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Il pensiero pre-riflessivo in Merleau-Ponty e M Dufrenne

Date post: 31-Jan-2023
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1

Il pensiero pre-riflessivo in Merleau-Ponty e M.Dufrenne

INDICE Introduzione 2 Prima parte: Merleau-Ponty 6

Capitolo 1 – Un’esperienza vissuta 6 1.1 -La percezione 6 1.2 -L’essere al mondo 8 1.3 -L’espressione 116 1.4 -Il contributo del corpo alla definizione di un livello spaziale 25 1.5 -La condotta motoria dei colori. 32

Capitolo 2 -Un'esperienza allusiva 36 2.1 -Essenza ed esistenza 37 2.2 -Il chiasma 44 2.3 -Merleau-Ponty l'arte 52

2.4 -Conclusioni 65 Seconda Parte: Dufrenne Capitolo 1 – Un’estetica fenomenologica 73

1.1 -Il primato della percezione estetica 73 1.2 -Percezione ed immaginazione: Sartre e Dufrenne 77

1.3 -Prospettive metafisiche 84 Capitolo 2 - Verso una filosofia della natura 90

2.1 -L’A-priori 90 2.2 -Lo stato poetico 100 2.3 -La natura naturante 107 2.4 -Conclusioni 120

Bibliografia 121

2

Introduzione Lo sforzo ermeneutico di questo lavoro è diretto all’esplorazione di

alcuni nuclei di fondo del discorso fenomenologico in Merleau-Ponty

e Mikel Dufrenne, allo scopo di mettere a fuoco una costante struttura-

le, caratteristica in particolare della fenomenologia francese: il riferi-

mento al reale a partire da uno sdoppiamento di referenze – che in

Merleau-ponty prenderà la figura di un vero e proprio chiasma – al

piano della riflessione e a quello dell’irriflesso. Ripercorrerò

l’evoluzione del pensiero di Merleau-Ponty, teso innanzitutto a deco-

struire le pretese di oggettività della metafisica, dapprima attraverso

un’analisi della soggettività vista del suo radicamento in un corpo che

è sempre già mondo, per poi arrivare alla tematizzazione esplicita di

“un’ontologia indiretta”. Più precisamente, partendo dalla Fenomeno-

logia della percezione e dalla “prima riduzione” qui riassunta (“La fe-

nomenologia è una filosofia che pone tra parentesi, per comprenderle,

le affermazioni dell’atteggiamento naturale”), seguirò le analisi di

Merleau-Ponty relative alla percezione, allo spazio e ai colori. Allo

scopo di evidenziare come il suo modo di procedere sia quello di ri-

portare ciò che si sa del mondo, anche tramite la scienza, alla “mia”

esperienza del mondo, tale da configurare due livelli nel rapporto io-

mondo: “Tutto l’universo della scienza è costruito sul mondo vissuto e

se vogliamo pensare la scienza stessa con rigore, valutarne esattamen-

te il senso e la portata, dobbiamo anzitutto risvegliare questa esperien-

za del mondo di cui essa è l’espressione seconda. La scienza non ha e

non avrà mai il medesimo senso d’essere del mondo percepito, sem-

plicemente perché essa ne è una determinazione o una spiegazione.”1

1 M. Merleau- Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945; tr.it. di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, p.17.

3

Al centro di queste analisi funge la nozione di “corpo proprio”, come

quel luogo da cui si dipartono i fili intenzionali della nostra esistenza,

compresa la nostra stessa conoscenza intellettuale, e che impone la ri-

considerazione del concetto di oggetto. Di qui la commistione di natu-

ra e cultura veicolata dal corpo, la cui rilevante portata ontologica

consiste nel ritrovamento del sensibile “come forma universale

dell’essere grezzo”2. A questo punto diventa chiaro anche in quale di-

rezione Merleau-Ponty riprende e interpreta la “seconda riduzione”

husserliana: “Se Husserl si tiene fermo alle evidenze della costituzio-

ne, non è per una follia della coscienza, né perché essa abbia il diritto

di sostituire ciò che per essa è chiaro a dipendenze naturali che sono

constatate, ma perché il campo trascendentale ha cessato di essere sol-

tanto quello dei nostri pensieri per divenire quello dell’intera espe-

rienza, e infine perché Husserl fa assegnamento sulla verità nella qua-

le noi siamo fin dalla nascita e che deve poter contenere la verità della

coscienza e della Natura”3. Alla luce di questo approfondimento si

evidenzia ancor meglio il punto problematico che il presente lavoro di

ricerca vuo portare alla luce e indagare, e cioè lo sdoppiamento insito

nel riferimento al reale: “Le cose sono là, non più, come nella prospet-

tiva del Rinascimento, solamente secondo la loro apparenza proiettiva

e secondo l’esigenza del panorama, bensì erette, insistenti, pronte a

scalfire lo sguardo con i loro spigoli, rivendicanti, ognuna per proprio

conto, una presenza assoluta che è incompossibile con quella delle al-

tre, e che però esse hanno tutte insieme, in virtù di un senso di confi-

gurazione di cui il ‘senso teoretico’ non ci dà idea”4. È a questo punto

che il discorso non può non incrociare, quindi, le analisi di Merleau-

2Merleau-Ponty, Il filosofo e la sua ombra, in Signes, Gallimard, Paris 1960; tr.it. di G.Alfieri, Se-gni, Il Saggiatore, Milano 1967, p.225. 3 Ib.. p.231 4 Ib. p.235

4

Ponty su Proust e Cézanne, per cercare di capire questo “senso di con-

figurazione”, capace di restituire, soprattutto con Cèzanne, al di qua

del livello teoretico o tetico, una dimensione “disumana”. Quella di-

mensione che apre la strada alla riflessione del cosiddetto ‘ultimo’

Merleau-Ponty incentrata sulla nozione di “carne”.

La seconda parte di questo lavoro è dedicata a Mikel Dufrenne. Perché

in questo autore viene portata in primo piano la sfera “estesiologica”

aperta in modo così forte da Merleau-Ponty. Anche se – è bene preci-

sarlo subito, e come l’intera trattazione mette in luce – il discorso di

Dufrenne non ha l’ampiezza e la forza teroretica di quello di Merleau-

Ponty. Cionondimeno la sua figura rientra all’interno dell’arco teorico

qui ripercorso, appunto per aver condotto una riflessione molto serrata

sull’esperienza estetica in quanto tale. Nell’opera significativamente

intitolata Phénoménologie de l’experience esthétique, Dufrenne af-

fronta, in modo sistematico, i temi dell’oggetto estetico e

dell’esperienza del soggetto che lo coglie come tale. Lo sfondo teorico

di questa lunga analisi - che nel corso della ricerca ricostruirò per va-

lutare sia la definizione dell’oggetto, sia quella del soggetto impegnato

nella contemplazione estetica - è l’idea che anche la cultura ha una

sua natura: “Nous disions que la Nature veut l’homme; il faut plutôt

dire: la Nature se veut en l’homme”5. Lungo questa direzione, cerco

quindi di capire come, per Dufrenne, l’opera d’arte realizzi la più au-

tentica esperienza della Natura, in virtù di una “naturalità materiale”

dell’oggetto estetico; e come, nelle pubblicazioni successive alla

Phénoménologie, cominci a profilarasi, nel pensiero di Dufrenne, la

necessità di compiere il salto dal trascendentale all’ontologico. Il di-

scorso si concentra perciò sul concetto di “a-priori”, perché è attorno

ad esso che si sviluppa questa nuova piega della sua riflessione, de- 5 M. Dufrenne, A priori et philosophie de la Nature, cfr. “Filosofia”, supplemento al n° 4, 1967, p. 735.

5

scritta dal filosofo stesso nell’introduzione alla seconda edizione di

Le poétique: “Questi a-priori non orientano né una scienza della natura

né una scienza dell’uomo; se essi orientano una scienza, nella misura

in cui possono formalizzarsi ed offrire così un apparato concettuale, è

l’Estetica, il cui preciso oggetto è qui la decifrazione del linguaggio

tenuto con noi dalla Natura in quanto estetizzata”6. È proprio questa

dimensione estetica a rappresentare il livello sul quale si muove

l’uomo quando non è impegnato nella “conoscenza intellettuale” (sul-

la quale, tuttavia, Dufrenne non si sofferma mai). Si struttura così – ed

è l’ultimo approdo della meditazione del filosofo canadese, e di con-

seguenza l’ultimo aspetto preso in considerazione - una filosofia della

Natura che si rimette al “poetico” per parlare di una “Natura natu-

rans”, intesa come la forza in cui si originano l’io e il mondo. Con es-

sa Dufrenne giustifica non solo l’esperienza estetica, ma ogni tipo di

esperienza e il senso stesso del vivere. In questo modo il filosofo fa

della Natura un’idea limite, perché la tematizzazione dell’a-priori,

come istanza sia soggettiva che oggettiva, “nous installe dans la vérité,

mais nous interdit de penser la vérité de l’ a-priori, la vérité de son état

premier”7. Un’impostazione complessiva dunque, certamente non pri-

va di attrattive.

Prima Parte: Merleau-Ponty

Capitolo 1 – Un’esperienza vissuta

6 La 2ª ed. di Le poétique è preceduta da una nuova introduzione dal titolo "Pour une philosophie non théologique", Paris, Puf 1973; cit. nell’introduzione di D.Formaggio a M.Dufrenne, Le poéti-que, PUF, Paris 1973; tr.it. di Luigia Zilli, Il senso del poetico, Edizioni 4 venti, Urbino 1981, cfr. nota 8, p.7. 7 M. Dufrenne, A priori et philosophie de la Nature, cit., p.730.

6

1.1 La percezione

Il punto di partenza del filosofo francese è lo studio della percezione:

si tratta di esplicitare il rapporto dell’uomo con la natura sensibile, non

per ridurre il sapere al sentire, ma per assistere all’emergere del sape-

re. Una determinazione della percezione è, anzitutto, la tematizzazione

di un complesso di termini ad essa correlati: in primo luogo quello di

sensazione. Se cerco un’esplicitazione di cosa è il sentire, l’accezione

che trovo è quella di uno stato che mi appartiene, con il quale coincido

in maniera tanto puntuale quanto indifferenziata, perché non si fa mai

riferimento a un contenuto qualificato. Ma già gli studi della Gestal-

theorie ci consegnano una definizione del fenomeno percettivo per la

quale il dato più elementare ottenibile è sempre una relazione tra figu-

ra e sfondo. Più in generale, la considerazione di una qualità

dell’oggetto percepito non ci offre mai una precisa corrispondenza per

delimitare una sensazione, ma sempre una situazione che, di fatto,

sconfessa la possibilità del puro sentire. In effetti, se seguissimo la lo-

gica della sensazione pura, dovremmo considerare la percezione di un

insieme come il risultato di un possesso simultaneo di tutte le sensa-

zioni che è capace di produrre. Il che attesterebbe, da parte del sogget-

to, la capacità di cogliere le relazioni tra le singole unità oltre che le

loro qualità. Senonché, le relazioni precederebbero la costituzione

dell’insieme in quanto ne sarebbero la condizione. Merleau Ponty for-

nisce questa controprova: se così fosse, egli dice, camminando su una

spiaggia verso una nave arenata, io dovrei essere in grado di percepire

una certa successione di somiglianze, che poi riunirei in un disegno

continuo, in modo che la foresta che fa da sfondo alla nave verrebbe a

saldarsi con l’alberatura di quest’ultima. In realtà, solo a cose fatte ri-

conosco una certa contiguità degli stimoli; prima della percezione io

non avevo queste determinazioni specifiche con cui compare una cor-

7

retta percezione, avevo solo “domande latenti nel paesaggio”8. Secon-

do Merleau- Ponty, una concezione “intellettualistica” (espressione ri-

ferita alla cosiddetta tradizione razionalista) non riesce a cogliere il

fenomeno percettivo allo stato nascente. A causa della priorità

dell’elemento interpretativo introdotto per rendere ragione di tutti quei

fenomeni in cui la percezione eccede l’immagine retinica, Merleau-

Ponty ha buon gioco nel mostrare invece che, se si assume il giudizio

come fattore determinante della percezione, si cade in contraddizione

quando si deve discernere la specificità della percezione vera da quella

falsa. Ammettendo un mondo che agisce sui nostri occhi, si considere-

rà il giudizio corretto quello dell’uomo sano che si pronuncia su un

complesso di segni dotati di una certa configurazione. Ma anche

l’illusione (che è un caso di giudizio errato) è una percezione concor-

dante di rapporti. Tant’è che la forma del giudizio, in entrambi i casi,

non cambia. Il fatto è che il soggetto non è sollecitato da una serie di

impressioni isolate; piuttosto il soggetto coglie una sintassi percettiva

e il giudizio non è altro che il risultato di questa operazione profonda.

L’anteriorità delle sensazioni parcellizzate e poi ricomposte dal giudi-

zio è una costruzione dello spirito. Quest’ultima osservazione è uno

dei risultati più importanti che M. Ponty attribuisce ai teorici della Ge-

stalt: il loro merito è di aver mostrato come leggere quelle situazioni

in cui la percezione di oggetti interposti tra gli occhi e una determinata

meta visiva fa variare la valutazione della distanza coperta dagli occhi.

Da un punto di vista sperimentale hanno introdotto un approccio rivol-

to a esibire le linee di forza che concorrono a strutturare un campo vi-

sivo, in quanto regione del sistema corpo proprio-mondo. Contempo-

raneamente, Merleau-Ponty non manca di sottolineare come certe loro

analisi non siano all’altezza della sistemazione teorica dei risultati

8 M. Merleau- Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p.52.

8

raggiunti, poiché non hanno avvertito la necessità di un rinnovamento

delle categorie concettuali utilizzate. Cosicché, se la disparazione del-

le immagini retiniche non è affatto una ragione che può dimostrare la

diversa percezione della distanza, hanno finito con il reintrodurre ciò

che la tradizione filosofica suggeriva come alternativa, ovvero la rela-

zione causale. Per questo motivo, conclude Merleau-Ponty, la critica

dell’intellettualismo operata dalla Gestaltheorie ci riporta sulle sponde

del realismo. Solo una riduzione fenomenologica avrebbe permesso ai

vari Koffka e Koehler di scorgere invece nel concetto fenomenologico

di “motivazione” l’elemento in grado di connettere due fenomeni, non

per un effetto oggettivo dell’uno sull’altro, ma in virtù di un senso che

attraversa i fenomeni senza che siano determinabili specifici rapporti

causali.

1.2 L’essere al mondo

Abbiamo così una primissima indicazione di una dimensione non

coincidente con il mondo oggettivo. Attraverso il concetto di “motiva-

zione”, infatti, la riflessione è condotta in direzione del mondo vissu-

to. Ma Merleau-Ponty si affretta a precisare subito la sua estraneità ri-

spetto alla ricerca dei “dati immediati” della coscienza, cioè

l’introspezione e la percezione interiore, dove la conoscenza si otter-

rebbe per “coincidenza” con l’oggetto. Due sono infatti le difficoltà

cui va incontro tale approccio teorico. Da un lato, la comunicazione di

questo tipo di esperienza è tanto nebulosa quanto lo è la definizione

dell’esperienza stessa, perché si deve presupporre un’analoga e miste-

riosa intuizione filosofica in tutti gli uomini. Dall’altro, da un punto di

vista metodologico, individuare la zona di coscienza in cui i concetti

fisici non valgono diventa una soluzione puramente nominale, se la

descrizione dei dati di coscienza avviene all’interno delle stesse cate-

9

gorie utilizzate dalle scienze oggettive, con l’unica differenza che dai

fatti fisici si passa ai fatti psichici.

Questi sarebbero i limiti di una psicologia introspettiva, a cui Mer-

leau-Ponty contrappone la necessità, ripresa da Husserl, di

un’impostazione fenomenologica con le sue costitutive riduzioni. Se,

però, Husserl oscilla tra un Ego cogito – che non ha un significato lo-

gicista, perché viene a rappresentare “quella terza dimensione” in cui

la distinzione tra soggettivo e oggettivo diventa problematica, in virtù

dell’originaria correlazione tra l’io concreto e il mondo – e un ideali-

smo – che tenta di riassorbire la realtà in una rete di essenze eterne -,

Merleau-Ponty non smette di richiamarsi alla vita come “effettività del

senso”. Il filosofo francese mette in discussione la co- appartenenza di

a-priori e universale presupposta dalla nozione trascendentale e feno-

menologica dell’empiria. Infatti, rivendica la non assimilazione dell’a-

priori a una forma ordinatrice universale, da cui il dato empirico origi-

nario verrebbe strutturato. Se la Gestalt “è l’apparizione stessa del

mondo e non la sua condizione di possibilità”9, è perché la sua apriori-

tà indica che l’unità dell’esperienza vissuta non è una costruzione se-

gnata da una linearità, ma un rapporto originario con le cose, in cui,

per parafrasare Heidegger, la forma è il mantenersi di qualche cosa

nella comprensibilità. In questa modalità non tematica, si rivela il rap-

porto puntuale del soggetto con il mondo, l’impossibilità di ricostruir-

lo pezzo per pezzo – e solo in quanto tale il rapporto è “a-priori”10.

Merleau-Ponty riconosce così alla fenomenologia il merito di aver in-

trodotto - ma solo introdotto - la nozione di “campo trascendentale”,

9 Ib., p.52. 10 Pertanto, l’unità dell’esperienza non è neppure ricostruibile a posteriori: “ridotto a ciò che ha d’incontestabile, l’a- priori è ciò che non può essere concepito parte per parte, e deve essere pensa-to d’un sol colpo come un’essenza indecomponibile, mentre all’opposto l’a-posteriori designa ciò che si può costruire davanti al pensiero pezzo per pezzo e mediante una composizione di parti l’un l’altra esterna”; (Merleau-Ponty, La structure du comportement, PUF., Paris 1942; tr.it. di G.D. Neri , La struttura del comportamento, Bompiani, Milano 1963, p.200).

10

volendo significare la partecipazione della ragione alla fatticità

dell’irriflesso o, in altri termini, il fatto che la riflessione non dispone

mai del dispiegamento totale del mondo.

Eppure, la nostra conoscenza non fa che dispiegare degli in sé, nel

senso che la posizione dell’oggetto è sempre la costituzione di un og-

getto assoluto, che eccede il limite della mia esperienza effettiva, in

cui il mio sguardo non può porre se non una faccia dell’oggetto, inten-

zionando tutte le altre in virtù del complesso di orizzonti caratteristici

di ogni percezione. Ma, appunto, la sintesi è solo presuntiva. Come

procede allora Merleau-Ponty per rendere ragione di questa deriva og-

gettivante? Il suo punto di partenza sono le analisi condotte da Husserl

in Ideen II, in particolare in quei paragrafi, da noi richiamati nella

prima parte, in cui la configurazione delle cose materiali, cioè delle

cose in quanto sensibili, è indisgiungibile dalla sensorialità del corpo

proprio, ovvero dalla costituzione del mio stesso “corpo proprio” este-

tico. Una volta assunto questo rapporto di dipendenza tra corpo e

mondo materiale, Merleau-Ponty non ha difficoltà a penetrare quel

processo per cui “rimuovo la coscienza che avevo del mio sguardo

come mezzo di conoscenza, tratto i miei occhi come frammento di

materia. Da questo momento essi prendono posto nel medesimo spa-

zio oggettivo in cui cerco di situare l’oggetto esterno”11. Solo così,

continua, potremo scoprire in che misura il corpo proprio si sottrae al-

la riduzione obiettivante, e poiché ad esso è legata la genesi

dell’oggetto, noi ritroveremo a questo livello pre-oggettuale tanto il

soggetto percipiente quanto il mondo percepito.

L’obiettivo del filosofo è di svelare un’area esistenziale come dimen-

sione originaria e fondante un complesso di fili intenzionali costitutivi

del nostro essere al mondo; e lo fa attraverso il costante riferimento al-

11 M. Merleau- Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p.117.

11

la letteratura psicologica. Prendiamo per es., seguendo le analisi nella

Fenomenologia della percezione, l’esperienza dell’arto fantasma e

dell’anosognosia. Che un militare senta ancora nella gamba le schegge

che invece gli hanno distrutto l’arto reale, appare suscettibile di una

spiegazione psicologica; d’altra parte la situazione ha anche una com-

ponente fisiologica, perché rimossi i conduttori sensitivi che arrivano

all’encefalo, l’arto fantasma sparisce. Se ci limitiamo a dire che agi-

scono entrambe le componenti – quella psicologica e quella fisiologi-

ca -, esprimiamo una situazione di fatto, ma non progrediamo molto in

termini di chiarezza. L’arto fantasma ci dice che, da un punto di vista

fisiologico, abbiamo la persistenza di stimolazioni enterocettive e che,

da un punto di vista psicologico, abbiamo una rappresentazione effet-

tiva probabilmente legata a un ricordo. Per contro, nel caso

dell’anosognosia, abbiamo l’assenza di stimolazioni e della rappresen-

tazione di un arto, che invece c’è. Nota Merleau-Ponty che le catego-

rie del pensiero oggettivo non ci offrono nessuna alternativa tra

l’assenza e la presenza. Né una spiegazione fisiologica né una psico-

logica sono di aiuto. Nel primo caso, quello della spiegazione fisiolo-

gica, l’anosognosia sarebbe un vuoto nella rappresentazione di un cor-

po integro, mentre l’arto fantasma va a colmare un vuoto nella rappre-

sentazione di un corpo che, effettivamente, non ha l’arto corrispon-

dente. Nel secondo caso, quello della spiegazione psicologica, l’arto

fantasma è la rappresentazione di una presenza effettiva, legata ad un

ricordo, mentre l’anosognosia è la rappresentazione di un’assenza ef-

fettiva legata ad una dimenticanza.

In questo modo, prosegue, non posso descrivere quel tipo particolare

di sapere grazie al quale l’anosognosico può ignorare una deficienza,

perché sa bene dove rischierebbe di incontrare la sua menomazione;

ugualmente, il nostro militare è in grado di descrivere alcune caratteri-

stiche del suo arto fantasma perché ad un soggetto non occorre una

12

percezione netta di tutte le parti del proprio corpo se sa di averle a di-

sposizione, cioè “gli basta indovinare la gamba fantasma”12. Il filosofo

francese può, quindi, concludere affermando che “la volontà di avere

un corpo sano o il rifiuto del corpo malato non sono formulati per se

stessi, l’esperienza del braccio amputato come presente o del braccio

malato come assente non appartengono all’ordine ‘dell’io penso

che’”.13

In questo contesto viene così introdotta la nozione di “essere al mon-

do” o di veduta pre-oggettiva: “il rifiuto della deficienza è solo il ro-

vescio della nostra inerenza a un mondo, la negazione implicita di

quanto si oppone al movimento naturale che ci getta nei nostri compi-

ti, nelle nostre preoccupazioni”14. E questo è precisamente l’ambito

dischiuso dal concetto di “motivazione”, la cui dinamica non è circo-

scrivibile alla relazione sussistente tra una causa e il suo effetto, bensì

al fatto che un atteggiamento esistenziale ne motiva un altro15.

Che il corpo necessiti di una trattazione eccedente lo statuto di oggetto

del mondo, ce lo rivelano altri caratteri. Prendiamo in esame un aspet-

to del corpo tattile. Con la mano sinistra tocco la mano destra in pro-

cinto di toccare un oggetto. Questa banale esperienza rivela una ric-

chezza superiore alla semplice relazione riferita ai termini impiegati,

poiché la mano destra toccata dalla sinistra non è assimilabile alla ma-

no destra che si accinge a rivelare un oggetto circostante. Il carattere

peculiare di questa situazione è l’istante in cui “indovino l’involucro o

l’incarnazione dell’altra mano destra, agile e vivente, che lancio verso

12 Ib., p.129. 13 Ib., pp.129-130. 14 Ib., p.130. 15 Infatti Merleau-Ponty si chiede, a questo punto, perché mai l’arto fantasma sparisce se vengono recisi i conduttori. La sua risposta chiama in causa proprio la categoria dell’essere al mondo: “nel-la prospettiva dell’essere al mondo questo fatto significa che gli eccitamenti provenienti dal mon-cherino mantengono l’arto amputato nel circuito dell’esistenza.” ib.p.135.

13

gli oggetti per esplorarli”16. Il corpo, cioè, mi dà delle “sensazioni

doppie” e “ciò basterebbe per distinguerlo dagli oggetti di cui posso

certo dire che toccano il mio corpo, ma solo quando esso è inerte, e

quindi senza sorprenderlo mai nella sua funzione esploratrice”17. È

l’analisi del corpo, in altre parole, a far saltare la rigida contrapposi-

zione soggetto-oggetto poiché, nell’analizzare il ‘toccarsi’ del corpo, è

la doppia natura di quest’ultimo ad emergere – contemporaneamente

soggetto e oggetto -. Non solo. Ciò che è in gioco in queste afferma-

zioni del filosofo è un processo di costituzione del corpo nel quale –

se la mano destra sente la sinistra “come una cosa fisica” e

quest’ultima “si mette a sentire la mano destra” – tutto questo può av-

venire solo a partire da una datità imprescindibile, quella per cui ogni

mano agisce sull’altra in virtù di una reciproca correlazione che le

rende indisgiungibili.18

Proviamo a considerare una scena più complessa, per ritrovare la stes-

sa necessità di porre il problema dello statuto del “corpo proprio”. Vi

è una tipologia di malati incapace di svolgere, ad occhi chiusi, azioni

abituali: compiere dei movimenti non finalizzati, individuare parti del

corpo soggette a pressioni per mezzo di oggetto o arti appartenenti a

soggetti circostanti. Eppure, mantenendo gli occhi chiusi, lo stesso

malato compie movimenti concreti purché abituali: soffiarsi il naso,

accendere una sigaretta, ecc… . Come conseguenza, questi malati pre-

sentano grandi difficoltà nell’atto di “mostrare”, a comando, la zona

del corpo interessata da un oggetto esterno, ma sanno dire benissimo

16 Ib., p.144. 17 Ib., pp.144-145. 18 E.Lisciani Petrini nota come in queste pagine di Merleau-Ponty sia già “impercettibilmente cela-to” il superamento dell’impostazione fenomenologica: “il corpo, precisamente attraverso i ‘contat-ti’ con se stesso e col mondo circostante, per un verso è sì ‘appropriato’ a se stesso, ma per un altro resta preso, ‘inglobato’ – dunque in effetti espropriato - in una indissolubile rete esperienziale”. E.Lisciani Petrini, La passione del mondo, ESI, Napoli 2002, p.107. Su questo punto ritorneremo anche nel prossimo capitolo.

14

dove sono stati punti da una zanzara. Inoltre, se gli si dice di indicare

il naso, falliranno, ma poi sono capaci benissimo di soffiarselo

all’occorrenza. Perché tale disparità tra il toccare e il mostrare? Se-

condo Merleau-Ponty, la psicologia classica è incapace di pensare una

coscienza del luogo che non sia esclusivamente rappresentazione o de-

terminazione di una posizione del mondo oggettivo. Invece ciò che

abbiamo appena finito di descrivere è un’intenzione di prensione non

sorretta da nessuna intenzione di conoscenza; il punto del proprio cor-

po interessato dal morso di una zanzara non deve essere cercato e si-

tuato, perché è vissuto così come è vissuto il rapporto istituito senza

esitazioni tra il punto morsicato e la mano giunta lì per procurare sol-

lievo: “non muoviamo mai il nostro corpo oggettivo, ma il nostro cor-

po fenomenico”19. Dire che muoviamo il nostro corpo fenomenico, si-

gnifica dire che la motilità non è soggetta a una coscienza del movi-

mento (che giunge solo dopo e differenziandosi da altre funzioni), ma

concerne una più originale unità intersensoriale col mondo.Come a di-

re che la coscienza si erge attraverso “l’inerire alla cosa tramite il cor-

po”20.

Come ci viene presentata questa categoria dell’inerenza? Se conside-

riamo un caso di aprassia pura, cioè una condizione in cui la nozione

intellettuale dello spazio è intatta, dato che il malato sa formulare ver-

balmente il movimento da compiere, ma non è in grado di eseguirlo,

esso ci mostra che lo spazio e gli oggetti possono sì far parte della no-

stra conoscenza, ma ciò non implica che facciano parte del nostro cor-

po. Questo disancora la mia esperienza dello spazio dalla capacità che

la mia coscienza avrebbe di effettuare la sintesi di una serie infinita di

relazioni. Ciò che viene a mancare nella patologia sopracitata, è il

proprio corpo in quanto sistema di equivalenze attraverso cui si espli- 19 Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p.160. 20 Ib., p.194.

15

ca una sua caratteristica fondamentale, ovvero la trasponibilità delle

strutture comportamentali. Il malato possiede solo la definizione og-

gettiva del movimento o la sola posizione attuale, ma non l’invariante

di diversi compiti motori, che rende propriamente l’esperienza del mio

corpo nel mondo in quanto sfera primaria fondante il sistema oggetti-

vo dello spazio: “Nel soggetto normale il corpo non è solamente mo-

bilitabile dalle situazioni reali che l’attirano dalla loro parte, ma può

distogliersi dal mondo, applicare la sua attività agli stimoli che si in-

scrivono sulle sue superfici sensoriali, prestarsi a delle esperienze e,

più in generale, situarsi nel virtuale.”21 È quanto accade nel caso

dell’organista. Consideriamo un organista costretto a utilizzare un or-

gano diverso dal suo. Possiamo constatare che, dopo circa un’ora di

esercizio, egli è in grado di eseguire il suo programma anche su questo

nuovo strumento. Cosa supporremo? Forse che determinate rappresen-

tazioni di registri, di sezioni di tastiera, risveglino le rappresentazioni

relative al suo vecchio strumento, in modo da permettere

un’esecuzione ugualmente ineccepibile? “Ma questo linguaggio è mi-

tologico”22. Non c’entrano i ricordi. I gesti dell’organista consacrano

uno spazio espressivo perché “l’esperienza del corpo ci fa riconoscere

un’imposizione di senso che non è quella di una coscienza costituente

universale […]. In esso impariamo a conoscere quel nodo dell’essenza

e dell’esistenza che generalmente ritroveremo nella percezione”23.

Lo spazio, dunque, si radica nell’esistenza. Non solo perché, come ab-

biamo visto, la percezione dello spazio e la percezione di una cosa non

costituiscono due problemi distinti, ma anche in virtù dell’esperienza

che noi abbiamo del nostro corpo. Se mi trovo di fronte ad un oggetto,

io posso percorrere le diverse prospettive della sua visibilità e fissare

21 Ib., p.163. 22 Ib.p.199. 23 Ib.p.203.

16

l’invariante della sua struttura; ma io non sono mai di fronte al mio

corpo e la sua unità non è mai appresa. L’esperienza che ho del mio

corpo, più che ad un oggetto fisico, è paragonabile a un’opera d’arte.

Ciò che definisce una poesia non è il significato traducibile in prosa,

ma una certa modulazione dell’esistenza alla quale non sono estranei

gli stessi spazi bianchi tra le parole; ciò che ne altera profondamente

l’identità è, in altre parole, la pretesa di disgiungere l’espressione

dall’espresso. In questa direzione opera l’analogia con il corpo.

Quest’ultimo è anch’esso un complesso di significati viventi e mai

l’espressione determinata di un sistema di coordinazioni. I diversi mo-

vimenti che posso compiere per rispondere al telefono sono già sem-

pre a mia disposizione nel loro valore funzionale e non in quanto ter-

minale di un processo rappresentativo da valutare nella sua performa-

tività. Proprio per questo il corpo si presenta come una simbolica del

mondo, perché l’intenzionalità che attraversa la vita anonima antepre-

dicativa fa di ogni gesto del corpo un emblema dell’unità preliminare

di io e mondo.

Sulla scia di Husserl, il “corpo proprio” dunque viene assunto da Mer-

leau-Ponty come la condizione di possibilità di tutte le operazioni

espressive. Quello su cui il filosofo francese maggiormente insiste, pe-

rò, è l’unità ambigua realizzata dall’espressione, ovvero

l’impossibilità di ricondurre la forma dell’espresso a un rapporto sog-

getto-oggetto, perché la significazione espressa dall’intenzionalità è

indisgiungibile dal gesto che la incarna: il senso è autoctono.

1.3 L’espressione

Anche la parola conferma la natura enigmatica del “corpo proprio”.

L’analisi dell’espressione permette infatti, più dell’analisi della spa-

zialità e dell’unità del nostro corpo, di comprendere in maniera chiara

17

in che modo “l’esperienza del corpo proprio si oppone al movimento

riflessivo che libera l’oggetto dal soggetto e il soggetto

dall’oggetto”24.

