+ All Categories
Home > Documents > Il concetto di Ethos quale espressione della specialità militare

Il concetto di Ethos quale espressione della specialità militare

Date post: 26-Jan-2023
Category:
Upload: iuo
View: 0 times
Download: 0 times
Share this document with a friend
34
1 IL CONCETTO DI ETHOS, QUALE ESPRESSIONE DELLA SPECIALITA’ MILITARE in Quaderni di scienze penalistiche, a cura del Dipartimento di scienze penalistiche, criminologiche e penitenziarie della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, n. 2/2006, ed. “I Farella”, Napoli, pp. 75-120 1. Introduzione - Una definizione sostanziale dell’ethos militare non può prescindere dall’analisi dell’evoluzione storica di argomenti ad esso collegati, quali la nascita dello Stato nazionale, l’esigenza di difesa e la collegata forza militare. Alla lettura di tali temi in chiave storica va collegata, poi, un’analisi attuale, alla luce della fase di trapasso dalla leva obbligatoria ad un sistema di difesa professionale ed all’evoluzione dello Stato nazionale, sempre più inquadrato in un ambito comunitario e, quindi, sovranazionale. L’esigenza di una forza militare è diversa espressione dall’esigenza di difesa delle prime forme di aggregazione sociale. E’ doveroso evidenziare che la forza militare nasce prima dello Stato e non è creata direttamente dallo Stato per esigenze da esso funzionali. La forza militare nasce con l’aggregarsi delle prime forme di comunità rurale stabile, in uno con l’esigenza di difendere le colture ed il raccolto da insidie esterne. La genesi dell’esigenza di una forza stabile non deriva dall’esistenza di uno Stato-apparato (ubi societas...), bensì dal bisogno di tutelare dalle ingerenze esteriori la comunità territorialmente riproduttiva. Nella sua espressione originaria, questa forza è una forza armata poco inquadrata, demandata a soggetti mercenari per lo più aggregati in bande, unite attorno alla figura del capo, cui è riconosciuta ubbidienza e fedeltà in ragione del suo valore e della sua forza; soltanto successivamente tale forza si è evoluta, perfezionata e disciplinata assumendo una connotazione istituzionale. 2. Endiadi popolo\territorio - E’ utile, richiamare la tripartizione costituzionalistica classica dello Stato: popolo\territorio\governo. Tale tripartizione, secondo l’analisi di De Lalla, 1 basandosi sullo Stato moderno diveniente, non rende ragione fino in fondo del fatto che “tra popolo e territorio esiste in realtà una specie di immedesimazione così intrinseca da render persino difficile parlarne approfonditamente e persino ontologicamente in modo separato”; questo autore ritiene, dunque, solo due entità rilevanti ed essenziali dello Stato, restando in ogni caso separato dal 1 P. DE LALLA, “ Saggio sulla specialità penale militare”, Jovene, Napoli, 1990, cap. II, pag.74.
Transcript

1

IL CONCETTO DI ETHOS, QUALE ESPRESSIONE

DELLA SPECIALITA’ MILITARE

in Quaderni di scienze penalistiche, a cura del Dipartimento di scienze penalistiche, criminologiche e penitenziarie della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi

di Napoli Federico II, n. 2/2006, ed. “I Farella”, Napoli, pp. 75-120 1. Introduzione -

Una definizione sostanziale dell’ethos militare non può prescindere dall’analisi dell’evoluzione storica di argomenti ad esso collegati, quali la nascita dello Stato nazionale, l’esigenza di difesa e la collegata forza militare. Alla lettura di tali temi in chiave storica va collegata, poi, un’analisi attuale, alla luce della fase di trapasso dalla leva obbligatoria ad un sistema di difesa professionale ed all’evoluzione dello Stato nazionale, sempre più inquadrato in un ambito comunitario e, quindi, sovranazionale. L’esigenza di una forza militare è diversa espressione dall’esigenza di difesa delle prime forme di aggregazione sociale. E’ doveroso evidenziare che la forza militare nasce prima dello Stato e non è creata direttamente dallo Stato per esigenze da esso funzionali. La forza militare nasce con l’aggregarsi delle prime forme di comunità rurale stabile, in uno con l’esigenza di difendere le colture ed il raccolto da insidie esterne. La genesi dell’esigenza di una forza stabile non deriva dall’esistenza di uno Stato-apparato (ubi societas...), bensì dal bisogno di tutelare dalle ingerenze esteriori la comunità territorialmente riproduttiva. Nella sua espressione originaria, questa forza è una forza armata poco inquadrata, demandata a soggetti mercenari per lo più aggregati in bande, unite attorno alla figura del capo, cui è riconosciuta ubbidienza e fedeltà in ragione del suo valore e della sua forza; soltanto successivamente tale forza si è evoluta, perfezionata e disciplinata assumendo una connotazione istituzionale.

2. Endiadi popolo\territorio -

E’ utile, richiamare la tripartizione costituzionalistica classica dello Stato: popolo\territorio\governo. Tale tripartizione, secondo l’analisi di De Lalla,1 basandosi sullo Stato moderno diveniente, non rende ragione fino in fondo del fatto che “tra popolo e territorio esiste in realtà una specie di immedesimazione così intrinseca da render persino difficile parlarne approfonditamente e persino

ontologicamente in modo separato”; questo autore ritiene, dunque, solo due entità rilevanti ed essenziali dello Stato, restando in ogni caso separato dal

1 P. DE LALLA, “ Saggio sulla specialità penale militare”, Jovene, Napoli, 1990, cap. II, pag.74.

2

popolo\territorio (considerati in modo unitario data la loro immedesimazione) il governo, che li difende e li ordina. E’, infatti, solo l’immedesimazione tra popolo\territorio che dà origine allo Stato, ad un rapporto, come dice De Lalla, “sinallagmatico” data la loro corrispettività; un rapporto, quindi, non più accidentale o circostanziale bensì essenziale. Immedesimazione, perché è proprio questa che costituisce il primo presupposto dell’esigenza dello Stato, come si può facilmente notare nei periodi originari, nel tardo Mesolitico e soprattutto nel Neolitico, epoche in cui l’uomo può essere considerato solo in relazione alla terra ed a quanto è capace di produrre e non certo come soggetto giuridico, titolare quindi di diritti e doveri. In realtà il problema dello stretto rapporto tra popolo\territorio è un problema posto da secoli. Basta ricordare Ippocrate2 nel trattato “Delle arie, delle acque e dei luoghi”, e la distinzione che questi stabilisce tra le popolazioni dei paesi alti battuti dai venti, e umidi: gente di alta statura, dal carattere insieme dolce e ardito; e gli abitanti dei terreni leggeri, scoperti, senza acqua, dalle brusche variazioni climatiche: nervosi, questi e secchi, biondi piuttosto che bruni, dal carattere arrogante ed indocile. Successivamente, dell’endiadi popolo/territorio se ne sono occupati anche Platone, nel quinto libro delle Leggi, Aristotele nel quarto e nel quinto libro della Politica, Galeno, Polibio e Lucrezio nel sesto libro del “De rerum natura”. Ma anche autori moderni come Bodin,3 che nella sua “ I sei libri sulla Repubblica” si sforzano di determinare i grandi quadri della superficie terrestre entro i quali si inseriscono le società umane: zona fredda, temperata e torrida, con le loro suddivisioni in terre d’Oriente e d’Occidente, pianure, montagne, vallate, regioni sterili e terre promesse, zone battute dal vento o rispettate dalla sua violenza. Bodin4 è tuttavia ben conscio che nulla di tutto ciò è rigido e che il condizionamento dei fattori geo-climatici, sull’uomo, non esplica i suoi effetti in modo assoluto. Egli infatti, non solo ha cura di affermare la sussistenza del libero arbitrio e del libero esercizio della volontà divina, ma evidenzia anche che può accadere che, nel medesimo paese, uno stesso popolo conosce vicissitudini diverse, attraverso periodi alterni di grandezza e di degenerazione, mostrando così, quanto determinanti siano, nel cambiamento, anche altri fattori, quali il nutrimento, le leggi, le prassi. Anche Montesquieu5 nel capitolo XVIII del suo “Esprit des Lois”, mostra come la natura del suolo influisca sulle leggi. Come Bodin, si propone di risolvere un problema giuridico e politico più vasto; affronta complessivamente il problema dell’ambiente fisico e lo risolve nel senso di un determinismo stretto ed assoluto.

2 IPPOCRATE, “ Delle arie, delle acque e dei luoghi”, Marsilio, Venezia, 1997, p. 120. 3 J. BODIN, “ I sei libri dello Stato”,Utet, Torino, 1964, p. 485. 4 J. BODIN, op. cit., p. 490. 5 C. L. MONTESQUIEU, “Esprit des Lois”, Flammarion, Paris, 1979 cap.18, p. 321.

3

Le opinioni di tali autori citati sono, in realtà, della stessa ispirazione di idee volgari, risalenti ad antichissime concezioni in gran parte di origine e di natura magiche. Basti pensare a generazioni che hanno creduto con fede cieca all’influsso degli astri sulla vita umana; generazioni che senza esitare deducevano l’influsso psicologico di Mercurio, Saturno e Marte sulle vicende umane. Ed, infatti, Bodin nel momento in cui distingue le varie zone (temperata, glaciale e torrida) ne deduce gli influssi, attribuendo a Saturno la zona meridionale, a Giove la media, a Marte la settentrionale. Quindi, per lui questo influsso del “territorio” è assolutamente analogo a quello oscuro, misterioso ed in parte segreto degli astri. Sia Bodin che Montesquieu per quanto possano avere uno spirito al di fuori dell’ordinario, sono entrambi vincolati alla tradizione. Assolutamente moderna è invece la concezione di Buffon6 che non parla più di influssi più o meno occulti e misteriosi, se non nei loro effetti, almeno nei loro modi. Infatti, l’uomo di Buffon ha un suo peso anche rispetto alla natura, “da circa trenta secoli la potenza dell’uomo che unita a quella della natura, si è

estesa sulla maggior parte della terra”. Grazie alla sua intelligenza gli animali sono stati addomesticati, sottomessi, domati, ridotti ad obbedirgli per sempre. Grazie al suo lavoro le paludi sono state prosciugate, i fiumi contenuti nel loro letto, le foreste aperte. L’intera faccia del mondo porta oggi i segni della potenza dell’uomo che, quantunque subordinata a quella della natura, spesso ha fatto di più, o almeno l’ha assecondata così meravigliosamente che con l’aiuto delle sue mani essa si è sviluppata in tutta la sua estensione. Egli è il solo tra gli esseri viventi la cui natura è abbastanza forte, abbastanza estesa, abbastanza flessibile da poter sussistere e moltiplicarsi dappertutto, prestandosi agli influssi di tutti i climi della terra. La maggior parte degli animali sono, invece, limitati e confinati in certi climi, ed anche in regioni particolari. Gli animali, dice questo autore: “sono, sotto molti aspetti, prodotti della terra, l’uomo è in tutto opera del cielo”.7 Emerge quindi l’idea moderna dell’uomo “agente naturale”, idea che non è di Montesquieu; Buffon si sforza ingegnosamente di dimostrare che l’uomo può agire sul clima. Trasformata, modificata, adattata dall’uomo la terra umanizzata agisce su di lui in un secondo momento. È lui, prima di tutto, ad esercitare su di essa la sua potenza di trasformazione e di adattamento. In quest’ottica, può ricordarsi Michelet,8 il quale intuiva che il suolo non costituisce per le società umane una semplice platea, un’inerte scena teatrale; egli avvertiva nel passato dei popoli tutto un gioco di sottili influssi geografici, molteplici e complessi; da citare in tale analisi è anche Taine9 il cui disegno appare più vasto, la sua visuale più libera e più ampia. Egli dosa imparzialmente gli influssi concomitanti della razza,

6 G. L. BUFFON, “Opere scelte”, Pierotti, Roma, 1920, p. 87. 7 G. L. BUFFON, op. cit., p. 102. 8 J. MICHELET, “Il popolo”, Rizzoli, Milano, 1989 pag. 77. 9 H. TAINE , “Saggi di critica e di storia”, Bocca, Milano, 1941, pag. 54.

