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La fine della storia e la necessità di Dio

Date post: 26-Jan-2023
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La fine della storia e la necessità di Dio 1. Cos’ è oggi la modernità? Cos’ è oggi la modernità? Certo non è più il modello storico, culturale, etico ed antropologico che dagli inizi del XV° secolo fino al tardo XX° secolo ha dominato. Si percepisce piuttosto il senso della fine del Moderno. Si tratta di una tesi già documentata negli anni cinquanta. Ma ciò non significa molto, dal momento che il Moderno ha vissuto molte fasi di erosione interna. Il Moderno, auto-concependosi come l’unica Tradizione intellettuale in grado di sostituire la Cristianità e, anzi, puntando i piedi risentita proprio contro il Cristianesimo nella sua espressione culturale e morale, non poteva che avere in sé la chiave per registrare le sue permanenti crisi. Forse la modernità è costitutivamente crisi, scissione. Questo continuo lavorìo sostanziato di contraddizioni è stato sempre la modernità e non è casuale che, in essa, abbia fatto fortuna Hegel e la sua dialettica di superamento e conflitto permanente, l’ “inquietudine del negativo”. E oggi come stanno le cose? Non v’è dubbio che la realtà sia sensibilmente diversa, nel senso che, oggi, il Moderno è letteralmente imploso, senza neanche più avere un’eredità da distribuire o da dividere. Il Moderno dunque, per essere più precisi, si è rovesciato su se stesso. Se approfondiamo lo snodo della crisi, nella sua genesi storica, non possiamo non osservare che, fin dagli anni ottanta, anni fecondi nella valutazione critica della 1
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La fine della storia e la necessità di Dio

1.Cos’ è oggi la modernità?

Cos’ è oggi la modernità? Certo non è più il modello storico, culturale, etico ed antropologico che dagli inizi del XV° secolo fino al tardo XX° secolo ha dominato. Si percepisce piuttosto il senso della fine delModerno. Si tratta di una tesi già documentata negli annicinquanta. Ma ciò non significa molto, dal momento che ilModerno ha vissuto molte fasi di erosione interna. Il Moderno, auto-concependosi come l’unica Tradizione intellettuale in grado di sostituire la Cristianità e, anzi, puntando i piedi risentita proprio contro il Cristianesimo nella sua espressione culturale e morale, non poteva che avere in sé la chiave per registrare le sue permanenti crisi. Forse la modernità è costitutivamente crisi, scissione. Questo continuo lavorìo sostanziato di contraddizioni è stato sempre la modernità e non è casuale che, in essa, abbia fatto fortuna Hegel e la sua dialettica di superamento e conflitto permanente, l’ “inquietudine del negativo”. E oggi come stanno le cose? Non v’è dubbio che la realtà sia sensibilmente diversa, nel senso che, oggi, il Moderno è letteralmente imploso, senza neanche più avere un’eredità da distribuire o da dividere. Il Moderno dunque, per essere più precisi, si è rovesciato su se stesso. Se approfondiamo lo snodo della crisi, nella sua genesi storica, non possiamo non osservare che, fin dagli anni ottanta, anni fecondi nella valutazione critica della