Il modo in cui Merleau-Ponty liquida la tradizione filosofica e psico-

logica in materia è quello già incontrato: riduzione delle alternative in-

terpretative a due grandi blocchi contrapposti e svelamento della loro

unilateralità. I due modelli esplicativi scelti concernono l’indirizzo

empiristico da una parte, e quello intellettualistico dall’altra. Nel pri-

mo caso, viene assunta una meccanica nervosa che rende centrale il

rapporto tra stimoli e tracce cerebrali, da cui deriverebbe la configura-

zione sonora delle parole. Qui non c’è nessun concetto che medi tra

gli stati di coscienza e la parola, e quest’ultima può configurarsi solo

come “un fenomeno psichico, fisiologico o addirittura fisico, giustap-

posto agli altri e portato alla luce dal gioco di una causalità oggetti-

va”25. Ma alcuni casi clinici inducono una diversa considerazione del

linguaggio: date precise istruzioni per classificare dei campioni di co-

lore, i soggetti “normali” riescono nel compito mentre, nei casi di

amnesia dei nomi di colore, due colori oggettivamente simili presen-

tati al malato non appaiono tali. In questo contesto, proporre una spie-

gazione che chiami in causa l’immagine verbale è inutile. Sembra

dominante, invece, l’incapacità di rendere effettivo un atteggiamento

categoriale per operare la classificazione. È il pensiero, dunque, a

condizionare il linguaggio? Ecco allora sorgere l’altra spiegazione:

quella intellettualistica. Ma in questo secondo caso, la parola è un

semplice involucro riempito dal pensiero. Per di più,

all’intellettualismo rimane sempre da spiegare perché sorga un deter-

minato involucro e non un altro: “una volta fatta l’operazione catego-

riale, rimane da spiegare l’apparizione della parola che la conclude, e, 24 Ib., p.271. 25 Ib., p.247.

18

poiché la parola è un involucro inerte, lo si farà chiamando nuovamen-

te in causa un meccanismo fisiologico o psichico”26.

In ogni caso la parola é liquidata. E tuttavia se parlare presuppone, in

senso forte, un pensiero, non si capisce come un oggetto possa appari-

re indeterminato fino a quando non ne individuo il nome, cioè la paro-

la che lo nomina. Dunque, anche la spiegazione intellettualistica si ri-

vela fallace. È a questo punto Merleau-Ponty fa intervenire la sua op-

zione per il “pre-categoriale”. Intanto comincia col considerare il fe-

nomeno linguistico da una duplice prospettiva: la parola ha un signifi-

cato concettuale che ritroviamo solitamente nel linguaggio comune, e

un significato esistenziale, che è la parola originaria “del fanciullo che

pronuncia la sua prima parola, dell’innamorato che scopre il proprio

sentimento […] o quella dello scrittore e del filosofo che, al di qua

delle tradizioni, risvegliano l’esperienza primordiale”27. È la parola

originaria o autentica a coincidere con il pensiero, ed è in questo caso

che la parola si rivela “un autentico gesto e contiene il proprio senso

nello stesso modo in cui il gesto contiene il suo”28. Dietro la circola-

zione di significati già istituiti, di pensieri già espressi, ovvero a monte

della parola che agisce nella vita quotidiana, dobbiamo ritrovare il

“passo decisivo dell’espressione” già compiuto. In altre parole, Mer-

leau-Ponty ci sta dicendo che le convenzioni linguistiche “sono un

modo tardivo di relazione tra gli uomini, presuppongono una comuni-

cazione preliminare e si deve ricollocare il linguaggio in questa cor-

rente comunicativa”29.

Ma quali sono i caratteri di questa comunicazione preliminare? Essa,

abbiamo già visto, può essere considerata un gesto che produce un

“riconoscimento cieco che precede la definizione e l’elaborazione in- 26 Ib.p.247. 27 Ib., nota 5, p.272. 28 Ib.p.254. 29 Ib.p.258.

19

tellettuale del senso”30. In questo modo salta anche ogni distinzione

tra introspezione e osservazione esterna: non ha alcun fondamento di-

re che della paura mi appaiono solo i segni corporei, ma che per com-

prenderla devo ricorrere all’introspezione per ritrovarla in me stesso.

È solo quando rinuncio alla scissione tra espressione e significato che

posso valutare la collera, l’amore, come stili di condotta che hanno

una funzione e un senso veicolati dal loro stesso manifestarsi.

Ma assegnare un significato immanente alle parole, di contro a una

concezione convenzionalistica del rapporto tra segno verbale e signifi-

cato, non significa trascurare la pluralità dei linguaggi? Potremmo an-

dare incontro a questa obiezione, dice Merlau-Ponty, se ci limitassimo

al significato terminale delle parole. Ma le cose cambiano se ci si rife-

risce al “senso emozionale”31. Vale a dire che se rifletto sulla parola

nell’atto in cui la proferisco, ritrovo il nesso tra la gesticolazione ver-

bale e il suo senso intenzionale; la parola, cioè, mi dà la presenza mo-

toria della mia corporeità: “quando la so, la parola ‘nevischio’ non è

un oggetto che riconosco grazie ad una sintesi di identificazione, ma

un certo uso del mio apparato di fonazione, una certa modulazione del

mio corpo come essere al mondo; la sua generalità non è quella

dell’idea, ma quella di uno stile di condotta che il mio corpo ‘com-

prende’ in quanto è un potere di fabbricare comportamenti e in parti-

colare fonemi.”32

Che cosa significa? Che la parola, proprio come il corpo, non ha il ca-

rattere della semplice presenza, ma è caratterizzata dal rimando,

quest’ultimo inteso meno come capacità ostensiva della parola che

come apertura al senso: insomma, una “modulazione del reale” che 30 Ib.p.257. 31 Proprio su questo aspetto E.Lisciani Petrini ha stabilito un confronto tra le tematiche del Cratilo di Platone e Merleau-Ponty: cfr. E.Lisciani Petrini, Risonanze Ascolto Corpo Mondo, Mimesis, Milano 2007; in part. la seconda parte (cap. III). V. anche C.Sini, Idoli della conoscenza, Cortina, Milano 2000. 32 Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p.516.

20

rende inscindibili il gesto espressivo e l’ambiente che lo circonda. In

secondo luogo, ci dice che debbo poter trovare le parole esattamente

come non ho difficoltà a trovare una parte del mio corpo; le parole,

cioè, devono far parte della mia costituzione, nel senso che “l’atto di

intenzione non è fuori della parola, ma con la parola”33. Il corpo,

quindi, si troverebbe a mediare una familiarità primordiale.

Che cosa significa tutto ciò per l’impostazione di una teoria della pa-

rola? Il mondo oggettivo, correlato tanto alla semantica quanto alla

sintattica come banco di prova del concetto, è presupposto come ori-

ginario in una considerazione puramente intellettuale del fenomeno

linguistico. Ma è così? Non è forse vero che le conseguenze pratiche

di un concetto non sono affatto cronologicamente successive alla fun-

zione semantica del concetto stesso? In altre parole, ciò che appare

fondante rispetto a quest’ultima funzione è il punto di vista pragmati-

co, nel senso che il mondo oggettivo sorge con il concetto: prima non

c’è “un mondo”. Anche una semplice congiunzione pronunciata dopo

una parola ha l’effetto pratico di determinare un’attesa, cioè ha il pote-

re di aprire spazi di significazione che orientano il corso del linguag-

gio: ovvero, il linguaggio è innanzitutto un gesto, ciò che Sini chiama

“grafema”: “il grafema è il gesto nella sua sorgiva e originaria valen-

za, in quanto esso incarna la funzione oggettivante primaria. È […]

quell’indicare originario che sta prima dell’indice teso e puntato e del-

la cosa indicata, e che anzi li costituisce come tali”34. Consideriamo il

seguente esempio: un cane picchiato con un bastone, quando rivede

avvicinarsi il bastone abbaia e fugge. La spiegazione corrente chiama

in causa l’arco riflesso, cioè la capacità acquisita da parte del cane di

riconoscere degli stimoli e di approntare le risposte opportune. Questo

tipo di spiegazione è esattamente, come dicevamo all’inizio, ciò che il 33 Ib.p.51. 34 Sini, C., Il simbolo e l’uomo, Egea, Milano 1991, p.185.

21

concetto dice di questa esperienza, ovvero la sistemazione categoriale

che noi operiamo nella posizione di un osservatore privilegiato. Per

collocarci, invece, nella zona operativa del concetto, noi dobbiamo

considerare l’inesistenza del cane e del bastone. Non intendiamo, con

ciò, negare la scena del pestaggio, ma il cane e il bastone come unità

che incontriamo in uno spazio-tempo unitario. La prima volta che il

cane viene battuto non sa niente di bastoni né di padroni cattivi. Solo

nel corso di una serie di esperienze di questo tipo si costituisce “il ca-

ne”: “in ognuno di questi eventi sta in primo piano una risposta la qua-

le, come un cappio doppio, tiene ai suoi poli una specifica relazione

(quella determinata risposta di ciò che chiamiamo cane a ciò che

chiamiamo bastone)”35. Dunque, la sfera del pensiero non coincide af-

fatto con la sfera rappresentazionale; originaria è piuttosto la relazione

nella quale viene in luce l’intellegibilità della stessa.

In verità Merleau-Ponty non aggiunge altri tasselli. Di evidente c’è

che il polimorfismo del gesto non può essere assimilato tout court al

livello sintattico di una frase; una parola che è mimica dell’esistenza,

come può piegarsi al regime assiomatico del pensiero36? Ci sembra

che Merleau-Ponty possa aver di mira non il linguaggio ordinario a

funzione denotativa, ma il linguaggio mitico a funzione performativa;

ed egli è perfettamente consapevole di correre il rischio di sacrificare

la specificità del fenomeno linguistico assumendo la gestualità corpo-

rea come matrice esclusiva. La Prosa del mondo testimonia, infatti, un

lavoro di approfondimento legato all’assunzione dell’argomentazione

saussurriana sul carattere diacritico del segno. Senza rinnegare il cor-

po come potenza creatrice, Merleau-Ponty integra, però, quanto detto

35 Ib., p.189. 36 L’aveva ben visto Lyotard scrivendo che “Merleau-Ponty può pensare il linguaggio come espressione, cioè presenza del figurale nell’ordine discorsivo, ma non può pensare l’ordine del di-scorsivo”; Jean F. Lyotard, Discours, Figure, Klincksiek, Paris 1971; tr.it. di E. Franzini e F. Ma-riani Zini, Discorso, Figura, Unicopli, Verona 1988, p.121.

22

spostando la sua attenzione sul fatto che la creazione di nuove forme

verbali è un fenomeno intralinguistico; ovvero, è un effetto di campo.

Se il segno diviene significante solo in un registro diacritico, il senso

che gli inerisce non può assumere una trasparenza a titolo definitivo;

gli è costitutiva un’opacità che fonda l’interminabilità della storia

dell’espressione, perché l’intenzionalità del segno porta con sé la te-

matizzazione del rapporto dei singoli segni con l’intero della struttura,

da un punto di vista sia sincronico che diacronico37.

La posizione di Merleau-Ponty sul linguaggio tende, quindi, a far in-

crociare una considerazione della parola in riferimento all’operazione

espressiva del soggetto incarnato e una considerazione della stessa in

rapporto all’intero delle parole che costituiscono una lingua. É questa

complementarietà a fornire al filosofo francese l’impostazione del

problema dell’intersoggettività: “l’io che parla è posto nel suo corpo e

nel suo linguaggio non come in una prigione ma, al contrario, come in

una macchina che lo trasporta magicamente nella prospettiva dell’altro

[…]. Parlare e capire non presuppongono solo il pensiero, ma, più es-

senzialmente, e come fondamento del pensiero stesso, il potere di la-

sciarsi disfare e rifare da un altro parlante attuale […]. Il linguaggio

[…] è ora la pulsazione dei miei rapporti con me stesso e con

l’altro.”38

Nello scritto Sulla fenomenologia del linguaggio egli chiarisce ulte-

riormente questo punto. La trasgressione intenzionale di Husserl, nota

Merleau-Ponty, mi dice che “quando si trova di fronte a certi spettaco-

li - gli altri corpi umani e, per estensione, animali -, il mio sguardo si

37 “Ogni espressione mi appare sempre come una traccia […], ogni sforzo di chiudere la mano sul pensiero che abita le parole ci lascia tra le dita solo un po’ di materia verbale”. Merleau-Ponty, Sulla fenomenologia del linguaggio, in Signes, cit., pp.122-23. 38 Merleau-ponty, La prose du monde, texte établi par C.Lefort, Gallimard, Paris 1969; tr.it di M.Sanlorenzo, La prosa del mondo, Editori Riuniti, Roma 1984, pp.45-46.

23

arena, è come circuito. Io sono investito da essi mentre credevo di in-

vestirli”39.

La parola è un caso altrettanto eloquente di comportamento che capo-

volge il mio rapporto con gli oggetti, facendo di alcuni di essi dei sog-

getti: “noi cominciamo a leggere un filosofo dando ai termini che egli

adopera il loro senso comune: a poco a poco, con un capovolgimento

dapprima insensibile, la sua parola domina il suo linguaggio, e

l’impiego che egli fa di quei termini finisce per investirli di una signi-

ficazione nuova e soltanto sua. A questo punto, il filosofo si è fatto

capire, e la sua significazione si è insediata in me.”40

Questa impostazione ricorre anche nelle fasi finali del suo lavoro,

seppur da una diversa prospettiva. Se l’esperienza dell’altro e quella

della parola hanno differenti modalità d’espressione, esse non appaio-

no, però, caratterizzate da una differenza sostanziale; anzi, presuppon-

gono entrambe un’indistinta universalità del sentire e, dunque, sem-

brano alludere a ciò che sarà la generalità della Chair. E tuttavia ve-

dremo che l’adozione di un registro ontologico, legato proprio alla

Carne, determinerà un approfondimento del problema

dell’espressione. Se, infatti, il riferimento a Saussure permette a Mer-

leau-Ponty di affrontare tutti quei casi in cui la trasparenza del segno

non è raggiungibile a titolo definitivo – proprio perché il segno riman-

da alla totalità della lingua -, l’impostazione del linguista rischia, però,

di ergersi a “nuova positività”, laddove il filosofo vuole, invece, mo-

strare come il linguaggio non possa riferirsi esclusivamente a se stes-

so, perché si radica in una dimensione più originaria. Ciò che Mer-

leau-Ponty metterà in discussione, come vedremo attraverso il con-

fronto con il “platonismo di Proust”, sarà la convinzione di poter rag-

giungere la dimensione fondante il linguaggio assumendo la parola 39 Merleau-ponty, Sulla fenomenologia del linguaggio, in Signes, cit., p.129. 40 Ib.p.125.

24

come gesto: in questo modo, infatti, si assume la realtà come già sem-

pre dotata di un senso intelligibile, mentre l’autore della Recherche

fornirà al filosofo una concezione del rapporto tra linguaggio e realtà

che, di fatto, conduce ad una diversa comprensione del reale stesso.

1.4 Il contributo del corpo alla definizione di un livello spazia-le

Abbiamo visto apparire il corpo come “l’attualità stessa del fenomeno

d’espressione”. Nell’impossibilità di distinguere la parola

dall’atteggiamento che induce, il corpo è emerso non solo come un

oggetto fra tutti gli altri oggetti, ma “un oggetto sensibile a tutti gli al-

tri”. In altre parole il corpo “è quello strano oggetto che utilizza le sue

proprie parti come simbolica generale del mondo e attraverso il quale,

perciò, noi possiamo frequentare questo mondo”41. Ci accostiamo ora

alla nozione di spazio proprio per esaminare il modo in cui il corpo

veicola la nostra frequentazione della realtà.

La considerazione del livello spaziale è caratterizzata dallo sdoppia-

mento corpo effettivo/corpo virtuale: per intenderne l’ambito di appli-

cazione riportiamo l’esperimento che Merleau-Ponty trae da Wer-

theimer. Si consideri un soggetto, situato in una stanza, a cui si impo-

ne come campo percettivo quello offerto da uno specchio che riflette

la stanza con un’inclinazione di 45°; di conseguenza, un uomo che si

muove all’interno della stanza, viene visto camminare con una deter-

minata inclinazione. Ma, dopo pochi minuti, lo stesso uomo viene vi-

sto spostarsi in senso verticale e anche tutto il resto assume la condotta

usuale.

41 M. Merleau- Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p.316.

25

Quali elementi possiamo isolare in questo processo? Abbiamo un pri-

mo livello spaziale che ci permette di definire “obliquo” quello della

situazione sperimentale. Nel corso della stessa, però, si determina un

nuovo livello che rende nuovamente dritto l’insieme del campo visivo.

Ciò che si osserva, dunque, è che qualsiasi livello spaziale fa sempre

riferimento ad un livello prestabilito. Osserviamo, inoltre, in questa

esperienza, che il campo visivo ha un orientamento non determinato

da quello del corpo. Per meglio dire, il corpo in quanto “mosaico di

sensazioni date” riceve anch’esso il suo orientamento dall’esperienza;

ma il corpo “agente” contribuisce in maniera essenziale alla costitu-

zione di un livello.

È a questa differenza che si riferisce la coppia effettivo/virtuale. Il

corpo agente è un sistema di azioni possibili, ognuna delle quali defi-

nisce ciò che abbiamo già visto denominare “corpo fenomenico”, cioè

un corpo in situazione. Se l’immagine iniziale è quella di un insieme

strano in virtù dell’inclinazione, è perché il soggetto non abita quella

stanza. Ma quando, col passare dei minuti, quella stanza diventa

l’habitat delle sue azioni possibili, il corpo virtuale sbalza il corpo ef-

fettivo ed “egli si sente le gambe e le braccia che sarebbe necessario

avere per camminare e agire nella camera riflessa”42.

In questo senso è possibile dire che il livello spaziale si definisce in

base alla presa del soggetto sul mondo, “poiché il mondo percepito

non è colto se non attraverso l’orientamento”43. Che questa reversibili-

tà del campo non possa derivare da una serie di associazioni tra le po-

sizioni nuove e quelle vecchie prive di inclinazioni, ce lo rivela la ridi-

stribuzione istantanea delle coordinate, quale appunto si ha nel caso in

esame; né si può chiamare in causa un’operazione del pensiero. Per-

ché? Cerchiamo di arrivare alla risposta atraverso un’altra situazione 42Ib. p.334. 43 Ib.p.338.

26

sperimentale, che questa volta Merleau-Ponty deriva da Stratton: ad

un soggetto vengono fatti indossare degli occhiali che modificano le

immagini retiniche, al punto da fargli apparire il paesaggio capovolto;

contemporaneamente, però, il versante tattile rimane inalterato, per cui

il soggetto ha “due rappresentazioni inconciliabili del proprio corpo,

una datagli dalle sensazioni tattili e dalle immagini visive che egli ha

potuto conservare del periodo precedente l’esperienza, l’altra, quella

della visione presente, che gli mostra il suo corpo a piedi in su”44. Non

ripercorreremo tutte le fasi dell’esperimento. Due conclusioni sono,

però, funzionali al nostro discorso. La prima riguarda la domanda la-

sciata in sospeso sopra: se il nuovo orientamento derivasse dal pensie-

ro, come potrebbe il campo tattile sottrarsi alla trasposizione che si re-

gistra a proposito del campo visivo? In secondo luogo, abbiamo una

prova indiretta del fatto che lo spazio orientato non riposa né sul corpo

in sé, come abbiamo già visto, né sui contenuti dell’esperienza sensi-

bile, perché i rapporti oggettivi tra il corpo e il mondo non mutano con

l’imposizione degli occhiali.

Analogo risultato a proposito della profondità. Lo riportiamo perché

questa dimensione ci permetterà di cogliere il passaggio da un piano

esistenziale, quello qui implicato, al piano ontologico, proprio esami-

nando come cambia, in Merleau-Ponty, l’analisi della profondità e,

con essa, della pittura.

Merleau-Ponty eredita dalla tradizione filosofica una duplice conce-

zione della profondità. La prima, sulla quale il filosofo francese con-

corda, è che essa appartiene alla prospettiva e non alle cose; la secon-

da, è una teoria della profondità che prende in prestito le categorie

linguistiche dall’analisi della larghezza e comporta, secondo Merleau- 44 Ib.p.329. L’esperimento copre un arco di tempo di otto giorni nei quali, al variare delle posizioni del soggetto, vengono valutati i rapporti tra il campo visivo e il mondo tattile. Si osserva che, quanto più il soggetto è attivo, minore è il tempo che il soggetto impiega ad avere una situazione percettiva in cui il tattile e il visivo siano coordinati.

27

Ponty, una totale rimozione della nostra esperienza effettiva. In parti-

colare, quest’ultima teoria contestata utilizza il seguente modello: si

parte da un dato fenomenico, e cioè dal fatto che la profondità non si

dispiega sotto il nostro sguardo, e si rende la sua non immediata visi-

bilità come una giustapposizione di punti disposto uno dietro l’altro in

successione di fronte al mio sguardo e visibili solo da uno spettatore

posto lateralmente. Ma in questo modo, osserva Merleau-Ponty, si è

tacitamente assunto un modello esplicativo relativo alla larghezza. Per

ritrovare un’autentica visione della profondità, dobbiamo prescindere

da una considerazione della stessa come grandezza già oggettivata, in

modo da far emergere “un certo legame indissolubile fra le cose e

me”45.

Neppure la psicologia della Gestalt è riuscita in questo lavoro così ra-

dicale, pur avendone evidenziato le premesse. Infatti, essa ha sottoli-

neato come nella percezione io non abbia affatto coscienza della con-

vergenza dei miei occhi funzionale alla percezione della distanza.

Questa precisazione osteggiava la considerazione classica della pro-

fondità, secondo la quale assumo un dato come la convergenza - ma

ce ne sono altri, come la grandezza apparente - e la inserisco in un

contesto di relazioni quantificabili che mi forniscono la ragione della

profondità. Assumere queste condizioni della distanza significa, però,

fare già riferimento a uno spazio oggettivo, che mi consente di acqui-

sire le grandezze in esso implicate. Di fronte a questo vizio metodolo-

gico, la Gestalt contesta che si tratti di ‘segni’ della profondità, e parla

di “condizioni di fatto” della stessa. Nota Merleau-Ponty che, parlan-

do della convergenza come di un fatto che dobbiamo limitarci a regi-

strare, la Gestalt tradisce il suo proposito teorico e, piuttosto che pro-

seguire la descrizione per far emergere un ordine fenomenico origina-

45 Ib.p.341.

28

le, si rimette a una concatenazione di fatti oggettivi di cui abbiamo

un’esperienza non tetica.

Nel nostro caso, per es., significa parlare della convergenza in termini

di fisiologia cerebrale, ma “la mia percezione non fa capo a un conte-

nuto di coscienza”46. Non che Merleau-Ponty neghi fenomeni come la

convergenza o la grandezza apparente. Ma la relazione che egli istitui-

sce tra questi aspetti della percezione e la profondità va sotto il segno

della motivazione, nel senso che essi non la producono “ma sono già

entrambe una certa maniera di guardare a distanza”47. In che modo?

Consideriamo, brevemente, la grandezza apparente. Un oggetto che si

allontana secondo una distanza crescente esprime una via di fuga dalla

capacità di aderenza del nostro sguardo: “noi definiamo [la profondi-

tà] nello stesso modo in cui prima abbiamo definito il dritto e

l’obliquo: mediante la situazione dell’oggetto nei confronti del nostro

potere di presa”48. Non dobbiamo intendere questo potere di presa

come l’ispezione di uno spirito costituente, ma come un atto motivato,

come se lo sguardo fosse “quel genio percettivo al di sotto del sogget-

to pensante che sa dare alle cose la risposta giusta che esse attendono

per esistere di fronte a noi”49. In altre parole, la percezione riposa su

quella componente non arbitraria in virtù della quale, passeggiando

per un viale alberato, io percepisco gli alberi e non gli intervalli tra gli

stessi.

Ma come spiego la costanza della mia percezione?

In altri termini, il problema è cercare di capire come una determinata

figura, o un colore, possano stabilizzarsi nel flusso delle mie esperien-

ze. Anche in questo caso, l’atteggiamento prevalente è stato quello di

considerare tutte le variabili che intervengono tra il fenomeno e le 46 Ib.p.346. 47 Ib.p.345. 48 Ib.p.348. 49 Ib.p.351.

29

condizioni della sua presentazione, in modo da individuare la costanza

delle relazioni attraverso le variazioni prospettiche. Merleau-Ponty

può facilmente far notare che questa via d’uscita elude il problema

sollevato, perché adopera delle grandezze determinate e il quesito in-

veste esattamente il come del loro essere oggettive. Si tratta di affron-

tare la questione, continua il filosofo, partendo dalla tematizzazione

del mio corpo agente, come abbiamo visto fare fino ad ora. Conside-

riamo, per i nostri scopi, la costanza del colore. Io continuo a riferirmi

al colore di un determinato oggetto anche quando i giochi di luce o i

cambi di illuminazione me lo fanno apparire diversamente. Ma cosa,

esattamente, sottopongo a un principio di costanza? Devo forse sup-

porre che quando l’illuminazione ambientale o artificiale modifica il

darsi di un oggetto a me ben noto, io faccio entrare in gioco il ricordo

del colore più frequente, rimuovendo l’esperienza attuale? In realtà, se

non evito di prescindere dal fenomeno percettivo, ho grosse difficoltà

a individuare qualcosa come il colore del ricordo, perché la percezione

vivente non mi offre mai il medesimo colore sotto tutte le illumina-

zioni; in altre parole, è difficile capire quale colore sarebbe destinato a

diventare “il colore” di un oggetto visto in differenti situazioni. Con-

sideriamo questo contesto. Abbiamo una lampada ad arco disposta in

modo da illuminare un disco nero; notiamo il costituirsi di una figura

geometrica conica, in cui il disco fa da base e appare debolmente il-

luminato. Che cosa connette le articolazioni del campo percettivo, la

percezione di un fenomeno di costanza e l’illuminazione?

L’introduzione di un pezzo di carta tra la lampada e il disco infrange

la solidità del cono e trasforma il fascio luminoso in illuminazione. Il

disco, quindi, si manifesta come tale e non più come la base del cono:

“tutto avviene come se ci fosse una incompossibilità vissuta tra la vi-

sione del foglio illuminato e quella del cono solido, e come se il senso

di una parte dello spettacolo inducesse il rimaneggiamento nel senso

30

dell’insieme”.50 Per questo Merleau-Ponty può dire che

l’illuminazione “non è dalla parte dell’oggetto” ma è una norma vissu-

ta che “conduce” il mio sguardo mentre “la cosa illuminata si stacca

davanti a noi e ci fronteggia.”51 Anche per l’illuminazione e la perce-

zione di una costanza, dobbiamo chiamare in causa la situazione cor-

porea. Come? Entrando in una stanza fortemente illuminata ma con

una zona in ombra, la costanza di un disco bianco posizionato in

quest’ultima apparirà imperfetta fin quando non osserveremo il disco

posizionandoci all’interno della zona d’ombra, lasciandoci avvolgere

da essa. Oppure, quando la luce diurna viene sostituita

dall’illuminazione elettrica, la prima impressione è che essa tenda al

giallo ma, ben presto, cessa di presentarsi a noi con un colore definito.

La comprensione di questo fenomeno è possibile solo se evitiamo di

considerare la scena come una somma di qualità dispiegate di fronte

ad un osservatore neutrale. Lo stabilirsi di un nuovo livello di valori

cromatici passa per il nostro stazionare in una nuova atmosfera domi-

nante che ci circonda, con la conseguente ridistribuzione dei colori

dello spettro sugli oggetti. Che conclusioni si possono trarre da queste

circostanze? Io ritrovo i termini di un’organizzazione complessa in

cui, insediandomi in un certo ambiente, l’illuminazione si mostra “al

di qua della distinzione dei colori e delle luminosità”52, tendendo a di-

venire neutra. Contemporaneamente, ho una ristrutturazione del cam-

po che rende possibile discernere tra il colore dell’oggetto e quello

dell’illuminazione, laddove, considerando isolatamente le stesse parti

del campo, questo effetto era incostante: “la nostra percezione è ani-

mata per intero da una logica che assegna ad ogni oggetto tutte le sue

determinazioni in funzione di quelle degli altri, e che ‘cancella’ come

50 Ib.p.408. 51 Ib.p.407. 52 Ib.p.407.

31

irreale ogni dato aberrante, essa è completamente sottesa dalla certez-

za del mondo. Da questo punto di vista si scorge infine il vero signifi-

cato delle costanze percettive. La costanza del colore non è altro che

un momento astratto della costanza delle cose, e la costanza delle cose

è fondata sulla coscienza primordiale del mondo come orizzonte di

tutte le nostre esperienze.”53.

1.5 La condotta motoria dei colori.

Merleau-Ponty ha dunque messo tra parentesi l’idea di uno spazio

unico e ha ricostruito lo strutturarsi di coordinate spaziali a partire dal-

la nostra “esperienza effettiva”. In questo modo la sensazione cessa di

essere una materia indifferente e diventa “una delle nostre superfici di

contatto con l’essere”54. Invece di avere un unico spazio, abbiamo tan-

ti modi “di fare spazio”. Dunque, osserva il filosofo, si può pensare

che ogni senso, preso nella sua particolarità, contribuisca alla configu-

razione del mondo. E, allora, l’unità dello spazio presupposta dalla

nostra esperienza può essere giustificata ricorrendo solo

all’interrelazione dei domini sensoriali. Ed è ciò che adesso vedremo

riportando alcune situazioni sperimentali, relative alla percezione del

colore, analizzate da Merleau-Ponty nella Fenomenologia della perce-

zione.

Si osserva che il colore rosso applicato all’occhio destro, favorisce

l’estensione del braccio corrispondente verso l’esterno, mentre il ver-

de, nelle stesse condizioni, determina il ripiegamento dello stesso ver-

so il corpo. La fisionomia motoria con la quale si offrono queste quali-

tà sensibili non è definibile nei termini di una relazione di causalità,

secondo la quale una precisa lunghezza d’onda registra una determina-

53 Ib.p.410 (corsivo mio). 54 Ib., p.300.

32

ta risposta del corpo; se così fosse, la nozione di sensazione rimarreb-

be quella tradizionale, tutt’al più sorretta da un contesto più articolato.

Ma anche quando fisicamente non abbiamo alcun fenomeno, cioè

quando le lunghezze d’onda si annullano, la configurazione motoria

non svanisce affatto; né, del resto, si osserva una coscienza della pro-

pria motilità. Quello che si osserva, dunque, è che il colore non è sem-

plicemente visto ma gli corrisponde un preciso atteggiamento del cor-

po: “il sensibile […] non è altro che un certo modo d’essere al mondo

che ci viene proposto da un punto dello spazio e che il nostro corpo, se

ne è capace, riprende e assume: la sensazione è alla lettera una comu-

nione”55.

Dire che la sensazione è una comunione, significa riconoscerle anche

un carattere anonimo. Non posso dire, infatti, che vedo l’azzurro del

cielo nel senso che sono disposto di fronte ad esso e lo possiedo con il

pensiero. Piuttosto, mi trovo in una situazione già data, in cui non

scelgo di essere sensibile ai colori. Per cui, devo dire che il colore “si

percepisce in me e non che io percepisco”56. Si fa, qui, riferimento

non ad un atto personale di cui posso essere responsabile, ma ad una

acquisizione originaria in virtù della quale io sono già sempre sincro-

nizzato con certi aspetti del mondo. Merleau-Ponty riprende qui le

analisi di Husserl sul carattere parziale della percezione in quanto

orizzonte che funziona in base all’esigenza dell’insieme, cioè un fo-

glio bianco nell’ombra non è bianco nel senso di qualità oggettiva, ma

vale come bianco. E assume, in più, la portata filosofica

dell’esperienza dei ciechi e dell’assunzione di mescalina. Nel primo

caso, fa riferimento ai ciechi dalla nascita che acquistano la vista in 55 Ib.p.289. Facciamo notare che qui il discorso è anti-sartriano, nel senso che Merleau-Ponty esclude che si possa applicare la coppia di opposti in sé/per sé alla descrizione del sentire; questo perché, considerando il caso di un colore, esso non è l’effetto di una donazione di senso a partire da un per sé annichilito, né l’invasione del sensibile nel senziente ma, per usare un’espressione dello stesso Merleau-Ponty, una certa “vibrazione vitale”. 56 Ib.p.292.

33

seguito ad un’operazione. Questi permettono di valutare se, e in che

misura, l’unità dello spazio comincia con la visione. Ciò che si osser-

va è che si determina un periodo di transizione in cui il soggetto uti-

lizza gli occhi come se fossero mani; messo di fronte al compito di di-

stinguere visivamente due figure geometriche o due oggetti, egli tende

a seguire con gli occhi i contorni delle figure proprio come farebbe

con le mani, quando non tende proprio ad afferrare gli oggetti. Dob-

biamo senz’altro avanzare l’ipotesi, come fa Merleau-Ponty, che il tat-

to e la vista abbiano un ambito in comune, esemplificato proprio da

quella fase di transizione in cui abbiamo un campo tattile quasi spa-

ziale che precede il vedere autentico.