4

dell’ambiente e del momento. Non considera solo l’ambiente fisico, ma tutto ciò che circonda un essere umano: clima, suolo, istituzioni, ed anche religione e governo; tutto ciò costituisce insieme l’atmosfera materiale, morale, intellettuale in cui l’uomo vive e si muove. L’analisi del pensiero di questi autori non è fine a se stessa, bensì strumentale all’inquadramento del rapporto popolo\territorio, dal quale discende, come detto, l’esigenza di difesa, in uno con la sua connotazione principale, nonché sua primaria accezione: l’ethos militare. Nello spiegare la nascita dell’esigenza di difesa, quindi, sarà bene partire da una tesi fondamentale, secondo la quale i grandi eventi nascono da fenomeni casuali, ed in questo caso il “fenomeno casuale” qui considerato “esalta” la concezione dell’immedesimazione popolo\territorio.10

3. La casualità nella storia –

La “casualità” è entità presente nella storia e la maggior parte delle volte è essa stessa fonte e motore dei grandi eventi. Lo stesso capitalismo, per citare un esempio, secondo quanto scrive Weber,11 in uno dei suoi libri più famosi, è frutto di un fenomeno casuale determinato, e cioè:

- dell’accumulazione improvvisa di oro e di argento in Inghilterra; - della riforma protestante che, con la nascita del Puritanesimo e del

Calvinismo, legittimò il “soggetto\capitalista”. I borghesi hanno una religione puritana, moralista, religione in cui il denaro è segno di una predestinazione di vita. La filosofia del successo diviene così una filosofia religiosa; nel Calvinismo, infatti, l’unico segno divino è il successo. La stessa Austen12 sembra condividere questo pensiero nel momento in cui dice che il capitalismo è nato dal bisogno dei borghesi di vincere contro la classe aristocratica, con una religione che vedeva nel successo l’assenso della divinità. Emerge quindi l’idea che il singolo sia “moralmente” tenuto ad aumentare il capitale. In quel “moralmente”, quindi, secondo Weber 13 è da rilevare tutto il carattere religioso del capitalista. In effetti nel capitalismo moderno non è predicata solo una tecnica di vita, ma una peculiare “etica” la cui violazione non è trattata solo come follia, ma come una specie di negligenza del dovere, questo è il punto essenziale. Non è solo l’abilità negli affari ad esservi insegnata, ciò che si esprime è un ethos. Il topos del discorso, secondo Weber14 è il seguente: “chi non 10 P. DE LALLA, op. cit. 11 M. WEBER, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, Sansoni, Firenze, 1970, cap. I, p. 97. 12 J. AUSTEN, “Orgoglio e pregiudizio”, Garzanti, 2002, cap. II, p. 33. 13 M. WEBER, op. cit., cap. I, p. 74. 14 M. WEBER, op. cit., cap. I, p. 95.

5

adatta la condotta della sua vita alle condizioni del successo capitalistico va in

rovina o almeno non emerge”. Si arriva così al menzionato fenomeno casuale, fonte, secondo alcuni, delle prime civiltà e momento dal quale l’uomo sente il bisogno di difendersi: l’improvviso cambiamento del clima avvenuto alla fine del Paleolitico (9.000 - 8.000 a.C.) allorché, ad un periodo di freddo intensissimo, seguì un periodo di clima molto più caldo e mite. Tale fenomeno determinò lo scioglimento dei ghiacciai in molte parti della terra, ma non in quelle più vicine ai Poli: di qui un progressivo spostamento verso le zone più fredde del Nord dei grossi animali, che costituivano la principale risorsa di caccia dell’uomo primitivo.15 Ne derivò per gli uomini tutta una serie di difficoltà per procurarsi la carne di cui avevano bisogno e la conseguente necessità di cercare altri tipi di cibo: li trovarono in alcuni vegetali (frumento e orzo) e cominciarono così a coltivarli. Nacque l’agricoltura e con essa una nuova era, favorita dall’introduzione delle prime vanghe e zappe in pietra e dai primi aratri in legno. Fu proprio l’agricoltura ad indurre gli uomini dell’età neolitica ad abbandonare a poco a poco la vita nomade per quella sedentaria e ad erigere le prime capanne di legno; fu essa stessa a segnare la fine dell’età dei “raccoglitori di cibo” e l’inizio di quella ben più evoluta degli “agricoltori”.16 Fu l’agricoltura, quindi, ad indurre gli uomini ad unirsi ai propri simili per poter superare meglio le infinite difficoltà di ogni giorno e dare origine così ai clan, la prima forma di società costituita da varie famiglie per lo più legate tra loro da vincoli di parentela; a spingere l’uomo ad uscire dalla fase nella quale consumava tutto quanto la natura gli offriva, per entrare in quella ben più avanzata nella quale riusciva con il suo lavoro a pianificare ed a produrre quanto gli era indispensabile per la vita. Egli inoltre imparò anche ad allevare il bestiame secondo sistemi e forme sino ad allora sconosciuti, assicurandosi così una maggiore disponibilità di cibo. Quindi, per effetto di questo fenomeno casuale, alcuni popoli nomadi divennero stanziali, dando vita alle prime forme di civiltà, dedite alla riproduzione di cibo. 4. Esigenza di difesa -

15 C. LEVI STRAUSS, “Razza e storia e altri studi di antropologia”, Einaudi, Torino, 1952, cap. I, p. 35. 16 “E’ necessario, infatti, chiarire che il mondo selvaggio ed il mondo primitivo hanno diversi rapporti col cibo, il selvaggio conosce il modo di produrre cibo ma non lo fa, forse per la sacralità delle cose. Il mondo primitivo invece, distingue tra popoli nomadi e sedentari, i primi che vivono di allevamento ed i secondi che “costretti” a stabilirsi nella Mezzaluna fertile coltivano cereali ed imparano la tecnica per riprodurre il cibo”. (FEBVRE, La terra e l’evoluzione umana, Einaudi,Torino, 1980).

6

Per meglio comprendere la nascita dell’esigenza di difesa, era opportuno richiamare il fenomeno dell’origine della civiltà, perché è proprio questo spontaneo aggregarsi che fa nascere, appunto, l’esigenza di difendersi, mediante una forza armata stabile, all’uopo organizzata. Il primo bisogno, la prima necessità immediata di queste civiltà è quella di “difendersi” dalle orde di quei nomadi razziatori, che per loro natura sono bellicosi e conquistano con la forza ciò che non sanno produrre. Il nomade ed il sedentario costituiscono quindi i primi aspetti di quello che oggi chiamiamo “militarismo”. Per quanto riguarda il “militarismo nomade”, Febvre17 illustra come innumerevoli ricordi impongono una univoca analogia, popoli nomadi\popoli guerrieri: “esiste un popolo che avendo per vicini dei nomadi non sia stato costretto a combatterli

per proteggersi dalle loro razzie? e con che sfoggio di precauzioni? sempre le

stesse del resto, in qualunque tempo e luogo!” La risposta di Febvre a questa domanda evidenzia il concetto di “militarismo sedentario”, cioè l’esigenza di difesa; infatti, contro questi popoli bellicosi18 “ecco la muraglia che il Faraone Sesostri costruì da Pelusio a Eliopoli; e la grande muraglia cinese, insieme a

quell’ininterrotto trincerato che i francesi per un momento pensarono di

innalzare in Algeria; e quella rete di fortini, di oppida di castella posti a distanze irregolari, che, sotto un cielo di fuoco, i romani elevarono alla frontiera

dell’Eufrate, di fronte ai Semiti e agli antichi Saraceni; ecco infine il limes regolare dell’Impero, quello del Reno, quello del Danubio, col suo muro e col suo

fossato ininterrotto; e ai nostri giorni, i muri mobili costituiti dalle colonne

meccanizzate, che, rapide ed inafferrabili, arrivano dappertutto, o i ricognitori

marini o aerei, che pattugliano i confini patri o le zone di importanza strategica.

Il risultato da raggiungere resta sempre lo stesso, e il pericolo nomade si

mantiene identico”. Ma come nasce “l’essenza bellica” del soggetto nomade? Febvre19 risponde che vi sono più di cento ragioni che lo spiegano. Una su tutte è quella dovuta agli accidenti del clima che costringono da un momento all’altro i nomadi ad allontanarsi dai loro percorsi abituali, gettandosi così sulle popolazioni in cui si imbattono; sia che debbano procurarsi delle risorse che improvvisamente vengono loro meno, ed esigerle da chi le ha; sia che vengano minacciati o attaccati da vicini che divengono predoni, si comprende benissimo, comunque, che i nomadi sono portati a costituire e ad utilizzare una forza militare. Bisogna, però, precisare il carattere delle loro azioni bellicose. Per quanto predone, il nomade non si comporta, generalmente, come un bruto scatenato; deve abitualmente risparmiare le sue vittime per non esaurire una delle risorse della sua

17 L. FEBVRE, "La terra e l'evoluzione umana” Einaudi, Torino, 1980. 18 L. FEBVRE, op. cit. 19 L. FEBVRE, op. cit.

7

sopravvivenza. Salvo i casi estremi in cui si credano o si sentano minacciati, essi non distruggono le carovane, si contentano di scortarle e di depredarle cammin facendo. Nei confronti dei sedentari il loro atteggiamento è di duplice natura: da una parte, esigono da loro una grossa parte dei raccolti; dall’altra proteggono le “oasi” che li alimentano dalle scorribande degli altri nomadi. La loro vita è, d’altronde sin dall’infanzia, similmente a quella di tutti i popoli analoghi, una vera e propria vita da soldato. La tribù è sempre organizzata come un esercito: capacità di adattamento sviluppate, spirito di sacrificio, ritmi di marcia sostenuti, ottimizzazione dei tempi delle operazioni di carico e scarico di bestie per allestire l’accampamento notturno, per prestare il fianco ad una favorevole occasione per un’imboscata. Tale genere di vita crea a poco a poco una mentalità particolare. Spirito bellicoso, senso della disciplina, forza di carattere e forte autorità del capogruppo: queste sono le caratteristiche essenziali delle società nomadi, e ce n’è a sufficienza per dar loro una forza relativamente considerevole e una capacità d’azione di prim’ordine rispetto ai sedentari. Così i nomadi quando non sono destinati a spezzettarsi all’infinito, obbligati dall’insufficienza delle risorse naturali, o anche dal desiderio di autonomia e avventura, riescono facilmente a creare grandi imperi. Il loro coraggio ed il loro ardimento, legati allo spirito bellicoso, dice Semple,20 deriva esso stesso dal loro modo di vivere. Il “militarismo sedentario” è importante perché fa comprendere lo stretto rapporto tra Stato\territorio, che nel periodo del Neolitico, è rapporto tra comunità\esigenza di difesa. Esso nasce, come già detto, dal fenomeno casuale che portò allo stanziamento presso il bacino mesopotamico; e quindi, nasce come limitazione al nomadismo. Ciò che contribuisce a limitarlo è una modificazione non già dei fattori umani dell’esistenza; e cioè il costituirsi, in regioni dove una volta regnava uno stato di guerra, di insicurezza, di disordine economico, di uno stato di pace e di relativo ordine. In seguito ai continui saccheggi operati dai nomadi “superstiti” tali soggetti, che la storia definisce contadini, imparano a costruire attorno ai villaggi fortini e palizzate, per meglio difendersi dall’assalto dei predoni. Dapprima l’esigenza di difesa veniva soddisfatta con la costruzione di fortificazioni soprattutto in legno e con trinceramenti; poi, con l’adozione della muratura si ebbero cinte murarie anche molto estese, inframmezzate da torri. Diverse erano le tecniche di costruzione di tali cinte murarie; alcune, ad esempio, non erano tanto alte ma erano protette da terrapieni. Per lungo tempo l’esercito, se di esercito si può parlare, era reclutato tra gli abitanti della città; le armi costruite furono le più disparate, soprattutto con il sorgere dell’età dei metalli, elmo, scudo, lancia, spada, arco; gli Hurriti introdussero poi l’uso del carro da guerra, a due ruote e tirato da cavalli, che rivoluzionò le sorti degli eserciti. Più volte infatti, l’esercito del Faraone d’Egitto dovette capitolare di fronte alle orde dei carri da guerra degli Iksos.

