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LA CAVA DEI ROCCHI DI S.MARIA DI CASTELLABATE

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Annali Storici di Principato Citra XII, 2, 2014, pp. 5-32 5 Francesco Adamo LA CAVA DEI ROCCHI DI S. MARIA DI CASTELLABATE Quando si fa una lettura di un area geografica da un punto di vista archeologico, si analizza la presenza in chiave storica dell’uomo in quanto agente di trasformazione dello spazio naturale in quel determinato territorio. Ciò significa considerare tutti gli elementi che la compongono come segni della sua storia, e da questi partire con un indagine a ritroso, per ricostruire l'antico aspetto. Si parte, come dice il Carandini 1 , dalle rovine per ricostruire l’antico palazzo. Quanto appena detto è precisamente il compito dell'indagine archeologica ambientale e della paletnologia, che applicata all’area conosciuta come Campo dei Rocchi di Santa Maria di Castellabate, al fine di definirne contorni e caratteristiche, ha permesso di ottenere informazioni storiche assolutamente interessanti ed inaspettate circa le origini e gli usi di questa parte di costa. Ci troviamo in una nota località costiera del Cilento centrale, il cui territorio è delimitato a nord dal promontorio di punta Tresino ed a sud dalla frazione di S. Marco di Castellabate, ed è composta da 5 zone denominate: Lago, Lungomare Bracale, Lungomare Pepi, Lungomare Perrotta e Pozzillo. In questo tratto di costa sono presenti due piccoli corsi d'acqua (il S. Andrea che sfocia nella parte centrale del lungomare Bracale e l’Alano che sfocia nella parte centrale della Zona Lago) e due spiagge (la spiaggia di Lago e quella del Pozzillo). Gli abitanti del luogo indicano come Campo dei Rocchi il tratto della spiaggia di Lago, lungo circa 100 metri, in cui ci sono tracce di origine antropica consistenti in numerosi cilindri di arenaria detti appunto “rocchi”, e larghe buche di forma circolare scavate nella roccia. In realtà l'area definibile Campo dei Rocchi è ben più estesa ed articolata rispetto a quella conosciuta e visibile dai locali. Ci troviamo infatti al cospetto di un contesto roccioso estremamente eterogeneo, formato da più zone inclusa quella nota, attigue tra loro che occupano ridotti tratti della costa nell’immediata prossimità del mare, ed in cui i blocchi d’arenaria di diverse dimensioni forme e stati di conservazione si alternano a zone scavate. Si ha l' impressione di un paesaggio lunare, dove l’azione modificatrice dell’uomo si è interrotta ad un determinato stadio che si è conservato intatto per giungere fino a noi, conferendo all’area l’aspetto di un luogo in cui il tempo si è fermato ad un antico passato. I blocchi di forma circolare sono quelli più diffusi ed hanno diametri che variano dai 50 centimetri ai circa 2 metri ed altezze variabili dai 50 centimetri a 1 CARANDINI: Storie della terra, 2006 p. 6.
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Annali Storici di Principato Citra XII, 2, 2014, pp. 5-32

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Francesco Adamo

LA CAVA DEI ROCCHI

DI S. MARIA DI CASTELLABATE

Quando si fa una lettura di un area geografica da un punto di vista archeologico, si analizza la presenza in chiave storica dell’uomo in quanto agente di trasformazione dello spazio naturale in quel determinato territorio. Ciò significa considerare tutti gli elementi che la compongono come segni della sua storia, e da questi partire con un indagine a ritroso, per ricostruire l'antico aspetto. Si parte, come dice il Carandini

1, dalle rovine per ricostruire l’antico palazzo. Quanto

appena detto è precisamente il compito dell'indagine archeologica ambientale e della paletnologia, che applicata all’area conosciuta come Campo dei Rocchi di Santa Maria di Castellabate, al fine di definirne contorni e caratteristiche, ha permesso di ottenere informazioni storiche assolutamente interessanti ed inaspettate circa le origini e gli usi di questa parte di costa. Ci troviamo in una nota località costiera del Cilento centrale, il cui territorio è delimitato a nord dal promontorio di punta Tresino ed a sud dalla frazione di S. Marco di Castellabate, ed è composta da 5 zone denominate: Lago, Lungomare Bracale, Lungomare Pepi, Lungomare Perrotta e Pozzillo. In questo tratto di costa sono presenti due piccoli corsi d'acqua (il S. Andrea che sfocia nella parte centrale del lungomare Bracale e l’Alano che sfocia nella parte centrale della Zona Lago) e due spiagge (la spiaggia di Lago e quella del Pozzillo).

Gli abitanti del luogo indicano come Campo dei Rocchi il tratto della spiaggia di Lago, lungo circa 100 metri, in cui ci sono tracce di origine antropica consistenti in numerosi cilindri di arenaria detti appunto “rocchi”, e larghe buche di forma circolare scavate nella roccia.

In realtà l'area definibile Campo dei Rocchi è ben più estesa ed articolata rispetto a quella conosciuta e visibile dai locali. Ci troviamo infatti al cospetto di un contesto roccioso estremamente eterogeneo, formato da più zone inclusa quella nota, attigue tra loro che occupano ridotti tratti della costa nell’immediata prossimità del mare, ed in cui i blocchi d’arenaria di diverse dimensioni forme e stati di conservazione si alternano a zone scavate. Si ha l' impressione di un paesaggio lunare, dove l’azione modificatrice dell’uomo si è interrotta ad un determinato stadio che si è conservato intatto per giungere fino a noi, conferendo all’area l’aspetto di un luogo in cui il tempo si è fermato ad un antico passato.

