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Il «ritorno alla patria» nel sovversivismo primo novecentesco e l’incontro con Mazzini

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SEMINARI E CONVEGNI

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Convegno nazionale di studiDomus MazzinianaScuola Normale SuperioreScuola Superiore Sant’AnnaPisa, 9-11 marzo 2006

Mazzini e il Novecento

a cura diAndrea Bocchi e Daniele Menozzi

Il presente volume è stato realizzato anche con un contributo della Domus Mazziniana

© 2010 Scuola Normale Superiore Pisa

isbn 978-88-7642-369-7

Indice

IntroduzioneAndrea Bocchi, Daniele Menozzi 1

Appunti di letteratura mazziniana attorno al primo centenarioMauro Moretti 7

Il «ritorno alla patria» nel sovversivismo primonovecentescoe l’incontro con MazziniRoberto Pertici 65

La presenza di Giuseppe Mazzini nel pensierodi alcuni protagonisti della crisi modernista italianaRocco Cerrato 109

L’interventismo democratico e la tradizione repubblicanaMarina Tesoro 139

Mazzini e il fascismoMario di Napoli 169

Il Mazzini di Gramsci e di TogliattiGiovanni Belardelli 183

Gli «stolidi buoni». Mazzini, l’ebraismo, il sionismo:qualche osservazione preliminareAlberto Cavaglion 217

Giuseppe Mazzini: avvicinamenti e approdi biograficiRoland Sarti 227

I volti del profeta: Mazzini nei manuali di storiaClaudia Mantovani 251

L’incorrotto ideale. Mazzini nella tradizione letterariaMarino Biondi 281

Noterelle a margine

Una eredità problematica. Nota su Chabod e MazziniPier Giorgio Zunino 345

Una difesa d’ufficioAndrea Bocchi 355

Indice dei nomi 361

vi Indice

Introduzione

A un convegno scientifico di ambito storico non si chiede normal-mente di introdurre rivoluzioni nell’argomento considerato, semmai di fornire un quadro aggiornato e partecipe della materia, segnalando i temi di maggior dinamismo negli studi. A noi sembra che con Mazzini e il Novecento, il convegno svoltosi tra il 9 e l’11 marzo 2006 presso la Domus Mazziniana, la Scuola di Studi Superiori Sant’Anna e la Scuola Normale Superiore, frutto di una felice collaborazione tra le tre istituzioni pisane, si sia andati anche oltre questo minimale obiet-tivo: malgrado il tema fosse stato poco trattato nelle celebrazioni del bicentenario del 2005 (o forse proprio per questo), le relazioni che sono state presentate in quell’incontro e che vengono qui pubblicate hanno mostrato, ciascuna nel suo ambito, una notevole disposizio-ne ad affrontare con piglio innovativo un oggetto storiografico, come la tradizione mazziniana, per molto tempo trascurato. Il tempo che è trascorso dalle giornate del convegno – e del ritardo i curatori si scu-sano soprattutto con i più solerti e puntuali tra i partecipanti – non ha attenuato l’impressione che in questo più che in altri incontri il totale rappresenti più che la somma delle singole relazioni: e vorrem-mo individuare il centro di questi diversi contributi nella molteplicità di esperienze che concorrono a formare la tradizione mazziniana del Novecento.

Senza quasi volerlo, i relatori hanno messo a confronto non diverse interpretazioni dell’unico verbo mazziniano, ma prospettive politiche radicalmente differenti e spesso contrapposte direttamente le une alle altre, che tuttavia sinceramente argomentavano la loro legittima di-scendenza dall’insegnamento – per quanto lontano e sempre un po’ di scorcio – del maestro. Diversi interventi hanno messo in luce il paradosso di un Mazzini invocato a conforto dagli esuli antifascisti in attesa del loro 1848 e nel contempo eretto ad antesignano del regime dai loro oppressori. Come sempre, in queste scelte di parte colpisce, più ancora che il dato storiografico, la sua minore o minima manifesta-zione nei percorsi personali e addirittura in oggetti polverosi, come il

2 Andrea Bocchi, Daniele Menozzi

ritratto mazziniano di Ernesto Rossi con i timbri delle prigioni fasciste; o l’evidenza di recuperi tardivi o periferici, come gli insistiti richiami mussoliniani a un Mazzini finalmente repubblicano e sedicente corpo-rativista a Salò.

Infatti, e sarà forse peccato di ingenuità, non sapremmo ridurre l’in-teresse del regime agonizzante per Mazzini e la sua Edizione Nazionale (da pochissimo conclusa, e compiuta per quasi due terzi sotto il regi-me) a un mero richiamo propagandistico: ci sembra più fecondo col-legarlo a tanti altri ritorni a Mazzini, a noi ben più familiari e graditi, talora limitati alla suggestione individuale, spesso ricchi di implicazio-ni politiche di largo respiro. Non pare un caso che pochi anni prima, e in modo per nulla emotivo, a Mazzini si volgessero anche prima della persecuzione uomini come Alessandro Levi, che, nella sua ricerca di un altrove da cui ripensare il presente, rispolvera con passione la mi-litanza ebraica della sua giovinezza e insieme il fervore mazziniano dei suoi parenti acquisiti.

Altri uomini, in altre situazioni, trovano nel genovese un appiglio insperato ma saldo: sarà eccessivo ricordare la citazione – opportuni-stica quanto si vuole, ma plausibile – di Mazzini come unico nome pre-sentabile dell’Italia sconfitta nel discorso che De Gasperi tiene a Parigi nel 1946 ai vincitori? Mazzini è insomma per tutta la prima metà del Novecento il grado zero della convivenza patriottica, sia nel senso che si offre naturalmente alle coscienze in cerca di un appiglio nella tradi-zione nazionale, sia in quanto emblema preideologico di quanti sono alla ricerca di una diversa partecipazione politica, mansueta e pugnace insieme. Maestro del Novecento, in questo come in molti altri aspetti, è il Pascoli che con geniale e discutibile operazione propone al secolo che viene (e al Gentile che lo coglie) un Mazzini assoluto e unitario, al di fuori del tempo e dello spazio e pure sostenitore autorevolissimo di una palingenesi appetibile a chi propugna la centralità socialista del lavoro, a chi difende le garanzie liberali della cittadinanza, a chi invoca le virtù nazionali protagoniste di un nuovo risorgimento e a chi impone le esigenze ineludibili di uno stato etico.

È fin troppo chiaro – ma non pacifico, come risulta dalle ultime pagine di questi atti – che ben poco di tutto ciò può, nel bene e nel male, ricadere direttamente sulle scelte di Mazzini: al contrario, tutte queste letture e ognuna di esse presuppone una interessata (seppur soggettivamente giustificata) reductio ad unum del pensiero mazzi-niano, spesso antifilologica e anacronistica, paradossalmente proprio nel momento in cui per la solitaria fatica di Mario Menghini veniva resa disponibile (ma ancora priva di indici) l’intera opera mazziniana.

3 Introduzione

Già Delio Cantimori, in una lettera segnalata da Pertici, paventava che «il Mazzini conciato alla bell’e meglio serva di decorazione pel baraccone dei neo-mistici che assecondano nel campo intellettuale la reazione nel campo politico»; ma il tentativo, instancabilmente perseguito anche da parti diverse e distanti, di individuare il messag-gio mazziniano, volta a volta nazionalista, socialisteggiante, insur-rezionalista, laburista, corporativo o imperialista è davvero la cifra del mazzinianesimo novecentesco. Anzi, per fare un passo in più, dei mazzinianesimi novecenteschi.

Infatti manca, com’è evidente, al lascito mazziniano nel Novecento il riferimento a un canone di testi (e anzi sarebbe opportuno un ulte-riore approfondimento sulle epitomi mazziniane primonovecentesche e sul loro lascito) e a un paradigma interpretativo comune che ne fa-rebbe un filone, per quanto composito, della riflessione politica del Novecento. Questo convegno mostra, a quanto ci sembra, che esisto-no invece molti mazzinianesimi anche minori, che spesso hanno fatto a meno di celebrazioni ufficiali e che pure carsicamente rispuntano, se solo si adotta la prospettiva disincantata e l’abitudine a distinguere che caratterizza i saggi di Mauro Moretti, di Roberto Pertici e di Ma-rina Tesoro.

Esiste senz’altro un mazzinianesimo famigliare, senza cui non si com-prendono molte pagine, specie private, di Nello Rosselli. Esiste un mazzinianesimo anglosassone che si è espresso, come ci ha mostra-to Roland Sarti, in molte ricostruzioni biografiche nella convinzione (che suona curiosamente esotica al di qua delle Alpi) che Mazzini come uomo e come politico possa dirci ancora qualcosa (e, detto per contrasto, colpisce non esista un mazzinianesimo francese che non sia quello degli esuli). Esiste un mazzinianesimo «come antidoto morale», ad esempio nel Calamandrei ricordato da Marino Biondi. Esiste un mazzinianesimo sindacalista e operaio, perfino recente e diffuso, di cui non può dubitare chi abbia posto l’occhio sui tanti minori monumenti mazziniani degli anni Cinquanta e Sessanta, specie in Romagna e nel Carrarese. Benché nessuno definisca più Mazzini un filosofo (e benché nessuno si chieda perché tale fosse detto in molti giudizi contempo-ranei) esiste pure un mazzinianesimo filosofico, ben ancorato nel ri-dotto aristotelico del lombardo-veneto (ne accenna Roberto Pertici a proposito di Cantimori). Esiste un mazzinianesimo già intransigente e poi sansepolcrista, coerentemente minoritario e non allineato ma insomma disciplinato, come ricorda Mario di Napoli, e insieme un Mazzini agitato – non in modo celebrativo – dalla sinistra fascista. (Aggiungeremo che, malgrado sforzi meritevoli e recenti anche qui

4 Andrea Bocchi, Daniele Menozzi

ricordati, tra l’altro, da Claudia Mantovani, manca un diffuso mazzi-nianesimo europeista).

La ricostruzione complessiva di questo panorama, che naturalmente può essere di molto allargato ricordando i percorsi di massimi come Salvemini o di minori come Lodolini, è ancora da compiere; e chi ne riducesse la portata alla biografia intellettuale di spiriti originali (e, per il vero, di pessimi caratteri) sarebbe smentito proprio dall’esem-pio appena citato di Felice Albani, o, su altre posizioni, dal guardingo atteggiamento di Gramsci e Togliatti verso Mazzini, qui illustrato da Giovanni Belardelli, e da quello in fondo possibilista di Romolo Mur-ri, richiamato da Rocco Cerrato: in questi casi, e più marcatamente in altri, aperture e adesioni alle posizioni mazziniane mostrano pla-sticamente un altro ruolo capitale dei mazzinianesimi novecenteschi, quello di garantire e giustificare – appunto in quanto grado zero e ca-rattere originale dell’identità politica italiana – solidarietà, simpatie e addirittura trasbordi tra posizioni politiche che a posteriori possono apparire distanti.

Non si è insistito in questi contributi – e qualcuno se ne dispiace-rà – su nomi importanti e venerabili, pur ineludibili nelle vicende del mazzinianesimo, come quelli dei Salvemini, dei Rosselli, di Capitini e perfino di Gentile e poco si è discusso delle interpretazioni militanti (anche) del mazzinianesimo in politica, come il Partito Repubblicano e il Partito d’Azione, che nel nome si richiamano esplicitamente alla memoria mazziniana (e all’ultimo giornale mazziniano si richiamava il titolo del «Popolo d’Italia»). In generale le relazioni hanno privilegia-to, piuttosto che i capisaldi della tradizione mazziniana, ambiti meno comunemente esibiti dell’eredità del genovese. Ciò non risponde a una direttiva di chi con noi ha selezionato i nomi dei partecipanti – ed è qui il luogo di ringraziare Roberto Vivarelli per la Scuola Norma-le Superiore, Pietro Finelli per la Domus Mazziniana, Barbara Hen-ry della Scuola Superiore di Studi Universitari e di Perfezionamento Sant’Anna di Pisa, e ancora Roberto Pertici e Adriano Prosperi – né a una esplicita intenzione dei relatori. Ma ci sembra che questo taglio disegni dei percorsi comunque interessanti e che incoraggi prospettive inconsuete, acquisti talora illuminanti: come la partecipe rilettura di Alessandro Levi dei rapporti di Mazzini con i suoi ospiti israeliti (qui presentata da Alberto Cavaglion), in cui il riscontro con i testi mazzi-niani, spesso citati e troppo spesso estratti dal loro contesto, getta una luce ironica e umanissima su uno dei tratti meno criticamente consi-derati da amici e nemici di Mazzini. Buon esempio, ci sembra, di come la considerazione dei tanti e preziosi mazzinianesimi del secolo XX da

5 Introduzione

un lato segnali con la sensibilità di un sismografo tenui e tenaci soli-darietà e opposizioni; e dall’altro stimoli, piuttosto che ad appiattirne didatticamente la figura, a valorizzare retrospettivamente il fitto déca-lage delle idee e degli umori di una vita, come quella di Mazzini, tra le più significative e tra le più riccamente documentate del suo secolo: superando così finalmente quel Mazzini pascoliano unitario, fecondo e ingombrante, che pure è stato una delle stelle polari del pensiero e dell’azione politica del secolo XX.

Andrea Bocchi, Daniele Menozzi

Il «ritorno alla patria» nel sovversivismo primonovecentesco e l’incontro con Mazzini

1. Quello che, in questo saggio, indico come il «ritorno alla patria» di importanti settori del sovversivismo italiano del primo Novecen-to è un aspetto importante di una questione ancora più ampia1, per chiarire la quale credo sia utile riaprire la Storia critica del movimento socialista che Roberto Michels scrisse su invito di Prezzolini nei primi anni Venti e pubblicò presso le edizioni della «Voce» nel 1926. In pagine suggestive, il sociologo tedesco notava come in Italia il partito socialista fosse stato, a differenza o comunque più di altri partiti della seconda Internazionale, un’organizzazione con una forte presenza in-tellettuale: a ben vedere, quasi tutte le nuove leve emerse nella cultura italiana nell’ultimo decennio dell’Ottocento hanno attraversato, in forme diverse e per periodi più o meno lunghi, un’esperienza socialista. Michels dedicava il capitolo IX del volume appunto a Gli intellettuali socialisti, distinguendoli fra studenti e professori universitari: per mo-strare l’ampiezza delle loro adesioni, metteva insieme anche un lungo elenco di «alcuni tra i maggiorenti intellettuali, che più di tutti han-

1 In questo lavoro cerco di riordinare una serie di risultati, a cui sono giunto in diverse ricerche degli ultimi venti anni. Come altra volta mi è successo, ho rinvenuto in alcuni saggi di Augusto Del Noce (soprattutto in A. Del Noce, Appunti per una de-finizione storica del fascismo, in Id., L’epoca della secolarizzazione, Milano, Giuffrè 1970, pp. 113-135) un tentativo di concettualizzazione in cui mi sono quasi naturalmente ritrovato. Mi sono utilmente confrontato anche con Z. Sternhell, Ni droite ni gau-che, Paris, Editions du Seuil 1983, trad. it. Né destra né sinistra. La nascita dell’ideologia fascista, Napoli, Akropolis 1984, ma non credo che – almeno sul terreno italiano – tutta la vicenda su cui mi intratterrò in questo lavoro possa essere letta tout court come una preistoria dell’«ideologia fascista»: gli uomini di cui si parlerà compirono, di fronte al fascismo, scelte molto differenziate e, non pochi, ne furono agguerriti oppo-sitori, a conferma che le opzioni politiche non discendono in maniera automatica da una determinata humus culturale. Infine ho tenuto sempre presenti i lavori di Emilio Gentile sulla cultura italiana del primo quarto del secolo scorso.

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no onorato e reso noto il socialismo italiano»2. Si tratta di una lista tutt’altro che completa (comprende solo i più noti), ma di per sé già abbastanza significativa per il numero e la qualità dei nomi.

Il problema che ne emerge, e che non sfugge a Michels, può essere così riassunto: nel giro dei vent’anni successivi, che tipo di evoluzione politica hanno avuto questi intellettuali? Quali direzioni hanno pre-se? In prima approssimazione, si può affermare che la maggior parte di costoro ben presto lasciò il socialismo «ufficiale», spesso anche l’area socialista; che cioè il partito non riuscì a (forse nemmeno si propose di) sviluppare una «politica di alleanze» e, nel contempo, una «politica culturale», che in qualche modo puntasse a giovarsi permanentemente del loro appoggio e della loro elaborazione. Il sociologo tedesco segnala questo fenomeno e, sia pure con accenti non univoci, cerca di scandire anche cronologicamente questo passaggio: lo riporta agli anni, grosso modo, che vanno dal 1900 al 1905, al periodo, cioè, del primo mini-sterialismo socialista, della lotta fra le tendenze interne al partito, alla polemica contro gli «intellettuali», che – con accenti opposti, ma con-vergenti – sia i riformisti che i rivoluzionari condussero in quegli anni.