20 E. SEMPLE, “Influenze sull’ambiente geografico”.

8

Particolarmente ben organizzato fu l’esercito assiro, che aveva il suo nerbo nelle truppe montate su carro ed era fornito di macchine ossidionali.21 Si può quindi affermare che la nascita dell’esercito è coeva alla nascita delle prime aggregazioni sociali e precedente alla nascita dello Stato. Solo a partire da questo evento radicale, genetico, della civiltà, si costituisce una “forza altrettanto stabilmente protettiva della comunità territorialmente riproduttiva; questa forza protettiva è

appunto la cellula germinale dello Stato, ossia della possibilità di un rapporto

stabile, sinallagmatico tra la riproduzione e la sua difesa. Essa che stabilmente

protegge l’endiadi popolo\territorio è, naturalmente, una forza armata, in origine

poco inquadrata poi sempre più a disposizione di un ordine, di un governo. Ma la

scarsa e confusa conoscenza, se non misconoscenza ha portato soprattutto oggi a

ritenere la funzione bellica dello Stato non come un’invariante genetica

strutturale di esso, bensì come posterius al suo sorgere, e cioè come l’insorgere in

esso dello spirito di accrescimento e di conquista”.22 Tuttavia, pur non disconoscendo la funzione di conquista, in origine la forza armata militare rivestiva la sola funzione bellica di protezione esterna; solo successivamente sviluppò una funzione eminentemente miliziaria e di protezione interna dalle minacce individuali. Questo fenomeno, da unitario diviene nella sua essenza duplice. Con la crescita, infatti, d’importanza dell’ordine sociale e così dell’organizzazione dell’aspetto interno\poliziario della forza armata dello Stato, il fenomeno si è sdoppiato e si è venuta a creare una forza per la pace, non più per la guerra, in linea con i moderni indirizzi politici del nuovo ordine mondiale. Pur sempre però, forza armata, forza che porta le armi in una dimensione in cui l’uso delle armi, per quanto nella maggior parte dei casi eccezionale, svolge comunque una funzione di pre-soluzione del problema. Non è un caso che oggi si parla, soprattutto con riferimento alle missioni internazionali di peace keeping, sempre più di Polizia internazionale e non di Eserciti in guerra. Inoltre, alla concezione degli eserciti moderni, va affiancata di nuovi eserciti, quale quello europeo. È infatti proprio con l’Unione Europea, dapprima nata con una funzione principalmente economica di poi ricomprendente tutte le funzioni sociali, che si è giunti alla idea di costituzione di un esercito europeo. La “ Dichiarazione d’impegno delle capacità militari” presentata il 20/11/2000 a Bruxelles durante la riunione del Consiglio dell’Unione Europea tra i Ministri degli Esteri e della Difesa, e concretizzantesi in un documento approvato dai quindici Stati membri, contiene l’impegno di queste nazioni a costituire una forza di intervento di 60.000 uomini, da impiegare in operazioni di durata non inferiore ad almeno un anno. L’impiego di questo nuovo esercito – europeo - è previsto per

21 Trabocchi, balistae, scale articolate, arieti, sfondacarene. 22 P. DE LALLA, op. cit., cap. II, pag.77.

9

diverse esigenze, dalle missioni umanitarie in soccorso di popolazioni colpite da calamità, alle operazioni di peace keeping ed a quelle di peace enforcing.

5. La professione militare –

Appare a questo punto necessario analizzare la “professione” militare secondo l’accezione di oggi, al fine di verificare la persistenza e la possibile evoluzione del concetto di ethos militare. A differenza delle forme professionali che hanno una autonomia operativa, la professione militare presenta un collegamento inevitabile con l’organizzazione di una forza armata; non è quindi possibile rilevarne i requisiti se non in stretto rapporto con le caratteristiche di questa. Gli studi sulla professione militare unificano infatti i problemi che le sono propri con quelli organizzativi del contesto di cui fa parte, pur distinguendo, nell’ambito della forza armata, i professionisti dai non professionisti. Ciò, soprattutto alla luce dell’abolizione della leva obbligatoria che vede oramai il formarsi di un esercito di soli professionisti. Oggi, tra i professionisti vanno ricompresi solo i militari di carriera e non anche i militari di leva, i quali sono estranei all’ethos militare, essendo solo “oggetto” del sistema. Tale connubio determina importanti questioni. Anzitutto, se si possa attribuire la qualifica di vera “professione” all’attività specifica dei militari e, in caso affermativo, quali siano i particolari caratteri che essa riveste, dato il contesto in cui viene espletata. Sul primo punto appare fondante il contributo dato da Huntington, in un’opera23 generalmente considerata un caposaldo della sociologia militare e un termine essenziale di confronto per le analisi successive. Huntington non ha avuto esitazione a utilizzare le interpretazioni del concetto di professione raggiunte dalla ricerca sociologica in epoca anteriore al suo studio per considerare come professione il corpo degli ufficiali degli eserciti contemporanei: “Il moderno corpo degli ufficiali è un corpo professionale e il moderno ufficiale un

professionista”. Questa è, forse, la tesi fondamentale del suo libro. Una professione è un tipo particolare di gruppo funzionale con caratteristiche altamente specializzate. Il professionismo è caratteristico del moderno militare, sia esso ufficiale o non, nello stesso senso in cui è caratteristico del medico e dell’avvocato. Il professionismo distingue il militare di oggi dai guerrieri delle età precedenti. L’inquadramento dei corpi ufficiali come corpi professionali dà un’unica caratteristica al problema moderno delle relazioni tra civili e militari. Non risulta che questo assunto abbia trovato, in seguito, contraddizioni significative: si può parlare piuttosto di ulteriori interpretazioni delle funzioni professionali che lasciano intatto il punto di partenza, cioè il carattere

23 S. HUNTINGTON, “ Il soldato e lo Stato”, Garzanti, 1957, cap. II p. 78 e segg..

10

professionale che queste presentano. Su tale caposaldo è venuto ad accendersi il dibattito, soprattutto per precisare i contenuti accuratamente e con maggiore aderenza alle istanze contemporanee. Huntington si era peraltro già incamminato su questa strada. Il suo punto di vista è che la professione militare presenta, come ogni altra professione, tre fondamentali attribuzioni: expertise, responsibility, corporateness. La prima appare come una abilità basata su un campo di conoscenza specializzata e volta all’esercizio della forza. Come la medicina si prende cura delle malattie e l’avvocatura della difesa di diritti, la professione militare, in quanto forma professionale del corpo degli ufficiali, è deputata all’attuazione della forza. Questo assioma connota in modo deciso l’analisi huntingtoniana, facendo della professione militare una specifica arte volta ad applicare la forza in modo tecnicamente più efficace di quanto sia possibile ad ogni altra forma d’azione a ciò diretta. Quanto alla responsabilità, essa si risolve nel compimento di un servizio simile alla promozione della salute, all’educazione o alla giustizia, che integrano lo scopo di altre professioni. Anche il corpo degli ufficiali compie un servizio; essenzialmente la difesa militare dello Stato. Infine, l’insieme degli ufficiali forma una corporazione: gli ufficiali anche in questo sono simili ai membri della altre professioni in quanto “condividono un senso di unità organica e di coscienza di sè come gruppo distinto dai laici”.24 Sulla scorta di tali conclusioni questo autore cerca di configurare un tipo ideale di professione militare connotato da una particolare cultura sociale e da un’etica. La cultura professionale si fonda su un corpo specifico di conoscenze, di esperienze e di comune sentire. Quanto all’etica, il militare obbedisce all’autorità dello Stato e agli interessi di questo, ed è incline ad una serie di atteggiamenti, che Huntington riassume nei termini “realismo conservatore”: “L’etica militare enfatizza la permanenza, l’irrazionalità, la debolezza e il male nell’umana natura. Essa

sottolinea la supremazia della società sull’individuo e l’importanza dell’ordine,

della gerarchia e della divisione delle funzioni. Essa sottolinea ancora la

continuità e il valore della storia. Accetta lo Stato nazione come più alta forma di

organizzazione politica e riconosce la continua possibilità di guerre tra gli Stati

nazione. Sottolinea l’importanza del potere nelle relazioni internazionali ed

ammonisce circa i pericoli che corre la sicurezza dello Stato. Sostiene inoltre che

la sicurezza detto Stato dipende dalla creazione e dal mantenimento di robuste

forze militari. Postula la limitazione dell’agire statale al diretto interesse dello

Stato, la restrizione dì compiti estensivi e la indesiderabilità di politiche bellicose

e avventurose. Postula ancora che la guerra è lo strumento della politica, che i

militari sono gli esecutori degli ordini dei politici e che il controllo civile è

essenziale al professionismo militare. Esalta l’obbedienza come la più alta virtù

del militare. L’etica militare è in tal modo pessimistica, collettivistica,

24 S. HUNTINGTON, op. cit, cap. I, p. 7.

11

condizionata dalla storia, orientata verso il potere nazionalista, militarista,

pacifista e strumentale nella sua visione della professione militare. In breve, è

realistica e conservatrice”.25 Il professionismo militare, quindi, pur avendo caratteri specifici, è messo in relazione da Huntington col contesto burocratico in cui è attuato, da cui si evince lo stretto legame tra appartenente e Amministrazione. Il suo punto di vista sul rapporto tra professione e organizzazione emerge dal seguente passo: “ il corpo degli ufficiali è tanto una professione burocratica quanto una organizzazione

burocratica. Entro la professione, i livelli di competenza sono distinti mediante

una gerarchia di gradi; entro l’organizzazione, i compiti sono distinti mediante

una gerarchia di uffici, il grado riguarda l’individuo e riflette la sua capacità

professionale misurata in termini di esperienza, anzianità, educazione e abilità.

Le promozioni al grado sono normalmente fatte dallo stesso corpo degli ufficiali

applicando i principi generali stabiliti dallo Stato, La nomina agli uffici è

qualcosa dì maggiormente soggetto ad influenze esterne. In tutte le burocrazie

l’autorità deriva dall’ufficio; in una burocrazia professionale la eleggibilità ad un

ufficio deriva dal grado. Ad un ufficiale è consentito di realizzare certi tipi di

compiti e di funzioni in virtù del suo grado: egli non deve ricevere il grado per il

fatto che egli è stato assegnato un ufficio. Sebbene in pratica si riscontrino

eccezioni a questo principio, il carattere professionale del corpo degli ufficiali

riposa sulla priorità della gerarchia di ufficio”.26 Tuttavia, questo autore evidenzia un’ulteriore distinzione, quella tra burocrazia professionale militare e burocrazia generica, nonché le conseguenze che tale distinzione determina in relazione ai rapporti tra membri della burocrazia professionale e le altre componenti della stessa forza armata, quali per esempio i sottufficiali e i militari di truppa. La burocrazia professionale degli ufficiali di carriera sta in sostanza al vertice dell’organizzazione burocratica militare; ne costituisce la parte più elevata e funzionalmente più qualificata, ancorché tale organizzazione comprenda anche funzionari civili. Simili apporti teorici hanno costretto tutti i sociologi che dopo Huntington si sono confrontati con l’argomento, a fare i conti col suo pensiero. La sua affermazione che quella militare sia una vera e propria professione non è stata sostanzialmente disattesa. Essa doveva però adattarsi ad una realtà nella quale la tipicità dell’azione professionale indicata da Huntington era sfidata dalla crescente ed estesa influenza di fattori “civili” sulla organizzazione militare, supportata anche sul piano normativo. I contributi successivi si sono infatti prevalentemente indirizzati a modernizzare il pensiero già tracciato da Huntington. Tale sforzo ha riguardato soprattutto due aspetti: la ridefinizione dello specifico contesto professionale militare, e la natura

25 S. HUNTINGTON, op. cit., cap II, p. 78. 26 S. HUNTINGTON, op.. cit., cap. I, pp. 17 e segg.

12

dei ruoli dei professionisti militari. Da queste principali esigenze sembra infatti stimolata l’opera di Janowitz, per quanto estesa ad una grande varietà di problemi di sociologia militare. Quest’ultimo ribadisce il carattere professionale del corpo degli ufficiali, ma osserva che l’organizzazione militare ha subito in tempi recenti importanti trasformazioni dovute in sostanza ai seguenti fattori: a) l’apparizione di nuove tecnologie che hanno prodotto strumenti di distruzione di massa di potenza eccezionale; b) la trasformazione del contesto sociale e politico entro cui operano le Forze Armate, in maniera tale da incidere radicalmente sulle funzioni di queste. Tali fattori hanno determinato rilevanti cambiamenti negli scopi delle organizzazioni militari e, di conseguenza, nella figura professionale del militare. Anzitutto la guerra non è più considerata inevitabile, ma data la distruttività delle nuove armi, evento da scongiurare. Le Forze Armate costituiscono un deterrente di conflitti generali che se realizzati sarebbero catastrofici, o un mezzo d’intervento in conflitti soltanto limitati. Le relazioni internazionali si sforzano di eliminare i conflitti, costringendo anche l’apparato militare ad adeguarsi al fondamentale obiettivo di preservare la pace. Tale stato di cose ha prodotto effetti generali che Janowitz descrive nei seguenti termini: “Le speciali caratteristiche dell’organizzazione militare derivano dai suoi scopi, ossia la gestione degli strumenti di violenza. Tuttavia, il contenuto

degli scopi militari è stato sottoposto a tremendi cambiamenti sotto l’impatto di

nuove tecnologie, e l’insieme di considerazioni politiche che incidono sulle

operazioni militari è alterato. In generale, la tendenza è verso il restringimento

delle differenze tra organizzazione civile e organizzazione militari”.27 Janowitz vede pertanto attuarsi un’evoluzione delle Forze Armate e, in primo luogo, della loro componente professionale. Nella sua analisi il fenomeno riveste alcuni aspetti fondamentali. - Modificazione dell’autorità nell’organizzazione militare; si passa da una concezione basata sul dominio ad una concezione che fa leva sulla manipolazione, la persuasione, il consenso di gruppo. - Attenuazione delle differenze tra élites militari e civili nell’estrinsecazione delle abilità professionali; i nuovi compiti richiedono che l’ufficiale sviluppi in misura crescente abilità e orientamenti comuni agli amministratori e ai leaders civili, conseguentemente, la sempre maggiore concentrazione di specialisti nel campo militare favorisce questa tendenza. - Cambiamento nel reclutamento degli ufficiali; si passa da un reclutamento tratto dagli strati elevati della popolazione ad un reclutamento che tendenzialmente fa capo alla popolazione nella sua interezza. - Significatività dei modelli di carriera; l’élite professionale militare è formata da uomini dotati di alta competenza che percorrono carriere prestabilite: essi formano