I blocchi di forma circolare sono quelli più diffusi ed hanno diametri che variano dai 50 centimetri ai circa 2 metri ed altezze variabili dai 50 centimetri a

1 CARANDINI: Storie della terra, 2006 p. 6.

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circa 1 metro. Al centro delle superfici superiori ed inferiori altamente irregolari si trova un foro del diametro di circa 20 centimetri, mentre sulle superfici laterali, molto più regolari, ci sono numerose incisioni orizzontali, parallele tra loro, larghe circa 5 millimetri e distanti circa 2 millimetri. Altre tipologie di resti della zona sono blocchi di pietra aventi una forma di parallelepipedo a base rettangolare che in media hanno un lato di 1,4 metri e l'altro di circa un metro, con spessore di circa 30 centimetri (fig.1).

Numerosi blocchi hanno forme molto irregolari e dimensioni variabili. Ciò fa ipotizzare che potrebbe essere materiale di scarto o blocchi non riusciti.

Alcuni cilindri appaiono ancora inglobati nella roccia, di essi si può facilmente riscontrare la superficie superiore e parte della superficie laterale.

Questi tamburi, così conformati, si definiscono rocchi in status nascendi ovvero rocchi in lavorazione, la cui realizzazione non è stata ultimata a causa del verificarsi di crepe, tagli o spaccature che ne hanno danneggiato la forma e pregiudicato il futuro impiego.

Fig. 1 - Parallelepipedo di arenaria

Anche se molto diffusi i blocchi sono comunque numericamente inferiori rispetto alle tracce in negativo ed alle incisioni presenti nell’area.

I primi scavi facilmente visibili sono incavi circolari orizzontali realizzati sul banco arenarico il cui diametro varia da 50 cm ad 1,80 cm ed hanno una profondità che varia dai 40 cm a circa 1 metro. Altre incisioni hanno forme di nicchie verticali scavate nella roccia, con diverse altezze che variano dai 50 cm ai 2 metri e il loro diametro varia dai 50 cm a 1,80 cm che sono solitamente presenti in serie, dai 10 ai 30 elementi.

Altri incavi scavati nella roccia hanno una forma ad “L” la base è rettangolare ed i contorni sono marcati da un incisione che ne delimita il perimetro. Le dimensioni di tali incisioni variano da 1,40 cm ai 3 metri in lunghezza, la larghezza è quasi sempre di 1 metro e l’altezza varia dai 50 cm ad 1 metro. Sulle pareti sono presenti scanalature verticali larghe 15 cm ed altezze uguali a quelle dell’incavo, ci sono diverse scanalature su ogni parete ad una distanza tra loro di circa 20 cm.

Un altro tipo di segni ricorrenti sul piano roccioso sono le serie circolari di fori, costituite da una successione di circa 10 fori con diametro di circa 30 centimetri, e posti a circa 10 cm l’uno dall’altro che descrivono circonferenze

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variabili da 1 metro a circa 3 metri di diametro. Solitamente le circonferenze descritte dai fori presentano o un’ulteriore foro centrale oppure una cunetta. Inoltre incise sulla superficie del piano arenarico si possono notare delle circonferenze il cui diametro varia dai 50 cm ai quasi 2 metri e descritte da un incisione di circa 5 centimetri. Altre evidenze riscontrabili sono dei canali circolari larghi circa 20 cm che descrivono circonferenze i cui diametri vanno da 1 metro e 20 centimetri a 1 metro ed 80 centimetri.

Sempre scolpite nella roccia si possono riscontrare la presenza di rampe le cui lunghezze variano dai 2 metri agli 8 metri con larghezze da un metro ai 3 metri. Tutte le rampe conducono ad un piano rettilineo rialzato di circa 2 metri rispetto al mare, lungo quasi 200 metri e largo 6 metri.

Altre scanalature visibili hanno larghezze di circa 20 cm e lunghezza di circa 60 metri. Tali canali presentano fori di 30 centimetri posti ad un distanza di circa 3 metri l’uno dalla altro. Sia sul piano rettilineo che in zone prossime ai blocchi e agli scavi si può riscontrare la presenza di più solchi paralleli tra loro larghi circa 10 centimetri e lunghi dai 2 ai 10 metri.

A una prima vista tutti questi rocchi, incavi circolari e nicchie si riscontrano in aree ubicate al limite del tratto costiero, ma con un osservazione più accurata si può notare che proseguono anche in mare, dove divengono molto più estesi e il fondale risulta densamente inciso.

Le serie circolari di fori presenti lungo la costa (fig. 2a) sono presenti anche sul fondale antistante sia sotto costa che a 300 metri dalla costa, ad una profondità di circa 6 metri (fig.2b)

Fig. 2a - Serie circolari di fori sulla costa.

Fig. 2b - Serie circolare di fori sommersa a 300 m dalla costa a profondità di 6 m.

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Gli stessi rocchi presenti lungo il bagnasciuga e sulla costa (fig.3a) si possono trovare anche sul fondale fino a 300 metri a largo, a profondità comprese tra metri 1 e 6 (fig.3b).

Fig. 3a - Rocchi emersi.