Dal 1907 in poi – scrive – il socialismo italiano, che fin allora, e special-mente negli anni che scorsero tra il 1893 e il 1902, aveva potuto menar vanto delle simpatie e dell’adesioni ottenute nei centri universitari (che gli avevan dato aspetto talvolta quasi di un partito professorale), andava perdendo rapi-damente e le adesioni e le simpatie. Smessa una volta la sua veste idealistica, il socialismo non esercitava più alcuna attrattiva sulla mentalità universitaria. Le lotte interne tra i socialisti riformisti ed i cosiddetti rivoluzionari ed i sindacalisti, [...] smorzarono l’entusiasmo dei gruppi di studenti collettivisti, dapprima così fiorente nelle varie università del Regno. Tali gruppi anzi non tardarono a sciogliersi. Due altri fatti contribuirono ad accelerare di molto la separazione della maggioranza dei socialisti universitari dalle masse. L’uno fu l’esodo dei sindacalisti dal partito dopo il 1907, l’altro la rinascita del patriottismo italiano, nel 1911, durante la guerra di Tripoli3.

2 R. Michels, Storia critica del movimento socialista italiano. Dagli inizi fino al 1911, Firenze, La Voce 1926, p. 193.

3 Ibid., p. 398. Alcuni dirigenti socialisti si resero conto di questa evoluzione, ma l’avvertirono quasi come una liberazione da una zavorra che intralciava l’azione del partito. Nel novembre del 1904, Claudio Treves, in una di quelle Note in taccuino che pubblicava sul «Tempo» (il quotidiano milanese di cui era direttore dall’aprile del 1902), vantava l’équipe di uomini di cultura che era riuscito a riunire attorno al gior-

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Un indizio di un certo interesse che Michels indicava era l’inchiesta condotta a Milano nel 1902 da E.A. Marescotti, «a dir vero con un questionario meno abile e rivolgentesi a scienziati e letterati di minor notorietà» rispetto a quella assai più celebre di Gustavo Macchi su «Vita moderna» nel 1894. Essa diede risultati meno favorevoli della precedente: delle 70 risposte provenienti da italiani, 20 erano in favo-re, 15 indecise, e 20 contrarie4. Sono note le vicende dei maggiori di quegli intellettuali che erano stati o socialisti o compagni di strada o comunque avevano collaborato alle riviste del partito e che presero al-lora altre strade, facendosi spesso critici del marxismo e del socialismo: basti pensare a Vilfredo Pareto, Benedetto Croce, Cesare Lombroso e Luigi Einaudi. Ma è preferibile, per chiarire il fenomeno, rivolgere l’attenzione verso figure ‘minori’, ma forse più indicative delle tenden-ze generali di quel periodo.

nale e accennava, per contrasto, all’emorragia dell’intellighenzia «socialisteggiante» che tornava precipitosamente «a Giolitti e alle istituzioni». Il suo commento riprendeva le analisi svolte da Turati, qualche anno prima, quando in un’intervista concessa a un giornalista del «Pungolo», Eugenio Zaniboni, aveva affermato che gli intellettuali rivoluzionari, per lo più, provenivano dalla piccola borghesia e avevano disertato dal partito perché non vi avevano trovato una facile carriera. Il rapido incremento del partito socialista aveva prodotto l’inconveniente di ridurlo a rifugio di alcuni detriti delle classi borghesi, che, con le loro facili loquele e con una certa disinvoltura, vi avevano portato le loro vanità irritate ed impotenti. I rivoluzionari avevano tratto a sé una «turba di eroi della sesta giornata», di «sportmen del socialismo» e il partito si era imborghesito (Il Partito Socialista Italiano e le sue pretese «tendenze». Intervista con un redattore di un giornale borghese, Milano, Uffici della «Critica sociale» 1902, sulla quale cfr. Michels, Storia critica cit., p. 258). La conclusione di Treves era analoga: si trattava, appunto, di una «liberazione», il partito non stava perdendo nulla, questi erano compagni di strada di poca fede, spesso degli opportunisti: Note in taccuino. Una liberazione, in «Il Tempo» (Milano), 20 novembre 1904, cit. in A. Casali, Socialismo e internazionalismo nella storia d’Italia. Claudio Treves 1869-1933, Napoli, Guida 1985, p. 44. Antonio Gramsci, che comincia a riflettere molto precocemente sulla figura e sul ruolo dell’intellettuale socialista e sull’importanza di una cultura socialista, non igno-rava la crisi che l’aveva percorsa a metà del primo decennio del secolo e si interrogò a lungo sulle sue cause e conseguenze e anche sui modi con cui rendere più «organici» i rapporti fra intellettuali e partito.

4 Michels, Storia critica cit., p. 191. Sull’inchiesta del 1894, cfr. infra, nota 61. Que-sta nuova Inchiesta sul socialismo apparve su Pro fanciullezza abbandonata, a c. di E.A. Marescotti, Milano, Menotti Bassani e C. 1902 («Bios», numero unico 1902-1903).

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2. Più volte è stato osservato come nei giovani intellettuali socialisti degli anni Novanta fosse presente un curioso impasto di tardo positi-vismo e di aspettative palingenetiche, per cui il socialismo era atteso come una risposta alla decadenza della civiltà europea e l’instaurazio-ne di un’era nuova: era perciò inevitabile che costoro si trovassero cul-turalmente poco attrezzati di fronte alla ‘prosaica’ realtà del collabo-razionismo socialista, vivendo ampie delusioni e sofferti ripensamenti. Come si manifestò questa crisi? Per sintetizzare, ci si può sforzare di indicare una specie di percorso idealtipico: è abbastanza pacifico, in primo luogo, che abbia svolto un ruolo importante il mutamento del clima culturale e ‘filosofico’. Una buona parte di questi intellettuali so-cialisti ha progressivamente subìto l’egemonia della nuova e pervasiva cultura variamente spiritualistica e idealistica che si afferma nel primo decennio del secolo e ha abbandonato quella precedente di stampo positivistico: da qui le varie forme di socialismo non più marxista, ma spiritualistico e idealistico, che allora si diffusero.

Fra i numerosi esempi che si potrebbero presentare, piuttosto signifi-cativo è quello di Balbino Giuliano, nato nel 1879 e studente sociali-sta nella Torino del ‘metodo storico’ e della ‘cultura positiva’ dal 1896 al 1902. In un articolo pubblicato nel febbraio del 1913 sull’«Unità» di Salvemini, Giuliano constatava:

Se ci rivolgiamo ora a pensare quel periodo travaglioso della vita italiana, che fu l’ultimo decennio del secolo XIX, e lo confrontiamo con le condizioni pre-senti nella nostra vita pubblica, noi sentiamo che una trasformazione profon-da è avvenuta nella coscienza politica di moltissimi fra noi. Il socialismo era dieci anni or sono una visione integrale della vita e della condotta politica; aveva la forza, propria delle fedi, di dividere il mondo in campi opposti, o con sé, o contro di sé. Oggi [...] noi sentiamo che qualche cosa nel socialismo è morto5. Quasi con rammarico, i vecchi combattenti confessano a bassa voce

5 Eco evidente di uno dei testi più significativi dell’evoluzione di cui qui ragionia-mo, la pseudo-intervista a B. Croce, La morte del socialismo (Discorrendo con Benedetto Croce), in «La Voce», III, n. 6, 9 febbraio 1911, p. 501 (ora in Id., Cultura e vita mo-rale. Intermezzi polemici, Bari, Laterza 19553 [1913], pp. 150-159): a costo di operare un accostamento apparentemente peregrino, trasferendoci in un ambiente lontano ma col quale Croce – attraverso Sorel – manteneva non pochi contatti, si colgono accenti analoghi nel Péguy di Notre jeunesse, uscita pochi mesi prima dell’intervento crociano, nelle sue riflessioni sull’evoluzione del socialismo jaurèsiano e dreyfusardo dalla «mistica» alla «politica», che è come dire dalla vita alla morte: «Ogni partito

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che si è inaridita quella fonte di energia spirituale, che avvinceva un giorno i compagni come in una mistica comunione di fede, che faceva del socialismo una forza ideale, da amare o da odiare, ma una forza che si imponeva al rispet-to anche dei suoi nemici, anche nelle ore dolorose della persecuzione.

La sua stessa esperienza, di un giovane filosofo che, tra i primi (intor-no al 1904), aveva disancorato il suo socialismo dalla tradizionale base marxistica e materialistica, gli faceva attribuire questa crisi a un mu-tamento filosofico: all’affermarsi di una «concezione attivistica dello spirito e della vita, ormai scesa dalla speculazione filosofica nella cul-tura generale, [che] ha improntato di sé la coscienza nostra». Al socia-lismo erano così «venuti meno quei concetti filosofici dell’intellettua-lismo positivistico, che ne costituivano il fondamento scientifico, che alimentavano, in nome della certezza scientifica, l’entusiasmo della fede». Infatti «la forza eccitatrice del Marxismo derivava proprio dalla certezza posta in un sistema logico della vita, in cui l’attività spirituale era concepita come una passività meccanicamente determinata»:

Il primo principio teoretico del socialismo era questo: che lo sviluppo socia-le è l’espressione del fenomeno economico, e che il fenomeno economico è scientificamente determinabile al pari della materia fisica. Naturalmente, ammessa la possibilità di una determinazione meccanicistica della storia, ne seguiva la possibilità di una previsione storica altrettanto sicura quanto quella delle scienze positive ed il Marxismo, forte di questi principi, tentò di dimo-strare che la storia umana [...] doveva per un’intima necessità logica condurre la società al trionfo del collettivismo. Ora il Marxismo stesso ci appare oggi quale un’ideologia caduta!6.

vive della sua mistica e muore della sua politica» (C. Péguy, Notre jeunesse, Paris, Cahiers de la quinzaine 1910, trad. it. La nostra giovinezza, a c. di G. Rodano, Roma, Editori Riuniti 1993, p. 36). Nelle lettere di Sorel a Croce sono frequenti i riferimenti a Péguy: in quella del 24 ottobre 1902, che annunziava l’invìo dei «prospectus» dei nascituri «Cahiers de la quinzaine» e sollecitava abbonamenti, risulta anche un in-contro «à son bureau à Paris» («La Critica», XXV, 1927, pp. 370-371). Anche Péguy operò, al pari di altri suoi compagni delle lotte di fine secolo in Francia, un suo «ri-torno alla patria», con cadenze ed esiti che potrebbero essere utilmente confrontati con i casi italiani di cui qui parleremo: segno che si trattò di un fenomeno europeo, come anche il caso dello stesso Michels dimostra. Su tali problemi, cfr. Sternhell, Né destra né sinistra cit., pp. 28-32 e 41-92.

6 B. Giuliano, La crisi di un mito, in «L’Unità», 21 febbraio 1913, pp. 251-252.

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3. L’altro passaggio, più sfuggente e problematico è quello – potrem-mo dire – dalla classe alla nazione, appunto il «ritorno alla patria». La politica internazionale negli anni che vanno dal 1896 al 1908 ripro-pone prepotentemente il tema della nazione: una serie di guerre – o di indipendenza (quella greco-turca per Creta del ’97) o ‘imperiali’ (la ispano-americana, l’anglo-boera, quella russo-giapponese, e poi la prima crisi marocchina e quella bosniaca) – pongono problemi e im-pongono riflessioni ai contemporanei, anche a coloro che si muovono nell’area socialista. Ma la cultura che vi circola ha una difficoltà costi-tutiva a dare, a questi problemi, risposte che non siano meramente ri-vendicative7: per il suo impianto ‘progressista’, ha difficoltà a pensare la nazione, considerata sempre un elemento residuale destinato a essere in qualche modo superato; non riesce concretamente a pensare la poli-tica estera (con le note eccezioni di Salvemini e di Bissolati, che non a caso si staccarono poi dal partito). Questo riemergere della problema-tica nazionale finisce per mettere in crisi il socialismo di molti di questi intellettuali, che vengono spesso abbandonando o ridimensionando lo sfondo internazionalistico e ricuperando quello nazionale: passano quindi a un socialismo variamente nazionale e patriottico, in cui riaf-fiorano le tracce della loro prima formazione, legata alle passioni risor-gimentali così vive nell’estrema radical-repubblicana da cui provengo-no le loro famiglie. In entrambi i passaggi – questo è il problema che qui ci interessa – viene spesso ricuperata, sul piano simbolico, la figura di Mazzini, sia che se ne sottolinei il tratto spiritualistico e anti-ma-terialistico, o la tematica non strettamente classistica, ma ‘nazionale’.

Questa crisi si manifestò in forme estremamente complesse e dif-ferenziate per qualità di cultura, momenti di svolta ed esiti, per cui bisogna evitare, pur nella legittima ricerca di una prospettiva genera-le, di tracciare linee di sviluppo troppo univoche. Il percorso che ha maggiormente attirato l’attenzione è quello di quei sindacalisti rivolu-zionari, che precocemente (già intorno al 1910 e di fronte alla guerra

Sull’evoluzione di Giuliano, cfr. R. Pertici, s.v. Giuliano, Balbino, in Dizionario bio-grafico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana 1960-, LVI, 2001, pp. 770-776.

7 P. Serra, Socialismo e questione nazionale, in Interpretazioni del Novecento italiano. Storiografia, cultura e politica, a c. di G. Dessì e G. Parlato, Roma, Fondazione Ugo Spirito 2003, pp. 25-76: 52. Riflessioni analoghe anche in P. Serra, Il pensiero politico di Giuseppe Rensi. Tra dissoluzione del socialismo e formazione dell’alternativa nazionalista (1895-1906), Milano, Franco Angeli 2000.

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di Libia) si avviarono al filo-nazionalismo: l’ambiente – per intender-ci – di alcune riviste come «Pagine libere» di Olivetti e «La Lupa» di Paolo Orano; o di una pubblicazione meno nota, ma pur sempre significativa, come «Il Viandante» di Tomaso Monicelli. Di costoro si è sottolineato il trapasso logico: crisi del socialismo-sindacalismo-interventismo-fascismo8. Non mi sembra che in questi ambienti si operi – sul piano simbolico – un forte ricupero di Mazzini, che invece è presente in altre parabole, meno studiate, forse perché meno si pre-stano a essere inquadrate in successioni rigide con esiti in qualche modo prefissati. Penso soprattutto a intellettuali e politici appartenen-ti all’area «riformista» che verso la fine del primo decennio del secolo elaborarono atteggiamenti ampiamente revisionistici, culminanti nel-la proposta bissolatiana di un partito del lavoro al congresso socialista di Milano nel 1910 e nell’atteggiamento verso la guerra di Libia (ma erano anni che prestavano un’attenzione crescente alle vicende euro-pee e ai problemi della politica internazionale): si tratta di un revisio-nismo minore, che è molto presente, per fare un esempio, nelle prime annate dell’«Unità» di Salvemini e arriva, con una certa coerenza, alla scelta interventistico-democratica nel 1914-1915. O ad ambienti di socialismo variamente religioso, come quello che permea l’atmosfe-ra di «Coenobium», la rivista di Lugano fondata da Enrico Bignami

8 M. Carli, Nazione e rivoluzione. Il «socialismo nazionale» in Italia: mitologia di un discorso rivoluzionario, Milano, Unicopli 2001. Si trattava di un problema già presente, nel primo dopoguerra, a Benedetto Croce, che, nella recensione della seconda edizione degli Elementi di scienza politica di Gaetano Mosca comparsa nel dicembre del 1923, af-fermava: «Il Mosca sembra incline a spiegare la fortuna del socialismo in Italia, presso i giovani e gli intellettuali, sullo scorcio del secolo decimonono, come una sorta di ribel-lione morale contro la corruttela dello Stato liberale. E ci sarà stata anche questa: ma non bisogna dimenticare che in quella dottrina del socialismo marxistico c’era anche, e in primo luogo, una reazione contro l’ideologia democratica, della quale il Marx fu ne-micissimo, e in favore della teoria della lotta e della forza e della dittatura, sia pure con-cepita come dittatura del proletariato o dei rappresentanti del proletariato (cioè di una classe dirigente e politica, come poi si è visto in Russia). Ciò spiega come dai giovani marxisti di allora siano venuti fuori tanti nazionalisti, imperialisti, autoritari, conserva-tori e “fascisti”, che quasi si può dire che i presenti sostenitori in Italia dello Stato forte non abbiano avuto, direttamente o indirettamente, altra origine. Insomma, il marxismo italiano, se non m’inganno, ha adempiuto in politica lo stesso ufficio di intermediario a ripigliare una più seria tradizione, che in altro mio scritto ho cercato di mostrare avere adempiuto nella filosofia e nella storiografia» («La Critica», XXI, 1923, p. 376).

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nel 1906, che però mantiene toni prevalentemente internazionalisti e pacifisti, o a figure come quella di Felice Momigliano, studiata a suo tempo da Alberto Cavaglion9. Mazzini è presente nel «ritorno alla patria» anche di un’altra schiera di sindacalisti rivoluzionari, quella che è stata contraria alla guerra di Libia, ha spesso guidato le lotte più radicali del biennio 1913-1914 e, compiendo la scelta interventistica nell’agosto di quell’anno, diventa il nucleo più attivo del cosiddetto interventismo ‘rivoluzionario’10.