27 M. JANOWITZ, “ Organizzazione militare”, Angeli, Milano, 1990, cap. I, p. 23 e segg.

13

il tetto della gerarchia militare. Al contrario, si definiscono piccoli gruppi di élite, ai quali sono richieste idee innovative, responsabilità direzionale e abilità politica; vi entrano persone provenienti da carriere non convenzionali. - Nuove tendenze negli orientamenti politici; l’assunzione di responsabilità politica da parte dell’apparato militare produce una rilevante modificazione nell’immagine di sé nei concetti riguardanti l’onore da parte degli ufficiali. Questi sono inclini a non vedersi più come semplici tecnici militari e a sviluppare un ethos politico. Così, riassume Janowitz,: “… a far tempo dall’inizio del secolo, l’istituzione militare è andata via via fondendosi con l’impresa civile. Si è

verificato un indebolimento delle linee di distinzione organizzativa. Questa

tendenza si è notata in molti altri settori della società moderna, per esempio a

livello della accresciuta fusione di agenzie industriali o di governo e di

organizzazioni di educazione e di affari”.28 Benchè, secondo Janowitz, dagli anni ‘60 si noti una tendenza a porre dei limiti a questo orientamento, nel senso di un certo ritorno alla distinzione tra assetto civile e militare, la linea evolutiva sopra accennata resta di rilevante peso dal punto di vista dei caratteri che le strutture organizzative militari vengono assumendo. Con particolare riguardo alle società occidentale, il mutamento dei fattori organizzativi delineatosi nelle Forze Armate conduce in sostanza, secondo Janowitz, ad un modello di organizzazione militare strettamente legato alle esigenze della struttura sociale e civile. Esso è definito da questo autore col termine “constabulary force” (forza di polizia). La nozione di constabulary force è rivolta a contribuire alla ridefinizione delle idee sulla strutturazione delle istituzioni militari alla luce di considerazioni che riguardano l’aspetto tecnologico, politico e morale. L’istituzione militare diviene una constabulaty force quando essa, pur essendo continuamente preparata ad agire, si organizza per fare affidamento sul minimo uso della forza, e cerca di avere valide relazioni internazionali piuttosto che vittorie, pur avendo incorporato un atteggiamento di protezione militare. Per le nazioni industrializzate il concetto di constabulary force contiene l’intera estensione del potere e dell’organizzazione militare, incluso il contributo militare al controllo delle armi e al disarmo. Per le nazioni in via di sviluppo, il concetto racchiude l’uso razionale ed accurato dell’assetto militare per lo sviluppo sociale e nazionale, inclusa l’azione civica. Il campo militare è considerato un movimento in direzione di una operazione di tipo politico, nel senso che la “vittoria” contro uno specifico nemico non è il maggiore obiettivo, ma quest’ultimo è invece la creazione di stabili condizioni per il cambiamento sociale e politico. Siffatto concetto attribuisce in sostanza alle Forze Armate una serie complessa di compiti di guerra e di pace non racchiudibili in un unico ambito, che vanno dalla difesa e dall’attacco in senso classico, da cui non viene esclusa la possibilità di

28 M. JANOWITZ, in op. cit., cap. I, pp. 7-16.

14

interventi sulla scena interna e internazionale del più vario tipo, di operazioni di guerriglia e controguerriglia, dell’effettuazione di compiti civili consigliati da esigenze di volta in volta emergenti. Janowitz chiarisce che il concetto elimina di fatto la distinzione tra assetto militare di pace e di guerra, e richiama in senso lato l’idea di funzioni di Polizia svolte in tutti i settori che ne richiedano l’attuazione. Benchè il militare di professione sia contrario ad essere identificato con la Polizia, la concezione di un intervento generalizzato nel quale è incluso, ma non necessario, l’uso della forza, sembra vicino alle funzioni di Polizia, a cui del resto si ispira l’espressione “constabulary force”. Questa concezione può essere considerata come il punto d’arrivo d’una evoluzione storica del fenomeno militare le cui tappe sono traducibili in modelli corrispondenti a determinare condizioni della società occidentale moderna nel suo sviluppo. Janowitz li delinea come segue: 1- il modello aristocratico-feudale, proprio dell’Europa prima della rivoluzione industriale. In questo modello le èlites civili e militari appaiono socialmente e funzionalmente integrate; in concreto una classe aristocratica esprime indifferentemente nel suo seno competenze civili e militari e le considera fungibili; vi è una rigida gerarchia e una bassa specializzazione (la professionalizzazione dei militari è minima); i valori di base e le ragioni dell’impegno nel combattimento sono assicurati dall’appartenenza al gruppo sociale dominante. 2- Il modello democratico, nel quale l’ordinamento civile e quello militare appaiono nettamente differenziati, giacchè le élites politiche controllano l’assetto militare e stabiliscono le condizioni in cui esso può esercitare il suo potere. Si crea una distinzione tra carriere civili e militari, benchè entrambe comprendano professionisti alle dipendenze dello Stato. La carriera in quanto tale diventa la principale motivazione dell’impegno dei militari nel combattimento. 3- Nelle società industrializzate in cui il modello democratico non riesce a realizzarsi, è individuabile un modello totalitario: lo si può vedere in Germania, Russia e, ad un grado minore, in Italia, nella prima metà del ventesimo secolo. Esso determina la sottomissione dell’élite militare ad un partito politico totalitario che la controlla mediante la Polizia politica, infiltrando membri di quest’ultima nei ranghi militari e con altri metodi analoghi. In questo modello viene distrutta l’indipendenza del militare professionaista, al quale non resta che accettare uno stato di cose che lo condiziona completamente, e combattere perchè non ha altra alternativa. 4- Si configura infine il garrison state model, ispirato nella definizione dal saggio di Lasswell “The Garrison State”. Questo modello vuole rappresentare l’ascesa dell’élite militare in condizioni di prolungate tensioni internazionali, che inducono i sistemi democratici ad accrescere il potere dei militari e a dar loro l’opportunità di alleanze con forze politiche civili tali da porli in una situazione di forza. Esso non implica il passaggio ad una dittatura militare, ma una rafforzata presenza dei

15

militari sulla scena socio-politica motivata da esigenze di difesa in condizioni conflittuali di lunga durata. Il concetto di “forza di Polizia” tende a definire una situazione diversa e sopravvenuta a tutti i modelli sopraindicati. Esso vuole rispecchiare le esigenze configuratesi dopo la seconda guerra mondiale, con particolare riferimento agli Stati Uniti, in un momento storico nel quale è determinante il confronto planetario con l’Unione Sovietica e con i problemi politico-culturali, oltre che militari, implicati da questo in numerose aree del mondo. Ciò comporta una serie di conseguenze, alcune delle quali di grande rilievo. Si delinea anzitutto una rilevante complessità strutturale delle Forze Armate, concretamente espressa dalla varietà delle funzioni militari. Siffatta complessità, alla quale corrisponde la simultanea presenza nell’organizzazione militare di un gran numero di specializzazioni professionali, appare ulteriormente complicata dal fatto che vengono utilizzati negli eserciti talenti intellettuali di tipo critico che Janowitz chiama military intellectuals, distinguendoli dagli intellectual officers e cioè dagli ufficiali che danno una dimensione intellettuale al propri compiti. Il military intellectual, “sebbene sia un soldato professionale, è orientato e si identifica in primo luogo con intellettuali e con attività (...) intellettuali. Non

avrebbe difficoltà a passare dalla vita militare a quella universitaria, giacchè i

suoi orientamenti sono essenzialmente culturali. Egli è generalmente negato, o

non preparato, per i più alti posti di comando, come accade agli intellettuali nella

società civile. La sua posizione essenzialmente di consigliere, ma nell’assetto

militare il ruolo di consigliere è istituzionalizzato e accettato”.29 Questa figura è, per così dire, emblematica del sopravvenuto collegamento tra Forze Armate e forze culturali, particolarmente di tipo universitario, e della necessità di aprire la strada all’osmosi tra competenze civili e competenze militari. Il nuovo aspetto organizzativo collima con una concezione dell’autorità militare che, proprio a causa della complessità dell’insieme deve fare maggiore affidamento su tecniche di consenso, di controllo di gruppo, e di partecipazione che sulla tradizionale concezione di dominio del superiore sull’inferiore. In breve, quest’ultima tende a declinare di fronte ad esigenze di coordinamento che richiedono un grado di consenso proporzionato alla difficoltà dei compiti e all’imperativo della loro integrazione. Il tema dei rapporti tra abilità militari e abilità civili, e dei rispettivi influssi sull’organizzazione militare, così, diviene strutturalmente rilevante. Esso è ben presente in varie opere apparse soprattutto negli anni ‘70. Il suo approfondimento critico dà luogo a ricerche e interpretazioni il cui epicentro è la funzionalità delle Forze Armate nelle società avanzate contemporanee. Vari autori lo considerano in termini di trasformazione a lungo termine, con tutto il carico di problematicità che tale processo comporta. Tra i problemi che tale processo suscita viene messo in

29 M. JANOWITZ, op. cit., cap. IV, p. 431.

16

evidenza il possibile conflitto ideologico tra l’orientamento tecnico-razionale (che deriva dalla immissione nelle Forze Armate di abilità professionali di tipo civile) e quello operativo, diretto a produrre energia bellica, che rimane proprio delle istituzione militare; inoltre, i limiti reali del processo di avvicinamento tra i due tipi di attività e di conseguente eliminazione delle differenze tra organizzazione civile e militare, tema quest’ultimo particolarmente discusso. Alle radici di tali ultimi aspetti sta il contrasto tra la formazione professionale del nuovo militare e il persistente burocratismo dell’organizzazione armata. Questo contrasto impone per se stesso dei limiti alla “civilizzazione” delle Forze Armate. Vari studiosi propongono una teoria “pluralistica” del professionismo delle Forze Armate: l’esistenza cioè di un plural-military nel quale convivrebbero, in forma dialettica o alternativa, una forma di professione ispirata al modello civile e un’altra che se ne distacca riconoscendosi nel sostanziale caposaldo del management o violence. Tale doppia polarità produrrebbe un tipo di militare che in parte si identifica ed in parte è antinomico rispetto alla società civile. Una prevalenza del modello militare, che ha nell’uso della forza il suo epicentro, si noterebbe nelle unità combattenti che pertanto sarebbero le più distanziate rispetto alle forme della società civile; all’opposto, la tendenza alla similarità rispetto a quest’ultima sarebbe apprezzabile nelle organizzazioni militari di tipo non operativo, dove l’assimilazione al modello civile non appare contrastata da esigenze funzionali. Al modello plurimo è sottesa l’ipotesi che negli eserciti contemporanei esista un continuum, ad un capo del quale si ha un professionismo “militare”, la cui finalità essenziale sta nell’uso razionale della forza ed i cui valori di fondo sono coerenti con tale obiettivo, all’altro un professionismo “civile” ispirato agli scopi delle professioni civili e fondato sui valori comuni a queste ultime. Poichè peraltro entrambe le forme militari si esprimono nell’ambito burocratico dell’organizzazione militare e devono adattarsi alle esigenze generali di questa, i due poli estremi del continuum si troverebbero in situazione dialettica; in altri termini, essi alternerebbero la propria prevalenza in relazione ai compiti assegnati ai singoli comparti della complessa macchina armata e alla situazioni in cui questa si trova di tempo in tempo coinvolta. In tal modo la concezione pluralistica accoglie l’ipotesi già enunciata da Janowitz (pur nell’ottica generale della convergenza tra organizzazione militare e civile) secondo cui la distinzione tra burocrazie militari e burocrazie civili non può essere totalmente eliminata. Si assume che, per quanto la necessità di usare tecniche e informazioni mutuate dal mondo civile tenda ad accorciare le distanza tra i due campi, resti in atto una forma di professionalità militare diversa da quella civile. Ciò rafforza l’ipotesi che solo un approccio analitico, attuabile in sostanza attraverso ricerche sul campo, sia in grado di dare concreta misura dell’estensione del processo di conversione dell’organizzazione militare verso forme civili.