Fig. 3b - Rocchi sommersi

La parte sommersa è sottoposta ai fenomeni tipici dell’ambiente marino, di cui il più ricorrente e variabile è l’insabbiamento, inoltre la presenza in zona di corsi d’acqua e delle coste alte accresce le conseguenze di questo fenomeno, al quale si aggiunge l’azione erosiva di microrganismi come la teredo navalis che creano spaccature e incrostazioni sulle superfici. Tutto ciò rende poco percepibile ad occhi non esperti l’identificazione delle evidenze antropiche, spesso anzi ritenute particolari prodotti dovuti all’azione della natura. Dopo aver rilevato la presenza sul territorio di tali evidenze, emerse e sommerse, si ha l’impressione di essere di fronte ad un grande banco di arenaria completamente scavato, su cui sono posti vari cumuli di rocce circolari o rettangolari il tutto nella forma di un’insieme disomogeneo di elementi la cui distribuzione, estremamente casuale, copre

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un’ampio territorio che è praticamente impossibile osservare in modo accurato e dettagliato con un unico sguardo. Per tale motivo, prima di procedere con i riscontri è necessario individuare tutti i punti in cui sono presenti i resti, in modo da stabilire la superficie da analizzare. In seguito per meglio osservare la zona, abbiamo suddiviso virtualmente l’area in più settori al fine di ottenere una sorta d’inventario di tutte le sue componenti ed un quadro dettagliato del attuale aspetto di tutto il contesto. Questa analisi ha evidenziato che la zona da analizzare è compresa tra la foce del fiume S. Andrea e il lato meridionale del promontorio del Tresino. La suddivisione, in 9 settori descritti di seguito, che costituisce una sorta di fotografia del Campo dei Rocchi ed è la base di partenza per ricostruire il suo antico aspetto (fig. 4).

Fig.4 - Pianta dell’area osservata.

Il primo settore occupa un’area di 70 per 300 metri, ed è prevalentemente sommersa. Si trova nel tratto di costa antistante l'attuale foce del fiume S.Andrea e nella parte emersa presenta solo la foce del fiume. Nella parte sommersa antistante sono presenti i resti dell’antico alveo fluviale. I rocchi sono presenti sia sotto costa, a circa un metro di profondità, che a 300 metri da questa, a una profondità di 6 metri.

Nella parte sommersa, alla profondità di circa 2 metri, in prossimità della costa, si rileva la presenza di parti di un conglomerato di malta e ciottoli che fa ipotizzare la presenza di un piccolo complesso portuale di epoca romana usato per il carico su imbarcazioni dei blocchi estratti (fig.5).

Fig. 5 - Conglomerato

di malta e ciottoli.

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Il secondo settore è attiguo al primo e si sviluppa in direzione nord-est, con una lunghezza di 102 metri ed una larghezza di 300 metri. In quest’area, si possono riscontare le tracce dell’intensa attività estrattiva, soprattutto nella parte sommersa. Il fondo si presenta notevolmente sedimentato e sono abbondanti cocci di vasellame in terracotta, soprattutto di piccole e medie dimensioni, ciò induce a pensare che in questa zona era presente un piccolo insediamento urbano abitato dagli stessi operai addetti alla manovalanza nella cava. Nella parte emersa si possono notare molti incavi rettangolari posti a diverse altezze rispetto al livello del mare, che danno al tratto di costa un aspetto a gradonata.

Il terzo settore lungo 100 metri e largo 500 si sviluppa in direzione nord-est. Sono visibili, nella parte sommersa, le tracce di lavorazione e numerose parti di vasellame di piccole dimensioni in terracotta ed anfore estremamente inglobate nell’arenaria (fig.6).

Nella parte emersa è presente un vano scavato nell’arenaria in cui, probabilmente, si estraevano blocchi a forma di parallelepipedi a base rettangolare.

Fig. 6 - Anfora inglobata nell’arenaria.

Il quarto settore è attiguo al terzo settore ha una lunghezza 120 metri e si

sviluppa in direzione nord-est. Nella parte attualmente emersa di questo settore si trova una grande rampa affiancata da un piano inclinato e una serie di 30 nicchie verticali mentre, sommerse sotto costa, si trovano numerose tracce positive e negative di rocchi il cui diametro è mediamente di 1,40 cm.

Il quinto settore ha una lunghezza di 78 metri e una larghezza di 300 metri ed è sia sommerso che emerso, va dall’inizio della spiaggia di Lago fino alla zona antistante via Campo dei Rocchi. Nella parte emersa è presente un piano scavato estremamente rettilineo utilizzato, forse, per la movimentazione dei blocchi. Nella parte sommersa si notano dei piani perfettamente lisci e rettilinei su cui sono presenti dei canali scavati che proseguono dalla riva fino a circa 30 metri verso il largo, che potrebbero essere stati creati per favorire l’istallazione di moli in legno.

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Il sesto settore ha una lunghezza di 134 metri per 500 di larghezza e si sviluppa in direzione nord-est. Si riscontra, nella parte emersa, un rocco ancora in status nascendi, una piccola rampa con un piano rettilineo e numerosi rocchi abbandonati e ben conservati che rendono questo tratto il più caratteristico di tutta l’area. Nella parte sommersa si trovano tracce soprattutto negative, ma anche positive, queste si estendono dal bagnasciuga fino a 300 metri dalla costa a una profondità di 6 metri.

Il settimo settore, lungo 94 metri, è attiguo al sesto settore e si sviluppa in direzione nord-est, è esclusivamente sommerso: profondità e tipologia sono simili a quelle delle zone precedenti. La settima zona presenta esclusivamente tracce negative, indice che l’area è stata completamente esaurita.

L’ottavo settore è attiguo al settimo, lungo 127 metri e anch'esso con uno sviluppo in direzione nord-est. In questa zona è presente una rampa con piano rettilineo disposta in modo simile a quella del sesto settore. Ci sono tracce negative e resti di rocchi, tra cui quello più grande della parte emersa con diametro di 1 metro e 60 centimetri. Nella parte finale di questa zona si trovano rocchi in status nascendi e tracce d’inizio lavorazione. La parte sommersa è densamente lavorata con tracce simili alle zone precedenti.

