuale», derivando princi-palmente «da que’ sillogismi taciti, che favellando delle somiglianze, dell’ordine, dell’armonia, abbiamo rammemorato».93

A guardare meglio, il cammino fi n qui delineato non serve solo a compren-dere la natura del processo estetico nella sua ampiezza e profondità, tenendo conto delle variabili del pathos e dei loro effetti. All’interno del paradigma tra-gico che Conti va delineando in questi anni, l’interesse per i «sillogismi taciti» si accompagna alla defi nizione della meraviglia come affetto «intellettuale», distante dalle dinamiche oscure delle passioni, sulla quale si erano soffermati già sia Caloprese che Gravina, in attesa che Metastasio fondi su di essa la sua rilettura di Aristotele e il genere stesso del melodramma. Ricorrendo ancora una volta alla similitudine con il mondo della natura e le leggi certe della scienza, l’abate padovano annota infatti nella lettera al Cerati:

Dato l’impulso a’ corpi, essi cominciano il loro moto, e tendono alla lor meta; e dato con l’ammirazione l’impulso all’anima, i suoi moti, cioè le passioni, cominciano, e non si può forse, che per le precisioni della mente, distinguere l’ammirazione stessa dalle passioni, tanto tra loro si conseguono e s’inviluppano. Consideriamo tuttavia per un istante l’ammirazione in se stessa; ella tanto ci piace che paghiamo, dicea il Malebranchio, i giocolari perché con i lor prestigi sveglino in noi l’ammirazione; ma questo piacere è certamente tutto nella mente, che nel conoscere la varietà e la novità degli oggetti ci fa sentire la nostra perfezione, poiché ci fa conoscere ciò che prima era ignoto.94

L’exemplum dei «giocolari» derivato ancora una volta dalla cultura razio-nalistica di Medinacoeli, doveva sembrare particolarmente effi cace a Conti, se è vero che l’immagine si riverbera più volte nei suoi testi. Nelle pagine fi lo-sofi che del Dell’anima umana, a proposito del fatto che Cartesio aveva separato l’ammirazione dalle passioni, Conti per esempio osserva: «ma include anche

91 A. Conti, A sua eminenza il signor cardinale Bentivoglio d’Aragona, in Id., Il Cesare, Faenza, Gio-seffantonio Archi, 1726, p. 8.

92 A. Conti, A Monsignor Cerati, cit., p. CLXVII.93 Ivi, p. CLXXII.94 Ivi, p. CLXXV.

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questa il piacere, perché tanto ammiriamo gli spettacoli nuovi che paghiamo sino i giocolari che d’ammirazione ci tocchino, come paghiamo i commedianti che ci facciano piangere».95 E nella prefazione al Druso, riferendosi al «diletto obliquo» della tragedia, aggiunge: «per maggiormente aguzzare la compassio-ne e il terrore, i Tragici accompagnarono queste passioni con la maraviglia, proponendo oggetti nuovi, e rari, e che sorprendono inaspettatamente con la grandezza ed importanza della cosa. Tanto amiamo il mirabile, che paghiamo, dicea il Malebranchio, i Giocolari perché ci meraviglino, in quella guisa che paghiamo i Comici perché ci attristino».96