4. Prima di entrare nel campo più propriamente politico, vorrei però dedicare una qualche attenzione ad alcuni ambienti letterari: credo che anche al loro interno si possano rinvenire, in modi ovviamente specifici, alcuni dei passaggi di cui ho appena parlato. Anche molti dei giovani poeti degli anni Novanta avevano aderito al socialismo, ma questa loro scelta non aveva dato vita soltanto, come talora si potreb-be pensare, a una poesia ‘sociale’ o ‘di rivolta’, espressione delle aspira-zioni dei derelitti e del loro sdegno per la società esistente. Non pochi di costoro, invece, erano socialisti in nome di un individualismo este-tizzante, della denuncia dei pericoli di massificazione e di annullamen-to dell’individuo, che avvertivano nell’imminente società industriale. C’era in loro, accanto a Marx, un qualcosa di Nietzsche: si pensi ai giovani protagonisti degli Ammonitori di Giovanni Cena, sovversivi anarchicheggianti, non del tutto corrispondenti al successivo cliché del militante socialista11. Sul piano letterario questo loro atteggiamento si

9 A. Cavaglion, Coenobium 1906-1919. Un’antologia, Comano, Edizioni Alice 1992; Id., Felice Momigliano (1866-1924). Una biografia, Napoli-Bologna, Istituto ita-liano per gli studi storici-Il Mulino 1988.

10 Il radicalismo mazziniano – ha scritto Emilio Gentile – influì fortemente «sulla evoluzione in senso nazionale di movimenti internazionalisti, come il sindacalismo rivoluzionario e il riformismo socialista» (E. Gentile, Il mito dello stato nuovo. Dall’an-tigiolittismo al fascismo, Roma-Bari, Laterza 1982, p. 7).

11 Penso alle figure del tipografo-filosofo Martino Stanga, del giovane poeta Cra-stino e del pittore Quibio. Gli Ammonitori, romanzo sociale di Giovanni Cena, uscito a puntate nella «Nuova Antologia» nel 1903 e in volume nel 1904 (Roma, Nuova Antologia), fu poi riproposto da Italo Calvino nella collana einaudiana Centopagine: G. Cena, Gli Ammonitori, a cura di F. Portinari, Torino, Einaudi 1976. Anche il pie-montese Cena (1870-1917), socialista a Torino negli anni Novanta, poi per lunghi anni redattore-capo della «Nuova Antologia» compì, a modo suo, un «ritorno alla patria» e una conversione spiritualistica del suo socialismo originario. Sulla sua figura,

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convertiva in un’attenzione al simbolismo francese, a una poesia inti-mista, di sensazioni e di stati d’animo12. Questi giovani poeti simbolisti e sovversivi non si sottrassero alla parabola di molti dei loro coetanei: anche la loro fede socialista subì negli anni successivi come un’in-crinatura, che si manifestò spesso in un «ritorno alla patria» proprio all’interno della loro attività letteraria, cioè in un riemergere della po-esia civile, di impianto prevalentemente patriottico-risorgimentale, in cui le figure al tempo stesso «rivoluzionarie» e «nazionali» di Garibal-di e Mazzini sono molto presenti. Mentre gli anni Novanta erano stati percorsi da un vario anti-carduccianesimo politico e poetico, intorno al 1900 si assiste al ritorno di una tecnica poetica variamente carduc-ciana: si pensi alla nuova poesia civile (dopo le Odi navali del 1893) di uno che socialista non era mai stato, come Gabriele D’Annunzio13.

Più significativa, nel nostro contesto, è la parabola di Giovanni Pa-scoli, quasi un «maggior fratello» di quei giovani letterati. Piero Tre-ves si domandava spesso perché mai la sua vicenda non dovesse essere iscritta all’interno della storia del socialismo italiano, o per lo meno fosse considerata del tutto isolata nel suo ambito14. È ben nota la gio-vinezza sovversiva del poeta romagnolo studente a Bologna: manten-gono ancora un grande interesse, a tal proposito, i documenti raccolti

cfr. G. Lombardo Radice, Ricordando Giovanni Cena, in Id., Pedagogia di apostoli e di operai, Bari, Laterza 19522 (1936), pp. 179-201.

12 Nell’antologia di Dal simbolismo al déco, a c. di G. Viazzi, 2 voll., Torino, Einaudi 1981, sono riunite molte di queste esperienze poetiche, con meticolose ed esaurienti bibliografie.

13 P. Alatri, Gabriele D’Annunzio, Torino, UTET 1983, pp. 215-219. Negli anni che vanno dal 1900 al 1905 D’Annunzio compose una serie di odi per la morte di Giu-seppe Verdi, per i marinai italiani caduti in Cina, per celebrare la memoria di Narciso e Pilade Bronzetti (due fratelli caduti rispettivamente nella seconda guerra d’indipen-denza e nella spedizione dei Mille) e di Victor Hugo, oltre a quella dedicata a Roma. La notte di Caprera, uscita nel 1901 (Roma, Dante Alighieri), è il titolo dell’unica realmente composta delle sette parti di cui avrebbe dovuto articolarsi La canzone di Garibaldi: fatta, più che per essere letta sulla pagina scritta, «per essere ascoltata da una moltitudine libera», La notte di Caprera fu difatti recitata da D’Annunzio in varie città d’Italia fra il gennaio e il maggio del 1900. Essa confluì poi nel secondo libro delle Laudi, Elettra.

14 P. Treves, Pascoli colonialista «sinistrorso», in Id., Ottocento italiano fra il nuovo e l’antico, 3 voll., Modena, Mucchi 1992, III, Le tre corone?..., pp. 155-173.

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quasi mezzo secolo fa da Renato Zangheri15. Sappiamo come dopo l’ar-resto e le vicende giudiziarie il giovane insegnante abbandonasse ogni attività politica, ma dall’opinione pubblica fu avvertito ancora a lungo come un intellettuale ‘socialista’, a cui vennero offerte candidature, richieste dichiarazioni, articoli, etc. fino agli ultimi anni, alle toccanti epigrafi che dettò per Francisco Ferrer e Andrea Costa16.

L’autore di Myricae comincia a tentare la poesia civile dopo il 1896: sulla rivista fiorentina «Il Marzocco», il 21 febbraio 1897, comparve l’inno al re Giorgio I di Grecia, A Giorgio navarco ellenico; sulla «Tri-buna» del 6 giugno 1897 quello Ad Antonio Fratti17. È significativo che queste prime espressioni nascano di fronte alle vicende della guerra di Candia del 1897 e dello scontro di Domokòs in Tessaglia, in cui cadde Fratti. Questi eventi hanno un ruolo di rilievo nella questione che cerco qui di illuminare: si trattava – come annotava lo stesso po-eta – di «quella che, per ora, è l’ultima [delle campagne garibaldine]», in occasione della quale Ricciotti Garibaldi aveva organizzato alcune colonne di volontari composte in massima parte di giovani di fede socialista o repubblicana, insomma di militanti nelle file della sinistra (fra cui Pio Schinetti, Gaetano Zirardini, Manara Valgimigli), in buo-na parte di origine romagnola: «Ché se uno squillo si senta | passar su Romagna la forte, | tutti d’un cuore s’avventano | tumultuando alla morte». Fu l’ultima volta che ambienti cospicui del socialismo italiano guardarono con simpatia e partecipazione a una guerra a sfon-do nazionale e a quello che l’antica cultura democratica ottocentesca avvertiva ancora come uno scontro fra la civiltà europea e la barbarie turca. Grecità eroica, suggestione romagnola e ideologia garibaldina: questi sono, dunque, gli ingredienti dei primi inni pascoliani18.

15 R. Zangheri, Documenti del socialismo giovanile di Giovanni Pascoli, in Studi per il centenario della nascita di Giovanni Pascoli pubblicati nel cinquantenario della morte, Atti del convegno di studi (Bologna, 28-30 marzo 1958), 3 voll., Bologna, Commissione per i testi di lingua 1962, I, pp. 81-99.

16 L’iscrizione su Ferrer (ottobre 1909), che accompagnava un suo ritratto messo in vendita a Bologna dopo la sua fucilazione, e quella funeraria per Costa (1910) possono ora leggersi in M. Tropea, Epigrafi di Giovanni Pascoli, in «Siculorum Gymnasium», n.s., XXVI, 1973, pp. 41-96: 85 e 88.

17 Entrambe le composizioni entreranno nella seconda parte di Odi e inni del 1906 (Bologna, Zanichelli), che si aprono con una dedica alla gioventù italiana, significa-tivamente intitolata Alla Giovine Italia.

18 L. Braccesi, Grecità, Romagna e ideologia garibaldina, in Omaggio a Piero Treves, a

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Negli anni successivi, assistiamo a un infittirsi, nelle sue pagine, di richiami a Mazzini: in Sul limitare, l’antologia per le scuole uscita nel 1899, sono molte le pagine mazziniane19, tanto che un suo amico, lo scolopio Ermenegildo Pistelli, insegnante nelle Scuole Pie fiorenti-ne, non può adottare il libro nella sua scuola: «Le ho mai detto – gli scriveva il 22 luglio 1900 – che non potei usarla [l’antologia] nella mia classe perché ebbero paura del Mazzini?»20. Mazzini parla in pri-ma persona in due importanti discorsi del 1905: in quello pisano per il cinquantenario del sacerdozio del vescovo di Cremona, Geremia Bonomelli, noto per le sue posizioni patriottiche e per l’attenzione al problema dell’emigrazione italiana, «il buon vescovo confessore d’Italia», come lo chiama il poeta. Si tratta di un prete: è necessario, quindi, vincere le diffidenze degli «intransigenti e intolleranti che vi fossero, tra gli austeri ricusatori della fede e i fieri lottatori di classe e i memori difensori della patria». A tale scopo, invoca il magnetismo di Garibaldi («E vorrei avere la voce divina, quella che scopre le tombe e fa levare i morti, per portare, la testimonianza rediviva del gran morto di quel due giugno [...]»), o il carisma di Mazzini:

E sopraverrebbe colui che qui in Pisa parve uscire dal mistero per entrare nella morte, sopraverrebbe dalla sua immortalità, a dire: «Più di mezzo secolo

c. di A. Mastrocinque, Padova, Antenore 1983, pp. 19-27. Sulla guerra di Creta, cfr. L. Lotti, Le spedizioni garibaldine in Grecia, in Indipendenza e unità nazionale in Italia e in Grecia, Firenze, Olschki 1985, pp. 181-190, ma soprattutto U. Sereni, Il Prometeo apuano (a proposito di Alceste De Ambris), in A. De Ambris, Lettere dall’esilio, a c. di V. Cervetti e U. Sereni, Parma, Grafiche STEP 1989, pp. 9-114: 40-45, che coglie benis-simo il significato generazionale che ebbe quell’esperienza di mobilitazione garibaldi-na e libertaria, condensata nel nome di Antonio Fratti. Restano di grande interesse anche gli scritti di L. Bissolati, La politica estera dell’Italia dal 1897 al 1920. Scritti e discorsi, [a c. di G. Salvemini], Milano, Treves 1923, pp. 3-24, con le annotazioni del curatore (p. 2).

19 G. Pascoli, Sul limitare. Poesie e prose scelte per la scuola italiana, Milano-Palermo-Napoli, Sandron 19063 (1900): Per fare la terza Italia, p. 180 (sul tema dell’educazione nazionale); Viva l’Italia!, p. 181; Ai giovani!, pp. 199-200 (dai Ricordi dei fratelli Bandie-ra); La prima ispirazione di Mazzini, pp. 446-447; Jacopo Ruffini, pp. 447-449 (dalle Note autobiografiche). A parte Manzoni e Leopardi e, ove non si consideri l’ultima parte del volume dedicata a Carducci maestro, Mazzini era l’autore ottocentesco più presente.

20 Cit. in P. Treves, Pascoli contro corrente, in Id., Tradizione classica e rinnovamento della storiografia, Milano-Napoli, Ricciardi 1992, pp. 63-118: 80.

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fa, nel mio esilio di Londra, io denunziai la tratta dei bianchi, e biasimai il clero che potrebbe, volendo, impedirla». E tutti e due, quel volto di leone calmo, in cui è dipinta l’azione, e quell’altro volto che sembra fatto di solo pensiero, s’inchinerebbero avanti il prete che volle redimere e redense21.

E in quello pronunciato a Barga in occasione dell’inaugurazione del monumento ad Antonio Mordini, il patriota che era stato prodittatore in Sicilia nel 1860. La visione del processo risorgimentale che Pascoli vi sviluppa è assolutamente ‘conciliatorista’ e ‘nazionale’. Mazzini è stato l’iniziatore: dopo i moti del 1820-1821,

il tricolore cadeva, calpestato dall’Austria; e dieci anni dopo Modena lo riprendeva e lo rinnalzava, proclamando: L’Italia è una sola, la nazione italiana una sola. Lacerato anche questa volta dalla medesima aquila bicipite, mentre tutto era fuga, esilio, prigionia e forca, tacitamente distribuiva i tre colori ad alcuni giovani Giuseppe Mazzini, nel Trentatre; e diceva: «Diventate molti, diventate tutti, e siate la giovine Italia! Aprite il vostro cuore gli uni agli altri! A chi vi chiede: Che ora è? rispondete: L’ora della lotta! Non chiedete la co-stituzione, di Francia o di Spagna, ai principi; non fornite ad essi gli elementi vitali per sussistere! Noi vogliamo l’unità, e perciò non vogliamo i principi, e perciò faremo la repubblica!». E Mazzini cominciò col muover guerra a quello dei principi che era parso, prima di salire al trono, più propenso alla costitu-zione: a Carlo Alberto. Né più depose le armi; e l’Austria e i suoi principi vassalli furono inretiti e sconvolti da questa invisibile guerra di ogni giorno, d’ogni ora... Che ora è? L’ora della lotta...

Ma le vicende del biennio rivoluzionario costituiscono uno spar-tiacque decisivo: è emersa una dinastia che sembra volersi assumere il compito della riscossa nazionale:

Ma il quarantotto aveva dimostrato che per ottenere l’unità e indipendenza dell’Italia, c’era, forse, un altro mezzo, oltre quello, chiarissimo, di Mazzini, che consisteva nel detronizzare tutti i re: c’era quello di avere un re solo. E il re esisteva: era avvolto nel tricolore, sotto cui il suo padre era stato vinto: gli risplendeva sul capo la stella che aveva irraggiata la tomba di Carlo Alberto. E aveva accanto il genio di Cavour, e aveva un alleato, oltre l’Alpi. E quando venne l’ora, ed egli ascoltò le grida di dolore che salivano d’ogni parte d’Italia,

21 G. Pascoli, La Messa d’oro, in Id., Prose, 2 voll. in 3 tt., Milano, Mondadori 1946-1952, I, Pensieri di varia umanità, 19563 (1946), pp. 264-282 e 267-268.

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e si fece primo soldato dell’indipendenza, tutti furono con lui, e il popolo gli disse: «Tutti! Eccoti Garibaldi». E il popolo, ossia tutte le coscienze risveglia-te da Mazzini, ossia tutte le volontà infiammate da Garibaldi, ora lo seguì, nei campi di battaglia di Lombardia e del Veneto; ora lo invitò a venire, con le rivo-luzioni, nei ducati, in Toscana, Bologna e Romagna e Marche; ora lo precedé, nelle due Sicilie, ora lo punse e eccitò, come ad Aspromonte e Mentana, ora lo spinse, spinse i suoi ministri riluttanti se non lui, come nel settanta, a Roma!

Mordini, già mazziniano e garibaldino, poi deputato della Sinistra co-stituzionale, alla fine degli anni Sessanta si accosta alla Destra storica.

Ha egli bisogno d’essere difeso perché mazziniano in gioventù, fu poi...? E che altro fu poi, sino alla morte, se non mazziniano? Udite! Il 20 settembre del settanta, quando i cannoni regi aprivano la breccia a Porta Pia, e i bersaglieri entravano di corsa in Roma, in quel giorno che l’Italia diveniva veramente una, forse un uomo solo, in tutta Italia, non seppe, la sera di quel giorno, il più grande avvenimento del secolo. Gli altri, sì, tutti, credo; perché in tutta Italia il telegrafo annunziò che ciò che tutti con indicibile ansia aspettavano di giorno in giorno, d’ora in ora, era compiuto. E s’invasero i campanili, e tutte le campane sonarono a gloria. Era la Risurrezione della Patria. Anche i prigionieri seppero il fatto, perché la romba festosa percosse le grigie mura della solitudine e del rammarico. Anche i prigionieri, fuori d’uno, d’uno solo. Egli era nella cella d’un fortilizio sul mare. Egli non udiva che il rumore del ri-succhio eterno. Nessuno parlava al gran reo (perché era un gran reo davvero!) di tali cose del mondo, come non lo riguardassero punto o... lo riguardassero troppo. I cannoni vegliavano alle feritoie. Cinque corazzate erano ai piedi, ancorate, di guardia. Roma era nostra, e l’unico che non lo sapesse, era... Giuseppe Mazzini! Ma era esso, il mesto affranto prigioniero, che entrava in Roma! Era la sua idea, era la sua volontà, era la sua passione ispirata a tutto un popolo, che saliva il Campidoglio! Era la sua anima soffiata in un re, che proclamava: A Roma siamo, a Roma resteremo! Mazzini era prigioniero, ma aveva vinto. Il suo non era più un partito: egli era l’Italia. Oh! certo il prigio-niero era profondamente triste; e quando fu liberato, e seppe, la sua tristezza crebbe. Egli diceva: la mia Roma profanata!... l’ideale della vita sfumato... la-sciate che passi questa nerissima nube... E non sorrise più, e morì desolato, poco più d’un anno dopo. Sì; ma la nerissima nube adombrava e adombra anche altre fronti; anche la tua, adombrava, o Antonio Mordini! E sì e sì: anche la tua, e per la medesima causa che quella del maestro, a cui fosti fedele.