17

Negli Stati Uniti l’approccio pluralistico sembra aver trovato una consistente adesione particolarmente dopo la guerra del Vietnam, anche come riflesso della crisi di trasformazione delle Forze Armate americane successive a quel conflitto. Esso tuttavia può avere una validità più generale ed essere usato per approfondire la tematica della professionalità nelle burocrazie professionali quali si presenta in seguito all’apparizione di fattori che ne complicano radicalmente la struttura. Il fatto che gli eserciti abbiano assunto compiti plurimi e differenziati lo rende assai utile, almeno come ipotesi di lavoro, per la ricerca empirica. Esso sembra essere comunque una sorta di inevitabile conseguenza dell’uscita delle Forze Armate dall’isolamento funzionale in cui erano poste fino ai tempi relativamente recenti, senza che ciò abbia implicata la perdita della loro natura di strumenti deputati all’uso professionale della forza. Tale mutamento strutturale e funzionale costituisce la fonte d’un ampio ventaglio di problemi sui quali si è concentrata la ricerca sociologica nel suo recente approccio alla professione e all’organizzazione militare. Pur non mancando opere di sintesi sui nuovi fenomeni, un numero maggiore si dedica a singoli aspetti di essi. Nel complesso, il binomio organizzazione-professione forma, nel settore, un campo problematico nel quale convergono momenti diversi ma collegati: essi possono essere intesi come ventaglio rispecchiante le occasioni critiche alle quali il processo di trasformazione ha dato o sta dando luogo. Nella fase più recente, segnata da una maggiore specificità, questo complesso si è risolto in una serie di argomenti privilegiati. Le opere dedicate alle loro estrinsecazione determinano, a livello dei differenti ambiti militari nel mondo, un rilevante arricchimento del quadro generale della professione militare contemporanea. Le maggiori tematiche di cui si tratta sono qui sintetizzate seguendo un ordine logico che va dai fattori preliminari a quelli strutturali e funzionali ed infine ai fattori ideologici. La sintesi che ne propongo ha lo scopo di delinearne alcuni contenuti.

5.1. Estrazione sociale e fattori correlati –

Storicamente la trasformazione in senso professionale dell’attività militare appare legata in modo decisivo al mutamento dell’estrazione sociale degli ufficiali. Huntington precisa che la professione di ufficiale è di fatto un prodotto del secolo XIX anteriormente gli ufficiali erano mercenari o aristocratici: “Sotto il sistema dei mercenari l’ufficiale era essenzialmente un imprenditore, che formava una

compagnia di uomini i cui servizi offriva in vendita. L’ufficiale mercenario poteva

possedere un livello di competenza più o meno alto. Il successo, tuttavia, era

giudicato non sulla base di standard professionale, ma sotto quello del denaro.

Un esercito era formato da unità separate, ciascuna di proprietà di un differente

18

comandante. La fine del sistema dei mercenari arrivò con la guerra dei trent’anni

(1618- 1648) e il successo delle armate disciplinate di Gustavo Adolfo e di Oliver

Cromwell. La sostituzione dell’ufficiale mercenario con l’aristocratico amateur fu

fondamentalmente il risultato del consolidamento del potere da parte dei

monarchi nazionali i quali sentivano il bisogno di forze militari permanenti per

proteggere i loro domini e sostenere il loro governo”.30 Egli sostiene inoltre che se si deve dare una data all’origine della “professione” militare, può essere considerata tale quella del 6 agosto 1808, in cui il governo prussiano promulgò un decreto che riconosceva nella educazione e nella capacità professionale l’unico titolo valido per la nomina di un ufficiale. Benchè avviata agli inizi del XIX secolo, l’affermazione del professionismo militare, e pertanto l’abbandono del requisito dell’appartenenza all’aristocrazia da parte degli ufficiali, appare definitivo nei maggiori paesi europei soltanto dopo il 1875. Lo stretto legame esistente tra la fine del presupposto aristocratico e l’introduzione su vasta scala del professionismo spiega l’interesse che la ricerca sociologica ha manifestato per il problema dell’estrazione sociale degli ufficiali. La curiosità con cui le origini familiari dell’élite militare sono guardate è infatti tanto più acuta quanto più si tende a mettere in primo piano i meriti reali degli individui. A parte le osservazioni sulle categorie sociali di origine, altre ne sono rivolte alla provenienza geografica degli ufficiali, al fatto che le loro famiglie abbiano origini urbane o rurali e ad altri fattori consimili. Nell’insieme queste problematiche tendono a stabilire quali siano gli strati sociali dei professionisti delle armi, esplorandone una serie di aspetti significativi. Se l’estrazione sociale è rilevante come presupposto fondamentale della professionalità militare nei suoi termini moderni, lo è anche come fattore che può ispirare le ragioni della scelta di tale professione. 5.2. Scelta militare e problemi del reclutamento –

La scelta della carriera militare dà luogo a problemi di motivazione. Perchè una persona sceglie tale carriera? Questa domanda non rappresenta solo una introduzione allo studio della professione militare, ma anche un importante punto di riferimento per l’interpretazione dei comportamenti successivi e dei valori accomunanti. Al tema generale della motivazione, nel quale per amore di scienza si tralascia ogni argomentazione circa le pulsioni occupazionali e “ventisettiste”, si affianca quello riguardante le “qualità personali” che possono orientare la scelta, le quali hanno a che vedere con i valori professionali e pertanto acquistano importanza nella carriera. Sul piano oggettivo, le qualità incidono sui processi di selezione e sul vasto tema delle attitudini e degli atteggiamenti psicologici e

30 S. HUNTINGTON, op. cit., cap I, p. 21.

19

morali nei riguardi dei vari impieghi. La tematica della motivazione è collegata da un lato a quella delle origini sociali, dall’altro ai problemi del reclutamento. Il passaggio ad una professione che si libera da origini sociali qualificate, ha ampiamente modificato e arricchito la gamma delle possibili motivazioni. Questo fatto può essere meglio compreso alla luce dei modelli di élite militare proposti. Alcuni autori individuano un modello “pre-burocratico”, nel quale la base del reclutamento è ascrittiva, tradizionalista e affettiva; un modello “burocratico”, caratterizzato dall’allargamento delle basi del reclutamento e dalla comparsa del desiderio di autorealizzazione e di successo; un terzo modello, definito “post-burocratico”, in cui il reclutamento è essenzialmente basato su abilità organizzative amministrative che le valorizzano. E’ intuitivo che l’arco delle motivazioni è destinato ad adeguarsi ai cambiamenti impliciti a questa evoluzione. La natura affettiva e tradizionalista delle motivazioni dominanti in una situazione aristocratico-feudale tende a divenire razionale e legata a fattori che favoriscano la carriera nell’organizzazione militare in uno stato di cose ove domina il professionismo. In tale ultima condizione, il problema della motivazione, lungi dall’essere risolvibile ricorrendo a qualche postulazione di principio, rimanda piuttosto all’analisi fattuale, la sola che può individuare la concreta realtà (e varietà) delle spinte che determinano i futuri professionisti a intraprendere la carriera militare. I problemi del reclutamento dei militari di truppa appaiono direttamente collegati a questa tematica. Particolarmente nei contesti in cui il reclutamento non è obbligatorio bensì volontario (come lo è, oramai, l’Italia). Se la leva determinava una serie di problemi di natura attitudinale, sociale, economica e organizzativa, il servizio volontario produce rilevanti questioni, il cui epicentro pare essere l’attitudine di questo sistema a garantire la disponibilità umana necessaria per i complessi e differenziati compiti delle Forze Armate. Il tema generale del volontariato ha stimolato numerosi studi; altri sono rivolti alla composizione sociale delle forze formate col criterio del volontariato e alle motivazioni che inducono gli individui a farne parte, con particolare riguardo a quelle economiche. Nella problematica generale del volontariato si iscrive anche la questione della presenza e del ruolo della donna nelle Forze Armate; essa assume d’altronde una rilevanza generale negli eserciti moderni. L’ingresso dl personale femminile nei ruoli professionali militari rende infatti desueta l’antica preclusione alle donne determinata dall’idea che il mestiere delle armi presupponga caratteristiche fisiopsichiche esclusivamente maschili. I contributi sociologici recati a questo aspetto riguardano in via primaria l’utilizzazione delle donne in ruoli militari ad esse confacenti, e in secondo luogo le conseguenze che il fenomeno può determinare in termini di efficienza funzionale.

5.3. Educazione e training: le accademie militari –

20

I termini sono spesso usati per indicare i medesimi fenomeni. Tuttavia, in senso proprio il termine training designa l’istruzione orientata a una particolare specialità e rivolta a sviluppare un’abilità tecnica. Esso può riguardare l’individuo, unità organizzate o gruppi di vasta portata. L’educazione, d’altra parte, designa l’istruzione o lo studio individuale compiuti con lo scopo di sviluppare l’intelletto e di formare la saggezza e la capacità di giudizio. Essa prepara un uomo a regolarsi nelle situazioni non conosciute, In genere è conferita in scuole che distribuiscono un’istruzione generale e senza riguardo all’assegnazione dell’allievo ad una particolare funzione. Il training ha di mira determinate mansioni; l’educazione va oltre il futuro impiego e, nel caso del militare, cerca di prepararlo per l’intera durata del servizio, incluse le massime responsabilità che gli possono essere conferite. Nel loro insieme, l’educazione e il training formano gli elementi sostanziali del processo di professionalizzazione degli ufficiali, ma anche dei sottufficiali e della truppa. Anche a livello militare si riscontra infatti ad un certo momento il passaggio a forme culturalmente qualificate di attività, appunto grazie a quei fondamentali strumenti. L’inizio di tale processo è in pratica coevo con la comparsa di un sistema di scuole militari in grado di dispensare lo specifico professionale e la “pratica”, secondo criteri, metodi e materie che, dal XIX secolo, fino ad oggi subiscono continui adeguamenti alle esigenze funzionali degli eserciti. L’evoluzione del fenomeno professionale militare va di pari passo con le trasformazioni dello sfondo culturale del gruppo degli ufficiali, sulla base di determinati tipi di educazione-training fissati dalle scuole militari in coerenza con i caratteri dei vari contesti nazionali. Vi può essere discussione sull’epoca in cui tale evoluzione prende realmente avvio nei vari paesi. In alcuni casi può essere arretrata rispetto al tempo in cui la si fa generalmente risalire. Di regola tuttavia si ritiene che essa veda i suoi effettivi albori, contemporaneamente alla fondazione delle prime accademie militari in Europa, nel secolo XVIII e il suo consolidamento e sviluppo in quello successivo. E’ naturale pertanto che, con le problematiche inerenti all’educazione e al training, abbiano stretta relazione gli studi sulle accademie e sulle scuole di specializzazione, le quali si configurano come vere e proprie agenzie di socializzazione militare e di distribuzione del sapere specifico, in stretto rapporto con i fattori culturali, tecnologici ed organizzativi che caratterizzano i diversi periodi storici, oltre che come centri di formazione dell’élite militare alla quale forniscono i prerequisiti di base. Per tali ragioni, le accademie possono essere definite come un equivalente militare delle università. Tuttavia, le attività di training militare hanno caratteristiche distinte rispetto a quelle civili; esse sono prevalentemente rivolte alle armi e ad altri fattori strumentali a tale aspetto più che a fattori personali. Questi caratteri non paiono però così assoluti da erigere una sicura barriera distintiva tra le accademie e università. Non è solo la generale tendenza dell’assetto militare ad assomigliare a quello civile che determina una forte similarità tra le due

21

istituzioni: gli stessi presupposti funzionali, riguardanti in entrambi i casi la formazione di professionisti, sembrano porsi in favore di quest’ultima. Le accademie, le scuole di specializzazione ecc., rientrano nella complessa organizzazione militare; il che è quanto dire che le Forze Armate formano i propri quadri senza ricorrere, in linea di massima, a istituzioni culturali esterne. Le accademie sono centri di istruzione dove lo specifico professionale viene trasmesso secondo il generale principio dell’insegnamento di corpi astratti di teoria applicabili alla pratica professionale che vige anche nell’ambito universitario. Le accademie e le altre scuole professionali militari sono oggetto d’un interesse sociologico specifico. L’analisi parallela di queste, quindi, appare in larga misura inevitabile.