La zona della foce del fiume Alano inizia subito dopo l’ottavo settore, ha una lunghezza di circa 200 metri e non presenta tracce rilevanti di attività estrattiva.

Il nono settore, lungo circa 60 metri, si trova nello spazio antistante al Belvedere dei Trezeni e termina alle pendici del promontorio Tresino. Questa parte è prevalentemente sommersa e in minima parte emersa. Si riscontrano tracce negative e positive di lavorazione. Ci sono piani rettilinei livellati con canali, serie circolari di fori e mancano rampe con piani rialzati.

Dopo aver eseguito questa attenta osservazione si può affermare che il tratto di costa di arenaria chiamato Campo dei rocchi di S.Maria di Castellabate è caratterizzato da piccole zone di roccia lavorata ed estratta in prossimità del mare e da zone molto estese e densamente lavorate nel fondale antistante alla costa, fino ad una distanza di 300 metri da questa. L’effettiva estensione dell’area occupata è quindi di circa 2 chilometri di lunghezza e 500 metri di larghezza e si sviluppa prevalentemente sul fondale marino, così da poterla identificare chiaramente come un'area archeologica sommersa.

Ma per cosa serviva il Campo dei Rocchi? Cos'era in passato questo territorio, oggi invaso da un turismo stagionale spesso inconsapevole delle ricchezze nascoste sotto il pelo dell'acqua? Perché l’azione modificatrice dell’uomo è stata tanto intensa ed irreversibile in questo luogo?

Per rispondere a queste numerose domande è necessario interpretare l’area sotto il punto di vista archeologico, partendo da un ipotesi ritenuta altamente probabile che verrà verificata grazie alle comparazioni con siti campioni.

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Le ipotesi proposte a riguardo dagli abitanti del posto sono due: la prima indica l’area come un antica cava per la realizzazione di colonne doriche e di macine, l’altra la identifica come un’antica salina realizzata per ricavare il sale facendo evaporare l’acqua marina. Queste ipotesi derivano dalle tradizioni di una comunità da sempre abituata a procurarsi i mezzi per il sostentamento sfruttando le risorse naturali di cui disponevano, inoltre questo territorio faceva parte della Magna Grecia, e tra il VI e V secolo a.C. visse le vicende delle colonie di Paestum e Velia.

L’ipotesi che immediatamente si è indotti a ritenere più probabile è quella di considerarla un’antica cava realizzata per estrarre l’arenaria sotto forma di blocchi, e per tale motivo la si è comparata con le “Cave di Cusa”, sito siciliano distante 11 Km da Selinunte, costituito da un banco di calcarenite da cui si estraeva materiale litico destinato alla costruzione degli edifici templari, le cui colossali evidenze presenti forniscono un eccellente campione per l’identificazione di realtà ad essa simili.

Le Cave di Cusa furono abbandonate improvvisamente a seguito dell’occupazione di Selinunte da parte dei cartaginesi condotti da Annibale Magone verso la fine del VI secolo a.C. come riporta il racconto di Diodoro Siculo. Visitando il sito siciliano si ha la sensazione di trovarsi in un cantiere di lavoro in cui gli operai sono andati a far colazione, o hanno sospeso il lavoro per fine giornata, come se poche ore o l’indomani al massimo tutto dovesse riprendere. Per tali motivi le cave di Cusa sono una fonte primaria per conoscere la tecnica estrattiva in epoca arcaica. La presenza di numerosi pezzi, soprattutto rocchi di colonna, ma anche capitelli e architravi testimonianti i diversi cicli di lavorazione, ci fa capire come nasce un elemento architettonico, dall’estrazione fino al trasporto in cantiere. A seguito di quanto dedotto dallo studio delle Cave di Cusa si possono ricavare le caratteristiche essenziali per identificare un sito archeologico come una cava per l’estrazione di materiale litico (rocchi di colonna, capitelli, traverse), che sono (fig.7):

Fig. 7 - Schema evidenze delle Cave di Cusa.

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- Presenza di zone di accumulo dove venivano scaricati i materiali di risulta.

- Presenza di rocchi in forma di tamburi rimasti ”in situ”

- Presenza di superfici levigate con circonferenze incise

- Presenza di rocchi in status nascendi

- Presenza di canali di frantumazione, incavi e nicchie verticali sulla superficie

- Presenza di rampe e piani regolari per consentire la movimentazione ed il trasporto dei blocchi

Il materiale pietroso di risulta nelle cave di Cusa è stato scaricato sul margine nord della zona dove ad intervalli si susseguono gli accumuli. Anche a Santa Maria di Castellabate si possono notare in diversi settori zone in cui sono presenti cumuli costituiti da frammenti di arenaria e parti di tamburi (fig.8).

Fig. 8 - Cumuli costituiti da frammenti di arenaria, VI settore del Campo dei Rocchi.

Queste aree per l’accumulo di materiale litico sono delimitate da piani

rettilinei e rampe per facilitarne la movimentazione e separarle dalle aree di produzione. Nella zona analizzata in questa sede sono identificabili due aree di accumulo una nell’VI settore (fig.9) e l’altra nel VIII (fig.10).

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Fig. 9 - Zone di accumulo del VI settore del Campo dei Rocchi.

Fig. 10 - Zone di accumulo del VIII settore del Campo dei Rocchi.