Con un parallelo ardito, Pascoli accostava la deprecatio temporum dell’ultimo Mazzini con quella dei reduci della Destra storica di fronte

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all’Italia successiva alla caduta del loro partito. Analoga era l’insoddi-sfazione per il tono complessivo della vita pubblica italiana:

Quello che dell’Ideale non si vedeva e non si vede realizzato in Italia, non è la libertà politica, che salvo gli stati d’assedio, maledetti già dal Mordini, si gode con questa leale monarchia, quanto in qualunque repubblica; non è una forma speciale di governo da conquistarsi col diritto di maggioranza o con l’audacia di minoranza: per così poco i più infastidire i meno, o i meno opprimere i più? No: quell’Ideale non riguarda i più e i meno; ma è in potere di noi singoli: ognun di noi può, anzi deve, proclamare la repubblica santa nella propria anima. Perché la repubblica di Mazzini vuol dire essere per sé, e sentirsi parte d’un tutto, avere diritti imprescrittibili e doveri indeclinabili, difendere forte-mente gli uni e tranquillamente adempiere gli altri. Si fa questo in Italia? Né in Italia, forse, né altrove, se non forse in un popolo, molto lontano, diverso da noi di riti, di costumi e di abiti e persino di colore. Là è repubblica... seb-bene ci sia un Mikado, che è nel tempo stesso un pontefice e un imperatore22.

Assolutamente improbabile può sembrare il riferimento finale al Giappone, ma in quel settembre del 1905 era ancora viva l’eco della vittoria di Tsushima, che aveva provocato la rivoluzione russa, di cui Pascoli era assai attento e partecipe osservatore. Il poeta non prova sgomento per quella clamorosa sconfitta inferta a un popolo europeo da parte di una potenza asiatica; è, anzi, fra coloro che mostrano di intenderla come una lezione di ‘energia’ da parte di un popolo povero, ma fortemente disciplinato e fiero23.

Pascoli sembra, quindi, aver compiuto fino in fondo il passaggio dal-la ‘classe’ alla ‘nazione’, o meglio tenta strenuamente di conciliare la prospettiva nazionale con quella internazionalistica. Ci sono grandi imperi, che perseguono una politica di oppressione interna (contro i popoli che li compongono) e di aggressione internazionale; esistono problemi di ‘globalizzazione’ (la parola ovviamente non esisteva), di diffusione di modelli, linguaggi, stili di vita che rischiano di annul-lare la specificità delle singole lingue e culture nazionali. In questa prospettiva la difesa dell’autonomia (politica e culturale) dei singoli

22 G. Pascoli, Antonio Mordini in patria, in Id., Prose cit., I, pp. 283-296, 288-289 e 291-294.

23 Sulle suggestioni che il sorgere della potenza nipponica esercitò sull’opinione pubblica italiana, cfr. le classiche pagine di G. Volpe, Italia moderna, 3 voll., Firenze, Sansoni 19732, II, 1898-1910, pp. 347-349, che sottolinea come «la lezione del Giap-pone fece riflettere anche socialisti, non escluso qualche rivoluzionario».

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popoli va nella stessa direzione della battaglia per la pace: lo dichiara nel discorso del 1900 agli studenti di Messina, pronunziato fra i due (decisivi) turni elettorali del 3 e del 10 giugno e mentre gli echi della guerra anglo-boera turbavano l’opinione pubblica europea:

In questi giorni due Stati europei in Africa [la repubblica del Transvaal e lo Stato libero d’Orange] danno gli ultimi tratti, e sono per spirare dopo una lunga guerra. Chi li uccide? Chi usa sino all’ultime conseguenze il diritto del vincitore? Il popolo sino ad ora vindice di tutte le libertà, assertore di tutti i diritti. Pure, si dirà, al vinto rimarrà la sua autonomia amministrativa, rimarranno le sue tradizioni nazionali, rimarrà quel vero fuoco di Vesta, che è la lingua. Il popolo inglese, si dirà, non conquista all’usanza d’un altro, non dirò popolo, ma impero, che ai popoli che, non dirò vince, ma soggioga e opprime e calpesta, confisca e la lingua e la religione e il nome [riferimento, forse, all’impero ottomano]. Giova sperarlo. Ma un fatto che sembra piccolo e che s’avvera vicino a noi e a spese nostre, limita la mia e la vostra speranza. Eccolo. Nell’isola di Malta tra quindici anni (e magari si promette di proro-gare questa data) la lingua ufficiale sarà quella del popolo (ma è bell’ora di dire impero anche qui), quella dell’impero che occupa l’isola. M’ingannerò; ma s’è aperta nel mondo una lotta, oltre le tante altre che già ci sono, una lotta presso cui le già antiche degli imperi orientali, e poi di Roma latina e poi di Roma, per così dire, germanica, sono un nulla. Si stanno edificando delle Ninivi e Babilonie e delle Cartagini e Rome, mostruose, enormi, infinite. Esse conquisteranno, assoggetteranno, cancelleranno, annulleranno, intorno a sé, tutto, e poi si getteranno le une contro le altre con la gravitazione di meteore fuorviate. Che sarà di noi? [...] E lascio qui di trattenermi in questo campo estraneo ai miei studii, se non alle mie angoscie, per dire e dire alto, che logicamente quelli che repugnano a che la ricchezza sia di pochi, devono repugnare a che i popoli più piccoli e più deboli siano preda dei più grandi e dei più forti; e perciò, come nella lotta economica, sostengono gli operai con-tro i padroni, e i meno ricchi de’ padroni contro i più ricchi, così nella lotta politica devono sostenere le nazioni contro gl’imperi, e le idealità e tradizioni singole e particolari contro le assorbenti ambizioni che già si mostrano come le prime nuvole di un uragano, che livella, perché distrugge. In due paro-le semplici, e facilmente intelligibili a tutti, io, per non concludere con un enigma, dico che io auguro come uomo all’umanità, e come italiano e come tale che, secondo il suo dovere di insegnante, ha compito la catarsi d’ogni passione politica, all’Italia, l’avvento del «socialismo patriottico»24.

24 G. Pascoli, Una sagra, in Id., Prose cit., I, pp. 165-182: 168-170.

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Lo ribadiva nella commemorazione di Garibaldi, letta ancora a Mes-sina, il 2 giugno dell’anno successivo:

Io credo, o giovani, io voglio credere che il grande grido «Operai di tutto il mondo, unitevi» sia per distruggere i calcoli degli imperii che già si formano e già minacciano e già cominciano l’opera loro. Io credo che quest’interna-zionalismo (e pare sulle prime assurdo) sia per proteggere le nazioni e conser-varle. Ché noi non possiamo, né altri può aspirare all’ineffabile felicità della pacificazione e unione universale a quel patto che la religione ci assegna per l’acquisto della beatitudine eterna: la morte! Noi non vogliamo morire! Un popolo non può desiderare di morire! E d’altra parte è contro ciò che la scienza ha di più sicuro, affermare che l’unità umana sia per ottenersi con la fusione, dirò così, nel gas primigenio e omogeneo, sì che non ci sia più che una lingua e un popolo. Le varietà si moltiplicano via via e non cesseranno mai di mol-tiplicare. Ci sono stati e ci sono e ci saranno, oh! se ci saranno, dei tentativi mostruosi, degli sforzi immani, per arrestare e cambiare la natura. Si faranno, e pur troppo già si fanno, dai mostruosi imperii tali sforzi per annullare in sé i singoli popoli. Ma non c’è forza che prevalga contro la natura! E noi vediamo già quale sarà la forza che si opporrà alla forza. Quando il più grande degli im-perii, che si vanno formando, o un immenso trust di essi, si apparecchierà con la violenza dell’armi ad assoggettare e struggere e fondere... le armi cadranno a terra; e i preparati a uccidere e morire, si stringeranno le destre. E i gran-di imperii sfumeranno come nebbia, lasciando sereno in un attimo il cielo dell’umanità. [...] Or dunque poiché il nazionalismo conserva il carattere e l’essenza dei singoli popoli, e l’internazionalismo è per impedire le guerre che cancellerebbero quel carattere e distruggerebbero quell’essenza dei singoli po-poli; ebbene, bisogna voler essere nazionalisti e internazionalisti nel tempo stesso, o, come dissi già con frase molto combattuta, socialisti e patrioti!25.

Pascoli non accetta una visione materialistica della vita e della sto-ria e rifiuta il darwinismo sociale, che permea larga parte dell’opinione pubblica a lui contemporanea, il messaggio, cioè, che proviene conti-nuamente dagli «uomini di scienza», secondo il quale «non è l’amore, se non esclusivamente di sé, quello che governa come il genere umano così ogni altro genere animale. Con quest’amore di sé, l’uomo anch’es-so, come tutti gli altri generi, combatte la sua battaglia di vita...»26. Nonostante tutto crede a un progresso morale, che si manifesta anche

25 Id., L’Eroe italico, ibid., pp. 183-210: 203-205.26 Id., La Messa d’oro cit., p. 274.

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in aspetti apparentemente secondari, come il superamento della pena di morte:

Lentissimamente, al nostro parere e credere, il Sole, con tutto il suo corteo di pianeti, tra cui la trista Terra insanguinata, cammina cammina verso una nuova plaga dei cieli; lentissimamente il genere degli uomini procede verso l’umanità. Intanto dopo le forche e le ruote e i roghi dell’Evo medio, dopo l’enorme abuso, o uso che è lo stesso, di morte per guerre e supplizi, che fu fat-to anche dopo, anche in quella rivoluzione che proclamò i diritti dell’uomo, anche e specialmente (o antica stolidezza bestiale!) in essa, anche e special-mente dopo, anche ai nostri giorni, e per opera del popolo che si diceva sino a due o tre anni fa il più civile dei popoli [l’inglese di fronte alla guerra boera]; ebbene dopo tutto quello strazio di vite d’uomini, noi riconosciamo che in tanto il genere degli uomini si è spostato di qualche grado verso la sua integra-zione. L’ultima forma della croce, la forca, va scomparendo: in Italia (o eterni bestemmiatori dell’umile Italia, ricordatelo!) non c’è più: altrove s’appiatta. E a me giova insistere su questo punto, a preferenza d’altri che pur mostrano il progresso dell’umanità: perché l’umanità più difficilmente crede doversi af-fermare in faccia a quella che è bestialità, ossia il delitto! Perché, dobbiamo noi, si dice, rispettare le bestie feroci? Quel tale, che ha appena qualche segno d’uomo e ne ha tanti di fiera, lo sguardo, il pelame, gli zigomi, la fronte, il cra-nio, o che so io, è fuori dell’umanità. Ebbene se noi troviamo che l’umanità s’esercita anche verso codesti, noi dobbiamo credere, o sperare, che sia già ben grande, e che abbracci tutti gli uomini, se già s’estende anche alle bestie27.

5. Questo tratto umanitario, questa accettazione di un paradigma ancora sostanzialmente progressista, mentre lo differenziano dai trat-ti fondamentali del nascente nazionalismo, lo risospingono verso la figura di Mazzini: il 13 agosto 1905, nel centenario della sua nascita, pubblicava sul «Marzocco», un ampio Inno secolare a Mazzini, in cui – come spiegava lo stesso poeta all’amico Giuseppe Saverio Gargano – aveva voluto annullare il tempo intorno al rivoluzionario italiano: «egli, Mazzini, è il premevo, il contemporaneo di Roma repubblicana, di Dante, di Cristo, ed è colui che ha ancora a venire»28. L’anno suc-cessivo dettava un’epigrafe mazziniana per il municipio di San Mauro,

27 Id., L’Avvento, in Id., Prose cit., I, pp. 211-234: 214-215. Questo discorso venne pronunziato a Messina nel dicembre 1901.

28 P. Pancrazi, Pascoliana. Lettere a G.S. Gargano, in Id., Ragguagli di Parnaso. Dal Carducci agli scrittori d’oggi, a cura di C. Galimberti, 3 voll., Milano-Napoli, Ricciardi

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il suo paese natale, in cui ricordava il Mazzini emancipatore del lavoro e profeta di un «patto dell’umanità | segnato | da popoli liberi eguali consci di vita propria». Pascoli segnalava una lontananza e l’inter-ruzione di una tradizione (la bandiera mazziniana, dopo la caduta di Roma e Venezia, è sparita: gloriosamente, ma è sparita), ma al tempo stesso una presenza e un’attualità: la sua voce passa ancora «dall’alpi al mare sopra la terza Italia | ch’Egli seppe unire e vuol rigenerata». Seguiva un’esortazione al popolo italiano affinché ascendesse fino al suo «profeta»: «e il mondo amerà il più grande dei popoli | il più ci-vile il più umano»29.

È nel 1907, anno della morte di Carducci e centenario della nascita di Garibaldi, che Pascoli si sente ormai chiamato a un compito di ‘vate nazionale’. Nella commemorazione carducciana che tiene a Pie-trasanta nell’aprile, accenna ai molti lavori promessi o iniziati dal po-eta scomparso, che sono rimasti interrotti: «Dove la Vita di Garibaldi? Dove questo che sarebbe stato il libro dei libri, la Bibbia della terza Ita-lia, il libro sul quale le madri italiane avrebbero insegnato a leggere ai loro figli? [...] E chi canterà più il Carme secolare del popolo latino?»30. In modo significativo, Pascoli accennava ai «lavoratori d’Italia» come ai destinatari della pedagogia nazionale di Carducci. E sempre rivolto a loro, il 16 febbraio 1908, a Bologna, affermava:

E in alto in alto, o plebi della città e delle campane, o macchine, o buoi da lavoro, in alto! Redimetevi; ma non dimenticate la patria, per cui scarsa

1967, I, pp. 171-190: 174. La lettera non è datata, ma è immediatamente successiva alla pubblicazione dell’inno, quindi del 1905.

29 «In questa sede d’un agreste comune | di lavoratori | a ricordo ed ammonimento a rimprovero ed augurio | resti perennemente il nome | di chi volle emancipare il lavoro | di chi predisse il patto dell’umanità | segnato | da popoli liberi eguali con-sci di vita propria | Giuseppe Mazzini | la cui bandiera sparì gloriosamente | nella caduta eroica | delle due più gloriose città dell’evo antico e medio | Roma e Venezia | la cui voce passa ancora | dall’alpi al mare sopra la terza Italia | ch’Egli seppe unire e vuol rigenerata. | Levati in alto onda salsa del mare | e ricadrai dolce pioggia fecondatrice | ascendi o popolo, sino al tuo profeta | e il mondo amerà il più grande dei popoli | il più civile il più umano» (Tropea, Epigrafi di Giovanni Pascoli cit., p. 80, che pubblica anche uno stralcio della lettera del 21 settembre 1906, con cui il poeta inviava l’epigrafe al sindaco di S. Mauro).

30 G. Pascoli, Commemorazione di Giosuè Carducci in Pietrasanta, in Id., Prose cit., I, pp. 416-442: 439-441.

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opera prestaste nel risorgimento. In lei e per lei inalzatevi! Esigete dagli altri il vostro, ma rendete a lei il suo. Non crediate a chi delira che l’uomo sia an-zitutto dell’umanità. L’uomo è prima della patria. Egli nasce piccolo bruto, e la patria gli stilla nelle labbra e nell’anima il dolce latte dell’umanità. Non si entra nel consorzio umano che condotti a mano dalla patria, con, anzi, sulla fronte la sua mano benedicente. Non siatele ingrati31.

Fu seguendo questa ispirazione, che Pascoli pose mano ai Poemi del Risorgimento: «A cosa negli italiani il sacro fuoco del 48, 49, 59, 60, 66, 67, 70... Comincia ora la mia vita di poeta e di scrittore e di

31 Id., Il poeta del secondo Risorgimento, ibid., pp. 458-478: 477-478. Si noti il cenno alla scarsa partecipazione popolare alle lotte risorgimentali (le plebi delle città e delle campagne avrebbero prestato «scarsa opera [...] nel risorgimento»), che fu poi ripreso e ampliato nel discorso barghigiano del 26 novembre 1911 La grande Proletaria si è mossa...: «Eccoli là, e sono pur sempre quelli e attendono al medesimo lavoro, i lavoratori che il mondo prendeva e prende a opra. Eccoli con la vanga in mano, eccoli a picchiar col piccone e con la scure, i terrazzieri e braccianti per tutto cercati e per tutto spregiati. [...] Fanno una trincea di guerra, sgombrano lo spazio alle artiglierie. Stanno lì sotto i rovesci d’acqua, sotto le piogge di fuoco; e cantano. La gaia canzone d’amore e di ventura è spesso l’inno funebre che cantano a se stessi, gli eroi ventenni. Che dico eroi? Proletari, lavo ratori, conta-dini. Il popolo che l’Italia risorgente non trovò sempre pronto al suo appello, al suo invito, al suo comando, è là. O cinquant’anni del miracolo! I contadini che spesso furono riluttanti e ripugnanti, i contadini che anche lontani dal Lom-bardo-Veneto chiamavano loro imperatore l’imperatore d’Austria, e ciò quando l’imperio di Roma era nelle mani del Dittatore ultimo, i contadini che Gari-baldi non trovò mai nelle sue file..., vedeteli! [...] Quale e quanta trasformazione! Giova ripeterlo: cinquant’anni fa l’Italia non aveva scuole, non aveva vie, non aveva industrie, non aveva commerci, non aveva coscienza di sé, non aveva ricordo del passato, non ave va, non dico speranza, ma desiderio dell’avvenire. [...] Ebbene, in cinquant’anni l’Italia aveva rifoggiato sal damente, duramente, immortalmente, il suo destino» (Id., Prose cit., I, pp. 557-569: 561-562). Il passo suscitò la reazione ne-gativa di Michele Rosi, uno dei primi che cercarono di dare dignità storiografica alla «risorgimentistica» italiana, che ne scrisse allo stesso Pascoli e addirittura al ministro Credaro, quando si parlò di dare diffusione nelle scuole al discorso di Barga: cfr. G. Arrighi, Michele Rosi (1864-1934) maestro di Storia del Risorgimento. (Appunti inediti ad un passo della «Grande Proletaria» di Pascoli), in «Lucca-Rassegna del Comune», III, 3-4, giugno-settembre 1959, pp. 41-45.