Le esperienze con la mescalina vanno in una direzione analoga e of-

frono la possibilità di osservare manifestazioni più acute degli stessi

fenomeni di co-appartenenza tra i sensi, perché il soggetto si abban-

dona alla sua vitalità facendo “apparire uno strato originario del senti-

re che precede la divisione dei sensi”57. Se un suono di flauto dà un

colore blu-verde o il suono di un metronomo si traduce in macchie

grigie, non è perché, in termini di fisiologia cerebrale, un eccitamento

trabocca in aree del cervello che non sono di sua pertinenenza e ne

consegue l’associazione di effetti solitamente dissociati. In realtà, le

sinestesie sembrano letteralmente prive di senso perché i soggetti di-

cono di vedere suoni nello stesso punto in cui si formano i colori. Ma,

e su questo insiste Merleau-Ponty, non abbiamo a che fare con feno-

meni eccezionali, piuttosto, “la percezione sinestesica è la regola […].

La forma di una piega in un tessuto di lino o di cotone ci fa vedere la

morbidezza o la secchezza della fibra, la freddezza o il tepore del tes-

suto”58. Su cosa si fonda l’unità dei sensi? Essa si fonda sulla nozione

di schema corporeo. Questa parola nuova, come la definisce il filosofo 57 Ib.p.306. 58 Ib.p.308.

34

francese, deve esprimere la legge di costituzione dell’unità senso-

motoria del corpo proprio. La necessità di questo nuovo concetto è

espressione di una considerazione del corpo che, come abbiamo già

avuto modo di riscontrare, si sottrae alla sua sussunzione sotto la cate-

goria della giustapposizione, riferita agli organi, e chiama in causa

l’idea di una sinergia che deve poter esplicitare una dinamica di posi-

zione, per cui il corpo è sempre atteggiato in vista di un compito attua-

le o possibile, che non risulta da contenuti empirici associati nella no-

stra esperienza59.

Un’esemplificazione indiretta di quanto stiamo dicendo ci viene offer-

ta, secondo Merleau-Ponty, dall’arte cinematografica; quando valu-

tiamo il passaggio dal muto al sonoro, non abbiamo semplicemente

l’aggiunta di un nuovo elemento tecnico, ma una nuova configurazio-

ne di tutto il fenomeno, perché lo stesso elemento visivo ne risulta

modificato. Ce ne accorgiamo quando l’interruzione del sonoro mi

rende di difficile comprensione non solo il senso di un discorso ma le

stesse espressioni facciali di un personaggio, che pure mi erano fami-

liari; lo stesso effetto di stupore si ha quando in un film doppiato la

voce ci appare poco congeniale alla figura e al carattere.

Questo non significa ridurre il significato del percepito a delle sensa-

zioni corporee, ma rendere nella sua portata l’espressione herderiana

secondo cui l’uomo è un perpetuo “sensorio comune”60. In altre paro-

59 “Quando dico di vedere un suono, voglio dire che faccio eco alla vibrazione del suono con tutto il mio essere sensoriale e in particolare con quel settore di me stesso preposto alla percezione dei colori”; ib. p.313. 60 “Se mi abbandono all’evento (percettivo) […], (esso) mi riempie e non merita più il nome di colore”; ib. p., 306 (corsivo mio). Alla luce del successivo sviluppo del pensiero di Merleau-Ponty si può dire, in effetti, che quel colore è diventato, come vedremo, “dimensione”. E, infatti, E.Lisciani Petrini, a proposito di queste pagine sulle sinestesie scrive: “Si tratta di pagine di grande impatto e forza teoretica, dalle quali germinerà la direzione post-fenomenologica che in seguito prenderà il pensiero di Merleau-Ponty, lungo la quale egli arriverà a sfondare il perimetro fenome-nologico del “corpo proprio”; E.Lisciani Petrini, Risonanze. Ascolto Corpo Mondo, cit. p.47. Si rimanda anche alla seconda parte di questo testo, perché le indagini sulla percezione sensoriale dell’uomo prendono in considerazione diversi ambiti desunti dalla riflessione filosofica, pittorica e

35

le, è solo in virtù di questa connaturalità con il mondo che posso tro-

vare un senso a certi aspetti della realtà senza chiamare in causa la co-

scienza costituente.

Capitolo 2 – Un’ esperienza allusiva In questa seconda parte verranno percorsi i sentieri attraverso i quali

passa “la riabilitazione ontologica del sensibile” indicata, secondo

Merleau-Ponty, dall’“ombra” di Husserl. Alla luce della configurazio-

ne del “corpo proprio” come senziente e sensibile, vedremo su quali

basi il corpo e il mondo sensibile condividono il medesimo statuto on-

tologico, tanto che la correlazione tra soggetto percipiente e mondo

percepito, consegnataci dall’analisi fenomenologica, diviene la co-

appartenenza di entrambi i termini a un medesimo essere sensibile

“grezzo”. Nelle ricerche degli anni cinquanta l’interpretazione globale

della percezione verrà approfondita attraverso i concetti di “chiasma”

e di “reversibilità”. Entrambi i termini concorrono a definire la dupli-

cità costitutiva del corpo come riflessa nell’unità dell’essere di indivi-

sione, per cui il sentire non indicherà più, in prima istanza, una struttu-

ra dell’uomo. Vedremo anche in che modo l’espressione artistica è un

momento interno dell’autocomprensione dell’ “essere grezzo” e lo fa-

remo tenendo presente anche il senso che la riflessione estetica rive-

stiva negli anni della Fenomenologia della percezione. Pur non elabo-

rando alcuna filosofia dell’arte, la riflessione di Merleau-Ponty si rive-

lerà decisiva per riflessioni più propriamente estetologiche.

musicale contemporanea. Cfr. anche Mazzeo M., Storia naturale della sinestesia. Dalla questione Molyneux a Jakobson, Quodlibet, Macerata 2005.

36

Nell’ultima parte, infatti, ricostruiremo il pensiero di Dufrenne proprio

a partire dal suo rifiuto di ogni pregiudiziale dicotomia fra soggetto e

oggetto.

37

2.1 Essenza ed esistenza

La costante meditazione di Merleau-Ponty su Cartesio risponde alla

convinzione che sotto la metafisica, di cui il Cogito è massiva espres-

sione, si nasconde un “impensato” che va interrogato proprio nella

stessa sua radice ontologica. Non che si voglia ritrovare nella filosofia

cartesiana la smentita di quella riduzione del vedere a “pensiero di ve-

dere” in quanto decifrazione dei segni dati nel corpo, ma piuttosto un

ridimensionamento della riduzione della percezione a coscienza che,

secondo Merleau-Ponty, è espresso in quelle pagine dove l’esistenza

del corpo umano si rivela all’autore del Discorso sul Metodo in tutta la

sua paradossalità. Merleau-Ponty notava, già nella sua prima opera61,

come il Cartesio della Diottrica respingesse l’azione transitiva me-

diante la quale le cose sensibili, copie degli oggetti percepiti, impri-

mono la loro immagine nel corpo, dove poi all’anima toccherebbe de-

cifrarle. Ovvero, Cartesio respinge il ruolo puramente ricettivo del

soggetto perché “gli oggetti della vista possono essere sentiti non so-

lamente per il mezzo dell’azione che, essendo in essi, tende verso gli

occhi, ma anche per il mezzo di quella che, essendo negli occhi, tende

verso gli oggetti”62. Questo tendere è sotteso alla stessa fisiologia ocu-

lare così descritta qualche pagina più avanti: “piccoli tendini per mez-

zo dei quali questo umore L, diventando ora più incurvato, ora più

piatto, secondo l’intenzione che si ha di guardare oggetti vicini o lon-

tani, cambia un poco tutta la figura del corpo dell’occhio”. Qui è però 61 Merleau-Ponty, La struttura del comportamento, cit.,p.307. La lettura di Cartesio consegnataci da Merleau-Ponty negli ultimi Corsi è stata attentamente analizzata, alla luce della riflessione on-tologica operata dallo stesso, da Pascal Dupont; cfr. Du cogito tacite au cogito vertical, in “Chia-smi International” 2, 2001, pp.281-300. V.anche E.Lisciani Petrini, La passione del mondo, cit. (in part. il II cap), dove viene ricostruito, a partire da La struttura del comportamento fino agli ultimi Corsi, il confronto di Merleau-Ponty con la filosfofia di Cartesio, proprio alla luce di “un impensa-to” dell’autore delle Meditazioni. 62 R.Descartes, La Dioptrique, in Discours de la méthode, Gallimard, Paris 1997; tr.it. di E.Lojacono, La diottrica, in Opere Scientifiche, UTET, Torino 1983, II voll, p.153.

38

evidente che il momento propriamente corporeo è subordinato

all’anima. Solo che, quando Cartesio aggiunge subito dopo un esem-

pio esplicativo, introduce un elemento nuovo: “se, mentre guardate

fermamente una torre o una montagna un poco lontane, vi si presenta

davanti ai vostri occhi un libro, non vi vedrete distintamente alcuna

lettera, fino a che la loro figura non sia un poco cambiata”63. La pre-

senza, nell’esempio, di una condizione temporale che supporta il cam-

biamento, certo non annulla la subordinazione del corpo a una deci-

sione spirituale ma, se non altro, rende esplicito che l’anima è condi-

zionata da un aggiustamento corporeo non immediato. Il che evidenzia

il corpo come luogo di mediazione tra la nuova intenzione di guardare

e la sua effettiva realizzazione. Negli ultimi corsi Merleau-Ponty ri-

torna ancora sulla medesima interpretazione di Cartesio. Lo stesso

procedimento adoperato per la costituzione della verità dell’ego mo-

stra un residuo estraneo alle intenzioni originarie. Il filosofo nota in-

fatti che il pensiero in sospeso, il dubbio cartesiano come strumento

metodologico teso a realizzare la purificazione dell’ego dal mondo, ri-

vela un terzo ambito: “tra l’essere immediato e la negazione, l’ambito

del non niente, del qualcosa […]: io sono, io esisto, non come essere

interamente positivo, in sé, non come puro rifiuto o rigetto o nullifica-

zione, ma come aliquid, diverso dal nulla, come colui a cui tutto ciò

appare [..]”64. Lontano dal raggiungere una coincidenza di me con la

mia sostanza, al termine di un processo di negazione del mondo, sco-

pro di dover precisare “questo nuovo tipo d’essere […]: il dubbio sul

dubbio crea un dubbio formulato, come oggetto di pensiero, ma non

crea la conoscenza del dubbio, che è preliminare, per testimonianza

interiore o coscienza preriflessiva, poiché essa consiste nell’avere 63 Ib.p.177. 64 Maurice Merleau-Ponty, Notes de cours. 1959-1961, Gallimard, Paris 1996; testo stabilito da Stéphanie Ménasé; tr.it. di F.Paracchini e A.Pinotti, Ė possibile oggi la Filosofia?, Lezioni al Col-lège de France 1958-1959 e 1960-1961, Cortina, Milano 2003, p.245.

39

un’esperienza, nell’essere sé, poiché è ciò che noi sappiamo per il

semplice fatto che siamo - c’è un non dubbio del dubbio, una non dis-

simulazione del dubbio a se stesso, e del pensiero, e dell’esistenza, e

ciò che si chiama Ego è questa non dissimulazione”.65

Che implicazioni possiamo trarne? Il filosofo francese ne deriva la

sovversione del cogito ergo sum, perché il rapporto tra essenza ed esi-

stenza svela il riferimento di quest’ultima come condizione di possibi-

lità della prima66. Ma se sussiste un senso irriducibile alla riflessione,

ecco svelato l’accesso della metafisica cartesiana all’ “essere grezzo”.

L’interrogazione che Merleau-Ponty conduce sul testo cartesiano ci

consegna così una fondamentale conseguenza: “l’esperienza nella mia

esistenza presente, ego sum, ego existo, è, dall’interno, per coinciden-

za, la constatazione dell’identità tra il mio essere e il mio pensiero che

io traduco riflessivamente, dall’esterno nell’ordine delle idee, dicendo

che l’idea di me stesso o della natura intellettuale è virtuale in me non

appena io sono, che è innata in me come disposizione, come capacità

di pensare. L’ego sum è fondante rispetto a queste proposizioni. […].

La sua verità di enunciato deriva dal fatto che l’esistenza preriflessiva

sostiene e supporta ogni enunciato, ogni produzione concettuale.”67

Nel Visible et l’invisible Merleau-Ponty dichiara che qualsiasi doman-

da, per il suo essere di domanda, non va verso l’essere, ma ne ritor-

na68. Neppure la domanda sull’essenza fa eccezione. L’inventario del-

le essenze cela sempre il presupposto di un’esistenza di cui è possibile

rivelare una legge di struttura, tale che il sapere delle essenze non ri-

65 Ib., p.235. 66 “Pertanto quello che ci definisce non è la cogitatio espressa, riflessiva, e ancor meno il pensiero di questo pensiero, che sono acquisiti e non hanno il loro garante in una costituzione del pensiero da parte di stesso e per se stesso. […] La cogitatio è ciò che comprendo in me, e che non è falso ma è derivato da questa constatazione o esperienza che io per me sono inalienabile.” Ib.p.237. 67 Ib., pp.238-239. 68 Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, texte établi par C.Lefort, Gallimard, Paris 1964; tr.it. di A.Bonomi, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1993.p.139.

40

posa su se stesso e non si configura, dunque, come il sapere del possi-

bile in sé. La domanda sull’essenza non è posta da un puro spettatore

ma, anzi, mira a stabilire il fondo sul quale può ergersi qualcosa come

il puro spettatore. Anche quando riusciamo ad isolare quelle strutture

senza le quali l’idea stessa di un mondo non potrebbe darsi, non ab-

biamo affatto individuato il senso dell’Essere. E se pure avvertiamo la

possibilità di dire che le essenze hanno un riconoscimento universale,

questo può accadere solo perché “la mia esperienza si collega a se

stessa, e si collega a quella degli altri, sboccando in un unico mondo

[…]. È quindi all’esperienza che appartiene il potere ontologico ulti-

mo”69.

Sappiamo, per averla già incontrata in Husserl, che la tecnica della va-

riazione immaginativa per la fissazione delle essenze mette capo a

un’invariante la cui assenza altera la cosa. Qual è la valutazione di

Merleau-Ponty? Innanzitutto, egli nota che questo metodo non è affat-

to una novità, ma la ripresa di una metodologia propria della prassi

scientifica nell’epoca moderna. In secondo luogo, il filosofo francese

osserva che per avere l’essenza di una cosa, devo considerare anche il

versante dell’io che effettua la variazione delle apparizioni dell’entità

adottata nel mio campo. Posso pensare di postulare il raggiungimento

di un’essenza pura? Posso farlo a patto di ammettere la possibilità di

un osservatore del tutto trasparente, capace di padroneggiare, fino a

sospenderle, tutte le articolazioni del mio essere corporeo e temporale.

Di fronte a questa impossibilità di fatto, la filosofia ha ideato

l’escamotage dell’essenza “al limite di un’idealizzazione sempre im-

perfetta”70. Ma questo punto morto, cui giunge la riflessione, è davve-

ro inaggirabile? Appare tale solo se si considera essenziale la biforca-

zione preliminare dell’ordine dei fatti da quello dei significati. Ma si 69 Ib.p.129. 70 Ib., p.131.

41

tratta, per Merleau-Ponty, di un presupposto da rimuovere. Lo stesso

“Husserl non ha mai ottenuto una sola Wesenschau che poi non abbia

ripreso e rielaborata, non per smentirla, ma per farle dire ciò che dap-

prima essa non aveva detto completamente […]; essa (l’essenza) […]

è il vincolo che collega segretamente l’esperienza alle sue varianti”71.

Ma la fondazione dell’essenza sull’esperienza non pregiudica la sua

pretesa all’universalità? Non è così perché se la “mia visione

dell’essere non si effettua da un altro luogo, ma dal cuore dell’essere,

allora i cosiddetti fatti […] sono da subito innestati sugli assi, sui car-

dini, sulle dimensioni, sulla generalità del mio corpo”72. Merleau-

Ponty allude quindi a un preciso procedimento fenomenologico per

superare la stessa tendenza husserliana a una concezione astorica

dell’essenza. Cioè, solo un’analisi genetica degli atti di ideazione di

un io che ha “un vincolo misterioso con la località e la temporalità”

può mostrarci come il reale non sia una semplice variante del possibi-

le, ma sono “i mondi e gli esseri possibili a costituire delle varianti, e

come dei duplicati, del mondo e dell’essere attuale”73. Poiché gli esse-

ri possibili derivano da quella possibilità “fondamentale” di elaborare

la mia esperienza, la capacità che ho di dispiegare un campo di essen-

ze non può mai, di fatto, dominare tutte le implicazioni dell’esperienza

attuale da cui muovo, ma solo “organizzarne” la fatticità.

In questa impostazione si vede tutta la divergenza di Merleau-Ponty

da Husserl. In altre parole, Husserl crea un dislivello ontologico tra

realtà e coscienza, in funzione delle differenti modalità di manifesta-

zione dei dati: mentre il reale, nella sua trascendenza, si dà per adom-

bramenti, il vissuto ci consegna un’esistenza assoluta. Da questo pun-

71 Ib.p.,131. In un altro testo aveva scritto: “[…] l’ordine trascendentale perpendicolare all’ordine orizzontale dei fatti: dov’è la saldatura? È questa sutura che ci interessa nella genesi”. Merleau-Ponty, La Nature, tr.it.cit., p.332. 72 Merleau-Ponty, Le visibile et l’invisible; cit., p. 134; (corsivo mio). 73 Ib., p.131.

42

to di vista, il pregiudizio dell’oggetto74 è la risposta preliminare che

pesa sulla caratterizzazione dell’essenza dell’esperienza. In altre paro-

le, nel delineare “la famiglia delle cose materiali” Husserl muove da

una definizione dell’essere come pienezza di determinazioni. Ma que-

sto significa negare il carattere dell’esperienza stessa per determinare

il privilegio ontologico di una coscienza di fronte alla realtà.

Con questo rilievo critico, funzionale alla tesi per cui nessuna presen-

tazione può esaurirsi nella semplice presenza, vediamo profilarsi un

pensiero svincolato dai termini opposti di essere e nulla. Per meglio

fissare questo aspetto dobbiamo, seppur brevemente, chiamare in cau-

sa Sartre. Ci soffermeremo su quanto, nella lunga disamina del pensie-

ro sartiano da parte di Merleau-Ponty, ci appare decisivo per com-

prendere la posta in gioco di questo confronto all’interno di Il visibile

e l’Invisibile.

La questione, per Merleau-Ponty, è capire se l’ontologia sartriana, a

differenza del “pensiero riflessivo”, sia in grado di rendere conto della

nostra apertura all’essere. Con Sartre si ha un pensiero che assimila la

coscienza a un niente, tanto che essa trova il suo supporto ontologico

nella piena positività dell’in sé, ad essa esterno. Il problema, per Mer-

leau-Ponty, è che la relazione tra l’essere e il niente ha, in Sartre,

un’ambiguità fondamentale. Il senso che l’essere assume all’interno di

L’Essere e il Nulla non è identico all’inizio e alla fine dell’opera. Se

nella prima parte l’essere ha il senso ristretto dell’“in sé” opposto al

“nulla”, nell’ultima parte Sartre si interroga su un essere che finisce

74 Così scrive Renaud Barbaras nell’articolo Merleau-Ponty aux limites de la phénoménologie: “Husserl ne remet jamais en question le fait qu’il y a des réalités individuées, définies par des ca-racterés finis donc en droit pleinement déterminables, c’est à dire accesibles à la raion. L’analyse de l’apparaître perceptif est commandée par ces présupposés: il n’y a de presence que comme présentation de la chose même, […], toute manifestation est allusion à une présence exhaustive”. Cfr. “Chiasmi international”1, 1999, p.200.

43

con l’inglobare lo stesso nulla per autofondarsi75. Questo slittamento è

incomprensibile, dice Merleau-Ponty, se il punto fermo della riflessio-

ne sartriana resta la reciproca esteriorità tra l’essere e il nulla. Ne ri-

sulta, per questa ontologia, l’impossibilià di concepire dei livelli in-

termedi tra i due poli ontologici; qualcosa come l’apparenza non

avrebbe una posizione coerente nell’ontologia di Sartre.

Soprattutto, considerare la coscienza come negazione pura rende

complicato lo statuto ontologico del corpo, poiché esso non è esteriore

al per sé e non può certo essere considerato parte dell’in sé perché, in

questo caso, non si capirebbe come il corpo possa mai piegarsi ai pro-

getti del per sé. Dunque, un per sé assimilato al Nulla è un per sé di-

sincarnato che non può che ignorare la complicità tra vedente e visibi-

le, ovvero l’ambiguità del corpo steso come vedente/ visibile. Ciò che

Sartre riesce a offrire è solo “un pensiero di sorvolo, che opera

sull’essenza o sulla pura negazione dell’essenza, su termini il cui si-

gnificato è stato fissato e che esso tiene in suo possesso”76.

Da questa impostazione intellettualistica discende l’impossibilità di

comprendere in che modo il nulla possa ricevere in se l’essere, per cui,

in definitiva, l’analitica dell’essere e del nulla “è il vedente che dimen-

tica di avere un corpo”77. L’uscita dall’impasse della filosofia sartriana

va dunque ricercata nella direzione della riconquista dell’esperienza

“grezza” del corpo.

75 In una nota del febbraio 1960 Merleau-Ponty dice che il punto d’arrivo di Sartre sarà il suo pun-to di partenza: “descrivere la struttura, ecco tutto, e l’integrazione delle strutture nel Sein”. Il visi-bile e l’invisibile, cit. p.250. 76 Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit. p.93. 77 Ib.p.100.

44

2.2 Il chiasma

Il fatto che anche negli ultimi anni Merleau-Ponty non cessi di indaga-

re quel paradosso vivente che è il corpo, non significa rinnegare le

precedenti acquisizioni dell’interpretazione della corporeità. Egli ri-

torna sulla duplicità del corpo, già messa a fuoco nella Phénoménolo-

gie de la perception, per curvarla in una nuova prospettiva. Entriamo,

dunque, in un nuovo territorio di ricerca attraverso il “caso particola-

re” delle mani che si toccano: “C’è in effetti una sorta di identità tra il

toccante e il toccato, per il fatto che la mano che tocca trova nell’altra

una sua simile, sente cioè che quest’ultima potrebbe diventare a sua

volta una mano attiva e che essa stessa potrebbe diventare passiva. Po-

trebbe: non si tratta di qualcosa di assolutamente verificabile, poiché

nel momento in cui la mano toccata si fa toccante, smette di essere

toccata, la reciprocità viene meno nel momento stesso in cui sta per

nascere. Ma questo cambiamento caleidoscopico non la distrugge: ci

sembra che sia proprio perché mi stavo per toccare toccante che im-

provvisamente tutto sprofonda, ed è proprio perché la mano toccata è

la stessa mano che diventa toccante che essa non è più una cosa sotto

l’altra mano. Questo scacco è appunto la comprensione stessa del mio

corpo nella sua duplicità, come cosa e veicolo del mio rapporto con le

cose. […] questa cosa - apertura alle cose, a cui le cose possono par-

tecipare, o che inserisce le cose nel suo circuito- è propriamente la

carne”78. Per ora, tenendo conto della citazione, ci limiteremo a pre-

sentare alcuni termini chiave del nuovo linguaggio merleau-pontyano.

Il fatto che la “reversibilità” tra le due mani “sia sempre imminente e

mai realizzata di fatto” fa collassare il residuo di identità testimoniato

dal dispositivo del “corpo proprio”. Se infatti non c’è mai una coinci-

78 Merleau-Ponty, La Natura, cit. pp.323-324 (corsivo mio).

45

denza totale tra le due mani, perché la mano sinistra non riesce mai a

sorprendere la mano destra nell’analoga funzione di mano toccante –

“o la mia mano destra passa nella condizione di toccata, ma allora la

sua presa sul mondo s’interrompe, oppure la conserva, ma allora io

non la tocco veramente in se stessa […], ne palpo solo l’involucro

esteriore”79 -, il mio corpo appare segnato da una essenziale incapacità

a realizzarsi come “corpo proprio”, cioè come un’identità compiuta a

prescindere dalle relazioni che osservo tra le sue parti. I processi di

sopravanzamento tra le diverse dimensioni dell’io corporeo, che ab-

biamo appena richiamato, vengono nominati dal filosofo attraverso la

categoria di “chiasma”, attorno a cui ruota quella di “carne”. Questo ci

permette innanzitutto di affermare che, in Merleau-Ponty, la carne

non è sinonimo di sostanza, perché la carne è esattamente “l’assenza

che impedisce la coincidenza tra le due mani”, come “l’invisibile di

questo mondo, quello che lo abita, lo sostiene e lo rende visibile”80.

Questa qualità del sensibile ci tiene ben lontani dall’affermare che con

la “carne” si stia facendo dell’antropologia. Il riferimento privilegiato

al corpo non reintroduce un primato della soggettività “classica” attra-

verso il corpo, perché la duplicità di quest’ultimo appartiene ad ogni

visibile: “il rapporto con il mondo è implicato nel rapporto del corpo

con se stesso. Il rapporto tra le mie due mani […] - qualcosa di analo-

go nel rapporto con le cose: esse mi toccano così come io le tocco.

Nulla di sorprendente: [… ] sono fatte della stessa stoffa dello schema

corporeo”81. E allora, il ricorso del filosofo al piano della visibilità è

79 Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit. p.163. 80 Ib., p.225. 81 Merleau-Ponty, La Natura, cit.p.325. Enrica Lisciani Petrini fa osservare che il raddoppiamento messo in atto dal fenomeno delle mani mostra come “l’identità di ciascun polo relazionale nasce da una ‘specie di riflessione’ che si esercita senza interruzione dall’uno all’altro polo […]. Qui al-lora si apre uno scenario ontologico veramente nuovo […] perché la realtà si presenta ora come uno squadernamento di relazioni, una ‘propagazione’ di ‘riflessi’”. In questo contesto “la trasposi-zione del discorso al piano della visibilità avviene non per una acquiescenza fenomenologica da cui Merleau-Ponty non avrebbe saputo liberarsi, ma perché il mondo si rivela letteralmente costi-

46

espressione di quella “specie di riflessione” che informa tutti i piani

del reale. È evidente, dunque, che la terminologia inerente al mondo

cartesiano appare impotente ad esprimere la rete di riflessi tra gli enti

che, sola, può rendere conto del fatto che non “c’è una posizione dello

spazio e del tempo che non dipenda dalle altre”82. Ma lo stesso oriz-

zonte di pensiero husserliano appare, a questo punto, incapace di so-

stenere il radicale “decentramento” a cui viene sottoposto il concetto

di identità83: gli enti si costituiscono reciprocamente.

Soprattutto, il “chiasma” del corpo con il mondo ci permette di rivede-

re la nozione di “essere al mondo”. A risultare più definita è la stessa

teorizzazione del corpo. Se in precedenza essa oscillava tra il vedere

nel corpo lo strato più originario di una teoria della soggettività, e il ri-

ferimento in esso dell’emblema dell’essere sensibile, nell’ultima fase

della sua meditazione Merleau-Ponty procede chiaramente in

quest’ultima direzione, preoccupandosi di impostare il rapporto tra

corpo fenomenico e corpo oggettivo in termini di circolarità. Elimi-

nando, dunque, la precedente priorità del primo: “se si vogliono delle

metafore, sarebbe meglio dire che il corpo senziente e il corpo sentito tuito di irradiazioni speculari.” (cfr. “Il pensiero”, Attività/Passività. L’invisibile di Merleau-Ponty, 1998/1, p.12). Sempre in questo testo l’autrice si sofferma sul fatto che questa trama di relazioni è colta dalla riflessione già sempre in atto, denunciando il livello di una sintesi rispetto alla quale il pensiero è sempre in ritardo e che impone di rivedere il rapporto tra attività e passività: “in altri termini si tratta di stare in quella rotazione contraddittoria a cui il pensiero non può sottrarsi:il con-tinuo riflettersi tra lo spazio di mondo entro cui ogni volta si dispiega, e lo sfondo del proprio dar-si, del proprio evento”. id., p.17. Ci sembra, quindi, riduttivo affermare, come fa Lyotard (cfr. Di-scours, Figure, tr.it.cit., p.50), che pur procedendo nella descrizione della passività, Merleau-Ponty continua a concepirla come il correlato dell’attività intenzionale del soggetto, non riuscendo a te-matizzare “il fatto che vi sia evento”. 82 Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., pp.133-134. 83 “Ma allora qui si vede bene come tutto questo discorso, nato da un impianto fenomenologico […], conduca ad un vero e proprio rovesciamento di quell’impianto in una direzione completa-mente opposta. Poiché il “corpo proprio” è ora visto all’interno di un gioco di riflessi e rinvii.”. Enrica Lisciani Petrini, La passione del mondo, cit.p.121. Su questo tema hanno posto l’accento anche R.Barbaras (Le tournant de l’expérience. Recherches sur la philosophie de Merleau-Ponty, Vrin, Paris 1998) e M.Villela-Petit, in Le soi incarné. Merleau-Ponty et la question du sujet, in Aa Vv., Merleau-Ponty. Le philosophe et son langage, a cura di F.Heidsieck, Université P.Mendès, Grenoble 1993.

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sono come il diritto e il rovescio o, anche, come due segmenti di un

unico percorso circolare […]”84.

Certo, anche nell’ultima fase la carne del corpo, in quanto essa sola è

senziente e sensibile, manifesta una peculiarità che ne fa un “misuran-

te universale”. Ma l’affermazione di questo privilegio non reintroduce

una nuova relazione gerarchizzata, giacché Merleau-Ponty riafferma

immediatamente la reciprocità tra corpo e mondo ricordando che la

carne del primo si staglia sulla carne del secondo. In questo contesto il

rapporto uomo-mondo viene a situarsi dentro l’unità preliminare

dell’essere di indivisione85. É soprattutto, però, l’interpretazione della

visione a rivelarci la portata euristica del concetto di carne, perché è

l’ambito di ricerca che ha usufruito di una maggiore continuità di ap-

84 Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p.154. 85 La colpa di Merleau-Ponty, secondo M. Henry, sarebbe quella di aver schiacciato il livello fon-dante sul costituito: “la reversibilità del toccante e del toccato non significa altro che l’ambito di un unico apparire che si occupa volta a volta di ciò che esso dà fuori di sé, del sentito, e quindi di sé che dà questo sentito, dandosi tuttavia a se stesso solo nel fuori di sé, anch’esso come sentito. Di modo che […] il potere di sentire è sempre presupposto altrove che in ciò che giunge all’apparire unicamente nella forma di quanto è sentito”, (M.Henry, L’Incarnation. Une philoso-phie de la chair, Seuil, Paris 2000; Traduzione e saggio introduttivo di G. Sansonetti. Incarnazio-ne. Una filosofia della carne. SEI, Torino, 2001, pp.135-136). La dimensione patica si configura come il luogo dell’archidonazione dell’essere, come regione ontologica eterogenea all’estaticità della Welt. A seguito dell’identificazione tra fondamento soggettivo e fenomenologico, ogni sen-sazione appare al soggetto nella forma dell’auto-affezione. Aldo Masullo stronca questa direzione: “Henry insomma, negata la trascendenza intenzionale della coscienza della vita, entro la vita della coscienza, non trova scampo al solipsismo metafisico che nel richiamarsi alla trascendentalità della stessa coscienza affettiva. Ciò è un’evidente contraddizione, se si tengono fermi i concetti che il trascendentale è una condizione necessaria di possibile conoscenza e che l’affettivo è il campo del non conoscitivo”, (A.Masullo, Paticità e Indifferenza, Il Melangolo, Genova 2003, pp.117-118). In Merleau-Ponty, invece, non c’è più traccia dell’originarietà del datum sensibile e al suo posto tro-viamo la motricità essenziale del soggetto come ‘io posso’. Il che significa che dietro a questo mo-vimento c’è sì una coscienza, ma non si risolve nella rappresentazione del movimento; piuttosto, abbiamo un’intenzionalità originale che evita di sacrificare l’intenzionalità significante propria delle cinestesi, come efficacemente chiarisce Barbaras: “Altrimenti detto: se è vero che l’intenzionalità motrice presuppone una sollecitazione, questa non può esercitarsi se non grazie al movimento che si orienta verso di essa, di modo che non è possibile, anche di diritto, distinguere il prepossesso del visibile dai movimenti dell’appello che questi lancia loro”, (Renaud Barbaras, Motricité et phénoménalité chez le dernier Merleau-Ponty, cfr. M.Richir- E.Tassin, Phénoménolo-gie et experiences, Millon, Grenoble 1992; tr.it. Motricità e fenomenicità nell’ultimo Merleau-Ponty, cfr. Negli specchi dell’essere, Hestia, Cernusco 1993, p.115).

48

plicazione anche nell’ultimo periodo di lavoro del filosofo francese e

quindi, su di esso, grava una minore incompiutezza rispetto ad altre

problematiche.