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Queste sono le uniche zone di tutto il campo dei rocchi di Santa Maria di Castellabate dove sono presenti tamburi ed altro materiale completamente staccato dal banco di arenaria

Le Cave di Cusa presentano tracce di tutte le fasi di estrazione: la pulitura, la frantumazione e il distacco rispettivamente indicate da rocchi in status nascendi, canali di frantumazione, da incavi circolari, nicchie e rocchi presenti sulla superficie rocciosa. Il procedimento di estrazione veniva avviato mediante l’iniziale individuazione del sito più idoneo con la rimozione dello strato di terriccio presente sulla superficie della roccia, con conseguente pulizia e livellazione del banco prescelto. Successivamente interveniva l’opera delle maestranze che provvedevano a tracciare la sagoma della circonferenza del rocchio che si voleva estrarre secondo le esigenze di cantiere. L’avvenuto svolgimento di questa fase a Santa Maria lo si può riscontrare dai cerchi incisi sul banco arenarico il cui diametro include sia quello del rocchio da realizzare, che del canale di frantumazione (fig.11)

Fig. 11- Circonferenze

incise a S.Maria (VIII

settore).

Dopo questa preparazione, attorno all’intaglio del contorno del rocchio si scavava, via via più profondamente, un canale circolare. In pratica la roccia veniva frantumata a forza di braccia con colpi di scalpello e pian piano dopo tanta fatica degli scalpellini - i così detti “latomòi” - affiora dal banco di pietra il moncone. A Santa Maria tale fase è poco percepibile, si identifica con la presenza di tamburi affioranti dalla roccia circondati da un canale circolare largo 20- 30 cm più del tamburo. Dal raffronto con le “Cave di Cusa” si intuisce che queste tracce testimoniano proprio la fase della frantumazione (fig.12).

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Fig. 12 - Tracce della fase di frantumazione (IX settore).

A Santa Maria si trova, nel VI settore dell’area osservata, un rocchio in status nascendi (fig.13 a e 13b) di notevole interesse e di cui si percepiscono le dimensioni e la metodologia di lavorazione.

Fig.13 a -Rocco in “status nascendi” (VI settore).

Fig. 13 b - Dettaglio del canale di frantumazione (VI settore).

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Questo rocchio presenta una notevole frattura che dalla sua base raggiunge la metà del blocco e questo né pregiudicò il suo utilizzo, motivo per cui la sua estrazione non è stata completata, ma ci fornisce interessanti notizie sulla metodologia estrattiva. Veniva creato un canale circolare (fig.14) largo di circa 20 centimetri (canale di frantumazione) e profondo 30 – 50 centimetri e poi, man mano che si scendeva in profondità, si rompeva la parete esterna del canale per poter lavorare più comodamente il blocco circolare.

Alla fine il rocchio appariva liberato per i suoi ¾ e quindi si passava alla fase del distacco del tamburo dal banco roccioso.

Fig.14 - Canale di frantumazione sommerso (III settore).

Nelle “Cave di Cusa” per staccare il tamburo dal fondo si formava un solco alto dai 15 ai 20 cm e profondo circa 30 cm. In questo solco dovevano esser fatti penetrare dei cunei di legno asciutto il più profondamente possibile, successivamente, venivano bagnati per provocare l’aumento di volume che causava l’aumento di pressione sulle pareti rocciose che faceva staccare il pezzo dalla roccia: questa tecnica era detta delle “zeppe”.

A Santa Maria sono presenti numerose testimonianze dell’utilizzo di questa tecnica: alcune, non concluse, come tamburi circondati da una serie circolare di fori in cui dovevano essere inserite le zeppe (fig.15); altre che documentano l’avvenuto distacco utilizzando tale tecnica (fig.16).

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Fig. 15 - Rocchio sommerso pronto per essere staccato (II settore).

Fig.16 - Serie sommersa di fori circolare (II settore).

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Altri tipi di tracce che indicano l’avvenuto distacco presenti sia a Santa Maria che a Cusa hanno forma di incavi circolari (fig.17) e di nicchie verticali (fig.18) scavate nella roccia. Probabilmente la lavorazione ed il distacco dei blocchi anche in questo caso sono state eseguite utilizzando la stesse tecnica precedentemente illustrata.

Fig. 17 - Incavo

circolare a fossa (VI settore).

Fig. 18 - Nicchie di verticali (IV settore).

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Un’altra tecnica utilizzata per il distacco del blocco era quella dei “punciotti”: si forzava la roccia alla schiantatura lungo il piano punciottato ed allo scivolamento lungo il piano della falda usando semiconi semicircolari forzati e bagnati. L’utilizzo della tecnica dei punciotti è riscontrabile a Santa Maria di Castellabate con la presenza di lunghe scanalature verticali e circolari lungo pareti di ambienti a pianta rettangolare. Da ciò si può supporre che nella località cilentana venivano realizzati, oltre ai tamburi in arenaria, anche altri elementi strutturali come traverse e piattabande dalle tipiche forme di parallelepipedi a base rettangolare (fig.19)

Fig. 19 - “Tecnica dei punciotti” per l’estrazione di blocchi rettangolare.

Dopo l’estrazione dei tamburi si scavava un foro quadrato

2 al centro delle

superfici di appoggio del rocchio, che serviva per il montaggio di due ruote e di un

2 Nelle Cave di Cusa restano due rocchi abbandonati proprio nello stato di preparazione

per il trasporto, mostrando questo foro su un lato. Per le Cave di Cusa la movimentazione dei pezzi avveniva susseguentemente all’estrazione quando si dovevano rovesciare i rocchi e allontanarli, questo costituiva il primo spostamento dei manufatti. Per il trasporto, al centro delle due superfici di appoggio si scavava un foro quadrato per il montaggio di due ruote e di un telaio in legno. Due rocchi ancora nella cava hanno questo foro su un solo lato, mentre l’esemplare che si trova all’esterno, essendo stato già trasportato fuori per un breve tratto, mostra il foro su entrambi i lati. Uguale procedimento avveniva per gli architravi. Il

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telaio di legno, mentre per gli architravi si praticava un foro sui lati brevi e quattro su quelli lunghi (fig.20).