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educatore»32. Così scriveva all’amico Pietro Guidi il 16 ottobre 1909. Com’è noto, la vita che gli rimase gli consentì di scrivere ben poco dell’ampio e articolato progetto, che si era proposto; ed è altrettanto noto che al centro di quanto rimane, campeggia la figura di Garibal-di. Ma fra i pochi componimenti che il poeta riuscì a comporre, due riguardano Mazzini: uno descrive il suo primo incontro con Garibaldi, l’altro la celebre «tempesta del dubbio» del 1837.

6. Bisogna, tuttavia, evitare che il «socialismo patriottico» di Pasco-li, proprio per l’indubbia articolazione del suo discorso e per la com-plessa elaborazione che gli è sottesa, in qualche modo finisca per oscu-rare altre esperienze, minori o minime, che invece mostrano come la sua parabola non sia isolata, ma rispecchi in qualche modo, sia pure a un livello ‘alto’, tendenze e temi più generali.

Il 15 agosto 1908, sulla rivista «Pagine libere», che si stampava a Lu-gano sotto la direzione di Angelo Oliviero Olivetti e di Arturo Labrio-la, una delle pubblicazioni di frontiera del sindacalismo rivoluzionario appena uscito dal Partito socialista, il poeta apuano Ceccardo Rocca-tagliata Ceccardi pubblicava l’ode Quando tornerà Garibaldi? composta l’anno precedente, in cui (con un procedimento retorico allora molto consueto) la realtà grigia e prosaica dell’Italia giolittiana era messa a confronto con l’età eroica del Risorgimento: l’avrebbe riproposta sul «Popolo d’Italia» l’11 aprile 1915, nel pieno della battaglia per l’in-tervento. Nell’agosto del 1909, sulle pagine di un’altra rivista di sin-dacalisti rivoluzionari in crisi, «Il Viandante» di Monicelli, Ceccardo riproponeva invece la figura di Mazzini in Dal carme della «Giovane Ita-lia», prima edizione di un componimento che poi avrebbe riproposto nella «tragica primavera di speranza e d’ira» del 1915 in una «ristampa per il popolo» pubblicata dalla Società anonima cooperativa «L’Editri-ce» di Parma, espressione della locale camera del lavoro diretta allora da Alceste De Ambris. Nel corso della prima visita che D’Annunzio fece a Mussolini dopo la marcia su Roma, rievocarono insieme – lo avrebbe ricordato il «duce» a Yvon de Begnac – «i meravigliosi giorni dell’intervento»:

32 Cit. in U. Sereni, Attendendo il ritorno di Garibaldi, in Nomellini e Pascoli. Un pit-tore e un poeta nel mito di Garibaldi, Catalogo della mostra (Barga, palazzo Comunale, 5 luglio-17 agosto 1986), Firenze, Multigraphic 1986, pp. 22-31, a cui si rimanda per la genesi dei Poemi del Risorgimento.

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Allora egli [D’Annunzio] mi parlò di due poeti sconosciuti alla massa, ma noti come pochi altri a lui e a me: Giovanni Borelli e Ceccardo Roccata-gliata Ceccardi. [...] Di Ceccardo aveva udito, dalla viva voce dell’autore, a Genova, alla vigilia del discorso di Quarto, i versi all’Italia che, allora egli disse essere degni di suonar nell’animo di ogni patriota. «Perché tanti poeti restano sconosciuti, e di tanti altri, non degni di memoria alcuna, la piazza ampiamente conosce il nome?». Ed io, allora, gli nominai Ildebrando Cocco-ni, Viani, Pea. Ma, anche di costoro, egli conosceva le opere33.

Ceccardo era morto nell’agosto del 1919, si era iscritto al partito repubblicano nell’estate del 1916, ma durante gli anni Novanta era stato socialista e, in poesia, simbolista: aveva partecipato intensamente alla vita letteraria genovese dell’ultimo decennio del secolo, al «sim-bolismo genovese del 1896», come lo avrebbe chiamato Gian Pietro Lucini. Negli stessi anni il suo nome appare spesso sull’«Era nuova», il settimanale del socialismo ligure fondato da Giuseppe Canepa, dove aveva pubblicato il celebre reportage Dai paesi dell’anarchia, sui moti popolari scoppiati in Lunigiana nel gennaio 1894, che per tre giorni avevano isolata la zona dal resto del paese, e a cui Crispi, capo del go-verno, rispose, com’è noto, con lo stato d’assedio, gli arresti a centinaia, i processi militari e gravissime condanne. Ceccardo aveva dichiarato di avere un atteggiamento di simpatia verso il socialismo, rispondendo all’Inchiesta sul socialismo promossa nel maggio del 1894 dalla rivista milanese «Vita moderna», anche se non aveva nascosto i suoi timori per i pericoli di livellamento che ne potevano derivare, per cui «sul principio» ne sarebbe forse nata una razza intellettualmente inferiore: ma si dichiarava anche sicuro che «di qui poscia l’umanità ripresa la sua corsa verso l’alto, avrebbe toccato una meta molto luminosa e finora mai raggiunta». Già intorno al 1896 il suo impegno politico si venne rarefacendo mentre riprendeva il sopravvento quello letterario: negli anni successivi intrecciò un rapporto simpatetico con la rivista fioren-tina «Il Marzocco» e nella sua poesia vennero progressivamente emer-gendo echi carducciani e dannunziani. È intorno al 1905 che Ceccardo divenne prevalentemente un poeta civile, vicino agli ambienti sov-versivi di repubblicani e sindacalisti, fra cui portò i miti di un Risorgi-mento eroico e sconfitto, che si trattava di riprendere e far trionfare34.

33 Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, a c. di F. Perfetti, Bologna, Il Mulino 1990, p. 579.

34 Per la sua parabola, rinvio a R. Pertici, Per la storia del «vario nazionalismo ita-

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L’approssimarsi del centenario mazziniano segnò l’incontro con Maz-zini anche di altri poeti socialisti, come Diego Garoglio, piemontese, ma quasi sempre vissuto a Firenze, dove fu fra i fondatori del «Marzoc-co»: consigliere comunale socialista dal 1904 al 1914, candidato nelle elezioni politiche del 1904, del 1909 e del 1913, avrebbe abbandonato il partito nel 1915, assumendo posizioni interventiste e dandosi poi a un’instancabile propaganda patriottica. Nel 1919 lo troviamo in un gruppo fiorentino di «socialisti nazionalisti» e nel ’24 avrebbe accet-tato la tessera fascista. Ma già nella sua ode mazziniana del giugno 1904 (Mazzini), egli aveva dato del processo risorgimentale un’inter-pretazione completamente ‘nazionale’, priva di tensioni interne, dove Mazzini guardava «senz’ira il grande di Santena | a parlamento col re savoiardo, | e sorpresa dal biondo eroe nizzardo, | la triste anima tua si rasserena»35. O come il genovese Mario Malfettani, di cui era pubblicata a Genova nel 1906 una raccolta delle poesie ‘sociali’ (Fiori vermigli, a cura di A. Salucci), pubblicate perlopiù sull’«Era nuova» di Canepa: l’ultima parte era interamente dedicata a Mazzini (Nel cente-nario di Giuseppe Mazzini. Giugno 1905), ulteriore testimonianza della presenza mazziniana del movimento socialista genovese. Malfettani, anch’egli giovane poeta simbolista negli anni Novanta, sarebbe morto nel 191136.

7. Ma è tempo di spostarci su d’un piano più propriamente politi-co. Per tracciare una geografia e una storia del «ritorno alla patria» di sovversivi e ‘refrattari’ e del loro incontro con Mazzini, possiamo concentrare la nostra attenzione su due città, a loro modo esemplari di correnti socialiste assai distanti fra loro, come Parma e Genova. La pri-ma, dopo il 1908, è il centro del sindacalismo rivoluzionario, la secon-da esprime un socialismo fortemente riformistico e venato di influssi mazziniani: basti pensare alla figura, già ricordata, di Giuseppe Canepa e del suo quotidiano «Il Lavoro», fondato nel giugno del 1903. Pos-

liano»: l’itinerario politico di un poeta repubblicano, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, in «Rivista storica italiana», XCVII, 1985, pp. 810-871.

35 Mazzini nella poesia, a c. di T. Grandi, Pisa, Domus Mazziniana 1959, pp. 173-174. Un buon profilo bio-bibliografico è quello di D. Proietti, s.v. Garoglio, Diego, in Di-zionario biografico degli italiani cit., LII, 1999, pp. 370-372, ma qualche ulteriore notizia si trova in Pertici, Per la storia del «vario nazionalismo italiano» cit., p. 817, nota 26.

36 Dal simbolismo al déco cit., p. 592; Pertici, Per la storia del «vario nazionalismo italiano» cit., p. 817, nota 26.

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siamo iniziare da Parma, la Parma tra il 1896, l’anno dell’insurrezione dell’Oltretorrente per la guerra d’Africa, e il sanguinoso maggio del 1898. Qui si incontrano alcuni giovani provenienti da diverse zone d’Italia: Carlo Cantimori, che frequenta il liceo Romagnosi, è nato nel 1878 e proviene dalla Romagna, Luigi Campolonghi e Alceste De Ambris, rispettivamente del 1876 e del 1874, provengono dalla vicina Lunigiana e sono studenti universitari. I due apuani sono fautori di un socialismo romantico e idealista, che si presentava «non col volto accigliato di Carlo Marx, ma come un grande mito elementare, come la risposta alla loro fede d’azione e di eresia nell’Italia dei Crispi e dei Rudinì»37:

Ve nivano – scriveva Campolonghi – i giovani di quella bohème giù dai pros-simi monti Appennini (dalla terra di Apua direbbe il nostro Ceccardo), da quella provincia di Massa Carrara […], ed erano figli di negozianti quasi ro-vinati, di proprietari che passavan la loro vita alienando tutti i giorni un palmo di terra, o un pioppo o due castagni, di medici condotti che sognavano d’avere a successore il figlio, di segretari comunali che tiravan la vita co’ denti pur di vedere laureata la propria discendenza legittima e diretta [...]. Inuti-le dire che eravamo tutti contro gli ordini costituiti. Anzi per essere dei nostri bisognava fare una specie di dichiarazione di principi rivoluzionari chiara ed esplicita. Ma nei primi anni, dal ’93 al ’95 la nostra azione politica si limi-tò a quelle dichiarazioni ed a discussioni spesso accese, ma sempre in fami glia. Scrivevamo, invece, quasi tutti per i giornali letterari, chi in versi e chi in prosa, lodandoci e pagandoci da bere vicendevolmente o vicen devolmente biasi-mandoci o prendendoci a cazzotti. La letteratura fu per un pezzo il nostro amore più grande38.

Del padre Carlo Cantimori, il figlio Delio, in uno dei suoi ultimi in-terventi in pubblico, avrebbe così ricostruito questi anni di noviziato politico:

Mi consta per esempio che un altro giovane della pianura romagnola aveva cominciato come Serra, alcuni anni prima di lui, ma come lui, coi socialisti,

37 L. Gestri, Capitalismo e classe operaia in provincia di Massa-Carrara. Dall’Unità d’Italia all’età giolittiana, Firenze, Olschki 1976, p. 184, ma cfr. anche pp. 176-185.

38 L. Campolonghi, L’agitazione agraria nel Parmense. Il capitano degli scioperanti, in «Il Lavoro» (Genova), 10 maggio 1908, cit. in Sereni, Il Prometeo apuano cit., pp. 19-20.

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con gli anarchici di Pellegrino Farini ecc., insomma con tutto quel movimen-to incomposto che c’era intorno. E s’era messo a leggere molto Cattaneo per influsso del tutto occasionale di un oratore milanese, che venuto da queste parti [in Romagna], nel suo collegio elettorale, aveva citato Cattaneo e ave-va destato nel giovane un improvviso interesse per quel nome. [...] In ogni modo costui, quello che dico io, cominciò coi socialisti, con gli anarchici, coi socialisti di Parma39.

39 D. Cantimori, Appunti sulla cultura politica in Romagna fra i due secoli (4 dicem-bre 1965), in Scritti in onore di Renato Serra per il cinquantenario della morte, Firenze, Le Monnier 1974, pp. 312-313. Quell’«oratore milanese, che venuto da queste parti [in Romagna], nel suo collegio elettorale, aveva citato Cattaneo» potrebbe essere o Gustavo Chiesi (non milanese, ma attivo a Milano), che nel 1899 fu eletto deputato nel collegio di Forlì o Luigi De Andreis, eletto nel 1897 in quello di Ravenna I. Del socialismo giovanile di Renato Serra offre testimonianza lo scritto del 1900 Chi sono i sovversivi?, ora in R. Serra, Scritti letterari, morali e politici. Saggi e articoli dal 1900 al 1915, a c. di M. Isnenghi, Torino, Einaudi 1974, pp. 5-6, con l’importante nota del curatore (p. 4). Dieci anni dopo, anche Serra era ormai un ex socialista e pote-va guardare con distacco ironico a quella sua esperienza giovanile: «Ho cominciato presto a sentir parlare del Carducci e a co noscere la sua parola; ma in principio non ne avevo quasi nessun beneficio. Come molti di coloro che si destavano al le aure della vita morale nell’ultimo decennio del secolo scorso, i miei maestri primi furono barbari. Mi ricordo di una lontanissima estate, in cui bocconi sull’erba grigia d’a gosto, alla fine di un pomeriggio di esaltazione, io guardavo il cielo e pronunziavo con voce che mi pareva piena di so lenni promesse queste parole... Carducci – E Carlo Marx. Era la fine di una strofe saffica, che avrebbe dovuto conchiu dere, come è naturale, la storia di quella sta-gione rivelatrice per la mia mente; per fortuna le rime erano alquanto aspre a trovare, e non credo ch’io ne facessi altro. Ma il frammen to resta significativo. Avevo letto in quei giorni le Nuove poesie, edizione Zanichelli; e l’unica cosa che m’avesse toccato era la prefazio ne con i discorsi dì Hillebrand e di Etienne dell’Accademia di Francia; e poi un poco dell’Avanti, di Versaglia, Danton ed Emmanuel Kant, Iddio, molto in confuso. Frattanto m’ero succhiato Marx, che mi legava un po’ i denti, e quan to più Labriola, Turati, Laforgue [ma qui, credo, Lafargue, n.d.a.], Engels, Spencer e Lombroso avevo potuto. Quello era il punto capitale; Carducci lo aggiungevo per euritmia, perché mi pareva che un poco di letteratura stesse bene per contorno» (Id., Per un catalogo [1910], ibid., pp. 177-198: 187). Del 1912 era poi lo straordinario Partenza di un gruppo di soldati per la Libia, dove la perdita di appeal da parte del socialismo e l’emergere del patriottismo nazionalistico sono avvertiti con rara acutezza (ibid., pp. 279-288). Ma la biografia politico-intellettuale di Serra meriterebbe di essere ripercorsa con ben altra attenzione.

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Nei tre giovani, la passione politica e quella letteraria sono quasi una cosa sola: il giovane Cantimori passa dalle suggestioni ottocen-tesche dei vati della rivolta (Lamartine, Hugo, Carducci) al primo Pascoli, a D’Annunzio, ma anche ai simbolisti francesi, ai parnassiani, ai ‘decadenti’ insomma, pubblicando componimenti poetici su rivisti-ne politiche o letterarie e interventi critici di un certo respiro. Furono anni di intensa maturazione politica e culturale (Cantimori riuscì a raggiungere la Grecia nel 1897 con i volontari garibaldini), che più tardi avrebbe più volte rievocati40, ma nel 1898 i tre giovani avrebbero lasciato la città emiliana per motivi e direzioni diverse. Cantimori si iscrisse alla facoltà di lettere a Pisa, dopo un anno passò a Bologna e infine a Padova; per sfuggire alle repressioni antisocialiste, Campo-longhi e De Ambris passarono in Francia, da dove il secondo passò in Brasile, a S. Paolo. Negli anni successivi seguirono evoluzioni ideolo-giche assai diverse, all’interno delle quali, tuttavia, in tempi e misure differenti, riaffiora la tematica nazionale e mazziniana.