Così come avveniva nella Fenomenologia della percezione, anche ne-

gli ultimi scritti la percezione attesta l’operare in noi della “fede per-

cettiva” nel mondo. Ma qual è allora lo slittamento dei piani di ricer-

ca? È esattamente questo ciò che dobbiamo, preliminarmente, com-

prendere. Non è, ci sembra, ininfluente il fatto che la percezione di-

venti, negli ultimi lavori, “fede percettiva”. Si può senz’altro pensare

che il filosofo francese si preoccupi di passare dall’analisi del nesso

percettivo io-mondo alle condizioni di possibilità di tale nesso, con un

movimento che ricalcherebbe il passaggio husserliano dalla fenome-

nologia statica a quella genetica. Proprio rispetto a Husserl, però, il

prevalere, nell’ultima fase del lavoro di Merleau-Ponty, della perce-

zione visiva sulle altre modalità percettive rivela un guadagno teoreti-

co comprensibile solo alla luce della sua riflessione ontologica. Infatti,

come già si è visto nella prima parte, se Husserl, in Ideen II, privilegia

la percezione tattile rispetto a quella visiva, perché solo la prima gli

consente l’accesso al Leib come intreccio di attività e passività, con la

nozione di “chair” Merleau-Ponty esplicita la reversibilità tra vedente

e visibile. La carne esprime proprio l’avvolgimento del visibile sul

corpo del vedente, realizzando quella strana aderenza che, propria-

mente, apre ad una visibilità non appartenente né al corpo vedente né

alla cosa visibile. Tra i due, dunque, si mantiene sempre un certo scar-

to e la struttura del chiasma viene così a realizzarsi secondo le moda-

lità dell’incrocio; il filosofo francese parla, infatti, di “deiscenza” del

visibile in vedente e viceversa86. L’interpretazione della visione come

86 Cosi G.B.Madison in La phénoménologie de Merleau-Ponty. Une recherche des limites de la conscience, Klincksieck, Paris 1973, p.252: “c’est comme si l’Être voulait accéder à la conscience,

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“carne offerta a carne” modella un visibile il cui statuto non può esse-

re quello di un positivo oggettivo, ma quello di un “tessuto connetti-

vo” degli orizzonti interni ed esterni. Il che altro non mostra che la tra-

scrizione, nel nuovo registro ontologico, dei risultati acquisiti in sede

di descrizione fenomenologica relativa alla percezione visiva, cioè

quell’elemento strutturale che attesta come, nell’atto del vedere, l’io

colga più di quanto attualmente non veda.

Ma se questo è il referto fenomenologico, se il visibile, cioè, è sempre

scavato da un senso invisibile, nessuna delle determinazioni di

quest’ultimo è concepibile se non come scarto rispetto al visibile stes-

so. Che l’invisibile sia sempre conficcato nell’essere visibile, e che

questo sia tenuto in piedi dai nuclei invisibili di senso, deve essere sot-

tolineato perché è fuori discussione che Merleau-Ponty non avesse in

mente una forma di dualismo spiritualistico. La figura della cavità de-

ve, cioè, rendere la “deiscenza” della carne, a partire dal fatto che

qualcosa come l’interiore e l’esteriore87 si articolano l’uno sull’altro.

Da ciò che stiamo dicendo, emerge come la percezione sia un fonda-

mentale elemento di continuità nelle ricerche del filosofo e ci sembra-

no decisamente fuorvianti quelle interpretazioni tendenti a contrappor-

re un primo Merleau-Ponty fenomenologo all’ultimo ontologo. Il rife-

rimento alla fede percettiva riconosce la funzione inaugurale della de-

scrizione del mondo della vita. Anche se é certamente vero che, come

è emerso nelle pagine precedenti, nell’opera del ’45 la percezione è

voulait se voir et ne pouvait le faire que par une sorte de negation interne, une différenciation ou un dédoublement en couple visibile-voyant”. Analogamente M.Richir in Le sens de la phénoménologie dans Le visibile et l’invisible: “en vertu de cette connivence originelle, ce n’est ni moi ni le monde en soi qui se phénoménalise dans le phénomène, mais c’est le phénomene lui même qui se phénoménalise en son lieu comme par une sorte de torsion ou d’enroulement de la chair sur elle même”. Cfr. “Esprit” n°66 1982, p.54. 87 Su questo aspetto in particolare v. M.Richir, Le primordial husserlien et la conception merleau-pontyenne du dedans et du dehors, de la chair du monde et de la chair du corpe; cfr. M.Richir, Phénoménologie en esquisses. Nouvelles foundations, Millon , Grenoble 2000, pp.520-537.

50

l’elemento fondante l’attivo progettarsi nel mondo, mentre ora appare

non più come una struttura dell’uomo, dato che é piuttosto l’io corpo-

reo a costruirsi attorno alla percezione che lo attraversa.88

Crediamo fondamentale, a questo riguardo, rimarcare il riferimento

che Merleau-Ponty fa a Whitehead, che sembra fornirgli, insieme a

Husserl, un concetto chiave, quello di overlapping. Whitehead muove

da una critica serrata dei presupposti della nozione di spazio e tempo

in Hume e Kant, entrambi accomunati dall’ingenuo presupposto del

semplice accadere dei puri dati, dove il puro dato è il dato sensoriale

immediato. Tralasciando i vari passaggi con i quali Whitehead89 ci in-

vita a pensare lo spazio e il tempo a partire da rapporti non seriali, vi-

sto il numero elevato di controesempi che si danno nel tentativo di

comporre il mondo a partire da esistenze spazio-temporali puntuali,

egli ci parla di relazioni di sopravanzamento per cui, chiosa il filosofo

francese, “(la natura) è paragonabile all’essere di un’onda la cui realtà

è solo globale e non parcellare”90 . Soffermiamoci maggiormente su

questo aspetto.

La critica di Whitehead al pensiero classico, cioè la pretesa che gli

oggetti siano localizzati in ogni istante in un punto della durata, intro-

duce il concetto di “ingredienza” per esprimere la relazione che lega

un oggetto ad un evento. Quello che viene messo in discussione da

Whitehead è l’idea dell’Essere assoluto, identico a se stesso, alla luce

di certe acquisizioni della fisica di inizio secolo, come il fatto che 88V. Enrica Lisciani-Petrini, La passione del mondo cit. Nel primo capitolo, in particolare, l’autrice ricostruisce il lungo e articolato confronto che Merleau-Ponty ha avuto con Bergson, il quale in Matière et Mémoire è arrivato a considerare la percezione non come “un processo psicologico-umanistico o obiettivo, bensì come un evento ontologico, come l’accadere di una doppia reciproca apparizione, che non si produce a partire da nessun polo relazionale precostituito (o cosciente), poiché i poli relazionali letteralmente non esistono prima della relazione stessa”. La passione del mondo, cit p.33. V. anche R.Barbaras, Le tournant de l’expérience. Recherches sur la philosophie de Merleau-Ponty, Vrin, Paris 1998. 89 Rimandiamo a A.Whitehead, Symbolism its meaning and effect, Cambridge University Press, Cmbridge 1928; tr.it. di Rocco de Biasi, Il simbolismo, Cortina, Milano 1998. 90 Merleau-Ponty, La Natura, cit.p.180.

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l’elettrone non si trovi lì dove è la sua carica, ma si configura piuttosto

come “una certa proprietà che occupa un ruolo focale e a cui si ricol-

legano gli eventi fisici constatati in una corrente di situazioni”91. Del

resto, senza ricorrere ad un ambito specialistico, facciamo esperienza

di oggetti non uniformi anche nella vita quotidiana: come, per es., il

suono, che viene percepito in una certa durata, senza che esso appar-

tenga a nessun momento preciso di questa durata. A questo punto la

stessa opposizione tra oggetto ed evento si ridimensiona, perché, a un

livello più profondo, si rivela prioritaria la loro co- appartenenza.

L’oggetto, cioè, emerge come proprietà focale di un insieme di varia-

zioni all’interno di un campo di forze e, quindi, è traccia di una cor-

rente di eventi. Pur mostrando delle ambiguità, sulle quali Merleau-

Ponty si sofferma, il concetto di natura di Whitehead annette a sé tutti

gli eventi e si impone come processualità dei nessi di reciprocità tra le

parti della natura stessa. Resta l’idea di una “concrescenza” della natu-

ra in se stessa che la vita si incaricherebbe di riprendere. É proprio in

questo significato, centrato sulla critica alla localizzazione unica, che

si può comprendere, dunque, il valore ontologico della percezione:

“quello che io percepisco è contemporaneamente per me e nelle cose.

La percezione si compie a partire dall’interno della Natura: la lampa-

da, che sta davanti a me, prende coscienza in me in senso tempora-

le”92.

91 Ib.p.171. 92 Ib.p.175.

52

2.3 Merleau-Ponty e l’arte.

Merleau-Ponty non ha mai dedicato un’opera specifica ai problemi

estetici. Tuttavia, per il filosofo, anche il pittore, lo scrittore, parlano

del loro “incontro con il mondo”. E infatti, in una nota che conclude il

capitolo della Fenomenologia della percezione dedicato allo spazio

egli si chiede: “Si potrebbe dimostrare, per esempio, che a sua volta la

percezione estetica apre una nuova spazialità, che, come opera d’arte,

il quadro non è nello spazio in cui abita come cosa fisica e come tela

colorata – che la danza si svolge in uno spazio senza mete e senza di-

rezioni, che è una sospensione della nostra storia, che in essa, il sog-

getto e il suo mondo non si oppongono più”93. È evidente come il filo-

sofo avverta la possibilità di un confronto con alcuni orientamenti arti-

stico-letterari particolarmente consonanti con le sue indagini. Da ciò

l’attenzione privilegiata che egli rivolge alla pittura di Cézanne e alla

Recherche di Proust.

Cézanne rappresenta per il filosofo francese un incontro straordinario

che lo accompagna lungo tutto il suo lavoro, fino agli ultimi giorni

della sua vita94. Merleau-Ponty vede in Cezanne la sua stessa impresa,

93 Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p.393. 94 M.Carbone (cfr. Il sensibile e il desiderio. Merleau-Ponty, Lyotard e la pittura, in “aut aut” 232-233, 1989, pp.63-86) ha ricostruito i riferimenti polemici di Lyotard a Merleau-Ponty, in particola-re il rilievo mosso alla valutazione merleaupontyana di Cézanne. All’autore di L’occhio e lo spirito viene rimproverato di aver identificato il disordine cezanniano con il vero ordine del sensibile, il che lo avrebbe poi condotto a svalutare altre fondamentali esperienze artistiche come testimoniato da questo giudizio: “le fotografie di Marey, le analisi cubiste, la Mariée di Duchamp non si muo-vono: sono fantasticherie zenoniane sul movimento” in L’occhio e lo spirito, op.cit.p.54. Ovvero, vi sarebbe un solo modo giusto di rappresentare il movimento? Anche Carlo Sini nota un analogo rischio quando scrive che “ (Merleau-Ponty) presuppone comunque il mondo reale della percezio-ne e lo assume come criterio. Ma questa familiarità non è mai data come primordiale: è data sem-pre già nello stile del percepire infantile, dell’osservare stelle a occhio nudo […].”, Disegno e veri-tà, in Negli specchi dell’essere. Saggi sulla filosofia di Merleau-Ponty, Hestia, Cernusco 1998, p.163. Ad es., Duchamp in Sonate del 1911 riesce a dare alla composizione il senso di un tutto di-namico trasferendo su un piano visuale il ritmo legato al soggetto del quadro, cioè le donne della famiglia Duchamp intente a fare musica. L’effetto è ottenuto eliminando i contorni angolari, cosic-ché la scomposizione dei volumi assume il ritmo di un colore caratterizzato da tonalità pallide giu-

53

la riattivazione dell’esperienza prima di ogni dualismo: “Cézanne non

cerca di suggerire con il colore le sensazioni tattili che darebbero la

forma e la profondità. Nella percezione primordiale, tali distinzioni fra

il tatto e la vista sono ignote. È la scienza del corpo umano che ci in-

segna poi a distinguere i nostri sensi. La cosa vissuta non è ritrovata o

costruita in base ai dati dei sensi, ma si offre di primo acchito come il

centro donde essi s’irradiano.”95 È quanto abbiamo già incontrato nel-

la Fenomenologia della percezione, là dove è evidenziata la percezio-

ne sinestesica come regola, perché i sensi comunicano tra di essi

aprendosi alla struttura della cosa. Il che, nel Linguaggio Indiretto,

porta Merleau-Ponty a formulare la nozione di stile: “lo stile è in ogni

pittore il sistema di equivalenze che egli si costituisce per questa opera

di manifestazione, l’indice universale della ‘deformazione coerente’ in

virtù della quale concentra il senso ancora sparso nella sua percezione

e lo fa esistere espressamente”96. La caratterizzazione dello stile, come

“tipica” di tutte le relazioni visive, va integrata con lo stile del corpo,

in quanto montaggio di tutte le corrispondenze intersensoriali, e con il

mondo come orizzonte di tutti gli stili. E infatti, Cézanne non “rappre-

senta” nessuna veduta, intendendo con questa la presentazione com-

piuta e satura. Egli tenta di esibire le modalità di costituzione di una

regione dello spazio, provando ad ogni nuovo tentativo ad accostarsi a

stapposte tono su tono. Non vi è l’idea cubista della simultaneità di visione. E però si manifesta questa esigenza tecnica. Sia Duchamp che Picabia mostrano di non ignorare l’originalità dei futu-risti per il voler dipingere la simultaneità degli stati d’animo. Il Nudo che scende le scale del 1912 è scomposto nei movimenti successivi della discesa per creare l’effetto di simultaneità, ma come se la scena fosse vista al rallentatore; cosa ben diversa dalla velocità dei futuristi e che farà dire a Duchamp che quello futurista era un impressionismo del mondo meccanico, mentre a lui e a Pica-bia interessava, anziché la pittura fisica, quella mentale. Rimando, anche per la ricca bibliografia, a Paola Décina Lombardi, Surrealismo, Editori Riuniti, Roma 2002. 95 Merleau-Ponty, Le doute de Cézanne, in Sens et non sens, Nagel, Paris 1948; tr.it.di P.Caruso, Il dubbio di Cézanne, in Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano 1962, p.34. 96 Merleau-Ponty, Segni, tr.it.cit., p.81. Per la nozione di stile in Merleau-Ponty cfr. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie; tr. it. di E. Fi-lippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1972,, § 9, p.60.

54

ciò che, nel visibile, non smette di tormentarlo. Tutto il suo spazio ar-

tistico è orientato verso il senso fungente di una natura alla sua origi-

ne. Il senso che vive in ogni suo particolare gesto espressivo vuole es-

sere quello di chi si pone nell’atteggiamento del primo uomo che di-

pinge, e per questo il suo lavoro non può dirsi mai compiuto di fronte

ad una natura che rinasce ogni giorno. Già nella Phénoménologie de la

perception Cézanne realizza quell’ “attenzione metafisica e disinteres-

sata” che Merleau-Ponty ritiene indispensabile affinché la percezione

riesca a cogliere nelle cose “ciò che vi si cela di inumano”. Quando

operiamo sulla realtà, nel contesto delle nostre occupazioni quotidia-

ne, tendiamo a ritrovare nelle cose quello che non sconcerta la nostra

vita. Nel passaggio all’atteggiamento fenomenologico l’oggetto si mo-

stra come il correlato del nostro corpo, ma così facendo non esauriamo

affatto il suo senso. Se è vero che una cosa percepita necessita di un

soggetto che la percepisca, è altrettanto vero che quanto viene espres-

so dalla cosa è da ascriversi all’ “orizzonte” nel quale si colloca. È

proprio questo, secondo il filosofo, il percorso artistico compiuto da

Cézanne: “Nelle sue opere giovanili Cézanne cercava di dipingere

l’espressione, e non ci riusciva. A poco a poco egli ha imparato che

l’espressione è il linguaggio della cosa stessa e nasce dalla sua confi-

gurazione”97. Il pittore, cioè, nel tentativo di restituire la configurazio-

ne sensibile delle cose, riporta il suo sguardo a quando “non c’erano

ancora uomini: è ciò che la natura fa senza sforzo in ogni momento”98.

Lo sforzo di Cézanne consiste nel tentativo di superare una definizio-

ne “psicologica” della realtà, in modo che quest’ultima non si mostri

“come il termine di una teleologia corporea”, ma come “quel contesto

in cui ogni momento è non solo inseparabile dagli altri, ma in un certo

qual modo sinonimo degli altri […] : impossibile descrivere comple- 97 Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p.420. 98 Ib.p.421.

55

tamente il colore di un tappeto, senza dire che è un tappeto, un tappeto

di lana, e senza implicare in questo colore un certo valore tattile, un

certo peso, una certa resistenza al suono”. Non diversamente, ricorda

Merleau-Ponty, “ogni pennellata di Cézanne deve contenere l’aria, la

luce, l’oggetto, il piano, il carattere, il disegno, lo stile” 99. Queste pa-

role “stanno a dirci che l’artista si dilata nella realtà circostante […] e

diventa alla lettera ‘un pezzo di natura’, come si esprimeva il pittore

stesso, e solo in questo modo può essere – e ‘liberare’ – quei ‘blocchi

di sensazioni’ che accadono nella realtà […]. ‘Blocchi’ che perciò non

corrispondono alle nostre sensazioni ‘umane’ […]. Di qui il ‘carattere

disumano’ che Merleau-Ponty ha immediatamente colto e messo in ri-

lievo”100.

Nell’ambito della spazialità dunque, le cose non sono mai semplice-

mente le une accanto alle altre: esse si sovrappongono, si fanno om-

bra. Per questo la prospettiva non è che un modo di figurazione dello

spazio, per di più del tutto intellettualizzato: “mentre il mio sguardo,

spaziando liberamente in profondità, altezza e larghezza, non [è] as-

soggettato a un punto di vista perché li adotta e li respinge tutti uno

99 Ibid. 100 E.Lisciani Petrini, Risonanze, cit.p.127. Secondo l’autrice, dunque, il “carattere disumano”, che già nel saggio del ’45 (Le doute de Cézanne, cit.) il filosofo attribuisce alla pittura di Cézanne, mo-stra come il pittore accompagni fin dall’inizio Merleau-Ponty verso quella “nuova ontologia”, che lo vede impegnato nella stesura di Il visibile e l’invisibile negli stessi anni in cui si confronta nuo-vamente con Cézanne nell’Occhio e lo spirito. Per E.Escoubas, invece, “dans le Doute de Cézan-ne, Merleau-Ponty conduit son analyse presque essentiallement dans le registre psychologique: il s’agit de l’individu - Cézanne, de ses passions et de ses comportements, alor qu’avec l’Oeil et l’esprit et les textes de 1960, on a affaire à une ontologie”; E.Escoubas, Merleau-Ponty et l’Esthétique, in “Studia Phaenomenologica”, n°3-4, Humanitas, Bucarest 2003, p.11. Netta la po-sizione di E.Franzini, per il quale la riflessione di Merleau-Ponty sulla pittura ha una portata molto limitata, perché “l’organizzazione ottica messa in crisi attraverso le critiche alla prospettiva, ma restaurata sulla base dell’unità organica del corpo vissuto e senziente, è ( solo con Deleuze) defini-tivamente superata, facendo della pittura non un ‘dato visivo’ bensì un diagramma operativo […] in cui si supera lo spazio tattile-ottico, si potrebbe dire, ‘intenzionale’, che esprime ‘l’attività orga-nica dell’uomo’”; E.Franzini, La pittura e la differenza, in “ Chiasmi international 1”, cit., p.193. Francamente, che lo spazio di Merleau-Ponty sia “intenzionale” e fondato sull’unità organica del “corpo proprio” appare poco sostenibile alla luce di quanto si sta cercando di far emergere in que-ste pagine.

56

dopo l’altro, [con l’assunzione della prospettiva] invece io rinuncio a

questa ubiquità e convengo di far figurare nel disegno solo ciò che po-

trebbe vedere, da un dato punto di stazione, un occhio immobile, fisso

su un dato ‘punto di fuga’ di una data ‘linea di orizzonte’”101.

Dal rifiuto di questa impostazione si determina in Cézanne il rifiuto a

recingere le cose con un contorno netto, preferendo trattare il bordo

come una linea chiasmatica. La critica mossa all’assolutismo della

prospettiva classica va collegata alla convinzione della profonda

estraneità dell’espressione artistica all’universo del sapere scientifico

e del “principio di ragione”. L’opera viene ad aggiungere nuove di-

mensioni al mondo, strutturando delle esperienze che ignorano il prin-

cipio di identità, di non contraddizione, facendo emergere una tempo-

ralità che riesce a sfuggire al rigido resoconto di una concatenazione

lineare a favore di “un tempo magma che mescola le sue dimensio-

ni”102.

Ora, l’aver inteso l’arte anche come amplificazione della gestualità,

consente al filosofo di porre il problema “di come siamo innestati

sull’universale in virtù di ciò che abbiamo di più nostro”103. Ci sembra

che vada in questa direzione l’evocazione di un tratto esistenziale co-

mune che emerge in questo passo: “un pittore come Cézanne, un arti-

sta o un filosofo, devono non solo creare ed esprimere un’idea, ma an-

che ridestare le esperienze che la radicheranno nelle altre coscienze.

Se l’opera è riuscita, ha lo strano potere di insegnarsi da sé”. 104

Complessivamente, però, sembra riaffacciarsi un rischio già incontrato

a proposito della parola. Non ignoro tutto un lato della creazione se

101 Merleau-Ponty, Segni, cit.pp, .75-76. 102 Merleau-Ponty, Ė possibile oggi la filosofia?, cit.p.197. 103 Merleau-Ponty, Segni, cit., p.78. 104 Merleau-Ponty, Senso e non Senso, cit.p.38. Scrive nell’ Occhio e lo spirito, pp.45-46: “quanto alla storia delle opere d’arte, il senso che attribuiamo loro più tardi è comunque generato da loro stesse, se si tratta di capolavori. È l’opera stessa che apre il campo da cui poi appare in una nuova luce, è lei che si trasforma e diviene ciò che diverrà”.

57

mi limito ad evidenziare le tracce dell’implicazione del corpo nella

pittura? Posso senz’altro dire che opero una drastica riduzione se, a

partire dalla motricità, derivo l’organizzazione di uno spazio pittorico.

Con la pubblicazione dell’Occhio e lo Spirito, l’interpretazione che

Merleau-Ponty fornisce della pittura non smentisce il nesso decisivo

tra pittura e corporeità, ma cerca di salvaguardare lo specifico dell’arte

in rapporto alla “sfera percettiva” intesa in senso ontologico. Solo in

questo testo assume rilevanza, anche per la pittura, l’incontro con la

semiologia di Saussure, che gli fornisce gli strumenti concettuali per

porre la pittura come sistema autonomo di segni differenti. Al centro

di questa prospettiva interpretativa si colloca la lettura della linea co-

me segno diacritico, alla luce della produzione teorica di artisti come

Leonardo, Klee e Matisse. In modo più esplicito per gli ultimi due, la

centralità che il disegno assume in questi autori testimonia di una sorta

di archeologia del visibile tendente all’esibizione di un livello pre-

tetico. La linea di Klee non è la linea del geometra, ma è la linea gene-

ratrice che esiste secondo la modalità dell’arealità, dello spaziamento,

al limite della costituzione atomica. Per Klee la pittura è una “natura

naturante”, che cerca di mostrare non già la creazione in quanto com-

piuta, ma il mondo in procinto di farsi; è come se Klee facesse vedere

il materiale grezzo. Il riconoscimento della linea come significante in

sé, investe anche il colore. Se ai tempi del primo studio su Cézanne

l’attenzione sulla “transustanziazione” tra corpo e mondo come pro-

cesso al termine del quale il mondo si trasforma in pittura, il colore

“non merita più il nome di colore” , in L’Occhio e lo Spirito “si tratta

della dimensione del colore, che crea da se stessa a se stessa delle

identità, delle differenze, una struttura, una materialità, un qualche co-

sa”.105

105 Merleau-Ponty, L’Occhio e lo spirito, cit.p.48.

58

Ci troviamo di fronte alla connotazione della pittura come creazione di

una dimensionalità, ossia con una valenza ontologica. La pittura, cioè,

non si preoccupa di copiare il mondo, perché essa suscita un campo

da cui riceve essa stessa un senso quale risvolto della deformazione

del campo già dato106. Le cose, in altre parole, sono la prova della di-

mensionalità simbolica dell’esistenza, perché le loro proprietà prece-

dono la loro stessa costituzione oggettuale107 e, quindi, diventano, se-

condo Merleau-Ponty, rivelatrici del modo in cui il soggetto accede

all’essere. Interessante, a tal proposito, ricordare l’episodio che Mer-

leau-Ponty riporta in Signes traendolo da Malraux. L’aneddoto in que-

stione è quello relativo a Renoir che viene avvicinato da un albergato-

re di Cassis mentre dipinge davanti al mare donne che facevano il ba-

gno in un altro luogo. La ricostruzione dell’episodio consente a Mal-

raux di dire che l’azzurro del mare altro non era che il ruscello delle

Lavandaie.

Come interpretare questa “deformazione coerente” si domanda Mer-

leau-Ponty? Il fatto è che “si chiede al mare […] unicamente il suo

modo di interpretare la sostanza liquida, di esibirla, di comporla con

se stesso, gli si chiede insomma una tipica delle manifestazioni

106 Eliane Escoubas commentando il passo dall’Occhio e lo spirito - “Quel che dà il movimento, dice Rodin, è un’immagine in cui le braccia, le gambe, il tronco e la testa sono presi ognuno in un istante diverso […], e impone tra le sue parti dei raccordi fittizi, come se tale raffronto di incom-possibili potesse, esso solo, far sgorgare sulla tela la transizione e il movimento”, (tr.it. cit., p.55) - scrive: “qu’est donc cet ‘affrontement d’incompossibles’? N’est ce pas la definition du rythme en tant que ‘forme fluide, mouvante, forme de ce qui est en mouvement’?” E.Escoubas, Merleau-Ponty et l’Esthétique, cfr. “Studia Phaenomenologica”, n°3-4, Bucarest, Humanitas 2003, p.10. 107 Quando Merleau-Ponty analizza il manoscritto di Husserl, Rovesciamento della dottrina coper-nicana nell’interpretazione della corrente visione del mondo, fa riferimento proprio a uno di questi “quasi oggetti” che non sarebbero pienamente delle cose. La terra eccede ogni oggetto perché non è né in moto né in quiete, è piuttosto suolo e radicamento essenziale: “essa è un tipo d’essere che contiene tutte le possibilità ulteriori e che funge loro da culla.”, Merleau-Ponty, La natura, tr.cit., p.115. (Il manoscritto husserliano è Umsturz der kopernikanischem Lehre; tr.it. di G.D.Neri, Rove-sciamento della dottrina copernicana nell’interpretazione della corrente visione del mondo, in “aut aut”, n°245, sett.-ott. 1991, pp.3-18).

59

dell’acqua” 108, in modo da svincolare il quadro da ogni tentazione di

somiglianza per “permettergli di esercitare la funzione di espressione,

cioè presentare un’essenza alogica del mondo”. Altro non è che il pro-

gramma di Cézanne, “l’immensità, il fiume del mondo in una briciola

della materia”109.

Questi spunti ci permettono di focalizzare l’attenzione sul reciproco

sostenersi di presenza e assenza, nel senso che proprio attraverso la

mediazione della presenza fenomenica ritroviamo l’universo delle co-

se invisibili che il fenomeno è in grado di richiamare: “un colore, il

giallo; esso si supera da sé: non appena diviene colore di illuminazio-

ne, colore dominante del campo, cessa di essere il tale colore, ha dun-

que di per sé la funzione ontologica, diviene idoneo a rappresentare

tutte le cose”110.

Ma nessuno più di Proust ha saputo investigare i rapporti tra il visibile

e l’invisibile “nella descrizione di un’idea che non è il contrario del

sensibile, che ne è il risvolto e la profondità”111. La riproposizione del

rapporto tra idea e sensibile consegue dallo scacco, sancito dallo stes-

so Merleau-Ponty, della nozione di cogito tacito112, con la quale era

stato pensato l’essere al mondo come sistema di relazioni incarnate,

cioè come trama di essenze che innerva l’esistenza e costituisce un si-

stema di identità integre. Proprio ciò che viene stravolto dalla catego- 108 Merleau-Ponty, Segni, cit.pp., 82-83. 109 Merleau-Ponty, Ė possibile oggi la filosofia?, cit.pp., 23-24. 110 Merleau-Ponty, nota di lavoro novembre 1959 I sensi - La dimensionalità - l’Essere, in Il visi-bile e l’invisibile, cit.p.231. 111 Ib.p.164. Per il rapporto tra Merleau-Ponty e Proust si rimanda, in particolare, a: M.Carbone, Ai confini dell’esprimibile. Merleau-Ponty a partire da Cézanne e da Proust, Guerini, Milano 1990: Dello stesso autore cfr. anche Di alcuni motivi in Marcel Proust, Cortina, Milano 1998. 112 “Ciò che io chiamo cogito tacito è impossibile. Per avere l’idea di pensare [..], per ritornare all’immanenza e alla coscienza di…, è necessario avere le parole. È grazie alla combinazione di parole (con il loro apporto di significazioni sedimentate, e capaci, per principio, di entrare in rap-porti diversi da quelli che hanno servito a formarle) che io attuo l’atteggiamento trascendentale […]. Le parole non rinviano a significazioni positive e infine al flusso degli Erlebnisse come Sel-bstgegeben. Mitologia di un’autocoscienza alla quale rimanderebbe la parola coscienza. Non ci sono che differenze di significazioni”.ib.p.188. Sul “cogito tacito” nella Fenomenologia della per-cezione, cfr. pp.513-523.

60

ria di carne. La tematica proustiana delle “idee sensibili” consente al

filosofo di porre su una base diversa la questione già sollevata nella

Fenomenologia della percezione, dove si poneva a tema come il lin-

guaggio dice le cose. Abbiamo sottolineato nella prima parte la pro-

spettiva di Merleau-Ponty, tendente a rifiutare la separazione tra

espressione e significato a favore di un livello di espressività più ori-

ginario ( legato al corpo) nel quale la separazione non è ancora posta.

Non mancando di sottolineare i rischi di questo approccio, si è anche

detto come lo stesso filosofo francese non smettesse mai di tornare su

queste analisi, testimoniato dalla rilevanza che esse hanno fino alla fi-

ne, pur nel delinearsi di una nuova prospettiva teorica. Il problema del

rapporto tra sensibile e intelligibile, pensato nell’orizzonte della Car-

ne, non è più un problema di “gerarchia di ordini”, ma di un reciproco

impregnarsi e contaminarsi. Il che configura (indipendentemente dalla

soggettività intesa in senso fenomenologico) la possibilità di una di-

versa comprensione del sensibile, come un vuoto attorno al quale il

linguaggio continua a ruotare senza mai riuscire a strappare le idee

dalle “tenebre” da cui appunto provengono e che continuano ad av-

volgerle.

Di quali idee si parla? Merleau-Ponty fa riferimento ad alcune pagine

di Du côté de chez Swann, in cui Swann, terminato l’amore tra lui e

Odette, esprime il senso stesso di quell’amore facendo riferimento alla

sonata del musicista Vinteuil. In queste pagine Proust, secondo il filo-

sofo francese, svela delle ‘essenze alogiche’, perché fa riferimento ad

un’ “idea” che “non è posseduta in modo tale che si possa dire ciò che

è”113. In altre parole, Swann prova ad attribuire l’impressione di deli-

113 Merleau-Ponty, Ė possibile oggi la filosofia?, cit., p.184. L’analisi che Merleau-Ponty dedica alle “idee musicali” di Proust non è affatto casuale. Le Note che il filosofo dedica alla musica sono state analizzate da E.Lisciani Petrini nell’ultima parte del suo La passione del mondo, cit. (in part. Cap. VII). V. anche D. De Leo, Merleau-Ponty: la musica negli scritti postumi, in Aa. Vv., a cura di G.Invitto, La fenomenologia e l’oltre-fenomenologia, Mimesis, Milano 2006.

61

catezza, suscitata dall’ascolto della piccola frase musicale, all’effetto

prodotto dalla disposizione delle note, ma si rende subito conto che,

così facendo, non ragiona sulla frase stessa, quanto su dei valori posi-

tivi che la sua intelligenza sostituisce all’ “entità misteriosa” che gli si

è rivelata attraverso quella sonata. La “piccola frase” musicale diven-

ta, per Swann, l’emblema di quell’“altro mondo” nel quale l’aveva

trasportato l’amore per Odette. E proprio nel tentativo di aderire “al

paesaggio di un’esperienza” – cioè l’amore che l’aveva ormai abban-

donato -, l’emozione è mancata. Tuttavia, ciò non costituisce affatto

un limite da rimuovere, perché le “tenebre” da cui sono avvolte “le

idee sensibili” è la sola modalità di manifestazione che esse hanno.

Cioè esse configurano quell’ “invisibile” attorno al quale il linguaggio

può solo girare, senza riuscire a renderlo visibile114. Non si tratta di

una tematica del tutto nuova nella riflessione del filosofo. Già nella

conferenza del 1945, Le cinéma et la nouvelle psychologie, Merleau-

Ponty aveva attribuito alle “idee estetiche” di Kant non pochi caratteri

che poi sarebbero confluiti nelle “idee sensibili” derivate da Proust.