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modernità, la filosofia e le scienze umane si interrogavano radicalmente sul “destino” della modernità,indicando con il termine-concetto “destino” più una sortevotata al compimento, quasi una necessità deterministica,che un termine finale. In altre parole: non si percepiva già allora la finalità e la vitalità del Moderno che sembrava destinato ad esaurirsi stancamente, senza più infamia, né lode. E mentre Koselleck annodava il legame tra la crisi politica dello Stato e la filosofia della storia (cfr. Critica illuminista e crisi della società borghese, Il Mulino, Bologna, 1972), il filosofo e sociologo francese Baudrillard registrava con acume un altro fatto: “L’evento prodigioso, quello che non si misura né dalle cause né dalle conseguenze, quello che crea la propria scena e la propria drammaturgia, non esiste più” (L’ illusione della fine o lo sciopero degli eventi, Anabasi, Milano, 1993, p. 35). E, con questo “sciopero degli eventi”, la modernità esauriva il suo compito di colonna secolare della Provvidenza, di araldo secolarizzato della Storia. Una storia senza più eventi è soltanto una storia con la “s” minuscola, o forse non è neanche più “la” storia e sitrasforma semplicemente in una gloria umana in sedicesimo. Dunque, la modernità, in più fasi e con molteplici linguaggi culturali (diversi eppure speculari:abbiamo visto la Germania e la Francia, ad esempio), è stata non soltanto messa in discussione, ma destrutturatanel suo laboratorio interno, nella sua radice teorica ed esperienziale. Una completa destrutturazione nel suo insieme. In realtà, la caratteristica della nuova forma del Moderno è il tempo post-ideologico, quasi un marchio di origine. Il Moderno è stato caratterizzato da un dominio ideologico, pressante e soffocante, mentre, nel medesimo contesto, gli apparati tecnico-riproduttivi della società e del costume moderni tiravano dall’altra parte, verso un disincanto progressivo del rapporto fra l’io e il mondo esterno. Due filosofi, Benjamin e Anders,sostengono la stessa verità: il mondo moderno è l’epoca

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della perfetta riproducibilità tecnica. E un mondo dominato dalla tecnica è, in realtà, già post-ideologico,sebbene attraversato da una molteplicità di esperienze ideologiche, dal comunismo al nazismo, i totalitarismi per eccellenza. Anders così si esprime in una originale opera filosofica del 1963, L’uomo è antiquato: “Il nostro mondo odierno è “postideologico”, cioè: non ha bisogno diideologie. Con ciò si vuol dire che non è necessario arrangiare retrospettivamente false concezioni del mondo,in contraddizione con il mondo, cioè ideologie, perché gli avvenimenti del mondo si svolgono già di per sé come uno spettacolo arrangiato. Dove la menzogna, a forza di mentire, diventa verità, la menzogna esplicita è superflua” (trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 211: primo volume). Questo estremo passaggio di iper-ideologizzazione, tanto che non c’è più alcun bisogno di ideologie è, di fatto, oggi ancora più nettamente evidente. Con la globalizzazione, avendo vinto l’apparatotecnologico-finanziario e la sua lingua di comando delle strutture sociali e riproduttive anche della cultura e del costume, questo dato è di per sé del tutto evidente: siamo, per così dire, al di là della verità e della menzogna. Dobbiamo ripartire da questo fenomeno storico per poi ricongiungerci ai molti nessi, dispersi in contesti differenziati, che il presente interseca, senza apparente unitarietà. Emerge, in altre parole, la disintegrazione del tutto in una infinità di dettagli. A ben guardare, percepiamo che a una società da noi ritenuta sostanzialmente unitaria, perché caratterizzata da una visione progettuale aperta al futuro, se ne sostituisca un’altra, infinitamente più complessa, segmentata, e differenziata nella struttura e nelle relazioni che, per quanto rivendichi a sé una più facile ed efficace partecipazione di tutti, in realtà, non presenta riferimenti etici, antropologici e culturali comuni e, di conseguenza, rimandi facilmente riconoscibili. Non è più possibile, dunque, identificare

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un’immagine sintetica della storia, un quadro simbolico che ne presenti la pienezza. Non esiste più un quadro concettuale unitario che consenta di leggere in maniera intelligibile i frammenti storici disseminati nei mondi umani. La tesi si accosta a quella di Baudrillard sullo “sciopero degli eventi”, con in un più l’accentuazione della frammentazione in corso del piano storico universale, ciò che oggi definisce quanto rimane della modernità. La tesi è ben ancorata alla realtà, ma deve essere meglio definita rispetto ad un punto: non è vero che gli uomini abbiano una crescente consapevolezza delladestrutturazione della modernità, in realtà essi subiscono questo processo, tanto che la libertà individuale, nello spazio della post-storia o fine della storia, si riduce progressivamente. Subentra una sorta dideterminismo così particolare e non ben identificabile, tanto da passare inosservato. Eppure, si tratta di qualcosa di così presente e concreto. Inafferrabile e, insieme, inoppugnabile. Una inesorabile presenza. Un determinismo spinoziano. Cos’è, infine, la libertà individuale, nella post-storia?.