Accomunati dalla medesima citazione di Malebranche, i due ragionamenti risultano del resto perfettamente complementari. Se la passione intellettuale della meraviglia illumina l’origine del sentimento estetico, riconducendolo saldamente alla sua componente razionale, i «sillogismi taciti» ne chiariscono la dinamica interna, la sottile complessità interiore che non esclude, come si è visto, la dimensione del «misterioso» e dell’«allegorico» sede delle passioni. La sintesi si ritrova ancora una volta, mirabilmente composta, nella Dissertazione sull’Atalia di Racine, dove Conti riprende l’assunto graviniano affermando con un lessico fi losofi camente più denso che «la nostra anima non cerca che di ragionare e di passionarsi», ma ella non ragiona con piacere che quando le si «somministra l’antecedente onde ella senza fatica ricavar ne possa la conseguenza».97 Nella tragedia dunque «bisogna preparare all’anima i ragionamenti e le passioni, perché ella da se stessa incammini, sviluppi e sciolga l’azione rappresentata» e «sopra vi distribuisca i gradi della passione corrispondente a’ moti impressi»98. Solo dal contrasto produttivo degli affetti nascono e si sviluppano naturalmente le partizioni dei cinque atti della tragedia, disposte «per fi ssare come in cinque punti le menti e il core dello spettatore affi nché abbia tempo e forza di ben ordinare in se stesso i sentimenti e l’idee».99 All’interno di un microcosmo tra-gico concepito, in analogia con il mondo naturale, come insieme di contrasti, di azioni e reazioni che dipendono dai diversi impulsi degli affetti (il sistema del cuore, dirà altrove Conti, «si riduce alla dinamica e alla statica»),100 il compito dell’«artefi ce» rimane alla fi ne quello di determinare in che modo le passioni «tra loro convengano e differiscano, come si controbilancino, come combinate con le contingenze delle cose esterne, o co’ disegni della providenza tra lor si

95 A. Conti, Dell’anima umana, cit., p. 144.96 A. Conti, Prefazione a Id., Il Druso, Venezia, Pasquali, 1748, pp. 28-29.97 A. Conti, Dissertazione sull’Atalia, cit., p. 109.98 Ivi, pp. 109-110.99 Ivi, p. 110.100 A. Conti, Dell’anima umana, cit., p. 197.

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meschino e s’intreccino»:101 di questi moti interiori, ossia «dei loro impulsi, fi ni, consigli, imperj della volontà cogli eventi combinati», l’autore deve «fare un tutto, e legarlo non secondo le leggi delle cose necessarie e geometriche, ma secondo le leggi de’ contingenti».102

Proprio per dare forma all’universo fi ttizio dell’arte, strutturandolo «non secondo le regole geometriche, ma secondo le leggi de’ contingenti», nasce forse una teoria moderna della gradazione che trasferisce alla tragedia le intui-zioni di Wolff, e insieme al verisimile psicologico di Castelvetro e di Gravina tiene conto dell’invito vichiano a declinare il sistema delle passioni secondo «la misura fl essibile di Lesbo»,103 adattandosi alle parvenze mutevoli del reale e alle sfumature impercettibili dell’anima.

101 A. Conti, Dissertazione sull’Atalia, cit., p. 112.102 Ivi, p. 112.103 G. Vico, De nostri temporis studiorum ratione, cit., p. 131.

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Abstract

Il saggio si incentra sulla ricezione dell’Inquiry into the Original of our Ideas of Beauty and Virtue (1725) e dell’Essay on the Nature of Conduct of the Passions (1728) di Francis Hutcheson. Conti discute le teorie di Hutcheson riferendosi al dibattito sulle passioni condotto da Gregorio Caloprese, Paolo Mattia Doria e Giambattista Vico, secondo cui la fondazione dell’etica come scienza civile non dipende dall’esistenza di un senso morale interno, ma dall’accordo tra intelletto e ragione. Dall’etica Conti passa quindi all’ambito dell’estetica, dove l’idea del bello di Hutcheson viene confutata sulla base delle teorie di Descartes, Malebranche e Wolff. Da quest’ultimo Conti desume la teoria dei «sillogismi taciti» che applicherà in seguito al discorso sulla tragedia.

This paper is focused on Conti’s reception of the Inquiry into the Original of our Ideas of Beauty and Virtue (1725) and the Essay on the Nature of Conduct of the Passions (1728) by Francis Hutcheson. Conti discusses Hutcheson’s theories in relation to Gregorio Caloprese, Paolo Mattia Doria and Giambattista Vico’s analysis of the passions, according to which the foundation of ethics as a civil science does not rely on the inner moral sense, but on the concordance between mind and will. From ethics Conti’s analysis switches to aesthetics, where Hutcheson’s idea of beauty is refuted on the basis of the theories of Descartes, Malebranche and Wolff, from whom Conti draws the notion of the «tacit syllogisms» which he will then apply to tragedy.


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