Prendendo in considerazione la definizione di idea estetica che Kant

dà nel § 45 della Critica della facoltà di giudizio, Merleau-Ponty af-

ferma che nell’arte “l’idea o i fatti prosaici vi figurano solo per dare al

creatore l’occasione di cercare loro emblemi sensibili”. E sul modo di

darsi di quest’idea, aveva scritto, a proposito delle logiche espressive

del film, che “è la felicità dell’arte di mostrare come qualcosa diventi

significato, non per allusione a idee già formate e acquisite, ma grazie

114 Lo stesso tipo di considerazione viene fatta dal filosofo nei confronti dei contenuti dell’inconscio. Rispetto agli oggetti costituiti dagli atti di coscienza, quelli che Merleau-Ponty at-tribuisce all’inconscio sono nuclei di significazione che sfuggono sempre alla rappresentazione oggettivante. Cioè organizzano l’esperienza senza mai darsi positivamente: “L’inconscio è tale per il fatto che non è oggetto, ma è ciò grazie a cui degli oggetti sono possibili. L’inconscio è fra di essi come l’intervallo degli alberi fra gli alberi.” (Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, tr.cit., p.197).

62

alla disposizione temporale o spaziale degli elementi”115. Analoga-

mente, parlando delle “idee sensibili” di Proust, Merleau-Ponty dice

che esse non hanno la positività del concetto. Non solo, ma quando

Kant deve esplicitare lo scacco dell’intelletto, perché nessun concetto

appare perfettamente adeguato ad esprimere la rappresentazione forni-

ta dall’immaginazione, attribuisce a quest’ultima la capacità di tra-

sformare continuamente, secondo “leggi analogiche”116, la “materia

fornita dalla natura”. La continua “esibizione” operata

dall’immaginazione è una trasfigurazione del sensibile nel sensibile

stesso. Nelle pagine che Merleau-Ponty dedica a Proust ritroviamo

questa trascendenza del concettuale all’opera nelle idee estetiche: tra-

scendenza analogica, mai paga di sé, eppure tale da manifestare una

“coerenza” nelle sue scorribande, ma sempre come idea “allo stato na-

scente”, cioè senza concetto e quindi impossibile da vedere “senza ve-

li” 117.

Il loro essere velate, la loro superficie oscura, non costituisce affatto

un difetto, poiché esse non si lasciano “staccare dalle apparenze sensi-

bili ed erigere a positività seconda. […]; queste verità non sono soltan-

to nascoste come una realtà fisica che non si è saputo scoprire, come

115 Merleau-Ponty, Senso e non Senso, cit.p.80. 116 “(L’immaginazione) ci è d’intrattenimento quando l’esperienza ci risulta troppo ordinaria: e noi la trasformiamo proprio, pur sempre secondo leggi analogiche”; I.Kant, Kritik der Urteilskraft; tr.it. di Leonardo Amoroso, Critica della capacità di giudizio (corsivo mio), Bur, Milano 1996, p.255. 117 Cfr.M.Carbone, Il Sensibile e l’eccedente. Mondo estetico, arte , pensiero, Guerini, Milano 1996, pp.95-101. Eliane Escoubas ha sottolineato il peso decisivo di Schelling sullo statuto dell’idea in Merleau-Ponty. Commentando la nota di lavoro sulla Gestalt- “la Gestalt non è un in-dividuo spazio-temporale, è pronta per integrarsi a una costellazione che sopravanza sullo spazio e sul tempo, ma essa non è libera nei confronti dello spazio e del tempo[…], non sfugge se non al tempo e allo spazio concepiti come eventi in sé, ha un certo peso che la fissa […] in una regione, in un ambito in cui essa domina, in cui regna, in cui è presente senza che mai si posa dire : è qui.”- scrive “Ainsi, avec la reformulation de la Gestalt, nous trouvons chez Merleau-Ponty quelque chose qui va au-delà, ou en deça, de l’idée esthétique kantienne et qui correspond littéralement au symbol au sens schellingien, comme Ineinsbildung”. E.Escoubas, Merleau-Ponty et les métamor-phoses de l’image-imaginaire-imagination, in AaVv, Les dons de l’image, L’Harmattan, Paris, 2003, p.140.

63

un invisibile di fatto che un giorno potremmo vedere faccia a faccia

[…]. Qui, viceversa, non c’è visione senza schermo”118.

Caratteristica fondamentale delle “idee sensibili” è di costituire una

dimensione119, la cui possibilità è che le esperienze si leghino secondo

un senso. La modalità di manifestazione del senso non è costituita da

un atto di coscienza, ma anzi ci costituisce attraverso un movimento

che non appartiene più al soggetto quanto alla stessa realtà. È chiaro

che qui si fa riferimento a quella “dimensione” definita dal filosofo

“carne” e che, mediante la sua “reversibilità”, testimonia di quel reti-

colo di rapporti in cui siamo sempre già innestati120. Quello che cattu-

ra Swann non è una sequenza unilineare di sensazioni e ricordi, visto

che Proust afferma l’impotenza dell’intelligenza a ricostruire la strati-

ficazione dell’esperienza che irrompe nella vita del suo protagonista:

118 Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit. p.165. 119 “Con la prima visione, con il primo contatto, con il primo piacere, c’è iniziazione, e cioè non posizione di un contenuto, ma apertura di una dimensione che non potrà più essere rinchiusa, in-staurazione di un livello in rapporto al quale, ormai, ogni altra esperienza sarà riferita. L’idea è questo livello”; ib.p.166 (corsivo mio). Notiamo che qui si esplicita una posizione più coerente ri-spetto ad Husserl sull’affettività, perché in questo quadro teorico essa è rigorosamente sganciata dalla rappresentazione, costituendo un autonomo livello di iniziazione al mondo. 120 Nella stessa direzione procede il confronto che Merleau-Ponty ha con la psicoanalisi negli ulti-mi anni del suo lavoro: “Il contributo più interessante portato da Freud: non l’idea di un secondo io penso che saprebbe quanto noi ignoriamo di noi stessi, ma l’idea di un simbolismo che sia primor-diale, originario, di un pensiero non convenzionale (Politzer), racchiuso in un mondo per noi, re-sponsabile del sogno e più in generale dell’elaborazione della nostra vita”; (Cfr. Merleau-Ponty, Résumés des cours. Collège de France 1952-1960, Gallimard, Paris 1968; tr.it. e cura di M.Carbone, Linguaggio, storia, natura. Corsi al Collège de France, Bompiani, Milano 1995, p.61, corsivo mio). Questa nota va nella direzione di un simbolismo primordiale che si oppone all’errore di appiattire la verità del soggetto sulla consapevolezza dell’io. Di questo simbolismo primordiale il sogno costituisce un esempio paradigmatico. Esso, infatti, viene assunto da Merleau-Ponty come il linguaggio originario dell’esistenza. Il sogno non è un prodotto immaginario che si aggiunge alla coscienza del reale perché, allora, “rimarrebbe da comprendere come tutto ciò appartenga alla co-scienza”. Il sogno manifesta la divisione dal possesso di me stesso, visto che il suo soggetto è il “si”, l’impersonale, e si compie nel “recinto del corpo” in quanto è “contatto con l’essere di promi-scuità, di transitivismo, la fissazione di un carattere per investimento in un essente dell’apertura all’Essere - che, ormai, si fa attraverso questo essente”; ( Merleau-Ponty, La nature, Editions du Seuil 1995; tr.it. di M.Mazzacut-Mis e F.Sossi, La natura, Cortina, Milano 1996, p.281). Per que-sti temi cfr. (Paolo Gambazzi, Fenomenologia e psicoanalisi nell’ultimo Merleau-Ponty, in “aut aut” n°202-203, 1989, pp.105-129).

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“quel che c’è è non serie, ma incassarsi. Il presente [sempre sensibile e

sempre spaziale] racchiude nella sua profondità altri presenti […]. Di

solito, non lo si apre, sembra bastare a se stesso, completo, e gli altri

presenti hanno realtà solo in generale [ripostiglio della memoria]. Tal-

volta il sensibile stesso produce lacerazione, abisso, memoria vera”121.

Il fatto per noi significativo è che il livello concettuale viene ad essere

l’espressione e non la condizione di questa unità non tematica. Non

bisogna perciò credere che la riflessione oggettiva espliciti un senso

positivo già dato, anche se solo nella forma di un’anticipazione nel

sensibile. Come già intravisto tra le citazioni sopra, l’invisibile è

l’articolazione tra i momenti percettivi. Il suo mancato confluire in

una nuova positività testimonia di una negatività che trascende il sen-

sibile senza mai oltrepassarlo, ovvero

quella che, in modo appropriato, è stata definita la “distorsione origi-

naria del fenomeno” 122.

Conclusioni: e se “ la carne” avesse solo un valore metaforico? La nuova concettualità che Merleau-Ponty acquisisce e manifesta ne-

gli anni ’50 nasce non solo dal confronto serrato con diverse esperien-

ze artistiche ma, come era già avvenuto negli anni ’30 e ’40, soprattut-

121 Merleau-Ponty, , Ė possibile oggi la filosofia?, cit., p.198. 122 “La distorsione originaria del fenomeno è tale che il fenomeno, non riducendosi mai, per prin-cipio, a ciò che se ne manifesta come attualmente apparente, si apre in se stesso e da se stesso […] ad altri fenomeni, per i quali esso si fenomenalizza ad un tempo come visibile e invisibile (sensibi-le e insensibile), senza mai che la frontiera del visibile e dell’invisibile si confonda con quella del visto e del non visto che appaiono attuali”, (cfr. Marc Richir, Essences et intuition des essences chez le dernier Merleau-Ponty; tr.it. di A.Pinotti, Essenze e intuizione delle essenze nell’ultimo Merleau-Ponty, in Negli specchi dell’essere, cit., p.57). Da quanto detto fin qui si evince che “il mondo della vita” , termine ultimo della riflessione sull’esperienza antepredicativa dischiusa dal corpo nella Fenomenologia della percezione, non coincide con l’essere, ma è un esito della sua deflagrazione. Vedremo, nell’ultima parte di questo lavoro, come Dufrenne tenti di attribuire a Merleau-Ponty l’idea di una natura naturans che verrebbe ad identificarsi con l’Essere. In realtà, come abbiamo visto, il rapporto tra l’ Essere e il mondo non può essere letto nei termini di una na-tura naturans e di una natura naturata, perché questo equivarrebbe a risolvere tutta la trascenden-za nell’immanenza. Ma è una posizione che non possiamo attribuire a Merleau-Ponty.

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to con la biologia e la psicologia. Assumeremo come punto di parten-

za il concetto biologico di Umwelt. L’Umwelt si compone di una Mer-

kwelt, ovvero la morfologia degli organi sensoriali da cui dipende il

tipo di classificazione degli stimoli, e di una Wirkwelt, cioè le reazio-

ni dell’organismo nell’ambiente. Questi due ambiti non sono affatto

separati, visto che “la wirkwelt opera uno spostamento della merk-

welt”123. A livello degli animali inferiori osserviamo un funzionamen-

to unitario che si regge sulla chiusura degli stessi rispetto agli stimoli

esterni. A livello degli animali superiori, invece, la Umwelt è apertura

al mondo, nel senso che quest’ultimo viene filtrato dalle risposte “so-

fisticate”degli organi sensoriali, tanto che “il sistema nervoso si orga-

nizza come una riproduzione del mondo esterno”124.

L’importanza che il filosofo attribuisce al concetto di comportamento

di Coghill e Ghesell è data dal fatto che il rapporto tra organo e fun-

zione dello stesso non è il riflesso delle condizioni ambientali nelle

quali l’animale è inserito. Gli autori, cioè, supererebbero l’eredità

darwiniana per la quale si realizza una perfetta connessione tra

l’organismo e le condizioni esterne nell’ambito del particolare tipo di

animale che riesce a sopravvivere alle continue sfide della natura. Da

questo punto di vista, nota Merleau-Ponty, in Darwin non c’è il pro-

blema di capire in che modo si realizzi l’adattamento, in quanto

“Darwin dà al mondo attuale il potere di determinare il solo possibi-

le”125. Invece in Coghill, nota il filosofo, “il comportamento è in anti-

cipo sul funzionamento”126, cioè vi è da parte dell’organismo

un’iniziativa che, per quanto possa essere considerata una reazione ad

uno stimolo ambientale, mette l’animale di fronte a stimoli ambientali

123 Merleau-Ponty, La nature, Editions du Seuil 1995; tr.it. di M.Mazzacut-Mis e F.Sossi, La natu-ra, Cortina, Milano 1996, p.253. 124 Ib., p.251. 125Ib., p.257. 126 Ib., p.223.

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sui quali rimbalzano nuove condotte animali: “c’è retroazione di ciò

che l’animale ha fatto, la quale rilancia il comportamento animale”127.

Merleau-Ponty è consapevole del fatto che “le espressioni usate dalla

nuova biologia non sono soluzioni […] ma indici di problemi”128; tut-

to quello che possiamo ammettere è che “ci sono delle aderenze fra le

parti spaziali di un embrione e le parti temporali della sua vita”, il che

ci porta a “riconoscere il rapporto interno di senso di queste diverse

fasi”129. La metafora utilizzata dal biologo Uexküll negli anni ’30, e

che Merleau-Ponty riprende perché è in continuità con la concettualità

che egli stesso stava elaborando, è quella della “melodia che si canta

da sé”. Ma “il tema della melodia non è al di fuori della sua realizza-

zione manifesta; si tratta di un tematismo variabile che l’animale non

cerca di realizzare attraverso la copia di un modello, ma che abita le

sue realizzazioni particolari, senza che tali temi siano lo scopo di que-

sto organismo”130. Quest’ultimo aspetto, in particolare, Merleau-Ponty

lo ricava dagli studi di Lorenz sull’istinto. L’istinto si colloca in un

rapporto di continuità con la cultura, dove cioè la umwelt “è sempre

meno orientata verso uno scopo e sempre più un’interpretazione di

simboli”131. Come spiegare infatti il comportamento dello stornello

che, senza la presenza effettiva di mosche, tende a volte a riprodurre

tutto il cerimoniale della fase di caccia? Gli studi di Lorenz, dice il fi-

losofo, ci dimostrano che “c’è un rapporto molto stretto tra simboli-

smo e istinto, che dipende dal fatto che, nel suo funzionamento,

l’istinto è sempre molto legato alla presenza di uno schema corri-

spondente, a certi aspetti parziali dell’oggetto. Il carattere immedia-

tamente lacunoso dello schema scatenante fa sì che l’istinto si costitui-

127 Ib., p.256. 128 Ib., p.233. 129 Ib., p.225. 130 Ib., p.261. 131 Ib., p.258.

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sca come un’elaborazione sistematica del mondo, piuttosto che come

riferimento a un mondo esterno interamente costituito”132; in altre pa-

role, l’animale manifesta uno stile senza che sia prioritario il riferi-

mento ad un oggetto, come se l’istinto fosse uno stato di tensione che

deve trovare una distensione. Ritroviamo, quindi, la tematica dello sti-

le o del tema che si dispiegano all’interno di un campo costituito non

da elementi singoli, ma dall’unità animale/mondo.

Allo stesso modo, continua Merleau-Ponty, noi sappiamo che la defi-

nizione di un cerchio chiama in causa l’uguaglianza dei raggi o la ro-

tazione di un segmento di retta; ma “è la scienza che libera il signifi-

cato”, dato che il cerchio percepito è una totalità che “non trascende le

parti nelle quali si realizza”. È un tipo di concettualità adeguata a que-

sta idea di totalità che bisogna sforzarsi di trovare, ed è quello che il

filosofo prova a fare nel Visibile e invisibile. In questo testo il suo

punto di partenza mi sembra essere l’assunzione della totalità psicofi-

sica dell’uomo come un concreto ontologico paradigmatico. In questo

senso “la carne”, il concetto filosofico creato da Merleau-Ponty, svol-

ge una duplice funzione; da un lato sostiene il versante della donazio-

ne: “il mio corpo è, al massimo grado, quello che è ogni cosa: un que-

sto dimensionale. È la cosa universale. Ma mentre le cose divengono

dimensioni solo in quanto sono ricevute in un campo, il mio corpo è

questo campo stesso. […] (ogni cosa sensibile) varia attorno a un certo

tipo di messaggio di cui non possiamo avere l’idea se non in virtù del-

la nostra partecipazione carnale al suo senso, se non sposando con il

nostro corpo la sua maniera di ‘significare’”133. Dall’altro ciò che mi è

dato in questa modalità è la carne stessa: “ ciò che (la coscienza) non

vede è ciò che fa sì che essa vede, è il suo vincolo con l’Essere, è la

sua corporeità, sono gli esistenziali in virtù dei quali il mondo diviene 132 Ib., p.287 (corsivo nostro). 133 Merlau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, p. 271 e pp., 222-223.

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visibile, è la carne in cui nasce l’ob-jectum”134. In questa cornice con-

cettuale il merito di Merleau-Ponty è senz’altro quello di inaugurare

una considerazione del corpo che travalica i limiti del “corpo proprio”

husserliano, come abbiamo visto a proposito di Cézanne135. D’altro

canto, però, il ricorso alla figura del “chiasma” avviene attraverso un

vocabolario che reintroduce le categorie della filosofia trascendentale,

cioè un approccio dualistico che ruota attorno all’evento della manife-

stazione e si struttura attraverso i due poli della cosa che appare e del

soggetto al quale appare: “l’Essere è il ‘luogo’ in cui i ‘modi di co-

scienza’ si inscrivono come strutturazioni dell’Essere […], e in cui le

strutturazioni dell’Essere sono modi di coscienza”136. Vediamo più da

vicino come avviene in Merleau-Ponty lo slittamento da un piano on-

tologico universale- ciò che definisce il suo ultimo sforzo filosofico- a

un piano che finisce col ricalcare il livello fenomenologico già rag-

giunto dal filosofo.

Il nostro corpo, abbiamo visto, si presenta come un corpo che sente

nel momento stesso in cui è sentito, tanto che la coppia senzien-

te/sentito o vedente/visibile assume una radicalità finora sconosciuta,

presentando il carattere di “una riflessione” di un termine sull’altro: un

visibile che dall’interno assume il carattere di vedente. Quello che non

convince è il passaggio successivo. Quando, nell’esempio delle mani

che Merleau-Ponty prende e rielabora da Husserl, la mano toccante

diventa toccata, essa entra a far parte del mondo come cosa tra le cose;

viceversa, quando la mano situata nel mondo diventa toccante, è il

mondo intero che ora assume la posizione di corpo toccante.

Se non c’è mai una coincidenza totale tra le due mani, perché la mano

sinistra non riesce mai a sorprendere la mano destra nell’analoga fun-

134 Ib., p.260. 135 V.sopra, nota 100. 136 Merlau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, p.265.

69

zione di mano toccante, il mio corpo appare segnato da una essenziale

incapacità a realizzarsi come “corpo proprio”, cioè come un’identità

compiuta a prescindere dalle relazioni che osservo tra le sue parti.

Commentando il manoscritto husserliano sulla “dottrina copernicana”,

in particolare dove Husserl afferma che “io posso gettare in alto delle

pietre e vedere le stesse che ricadono. Il lancio può essere più o meno

basso e chiaramente le apparenze relative sarebbero in questo caso

tanto analoghe ai movimenti che si verificano sul suolo terrestre, da

essere percepite come movimenti”137, Merleau-Ponty scrive: “Vi è pa-

rentela tra l’essere della Terra e quello del mio corpo (Leib), del quale

non posso dire propriamente che si muove perché è alla stessa distan-

za da me, e la parentela si estende agli altri, che mi appaiono come al-

tri corpi, agli animali, che concepisco come varianti della mia perso-

nalità, e in definitiva ai corpi terrestri stessi poiché li faccio rientrare

nella società dei viventi dicendo per esempio che una pietra vola”138.

L’estensione al mondo intero di ciò che si produce nel corpo proprio

appare del tutto illegittima o, per meglio dire, questa omogeneità onto-

logica risulta essere molto impegnativa per Merleau-Ponty139. Assu-

mere il nostro corpo come il prototipo dell’essere equivarrebbe a

proiettare sul mondo esterno lo stesso tipo di interiorità che registria-

mo a proposito del nostro corpo. Ma Merleau-Ponty si affretta ad

escludere ogni forma di antropologia. Non solo, ma l’omogeneità on-

tologica sparisce nel momento stesso in cui il filosofo afferma che “la

137 E.Husserl. Umsturz der kopernikanischem Lehre in der gewöhnlichen weltanschaulichen Inter-pretation, inedito datato 7-9 maggio 1934; tr.it. di G.D.Neri, Rovesciamento della dottrina coper-nicana nell’interpretazione della corrente visione del mondo, in “aut aut”, n°245, sett.-ott. 1991, p.11. 138 Merleau-Ponty, Linguaggio Storia Natura, tr.it., pp.122-133. 139 M.Henry scrive che in Merleau-Ponty “la carne […] ignora la sofferenza e la gioia, carne traslucida, trasparente, ridotta a una pellicola senza spessore, che non sarebbe la carne di nes-suno ma solo del mondo”; Henry M, Incarnation. Une philosophie de la chair, Seuil, Paris 2000; Traduzione e saggio introduttivo di Giuliano Sansonetti. Incarnazione. Una filosofia della carne. SEI, Torino 2001, p.132.

70

carne del mondo non è sentirsi come la mia carne- Essa è sensibile e

non senziente- […]. Non è ilozoismo: viceversa l’ilozoismo è concet-

tualizzazione”140. Eppure le cose percepite sono “correlati di un sog-

getto carnale, repliche del suo movimento e del suo sentire” e, inoltre,

“le cose mi ‘toccano’ come io le tocco”141. Queste affermazioni hanno

un senso solo nell’ottica di una fenomenologia che sa avvalersi del

contributo di altre discipline, come la psicoanalisi: “il desiderio consi-

derato da un punto di vista trascendentale=membratura del mio mondo

carnale e del mondo d’altri”142. Appaiono, invece, infondate nel mo-

mento in cui vogliono far parte di un’ontologia universale che deve

prescindere dalle “ontologie classiche” fondate sul rapporto soggetto-

oggetto. Infondate perché a noi quest’ultime sembrano racchiudere la

stessa posizione del filosofo francese quando dice che “la carne del

corpo fa comprendere la carne del mondo” o che “le cose sono ciò su

cui si apre la sinergia del mio corpo”143.

Quindi, pur parlando di chair per il corpo vivente e per il mondo, essa

non ha lo stesso significato, e dal lato del mondo finisce col rivestire

solo il significato prima delineato dal versante della donazione: “inso-

far as he does not manage to account for the specifity of our flesh,

which is defined as visibile-seer, touched-touching, he cannot

acknowledge the ontological specificità of the world, which remains

definitively something for the subject, an object, even if it is no longer

a pure objet. Merleau-Ponty’s philosophy is not a philosophy of flesh

but a philosophy of incarnation, as the insertion of counsciousness in

the world, that is a philosophy of counscoiusness”144.

140 Merlau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, p.,262. 141 Merlau-Ponty, La natura, p.316 e p.325. 142 Ib., p.326. 143 Ib., p.317 e p.325. 144 R.Barbaras, The ambiguity of the flesh, in Chiasmi international 4, Mimesis, Milano 2002, p.24.

71

Seconda Parte: Dufrenne

Capitolo 1 - Un’estetica fenomenologica

1.1 Il primato della percezione estetica

Ciò da cui intendiamo partire è l’articolazione del nesso tra fenomeno-

logia ed esperienza estetica, che compare già nel titolo del testo che

Dufrenne pubblica nel 1953145. È stato giustamente osservato che

“bien que le fait ne soit guère reconnu aujourd’hui, Mikel Dufrenne a

sans conteste ouvert la voi au tournant esthétique de la phénoménolo-

gie française”146.

L’inizio della Phénoménologie de l’experience esthétique assume i ri-

sultati della riflessione Husserliana sull’intenzionalità, così come essa

è stata recepita da Sartre e Merleau-Ponty.

Il merito principale di Husserl, secondo Dufrenne, consiste nell’aver

reimpostato il rapporto soggetto-oggetto attraverso il concetto di in-

tenzionalità. Se l’apparire dell’oggetto è indisgiungibile

dall’intuizione ad esso diretta, vuol dire che il rapporto in questione,

come totalità, è primo rispetto alle singole categorie chiamate in cau-

sa; giacché la percezione è un modo originario dell’intenzionalità, la

reciprocità tra soggetto e oggetto può essere illuminata dall’esperienza

estetica in quanto essa è, come dice Dufrenne, “la percezione per ec-

cellenza”. Da cosa deriva il privilegio accordato a questa particolare

forma di percezione? A prima vista questo primato non sembra sor-

145 M.Dufrenne, Phénoménologie de l’experience esthétique, PUF, Paris 1953, 2 voll. ; tr.it. del primo vol. di Liliana Magrini, Fenomenologia dell’esperienza estetica, Lerici, Milano 1969. Per le citazioni dal primo volume ci atterremo all’edizione italiana del testo, mentre per il secondo volu-me faremo riferimento al testo originale. 146 Maryvonne Saison, Le tournant esthétique de la phénoménologie, in “Revue d’Esthétique” nn. 36/1999, p.125.

72

prendere più di tanto da un punto di vista fenomenologico; è ovvio, in-

fatti, che alle diverse qualità dei vissuti corrispondano specifici atteg-

giamenti apprensionali, ma questa posizione del filosofo francese ac-

quisisce densità solo alla luce del suo lavoro di analisi rivolto alla de-

terminazione della specificità della dimensione estetica. Ed è, proba-

bilmente, lo stesso Husserl a fornirgli un punto di partenza nella lette-

ra rivolta ad Hofmannsthal, in cui l’autore delle Idee trova un’analogia

tra il lavoro del fenomenologo e quello dello scrittore, accomunati

dall’esigenza di scrutare il farsi fenomeno del mondo, anche se indif-

ferenti alla sua reale esistenza; l’unica differenza risiede nel fatto che

il filosofo penetra il senso del fenomeno per tradurlo in concetto, men-

tre lo scrittore se ne appropria intuitivamente per derivarne il materiale

delle sue creazioni estetiche.

Dufrenne sembra tenerne conto quando, discutendo della presunta ir-

realtà della vita immaginaria, afferma che, nel contesto di un oggetto

estetico, l’oggetto rappresentato che può essere incluso viene raggiun-

to “senza che io lo ponga, senza che mi riferisca ad un originale, dun-

que come un senso neutralizzato”147. In termini più espliciti, altrove

afferma che “l’esperienza estetica, nell’istante in cui è pura, porta a

compimento la riduzione fenomenologica”148. È questo punto che ini-

zia a gettare luce sul primato della percezione estetica; essa ha il meri-

to di non lasciarsi sviare dall’immaginazione, di non subordinarsi

all’intelletto che mira sempre alla totale padronanza pratica

dell’oggetto e delle sue relazioni con altri oggetti; il solo mondo pre-

sente al soggetto della percezione è il mondo dell’oggetto estetico,

“nient’altro che il sensibile colto nel suo splendore”149. Ecco, qui sono

147 M. Dufrenne, Fenomenologia dell’esperienza estetica, tr.it. cit., p.291. 148 M. Dufrenne, Intentionnalité et esthétique, in Esthétique et philosophie. Tome I, Paris, Klinck-sieck, 1967; tr.it. di di P. Stagi, Intenzionalità ed estetica; cfr. Filosofia ed estetica, Marietti, Ge-nova 1989, p.18. 149 Ibid.

73

poste le basi dell’equivalenza tra esperienza estetica e fenomenolo-

gia150, e visto che la prima avrà nell’opera d’arte la sua esperienza

esemplare, possiamo affermare l’equivalenza tra arte e fenomenolo-

gia. Poiché il concetto di realtà è utilizzato, come già in Merleau-

Ponty, nell’accezione più ampia possibile, in quanto considera regioni

del reale il possibile e il necessario, il senso della neutralizzazione

dell’esistenza è, in Dufrenne, quello di essere un sapere del mondo

completamente estraneo alla prassi quotidiana, un sapere essenziale

del mondo151.

La nozione di intenzionalità mostra una comunicazione originaria fra

soggetto e oggetto, e sarà sempre l’esperienza estetica a fungere da pa-

radigma nello sviluppo di ciò che in Kant aveva assunto lo statuto di

un accordo della natura con la nostra facoltà di conoscere. Solo la

comprensione del mondo espresso dall’oggetto estetico ci consentirà

di attingere un tipo di comprensione più profonda di quella legata alla

conoscenza intellettuale152 in cui, di fatto, viene sciolto il patto origi-

nario, che sorregge il mio incontro con il sensibile, al fine di una ridu-

zione dell’oggetto a qualcosa di pensabile o maneggiabile.

150 Il punto di partenza di Dufrenne è la “figura del cerchio”, ovvero il fatto che l’esperienza este-tica implica un oggetto estetico e quest’ultimo può essere individuato solo come correlato di un’esperienza estetica. Analogamente alle ultime due grandi riflessioni sull’arte, Le Lezioni d’estetica di Hegel e il saggio Sull’origine dell’opera d’arte di Heidegger, anche Dufrenne parte dal fatto che ci sono opere d’arte e queste rappresentano un punto di partenza adeguato per l’esperienza dello spettatatore. Derrida ha notato che questo modo di procedere “predetermina la combinatoria delle risposte. […]. Sarebbe già sempre all’opera una contrapposizione concettuale che tradizionalmente è sempre servita per comprendere l’arte: per esempio quella tra il senso, co-me contenuto interno, e la forma”: J. Derrida, La vérité en peinture, Flammarion, Paris 1978; tr.it. di D.Pozzi, La verità in pittura, Newton, Roma 2004, pp.24-25. 151 Dufrenne è consapevole che questa idea di riduzione fenomenologica verrebbe rifiutata come psicologistica; ma è convinto che il senso di rottura rispetto all’atteggiamento naturale, teorizzato da Husserl, sia lo stesso che si realizza nell’esperienza estetica. 152 Per quanto riguarda quest’ultima espressione, invano si cercherà una sua precisa caratterizza-zione. É valido il giudizio di Barilli: “Diciamo subito che anche il Dufrenne, non diversamente da altri autori della linea fenomenologica, non dimostra grande sensibilità per le zone di interesse epi-stemologico”. R.Barilli, Per un’estetica mondana, Il Mulino, Bologna 1964, p.281.

74

È evidente come qui operi l’insegnamento della Fenomenologia della

Percezione dove, come abbiamo avuto modo di illustrare nei capitoli

precedenti, si mostra il costituirsi di un’esperienza facendo appello al

sapere latente che il corpo veicola e che garantisce la mia capacità di

presa diretta sull’oggetto.

Se, nel momento in cui agisco nello spazio aperto dalla rappresenta-

zione intellettuale, viene dissipata la originaria solidarietà che ho con

l’oggetto, l’esperienza estetica si segnala per la sua capacità di riatti-

varla, perché in essa “conoscere ( connaître) è co- nascere ( co- naî-

tre)”153.

Questa relazione tra soggetto e oggetto ci svelerà tutta la portata della

meditazione di Dufrenne sul concetto di a-priori, a cui sarà affidato il

difficile compito di rendere il senso ontologico di questa pre-

comprensione, affinché la “comunicazione” che essa connota si sveli

fondata su una “comunione” più originaria. L’obiettivo è mostrare

quella primaria appartenenza al mondo che non conosce ancora la di-

stinzione soggetto-oggetto e che, dunque, è la dimensione

dell’apparire come tale. Il carattere originario di questo livello di ana-

lisi ci farà confrontare con l’idea di una “Natura naturante” che sugge-

risce a Dufrenne sia la distanza da Heidegger, sia il dovere di conti-

nuare a interrogare la grande eredità di Merleau-Ponty: “si

l’éxperience esthétique est celle d’un apparaître, c’est parce que l’être

de l’objet réside dans cette apparaître, parce que l’objet est tout entier

sensible, tout entier offert à la sensibilité: le devoilement n’est pas

l’acte de l’Être, c’est la vocation d’un être, et c’est pourquoi cet être

en appelle à ma sensibilità […]154. “Le fondement, ce serait la Nature,

non pas la Nature en soi qui ne porte pas le sens dont la science déci-

de, mais la Nature dans son mouvement vers l’homme […]. Merleau- 153 M.Dufrenne, Intenzionalità ed estetica, cit., p.25. 154 M.Dufrenne, La sensibilité généralisatrice, in Esthétique et Philosophie, cit., t.1, p.71.