Il trasporto di rocchi di colonna richiedeva una strada costituita da un’ottima pista rocciosa di adeguata larghezza su cui il passaggio dei carri lasciava profonde tracce.

A Santa Maria si riscontrano tracce in zone limitrofe alla cava che fanno pensare a impronte lasciate dal trasporto dei pesanti blocchi estratti (fig.21).

Fig. 20 - Arcitrave pronto per il trasporto

Fig. 21 - Impronte lasciate dal trasporto dei rocchi (II settore)

Un’altra tecnica usata per la movimentazione dei blocchi si avvaleva di un piano rettilineo sopraelevato rispetto alle aree di lavorazione e collegate con questo tramite piccole rampe scavate nel banco arenarico. Questo piano terminava

successivo avvio verso il luogo di destinazione avveniva con l’impiego di animali da traino in numero adeguato al peso dei pezzi

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con una rampa più grande dove i blocchi venivano calati utilizzando delle slitte dette lizze sulle quali venivano posizionati i blocchi ed il cui movimento veniva gestito tramite l’uso di corde (fig.22)

Fig.22 - Resti della “via di lizza” per la movimentazione del blocco (IV settore)

Alla base della grande rampa c’era un area in cui si predisponeva il blocco per il trasporto verso il luogo di destinazione.

Alle Cave di Cusa il trasporto avveniva tramite l’uso di buoi e carri, mentre a Santa Maria avveniva via mare, infatti alla base della grande rampa si notano sul fondale antistante dei fori e canali su cui erano poste le fondamenta di moli in legno a cui si ormeggiavano imbarcazioni adibite per il trasporto dei blocchi (fig 23).

Fig. 23 - Piano rettilineo sommerso con canale largo 20 cm (V settore).

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Sia a Cusa che a Santa Maria i rocchi staccati presenti nel cantiere di estrazione hanno su uno dei lati di posa un foro necessario per il trasporto, ma se il tamburo presentava difetti o si danneggiava durante la lavorazione rimaneva in situ. Analogie tra i due siti sono riscontrabili maggiormente nel terzo settore delle Cave di Cusa che risulta quasi del tutto esaurito. Qui si trovano in situ pochi rocchi già estratti ma molti incavi a fossa e nicchie verticali. Dopo questa comparazione si può concludere che a Santa Maria di Castellabate le caratteristiche principali di una cava sono tutte riscontrabili e quindi si può affermare che l’area attualmente denominata “Campo dei Rocchi” può essere definita una cava da cui si estraevano blocchi cilindrici e rettangolari utilizzati poi sia nell’edilizia sia come mole da frantoio per la produzione dell’olio.

La comparazione tra il Campo dei rocchi con le Cave di Cusa oltre a far riconoscere l'aria Cilentana come un’antica cava adibita all’estrazione dell’arenaria, evidenzia anche che venivano estratti blocchi sotto forma di tamburi e di parallelepipedi e che, a differenza di quelle di Cusa, la cava è stata completamente esaurita. I rocchi venivano estratti utilizzando la “tecnica della frantumazione” e successivamente la tecnica delle zeppe per staccarli, come descritto. La “tecnica dei punciotti” era utilizzata per l’estrazione dei blocchi rettangolari. Gli scarti di lavorazione venivano depositati in zone di accumulo marginali alle aree di lavorazione poste sul loro stesso livello. Le zone, sia di estrazione che di accumulo, erano delimitate da piani elevati rettilinei sopraelevati rispetto all’area di lavorazione di circa un metro e collegati da piccole rampe scavate nella roccia. Questi piani erano attigui gli uni agli altri in modo da realizzare un'unica pista pianeggiante utilizzata per la movimentazione dei blocchi fino ad una grande rampa che serviva per calare, tramite la tecnica della “lizzatura”, i blocchi estratti verso moli in legno posti nelle sue prossimità da cui venivano imbarcati per i luoghi di destinazione. Osservando la cava dei rocchi di Santa Maria di Castellabate ci si rende conto che si tratta di una cava a cielo aperto in quanto si sviluppa in superficie e dal momento che i lavori di scavo sono stati effettuati lungo versanti discendenti rispetto al piano stradale, rientra nella tipologia detta a “fossa”. Le cave sono aree archeologiche di tipo terrestre invece quella cilentana è prevalentemente sommersa, appare inevitabile quindi cercare di comprendere cosa abbia determinato una simile trasformazione.

Per capire come si è formato l’attuale aspetto dell’area è importante considerare le sue caratteristiche geografiche, geologiche, fisiche e quali siano state le variazioni del livello del mare che costituisce una delle componenti dell’habitat naturale a cui, secondo l’archeologia ambientale, l’essere umano si è dovuto adattare nel corso dei tempi. Santa Maria di Castellabate è posta sul limite della piattaforma continentale del Cilento che si protende nel mare per circa 20 Km in un’area che olograficamente è occupata dai massiccio degli Alburni-Cervanti - serie di monti disposti in posizione circolare che rende la zona isolata

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dal resto del territorio Cilentano – e tutto ciò ha consentito all’uomo, nel corso dei tempi, la realizzazione di approdi ed insediamenti protetti. (fig. 24)

Fig.24 - Piattaforma continentale del Cilento.