5.4. Abilità specifica militare –

Il settore che riguarda l’abilità specifica militare viene generalmente ricompreso dalla letteratura sociologica anglosassone nella espressione “military expertise”. Il suo fulcro concerne la natura delle abilità dei professionisti militari. Le prime formulazioni dei suoi contenuti si riferiscono all’abilità nell’uso della forza. Avendo presente l’esigenza di adattarlo ad un’epoca in cui l’uso della forza assume funzioni deterrenti oltre che di impiego diretto, Jordan definisce l’expertise militare come “l’amministrazione e l’applicazione delle risorse militari in ruoli di deterrenza, salvaguardia della pace e combattimento, nel

contesto di un rapido cambiamento tecnologico, politico, sociale”.31 In aderenza a tale definizione, Jordan ne ipotizza l’estrinsecazione in ruoli rivolti: a) a definire la natura di compiti concernenti la sicurezza nazionale, con particolare riguardo alla dimensione politico-militare di questi ultimi; b) ad applicare la conoscenza scientifica e tecnologica di materie militari; c) a preparare, a rifornire, spiegare, e, se necessario, impiegare, la capacità di combattimento delle unità militari in condizioni ambientali di cambiamento politico militare e tecnologico. La progressiva estensione delle funzioni militari a campi un tempo considerati civili ha stimolato lo sforzo di aggiornare il concetto di abilità specifica militare secondo le esigenze imposte da tale situazione. Alcuni autori si chiedono quali aspetti di qualificazione professionale siano richiesti agli ufficiali degli eserciti contemporanei e ne individuano tre: il primo corrisponde a compiti che richiedono conoscenze e in genere abilità specificamente proprie alla professione militare; il secondo a mansioni di natura amministrativa; il terzo ad attività formanti una categoria a sé stante, giacchè devono rispondere sia alle esigenze militari in senso stretto sia a responsabilità di direzione e di amministrazione. Procedendo lungo

31 F. JORDAN, “l’educazione dell’esercito”.

22

una linea teorica, essi mettono in evidenza come l’espansione delle funzioni militari verso settori civili produca un’estensione indefinita dell’expertise militare e la corrispondente impossibilità di limitarne rigorosamente i confini. D’altronde, la concezione “pluralistica” della professione militare, estende il concetto di expertise fino ad includervi una larga varietà di abilità e di compiti che comprendano non soltanto quelli tradizionali, riguardanti la leadership in combattimento, ma molti altri di tipo tecnico e manageriale, in pratica tutti quelli che sono richiesti dalla necessità di sostenere la politica dello Stato. In concreto quest’ultima necessità dilata il campo dell’expertise militare. Il problema di come definirne i limiti diviene pertanto arduo; con la conseguenza che gli studi devono prodursi in un continuo sforzo di adattamento. I modelli con cui cercano di sintetizzarne i contenuti sono sottoposti ad una sfida costante, e i ruoli che la incorporano tendono a moltiplicarsi. Tale fenomeno suscita esigenze di coordinamento e di interscambio con le competenze civili, che in futuro dovranno essere più accuratamente affrontate per evitare sovrapposizioni e dispersioni di attività.

5.5. Carriera e soddisfazione -

Esaminando i punti di passaggio cruciali della vita di un militare, è possibile comprendere le esperienze che modellarono le sue chances e regolarono le sue opportunità di ascesa, sentendo che la popolazione civile non è in grado di comprendere il complicato meccanismo di educazione, selezione e promozione. La determinazione di tali momenti, o fasi decisive, forma un tema obbligato del settore della sociologia della professione militare che riguarda la carriera. Quest’ultima, comunque, nella forma assunta nei sistemi avanzati, appare come una progressione di esperienze educative, come studente e come insegnante, frammiste a incarichi operativi e militari. Contrariamente alla dose concentrata di educazione professionale che si riscontra nelle scuole mediche o legali, un ufficiale, progredendo nella gerarchia, è mandato in varie scuole, a intervalli, per acquisirvi nuove abilità, ulteriori specializzazioni e nuove prospettive; ci si riferisce ai corsi di aggiornamento professionale ma soprattutto alle specialità di ardimento e alle scuole di guerra. In linea concreta, quanto più si intensifica nelle Forze Armate l’esigenza di professionalità, tanto più il superamento delle difficoltà presentate da queste scuole diviene condizione basilare per l’avanzamento nella carriera. Questo stretto legame tra esperienze educative e carriera si configura nella professione militare come un criterio di selezione uniforme e in larga misura rigido. Ciò crea una importante differenza rispetto alla maggior parte delle altre professioni che possono essere esercitate senza controlli e valutazioni scolastiche successive al

23

primo riconoscimento accademico, benché ulteriori studi e prove siano sempre più frequenti anche in esse come condizione per accedere a posti di responsabilità. Il processo di selezione trova la sua prima applicazione a livello di accademie, e viene confermato nelle successive scuole militari: la formazione dell’élite militare pertanto determinata in alto grado da queste istituzioni, lungo le quali passano le generazioni degli ufficiali, i cui membri mantengono, durante l’ascesa verso i ranghi più elevati, relazioni e contatti che hanno origine nell’ambito scolastico. L’incremento del sapere specifico richiesto agli ufficiali ha fatto crescere l’importanza delle “valutazioni scolastiche”, pur senza elidere quelle di altro genere. L’ampiezza e la varietà delle materie insegnate nelle scuole militari contribuisce a fondare giudizi complessi, in cui anche attitudini politiche possono entrare in gioco come riflesso dell’allargamento dei compiti al di là delle funzioni puramente tecniche. D’altro canto, l’aspetto conoscitivo tende a diventare un elemento rilevante nelle strategie di carriera delineate dagli ufficiali desiderosi di salire. La tematica della soddisfazione è legata a quella della carriera. Benché la soddisfazione non dipenda unicamente da quest’ultima, il grado raggiunto nella scala gerarchica vi gioca un ruolo rilevante in quanto riflette l’identificazione dei militari con l’istituzione ed il loro successo professionale. I motivi di soddisfazione e/o insoddisfazione sono legati a gratificazioni e/o delusioni che vengono delineandosi durante la permanenza dell’ufficiale nell’organizzazione militare. L’identificazione sociologica delle une e delle altre forma un campo d’indagine che rispecchia, oltre alla situazione individuale, anche il grado di competenza strutturale dell’organizzazione militare, e, pertanto, le sue potenzialità di efficienza.

5.6. Leadership militare –

La professione militare si pone in evidente relazione con il problema della leadership dato che gli ufficiali sono in larga misura dei leaders. Generalmente si ritiene che, nel concetto generale di leadership militare, siano assommabili almeno tre elementi: il comando, la leadership propriamente detta, e il management. Tali termini sono spesso usati come sinonimi, ma si riferiscono in senso proprio a fenomeni differenti. 1) Il comando corrisponde all’autorità legale che un superiore detiene nei riguardi di un inferiore a causa del suo grado e/o ufficio: si tratta pertanto di una caratteristica formale che ha il suo fondamento nelle leggi di un determinato contesto. Espressione dell’attribuzione dell’alto comando, ad esempio, è il potere di bando (riconosciuto al comandate supremo, al comandante di grandi unità ed al comandante di piazza forte), cui è riconosciuta forza o valore di legge, anche in materia extra penale.

24

2) La leadership concerne i processi interpersonali che si producono nei gruppi, mediante i quali alcuni individui sostengono o dirigono il gruppo nello sforzo di realizzare le mete che esso si pone: tali processi sono caratterizzati da partecipazione da parte del leader e da legami affettivi (del tipo rispetto e lealtà) e intellettivi tra quest’ultimo e coloro che lo seguono. La leadership, in senso formale, va intesa come ogni comunicazione o altre forme di comportamento che provocano tra i pari ed i subordinati comportamenti volontari che sono consoni all’intento del leader e congrui con tutti gli scopi dell’organizzazione e che altrimenti non si manifesterebbero. In questo senso, la leadership è concetto ampiamente utilizzato dalla scuola dell’organizzazione del lavoro nota come “scuola delle relazioni umane”, e dai suoi sviluppi teorico-pratici. Studi sociologici hanno individuato quattro principali variabili che influiscono sulla leadership: a) le caratteristiche del capo; b) gli atteggiamenti, i bisogni e le altre caratteristiche personali dei sottoposti; c) le caratteristiche dell’organizzazione; d) l’ambiente sociale, economico e politico. Le particolari doti necessarie per svolgere bene le funzioni di capo variano in funzione di altri fattori. La leadership non è una proprietà dell’individuo, ma una complessa relazione tra queste variabili. Si sottolinea qui l’aspetto relazionale tra il capo e i subordinati, in vista della realizzazione di scopi come caratteristica essenziale della leadership. 3) Il management può essere invece definito come la razionalizzazione dei comportamenti e dell’uso delle risorse, la cui motivazione è la massimizzazione del profitto e/o del risultato di un’azione collettiva. In concreto, il concetto di management è strettamente legato a quello di efficienza, cioè alla capacità di realizzare gli scopi attraverso la migliore utilizzazione del compendio umano e materiale disponibile. Questa distinzione teorica del management rispetto alla leadership non determina sempre una distinzione pratica netta e sicura. Per quanto concerne la sociologia militare, essa è tuttavia diventata rilevante in seguito alla evoluzione normativa della materia ed alla progressiva utilizzazione da parte degli eserciti di sofisticate tecnologie e di forme organizzative di nuovo tipo. Il nuovo quadro normativo delle Forze Armate, nella sua evoluzione, accanto alle qualità più strettamente “da combattenti” ha esaltato quelle tese alla ottimizzazione delle risorse, con l’istituzione di corpi di commissariato. Il manager, quindi, è posto accanto al capo carismatico come figura centrale delle Forze Armate odierne; e i caratteri propri di questa figura di capo, basati su organizzazione dei comportamenti, impersonalità, enfasi sulle tecniche manageriali più che sui fattori emotivi, sono ben distinti da quelli generalmente attribuiti al leader. Le accennate distinzioni concettuali accrescono l’esigenza di stabilire i criteri di individuazione degli attributi del leader militare e, in secondo luogo, di determinare quelli più coerenti con le sue funzioni attuali. Uno sviluppo tecnologico particolarmente elevato esaspera questa necessità. Si può dire inoltre che la continua esigenza di risolvere problemi di natura tecnico-organizzativa dia luogo ad una difficile simbiosi tra funzioni di leadership in senso proprio e

25

funzioni tecniche. Sembra tuttavia arbitrario considerare superati tout-court le soggettività del leader, che attribuiscono a questa figura una serie di tratti personali, quali intelligenza, maturità, attitudine al controllo emotivo, capacità nei rapporti umani, chiarezza delle motivazioni rispetto agli scopi, ecc., oppure una particolare capacità all’azione atta a trascinare i subordinati o, ancora, una abilità eccezionale nei vari aspetti del comportamento di ruolo. La realtà attuale rende la ricerca sul campo indispensabile per definire la figura del leader a livello dei vari contesti militari, e per precisarne i contenuti con riferimento alle componenti sopra indicate e alla loro rispettiva integrazione.