75

Ponty n’a-t-il pas par moment approché cette idée d’une Nature natu-

rante sous le nom d’ Être, lorsque par exemple il écrit, à la fin d’un ar-

tiche admirable et obscur sur Husserl: ‘l’irrelatif, désormais, ce n’est

pas la nature en soi, ni le système des saisies de la conscience absolue,

mais cette “téléologie” dont parle Husserl, jointure et membrure de l’

Être qui s’accomplit à travers l’homme?”155

1.2 Percezione ed immaginazione: Sartre e Dufrenne

Possiamo fissare un primo punto. Anche Dufrenne, come Merleau-

Ponty, si muove su quel piano della presenza che ci restituisce il senso

di una preliminare appartenenza tra corpo e mondo. Ma prima di pro-

seguire sul versante dell’oggetto estetico, è fondamentale capire le ca-

ratteristiche che Dufrenne attribuisce alla percezione. É evidente che

solo sul piano della riflessione percezione ed immaginazione possono

essere affrontati separatamente, perché dai rapporti che la percezione

intrattiene con l’immaginazione noi deriviamo anche diverse caratte-

rizzazioni dell’oggetto estetico. Per Dufrenne, come per Merleau-

Ponty, Sartre rappresenta un interlocutore privilegiato e, anche in que-

sto caso, la critica è lucida e severa. La scissione che l’autore della

Nausea introduce tra il percepire e l’immaginare appare a Dufrenne

innanzitutto controintuitiva: “se l’analisi ha il diritto di porre la speci-

ficità di queste diverse intenzioni, nella vita della coscienza sono esse

vissute come specifiche? A me pare che il vissuto non si presti a di-

stinzioni così nette”156. Anche perché, qualora si ponessero distinzioni

così nette, dovremmo prevedere un complesso sistema di facoltà, “si

dovrebbe cioè istituire una facoltà che generalizzi il mero percepire at-

155 M.Dufrenne, Merleau-Ponty, cfr. “Les Études philosophiques”, n°1, 1962, p.89. 156 M.Dufrenne, L’Immaginario, cfr. Estetica e filosofia, t.1, p.81.

76

tuale, e una facoltà che attualizzi, che riempie il vuoto porre un ogget-

to in modo generale che è proprio dell’immagine”157.

Ma perché Sartre pone questa distinzione? Il suo obiettivo è mostrare

come l’immagine sia un ordine di attività non derivato dalla percezio-

ne, anzi la diversità tra i due atti è così radicale che l’uno non può es-

sere ridotto all’altro. Sartre non nega affatto il referto fenomenologico

per cui io percepisco più di ciò che vedo ma, analogamente ad Hus-

serl, attribuisce questo surplus alle intenzioni vuote che completano

gli aspetti visibili dell’oggetto. Queste intenzioni vuote possono, sì,

innescare delle immagini, fermo restando, però, che tali intenzioni so-

no eterogenee alle immagini. Ripercorreremo le sue analisi, negli

aspetti che più ci riguardano, tenendo conto dell’Imagination e

dell’Imaginaire158.

Esistono dei contenuti di coscienza, ma questi contenuti non sono

l’oggetto della coscienza: attraverso di essi l’intenzionalità tematizza

l’oggetto che, dal canto suo, è il correlato della coscienza, ma non è

della coscienza. Sartre non nega certo l’esistenza di dati visivi o tattili

che fanno parte della coscienza come elementi soggettivi immanenti,

ma essi non sono l’oggetto. L’impressione soggettiva che, senza dub-

bio, è analoga al rosso della cosa, non è che un quasi rosso: è, cioè, la

hylé sulla quale si applica l’atto intenzionale.

Valutiamo le conseguenze per il concetto di immagine, dato che

l’immagine è immagine di qualche cosa. L’immagine, divenendo una

struttura intenzionale, passa dallo stato di contenuto inerte di coscien-

za a quello di coscienza una e sintetica in relazione con un oggetto tra-

scendente. L’immagine del mio amico Piero non è un’orma lasciata

nella mia coscienza dalla percezione di Piero: è una forma di coscien- 157 R.Barilli, Per un’estetica mondana, cit.p.272. 158 J.P.Sartre, L’Imagination, Presses Universitarie de France, Paris 1936; tr.it. di Nestore Pirillo, L’Immagianzione, Bompiani, Milano 2004. In riferimento a L’Imaginaire, Gallimard, Paris, 1940; tr.it. di E.Bottasso, Immagine e coscienza, Einaudi, Torino 1964.

77

za organizzata che, a modo suo, si riferisce al mio amico Piero. Così,

nell’atto di immaginazione, la coscienza si riferisce direttamente a

Piero e non con l’intermediario di un simulacro. Ma se l’immagine

non è che un nome per una certa modalità della coscienza di tematiz-

zare il suo oggetto, niente impedisce di avvicinare le immagini mate-

riali ( quadri, fotografie..) alle immagini dette psichiche. Lo psicologi-

smo era giunto a separare radicalmente le une dalle altre, benché, in

realtà, riducesse le immagini psichiche a non essere che immagini ma-

teriali in noi. Si potrà, invece, assimilare l’atto di cogliere un quadro

come immagine all’apprensione intenzionale di un contenuto psichico.

Nel §111 del primo libro delle Idee Husserl affronta l’incisione di Dü-

rer Il cavaliere, la morte e il diavolo. Certamente, dice Sartre com-

mentando Husserl, la hylé che apprendiamo per costituire

l’apparizione estetica del cavaliere è senza dubbio la stessa che nella

pura e semplice percezione del foglio d’album inciso. La differenza si

trova nella struttura intenzionale e questa sola distingue l’immagine

dalla percezione. Sappiamo, dunque, che la coscienza di immagine

esterna e la coscienza percettiva corrispondente, pur differendo per

quanto concerne l’atto intenzionale, hanno identici dati sensibili. Ma

tutto ciò vale per l’immagine mentale? Secondo Sartre le Ricerche

Logiche sembrerebbero dire di si perché Husserl afferma che

l’immagine esplica la funzione di riempire i saperi vuoti, proprio co-

me fanno le cose della percezione159. Per esempio, se penso a un pas-

sero, dice Sartre, posso pensarci a vuoto, cioè produrre solo un atto in-

tenzionale significante, fissato sulla parola passero. Ma, per riempire

questa coscienza vuota e trasformarla in coscienza intuitiva, è indiffe-

159 D.Giovannangeli ha fatto osservare che l’analisi di Sartre è scorretta perché mai Husserl assimi-la Hylè e riempimento intuitivo. Il riempimento intuitivo pertiene all’intenzionalità: le intuizioni sono delle intenzioni. Le intenzioni riempienti appartengono anch’esse al lato noematico come le intenzioni di significazione. Cfr.Le refus de la hylé chez Sartre, in “Études Phénoménologique”, Ousia, n°39-40, 2004, pp.259-283.

78

rente il fatto che io formi un’immagine di passero o che guardi un pas-

sero in carne e ossa. Questo significa che l’immagine dispone di dati

sensibili concreti per il riempimento e che è essa stessa un pieno. Del

resto nelle Lezioni sulla coscienza interna del tempo, Husserl distin-

gue dalla ritenzione, che è una maniera non posizionale di conservare

il passato, la rimemorazione, che consiste nel far riapparire le cose del

passato con le loro qualità: l’immagine ricordo non è altro che una co-

scienza percettiva modificata, il che non esclude che la hylé sia

un’impressione sensibile rinascente. Così, la distinzione tra immagine

e percezione è tutta una conseguenza dell’intenzionalità.

Che conclusioni possiamo trarre? Posso animare dati sensibili qualsia-

si come percezione o immagine a mio piacimento? Si procede in que-

sto modo di fronte all’incisione di Dürer, che possiamo percepire, a

nostro piacimento, come “oggetto cosa” o “immagine”; ma accade

perché qui abbiamo due interpretazioni degli stessi dati sensibili. Trat-

tandosi di un’immagine mentale, però, ognuno può verificare che è

imposibile animare la sua hylé in modo da farne la materia di una per-

cezione. Questa “ambivalenza hyletica” è possibile solo in un esiguo

numero di casi.

Come trovare i motivi che ci spingono a elaborare certi dati in imma-

gine mentale piuttosto che in percezione? Nelle Meditazioni Cartesia-

ne, nota Sartre, c’è un indizio di spiegazione perché Husserl distingue

le sintesi passive, che si fanno per associazione e la cui forma è il flus-

so temporale, dalle sintesi attive ( giudizio, finzione). Ogni finzione è

una sintesi attiva, mentre la percezione è passiva. Non ci viene detto,

però, se la sintesi attiva determina una modificazione della hylé o sol-

tanto una modificazione del tipo di riunione. Secondo Sartre, la co-

scienza può essere determinata a farsi immaginativa dalla presenza di

un analogon, cioè il rappresentante analogico dell’oggetto esterno.

79

Che tipo di rapporto sussiste tra analogon e immagine? È un rapporto

segnico?

Merleau-Ponty lamentava la scarsa definizione dello statuto ontologi-

co dell’analogon e in effetti non è semplice cogliere la sua specificità.

Considerarlo un segno dell’immagine ci porterebbe ad attribuirgli un

significato stabilito e fissato all’interno di un determinato codice cul-

turale; in secondo luogo il segno è transitivo, caratterizzato dalla strut-

tura del rimando, mentre in Sartre l’analogon deve presentarci

l’immagine e non solo denotarla, ovvero è intransitivo, cioè la dimen-

sione virtuale dei significati non può mai considerarsi senza aderire al-

la componente materiale tangibile. Il fatto che Sartre parli proprio di

analogon indurrebbe a ipotizzare, per la natura di questo supporto ma-

teriale, una sorta di raffigurazione schematica che opererebbe appunto

per analogia; ipotesi confermata da alcuni tipi di analogia indicati da

Sartre: foto, ritratti… .Ma quando l’analogon è una parola, quando ci

troviamo di fronte a casi di arte non figurativa, quando ascoltiamo la

musica? In questi casi l’analogon abbandona ogni tentazione di mi-

mesi, ancora riscontrabile nell’esempio di una riproduzione, e si fa po-

tere dell’occhio che opera la transustanziazione160. In un testo su Mas-

son si legge: “ (les choses) se changent en hommes pour que les traits

qui les figurent suggèrent à la fois des mouvents et des alterations

qualitatives. Masson est amené par là à retracer toute une mythologie

metamorphosée: il fait passer le règne mineral, le règne vegetal et le

règne animal dans le règne humain”161.

160 “Si le peintre veut animer sa peinture, qu’il projette donc sur les choses la trascendence de l’homme, qu’il unifie plus ancore que par les armonies de couleurs et par les rapports de forme, en les engageant toutes ensemble dans un meme movement humaine […], que l’homme, enfin, visi-ble ou dissimulé, soit le pole magnétique qui tire à lui toute la toile […]. L’homme est le milieu réfrigent à travers le quel Masson voit les choses et veut nous le faire voire.” J.P.Sartre, Situations IV, Gallimard, Paris 1964, p.395. 161 Ib.p.400.

80

In un altro testo, sempre contenuto in Situations IV, lamentando

l’incapacità dei pittori figurativi a denunciare la sofferenza umana

perchè, nell’ansia di far passare i loro buoni sentimenti, inclini a cade-

re nell’accademismo, Sartre celebra il procedimento di Lapoujade in

quanto riesce a dare il senso della sofferenza della folla senza rappre-

sentare le persone: attraverso l’addensamento e la rarefazione della

materia cromatica, il pittore presenta “l’unité explosives des mas-

ses”162 che dall’interno si riversa all’esterno del quadro.

Nei casi in cui non c’è il dato materiale per la coscienza Sartre ci dice

che l’analogon è un dato psichico e, soprattutto, che solo in astratto

noi distinguiamo “moti, sapere e affettività”. Sembra, dunque, presen-

tarsi subito un problema di coerenza interna: se l’immaginazione mo-

bilita tutto il soggetto, come mantenere la distinzione così netta tra

percezione e immaginazione?

Nota Dufrenne in riferimento a Sartre: “la carne dell’oggetto non è la

stessa nell’immagine e nella percezione: essa è segnata

(nell’immagine) da una povertà essenziale che vieta all’immagine di

costituire un mondo; l’immaginario è mantenuto in vita solo artifi-

cialmente. Si tratta, dunque, di un irreale che procede, in quanto non

potrebbe esser dato, da una irrealizzazione, anzi da una doppia irrea-

lizzazione; la coscienza immaginativa esclude il percepito e ‘pone il

proprio oggetto come un niente’”163. Infatti, in entrambi i casi il mo-

vimento della coscienza è intenzionale, ma nel caso dell’immagine il

correlato della coscienza è preso di mira come ciò che non è sottopo-

sto al mio sguardo. Questa circostanza fa sì che, per quanto

l’immagine che ho del Pantheon in questo momento mentre scrivo sia

dotata di una certa concretezza, non riesco ad avere tutti i particolari

che ricavo da un’osservazione diretta. Mentre nella fase percettiva en- 162 Ib.p.382. 163 M.Dufrenne, L’immaginario, cit.p.79.

81

tra in gioco il carico di tutti i miei saperi e risulta esso stesso ampliato

dall’incontro materiale con il mondo, nel caso di un’immagine io pos-

so trovarvi solo quello che già conosco, proprio perché viene a manca-

re il rapporto dialettico con la presenza del mondo; in questo

l’immagine è povera ed è un niente. Si tratta, però, di una povertà da

intendere in senso fenomenologico e non certo nel senso di una tratta-

zione dell’immagine in termini di percezione ridotta. Da un punto di

vista fenomenologico significa che l’immagine del Pantheon mi dà la

sua essenza e non la sua singolarità empirica.

Ne derivano, per Sartre, conseguenze estremamente impegnative. Se

l’immaginazione è la coscienza che realizza la propria libertà attraver-

so l’irrealizzazione, vuol dire che l’atto posizionale specifico della co-

scienza immaginativa è cosciente di sé. Ora, si può senz’altro render

ragione di questa tesi in molti casi, ma Sartre è ben consapevole che il

sogno e l’allucinazione costituiscono, da questo punto di vista, un im-

portante problema teorico. Le vie d’uscita indicate dalle analisi sar-

triane, di cui Dufrenne non manca di sottolineare la sottigliezza, con-

sistono nel far apparire una coscienza impersonale non tetica nel caso

dell’allucinazione e, nel caso del sogno, a porre una coscienza che ap-

pare vittima di se stessa perché non può non immaginare. Commenta

Dufrenne: “Odissea di una coscienza votata da se stessa, e a dispetto

di se stessa, a non costituire che un mondo irreale, per la quale, nel

tempo del sogno, la categoria del reale non esiste”.164 Ciò che perma-

ne anche in queste esperienze è l’identificazione dell’immaginario con

l’irreale, per cui l’oggetto estetico viene ad essere, in Sartre, “una co-

sa” fuori dal reale. Eppure abbiamo inteso che il reale funziona come

analogon quando cessa di essere percepito per se stesso; solo che

quando Sartre dice “cosa” intende non la componente materiale

164 Ibid.

82

dell’oggetto estetico ma il suo senso; in ultima analisi l’indicazione di

Sartre va verso ciò che l’opera esprime.

Proviamo a ipotizzare una situazione: dietro la maestosità di una cat-

tedrale gotica si può leggere la minaccia di forze oscure. In termini

sartriani diremo che l’ideatore della cattedrale ha realizzato un analo-

gon materiale attraverso il quale si compie l’atteggiamento immagina-

tivo. Ma il problema è proprio qui e Dufrenne lo formula con chiarez-

za: “da che cosa nasce che la cosa percepita possa evocare precisa-

mente quell’immagine che ha ossessionato l’artista, e non un’altra?

Non occorre che l’immaginario sia già in qualche modo nella cosa

percepita, che alla forma soggettiva colta corrisponde una struttura

oggettiva […]? Se l’irreale, come senso dell’oggetto estetico, non è un

immaginario, significa che è intrinseco a quell’oggetto e deve essere

colto in esso”.165

1.3 Prospettive metafisiche

Finché ci limitiamo ad una considerazione puramente obiettiva della

struttura dell’oggetto noi non comprendiamo l’oggetto estetico, perché

stiamo valutando la tecnica di produzione in un contesto di storia

dell’arte; ma l’opera d’arte vuole un altro tipo d’approccio e in questo

senso l’opera è “surdéterminée”. Di fronte alla pittura di Bosch io pos-

so muovere da una considerazione di cosmologia alchemica per poi ri-

costruire le tappe di una storia individuale, quella dell’autore e di una

storia sociale che la ingloba. In altri termini, sto rintracciando l’azione

di una o più cause.

Il livello più profondo di riflessione, invece, deve pensare la genesi

come un’autogenesi, cioè arrivare a cogliere dell’opera il senso di una

165 M.Dufrenne, Fenomenologia dell’esperienza estetica, pp.291-292.

83

necessità per la quale essa è così e non potrebbe essere altrimenti: “le

questions que nous posions: pourquoi ce trait, cette ligne mélodique,

cet ornament? Elles reçoivent maintenent une réponse, non plus par la

découverte d’une cause exterieure à l’oeuvre, mais par le sentiment

d’une nécessité interieure à l’oeuvre”.166 Questa necessità si pone

all’origine del carattere inesauribile dell’opera stessa. L’opera è ine-

sauribile già da un punto di vista fenomenologico come qualsiasi altro

oggetto, perché sempre sottoposta allo sguardo da un punto di vista

determinato che, come tale, invoca un completamento. Ma c’è

un’ulteriore densità dell’opera, questa volta per eccesso e non per di-

fetto, e attiene alla molteplicità delle interpretazioni di cui è suscettibi-

le. Nella misura in cui questi punti di vista cercano di cogliere la natu-

ra dell’oggetto, essi vanno nella direzione della profondità dell’opera,

che non è dunque “l’opacitè de l’en- soi, mais la plénitude d’un

sens”167. D’altra parte, poiché solo lo spettatore può riconoscere la ne-

cessità dell’oggetto estetico, la profondità di quest’ultimo è correlativa

alla nostra profondità, cosicché “ce qui mesure la profondeur de

l’objet c’est la profondeur d’existence à la quelle il nous convie”.168

Che cosa è la profondità nell’uomo? Noi siamo soggetti allo scorrere

irreversibile del tempo, ma la nostra idea di interiorità ci permette di

sperimentare la dimensione del profondo nel senso di ciò che, nel

tempo, persiste nella sua invulnerabilità. Dufrenne è attento, però, a

non tramutare il qualitativo in quantitativo, cioè a non confondere la

profondità con l’idea di una stratificazione temporale che deve essere

esplicitata; infatti, il suo essere profondo, “c’est se situer en un certain

plan où l’on devient sensibile par tout son être, où la personne se ras-

166 M.Dufrenne, Phénoménologie de l’experience esthétique, cit., p.490. 167 Ib.p.493. 168 Ibid.

84

semble et s’engage”169. Questa profondità appartiene al sentimento

estetico, perché davanti all’oggetto estetico io non sono né una pura

coscienza né un puro sguardo “lourd de tout ce que je suis”.

Quando ascolto la musica essa trova in me una sorta di eco, ma non

per un rapporto diretto che verrebbe ad instaurarsi tra i suoni e deter-

minate esperienze personali; in altre parole, la musica non deve risve-

gliare in me una precisa tristezza o un determinato carico di pensieri

perché, in questo caso, come per il lettore di Sartre, cesserei di inten-

derla: “mais cela signifie que tous ces événements de mon passé sont

devenues moi, et qu’en écoutant la mélodie je consens à être ce moi au

lieu de vivre en surface de moi- même”170.

Non bisogna pensare che il profondo diventi sinonimo di inconscio;

certo “la psicoanalisi può chiarire questo punto mostrando, con

Lyotard, come l’opera solleciti i nostri fantasmi offrendo loro un ter-

reno in cui muoversi liberamente”171, ma possiamo anche parlare della

profondità come di ciò che scuote il nostro essere, così come parliamo

di un sentimento profondo nell’ottica di ciò che mobilita i nostri atti e

pensieri.

Ovviamente, profondo è anche tutto quello in grado, dall’esterno, di

risuonare nelle nostre profondità; nel nostro caso significa ritornare ad

interrogare la profondità dell’oggetto estetico ribadendo, ancora una

volta, come essa non risulti da una proiezione del soggetto.

Né, tantomeno, il soggetto è pienamente passivo, piuttosto deve rende-

re la presenza dell’oggetto “una comunione”.

In cosa, allora, è profonda l’opera? Un’opera è profonda per ciò che

esprime, quando suggerisce una necessità interna, una “densitè

d’être”, che la rende analoga alla cosa naturale; è, dice Dufrenne, la 169 Ib.p.500. 170 Ib.p.501. 171 M.Dufrenne, La profondità come dimensione dell’oggetto estetico, cfr. Estetica e filosofia, cit., p.209.

85

inalterabile permanenza del mare, il ripetere indefinitamente la sua

inesauribile totalità.

Ma sono soprattutto il vivente e la coscienza a offrirci una manifesta-

zione esemplare della profondità dell’oggetto estetico.

Il vivente ci offre il modello di un organizzarsi delle singole parti in

riferimento ad una totalità che si definisce non in rapporto a fini parti-

colari, ma alla totalità stessa come orizzonte di comprensione che si

temporalizza nel suo stesso divenire.

È la coscienza, però, a rivelarci il senso del profondo, in quanto vita

che distingue la sua stessa interiorità e, contemporaneamente, le è es-

senziale il rapporto a un mondo; lo stesso dicasi per l’oggetto estetico.

Esso è profondo per la finalità interna che manifesta come un vivente

e “par l’aura de sens qu’il diffuse et qui s’irradie en un monde: son in-

terioritè est celle d’une chose qui secrète un sens par la quelle elle

s’illimite”172.

La profondità del senso è il suo carattere indicibile o, meglio, la nostra

incapacità a tradurlo in parole. E tuttavia sussiste una differenza fon-

damentale tra la coscienza e l’oggetto estetico; mentre la coscienza

non è il mondo verso il quale tende e di cui pure riesce a prefigurarne

degli aspetti ma senza mai poterli esaurire, l’oggetto estetico, invece,

si realizza pienamente nel mondo che suscita e arriva a designare

l’intensità di una presenza che basta a se stessa.

Da quanto detto, si evince come l’approccio di Dufrenne all’oggetto

estetico cerchi di mediare tra due posizioni non conciliabili. È diffici-

le, infatti, non rimarcare le incertezze manifestate dall’autore stesso.

Dufrenne, infatti, chiude il secondo volume della Phénoménologie de

la conscience esthétique con un paragrafo intitolato Perspective

Métaphysique, al termine del quale afferma che “une exégèse anthro-

172 M.Dufrenne, Phénoménologie de l’experience esthétique, cit., p.512.

86

pologique de l’expérience esthétique est toujours possibile, et il n’est

pas nécessaire que la critique vire à l’ontologie”173. Certo, questa af-

fermazione non sorprende affatto; abbiamo rimarcato come

l’inesauribilità dell’oggetto sia la cifra di un eccesso d’essere niente

affatto incompatibile con una prospettiva di analisi fenomenologica

che, di fatto, viene a sancire questo carattere positivo dell’oggetto. In-

fatti Dufrenne non ha alcun timore di cedere alle lusinghe della più

elitaria tradizione umanistica: “il mondo estetico specificato da uno

stile è sempre un mondo umano, un mondo di cose che è lì per qual-

cuno come quel mondo magico che si scopre soltanto all’iniziato”174.

Ma non mancano impostazioni diametralmente diverse nello stesso te-

sto: “refuser à l’homme le privilége de fonder le vrai pour fonder

l’homme sur le vrai, c’est donner la parole à l’être, l’être etant ici le

sens lui même ou, comme nous le suggerions, cet a priori antérieur à

ses specifications existentielle et cosmologique, et qui semble fonder à

la fois le sujet et l’objet, l’homme et le monde.”175

In altre parole, Dufrenne ci fornisce un soggetto che non ha l’idea di-

rettrice dell’opera da farsi, ma è il portatore di una teleologia intenzio-

nale universale in cui “l’artiste est un instrument de la dialectique de

l’être, c’est le résultat d’une finalité objective qui implique un principe

originaire métaphisique: l’être ou la vie, ou la nature.”176

Il primo abbozzo di questa ipotesi ontologica è, dunque, ancora incer-

to; si dice che la presa di coscienza della vita costituisce la verità di

questa vita e che questa volontà della vita a riflettersi la si può esten-

dere a tutto il reale, supponendo, così, che l’affettivo tenda a compier-

si nell’arte. Il conseguente richiamo all’essere, non certo estraneo alla

sirena heideggeriana, si distacca dal filosofo tedesco perché questo es- 173 Ib. p.677. 174 M.Dufrenne, Fenomenologia dell’esperienza estetica, tr.cit., p.178. 175 M.Dufrenne, Phénoménologie de l’experience esthétique, cit., p.666. 176G. Morpurgo- Tagliabue, L’estetica contemporanea, Marzorati, Milano 1960, p.467.

87

sere si disvela solo mediante un preciso movimento percettivo, quello

che realizza l’esperienza estetica.

Procederemo presentando le conclusioni della Phénoménologie de la

perception, per poi seguire il ripensamento di alcune acquisizioni che

lo stesso Dufrenne considerava non definitive: “peut- être le dernier

mot est- il qu’il n’y a pas de dernier mot”177.

177 M.Dufrenne, Phénoménologie de l’experience esthétique, cit., p.677.

88

Capitolo 2 - Verso una filosofia della natura

2.1 L’A-priori

C’è qualcosa nell’esperienza estetica, secondo Dufrenne, che apre lo

spazio per una trattazione del concetto di a- priori, ed è la capacità

propria dell’oggetto estetico di aprire un mondo. Sappiamo che se

l’oggetto estetico suscita un mondo, lo fa provocando un sentimento;

la stessa dinamica relazionale, che non ci consente di trattare isolata-

mente né il polo soggettivo né quello oggettivo, è all’opera anche nel

concetto di a-priori.

L’a-priori riguarda l’oggetto come ciò che lo costituisce, è la qualità

affettiva che ci rivela il mondo di un oggetto estetico. In effetti, biso-

gna subito aver chiaro che l’affettività non svolge affatto funzione di

medio tra l’a priori e l’oggetto, ma designa una precisa classe di a

priori di natura affettiva, così come quelli kantiani fanno riferendosi

alla sfera dell’intelletto.

Sulla scia di Husserl e Scheler, l’a-priori, per Dufrenne, non ha carat-

tere formale ma materiale e, quindi, la sua trattazione investe la forma

della conoscenza e il suo stesso contenuto; in altre parole, se l’a- priori

è forma, lo è del sensibile e non della sensibilità. Già questa prima ca-

ratterizzazione pone un serio dubbio sull’opportunità di continuare a

parlare di a-priori, visto che il concetto consegnatoci dalla tradizione

presenta il carattere di universalità conseguente alla necessità della sua

fondazione in seno alla soggettività kantiana. Secondo Dufrenne l’a-

priori materiale è ancora dotato di necessità ma ha uno statuto diverso

rispetto a quella kantiana. La necessità con la quale si impone l’a-

priori non è una necessità logica ma una “necessità sensibile” la quale,

più che richiamare le categorie dell’intelletto, condivide il suo statuto

con le forme a-priori della sensibilità, cioè lo spazio e il tempo. Infatti

89

queste, nota Dufrenne, sono forme della sensibilità e non del discorso

e sono esse stesse sensibili.

Il problema è sapere se e in che misura la necessità derivi dall’a- prio-

ri. Non possiamo certo intendere la necessità come la fedeltà alle rego-

le di un determinato discorso “si la position des principes initiaux

n’est pas elle- même arbitraire, si elle est inspiré par l’évidence primi-

tive avec la quelle l’a priori se donne”178. Al di fuori della necessità

logica dobbiamo,dunque, pensare il necessario come ciò che “est à la

mesure de l’univers”, ossia come costituito da elementi strutturali che

risultano universali per il loro contenuto e non per la loro forma179.

Husserl, secondo Dufrenne, ne ha fornito un valido esempio con l’a-

priori universale della storia; la storia, come scienza, non è possibile

se non sul fondamento di un sapere a-priori della storia e tale a-priori

non indica solo la forma di conoscenza ma il contenuto stesso della

storia. Perciò in Husserl la storia diviene storia del senso, orientata dal

telos che definisce l’identità europea, e che fa dell’a-priori la rivela-

zione del contenuto della storia.

Di che natura è questa rivelazione? “Il est moins un savoir qu’un sen-

timent”180, dice Dufrenne. Ma un primo equivoco da evitare è

l’accostamento dell’ a-priori con il desiderio e l’emozione181, perché il

sentimento è una modalità “désintéressée” di fruizione di una qualità

affettiva come elemento strutturale di un oggetto. In altri termini, la

mia qualità affettiva non è che una risposta alla struttura affettiva

178 M.Dufrenne, L’inventaire des a priori, Bourgois, Paris 1980, pp.22-23. 179 “Questi significati a priori sono simili alle forme della teoria della Gestalt, indipendenti persino da quelle operazioni di comparazione e constatazione che per l’empirismo più radicale ( Hume o i positivisti logici) sono ancora necessarie affinché si formino delle idee a partire dall’esperienza.”; in E.Levinas, A priori e Soggettività, cfr. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, op.cit.p.207. 180 M.Dufrenne, L’inventaire des a priori. p.24. 181 “de même que l’idée du cercle n’est pas ronde, le sentiment du tragique n’est pas tragique, mê-me s’il est opprimant ou exaltant”; cfr. M.Dufrenne, Phénoménologie de l’experience esthétique, op.cit., p. 544.

90

dell’oggetto e quest’ultimo, come ormai è chiaro, esiste solo per il

soggetto, nel senso che esso attesta una dimensione dell’esperienza re-

lazionale che può emergere solo in virtù di una partecipazione simpa-

tetica del soggetto umano e “de là vient que les qualités affectives en

lesquelles se résout l’atmosphére propre à chaque objét esthétique sont

désignées anthropomorphiquement: l’horrible de Bosch, l’allégresse

de Mozart […].”182

Ma perché questo duplice riferimento dell’a-priori al soggetto e

all’oggetto? Se ci riferiamo a Kant, l’a-priori è il carattere della cono-

scenza trascendentale; ma lo stesso oggetto, su cui conduce questa co-

noscenza, può essere considerato a sua volta a priori in quanto fonda

la possibilità dell’oggetto empirico. In altri termini, le condizioni di

possibilità dell’esperienza sono le condizioni della possibilità dello

stesso oggetto dell’esperienza183. Il limite di Kant, secondo Dufrenne,

è che ha concepito la relazione all’oggetto solo sotto la categoria della

conoscenza intellettuale, per cui la caratterizzazione dell’oggetto in

quanto a priori è funzionale alla fondazione del valore oggettivo della

conoscenza184.

Ha ragione Ricoeur, allora, quando osserva che la dualità dell’a-priori

in Dufrenne “veut faire apparaître comme problème, comme aporie,

ce qui reste dissimulé dans le kantisme: le fondement de l’accord de

l’homme et du monde”185.

A quali livelli facciamo esperienza dell’a-priori? Se esso qualifica la

reciprocità tra soggetto e oggetto, troveremo l’a-priori ripercorrendo le

182 Ibid. 183 “Il semble donc que Heidegger ne soit pas infidèl à Kant lorsque il assigne à la reflexion criti-que l’èlucidation de la ‘subjectivité du sujet’”; ib. p.546. 184 A proposito di Kant e Dufrenne scrive Baldine Saint Girons: “La règle qui définit l’objectivité définit l’objet mais, en retour, la règle n’a de sens qu’en tant qu’elle est règle pour l’experience. […]. Mais, et telle est la question de Dufrenne, si l’ a priori n’a de validità que par rapport à l’expérience, ne peut on pas dire qu’il se lit sur elle?”; cfr. Dufrenne et l’a priori matériel, in A.a.V.v, Dufrenne et les arts, Unversité Paris X, Paris 1998, p.49. 185 P.Ricoeur, La notion d’a priori selon Mikel Dufrenne, in “Esprit” 3, 1961, p.509.

91

modalità di rapporto soggetto-oggetto su cui ci siamo già soffermati,

cioè i gradi della presenza, della rappresentazione e del sentimento. A

ciascuno di questi stadi corrisponde una determinazione essenziale

della soggettività: corpo sul piano della presenza, soggetto impersona-

le sul piano della rappresentazione e la profondità del sè costitutiva

del sentimento186.

In prima istanza l’a-priori è la presenza immediata di un senso; questo

immediato si rivela, ma non rivela la sua storia né permette che di esso

si possa disporre di una forma di apprendimento. Quello che caratte-

rizza il senso, lo abbiamo visto, è la sua immanenza all’oggetto. Il

modo di annunciarsi di quest’ultimo è quello di una cosa che si dà

identica a se stessa e distinta dalle altre. É chiaro che si danno anche

oggetti non distinti nella loro cosalità - si pensi alle nuvole -, ma que-

sta stessa identità sfumata costituisce il loro senso e “sans doute ne

pouvons nous l’expliciter: ce qui nous met en état d’intelligence avec

le monde n’est pas lui-même forcément intelligible”187. Si intuisce che

questo senso immediato “à l’état sauvage” è complesso, perché è

un’esperienza nella quale i confini degli ambiti di competenza tra sog-

getto e mondo possono non essere affatto definiti, per quanto il sog-

getto si mostri capace di comprensione sulla base di una “précom-

préhension originelle, qui n’est pas nécessariament vrai au regard de

la compréhension ultérieure, mais qui est toujours présupposée”188.