2.La fine della storia

La modernità, lo sappiamo, si è identificata sostanzialmente con tre fattori: a) la storia dell’uomo in ogni sua variante, da quella individuale a quella sociale; b) la secolarizzazione che ha prodotto infine l’immanentismo assoluto; c) il controllo della natura da parte dell’uomo.Basta leggere le opere fondamentali dedicate alla filosofia della storia – da Marrou a Löwith – per comprendere che il Moderno si è preteso dominio esclusivodella storia umana, dunque luogo e condizione essenziale della Weltgeschichte, della storia del mondo. In questo

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preciso senso, il Moderno ha trovato in Hegel – e non poteva che essere così – il suo mèntore filosofico ideale. Infatti, nel disegno hegeliano di una filosofia della storia conchiusa in se stessa e in se stessa autolegittimantesi, nel dominio storico e logico di una razionalità assoluta, si celebravano i fasti della modernità di Napoleone, dello Stato etico e del primato teoretico dello Spirito Assoluto. Marx e il materialismo storico sono certamente il frutto maturo e, ad un tempo, contraddittorio, di questa figura di razionalismo assoluto immanentista. Il comunismo e l’ideologia violentemente statolatrica del totalitarismo staliniano, strumenti del controllo totale della società, compiono inmaniera tragicamente esemplare il percorso del razionalismo assoluto hegeliano. Sarà questa la lettura che tanto Lenin quanto Togliatti daranno del comunismo come pensiero della rivoluzione e dell’egemonia del Partito sulla società. Su questo fondamento nasce e sullacrisi di questo fondamento entra profondamente in crisi l’intero progetto del Moderno. Caduto il Muro di Berlino,del Moderno non si potrà più ragionare secondo gli schemioriginari. E ciò condizionerà inevitabilmente anche le concezioni politiche radicalmente anti-comuniste, quali il liberalismo (oggi, a dire il vero, da ripensare interamente) e il socialismo democratico e liberale. Cosaaccade, in sostanza, con l’implosione del “comunismo di Stato” e, dunque, del progetto ideologico del Moderno? Inprimo luogo, un fatto: la fine della storia. Fukuyama, inrealtà, non ha tutti i torti, da buon allievo di Hegel e Kojève. Salvo che il suo schema, riduttivamente occidentalista con ritorni di matrice razionalistica e infine ideologica, il che introduce un’immagine di Occidente liberaldemocratico un po’ artificiosa (anche senon irreale, come molti suoi critici hanno detto, prendendo un abbaglio), non spiega le successive vicende in cui è coinvolta la modernità, non più identificabile con la storia universale del mondo. Finisce, così, la

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storia come Storia Universale del Mondo, come Weltgeschichte, e questo evento, del tutto imprevisto, ha molte ripercussioni sul presente. Una prima evidente conseguenza è l’emergere di un multiversum storico, cioè di molte storie regionali e locali, che si pongono oggi in modo nuovo ed originale al centro delle vicende mondiali dell’umanità, pur rimanendo, almeno a prima vista, sul piano geografico e culturale, in periferia. Macosì non è: la periferia del mondo non è più distante dalcentro dei grandi fatti mondiali, dalle precipitazioni edaccelerazioni delle crisi, anche, spesso, dalle catastrofi mondiali. Inoltre, continenti come l’Africa, tanto quella settentrionale, quanto quella sub-sahariana e, ancora, la Cina, l’India, la Russia, ma anche la Cecenia e la Nuova Zelanda, e paesi come la Svezia, la Danimarca e la Norvegia, sono in questo tempo assai centrali e cruciali: mille storie uniche che sembrano trovare una nuova identità in un concetto divenuto, di fatto, un grande contenitore astratto, la globalizzazione, un concetto ancora sostanzialmente da pensare, nei suoi fondamenti. Ecco, dunque, che la secolarizzazione e l’immanentismo assoluto non fornisconopiù le chiavi ermeneutiche per comprendere il disfacimento del modello originario che fa capo alla modernità. E perché? Intanto, a causa della presenza invasiva di alcuni fenomeni di fondamentalismo religioso,i quali si rovesciano poi in nichilismi violenti. Il terrorismo islamico è il trait d’union tra la disgregazione della modernità, che non ha mai toccato profondamente le radici culturali, etiche e sociali dell’Islam e l’Occidente scristianizzato, da un lato, e dall’altro fortemente debitore a Benedetto XVI di una visione della storia compiuta sia sul versante teologico, sia sul versante politico. Benedetto XVI è il Papa che parla allastoria, drammaticamente immerso in essa, come ha detto agli ebrei durante le giornate della gioventù a Colonia. E questo Pontefice, inoltre, non recide affatto il legame