Il più precoce in questo passaggio fu Cantimori. Secondo la testi-monianza del figlio, Carlo lascia il socialismo riflettendo sull’opera di Cattaneo, incontrata – come abbiamo accennato – in modo del tutto fortuito: approda poi a Mazzini e, già nel 1900, risulta militante e dirigente locale (nel Ravennate) del partito repubblicano. In un ro-manzo autobiografico del 1929, La strada mia corta, il vecchio sovver-sivo, ormai diventato fascista, avrebbe dato una spiegazione diversa: rievocando il mondo della protesta sociale e politica della Parma fine

40 C. Cantimori, Popolani e studenti in Parma fine Ottocento, in «Aurea Parma», XLIII, 1959, pp. 209-226. Le vicende degli anni parmensi sono al centro del romanzo autobiografico La strada mia corta, Milano, Alpes 1929: nei personaggi di Pietro Longa e Alceta si riconoscono facilmente Campolonghi e De Ambris. La partecipazione di Cantimori (con altri due studenti parmensi) alla spedizione garibaldina in Grecia è confermata da Sereni, Il Prometeo apuano cit., p. 41. Sulla cultura politico-letteraria parmense fra il 1895 e il 1925 (con cenni significativi a Carlo Cantimori), cfr. Id., Tra Orfeo e Prometeo. Itinerario poetico parmigiano da Cocconi a Pezzani, in Officina parmi-giana. La cultura letteraria a Parma nel ’900, Atti del convegno (Parma, 23-25 maggio 1991), a c. di P. Lagazzi, Parma, Guanda 1994, pp. 19-55; molte notizie sull’ambiente parmense e sull’attività politica e letteraria di Campolonghi nei suoi anni universi-tari sono anche in M. Giuffredi, M. Minardi, Luigi Campolonghi e gli studenti della Lunigiana a Parma, in Movimento socialista in Lunigiana tra la fine dell’Ottocento e il Novecento, a c. di O. Pugliese, C. Rapetti e G. Ricci, Pontremoli, Comunità Montana della Lunigiana 1990, pp. 189-223.

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secolo, le amicizie socialiste, l’impegno nei circoli dei partiti popola-ri, avrebbe sottolineato anche la crescente disaffezione e stanchezza sboccata, da ultimo, nel «ritorno alla patria», nel riemergere del sen-timento nazionale:

Volli uscire da me stesso, dal primo «confidente immaginare» della fanciul-lezza e costruii un mondo con il povero gioco dei miei pensieri. Ne sto ritro-vando, con virile consapevolezza, un altro, in cui fioriscon gioie ignote alla fiacchezza del sognatore, nella realtà spirituale che si chiama storia e il cui volto nel mondo è la nazione41.

Sul piano culturale il frutto maggiore di questo passaggio è il Sag-gio sull’idealismo di Giuseppe Mazzini, pubblicato a Faenza, nel 1904, nato dalla tesi di laurea discussa a Padova con Ardigò: un notevole lavoro d’insieme sul pensiero di Mazzini, che anche uno studioso esi-gente come Salvemini avrebbe apprezzato pubblicamente e utilizzato a lungo. È l’opera di un positivista ardigoiano, che vuole confrontare il mazzinianesimo con «l’indirizzo del pensiero moderno», cioè col posi-tivismo. Ma ben presto, scorrendo i lavori del giovane professore che viene trasferito da una scuola all’altra sotto il controllo insistente delle forze di polizia, ci si rende conto che qualcosa sta cambiando: Canti-mori partecipa anche all’altro trapasso culturale, a cui s’è accennato all’inizio di questo lavoro. Uno degli aspetti più interessanti della sua parabola è proprio nel suo precoce confronto con la cultura spiritua-listica e idealistica e nel suo progressivo arrendersi alla sua forza per-vasiva. Assai significativa è una Polemichetta mazziniana del 1909 con un suo vecchio amico e compagno di fede politica, che ebbe, per molti rispetti, un’evoluzione non dissimile dalla sua, cioè Armando Carlini, svoltasi sulle pagine del giornale del Partito repubblicano: a Carlini, che negava ogni carattere filosofico al pensiero mazziniano, rifacendosi anche al giudizio di «un filosofo autentico, qual è il Gentile», e affer-mava che esso era rimasto tutto interno al secolo XVIII, Cantimori replicava inserendo l’agitatore genovese nella rinascita religiosa e spiri-tualistica dell’età della Restaurazione. In ciò stava il suo valore: «Il pro-blema religioso e il problema morale sono in questi tempi, dopo la crisi

41 Cantimori, La strada mia corta cit., pp. 304-305. Sulla complessiva parabola di Carlo Cantimori, cfr. R. Pertici, Mazzinianesimo, fascismo, comunismo: l’itinerario poli-tico di Delio Cantimori (1919-1943), Milano, Jaca Book 1997, pp. 3-182: 5-18 (numero monografico di «Storia della storiografia», XXXI, 1997).

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del positivismo, così fortemente sentiti, che lo spirito – se non quanto nella lettera appar caduco e morto – della dottrina mazziniana è ora più che mai oggetto degnissimo di studio e di ricerca». Non è possibile «re-legare l’intelletto di Giuseppe Mazzini in quel secolo XVIII dal quale è lontano quanto il nostro tempo, e forse più lontano di quella seconda metà dell’800 in cui siamo nati e di cui tante idee rimangono ancora nel patrimonio intellettuale della democrazia non troppo fresco, ahimé, e non troppo aperto alle correnti innovatrici della coltura moderna!»42. Per l’antico allievo di Ardigò la «coltura moderna» era ormai quella che originava dalla «crisi del positivismo», così come il pensiero maz-ziniano si era formato nel clima religioso dei primi decenni del XIX secolo, scaturito dalla crisi del pensiero sensistico e illuministico: da qui la sua nuova attualità. È pure indicativo che, fra i due esponenti maggiori della nuova cultura, egli scegliesse da subito come interlocu-tore Gentile, con cui prendeva contatto epistolare già il 16 dicembre 1910, e a cui annunciava l’intenzione di riscrivere «da cima a fondo» il suo volume mazziniano. La nuova edizione, uscita nei primi mesi del 1922, sarebbe stata in gran parte ispirata alla lettura mistico-autoritaria del rivoluzionario genovese che il filosofo aveva offerta nei due sag-gi comparsi sulla rivista nazionalistica «Politica» agl’inizi del 191943.

8. Si distaccò dal socialismo anche Campolonghi. Rimase a Mar-siglia fino al 1901, poi rientrò in Italia e si dedicò al giornalismo: la-vorò per l’«Avanti!», entrò nel 1903 nella redazione del «Lavoro», a Firenze nel 1907 diresse «Il Popolo»: fra il 1909 e il 1910, si distaccò definitivamente dal partito e divenne corrispondente da Parigi del «Secolo», l’importante quotidiano della democrazia lombarda, per cui lavorò fino al 1923, alla fascistizzazione, cioè, del giornale44. Campo-

42 C. Cantimori, Polemichetta mazziniana, in «La Ragione» (Roma), 17 luglio 1909, in risposta ad A. Carlini, Ciò che è vivo e ciò che è morto del pensiero di G. Mazzini, ibid., 7 e 9 luglio 1909; Carlini avrebbe poi replicato in Polemichetta mazziniana, ibid., 20 luglio 1909.

43 G. Gentile, Mazzini, in «Politica», I, 1919, pp. 184-205; Id., Ciò che è vivo di Mazzini, ibid., pp. 336-354, subito ristampati in volumetto col titolo Mazzini, Caserta, Marino 1919, poi in I profeti del Risorgimento italiano, Firenze, Vallecchi 1923. Per tutto ciò cfr. il mio Il Mazzini di Giovanni Gentile, in R. Pertici, Storici italiani del Novecento, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali 2000, pp. 105-158.

44 E. Galli della Loggia, s.v. Campolonghi, Luigi, in Dizionario biografico degli italia-ni cit., XVII, 1974, pp. 566-569; A. Landuyt, Campolonghi Luigi, in F. Andreucci, T.

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longhi è dunque un esempio di fuoriuscito dal socialismo su posizioni democratico-radicali e, possiamo aggiungere, massoniche. Per alcuni aspetti si trattò del ricupero dei primi elementi della sua formazione politico-culturale, che era stata essenzialmente mazziniana:

Per distinguermi – avrebbe ricordato nei ricordi della sua giovinezza scritti dopo il 1928 – io mi ero dedicato ad occupazioni che di solito non si con-fanno né all’intelligenza, né al gusto degli adolescenti: m’ero messo a studiar libri di politica e, a quattordici anni, avevo letto, [...] tutto il Mazzini; il quale titolo mi assicurava il rispetto dei miei compagni, anche se spesso – per essere fedele all’insegnamento del Maestro – mi accadeva, in caso di liti fra alunni, di dovermi schierare con i più deboli contro i più forti, sebbene gracile e inetto senza più. Ne consegue che la mia formazione spirituale ha origini schiettamente mazziniane, e di ciò, forse, è rimasto traccia nella mia succes-siva evoluzione verso le idee socialiste.

Per lui, come per tanti altri, il socialismo era stato uno sviluppo ulte-riore di idee e atteggiamenti di rivolta morale acquisiti in precedenza, ricchi di echi risorgimentali e mazziniani:

Se gli illogismi sui quali riposava l’organamento politico dello Stato italiano offendevano in me il senso dialettico sempre così vivo nei giovani, lo spet-tacolo spaventoso della miseria ond’ero circondato parlava al mio cuore un linguaggio che questo intendeva, sanguinando. Per me, come per altri della mia generazione, il socialismo è stato, nei primi tempi della sua annunciazio-ne, uno slancio di solidarietà umana, che è la forma laica della pietà, verso un desiderio sempre insoddisfatto di giustizia. Queste le forze che han generato, educato, fatto grande il socialismo. Fu quello il candido tempo degli apostoli. Vennero più tardi i dottori. A farlo sapiente – dicono gli uni. A intristirlo nei piccoli boccali di un pedantismo pseudo-scientifico verboso e vacuo, dicono gli altri, sradicandolo dalle vaste zone del sentimento onde la sua chioma ver-de si estolleva negli spazi azzurri e ossigenati della fede, un pochino ingenua, forse, ma certamente pura45.

Detti, Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico (1853-1943), 6 voll., Roma, Editori Riuniti 1975, I, pp. 477-482. Sull’esperienza fiorentina del «Popolo», ulteriori notizie in Pertici, Per la storia del «vario nazionalismo italiano» cit., pp. 844-845.

45 L. Campolonghi, Una cittadina italiana fra l’80 e il ’900 (ritratto in piedi), Milano, Edizioni «Avanti!» 1962, pp. 104 e 109-110.

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Quando, dunque, venne il «tempo dei dottori» anche Campolon-ghi lasciò il partito socialista e, per molti aspetti, tornò agli ideali de-mocratico-risorgimentali. È, tuttavia, estremamente significativo che sentisse il bisogno di condensarli nella vita di un grande vecchio del rivoluzionarismo italiano, Amilcare Cipriani, figura semileggendaria negli ambienti sovversivi di fine secolo, ma ormai largamente scono-sciuta all’opinione pubblica. Lo avvertiva nettamente nella Prefazione, per noi di grande interesse, della biografia che gli dedicò nel 1912:

... questo libro, se è per il lettore una storia, è per me come un grido dell’ani-ma mia! La giovinezza dell’idea che gli uomini della mia generazione comin-ciarono a servire da fanciulli è finita: perché, quando un’idea entra nella fase sperimentale, o è matura o è precocemente invecchiata. Ora la maturità o la vecchiaia precoce dell’idea coincide appunto con la maturità della mia generazione. Sono passati i tempi della propaganda evangelica, delle riunioni alla macchia, dei tumulti in piazza, degli articoli 247 e 251, del carcere, del domicilio coatto, dell’esilio, degli stati d’assedio. – È la vigilia della vittoria – affermano gli uni. – È la fine di un sogno! – protestano gli altri. Gli uomini nuovi, e forse anche gli spiriti che sono o si sogliono dire meglio equilibrati, non si preoccupano di questi problemi. Ma molti di coloro che si erano get-tati nella mischia senza subire la visita medica e senza sottoporsi ad un esame frenologico o psicologico da parte dei dottori di equilibrio, sentono profonda l’angoscia del dubbio... Meritino lode o pietà – per essi la battaglia è chiusa: l’età verde è sfiorita. A tutte queste anime sorelle questo mio libro, dov’è narrata con la storia di un eroe la storia di un’idea, sembrerà un addio alla giovinezza di un ideale e di una generazione. E lo è.

Cipriani incarnava l’idea rivoluzionaria in tutte le sue componenti:

appartiene a quella generazione che, essendo nata sotto il dominio austria-co, portava in cuore, con l’amore della patria, l’odio di tutte le oppressioni. Italiano, combatte per l’unità del suo paese; repubblicano, lotta perché la nazione, libera e unita, abbia il governo che egli crede il migliore; apostolo della libertà che ha imparato ad adorare nell’oppressione, è pronto a volare in difesa di tutti i popoli che gemono sotto il giogo dello straniero. Ma il Cipriani è anche socialista e rivoluzionario: socialista perché crede che la società attuale sia impotente a risolvere il problema della miseria: rivoluzio-nario, non perché il suo temperamento lo spinga alla violenza, ma perché reputa che vi sono casi in cui la forza sia l’unica arma che possa servire la causa della giustizia.

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Aveva combattuto nelle guerre risorgimentali, era stato ad Aspromon-te, poi in Egitto e in Grecia, aveva conosciuto Mazzini a Londra nei suoi ultimi anni inglesi, nel ’70 aveva combattuto a fianco dei francesi contro i prussiani, divenendo poi membro della Comune parigina; aveva in-contrato Cafiero ai primordi del movimento internazionalista in Italia, conoscendo più volte e a lungo le patrie galere; nel ’97 aveva parteci-pato alla guerra di Candia ed era stato ferito nello scontro di Domokòs, dov’era morto Antonio Fratti. Con tratti soreliani, Campolonghi, sot-tolineava il tratto ascetico-idealistico della sua figura di rivoluzionario:

La vita di un uomo – afferma Cipriani – ha valore non soltanto per uno o più fatti gloriosi, ma per la legge armonica da cui questi fatti sono governati. Ora tutta la mia vita si compendia in una parola: rinuncia. Ma non è e non fu la mia una rinuncia cristiana: fu una rinuncia rivoluzionaria. Quella è fine a sé stessa: questa è mezzo di conquista. Io sono come il navigatore che s’allonta-na dalla patria, ma scuopre un nuovo mondo; io sono come l’astronomo che dimentica la terra, ma segue nel cielo il corso delle stelle. La mia vita è stata quella di un soldato: ora che combattere non posso più, è quella di un filosofo. Il mio pugno non regge più una spada, ma la mia anima ha ancora una fede. Non potendo servire il mio ideale con la mano, io lo servo con l’esempio. Gli ho sacrificato la giovinezza: gli sacrifico la vecchiaia.

Cipriani era dunque una sintesi di patriottismo e di internazionalismo, di repubblicanesimo e di socialismo rivoluzionario. Non bisogna pensare – Campolonghi lo avverte nettamente – che si tratti di una figura supe-rata dallo sviluppo del movimento operaio, ma, al contrario, egli è l’an-ticipo di un rivoluzionarismo ‘nuovo’, in qualche modo post-socialista:

è anche un retaggio di cui si varranno le generazioni future quando sarà ritor-nato in fiore il culto della milizia disinteressata, della coerenza fra pensiero ed azione, del sacrificio senza calcolo, e del gesto ribelle, splendido, anche se vano. Quando?...46.

Nello stesso anno in cui questa biografia riproponeva il suo nome al pubblico italiano, Cipriani aveva individuato, fra i socialisti italiani, chi si avvicinasse al suo ideale di rivoluzionario. Il 26 agosto, scrivendo a «L’Humanité» del congresso di Reggio Emilia, affermava tra l’altro:

46 Id., Amilcare Cipriani. Una vita di avventure eroiche, Milano, Società Editoriale Italiana 1912, pp. 9-10, 41-42, 121-122 e 10.

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Oggi, fra coloro che hanno trionfato a Reggio Emilia, c’è un uomo, Musso-lini, il cui ordine del giorno ha trionfato. Quest’uomo mi piace molto, il suo rivoluzionarismo è il mio, dovrei dire, il nostro, cioè quello che si chiama «classico». A questo valoroso Mussolini, manca solo semplicemente questo: di essere socialista e sindacalista.

Questa specie di investitura ebbe un clamoroso riscontro nelle ele-zioni suppletive nel VI collegio di Milano del 25 gennaio 1913. La sinistra rivoluzionaria milanese, i sindacalisti e «La Folla» di Paolo Valera avanzò la proposta di presentare candidato proprio Cipriani, sul nome del quale si raccolsero tutti i suffragi dell’estrema sinistra, dei socialisti, dei repubblicani più intransigenti, dei sindacalisti e di una parte almeno degli anarchici. Mussolini si dichiarò subito a suo favore e, fatta approvare la candidatura dalla sezione socialista milanese, la sostenne a spada tratta sull’«Avanti!» e in alcuni pubblici comizi, fa-cendone per alcune settimane l’argomento principale del giornale. Al termine di questa accesa campagna, il vecchio comunardo riuscì eletto deputato, ma non poté prendere possesso del suo seggio essendosi rifiu-tato di prestare il giuramento richiesto, così come, del resto, aveva già precedentemente lasciato facilmente intendere47.