Cosa ci consegna il carattere costituente dell’a-priori? L’essenza

dell’oggetto, ciò per cui esso è identificabile? In realtà, afferma Du-

frenne, non abbiamo né l’essenza generale che permette di definire

186 “Remarquons ici bien d’ailleurs que le sentiment n’est pas ici le privilège du spectateur en face du monde exprimé par l’objet esthétique, mais le propre de tout homme capable d’assumer assez d’humanité personelle et de profondeur pour éprouver et comme irradier un monde qui lui soit per-sonnel, et qui ne soit pas simplement le monde où il vit selon son corps ou qu’il pense selon son entendement”; in M.Dufrenne, Phénoménologie de l’experience esthétique, cit., p548. 187 M.Dufrenne, L’inventaire des a priori, cit., p.29. 188 Ib.p.30. Su questa presenza immediata del senso torneremo nella Conclusione.

92

l’oggetto secondo il suo genere, né l’essenza singolare che connota la

sua differenza. L’essenza generale “n’est assurément pas livrée par le

regard naïf qui se porte sur l’objet”; il senso costituente va inteso co-

me un predicato dotato di generalità, non certo come qualità singolare

aderente all’espressione sensibile189. Ma di questa generalità non c’è

genesi, perché essa non è “le resultat d’une géneralisation empirique;

les correspondances inspirées qu’elle fonde n’ont rien de commun

avec les confrontations méthodiques qui permettent la détermination

de l’essence. Du général, immediatement donné comme sens de

l’objet, tel est le second critère de l’a priori. Nous ne nous dissimulons

pas que ces critères sont fort labiles”190.

La labilità dei criteri invocati per la teorizzazione degli a priori è il

prezzo da pagare per la prospettiva dualista del soggettivo e

dell’oggettivo che caratterizza il ruolo costituente degli a priori: “c’est

pourquoi l’empirisme nous trouvera toujours vulnérable: nous lui op-

posons un empirisme du transcendental”.191

Dufrenne ha ben chiaro il problema di un’impostazione del trascen-

dentale a partire da un contesto empirico, che qui diventa un concetto

di esperienza come evidenza di oggetti individuali. Sembra questo,

almeno, quanto Dufrenne ci dice descrivendo la visione di una monta-

gna. Una montagna mi si dà come una cosa grandiosa, ma anche come

una cosa stabile e in un contesto di cose collocate nello spazio e nel

tempo. Essa mi rivela tanto l’inerzia della materia quanto la purezza

delle cime, nonché gli effetti di una causa quale può essere

un’improvvisa valanga; tutto questo prima di avere una teoria della

materia o prima di cercare come una causa produca un effetto: “être

189 “L’oggetto espresso è presente nella sua singolarità, ma, in quanto espresso, esce anche da quest’ultima, e la sua rivelazione è la sua universalizzazione.”; in E.Levinas, A priori e Soggettivi-tà, in Scoprire l’esistenza, cit.p.207. 190 M.Dufrenne, L’inventaire des a priori, cit. p.32. 191 Ib.p.41.

93

objet, être matériel, être spatial, être temporel, être grandiose: nous

voici autorisés, semble- t –il, à discerner divers a priori. Mais alor

comment se composent ils dans l’objet? Se font- ils concurrance?”192

A quest’ultima domanda Dufrenne risponde negativamente; l’a-priori,

infatti, non è un principio capace di attività, esso è un senso e, come

tale, non esiste per se stesso ma solo per noi che ci confrontiamo con

un oggetto costituito, cioè comprensibile. Egli si affretta, inoltre, a

precisare che questo riferimento al soggetto non impone alcuna forma

di idealismo, perché “l’initiative du sujet se borne à discerner ce qui

est dans l’objet, ou plutôt ce qui est l’objet lui- même, mais qui, dans

l’objet, n’est pas articulable […]. Le discernement est l’œuvre de la

réflexion.”193

Ma a noi interessa la circostanza in cui l’a-priori è vissuto da una co-

scienza pre- riflessiva perché, in questo caso, “ce discernement n’a pas

lieu”. Ciò non significa che il pre- conoscere riguardo al contenuto sia

vuoto, ma solo che è incompleto. A partire dal nucleo di un’effettiva e

successiva presa di conoscenza, abbiamo il rinvio alla possibilità di

sempre nuove determinazioni della cosa stessa nel concatenarsi di

nuove esperienze: “la visée de l’objet est le plus souvent ordonnée à

un sens qui eclipse les autres. Il va de soi que la montagne est un objet

spatio- temporel, mais quand nous la saisissons comme grandiose,

nous ne sommes sensibile qu’à cette expression; c’est cet a priori que

nous receillons consciemment, qui organise notre expérience, qui la

constitue en totalité significante.”194

Una domanda prima di procedere; escluso il carattere formale dell’a-

priori, quale criterio adottare per scongiurare il pericolo di una prolife-

razione senza fine degli a priori, tanto dal lato del soggetto quanto da

192 Ib.p.47. 193 Ib.p.48. 194 Ibid.

94

quello dell’oggetto? In riferimento a quest’ultimo, la chiave sembra

trovarsi nelle corrispondenze evocate nel testo appena richiamato,

perché l’evidenza intuitiva del senso in un oggetto non è mai vinco-

lante per l’oggetto, visto che il senso, in virtù della sua generalità, lo

supera aprendo per noi lo spazio di possibili corrispondenze da rico-

noscere; ragion per cui, per esempio, la leggerezza può essermi data

sia da un bambino intento a giocare, sia da un allegro di Bach. È l’ a-

priori, dunque, a costituire il senso delle cose: “il ne s’agit pas de

l’acte historique de création par lequel une certaine œuvre a été com-

posée, mais d’une certaine attitude existentielle à partir de laquelle ce

monde peut apparaître. Et cette attitude est elle même a priori par rap-

porta au sujet, en ce sens qu’elle le constitue comme sujet.”195

In rapporto al soggetto, invece, abbiamo già detto che l’a-priori è que-

sta comprensione preliminare del dato senza la quale il senso dello

stesso non si darebbe. È chiaro che qui, come in Merleau-Ponty, agi-

sce la suggestione di Valéry sul corpo dello spirito. Ma mentre Mer-

leau-Ponty, come abbiamo visto, si fa strada tra Freud e Proust per

concettualizzare il fungere di una dimensione che deve rendere il di-

venire essenza a partire dalla carne, in Dufrenne abbiamo una via

d’uscita diversa costituita solo da un vago riferimento ad un passato

mitico nel quale si sono sedimentate certe esperienze sorte all’interno

della nostra relazione fungente col mondo: “comme l’echo du monde

en tant que je surgis en lui”196. C’è, quindi, un soggetto trascendentale

che è un soggetto empirico dotato di corpo, e che si arresta nella cata-

logazione dei saperi virtuali propri degli a priori là dove un sapere non

può attualizzarsi in una forma di conoscenza. Dal lato del soggetto,

dunque, il punto di arresto è il limite della rappresentazione: “le vir-

195 M.Dufrenne, Phénoménologie de l’experience esthétique, cit., p.555. 196 M.Dufrenne, L’inventaire des a priori, cit. p.158.

95

tuel, en dernier ressort, n’est ni le social, ni l’historique, mais le tra-

scendental du social et de l’historique”197.

Tuttavia per mantenere questa distinzione tra l’a-priori e la sua distri-

buzione sul soggetto e l’oggetto, è necessario fare riferimento ad

un’altra istanza che trascende questa distinzione; tale istanza viene de-

finita “Natura”. Il ritorno alla natura, secondo Dufrenne, può imbocca-

re due strade. La prima è impersonata da Tranc Duc Thao in Phéno-

ménologie et matérialisme dialectique; si considera la relazione tra

uomo e mondo come una relazione di fatto, oggetto di un sapere posi-

tivo che deve esplicare l’avvento dell’uomo a partire dal mondo cono-

sciuto dalla scienza. Ma poichè la scienza non può che presupporre

sempre se stessa, il tentativo di Tranc Duc Thao risulta fallimentare

non perché la scienza sia falsa ma perché “elle nous installe dans une

vérité qui ne peut s’abolir pour rendre compte de sa propre origine”198.

Inoltre in questa prospettiva non è possibile mostrare il divenire uma-

no della natura perché, pur considerando la natura consegnataci dalla

scienza, nessun passaggio dialettico può generare la coscienza e l’a

priori che essa racchiude.

La seconda è, invece, la relazione di fatto tra l’uomo e il mondo a

condizione che pre- esista un’altra relazione “de droit, selon la quelle

l’homme, en tant même que savant, est le corrélat du monde”. Questo

naturalismo deve, dunque, rispettare due condizioni: “faire droit à la

subjectivité trascendentale” e “concevoir le monde comme Nature en

deça de ce que l’homme pense du monde”199. Dufrenne si rende conto

che questa idea di Natura non gode di particolari giustificazioni e fini-

197 P.Ricoeur, La notion d’a priori selon Mikel Dufrenne, cit., p508. Nella stessa pagina troviamo un’altra osservazione interessante di Ricoeur: “et ici il faut savoir gré à Dufrenne de ne pas avoir cédé à la tendence de la philosophie contemporaine à dramatiser le rapport de l’homme à l’homme, à le briser dans la lutte. Les a priori communs nous révèlent précisément que l’homme est d’abord mon semblable; atrui est l’autre parce qu’il est aussi le même que moi”. 198 M.Dufrenne, L’inventaire des a priori, p.35. 199 Ib.p.37.

96

sce, ricalcando Kant, con l’attribuirle un valore regolativo. Non nega,

infatti, il presupposto della sua Phénoménologie, e cioè che il mondo è

la natura più il senso che esso è solo in virtù dell’uomo; “cependant

[la Nature] nous invite à rechercher un état premier de l’a priori anté-

rieur à sa cassure, à la differenciation du subjectif et de l’objectif, tel

que l’a priori procède directement de la Nature. […]. Dans le sujet

comme dans l’objet, cet a priori est la marque de la Nature, non point

sur son ouvrage, mais sur elle même, sur ce qui est partie d’elle mê-

me.”200

In definitiva, che tipo di conoscenza abbiamo degli a priori?

Quando consideriamo gli a priori dell’intelletto sappiamo che essi

fondano la possibilità del giudizio determinando l’oggettività

dell’oggetto; Heidegger ci ha mostrato, ricorda Dufrenne, che l’atto

fondamentale per cui il soggetto apre un orizzonte di unità, presuppo-

sto da ogni conoscenza, non è coglibile in se stesso e tuttavia, nel loro

aspetto costituente, questi a priori danno luogo ad una scienza. Ebbe-

ne, lo stesso vale per gli a priori affettivi: ne abbiamo una “conoscen-

za” prima che il sentimento ce li riveli, così come avvertiamo lo spa-

zio prima della geometria. Il fatto stesso che il sentimento possa trova-

re la sua esplicitazione è la spia di un sapere virtuale o, in altri termini,

di una dinamica per cui la tematizzazione della qualità affettiva è un

riconoscimento: “car comment puis- je exprimer la qualità affective

sans recourir à une categorie affective, et si cette catégorie ne m’est

pas deja connue de quelque façon?”201

A testimonianza di questa a priorità concorrono due circostanze:

l’avvertire la qualità affettiva come immanente al sentimento. Questa

affezione ha lo statuto di una virtualità fondamentale, che l’azione re-

ciproca dell’oggetto estetico e del sentimento contribuisce a rianimare 200 Ib., pp.37-38. 201 M.Dufrenne, Phénoménologie de l’experience esthétique, cit., p.577.

97

“et il faut bien dire que c’est l’echo d’un a priori, puisque ce n’est pas

l’œuvre d’une reflexion.”202 Eppure questo “echo” non ci dispensa da

una riflessione sul sentimento perché, essendo generale, non può esse-

re completamente adeguato al sentimento, dato che la categoria affet-

tiva è l’idea di un mondo, mentre il sentimento si attiva in presenza di

un mondo e di un soggetto singolari. Dunque, perché mai il generale

dovrebbe applicarsi al singolare?

Questo problema ontologico riceve nella Phénoménologie una solu-

zione troppo legata a una prospettiva antropologica: “c’est ce moi pro-

fond qui s’exprime dans l’œuvre d’art que la qualità affective de

l’œuvre désume et manifeste en deployant le monde dont il est l’âme

et le corrélat. Or, c’est peut- être lorsque nous sommes le plus profon-

dément nous- meme, que nous sommes le plus proches d’autrui.”203

La medesima impostazione regola la soluzione anche di un’altra que-

stione: è possible fare un inventario delle categorie affettive?

Kant, sottoponendo gli a priori della rappresentazione a una raziona-

lizzazione, ha effettuato un’operazione legittima perché gli a priori

della conoscenza della natura, definendo le condizioni dell’oggettività,

sono inclini all’oggettivazione, tanto che non è possibile “determiner

pour eux un état anterieur où ils seraient prescience sans être déja

science”204.

Nel caso delle categorie affettive la soluzione è diversa. Innanzitutto,

se c’è una natura umana, io non posso trattarla come una natura natu-

rata, nel senso che non posso individuare uno zero della passione co-

me c’è uno zero della qualità, o comporre delle motivazioni come si

compongono delle forze naturali.

202 Ib.p.579. 203 Ib.p.589 (corsivo mio). 204 Ib.p.595.

98

Kant può limitare precisamente il dominio degli a priori perché essi

danno la forma dei fenomeni e non appena un contenuto è dato in

un’intuizione empirica, l’ a-priori indietreggia di fronte a ciò che esso

stesso fonda. Le categorie affettive, invece, devono subire un tratta-

mento differente perché, pur riferendole a una modalità di manifesta-

zione, esse chiamano in causa il sentimento e non l’intuizione e “le

sentiment est déja concret”. Il sentimento si manifesta sempre con una

tonalità singolare, per cui non può essere inventariato: “tout se passe

comme si nous ne devions jamais avoir de l’humain qu’un savoir ina-

chevé”.205

2.2 Lo stato poetico

La connotazione all’opera nell’esperienza artistica altro non è che

l’espressione dell’oggetto raccolta dalla percezione estetica quando si

rivela come sentimento. Sappiamo che dal lato dell’oggetto questa

espressione è immanente al sensibile e non conosce alcuna distinzione

tra significante e significato; dal lato del soggetto il compiersi della

percezione gli consente di afferrare immediatamente il senso ma, poi-

ché è in gioco il sentimento, il riconoscimento intellettuale del senso

conquistato “è ambiguo” perché “è propriamente simbolico”, nel sen-

so che “esso significa su molteplici registri”: “Abbiamo espresso que-

sta densità del senso dicendo che esso si illimitava in un mondo”206.

Quali sono le articolazioni di questo livello simbolico? Se interpretia-

mo correttamente l’ “alienazione” a cui Dufrenne ha fatto riferimento

per porre la relazione soggetto-oggetto in termini di circolarità, ciò

205 Ib.p.598. 206 M.Dufrenne, L’arte è linguaggio? cit., p.65.

99

che qui è simbolico è un’emergenza del linguaggio, ovvero un tipo di

intenzionalità che mi trasporta dal primo senso letterale al secondo207.

Ma come passo attraverso il simbolo per procedere al di là del simbo-

lo? Sappiamo già che questo ‘procedere oltre’ è la rivelazione di un

mondo e non dell’alterità di un senso già presente, ma nascosto. Que-

sto ci consente di sgombrare il campo dall’equivoco di

un’equiparazione tra simbolo e allegoria, poiché, nel caso di

quest’ultima, la realtà significata primariamente è esteriore rispetto al

senso secondo e quindi tra i due sensi vi è un rapporto di traduzione;

mentre il simbolo non lascia oggettivare il rapporto analogico tra i due

sensi. Ne consegue che la comprensione del simbolo passa attraverso

il simbolo stesso, nel senso che diversi simboli possono avere un ana-

logo rimando; è facile constatare, infatti, che differenti esperienze

estetiche - la visione di un quadro o un’immagine letteraria - possono

avere in comune una medesima qualità affettiva o, in altri termini, at-

tivare lo stesso a-priori.

Nell’ambito di questa impostazione il simbolo poetico si pone, allora,

come rivelatore della realtà; nel senso che, invece di essere sottoposto

ad un’interpretazione allegorizzante, esso suscita e contribuisce a

chiarire i campi dell’esperienza umana. Non solo. Sappiamo che il

simbolo non si riferisce esclusivamente al versante antropologico, ma

tende a reintegrare l’uomo nell’ambito della Natura: “pour que le réel

suggère vraiment un monde, il faut qu’il s’esthétise, que nous nous

fassions poètes du réel”208.

Ci sono parole “originarie - cielo, oro, notte, palma, amore, mare, de-

stino”- che ci donano la presenza della cosa stessa. “Come si realizza

questa trionfante metamorfosi del linguaggio? Nel modo più semplice 207 “L’alienation est seulement le comble de l’attention. Et alors [ le spectateur] découvre que le monde de l’objet esthétique où il se plonge est aussi son monde”; M.Dufrenne, Phénoménologie de l’experience esthétique, cit., p.676. 208 Ib.p.653.

100

del mondo; la poesia lo restituisce al suo stato primo, gli rende il suo

vigore e la sua freschezza originari, lo riconduce alla natura.”209

Come può accadere questa metamorfosi? Se prendo una carta geogra-

fica e fisso alcune relazioni tra dei punti, mi aspetto di riscontrare

quella relazione sul terreno al quale la carta fa riferimento; in altre pa-

role, la carta è un segno iconico. Ma quando pronuncio la parola “ma-

re” ed ho immediatamente il senso della sua presenza, non eseguo un

esame morfologico. Gli unici casi di isomorfismo possono darsi solo

quando la qualità sonora della parola imita una qualità sonora

dell’oggetto, “ma tali casi sono rari e sempre sospetti; perché se tic tac

è così motivato, che dire di tattico?”210

Se insistiamo sulla qualità sensibile della parola, continua Dufrenne,

allora la somiglianza è da attribuire alle sinestesie, nel senso che la

corrispondenza tra parola e oggetto è da ascrivere alla capacità che ha

l’esperienza sonora di risvegliare, in altri registri sensoriali, un ele-

mento sensibile del designatum: “così, dice C.L.Stevenson, se pen-

siamo che Papillon sia una parola più indovinata di Schmetterling, la

cosa non ha a che vedere con i suoni che producono le farfalle, ma so-

lo con una certa delicatezza nella sonorità papillon che sentiamo nel

volo delle farfalle - una delicatezza che probabilmente non noteremmo

se la parola significasse qualcos’altro.”211 Quest’ultima precisazione ci

avverte del rischi che si corre ad insistere troppo su questa strada visto

che, di fronte ad un soggetto che ignora il francese, nulla ci assicura

che operi la sinestesia se gli dico jour. Infatti Dufrenne fa notare che

le sinestesie sono spontanee solo per i fonemi. Si tratta, insomma, di

“quel fremito del multiplo, quel senso dei sensi”212,ma in una modalità

209 M.Dufrenne, Le poétique, PUF, Paris 1963; tr.it. di Luigia Zilli, Il senso del poetico, Edizioni 4 venti, Urbino 1981, p.72. 210 Ib.p.61. 211 Ibid. 212 Ib.p.63.

101

diversa dal conoscere. Tutto questo consente di riprendere e chiarire

un punto trattato in precedenza.

Abbiamo detto prima che certe parole ci danno direttamente la presen-

za dell’oggetto; è più corretto dire che esse ci danno il sentimento del-

la presenza dell’oggetto, “l’aura di senso di cui ci investe”.

L’espressività della parola risuona all’interno del soggetto e ci pone

come in presenza dell’oggetto: non la presenza sotto un aspetto deter-

minato ma “quella pienezza ancora ambigua del primo incontro”213

che non si appaga nell’evocazione di un’immagine, perché questa sa-

rebbe ancora l’assenza di un essere determinato, ma ci fa sperimentare

qualcosa che si presenta come “il volto affettivo che l’oggetto ci ten-

de”.214

In linea con Sartre e Merleau-Ponty, Dufrenne ribadisce la sua ostilità

ad una funzione transitiva dei segni, cioè al declassamento dello spes-

sore fisico della parola non appena emerge il significato. Piuttosto, per

dirla con Sartre, c’è continuità tra lo strato materiale e il sapere eideti-

co che gli è proprio. Ciò che Dufrenne non accetta dell’impostazione

sartriana è, invece, la contrapposizione che viene istituita tra prosa e

poesia proprio alla luce del diverso ruolo che, per Sartre, il linguaggio

può esercitare nei due ambiti letterari: o cosa o segno. Come segno il

linguaggio è semplicemente lo strumento per una coscienza che deve

pervenire al significato a scapito del supporto materiale che utilizza;

come cosa, - cioè il linguaggio della poesia,- non abbiamo più un rap-

porto da significante a significato, ma da analogon ad immaginario,

dove la parola sollecita l’immaginazione per ottenere una rassomi-

glianza “magica” con esso.

Viceversa, Dufrenne obietta: “perché rifiutare che la loro significazio-

ne materiale, quando si dà a noi, e costituisce la loro significazione a 213 Ibid. 214 Ib.p.65.

102

livello dell’espressione, sia così pregnante dal dispensarci di sostituire

l’immaginazione alla percezione?”215

Dunque, è qui che il poetico diventa la categoria estetica per eccellen-

za e acquista una significazione ontologica. Valéry fornisce a Dufren-

ne le caratterizzazioni “dell’emozione poetica”: “la riconosco in me

dal fatto che tutti gli oggetti possibili del mondo ordinario, esteriore o

interiore, gli avvenimenti, i sentimenti e gli atti, rimanendo quello che

sono per quanto riguarda la loro apparenza, entrano improvvisamente

in una relazione indefinibile, ma meravigliosamente giusta con i modi

della nostra sensibilità generale.”216

Proprio questa risonanza sprigionata dal componimento poetico rac-

chiude il senso ontologico del poetico, inteso come categoria; in paro-

le più semplici, si tratta di capire come il mondo possa essere poetico.

A questo livello Dufrenne evita di riferirsi esclusivamente al versante

dello spettatore e prende in considerazione l’atto propriamente creati-

vo, nel tentativo di indicare ciò che strappa il poeta a se stesso e lo

mette in contatto con qualcosa di estraneo.

È Bachelard, però, il punto di riferimento privilegiato di Dufrenne.

L’autore della Poetica dello Spazio pratica, infatti, una fenomenologia

dell’immagine poetica che permette di attingere una sfera di sublima-

zione pura; (che non ha alcun legame con l’omonimo concetto psicoa-

nalitico perché “è alleggerita del carico delle passioni, liberata

dall’impulso dei desideri”.217). Ed è convinto che la poesia offra nu-

merosi casi di sublimazione assoluta. Il presupposto da cui muove è

che “il poeta, nella novità delle sue immagini, dà sempre origine al

linguaggio”218 e, pertanto, “quando dovremo parlare del rapporto tra

215 Ib.p.76. 216 P.Valery, Discours sur l’esthétique,cit. in M.Dufrenne, Il senso del poetico, p.133. 217 G.Bachelard, La poétique de l’espace, PUF., Paris 1957; tr.it. di E.Catalano, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 2006, p.19 218 Ib.p.9.

103

un’immagine poetica nuova ed un archetipo assopito nella profondità

dell’inconscio, bisognerà far capire come tale rapporto non sia pro-

priamente causale.”219

Proprio su quest’ultimo punto, secondo Bachelard, la sua fenomeno-

logia dà un contributo ontologico che la psicoanalisi non può dare, al

punto che non è utile considerare correlazioni tra il passato e il presen-

te perché, egli dice, “per mezzo della sua novità […] l’immagine poe-

tica ci riporta all’origine dell’essere parlante”220.

Perché sostituire la fenomenologia alla psicoanalisi? Perché solo la

fenomenologia può aiutarci ad affrontare la questione della trans- og-

gettività dell’immagine, cioè quel processo per cui “un’immagine poe-

tica singolare può reagire su altre anime”221, mentre la psicoanalisi ri-

mane prigioniera di una considerazione dell’immagine vincolata a

un’idea di soggettività che non può non sottomettere l’immagine poe-

tica ad un impulso come “eco di un passato” individuale.

Certo, anche Bachelard sembra non discostarsi molto dalla soggettivi-

tà dell’immagine quando scrive che “l’immagine emerge alla coscien-

za come prodotto diretto del cuore, dell’anima, dell’essere dell’uomo

colto nella sua attualità”222; ma, in realtà, le sue analisi vanno in dire-

zione inversa: “(l’immagine) diventa un essere nuovo del nostro lin-

guaggio, ci esprime facendoci diventare quanto essa esprime, o, in al-

tre parole, essa è al tempo stesso un divenire espressivo ed un divenire

del nostro essere. Così, l’espressione crea dall’essere”223. Non solo,

qualche pagina prima troviamo quest’altra affermazione: “al livello

219 Ib.p.6. 220 Ib.p.13. 221 Ib.p.8. 222 Ib.p.7. 223 Ib.p.13 (corsivo mio).

104

dell’immagine poetica, la dualità del soggetto e dell’oggetto è iride-

scente, scintillante, incessantemente attiva nelle sue inversioni.”224

Dufrenne coglie questo richiamo all’essere e afferma che in Bachelard

“la Natura naturante sollecita l’umanità e orienta l’immaginazione”.225

Come anche Bachelard, lo stesso Dufrenne sottolinea che non intende

meditare su una regione che esisterebbe prima del linguaggio, ma “il

poeta parla e noi possiamo almeno parlare nella sua parola. Attraverso

di lui si esprime proprio un’infanzia, ma è meno un’infanzia singolare

che l’infanzia dell’umanità, un’infanzia ancora presente in ciascuno di

noi”226.

224 Ib.p.9. 225 M.Dufrenne, Il senso del poetico, cit., p.199. 226 Ib.p.205.

105

2.3 La natura naturante

Abbiamo chiamato in causa più volte la natura. Del resto, tutta la rico-

struzione precedente dell’oggettività del poetico concorreva a configu-

rare l’idea di “Natura” attraverso il carattere naturale del linguaggio

poetico, il mondo disvelato da tale linguaggio e la docilità con cui il

poeta lascia parlare la natura risalendo alle sorgenti dell’espressione. È

il momento di chiedersi con Dufrenne: che cos’è la natura? “La Natu-

ra è sempre il reale inteso come debordante. […], il reale nella sua

presenza immediatamente significante, ordinato ad una coscienza per-

cipiente, il reale nel suo essere esteriore e oggettivo ordinato ad una

coscienza in generale. Ma è anche qualcosa di più: il reale nella sua

potenza, capace di un divenire.”227

Dufrenne è consapevole che l’idea di una natura come al di qua della

coscienza la si affronta soltanto mediante un salto, cioè ponendo

un’indicazione di metodo che impone di fare a meno della fenomeno-

logia, della scienza e, alla coscienza, di fare, infine, astrazione anche

da se stessa. La Natura, così posta, ci rende sensibili al “fascino

dell’origine”. Di qui, secondo Dufrenne, la necessità di distinguere

l’idea dell’origine e l’esperienza dell’originario, in modo da “ricono-

scere ciò che è proprio di questa esperienza: essa non ci consegna

l’originario come un oggetto, bensì ne suscita il sentimento o il pre-

sentimento. E invece si confonde anzitutto in una stessa critica l’idea e

la cosa, l’origine come impensabile e l’originario come introvabile.

Così facendo si rifiuta un’idea come quella di luogo non situato

[…]”228. In Le Poétique questo sentimento è caratterizzato nei termini

del “sentimento di un essere selvaggio, come ha detto una volta Mer-

227 M.Dufrenne, Il senso del poetico, cit., p.226. 228 M.Dufrenne, Vers l'originaire, in Esthétique et philosophie. Tome II; tr.it., Verso l’originario, cfr. Estetica e Filosofia, cit., p.4.

106

leau-Ponty, di un’invincibile realtà rugosa, di una forza senza legge

eppure generosa, di una terra-madre abissale e feconda”.229

Quello che Dufrenne cerca di evocare, insomma, è un’esperienza

dell’essere che chiama in causa il linguaggio, ma senza essere ancora

linguistica: un contatto vitale con il mondo che non prescinde dalla

conoscenza, ma non la possiede ancora in forma obiettivata.

È evidente che su questo punto agisce la lezione di Merleau-Ponty

che, commentando il manoscritto husserliano del 1934 sulla dottrina

copernicana, scriveva: “la meditazione deve riapprendere un modo

d’essere di cui egli (l’uomo copernicano) ha perduto l’idea, l’essere

del suolo (Boden), e anzitutto quello della terra”230.

Husserl, pur rivelandosi decisivo per aver mostrato il lavoro di idea-

lizzazione operato dalla scienza moderna sulla Lebenswelt, ulterior-

mente approfondito proprio da Merleau-Ponty, sulla base della rifles-

sione di quest’ultimo presenta, per Dufrenne, un limite fondamentale:

“peut-être Husserl […] veut il trop donner raison à la téléologie de la

conscience, au telos de la science. […]. Mais cette expérience n’est

pas toute orienté vers la science. C’est pourquoi à l’idée de nature

comme premier a priori de l’ontologie matérielle, premier matérialisa-

tion du concept formel de monde, nous substituerons d’abord l’idée de

Nature. La majuscule importe: elle indique non seulement

l’extériorité, mais l’antérioritè du monde par rapport au sujet; et elle

signifie aussi l’énergie de l’être.”231.

229 M.Dufrenne, Il senso del poetico, cit., p.231. 230 M.Merleau-Ponty, Linguaggio Storia Natura, cit., p.122. 231 M.Dufrenne, L’Inventario degli a priori, op.cit., p, 164. Si può, in effetti, pensare che Husserl incorra in un’ottica riduttiva, come appunto gli rimprovera Dufrenne, quando scrive: “quest’idea del mondo come universo degli enti sottoposto ai metodi esatti della scienza, propri della fisica matematica, come un universo in se determinato, le cui determinazioni di fatto devono perciò esse-re scoperte dalla scienza, è per noi un’idea così ovvia che alla luce di essa noi intendiamo ogni da-to singolare della nostra esperienza.” E.Husserl, Erfahrung und Urteil. Untersuchung zur Genea-logie der Logik, redatte ed edite da L. Landgrebe (1939), Meiner Verlag, Hamburg 1985; tr.it. di F. Costa, Esperienza e Giudizio, Bompiani, Milano 1995, p.39.

107

Che tipo di indicazioni traiamo da queste citazioni? Il concetto di Na-

tura non fa che evocare una permanente insorgenza, del tutto immoti-

vata, di un senso, le cui configurazioni risultano sempre irriducibili a

tutto quanto le precedeva. Questo sentimento dell’abisso, che ontolo-

gicamente sempre ci accompagna, significa che l’essere non è prede-

terminato e stabilizzato ma, soprattutto, che lo stesso evento

dell’essere è creazione permanente e immotivata, perenne alterazione

di sé. Ed è proprio l’articolazione interna dell’origine a costituire

un’insopprimibile temporalità per la quale deve dirsi che il tempo è

l’instabilità stessa della Natura: “proprio perché temporale, il fondo è

il luogo di una pre- storia: di un divenire in cui la sua potenza si mani-

festa mediante l’attualizzazione dei possibili.”232

Dufrenne è consapevole di lasciare intendere un dinamismo della Na-

tura finalizzato alla comparsa dell’uomo, secondo un modello di vo-

lontà costitutivo proprio dell’uomo, e si affretta a precisare di “non

voler dire che la Natura abbia premeditato l’uomo, e che l’evoluzione

creatrice sia la realizzazione di un programma; la critica bergsoniana

della finalità è decisiva. Vogliamo solo dire che la Natura è potenza, e

che tale potenza produce l’uomo. Non che lo contenga in potenza co-

me un possibile logico […]. L’uomo non è presupposto o preformato

dalla Natura, ma è prodotto da essa”.233

232M.Dufrenne, Il senso del poetico, cit., p.242. 233 Ib.245. A p.233 di questo stesso testo Dufrenne scrive: “Se abbiamo bisogno di un patrocinio per pensare il fondo come Natura naturante, potremmo rivolgerci a Schelling”. Cerchiamo, breve-mente, di chiarire perché. Il rimando di Dufrenne a Schelling assume come riferimento la seconda fase dell’attività del filosofo tedesco, quella che comincia con Le Ricerche sull’essenza della liber-tà umana del 1809. In questo testo Schelling affronta la questione della teodicea e lo fa secondo una prospettiva nelle sue intenzioni originale perché si propone di integrare l’idealismo con una forma di realismo che prenda la natura sul serio. Il punto focale di questo approccio è la differenza tra fondamento ed esistenza: “non esistendo nulla prima o fuori di Dio, conviene che egli abbia in se stesso il fondamento della sua esistenza. Così dicono tutti i filosofi; ma essi parlano di questo fondamento come di un puro concetto, senza farne alcunché di reale e di effettivo. […], esso è la natura in Dio; un essere inseparabile, è vero, ma pur distinto da lui”.( F.W.J. Schelling, Über das Wesen der menschlichen Freiheit, Akademie Verlag GmbH, Berlin 1995; ed. it. a cura di F. Moiso

108

Di conseguenza, non esiste visione diretta dell’origine e “così noi pro-

poniamo di pensare la Natura come idea limite”234: “Al di qua di ogni

discorso, è forse una certa esperienza che ne facciamo quando sentia-

mo che qualcosa si occulta e contemporaneamente si manifesta attra-

versa le apparenze.”235

Procedere in direzione di una filosofia della natura non è, però, il pre-

ludio ad un’attenuazione dell’esperienza, ma lo sfondo in riferimento

del quale la riflessione di Dufrenne continua ad interrogare l’apparire

nelle sue manifestazioni concrete, così come testimonia il suo ultimo

testo, L’Oeil et l’Oreille, un’opera che riprende e rilancia l’intera filo-

sofia del sensibile elaborata a partire dalla Phénoménologie del 1954.