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con la verità, quando dialoga con l’Islam, distinguendo perfettamente tra l’apertura a tutti i semina Verbi, cioè i segni del Divino, seguendo la sensibilità teologica e la dottrina dei Padri della Chiesa, e lo svuotamento del messaggio cristiano, che deve essere sempre incentrato decisamente sulla Verità di Cristo. E quando il fondamento è altro, avviene lo svuotamento del Cristianesimo. Non a caso, Papa Ratzinger aveva, anni fa,scritto ben due opere di chiaro impegno cristologico ed ognuna di queste era dominata dalla contemplazione di Cristo Crocifisso e Redentore. Su questa base spirituale,con un forte impianto cristologico, la realtà del Cristianesimo si concreta come sostanza viva della storia, pur alla fine del suo percorso moderno, e riapre il discorso, anche sul piano intellettuale, sui fondamenti della Cristianità. Girard ha lavorato molto battendo questa pista cristologia e innervando così di teologia la sua diagnosi antropologica sul sacrificio legato al Sacro. L’esito della riscoperta della Croce di Cristo è stato la centralità di un Cristo non compassionevole, repellente anche a Nietzsche, ateo raziocinante e perciò non piegato al “pensiero unico” deldevozionalismo caritatevole. Manteniamo, dunque, sullo sfondo questo complesso di “nuovi segni dei tempi”, per dirla con Ruini, poiché, attraverso queste piste apparentemente distanti, ma di fatto assai contigue, riusciremo ad identificare la qualità e lo spessore del problema connesso alla fine della storia ed alla conseguente necessità di Dio. Sul piano propriamente storico-politico, registriamo la presenza di almeno tre modelli di reazione al terrorismo islamico, che recano con sé tre modi omogenei e speculari di concepire la finedella storia. Possiamo indicarli facendo riferimento ai tre paesi coinvolti in questa complessa ed interminabile opera difensiva: gli Stati Uniti di Bush; l’Europa continentale, in particolare la Francia di Chirac, e la Russia di Putin. Sullo sfondo, permangono la Cina e