Com’era stato favorevole alla guerra di Libia, così Campolonghi fu favorevole all’intervento italiano nella guerra mondiale a fianco di Francia e Inghilterra e svolse una costante opera di collegamento fra la democrazia francese e quella italiana. Sia lui che Cipriani appog-giarono Mussolini al momento della creazione del «Popolo d’Italia»: nella drammatica riunione del 24 novembre 1914, in cui fu espulso dal partito per indegnità morale, il futuro «duce» lo avrebbe ricordato:

Sono e rimarrò un socialista: ci sono 12 anni della mia vita di partito che sono e dovrebbero essere garanzia. Non è possibile tramutarsi l’animo. Il so-cialismo entra nella carne. Ci divide una questione che turba tutte le co-scienze. Amilcare Cipriani non potrà più essere il vostro candidato perché è favorevole alla guerra: ha dichiarato che se non avesse 75 anni sarebbe sulle trincee, per combattere il militarismo che vuole soffocare la nostra rivoluzio-ne. Il tempo dirà che avrà ragione48.

47 R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920, pref. di D. Cantimori, Torino, Einaudi 1965, pp. 127-128 e 177-179.

48 Ibid., p. 279. Cipriani era stato un idolo di Alessandro Mussolini, che, in suo ono-re, aveva dato a Benito anche il nome di Amilcare (e di Andrea per Andrea Costa):

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Molti anni dopo, il pittore viareggino Lorenzo Viani, «fascista rima-sto libertario, o libertario divenuto fascista» gli fece dono di «un pic-colo disegno riproducente il volto di Amilcare Cipriani»: Mussolini ne avrebbe tratto spunto per riflettere ancora una volta sulla parabola del suo movimento, su «quanto la cultura della rivoluzione [fascista] nasca proprio su quella riva del socialismo libertario, completamen-te avulsa da pratiche politiche [nel testo: poetiche] di tradizionale mediocrità»49.

9. Dopo la fine dell’avventura fiumana, Alceste De Ambris tornò a Parma, la città dove si era svolta la maggior parte della sua attività politica e sindacale nel quindicennio precedente: prima come segreta-rio della locale camera del lavoro, poi, dal 1913 al 1919, come depu-tato del collegio cittadino. Il 10 marzo del 1922, nel cinquantenario della morte di Mazzini, tenne un’importante conferenza agli operai parmensi, che aveva per titolo l’emistichio dantesco (peraltro molto diffuso fra i repubblicani per esprimere la perdurante attualità dell’in-segnamento mazziniano) L’ombra sua torna... Si trattava di un testo in buona parte autobiografico, che descriveva un percorso generazionale. De Ambris confessava che nel socialismo della sua prima giovinezza non c’era stato posto per Mazzini:

Irridemmo noi pure il patrimonio ideale che egli ci aveva lasciato perché par-ve che meglio potesse la nostra sete di libertà e di giustizia appagarsi ad altre fonti. Ma quando il socialismo nel quale avevamo riposto la nostra fede si preparò alle realizzazioni sue, non fu possibile nasconderci che la materialità della conquista economica non bastava a riempire il vuoto del nostro spirito. E allora cercammo affannosamente quello di cui sentivamo la mancanza. La fede che ci bruciava l’anima non poteva innalzare i suoi altari sui ventri sod-disfatti. Più in alto e più oltre volevamo portare la fiaccola della vita. Aride formule, pure negazioni, postulati più intollerabili del nostro orizzonte spiri-tuale. Sentivamo d’istinto che il mero utilitarismo economico riconduceva fatalmente noi tutti – uomini e collettività – alle bassezze dell’egoismo cieco ed anti-rivoluzionario.

ibid., pp. 5-6. «Entrai in rapporto epistolare con Amilcare Cipriani nel 1905 – avrebbe poi ricordato il “duce” negli anni Trenta. Torquato Nanni fu il creatore di quell’amici-zia che mi legò a Cipriani per i dodici anni che gli restavano da vivere» (De Begnac, Taccuini mussoliniani cit., p. 14).

49 Ibid., pp. 428-429.

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Ancora una volta il passaggio critico è il ritorno alla legalità dopo il 1901, quando i tempi eroici dei processi e degli stati d’assedio sono finiti e il partito inizia le sue «realizzazioni». Per dirla con Péguy, è il passaggio dalla mistica alla politica. Le frange estreme del partito non ci stanno, è allora che emerge la prospettiva sindacalistica:

Occorreva uno sforzo di liberazione. Il Sindacalismo, che ha le sue radici sul terreno della realtà e stende i suoi rami nel cielo ideale dello sforzo volonta-rio, ci apparve come la salvazione. Fummo sindacalisti. Senza accorgercene e senza volerlo eravamo già entrati nella sfera morale di Mazzini. Cos’è, infatti, la praxis sindacale che esige il sacrificio consapevole, la tensione eroica, la rinunzia del proprio bene individuale per il conseguimento della redenzione comune, se non l’applicazione nel campo della lotta di classe di quel prin-cipio che Mazzini aveva proclamato nel campo della lotta nazionale per la resurrezione dell’Italia?

De Ambris, tuttavia, ammette che si trattava ancora di un mazzi-nianesimo, se così si può dire, inconsapevole: egli e i suoi compagni restavano ancora completamente estranei all’idea mazziniana di na-zione:

E tuttavia noi non sospettavamo ancora di seguire l’insegnamento di Mazzini. La Patria per la quale egli aveva dato quarant’anni di lotta ci appariva come una mistificazione odiosa. Non era il paravento della capacità capitalistica padronale, la guardiana delle casseforti gonfie della nostra miseria cambiata in oro, la custode di un ordine carico di iniquità?

De Ambris concluse il suo «ritorno alla patria» nell’estate del 1914. Negli anni immediatamente precedenti, egli era stato duramente con-trario alla guerra di Libia e aveva polemizzato contro quei sindacalisti (Labriola, Olivetti, Orano) che l’avevano appoggiata50. È interessante osservare, tuttavia, che la sua avversione non era stata determinata da motivi ideologici. «La verità – scrisse su «Pagine libere» del 15 ottobre 1911 – è che non tutte le guerre hanno una potenzialità di pedagogia eroica e rivoluzionaria: meno di tutte, poi, la guerra coloniale». Egli avvertì, anzi, che non sarebbe stato contrario alla guerra libica, qua-lora avesse fatto posto a un «capitalismo sano» e non – come invece

50 G.B. Furiozzi, Il sindacalismo rivoluzionario italiano, Milano, Mursia 1977, pp. 57-60.

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prevedeva – alle «ventose della burocrazia militare»51. Fu lo scoppio della guerra europea, l’invasione tedesca del Belgio, la prospettiva di una vittoria degli Imperi centrali, ma anche la speranza che la guerra potesse risultare il «piccone», la «mina» capaci di abbattere quella «muraglia di granito» che era la società capitalistica europea («mu-raglia» che le «nude mani», cioè gli strumenti tradizionali della lot-ta di classe, non erano riuscite a «diroccare»52) a spingerlo verso la scelta dell’intervento. Fu questo il retroterra del decisivo discorso di De Ambris all’Unione sindacale milanese del 18 agosto 1914, in cui, abbandonando tutto il suo passato, «l’idolo cui avevamo sacrificato interamente la nostra giovinezza», dichiarava la necessità di una guer-ra contro «il kaiserismo e il pangermanesimo degli imperi centrali»53. Avrebbe ricordato nella conferenza del 1922:

Non sapevamo, allora, che cosa volesse dire avere sopra anche soltanto la minaccia di una dominazione straniera. Quando lo sentimmo, d’un colpo la luce si fece nel nostro spirito. La verità Mazziniana ci apparve nella sua interezza. Cadde la maschera nefanda che lo sfruttamento capitalistico aveva sovrapposto al volto della Patria. Scorgemmo sotto quella maschera infame il volto augusto della Madre comune. Fummo nella trincea a difenderla. Filip-po Corridoni – simbolo riassuntivo di quanto è in noi di migliore – gettava per Essa la sua giovane vita, pura come acqua sorgiva. [...] La verità è ancora quella. Vediamo chiaro oggi: la Patria non è, non può essere la nostra nemica, essa è invece, essa dev’ essere la gran Madre di noi tutti. Per questo bisogna strapparla al monopolio delle classi parassite, per restituirla i lavoratori, ai suoi figli più degni. La Patria non si nega, si conquista! [...] Così entravamo definitivamente nella concezione di Giuseppe Mazzini. Vi rientravamo senza bigottismi e senza idolatrie, accogliendo del suo lascito spirituale quel che di perennemente vivo rimane, per resuscitare la tradizione rivoluzionaria italia-na, che sembrava sepolta per sempre nel dilagare di estranee concezioni.

De Ambris affermava chiaramente che l’eredità mazziniana non co-stituiva una negazione dell’analisi di Marx, ma una sua integrazione:

51 Cit. in F. Cordova, s.v. De Ambris, Alceste, in Dizionario biografico degli italiani cit., XXXIII, 1987, pp. 214-222: 217.

52 In «Il Proletariato», 27 luglio 1914 (ibid., p. 218).53 G.B. Furiozzi, Alceste De Ambris e il sindacalismo rivoluzionario, Milano, Franco

Angeli 2002, p. 73.

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Liberi sempre da ogni dogma, non disconosciamo la verità contenuta nella critica marxista della società borghese. Essa rimane granitica e possente nella riconosciuta fatalità della lotta di classe. Ma la negazione del filosofo di Tre-viri non ha per noi virtù di vita se non si integra con la concezione morale mazziniana. Quando ripetiamo ai lavoratori ch’è vano per essi sperare di libe-rarsi e di redimersi se non acquistano la capacità morale e tecnica necessaria per elevarsi realmente fino a diventare la guida necessaria della società, noi li chiamiamo allo sforzo ed al sacrifizio sino, all’opera assidua di creazione di una nuova vita, più nobile e più degna. E ripetiamo perciò il verbo imperituro del Maestro.

Con un colpo di teatro, sul finire della conferenza, accanto a Mazzini e a Marx, il vecchio sindacalista introduceva il compagno dell’ultima ventura, il D’Annunzio fiumano:

Ognuno di noi, ripensando a Mazzini, sente risuonare nella sua coscienza di soldato della più nobile causa la parola sicura che un altro grande italiano – Gabriele d’Annunzio – lanciava dopo l’atroce battaglia senza vittoria: «E che m’importa d’esser vinto nello spazio, se sono destinato a vincere nel tempo? Io ho saputo dare alla mia azione un valore perpetuo di simbolo, come seppe-ro pochissimi fra quanti operarono altamente nel mondo». Queste afferma-zioni superbe sembrano dettate anche per l’opera di Mazzini. Il Grande Vinto nello spazio, domina già nel tempo i suoi piccoli vincitori54.

Il riferimento all’esperienza fiumana non era casuale: il progetto di costituzione, che De Ambris, nominato capo di gabinetto del comando dannunziano il 10 gennaio 1920, aveva elaborato nei mesi successivi e trasmesso al Comandante il 18 marzo, realizzava un modello economi-co-sociale di tipo corporativo, che nulla aveva a che fare, nello spirito e nella sostanza, non solo con il precedente corporativismo cattoli-co, ma anche con quello che sarà la linea burocratico-autoritaria del successivo corporativismo fascista55. Il corporativismo di De Ambris presente nella Carta del Carnaro si muoveva infatti consapevolmente

54 A. De Ambris, L’ombra sua torna, in «L’Internazionale», 10 marzo 1922. Sul-la questione del ‘mazzinianesimo’ di De Ambris è fondamentale Sereni, Il Prometeo apuano cit., pp. 30-40.

55 Questo il giudizio di R. De Felice, Introduzione a La Carta del Carnaro nei testi di Alceste De Ambris e di Gabriele D’Annunzio, a c. di R. De Felice, Bologna, Il Mulino 1973, pp. 9-10. Su tali problemi, cfr. anche Id., Sindacalismo rivoluzionario e fiuma-

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su una linea mazziniano-sindacalista. Nel suo «commento illustrati-vo» alla Costituzione di Fiume il sindacalista rivendicava apertamente questa eredità:

La Corporazione qual è definita nella Costituzione non incatena l’individuo ad un determinato lavoro per tutta la vita; ma lo inquadra nel gruppo di pro-duttori in cui le sue attitudini, le sue preferenze, i suoi bisogni, le necessità sociali lo chiamano. [...] Se una formula può riassumere il principio che ha inspirato il Legislatore, essa è la formula mazziniana: Libertà ed Associazione. Essa è, in ultima analisi, anche la formula del moderno Sindacalismo (parlia-mo del Sindacalismo autentico, non delle sue grottesche degenerazioni) che non mira ad un egalitarismo maccheronico distruttore della personalità uma-na, negatore della libera iniziativa, conculcatore d’ogni stimolo di lotta civile e feconda; ma tende invece a creare un’etica superiore, che renda consape-voli gli appartenenti a tutte le classi sociali dei loro doveri, elevandoli fino al volenteroso eroismo individuale per la salvezza ed il trionfo della collettività cui l’individuo appartiene56.

A nemmeno un anno dalla conferenza parmense, l’opposizione al fa-scismo spinse De Ambris a rifugiarsi in Francia, dove si trovava anche Campolonghi: i due furono, così, per l’ennesima volta, dei fuoriusciti. Il sindacalista non rinnegò mai la sua esperienza politica, in cui aveva cercato di armonizzare la nostalgia dell’ideale di matrice carducciana e dannunziana, il principio della lotta di classe di origine marxista, la tematica soreliana della violenza e dell’ascesi rivoluzionaria, e la riscoperta della patria, che mutuava da Mazzini e dalla tradizione ri-voluzionaria italiana.

10. Bisogna ora passare a Genova, in un ambiente in cui il movimen-to socialista assunse forti connotati ‘riformisti’ e si raccolse attorno a un quotidiano di rilievo nazionale come «Il Lavoro». Fra i suoi fondatori e poi collaboratore per oltre trent’anni fu Arturo Salucci, pressoché coetaneo dei tre ‘parmensi’ a cui abbiamo appena accennato (era nato nel 1879). Per i cultori di studi mazziniani, Salucci è soprattutto noto per due volumi usciti negli anni Venti: l’edizione delle Poesie giovanili

nesimo nel carteggio De Ambris-D’Annunzio (1919-1922), Brescia, Morcelliana 1966, anche per il lungo profilo defeliciano di De Ambris (pp. 7-156).

56 La Carta del Carnaro cit., pp. 99-100.

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del 192657 e gli Amori mazziniani usciti da Vallecchi nel 1928; ma, per molti aspetti, assai più rilevante risulta la sua attività nel primo quin-dicennio del secolo. Anch’egli vive la sua infanzia in Lunigiana (ad Aulla), partecipa alla diffusione del socialismo in quella terra di confi-ne, con gli amici Campolonghi e De Ambris deve fuggire nel maggio del 1898. Dopo la svolta liberale, si stabilisce a Genova, dove si im-pegna in una irrequieta attività politico-intellettuale di stampo, si po-trebbe dire, ‘revisionistico’. Con un opuscolo sulla Teoria dello sciopero del 1902 già polemizza contro il sindacalismo rivoluzionario (che sarà una delle bêtes noires degli anni successivi), enuncia una teoria della «probabilità decrescente» del successo degli scioperi, che alla lunga non possono essere sostenuti da un apparato produttivo debole come quello italiano e rischiano di suscitare una resistenza crescente da par-te delle organizzazioni padronali. Negli anni successivi, si fa banditore di un rinnovamento antipositivistico del socialismo italiano, che si doveva esprimere in un «nuovo idealismo»: per diffonderlo, nel 1906, elabora il progetto di una rivista, poi non apparsa, per la quale propo-ne il titolo significativo «La Giovine Italia». Comincia a occuparsi sistematicamente della tradizione rivoluzionaria italiana: lavora a un saggio su Pisacane, ma è nello studio di Mazzini che si immerge: ne ri-sultano un gran numero di articoli sui vari quotidiani a cui collabora58.

Ma il revisionismo di Salucci si esprime soprattutto nel grosso vo-lume del 1910 Il crepuscolo del socialismo (critica delle tendenze e delle soluzioni), di grande interesse, non solo per il problema che qui affron-tiamo, ma più in generale per gli umori, le analisi e le previsioni che vi sono esposte. Salucci partiva da una critica risoluta di Marx («profeta fallito») come pensatore e come politico, poi passava alle due diverse tendenze del socialismo del suo tempo, colpevoli entrambe di aver subordinato il partito al sindacato: i riformisti erano sboccati in un gretto «corporativismo», i sindacalisti rivoluzionari in un atteggia-mento avventuristico ed elitario che si era manifestato da ultimo nel-lo sciopero generale di Parma, in cui – faceva notare Salucci – erano emerse per la prima volta forme originali di resistenza borghese, non delegate, come era accaduto precedentemente, alle tradizionali isti-

57 G. Mazzini, Poesie giovanili, con prefazione e note di A. Salucci, Milano, Edizioni Lavinia 1926.

58 Per tutto ciò, cfr. l’ottimo profilo di L. Gestri, Salucci Arturo, in Andreucci, Detti, Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico (1853-1943) cit., IV, pp. 468-471.