Sintetizzando con un grafico le documentazioni inerenti alla variazione del livello del mare verificatosi nel Cilento nel corso dei tempi, ponendo sulle ordinate gli anni antecedenti all’attuale e sulle ascisse il livello del mare, si può vedere che questo è aumentato, negli ultimi 18.000 anni, di ben 120 metri in modo non costante, a causa dell’ultima glaciazione ovvero il WURM III (fig. gradx).

Fig. gradx.

Fig. grasx.

La cava dei rocchi di S. Maria di Castellabate

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Restringendo l’osservazione agli ultimi 6.000 anni (fig. grasx) si può vedere che il livello del mare è aumentato di 10 metri e nel VI secolo a.C., periodo in cui si costruivano i templi di Paestum, il mare era più basso rispetto al livello attuale di circa 6 metri il che rende plausibile l’origine antropica delle tracce che ora si trovano a quella profondità ed il loro legame con il sito pestano.

Dopo tali riscontri diventa necessario contestualizzare storicamente l’area inserendola nel contesto più ampio del Cilento che è stato frequentato dall’uomo, con condizione di continuità, fin dal Paleolitico subendo un parziale abbandono verso la metà dell’epoca medievale a causa dell’impaludamento provocato dall’avanzamento del mare. Il territorio cilentano è stato inoltre interessato anche dal fenomeno storico della colonizzazione greca nel Italia meridionale, nota col nome di Magna Grecia ed in particolare è legato alle vicende storiche delle più famose colonie di Paestum e Velia (fig.25).

Fig. 25 - Frequentazione del Cilento tra il VI ed il IV secolo a.C.

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Dai grafici, precedentemente descritti, si vede che nel periodo magno greco il mare a Santa Maria di Castellabate risultava arretrato dalla costa di circa 500 metri e il versante era più alto di circa 6 metri rispetto all’attuale. Tali condizioni offrirono ai coloni greci la possibilità di trovare un banco di arenaria molto vasto e completamente emerso, ideale per l’estrazione dei materiali da utilizzare per l’edificazione dei loro templi.

L’ampia estensione e l’ottima posizione dell’area nel VI a.C. ha quindi favorito un’intensa attività estrattiva da parte dei Trezeni e dagli Achei, popolazioni greche che fondarono la sub-colonia di Poseidonia nel VI secolo a.C. e che in quel periodo frequentarono la zona, mentre i romani, nel IV secolo a.C., ne sfruttarono solo porzioni marginali, per estrarre materiali da usare per realizzare le fondamenta di edifici e complessi portuali, in quanto l’avanzamento del mare aveva ridotto a soli 3 metri l’altezza del versante costiero. Nel medioevo poi l’avanzamento del mare rese la zona paludosa ed insalubre e quindi fu definitivamente abbandonata fino al 1.200 quando fu bonificata e divenne terreno agricolo.

L’osservazione della cava diventa così l’elemento principale per conoscere la storia di Santa Maria di Castellabate, che parte presumibilmente dal paleolitico, per vivere un periodo di grande attività durante la Magna Grecia, proseguire con l’epoca romana e medioevo che determina la fondazione della località cilentana dopo il 1200 d.C. a seguito della bonifica del territorio.

L'ipotesi più plausibile per l'uso dei blocchi estratti dalla cava di Santa Maria è che sono quelli utilizzati per la realizzazione del magnifico tempio di Paestum noto col nome di Nettuno (o detto anche di Poseidone o di Hera II) (fig.26).

Fig. 26 - Tempio di Nettuno (o di Poseidone o di Hera II).

La cava dei rocchi di S. Maria di Castellabate

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Questo edificio fu costruito agli inizi del V secolo a.C., probabilmente dagli achei, che arrivati nel Cilento vollero legittimare la loro presenza edificando un tempio, utilizzando un materiale differente rispetto alla Basilica o al tempio di Cerere costruiti dai Trezeni, iniziatori della fondazione della colonia poi scacciati dagli stessi achei.

La verifica di tale ipotesi è stata eseguita tramite comparazioni tra le dimensioni delle tracce presenti nella cava di Santa Maria e le colonne del tempio di Poseidone con cui si è riscontrata l’effettiva rispondenza dimensionale, sia in altezza che in larghezza, tra le nicchie verticali della cava e i singoli rocchi componenti le colonne del tempio pestano (fig.27).

Fig. 27 - Nicchia di S.Maria. Base colonne del tempio di Nettuno

Altre comparazioni svolte sono state relative alla granulometria ed ai carichi

di rottura a compressione dei materiali presenti nei due siti. Il confronto granulometrico, realizzato tramite macrografie del materiale presente a Santa Maria ed a Paestum, ha evidenziato la notevole similitudine granulometrica esistente tra i materiali delle due aree (fig.28) ed ha fornito un ulteriore elemento per avvalorare l’ipotesi dell’esistenza di un loro diretto collegamento.

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Fig. 28 - Materiale Cava S.Maria

Materiale Tempio di Nettuno

Prendendo in considerazione l’architettura del tempio di Poseidone si può osservare che presenta un doppio ordine di colonne che doveva sostenere un tetto di notevoli dimensioni, ciò creava un elevato carico che le colonne dovevano sopportare. Il materiale da utilizzare in questa costruzione doveva quindi avere una resistenza a compressione elevata. Da queste considerazioni, e osservando la tabella relativa ai carichi di rottura di ogni materiale (fig. 29), si può comprendere perché per la costruzione delle colonne di questo edificio sia stata preferita la resistente arenaria rispetto al più cedevole travertino.