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l’India, che non recitano affatto la parte dei convitati di pietra. Questi due giganteschi paesi, due continenti in realtà, rendono ancora più complessi i lineamenti geopolitici caratterizzanti la fine della storia.In questa cornice densamente intricata e forse fin troppocomplessa, l’elemento religioso riemerge e, quasi come unfiume carsico, tende, in alcune occasioni a ritornare negli abissi della storia umana, o, almeno, di ciò che diquest’ultima rimane, nei termini classici e fino ad ieri universalmente intelligibili. Eppure, ora riemergente, ora obliterata, la religione c’è, ritorna, riappare e spesso incide sulle azioni umane, anche collettive. Domandiamoci, allora: in quale forma determinata permane e riemerge l’elemento religioso? Certamente - possiamo dirlo recuperando quanto sostenuto prima – nel dialogo serrato con la storia contemporanea, con quei frammenti di esperienze storiche che cercano un volto unitario. Come mostra chiaramente Benedetto XVI. Ma questa è solo una delle forme espressive della religione oggi. Ne coglieremo altre procedendo nella nostra analisi critica del presente, inaugurando, cioè, una filosofia del presente e nel presente, capace di dischiudere il senso, ancorché provvisorio, del caos veicolato dalla fine dellastoria.E veniamo all’ultimo punto sopra indicato: l’impossibilità dell’uomo di dominare la natura. E così il cerchio si chiude, lasciando dietro di sé molti frammenti e spezzoni problematici, quasi ci trovassimo difronte ad uno specchio rotto difficilmente ricomponibile in ogni sua parte. In breve: oggi non c’è più l’homo faber. Quell’eroe della modernità, il soggetto dominatoredella natura, capace di manipolarla sulla base di una conoscenza approfondita, confidando in un atteggiamento positivistico ed ottimista del progresso, frutto dell’ideologia scientista. Dunque, scomparso l’uomo storico secolarizzato e dominatore della natura, cessa diesistere anche l’homo faber in quanto tale. Storia e

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natura risultavano compresi, nel Moderno, in un unico disegno universale. Oggi non è più così. In sostanza, nonè più l’uomo a dominare la natura attraverso l’uso tecnicamente calibrato degli strumenti tecnologici, concepiti come mezzi sempre positivi ed adatti a migliorare la vita dell’uomo, ma è la tecnologia a dominare l’uomo. La tecnologia si trasforma in entità autonoma, indipendente dal controllo dell’uomo. All’uomo,allora, sfugge oggi completamente il dominio della tèchnee, quando si azzarda a pretendersi dominatore degli strumenti tecnologici, diventa, di fatto, un neo-alchimista, un modello di scienziato bizzarro e infine pericoloso. E’ chiaro che, così, si chiude definitivamente la lunga epopea mitica, poi razionalizzata in molti modi e attraverso molti linguaggi, della “bontà” indiscutibile e acriticamente accettata, della tecnica e della tecnologia. Indubbiamente frutti della Cristianità, la tecnica e la tecnologia non sono più, nel nostro tempo, miti secolari e “strategie della rassicurazione”. Anzi, al contrario, costituiscono serie minacce per l’immaginario collettivo e per l’umanità. L’uomo, infatti, può nel nostro tempo ri-creare in laboratorio un altro modello di uomo, superando così il divieto divino di farsi dio della natura. Ma, con ciò, l’uomo delega ogni suo potere “creativo” alla tecnologia e scompare, di conseguenza, nel nulla della tecnica strumentale. I laboratori, nel nostro tempo, sono di fatto ricettacoli di un nichilismo tecnocratico divenuto dominante e, insieme, inquietante. Benedetto XVI, nel messaggio di Natale del 2005, ha giustamente affermato: “L’uomo dell’era tecnologica rischia di essere vittima degli stessi successi della suaintelligenza e dei risultati delle sue capacità operative, se va incontro ad un’atrofia spirituale, ad unvuoto del cuore”. Anche Fukuyama ha tematizzato questo cruciale problema nei termini, oggi non più apocalittici,della “sfida del Transumanesimo”, domandandosi: “Ma il