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tuzioni repressive dello Stato, ma gestite in proprio dalle forze sociali interessate. Uno dei vecchi miti del socialismo che Salucci prendeva specialmente di mira era l’internazionalismo proletario e soprattutto l’incapacità del movimento socialista italiano e internazionale di in-tervenire efficacemente nei problemi che le sempre più frequenti crisi europee mettevano drammaticamente in evidenza:

Il socialismo parlamentare e la democrazia, nel campo della politica estera e militare, hanno raccolta soltanto una serie di delusioni e di insuccessi. Oc-corre dunque rivedere da capo a fondo le nostre idee e il nostro metodo, o confessare modestamente che questo non è pane per i nostri denti.

Questa carenza scaturiva da una difficoltà di fondo a pensare concre-tamente la realtà della nazione, che invece «è oggi una realtà e la patria è ancora una delle più alte idealità umane. Essa costituisce, e costituirà, anche nella futura federazione dei popoli, il punto d’appoggio fra l’in-dividuo e l’Umanità – come ha detto Mazzini – la “divisione del lavoro tra i popoli”». Per questo l’analisi socialista della situazione europea ri-sultava del tutto insoddisfacente: essa non riusciva a comprendere che

il maggior pericolo per la civiltà europea, il maggiore ostacolo al cammino della democrazia consiste nel blocco centrale delle due grandi potenze tede-sche: la Germania e l’Austria. [...] La Germania e l’Austria sono due enormi caserme che sbarrano il cammino della civiltà. [...] L’interesse supremo della democrazia europea è quello di spazzar via una buona volta questo ancien régi-me che si accampa nel centro di Europa con una selva di baionette e di elmet-ti lucenti. Finché esisteranno gli imperi semifeudali d’Austria e di Germania sarà assai prematuro parlare di pace universale, di disarmo, di Federazione europea, di Repubblica sociale.

Anche il partito-guida della II Internazionale, la socialdemocrazia tedesca, restava all’interno della logica del militarismo prussiano e Sa-lucci prevedeva che «se domani la Germania aggredisse la Francia, essi [i socialisti tedeschi] diventerebbero dei magnifici ulani e degli splendidi “ussari della morte” al comando del Kaiser».

La prospettiva di una possibile guerra ‘democratica’ doveva riapri-re il discorso sulla difesa nazionale e sul problema militare: Salucci riteneva che il socialismo italiano dovesse tenersi lontano da ogni an-timilitarismo programmatico e da ogni «Hervéismo» e riproponeva una tradizione rivoluzionaria italiana in cui lo «spirito militare» e lo «spirito rivoluzionario» non erano antitetici:

103 Il «ritorno alla patria» nel sovversivismo primonovecentesco

C’è un punto di affinità fra il soldato e il rivoluzionario: cioè il sentimento del dovere e quello del sacrificio di fronte all’interesse collettivo. Senza rian-dare alle profondità della storia, ci piace ora rilevare che tutti i grandi e veri rivoluzionari moderni – da Carlo Pisacane ad Amilcare Cipriani – furono anche buoni soldati per ogni buona causa patriottica. La fusione di questi due tipi, che trovò la sua più alta espressione nel «garibaldino», pare che ora vada scomparendo dalle file dei partiti rivoluzionari. Da questo punto di vista la democrazia repubblicana rappresentava un tipo superiore, un vero «partito d’azione», mentre i partiti rivoluzionari odierni sono armati soltanto di teo-rie, di frasi, di tendenze, di «ismi» e via dicendo.

Il socialismo poteva uscire dalla sua crisi soltanto allargando la sua matrice ideale ed evitando ogni esclusivismo ideologico: era in questa prospettiva che Salucci affermava la necessità di un «ritorno a Mazzini, [...] la cui figura, col volgere degli anni, sempre si irradia di luce nuova e più ardente». Il partito mazziniano, durante le lotte risorgimentali, aveva lottato «per uno scopo materiato di rivendicazioni economiche e sociali, [per] la conquista di un maggiore reale benessere per le classi meno abbienti». Il giornalista si impegnava a dimostrare che non c’era nessuna reale incompatibilità fra le dottrine socialiste e il mazziniane-simo, e che stava sfumando anche quella filosofica fra il materialismo delle prime e l’idealismo del secondo:

Il socialismo non è legato a nessuna teoria filosofica. [...] D’altra parte né il materialismo né il positivismo rappresentano l’ultima parola dell’esperien-za umana. Queste dottrine, che parvero dominare incontrastate nel campo scientifico fino a pochi anni addietro, sono ora in crisi e in decadenza. Noi assistiamo ad una meravigliosa rifioritura dell’idealismo, ad una «primavera di idee» che germina e sboccia rigogliosa nei campi dell’intelletto umano, e che promette larga mèsse futura. Anche da questo punto di vista Mazzini è dunque all’avanguardia del pensiero moderno, e la sua figura, ben lungi dall’impallidire e dall’impicciolire nel tempo, si eleva ancora gigante sull’oriz-zonte luminoso delle idealità sociali, poiché l’anima nostra è, oggi più che mai, assetata d’ideale e bisognosa di una fede che la elevi sopra la mediocre tristizia della piccola vita umana59.

11. Già nel Crepuscolo del socialismo, Salucci aveva notato come gli

59 A. Salucci, Il crepuscolo del socialismo: critica delle tendenze e delle soluzioni, Geno-va, Libreria nuova di F. Chiesa 1910, pp. 273-277, 263-264 e 324-329.

104 Roberto Pertici

intellettuali italiani, specie quelli delle generazioni più giovani, stes-sero disertando il socialismo, soprattutto a causa del «carattere arido e pedestre, sminuzzato e concordante, assunto dal nostro movimento . Così si spiega – aggiungeva – che la gioventù universitaria italiana che fu un tempo un magnifico vivaio di propagandisti del socialismo, torni oggi verso altre forme idealistiche che sembravano tramontate: l’irre-dentismo, il nazionalismo, il neo-misticismo, e fornisca piuttosto dei “liberi lavoratori” agli agrari di Parma che non dei militi della reden-zione sociale»60. Questo rilievo lo spingeva, nel 1912, a promuovere un’inchiesta sul «nuovo movimento... sorto da pochi anni [...] – che del Socialismo appare come il più temibile antagonista – ed ha man mano raccolto consensi, adesioni, simpatie nella giovine generazione, destando – o accompagnando – nel Paese un fervore di vita nuova ed insolita, che ha culminato nella guerra di Libia», cioè il naziona-lismo. È significativo che Salucci, in questa iniziativa, dichiarasse di avere come modello un’altra inchiesta, quella sul socialismo avviata «vent’anni addietro» dalla rivista milanese «Vita moderna» diretta da Gustavo Macchi61, di cui ricalcava volutamente il titolo:

L’inchiesta – ricordava – diede allora un risultato decisamente favorevole alle idee socialiste. Era quello, infatti, il periodo aureo del Socialismo italiano: i rap-presentanti più eccelsi della intellettualità avevano fatto adesione alle nuove dottrine, la gioventù universitaria si era gettata con entusiasmo alla testa del movimento, la propaganda evangelica agitava le masse proletarie che iniziavano la loro opera d’organizzazione e di conquista. Oggi il Socialismo è in piena crisi e – quali che abbiano a essere le sue sorti future – è certo che la gioventù contem-poranea ne diserta le file, e non vede più in esso l’invocato liberatore del mondo62.

60 Ibid., p. 317.61 I risultati furono pubblicati anche in volume: Il Socialismo giudicato da Letterati,

Artisti e Scienziati italiani, con prefazione di G. Macchi, Milano, Aliprandi, s.d. [1895]. In merito cfr. soprattutto C. Cordié, L’inchiesta sul Socialismo di «Vita Moderna», 1894, in «La Martinella di Milano», XXI, 1967, pp. 291-306, 349-364 e 411-426, ricco di minute notizie. Per la tipologia dell’inchiesta, come forma di mobilitazione e di auto-riconoscimento del nascente ceto intellettuale, cfr. C. Charle, Naissance des «intellectuels». 1880-1900, Paris, Les Éditions de Minuit 1990, pp. 116-137 (per la Francia) e R. Pertici, Appunti sulla nascita dell’«intellettuale» in Italia, in C. Charle, Gli intellettuali nell’Ottocento. Saggio di storia comparata europea, ed. it. a c. di R. Pertici, Bologna, Il Mulino 2002, pp. 309-346: 329-331 e 342-344 (per l’Italia).

62 Il Nazionalismo giudicato da Letterati, Artisti, Scienziati, Uomini politici e Giornalisti

105 Il «ritorno alla patria» nel sovversivismo primonovecentesco

Il socialista genovese ostentava distacco dal nascente movimento nazionalistico, ma certamente lo giudicava la novità più interessan-te del panorama politico italiano. L’inchiesta si svolse prima del II congresso dell’ANI (dicembre 1912), in cui – com’è noto – si comin-ciarono a precisare le sue tendenze antidemocratiche: è sintomatico che, su 148 risposte, 64 fossero favorevoli, 57 contrarie, 22 medie, 4 indifferenti, 1 anomala (quella «fallocefala» di Maffeo Pantaleoni), ma la maggioranza delle favorevoli si diceva propensa a una «naziona-lismo democratico» (e questa sembra anche la segreta aspirazione di Salucci)63. Fra gli intellettuali e gli uomini politici che abbiamo ricor-dati, De Ambris e Canepa si dichiararono contrari al nazionalismo, favorevoli gli ex socialisti Angelo Silvio Novaro e Tomaso Monicelli, non recisamente contrari, con risposte cariche di distinguo e diluci-dazioni Campolonghi, Ricciotti Garibaldi, Gian Pietro Lucini. Di questo «nazionalismo democratico» erano esemplari le risposte dell’ex direttore di «Pagine libere», Angelo Oliviero Olivetti:

Il vero nazionalismo italiano dovrà essere sovversivo e rivoluzionario per riu-scire fattivo ed espansivo. Un’Italia economicamente liberistica, socialmente industriale operaia, politicamente repubblicano federalistica e tendenzial-mente libertaria sindacalista, [...] potrà sola riprendere la tradizione di con-quista alacre ed intensa della nostra gente, e spezzare tutti i vincoli opportu-nistici e dinastici che impongono una politica estera mancipia delle necessità conservative della politica interna. Il nazionalismo in Italia o sarà sovversivo o non sarà. [...] In un senso relativo sono antitriplicista, perché considero [...] il Germanesimo come il pericolo più grave incombente su l’Europa moderna, come il rappresentante tipico del principio di autorità contro il principio di critica e di libertà, che è tutto latino64.

italiani, con pref. di A. Salucci, Genova, Libreria editrice moderna 1913, pp. V-VI. Le domande dell’inchiesta erano: 1. Siete favorevole, contrario o indifferente, di fronte al Nazionalismo italiano? 2. Quale dovrebb’essere, a vostro giudizio, l’atteggiamento e la direttiva del Nazionalismo nella politica interna e nella politica estera? Democratico o conservatore – anticlericale, strettamente neutrale o «conciliatorista» – triplicista o antitriplicista? 3. Ammesso il prevalere nella vita pubblica delle correnti nazionalisti-che, credete che esse condurranno a una Patria più forte, non solo militarmente, ma anche nel campo politico, economico, morale e intellettuale?

63 Ibid., p. XII.64 Ibid., pp. 175-177.

106 Roberto Pertici

12. Questa indagine (a cui si potrebbero aggiungere molti altri casi individuali o di gruppi e riviste) ha articolato – mi sembra – il di-scorso di Michels, da cui eravamo partiti, e, in alcune osservazioni, lo ha confermato. La progressiva perdita di consensi da parte del partito socialista e del socialismo come orizzonte ideologico-politico è uno degli aspetti di fondo della cultura italiana del primo decennio del Novecento, che è piena di socialisti ‘eretici’, che vanno ridefinendo in modo diverso la propria identità politico-culturale. Molti abban-donano la politica attiva e tornano a un’attività più propriamente culturale, spesso abbandonando completamente il campo del socia-lismo (Croce, Pareto, Einaudi, ma anche, fra i più giovani, Giovanni Amendola, Serra, Giuliano, etc.); altri (non ne abbiamo accennato, ma costituiscono un caso di estremo interesse) passarono attraverso una conversione religiosa e diventarono cattolici aspri e pugnaci (da Agostino Gemelli a Domenico Giuliotti e Federigo Tozzi). Alcuni (specie di origine sindacalistica) passano precocemente al nazionali-smo, già attorno al 1910: l’antidemocrazia e il trasferimento della lotta di classe a livello internazionale sono i temi che li spingono a questo passo. Ma molti restano in un ambito che, genericamente, possiamo definire ‘sovversivo’, pur avendo raggiunto posizioni che poco han-no a che fare col socialismo ufficiale. In questi ambienti si assiste ad alcuni processi di grande rilievo: l’abbandono del precedente sfondo positivistico e l’emergere del nuovo ‘idealismo’, che può prendere vari connotati, ma assume quasi sempre un tratto volontaristico e ‘asce-tico’; il riemergere della nazione e quindi il passaggio dalla ‘classe’ al ‘popolo’ (come indicava nettamente Salucci nel suo volume del 1910). In entrambi i casi si assiste a un significativo riemergere della figura di Mazzini, che diventa – per ‘riformisti’ libici o sindacalisti o repubblicani sovversivi – il simbolo di una tradizione rivoluzionaria «nazionale» (non «germanica» come quella marxista), attenta alle aspirazioni delle masse popolari, ma pronta a inserirle all’interno della nazione e a farne la base di un nuovo Stato repubblicano. Uno Stato che non avrà timore di avere una politica estera revisionistica degli assetti europei, che si sgancerà dall’alleanza con gli imperi centrali e si impegnerà anzi nel loro annientamento, considerandoli i bastioni della reazione continentale. Ne scaturirà un’Europa delle nazioni, in cui le occasioni di guerra verranno a mancare. La nuova Italia parte-ciperà all’espansione della ‘civiltà europea’ nel mondo e indirizzerà la sua emigrazione verso le proprie colonie, come aveva fatto la Roma repubblicana dei Gracchi e di Gaio Mario. L’esercito nazionale sarà uno strumento fondamentale di questa nuova presenza internazionale,

107 Il «ritorno alla patria» nel sovversivismo primonovecentesco

un esercito non di casta, ma espressione della tradizione militare rivo-luzionaria, da Pisacane a Garibaldi.

Questo fronte politico-culturale è molto vario e differenziato al suo interno, ma cresce negli anni intorno alla guerra di Libia e trova un momento decisivo di coagulo nell’estate del 1914 nella scelta inter-ventistica. Se per ‘interventismo’ non intendiamo genericamente tutte quelle forze che vollero la guerra, ma solo una parte di esse; se cioè facciamo nostra la distinzione, elaborata molti anni fa da Brunel-lo Vigezzi65, fra ‘interventismo’ e ‘partiti d’ordine’, identificando nel primo quelli che scelsero l’intervento per motivi ideologici, negli altri la classe dirigente che si mosse in un’ottica esclusivamente di interesse nazionale (il «sacro egoismo» di Salandra, con cui sostanzialmente erano d’accordo anche i liberali neutralisti); non mi par dubbio che i trapassi culturali che abbiamo sommariamente esaminati costituisca-no proprio il background, il prologo dell’interventismo italiano, che ebbe – come dovrebbe essere ampiamente noto – per lo più un’origine sovversiva e fu composto da militanti dell’Estrema che avevano disan-corato il loro rivoluzionarismo dalla precedente base materialistica e classistica e dalla prospettiva internazionalista. Sulla base di questa in-dagine, molti degli umori che vi si rivelarono risultano meno effimeri e improvvisati di quanto talora si tende a pensare: essi provenivano da spostamenti di fondo nella cultura italiana degli anni precedenti66.

Roberto Pertici

65 B. Vigezzi, L’Italia di fronte alla prima guerra mondiale, I, L’Italia neutrale, Milano-Napoli, Ricciardi 1966, pp. 612-629 e passim; Id., L’Italia liberale – governo, partiti, so-cietà – e l’intervento nella prima guerra mondiale, in Id., L’Italia unita e le sfide della politica estera. Dal Risorgimento alla Repubblica, Milano, Unicopli 1997, pp. 105-127.

66 Solo per accennare un problema che qui non è possibile neanche abbozzare, si può dire che nel ventennio fra le due guerre il percorso di non pochi intellettuali italiani si svolse in direzione opposta, cioè dalla «nazione» alla «classe»: ho affrontato altrove il caso di Delio Cantimori (cfr. supra, nota 41) e di Rodolfo Morandi (Pertici, Il Mazzini di Giovanni Gentile cit., pp. 147-149), ma si potrebbe considerare quello di Emilio Lussu, etc.

Finito di stampare nel mese di ottobre 2010 in Pisa dalle

Edizioni ETSPiazza Carrara, 16-19, i-56126 Pisa

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