5.7. L’élite militare –

Il gruppo militare tende a strutturarsi secondo una logica di organizzazione interna simile a quella di un qualsiasi gruppo professionale del XXI secolo. Il fatto che al gruppo professionale militare sia riservata una funzione essenziale qual’è la difesa della Patria, oltre ad altre funzioni di rilevante momento, fa sì che questa fenomenologia si manifesti nel suo caso in termini particolarmente evidenti. Essa coinvolge infatti decisioni economiche, strategiche, di politica internazionale ecc., nelle quali l’intervento dei militari è inevitabile. I fattori inerenti si possono considerare come specificazioni del rapporto tra militari e civili; ma sfociando nella formazione di élites militari professionali, assumono un’autonomia teorica che richiede una trattazione a sé stante. Si parla di questo assetto quando l’élite militare assume, a causa di prolungate tensioni internazionali che obbligano un paese a strategie di difesa continuative e di largo impegno, una posizione di crescente rilievo rispetto alla società civile, tale da facilitare la nascita di coalizioni tra i militari e gli esponenti politici ed economici di questa, in vista del potenziamento militare. Negli Usa, questo rilievo sembra aver caratterizzato l’epoca della seconda guerra mondiale, ma le successive crisi internazionali dovute al confronto Usa-Urss hanno prolungato i suoi effetti al periodo successivo. Numerosi autori hanno studiato questo fenomeno, e gli alti ufficiali vengono considerati esponenti di primo piano di un élite ramificata nei vertici dello Stato-apparato. Questa linea interpretativa viene specificandosi negli anni ‘60 nel concetto di “complesso militare-industriale”, del quale numerosi autori si servono per indicare l’esistenza di una cooperazione di vasta portata, destinata a influenzare le grandi decisioni collettive, tra militari e capi dell’industria (anche quella non bellica). Siffatta convergenza genererebbe un assetto, definibile come Warfare State, ovvero come “società armata”, “cultura delle armi” ecc., sostanziali sinonimi della prima definizione, espressione del fatto che l’élite professionale militare arriva a far aderire l’intera società a decisioni centrate sull’incremento della potenza militare. Questo è ciò che avviene oggi, ad

26

esempio, negli USA; basta ricordare le discussioni ed i cortei precedenti la guerra in Iraq. Tale fenomeno suscita particolari difficoltà tecnico-pratiche di analisi, nei contesti in cui la tendenza dei militari a intervenire nelle decisioni politiche è controbilanciata dalla volontà dei civili di salvaguardare le proprie aree di potere; esso appare invece connotato da maggiore ovvietà dove ciò accade o accade in forma poco significativa, come in molti paesi in via di sviluppo. Nel primo caso, che sostanzialmente avviene nelle società occidentali, l’effettivo peso dell’élite militare è di difficile determinazione. Il forte corporativismo dei militari, che Huntington individua come uno degli attributi fondamentali del professionismo militare, può essere a questo effetto un indice di particolare importanza, giacché esso determina la coagulazione delle loro forze, e pertanto un maggior grado di incidenza nei rapporti con la società civile; ma, in linea generale, la determinazione dei caratteri dell’élite militare in situazioni complesse come quelle proprie delle democrazie occidentali, consiglia alla ricerca empirica di prendere in esame un ulteriore ventaglio di fattori, tra cui soprattutto: a) le caratteristiche sociologiche del gruppo militare (estrazione sociale, censo, prestigio); b) i compiti funzionali che gli sono riconosciuti e che esso si ascrive; c) i rapporti che il gruppo mantiene con le istituzioni civili dello Stato; d) il grado di identificazione o dissenso che il gruppo presenta rispetto alle forme costituzionali di questo; e) i termini dell’ideologia politica di gruppo. Questo insieme di fattori può offrire una risposta relativamente valida alle problematiche sollevate dalla presenza dell’élite militare, e ovviare alla tendenza, molto diffusa, a proporre sintesi esplicative non avallate dai fatti. Le forme d’intervento dell’élite militare assumono una diversa natura, e presentano di conseguenza problemi d’altro tipo, nei paesi extra-occidentali. Dopo la seconda guerra mondiale esse hanno dato frequentemente luogo al “pretorianesimo”, situazione nella quale gli ufficiali sono attori esclusivi o predominanti del processo politico. Emblematiche, in tal senso, sono state le élites militari centro-africane, che per decenni hanno scritto, stravolto e riscritto la storia contemporanea dell’Africa, a partire dall’epoca dell’indipendenza di vari Stati. I principali eventi prodotti da tale stato di cose sono il susseguirsi del fenomeno “colpo di Stato” e, in vari casi, la instaurazione di conclamati regime militari. in relazione ad entrambi questi fenomeni appare rilevante sia l’analisi delle caratteristiche sociologiche del corpo degli ufficiali, sia dei collegamenti di questi con taluni strati della società civile, specialmente le classi medie. Il colpo di Stato, nei contesti post-coloniali, e in generale nel terzo mondo, è venuto assumendo una tale relazione con l’assetto socio-politico dei paesi in cui si determina, da rendere irrealistica ogni sua analisi che non riguardi anche quest’ultimo. In molti ambiti, tanto il colpo di stato quanto l’instaurarsi di un regime militare sono maturati nel quadro dell’esigenza, favorita dalle élites militari, di “modernizzare” i singoli Stati nazionali. Essi si configurano come il frutto della convinzione dei militari di

27

avere la capacità professionale di gestire da soli i processi politico-economici necessari per realizzare la modernizzazione. Questa istanza viene resa concretamente attuabile mediante la creazione o il potenziamento di scuole militari i cui compiti formativi si estendono ai problemi economico-sociali.32 Nordlinger tratteggia un’analisi rilevante dei regimi militari creati in seguito al colpo di stato, mettendone in evidenza il carattere autoritario, la mancanza di competizione e partecipazione, l’elevato controllo su tutti gli ambiti sociali, il processo decisionale (di tipo prevalentemente manageriale) senza politica, come pure i tentativi di ottenere una legittimazione di massa, in alcuni casi tramite partiti politici che sostengono il governo militare o mediante una leadership carismatica (Peron, Nasser, Pinochet, Saddam) del capo supremo. Importante è anche l’esame compiuto da Nordlinger della crisi dei regimi militari e delle principali cause del passaggio a regimi civili, che questo autore sintetizza come segue: 1) i pretoriani sono costretti ad abbandonare il potere a causa di una estesa opposizione civile; 2) i militari in carica sono rovesciati da ufficiali al di fuori del governo che poi passano le redini del potere ai civili; 3) con o senza pressioni considerevoli da parte dei civili o di ufficiali, i governanti pretoriani si disimpegnano volontariamente. Ipotesi quest’ultima più frequente delle prime due e soprattutto motivata dalle inaspettate difficoltà che i militari incontrano come governanti. 6. Ethos militare –

Dopo aver descritto e analizzato come nasce l’esigenza di difesa ed aver osservato la lenta evoluzione delle forze militari, che ha determinato un concetto di “forza armata” unico nella sua essenza e duplice nelle sue manifestazioni, una forza con funzione bellicosa - di protezione esterna - e una funzione miliziaria - di protezione interna - occorre analizzare il carattere, il valore, in una parola l’ethos, che accomuna gli appartenenti a tale forza e li rende non semplici cittadini, ma soggetti dotati di un valore aggiunto, uniti tra loro per cercare di gestire una situazione giuridico-politica essenzialmente diversa da tutte le altre. Una situazione, per dirla con De Lalla, “coessenzialmente includibile nella dimensione etico-giuridica della necessità, proprio per proteggere e tutelare le situazioni

comuni cioè normali della convivenza, ossia quelle che si possono a buon diritto

ricomprendere nella dimensione reciproca della possibilità”.33 Questa forza, in pratica, per proteggere la vita altrui dal pericolo morte/soccombenza, è costretta a correre il rischio della propria.

32 A. NORDLINGER, in “ I nuovi pretoriani. L’intervento dei militari in politica”, Etas, Milano, 1978, cap I, p. 33 e segg. 33 P. DE LALLA, op. cit., cap.II, p. 100.

28

Tale considerazione già di per sé deve far pensare ad una condizione del militare peculiare rispetto a quella del comune cittadino. Infatti, è agevole domandarsi come si potrebbe vivere in modo tranquillo e con condizioni di sopravvivenza certe, se tutto non fosse reso sereno dall’esistenza di una forza simile? La situazione del militare, oramai di quello di carriera, si giustappone a quella del cittadino, nel senso che si aggiungono in capo a tale soggetto oltre agli obblighi della vita civile, anche quelli riguardanti la routine militare che, essendo notevolmente assorbente, in realtà attenua la routine civile del soggetto militare. Si tratta di un carico di comandi supplementare a quello comune e che comporta l’osservanza di valori in qualche modo diversi, valori al cui senso si riferisce implicitamente l’art. 52 co. 1 Cost.: “anche se la Costituzione non enuclea espressamente le funzioni delle Forze Armate, da una parte enuncia il ripudio

della guerra, e dall’altra assegna al cittadino il ‘sacro dovere’ di difendere la

Patria (52 co. 1) e le sue istituzioni democratiche (54 co. 1) al cui esercizio è

strumentale il servizio militare (52 co. 2) anch’esso inquadrato tra i doveri di

fedeltà (54 co. 1) da adempiere – come ogni altra funzione pubblica – con

‘disciplina e onore’ (54 co. 2). Questo complesso normativo costituisce il nucleo

essenziale ed originale della disciplina militare, che acquista valore

costituzionale dalla prospettiva costituzionale dell’art. 52 Cost.”34 Inoltre, dal punto di vista della giurisdizione, a differenza del quivis de populo, tale soggetto è giudicabile non solo per reati comuni, ma anche per reati militari e può essere inoltre destinatario di procedimenti disciplinari di Arma o Corpo, di procedimenti disciplinari ex art. 17 disp. att. c.p.p. e di giudizi contabili; costui, dunque, è destinatario di doppi imperativi penali e plurimi precetti amministrativi. Il soggetto appartenente alle Forze Armate è sottoposto ad un carico di comandi supplementare a quello comune, ed è tenuto all’osservanza di valori in qualche modo “diversi”, ulteriori e peculiari proprio della vita militare. Egli è parte di un sistema; il sistema della necessità (vedi supra), dotato di tutta una serie di valori che sono propri e di esso legittimanti. Tali valori, precipui del militare, si aggiungono a quelli “comuni” e sono ad essi collegati rendendo, quindi, il sistema militare, congiunto al meta-sistema Stato in virtù del principio contenuto nell’art. 261 c.p.m.p., andando oltre la valutazione che di esso viene fatto dalla dottrina. La funzione militare è meglio compresa ponendola in contrapposizione con quella che è la funzione amministrativa, nella quale il rapporto con i capi e con le loro direttive è di subordinazione, mentre quello con i capi militari e con i loro ordini, è di disciplina e subordinazione. Infatti la funzione militare: “ha a che fare con la dimensione “ontologico pratica” della necessità, nel cui concreto non si danno

mai alternative, in cui l’errore è quasi sempre irrimediabile e catastrofico, non

come l’errore amministrativo soggetto a ius corrigendi; in cui un soggetto non

34 G. RICCIO, Ordinamento militare e processo penale, Esi, Napoli, 1983, p. 91.

29

sempre è sostituibile nell’hic et nunc specifico, con un altro, ed il cui capo è un comandante, che è investito senza mezzi termini in un’operazione, della

responsabilità della vita fisica di che sta ai suoi comandi. La funzione esecutiva,

invece, ha a che fare con la dimensione ontologico-pratica della possibilità, che

nel suo caso è di regola vincolata, ex munere, all’opportunità, ossia all’interesse questa volta particolare dello Stato allo stesso modo che in qualche altro munus particolare, la possibilità è pur sempre vincolata ad un qualche interesse. Ma

perciò stesso, in quest’ambito niente è poi realmente indifferibile, nessuno è

insostituibile, ed il capo è il capo di un ufficio, il cui errore può danneggiare,

oltre che lo Stato, sé stesso, il lavoro e persino il nome del subordinato, ma non

certo la sua vita”.35 I valori oggettivi rappresentano l’insieme delle qualitates comportamentali richieste al militare e che costituiscono le “categorie” del suo ethos, essenzialmente lealtà, fedeltà, affidamento, disponibilità, spirito di abnegazione, coraggio, sacrificio, rispetto per la Patria, senso del dovere, spirito di corpo. Una serie di valori inter-rapportuali fortemente soggettivistici, che si rivelano in un certo senso, come valori estrinseci per così dire diretti, funzionali ad un grande valore intrinseco quale lo Stato. L’eticità, infatti, come sostiene anche Preti36 forma un sistema chiuso, nel senso che i suoi istituti, i suoi tabù, le sue norme si motivano gli uni con gli altri. Del resto, tale valore caratterizzante ed accomunante viene ritrovato in tutte le culture ove la professione militare ha rivestito importanza. Basti pensare al codice comportamentale dei cavalieri del medioevo, ai precetti del Bushido cui si sottoponevano tutti i Samurai del Giappone feudale, alla ferrea disciplina a bordo della Royal Navy, la Marina militare inglese, nei secoli XVI e XVII ecc. ecc. La configurazione dell’ethos militare come “disciplina” appartiene quindi alla funzionalizzazione del suo valore estrinseco, elemento indispensabile di attuazione dell’efficienza dell’organizzazione militare. Efficienza estrinseca e strumentale nella visione amministrativa più bassa nei confronti della compagine Stato e della sua organizzazione difesa/ordine. Questo pool di valori appare “caratterizzante” e “superiormente gratificante” perché deve in realtà iper-compensare una disponibilità psicofisica del militare più forte e diversa da quella del cittadino, cioè la disponibilità costante alla necessità e la messa in pericolo della propria/altrui vita fisica. Gli interessi della vita comune sono, infatti, possibili proprio grazie a questi soggetti che corrono il pericolo, che sono pronti alla necessità. Qualche voce fuori dal coro, proprio in base a questa riflessione, oggi si chiede il senso e l’utilità della persistenza di una forza del genere, così legata alla necessità, in un tempo di pace, nel quale l’unico scopo sembra quello volto a raggiungere i