Il nucleo attorno a cui ruota la parte propositiva dell’opera è quello

dell’originario e l’accesso al corpo che esso fornisce. In un articolo del

e F. Viganò, Ricerche Filosofiche sull’Essenza della Libertà Umana, Guerini e Associati, Milano 1997, p.54) La differenza che viene sottolineata è quella tra l’essere in sé e l’attività dello stesso essere che si pone come essente. Intendere fondamento ed esistenza come due predicati in questo caso non è possibile, perché sarebbero predicati di un qualcosa che c’è già prima; in realtà Schelling sta pen-sando a qualcosa di più radicale, le condizioni per la costituzione di qualcosa. In che rapporto so-no i due termini? Schelling li considera sullo stesso piano, secondo un nesso relazionale predeter-minato, evitando qualsiasi considerazione in termini cronologici o causalistici. Dunque, si può par-lare di fondamento di esistenza solo se qualcosa esiste e qualcosa può esistere solo se si dà un fon-damento di esistenza. La distinzione tra fondamento ed esistenza è sviluppata a partire da un altro livello: “alla medesi-ma distinzione porta la riflessione scaturente dalle cose”. Non possiamo considerare le cose imma-nenti a Dio perché ad esse si associa, in virtù della loro natura, il concetto del divenire; ma non possono divenire in Dio perché sono infinitamente diverse da lui: “Ma nulla potendo essere fuori di Dio, la contraddizione si scioglie solo ammettendo che le cose abbiano il loro fondamento in ciò che Dio non è egli stesso, ovvero in ciò che è fondamento della sua esistenza”. Quello a cui Schel-ling pensa è a Dio stesso come essere diveniente che, dapprima inconscio, solo nel corso del suo sviluppo giunge alla sua autocoscienza; è la concezione di Dio in quanto essere dialettico, che non può permanere nel suo essere originario, ma è costretto ad uscire da sé: “Se vogliamo accostare maggiormente quest’essere all’intelletto umano, possiamo dire che egli sia la brama ( die Sehn-sucht) che sente l’eterno uno, di partorire (Gebären) se stesso”. ibid. È un volere inconscio che vuole l’intelletto e pertanto rende la soggettività umana non solo un’istanza che conferisce forme, ma come il più alto dispiegamento della forma che riposa in natu-ra. In altre parole, si tratta dell’implicazione di Dio nella natura posta sotto il titolo di volere, che infrange, così, la chiusura all’interno di un ambito meramente logico. 234 Ib.p.246. 235 Ib.p.252.

109

1976 Dufrenne scriveva: “che tutto il sensibile si disponga e si armo-

nizzi in modo che l’apparire sia dotato di un senso significa che un lo-

gos lo abita, conosciuto dal nostro corpo prima di qualunque opera-

zione del pensiero. Come, è la pittura ad insegnarcelo”236. E, sempre

in questo saggio, ribadiva la centralità di Merleau-Ponty in un dibatti-

to culturale che percorreva altre direzioni: “né si dica che il visibile

annulla il vedente […], tanto da respingere la fenomenologia per fare

appello alla psicoanalisi. Se questo visibile si aureola di invisibile,

come diremo, non svuotando il soggetto, ma chiamandolo a sentire ol-

tre il vedere, nel vedere medesimo.”237

Sentire oltre il vedere. Sappiamo che l’opera d’arte deve fare appello

alla visione per essere ciò che è. Per questo, Dufrenne intravede il ri-

schio di privilegiare il figurativo, accordando all’arte, in questo caso la

pittura, un potere di rivelazione. E l’arte astratta? Il caso limite

dell’arte astratta, dice Dufrenne, ci insegna a considerare la stessa pit-

tura figurativa come animata da un’ansia di espressione più che di

rappresentazione: “le tele di Cézanne non fotografano il monte Sainte

Victoire; esse mostrano il ‘montagnoso’, ci fanno sentire una certa

mineralità che è sicuramente l’essenza della montagna, ma che pos-

siamo ben ritrovare in altri oggetti, ivi comprese le pieghe di una to-

vaglia o le rughe di un volto, e che si estende quindi alle dimensioni di

un mondo.”238

Anticipando un concetto a cui dedica il capitolo che chiude il suo ul-

timo libro, Dufrenne introduce il riferimento a Cézanne affermando:

“ciò che così si genera nella nostra visone non è il reale ma un possibi-

le”. Di qui il riferimento a quella pittura che sa rendere ciò che del

236M.Dufrenne, Dipingere, Sempre, in Estetica e Filosofia, cit., p.139. 237 Ib.p.140. Corsivo mio. 238 Ib.p.142.

110

reale non è visto, ovvero quella che riesce ad attingere una presenza

più piena, fino al limite della genesi simultanea di vedente e visibile.

È, ovviamente, un richiamo alla “deflagrazione dell’essere” di Mer-

leau-Ponty di cui Dufrenne coglie la portata anti-metafisica: “Mer-

leau-Ponty non nomina l’auto-affezione; essa non rappresenta per lui

che un caso particolare dell’ eteroaffezione […] come nell’abbraccio

amoroso, nel quale se ho l’impressione di perdermi è perché la mia

carne non mi appartiene più”239. Non solo, perché Dufrenne si rende

conto anche del limite del progetto ontologico merleaupontyano af-

fermando, infatti, che “nel soffermarsi sulla carne allo scopo di pensa-

re il sensibile in quanto tale, ovvero un sensibile prima della divisione

dei sensi, ‘i sensi divengono estranei’. […]. Bisogna ritrovare l’occhio

e l’orecchio […], ma secondo un’altra prospettiva, senza rinunciare a

quanto abbiamo scoperto: vale a dire […] la possibilità di una correla-

zione tra i suoi diversi registri”240

C’è un tema sul quale Dufrenne prova a rilanciarsi come interlocutore

nel dibattito estetico degli ultimi decenni, invece di restare schiacciato

tra Merleau-Ponty e Sartre. Si tratta, cioè, di vedere in che senso Du-

frenne recupera il concetto di possibile. Il nostro punto di partenza sa-

rà, pertanto, la chiusura del saggio dedicato all’Occhio e lo Spirito:

“abbiamo trovato in Merleau-Ponty l’idea di un logos primitivo, si-

stema di equivalenze tra gli elementi del visibile. Ma tale sistema di

equivalenze si costituisce, come già diceva la Fenomenologia, tra i di-

239 M.Dufrenne, L’œil et l’oreille, L’Hexagone, Montréal, 1987; tr.it. di C. Fontana, L’Occhio e l’Orecchio, Il Castoro, Milano 2004, p.88. 240 Ib., pp. 90-92. Una valutazione critica del tentativo di superamento, da parte di Merleau-Ponty, della tradizione fenomenologica è stato compiuto, nella stessa direzione solo indicata da Dufrenne, da R.Barbaras: cfr. R.Barbaras, The ambiguity of the flesh, in “Chiasmi international” 4, Mimesis, Milano 2002.

111

versi registri sensoriali: le sinestesie sono il destino di ogni percezio-

ne.”241

Come va intesa questa equivalenza? Che il problema delle sinestesie

debba essere necessariamente posto, è dato dal fatto che il linguaggio

brulica di metafore che ci trasportano da un registro sensoriale

all’altro, senza contare quelle parole polisemiche, come ritmo, armo-

nia, che assumono connotazioni sensoriali specifiche solo a partire dai

contesti linguistici in cui vengono adoperate. La difficoltà principale

che queste parole devono superare è quella di non essere catalogate

come fenomeni strettamente soggettivi, soprattutto quando le metafore

sinestesiche non sono ancorate alle caratteristiche fisiche degli stimoli

ma, anzi, mettendo a confronto valori di intensità uditiva e visiva di-

versi tra loro, comportano una ristrutturazione del loro usuale signifi-

cato percettivo. La rilevanza filosofica di questi casi è nella circostan-

za che essi siano all’origine dell’ipotesi di un’omogeneità primordiale

del sensibile che, chiaramente, mette in discussione la specificità dei

sensi.

Questa interpretazione della sinestesia, nota Dufrenne, porta a rivendi-

care un fondo indifferenziato nel quale i sensi non esistono ancora o,

quanto meno, non sono ancora così specializzati da poter circoscrivere

zone di monopolio: “l’idea del pre- sensibile sorge in Merleau-Ponty

allorché, citando un termine di Werner, egli propone di fare apparire

uno strato originario del sentire che precede la divisione dei sensi. Del

sentire non può significare in questo caso che del sensibile, quel sen-

sibile il cui strato originario sarà chiamato carne.”242

241Ib., p.30. 242 M.Dufrenne, L’œil et l’oreille, L’Hexagone, Montréal, 1987; tr.it. di Claudio Fontana, L’Occhio e l’Orecchio, Il Castoro, Milano 2004, p.129. Qui, però, Mauro Carbone sottolinea giu-stamente come “parlando di uno strato originario del sentire che precede la divisione dei sensi, la Phénoménologie de la perception intende riferirsi a un’unità dei sensi anteriore alla loro separa-zione analitica e non alla loro differenziazione psico-fisiologica. Pensare l’unità del sensibile non

112

Pensare la neutralità del sensibile è, però, un’ipotesi tutt’altro che

scontata; né ci aiuta a chiarire questa conversione tra vari registri sen-

soriali pensare la “sinergia del corpo”, cioè tutti quei fenomeni di sup-

plenza che consentono il funzionamento del corpo come totalità anche

in presenza di deficienze organiche: “non c’è nulla che corrobori

l’idea di un fondo comune del sensibile a partire dal quale si intrecce-

rebbero le sostituzioni; anche se facciamo l’esperienza della sinergia

del corpo, questa interpretazione della sinestesia rimane enigmati-

ca”243. Tale rimane anche nella versione fornitane da Deleuze che Du-

frenne ben conosceva; racconta, infatti, Daniel Charles: “sans doute

Mikel s’est il souvenu, en écrivant ces lignes, de l’admirable texte que

Gilles Deleuze avait publiè, sous un intitulé révélateur (“Peindre le

cri”), dans un numéro de Critique (408) consacré au “conçu” et au

“perçu” dans l’art contemporain, et cela en mai 1981; […]; Mikel

avait été fasciné par cet artiche (au point de me fair don de tout le nu-

méro, dont la sortie m’avait échappé)”244. Che cosa sostiene Deleuze

in questo articolo che annuncia il testo su Francis Bacon? Dufrenne

non lo critica direttamente ma chiama in causa, nel modo che tra poco

vedremo, solo Merleau-Ponty da cui, in effetti, Deleuze eredita il nu-

cleo delle sue argomentazioni. Faremo, perciò, riferimento ad un altro

autore che, pur non citando Dufrenne, arriva ad affrontare questioni

non distanti da quelle che stiamo tratteggiando, cioè Jean-Luc Nancy.

In un articolo del 1994 intitolato “Pourquoi y a t-il plusieurs arts, et

non pas un seul” scrive: “secondo gli stessi fisiologi, ogni ripartizione

è insoddisfacente e necessita il ricorso alla nozione di ‘integrazione

sensoriale’. C’è dunque sempre un momento in cui deve essere ristabi-

significa ipotizzarne l’originaria omogeneità ‘pre estesica’”. In Il sensibile e l’eccedente, cit., nota n°34, p.143. 243 Ib.p.131. 244 D.Charles, Voir, écouter, penser. A propos de l’œil et l’oreille. ; in A.a.V.v, Dufrenne et les arts, Unversité Paris X, p.37.

113

lita l’unità sensoriale contro l’astrazione sensoriale. A ciò appunto

parrebbero dar risposta l’unità sinestetica o le corrispondenze […]. Ma

ci si accorge presto che l’integrazione percettiva e la sua esperienza

vissuta si situano piuttosto agli antipodi dell’esperienza artistica e che

le corrispondenze poetiche non appartengono al registro dell’unità

percettiva, la quale ignora la corrispondenza come tale e conosce solo

una simultaneità integrata”.245 L’errore di Deleuze, secondo Nancy, è

di ipotizzare una continuità tra la sinestesia percettiva, ripresa da Mer-

leau-Ponty, e la comunicazione esistenziale dei sensi nell’esperienza

artistica. Qual è in effetti la replica che Deleuze s’attira da Nancy?

Scrive Nancy: “il sentire e il sentirsi-sentire che costituisce il sentire

stesso, è sempre sentire che c’è dell’altro (ciò che sentiamo) e che ci

sono altre zone del sentire, ignorate da quella che sente in quel mo-

mento, o che essa tocca da tutte le parti, ma solo attraverso il limite in

cui smette di essere la zona che è.[…]. A questa stregua, cosa fa dun-

que l’arte se non toccare, e toccare attraverso l’eterogeneità principale

del sentire? […]: in altri termini, tocca sia il toccarsi intrinseco al toc-

care, sia l’interruzione che gli è altrettanto intrinseca.[…]. L’arte non

ha a che fare con il mondo inteso come esteriorità semplice, come

ambiente o come natura. Ha a che fare con l’essere al mondo nel suo

stesso nascere […]: si tratta del fatto che l’unità e l’unicità di un mon-

do sono, e non sono altro che, la differenza singolare di un tocco e di

una zona di tocco.”246

Sebbene ad entrambi i livelli agisca un principio di unità, esso non è

dello stesso ordine, come invece pretenderebbe Deleuze247: “ci si limi-

245 Jean-Luc Nancy, Pourquoi y a t-il plusieurs arts, et non pas un seul?, in Les Muses, Galilée, Paris 1994; tr.it. di C. Tartarini, Perchè ci sono più arti e non una sola, in Le Muse, Diabasis, Reg-gio Emilia 2006, p.31. 246 Ib.pp.37-38. 247 “Fra un colore, un sapore, un tocco, un odore, un rumore, un peso, si stabilirebbe una comuni-cazione esistenziale, la quale stabilirebbe il momento patico. Spetterebbe dunque al pittore far ve-dere una sorta di unità originale dei sensi e dare resa visiva ad una figura multisensibile. Ma questa

114

terà quindi a rilevare che l’unità originale dei sensi, così invocata, si

dimostra essere soltanto l’unità singolare di un (in)tra le sfere sensibi-

li, che la comunicazione esistenziale si dimostra aver luogo

nell’elemento del fuori di sé, di un’esposizione dell’esistenza […], e

che il ‘Ritmo’ ha il suo momento proprio solo nel battito e nello scarto

che lo rende ritmo. A questa stregua il ritmo non è semplicemente

analogo alla sinestesia della percezione ordinaria, così come Deleuze

la riprende da Merleau-Ponty, […]: il ritmo non appare, è il battito

dell’apparire, […].”248

Vediamo ora i rilievi di Dufrenne a Merleau-Ponty: “allorché Mer-

leau-Ponty scrive ‘si vede la rigidità e fragilità del vetro’, si potrebbe

sostituire a quel ‘vede’ ‘immagina’; si vede il vetro, ma si immagina

la sua sonorità o fragilità peculiare. Si crede di vederle, si dice che le

si vede, ma così non è: il tatto o l’udibile non possono essere converti-

ti in visibile giacchè sono solo passati allo stato di virtualità” 249. Cer-

chiamo di capire che cosa vuole obiettare Dufrenne chiedendoci: qua-

le estensione semantica viene attribuita al concetto di virtuale?

Fin tanto che si ha un’associazione in carne ed ossa tra diversi registri

sensoriali, non occorre introdurre la nozione di virtualità; per cui, se si

considera un’installazione audio-visiva, per esempio, essa si rivolge

direttamente all’occhio e all’orecchio. Ma se dico che una certa nota è operazione è possibile solo se la sensazione di un determinato campo […] agisce direttamente su una potenza vitale, che travalica ogni singolo campo e lo attraversa. Questa potenza, più profonda della vista, dell’udito,ecc. […] è diastole-sistole: il mondo che si appropria di me, richiudendosi su di me, il mio io che si apre al mondo e che apre il mondo.”G.Deleuze, Francis Bacon. Logique de la sensation, La Différance, Paris 1981; tr.it. di S.Verdicchio, Francis Bacon. Logica della sensa-zione, Quodlibet, Macerata 1995, pp.98-99 (corsivo mio). 248 Jean-Luc Nancy, Perchè ci sono più arti e non una sola, cit., pp. 43-44. Non si capisce perché Nancy non faccia riferimento all’Occhio e lo spirito o al Visibile e l’invisibile, testi nei quali Mer-leau-Ponty si avvicina proprio all’idea di ritmo evidenziata da Nancy. Cfr. infra nota 205. 249 M.Dufrenne, L’Occhio e l’Orecchio, op.cit., p.132. Dufrenne non nega che in Merleau-Ponty il visibile non coincida con ciò che appare ma “sembra che per lui (Merleau-Ponty), immischiandosi così nella visione, l’immaginazione non possa che essere essa stessa visiva; quando evoca una ‘tat-tilità imminente’, non pensa che essa possa svincolarsi dal visibile per divenire tattilità immagina-ta”. Il giudizio di Dufrenne ci appare riduttivo visto che come modello di essenze carnali Merleau-Ponty assume le proustiane “idee musicali” che, in effetti, non hanno carattere visivo.

115

qualificata dal giallo, io non ho il giallo e la nota direttamente come

nel caso dell’installazione. Ovvero, non ho il giallo nell’evidenza di

una percezione ma ho una nota che si presenta attraverso un altro regi-

stro sensoriale: “la virtualità viene chiamata in gioco allorché uno de-

gli elementi di un’associazione non venga percepito contemporanea-

mente a un altro.”250 Questo aspetto trova, secondo noi, conferma sul

piano dell’architettura funzionale del fenomeno sinestesico; infatti, la

casistica esistente mostra che la percezione di un determinato stimolo

induce un determinato concorrente (per esempio: una lettera un colo-

re); ma si danno casi in cui il variare dell’induttore non produce un

cambio del concorrente (ad esempio la stessa lettera ma in un carattere

differente induce lo stesso colore) dal che ne consegue come la rete

neurale specifica, la quale elabora la forma visiva o il timbro uditivo,

non media da sola questa forma di sinestesia.

La necessità di chiamare in causa il virtuale di contro al primato del

registro visivo trova conferma anche sul piano sperimentale. In studi

recenti251, ad alcuni sinesteti, l’ascolto di una parola veniva associato

ad un colore ma, a differenza di quanto fosse legittimo attendersi da

un’esperienza visiva, non venivano attivate le aree visive primarie ma

zone corticali differenti.

Se il virtuale è dato “solo in immagine” esso fa riferimento a tutta

l’esperienza che il nostro corpo è capace di immagazzinare, ma il ca-

rattere di quasi percezione fa si che questa memoria sia per certi versi

esperita: “se il virtuale non è soltanto un sapere cieco nel corpo - cieco

quanto un riflesso condizionato innestato sul corpo-oggetto -, la pre-

senza che gli va riconosciuta è quella di un immaginario immanente al

250 Ib.p.194. 251 Frith C.D., Paulesu E. , The Physiological basis of synaestesia, in S.Baron Cohen e J.Harrison, Synaestesia. Classical and contemporary readings, MA: Blackwell, Cambridge 1997, pp.123-147; cfr.inoltre, Corradi Fiumara G., Il processo metaforico. Connessioni tra vita e linguaggio. Il Muli-no. Bologna 1995.

116

percepito. Questo immaginario non è necessariamente immaginato an-

che se potrebbe esserlo: il velluto del tessuto non é presente in imma-

gine come se dovessi scongiurare la sua presenza, ma non é del tutto

assente”.252. Il radicamento dell’immaginario nell’organismo fa rife-

rimento soprattutto alla motricità, cioè a quegli schemi corporei che

anticipano le percezioni dell’oggetto; ed è proprio questa assimilazio-

ne che permette il riferimento all’a-priori e scongiura il rischio di una

determinazione dell’immaginario attraverso una pura fantasmatica

privata “derealizzante”: “senza dubbio bisogna qui intendere l’a-priori

come ho già proposto altrove: assegnato, al tempo stesso, all’oggetto,

nel quale designa un potenziale, e al soggetto nel quale designa una

possibilità, una facoltà di anticipare l’esperienza.”253

Su questo punto Dufrenne richiama esplicitamente l’analisi

dell’immaginabile fatta da Maryvonne Saison, la quale lo assimila al

virtuale conferendogli in questo modo uno statuto intermedio tra

l’oggettivo e il soggettivo. Così inteso il virtuale appartiene

all’oggetto e l’immagianrio abita il reale: “ si nous radicalisons au

maximum la position rationaliste dualiste de Sartre ou d'Alain, nous

constatons que l'imaginaire comme irréel ne peut pas entrer dans une

relation positive au réel. L'acte créateur s'analyse uniquement en fonc-

tion du réel, tout imaginaire représentant une entrave à la creation”254.

In questo modo si fa riferimento all’immaginario senza essere vincola-

ti da una coscienza immaginante e senza dover necessariamente tra-

durre il virtuale in immagini: “tale è l’invisibile di cui è gravido il vi-

sibile, che non è solamente il non visto che si lascia dedurre dal visto

quando il giudizio è all’opera nella percezione, ma è il non visibile

che aderisce al visibile e gli conferisce con ciò una nuova dimensione. 252 M.Dufrenne, L’Occhio e l’Orecchio, cit., p.195. 253 Ib.p.201. 254 Maryvonne Saison, Imaginaire-imaginable. Parcours philosophique à travers le théatre et la médecine mentale, Klincksieck, Paris 1981, p.60.

117

Il visibile dice questo invisibile […] come la trasparenza del cristallo

dice il suo tintinnio”255. È senz’altro, per ammissione dello stesso Du-

frenne, una concezione meno rigorosa della sinestesia; ci sembra, in

conclusione, che Dufrenne faccia sua la comunicazione esistenziale di

Deleuze perché, come quest’ultimo poneva l’accento sull’artista a cui

“tocca far vedere una sorta di unità originale dei sensi”256, così Du-

frenne finisce col richiamare il primato dell’espressione senza dimen-

ticare, però, come pretenderebbe Nancy, la “dimensione” del ritmo:

“in nessun caso, però, e tanto meno attraverso un oggetto qualunque,

va ricercata l’unità dell’opera in una neutralizzazione dei registri sen-

soriali e in una omogeneizzazione del sensibile […]. Le arti che sfrut-

tano i diversi registri non cooperano felicemente se non a condizione

di accordarsi, e sono le loro espressioni a realizzare questo accordo la

cui intensità misura il successo dell’impresa”257; “io risuono (nel so-

noro) come esso risuona in me, io vibro. […] Gli effetti che produce

su di me, analoghi a quelli prodotti dal colore, attestano l’intimità del-

la mia carne con il sonoro”258

Conclusioni Pur apprezzando la sua capacità di indicare ambiti di riflessione inter-

disciplinari, soprattutto per questioni concernenti la prassi artistica,

non possiamo non rilevare alcuni evidenti limiti nel pensiero di Du-

frenne. Già C.Fontana comincia la sua prefazione all’edizione italiana

di L’occhio e l’orecchio prima dicendo che “l’opera di Dufrenne è per 255 M.Dufrenne, L’Occhio e l’orecchio, op.cit., p.199. 256 V. sopra nota 423. 257 M.Dufrenne, L’Occhio e l’Orecchio, op.cit., pp.143-144. Non dissimile la conclusione di J.Luc Nancy su questo punto: “le arti passano infatti le une nelle altre, e questo non tanto nella pratica di mescolamento o di sintesi, ma piuttosto ciascuna per sé, se possiamo dirla così (c’è musica nella pittura). Simmetricamente, le arti si ignorano e si respingono, ermeticamente chiuse le une nei con-fronti delle altre, e questo anche nel cuore della loro incessante comunicazione (c’è sempre un abisso tra un colore sulla tela e il colore di una sonorità). Certamente le ‘corrispondenze’ di Baude-laire esistono, ma le arti si rispondono attraverso idiomi rigorosamente intraducibili.”in Le arti si fanno le une contro le altre, cfr. Le Muse, cit. p.141. 258 M.Dufrenne, L’Occhio e l’Orecchio, op.cit., p.145.

118

lo più da riscoprire in Italia”, ma per aggiungere qualche pagina dopo:

“Molti sono gli aspetti del pensiero di Dufrenne che inducono al dub-

bio circa la loro consistenza”.

Abbiamo già visto come Dufrenne abbia consigliato una lettura di

Merleau-Ponty che dal Visibile e l’invisibile ritorni ad interrogare la

Fenomenologia della percezione. Questo spunto interpretativo che, di

fatto, ha avuto un seguito negli anni successivi tra gli studiosi di fe-

nomenologia, necessitava, però, di ulteriori approfondimenti. Se è ve-

ro, infatti, che nella Nota sulla presenza Dufrenne traccia un vero e

proprio programma ontologico259 che rilancia la nozione merleaupon-

tyana di Être-au-monde260 , è altrettanto vero che ci saremmo aspettati

un maggior approfondimento proprio sul piano fenomenologico: che

cosa significano, infatti, “presenza”, “intorno”, “disposizione”? Sono

dati originari o richiedono indagini fenomenologiche?

Anche la trattazione del tema delle sinestesie è in parte deludente.

L’occhio e l’orecchio di Dufrenne giunge quasi quaranta anni dopo

Merleau-Ponty e a quasi dieci anni dall’uscita della Logica della sen-

sazione di Deleuze. Eppure la posizione di Dufrenne sul tema non ag-

giunge nulla ed evita, anche, di soffermarsi su quegli aspetti delle po-

sizioni precedenti che meriterebbero ulteriori approfondimenti. C.

Fontana ha rimarcato, nella sua prefazione al testo di Dufrenne, questo

stesso limite: “Così, anche sulla questione delle sinestesie, [Dufrenne]

ci fornisce delle suggestioni che chiederebbero di essere proseguite;

259 “ Ciò che vivo è la presenza delle cose intorno a me secondo una disposizione; io sono vicino a esse secondo una relazione di prossimità che implica, al contempo, una distanza”.Ib., p.77 (corsi-vo nostro). 260 È stato opportunamente rilevato che “l’essere al mondo” è “in stretta connessione- ma anche come presa di distanza- rispetto allo heideggeriano In der Welt sein , essere-nel-mondo. A diffe-renza di quest’ultimo, che insiste sul radicamento dell’essere nello spazio specifico della propria lingua, cultura e territorio, per Merleau-Ponty abbiamo piuttosto uno spazio di intersoggettività, impersonale, che […] rende labile la stessa separazione soggettivo-oggettivo”: P.Dalla Vigna, A partire da Merleau-Ponty. L’evoluzione delle concezioni estetiche merleau-pontyane nella filoso-fia francese e negli stili dell’età contemporanea, Mimesis, Milano 2002, p.16.

119

leggendo le pagine dedicate a quel fenomeno, infatti, la risposta alla

domanda circa il suo statuto rimane solo abbozzata. Non è possibile,

in effetti, non ricordare due fattori fondanti dell’universo sinestesico,

vale a dire il carattere di eccedenza del sensibile e quello della Kìne-

sis: […]; i registri sensibili sono sempre intrecciati perché reciproca-

mente eccedenti e sono tali perché costitutivamente cinestesici, come

ben mostra la meditazione di Merleau-Ponty.”261.

Inoltre, quando Dufrenne ha fatto riferimento alla questione della veri-

tà dell’esperienza estetica, sembra che abbia voluto solo rivendicare la

non autonomia dell’immaginazione rispetto alle altre facoltà del sog-

getto umano, come invece faceva Sartre. In altri termini, il riferimento

polemico di Dufrenne sembra essere l’ultimo capitolo dell’Imaginaire

di Sartre, quello dedicato all’opera d’arte. In quelle pagine Sartre

prende in considerazione le diverse componenti dell’oggetto estetico,

affermando che “quel che è reale sono i risultati delle pennellate, la

preparazione della tela, la sua grana, la vernice passata sui colori: tutte

cose che non costituiscono affatto oggetto di valutazione estetica”262 .

Quello che si manifesta per mezzo del quadro “è un insieme irreale di

cose nuove, di oggetti che non ho mai visti e non vedrò mai […].

Quanto al godimento estetico, esso è reale, ma non è colto per se stes-

so, in quanto prodotto da un colore reale: è solo una maniera di ap-

prendere l’oggetto irreale”263 . Qui Sartre sta parlando dell’arte astrat-

ta, ma il carattere di irrealtà riguarda anche l’arte figurativa: “E come

261 C.Fontana, Prefazione all’Occhio e l’Orecchio, cit., p.19. Lo stesso Nancy non aggiunge ele-menti rilevanti rispetto a Dufrenne. Sul tema delle sinestesie rimando alle analisi svolte da E.Lisciani Petrini su Merleau-Ponty, Rilke e Proust in Risonanze. Ascolto Corpo Mondo, Mime-sis, Milano 2007. 262 J.P. Sartre, L’Imaginaire, Gallimard, Paris 1940; tr.it. di E.Bottasso, Immagine e coscienza, Ei-naudi, Torino 1964, p.291. 263 Ib.p., 293.

120

quel Carlo VIII, […], siamo condotti a riconoscere che in un quadro

l’oggetto estetico è un irreale”264 .

Quello che Dufrenne non riesce ad accettare di questo discorso è il fat-

to di relegare la contemplazione estetica “fuori dell’esistenza”: da qui

la rivendicazione di Dufrenne della verità dell’esperienza estetica. Ma,

per porre il problema della verità occorre ben altro approfondimento,

cioè sarebbe necessario interrogarsi sullo statuto ontologico del sensi-

bile, in quanto ciò che mi affetta; un discorso sulla verità avrebbe ri-

chiesto almeno un confronto con l’ultima grande meditazione

sull’arte, ovvero il saggio di Heidegger Sull’origine dell’opera d’arte.

Succede, invece, che il discorso di Dufrenne ponga solo l’esigenza di

una considerazione del sensibile che prescinda dalla proiezione di stati

d’animo del soggetto fruitore dell’opera d’arte, senza però riuscire a

liberarsi di una prospettiva psicologistica troppo vincolante.

È altrettanto vero, però, come dicevamo sopra, che Dufrenne andrebbe

riletto. A testimonianza di ciò un dato. Una particolare declinazione

del tema del corpo sinestesico lo riporta all’interno dell’attuale dibatti-

to estetico. Sto pensando ancora a Nancy e, più esattamente, al breve

testo pubblicato nel 2002265. In questo testo l’autore si concentra su

una dimensione negletta dalla storia della filosofia: “se, a partire da

Kant fino a Heidegger, la posta maggiore della filosofia si è concen-

trata sull’apparizione o manifestazione dell’essere, […], la ‘verità’

stessa come transitvità e transizione incessante fra un venire e partire,

non deve essere ascoltata più che vista?”266. La posta in gioco di Nan-

cy è quella di reimpostare la questione del soggetto: “il luogo sonoro,

lo spazio e il luogo- e l’aver luogo- in quanto sonorità, non è dunque

un luogo nel quale il soggetto arriverebbe per farsi sentire […], ma è 264 Ib., pp. 290-291. 265 J.L.Nancy, À L’Écoute, Galilée, Paris 2002; tr.it e intr. di E.Lisciani-Petrini, All’Ascolto, Corti-na, Milano 2004. 266 Ib., p.8.

121

un luogo che al contrario diventa un soggetto nella misura in cui il

suono vi risuona. […]. Forse sotto questa luce va visto un neonato col

suo primo grido, come se fosse egli stesso l’espansione improvvisa di

una camera d’eco”267. Come non avvertire in queste pagine l’eco di al-

tre pagine, questa volta di Dufrenne? Mi riferisco, in particolare, alle

pagine sulla relazione tra voce, orecchio e costituzione del soggetto:

“io sono cosciente (di) me senza prenderne coscienza, […], senza af-

fermare questo pronome che vivo ascoltandomi, senza dire: me, io;

[…]. È proprio il corpo a essere in gioco; la voce è il respiro che si ri-

flette in esso senza che io abbia a riflettervi: autoaffezione carnale.

[…]. Una riflessione sulla soggettività non può dunque sottovalutare

l’ascoltare […]. Non è sufficiente che lo spazio, orizzonte di visibilità,

si apra al Dasein, dal momento che è, inoltre, necessario che il Dasein

si esperisca come sé entrando in rapporto con sé e aprendosi al tempo.

Presenza al mondo e presenza a sé sono dunque indissociabili”268.

Bibliografia

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267 Ib., p.28. 268 M.Dufrenne, L’Occhio e l’Orecchio, cit., pp., 81-82.

122

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