Fig.29 - Tabella carico rottura a compressione.

La cava dei rocchi di S. Maria di Castellabate

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Alla luce di quanto osservato non è sbagliato pensare dunque che i blocchi di

arenaria estratti da questa cava furono utilizzati per la costruzione del tempio di Nettuno nell'area archeologia di Paestum.

L’indagine dell’area cilentana è stata realizzata utilizzando un approccio sia pratico, basato su metodi, tecniche e teorie provenienti dalla paletnologia dalla archeologia stratigrafica, dalla archeologia subacquea e dalla geoarcheologia sia teorico, basato sulle nozioni provenienti dalla storia dell’ arte greca e romana e dalla storia greca e romana. Fondamentale è stata l'osservazione diretta e ripetuta del territorio.

A seguito di quanto rilevato si può finalmente riconoscere la “Cava dei rocchi” di Santa Maria di Castellabate come un’area archeologica ampia ed estremamente interessante, anche se ancora poco considerata e studiata. Un sito archeologico simile per caratteristiche a quello delle Cave di Cusa, la cui valenza è invece riconosciuta in tutto il mondo, con in più la particolarità data dal fatto che la cava di Santa Maria è quasi completamente sommersa. Le cause della sua sommersione non sono legate al bradisismo, fenomeno vulcanico che provocò lo sprofondamento della Baia Imperiale a Pozzuoli, ma all’avanzamento del mare legato al disgelo dei ghiacciai.

Tale circostanza mette quindi in diretta relazione il sito di Santa Maria di Castellabate con l’ultima glaciazione nota col nome di Wurm III facendo giungere alla conclusione che lo stesso paesaggio costiero si è, nel corso dei secoli, modificato. Ciò significa che quello che si vede attualmente non è lo stesso scenario che vedeva l’Homo Sapiens, l’ Uomo di Neanderthal o quello presente nel Neolitico. L’avanzamento del mare ha reso poco note le caratteristiche del luogo ai frequentatori della zona da un secolo all’altro, si può supporre che gli stessi romani conoscevano la cava, le cui dimensioni erano però ridotte rispetto a quando questa era frequentata dai greci circa due secoli prima. È interessante notare che le tecniche di lavorazione utilizzate nel V secolo a.C. in Grecia per l’estrazione del marmo dalle cave del Monte Pentelico per la realizzazione del Partenone, monumento simbolo dell’arte classica, erano utilizzate qui già dal VI secolo a.C.

Un'altra considerazione che si deduce dall’osservazione di questa cava è che i greci, per la realizzazione dei propri santuari, utilizzavano materiali di alta qualità, la cui presenza era localizzata anche a molti chilometri dal luogo dove si erigeva il tempio, come è avvenuto per i blocchi di calcarenite estratti dalle Cave di Cusa e utilizzati per l’erezione dei templi C, F e G. di Selinunte che erano posizionate a 11 Km di distanza.

Le tracce presenti in queste cave italiane sono la testimonianza che le tecniche di estrazione della roccia hanno derivazioni antiche, legate alle grandi civiltà egizie e poi proseguite con altre grandi civiltà greche come le minoiche e le micenee, due esempi su tutti gli enormi blocchi utilizzati per le costruzioni delle

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piramidi e i grandi massi usati per la costruzione delle mura e dei decori della porta dei leoni di Micene.

Quanto dedotto costituisce un primo capitolo relativo alla storia del luogo ma se si eseguissero campagne di rilevamento geofisiche ed archeologiche subacquee utilizzando le moderne tecnologie ed attrezzature come: sub bottom profiler, scan laser, rov, sonar a scansione laterale allargando la zona (fig. 30) oltre i limiti descritti in questa sede si potrebbero ricostruire aspetti dell’area ancora più antichi rispetto alla cava stessa.

Fig. 30 - Panoramica area occupata dalla Cava dei Rocchi.

Fig. 31 - Spiaggia di Lago.

La cava dei rocchi di S. Maria di Castellabate

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La zona rocciosa della “Cava dei Rocchi” di S. Maria di Castellabate attualmente è utilizzata come un’area di accumulo di materiali di risulta e la zona che si sviluppa lungo la spiaggia viene data, nel periodo estivo, in concessione a lidi balneari (fig.31). Si tratta però di un’area archeologica sommersa di notevoli dimensioni e grande interesse storico ed archeologico, il suo fondale porta le tracce di quella che è stata l’attività dell’uomo nel corso dei tempi, un vero e proprio archivio storico del Cilento da cui poter attingere le documentazioni materiali circa la storia dell’intera regione.

Appare quindi importante tutelare questo sito, per non rovinare un bene del patrimonio culturale italiano, e sarebbe auspicabile la realizzazione di un parco archeologico dove organizzare esercitazioni e campagne di scavo per poter rilevare e studiare tutte le sue evidenze.

L’area dovrebbe anche essere maggiormente divulgata mediante una specifica cartellonistica da porre nei singoli settori, indicante le loro peculiarità e tramite la realizzazione di un sistema GIS, consultabile via internet, in cui sono presenti tutte le informazioni relative alla Cava dei Rocchi: mappe multimediali, gallerie fotografiche, illustrazioni sulle caratteristiche e pubblicazione di tutti i risultati relativi alle ricerche ed ai monitoraggi svolti nella zona in modo da percepire comprendere ed apprezzare tutto il suo valore sia storico che archeologico, affinchè l’intera collettività sia sensibilizzata sull’importanza di preservarla dall’incuria e dal degrado.

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