35 P. DE LALLA, op. cit., cap. II, p. 99. 36 G. PRETI, “ Retorica e logica”,Einaudi, Torino, 1968, cap. II, p. 100.

30

propri interessi. Ciò, in uno con una sorta di disgregazione del concetto originario di ethos militare.37 I militari, come detto, sono accomunati da un ethos, da quei richiamati valori oggettivi che legittimano l’intero ordine militare.38 Questo insieme di predicati delinea l’insieme dei valori oggettivi dell’ethos militare tutelati proprio dalla specialità militare. Inoltre, ciò che associa materialmente gli appartenenti al consorzio militare, in generale, è la disponibilità, il coraggio, il sacrificio, la disciplina, la lealtà, la fedeltà, lo sprezzo del pericolo, l’altruismo, l’affidabilità, lo spirito di abnegazione, il rispetto per la Patria, il senso del dovere, lo spirito di corpo, la pragmaticità e, infine, l’uso legittimo delle armi. L’uso delle armi è un altro punto che sottolinea la “diversità\specialità” del militare nei confronti del soggetto che ne fa uso privato. Quest’ultimo, infatti, una volta autorizzato, è tenuto ad utilizzarle solo per scopi particolari (ad esempio per attività di caccia) e in ogni caso per difesa personale o della propria abitazione; al militare, invece, l’utilizzo è consentito oltre che per difesa anche per l’intimidazione e\o l’offesa, in chiave preventiva ma anche repressiva; servono infatti per provocare intimidazioni, lesioni o infine morte; sono lo strumento estremo e decisivo del potere dello Stato. “La necessità” entro la quale si muovono i soggetti di quest’ordine individua una “potenza” non come metafora, ma come qualcosa di tangibile e di disponibile ai singoli ed ai gruppi, che debbono perciò essere inquadrati in una “istituzione super individuale” per non essere soverchiati nell’attualità o tentare nella potenzialità, né come singoli, né ancor meno come gruppi. Infatti, : “tutti i valori più importanti protetti dalle norme incriminatrici servono fra l’altro, seppur ovviamente a negativis, a fissare con la maggior forza possibile il controllo individuale, ma soprattutto

interindividuale tra soggetti siffatti, che proprio in quanto abituati a routines così potenti, così estreme e, in un certo senso, isolate sono esposti più che altri

appunto ai pericoli di paranoidi deliri di potenza. Sono tutti valori senza mezzi

termini, senza le sfaccettature e le gradazioni e soprattutto le commisurazioni,

cioè, degli interessi, perché quando si gestisce la vita pura e semplice i mezzi

termini non hanno alcun senso”. 39

6.1. Lo Shame -

37 (si veda anche infra, p. 61). 38 In dottrina, questa peculiarità, in termini strettamente normativi, è individuata nella nozione di “ordinamento interno” con accentuata tipicità strutturale, in cui il diritto penale speciale funziona come strumento di effettività (G. RICCIO, op. cit., p. 77 e ss.). 39 P. DE LALLA, op. cit., cap.II, p.105.

31

Tutti questi valori, possono essere completati da un’ulteriore accezione - propria del sistema militare - e cioè quella dello shame; non vi è, infatti, uno dei valori penalmente protetti dal sistema penale militare la cui lesione non meriti, prima ancora della sanzione penale del caso, la sanzione etica dello shame, della vergogna cioè nelle sue varie forme, dal disonore all’onta, dalla infamia alla viltà. Il soggetto proprio, l’appartenente al consorzio militare che ha pronunciato un solenne giuramento di lealtà e fedeltà alle istituzioni repubblicane, colui che “ha portato in palmo di mano”, ha condiviso ed ha protetto tutti i valori sopra richiamati, nel momento stesso in cui “diserta, abiura, tradisce, si rende codardo, si appropria di cosa non sua” entra in aggressivo conflitto con il consorzio militare ponendosene al di fuori e, per ciò stesso, merita la reazione della riprovazione. E’ la fuoriuscita ad essere negativamente giudicata, poiché il militare (che si trova per ciò stesso all’interno del consorzio) nel momento stesso in cui viola i valori protetti dall’ethos, con la sua condotta si distacca dal contesto, laddove chi delinque e viola una norma del vivere civile, già si trova al di fuori della società. Il mondo dello shame: “è quello che comporta il controllo interindividuale più forte e ciò non nel senso strumentale-oggettivo della disciplina, che implica un

mondo impari di capi e di subordinati, bensì nel senso intrinseco strumentale

soggettivo dello shame stesso e implica un confronto continuo, pur da gradi diversi della gerarchia, tra soggetti e soggetti per essere all’altezza e dunque non

per non incorrere nella sanzione da parte del superiore de facto, ma per non

“scadere” nella stima del superiore, inteso come pari nello spirito, ma superiore

de iure, perché più meritevole”.40 E’ appena il caso di specificare - tanto per le ovvie e consequenziali deduzioni logiche, quanto per la transizione alla leva professionale- che il concetto di ethos militare non è(era) applicabile al militare di leva. Questi, infatti, per tutta la durata della ferma obbligatoria, non è, in realtà, un soggetto bensì un oggetto dell’ordinamento giuridico, come chiunque sia destinatario di una norma giuridica imperativa di azione. Una conferma, giunge addirittura dal legislatore il quale, all’art. 48, co. 1 n. 2 c.p.m.p., ha previsto un’attenuante comune per il militare che non abbia ancora compiuto 30 giorni di servizio alle armi e che cioè non si sia ancora “ambientato” all’interno del consorzio militare stesso. In sintesi, colui il quale non ha scelto di inserirsi in un particolare contesto, attraverso una precisa volontà ed a fronte di specifiche convinzioni e che, di contro, è stato obbligatoriamente coscritto attraverso la previsione legislativa, non è chiamato a condividere ed a sopportare tutte le caratteristiche (oneri ed onori) derivanti dall’appartenenza al contesto stesso. Ciò, però, non esclude che “l’oggetto” durante la coscrizione obbligatoria condivida i valori dell’ethos militare e sia pronto a diventare soggetto-coscritto, magari manifestando la volontà di restare a fare parte del consorzio militare, al termine del periodo di leva.

40 P. DE LALLA, op. cit., cap. II, pp. 107 e ss.

32

L’ethos militare è, quindi, l’insieme dei valori oggettivi che il militare è tenuto a seguire essendo nella dimensione della “necessità”, utile per una “certa” sopravvivenza della dimensione della “possibilità”.

6.2 Il concetto di ethos quale espressione della specialità militare –

Individuata quindi la natura dell’ethos militare, attraverso l’esame in senso sostanziale dei valori in esso raggruppati, alla luce della modernizzazione del concetto di esigenza di difesa41 – al di là della sua condivisione- nonchè di una certa tendenza alla “derubricazione” in chiave ammninistrativistico-burocratica delle Forze Armate e di Polizia, prima ancora di indagare sul concreto peso che tale valore può determinare all’interno del sistema, è doveroso chiedersi se esso abbia perso vigore ed attualità, in quest’epoca di sostanziale (oltre che formale) cambiamento per la Forza armata. Seppure la difficoltà di occupazione ed il mal celato desiderio di esercitare una piccola sfera di potere siano lo sprone iniziale di molti giovani, al giorno d’oggi, per entrare a far parte delle Forze Armate e di Polizia, diversamente da quanto accadeva per il passato, intenzione che si appalesa a potenziale detrimento del concetto stesso di ethos e di tutti i valori aggiunti in esso contenuti, va di contro sottolineato quanto segue. La scelta professionale, scevra oramai dalla coscrizione, con la preventiva conoscenza ed accettazione, da un lato, dei concreti pericoli di tale professione, della gravosa disciplina, della probabile delocalizzazione lavorativa sul territorio, di uno stipendio non sempre adeguato agli oneri cui si è sottoposti e, dall’altro, dell’inserimento e la contestualizzazione nel consorzio militare, dell’esaltazione ed i riconoscimenti per la funzione sociale esercitata, dell’evoluzione in senso professionale del consorzio stesso, mediante corsi di aggiornamento e settorializzazione delle mansioni, tutti valori che determinano – necessariamente - il formarsi di una omologazione ed un adattamento ad un certo “spirito di corpo”, motivano e correggono l’errata rotta originariamente intrapresa da alcuni, nella scelta di tale professionalità. Oggi l’appartenente al consorzio militare conserva il medesimo rilievo per l’ethos di quanto non facessero i suoi predecessori. Detto questo, resta infine da verificare, nel sistema, la possibile esistenza di un rapporto tra ethos e specialità militare.

41 Si pensi ai corpi di spedizione all’estero, ex art. 9 c.p.m.g.; per il passato, sin dal 1988 (missione nel Golfo Persico) l’applicazione delle norme del c.p.m.g. alle missioni all’estero veniva automaticamente derogata ad opera di uno specifico intervento legislativo. Dopo l’11 Settembre, a partire dalla missione in Afghanistan, si è operata una inversione di tendenza, motivata proprio da una mutazione nel concetto di esigenza di difesa, venendo così meno l’effetto derogatorio all’art. 9 c.p.m.g., essendo espressamente stabilita, da un’apposita e – forse – inutile previsione normativa, l’applicazione della legge di guerra per i corpi di spedizione all’estero.

33

Spostando quindi il discorso su di un piano strettamente sistematico, poiché l’ordinamento militare regola, in via autonoma, una porzione esclusiva del “sociale”, gli elementi specializzanti le fattispecie penali militari, tra i quali spicca chiaramente il concetto di ethos, fanno sì che questa legge prevalga sull’eventuale analoga fattispecie comune. Di conseguenza, il rapporto tra le leggi si concretizza col riferimento all’oggetto esclusivo della legge penale militare in maniera tale che, in assenza della norma particolare e nell’ipotesi in cui il fatto non possa essere rintracciato in altre norme della legge speciale, si ricorre alla legge ed alla giurisdizione ordinaria. Ethos (espressione di quegli ideali propri della militarità e, in quanto tali tutelati dalla specialità militare) e specialità militare (in senso ordinamentale) quindi, da intendersi quali due valori che, nella logica della matematica processuale, vengono a trovarsi in una specifica proporzione – di sistema - :

A : B = C : D - A sta per ethos; - B sta per il suo limite, ovverosia un numerus clausus, poiché è difficile

trovare nei codici penali militari la tutela di valori sostanziali o processuali non riconducibili a qualcuno di valori contenuti nell’ethos, in un sistema chiuso nel quale i suoi istituti, le sue norme ed i suoi regolamenti si giustificano gli uni con gli altri e non possono trascenderne;

- C rappresenta la specialità militare, che nell’ambito dell’ordinamento statale forma un corpo regolamentato secondo norme differenziate, con una propria sfera d’azione al di là della quale una notevole parte degli effetti che vi si producono non si ripercuote, e quindi come propagine del sistema, diretta alla tutela di interessi precipui di una data realtà e, in quanto tale, costituente uno strumento di effettività di tale ordinamento;42

- D sta per il suo limite, ovverosia la Costituzione, laddove l’esclusività dell’interesse protetto dall’ordinamento autorizza una speciale disciplina di situazioni, coperte anche dal diritto ordinario, rivendicando da un lato l’autonomia di specifiche previsioni e costituendone, dall’altro, il limite stesso delle differenti norme, in quanto le deviazioni dal modello comune devono essere pertinenti rispetto al fine, logiche rispetto alle regole comuni e – soprattutto – corrispondenti al quadro costituzionale. L’ethos militare si pone, in definitiva, come espressione di quella specialità della legge penale militare, così aggettivata proprio perché ipotizza una prevalente disciplina di fatti con dati caratteriali peculiari e specifici rispetto alla normativa comune, derivanti dallo specifico oggetto alla cui protezione è diretta, nonché ai soggetti propri cui è destinata, in uno con i valori dei quali questi ultimi sono portatori.43

42 G. RICCIO, op. cit., p. 85. 43 G. RICCIO, op. cit., p. 112 e ss.

34

INDICE

1- Introduzione p. 1

2- Endiadi popolo/territorio p. 2

3- Le casualità nella storia p. 4

4- Esigenza di difesa p. 5

5- La professione militare p. 9

5.1- Estrazione sociale e fattori correlati p. 17

5.2- Scelta militare e problemi del reclutamento p. 18

5.3- Educazione e training: le Accademie militari p. 19

5.4- Abilità specifica militare p. 21

5.5- Carriera e soddisfazione p. 22

5.6- Leadership militare p. 23

5.7- L’élite militare p. 25

6- Ethos militare p. 27

6.1- Lo shame p. 30

6.2 Il concetto di ethos quale espressione della specialità militare p. 32


Recommended