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principio fondamentale del Transumanesimo – che un giornoutilizzeremo la biotecnologia per diventare più intelligenti, meno propensi alla violenza e più longevi –è così stravagante? Una sorta di Transumanesimo è implicito in molte ricerche della biomedicina contemporanea”. E conclude: “Nessuno sa quali saranno le possibilità tecnologiche che potranno permettere agli esseri umani di auto-modificarsi. Ma possiamo già intravedere un risveglio dei desideri di Prometeo nel modo in cui utilizziamo certi farmaci, che alterano il comportamento e la personalità dei nostri bambini”. Occorre prendere posizione contro questo nuovo dominio tecnologico-scientista, che risulta infine essere una variante complessa e sofisticata della tecnocrazia. Cioè delle tecnostrutture. Combattere contro questa nuova ideologia scientista e tecnocratica, equivale, a detta diFukuyama, alla lotta contro il fascismo e il comunismo. Con un “nota bene” da considerare: mentre i totalitarisminovecenteschi in genere avevano un radicamento storico, oggettivo, culturale, per quanto aberrante fosse l’ideologia di riferimento, la tecnocrazia scientista è astratta e non radicata in un contesto visibile, alberga nei laboratori di tutto il mondo e si disloca là dove è necessario per sostenere un potere ideologico anti-umano.Ci troviamo, così, nel mondo dell’astrazione che diventa ideologia al servizio di un potere anti-umano. Certo, risulta a questo punto comprensibile la ragione per la quale, sempre secondo il politologo americano, la virtù necessaria per fronteggiare questa invadenza biotecnologia sia l’ “umiltà”, fermo restando il paradosso implicito anche nelle affermazioni appena riportate: cioè che l’uomo va a caccia di risultati eccezionali sul piano tecnologico, in particolare biotecnologico, recuperando l’impeto del Prometeo liberato, ma, alla fine, finisce per tornare ad essere unSisifo umiliato dallo stesso “potere” della tecnologia che lui non riesce più a controllare. Ecco il

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cortocircuito immanente all’azione umana. Un paradosso permanente che non può essere fronteggiato soltanto sul piano teorico ed analitico, ma comporta un impegno etico e pratico. Di qui la ripresa dell’umiltà come antidoto antico alla prepotenza arrogante delle tecnostrutture. Sitratta probabilmente di un richiamo destinato a rimanere retorico, tuttavia rientra in quel compito spirituale di cui Benedetto XVI sta ragionando da tempo. L’affidamento,nonostante tutto, alla strumentazione tecnologica, acriticamente assunta come la chiave della “salvezza” umana, produce una strana specie di nichilismo. Questo è il problema di fondo, ineliminabile, decisivo. Si tratta di un nichilismo che risulta come inevitabile esito delladebolezza dell’uomo, non più dominatore della natura e degli strumenti tecnologici, dei loro esiti sperimentali e pratici. Un nichilismo, dunque, radicalmente differenteda quello tematizzato sia da Nietzsche che da Heidegger, per non parlare di quello, insostenibile e teoreticamenteinfondato, di Severino. Un altro modello di nichilismo che chiude definitivamente l’epoca della modernità. Finisce, così, quella epoca moderna dominata dall’homo faber e comincia improvvisamente il momento estremo e difficilmente intelligibile del nichilismo tecnologico e tecnocratico. Una sorta di “grado zero” della tèchne, fino a ieri ritenuta al servizio della specie umana e di ogni singolo uomo. Non servono certo le categorie heideggeriane per cogliere il percorso e la dinamica di questo nuovo evento post-storico; né la sua retorica sintetizzata dalla nota espressione, “solo un dio ci può salvare”. Il mutamento in corso trascende queste evocazioni anti-tecnologiche. Servono nuove categorie, non più novecentesche, e Heidegger rimane ancora un uomo e un pensatore del Novecento. Il Soggetto cartesiano, capace di costruire certezze teoretiche ed epistemologiche da applicare alla natura, con il preciso obiettivo di conoscerla, non esiste più. Niente più “ragione strumentale”: questo processo, che ha

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cinquant’anni di storia, oggi diventa un’atmosfera di fine secolo. Insomma, che ne è, infine, del Soggetto dominatore della natura e che si pone al centro di essa? Certo, questo modello di Soggetto non c’è più e, al suo posto, troviamo l’astratta tecnocrazia fondata su base scientifica, cioè, in ultima analisi, uno scientismo ateoe materialistico. Un’altra ideologia o “ideocrazia”, che nega la realtà concreta della persona per dominare e controllare la società, al pari del totalitarismo comunista. Un prodotto nuovo di questa fase terminale cheabbiamo definito: fine della Storia.

3.L’ideologia della sostituzione: un errore teorico

Un dato è ormai assodato: il vuoto non può esistere né nei fenomeni naturali, né in quelli storici. Ecco perché risulta comprensibile che oggi, al vuoto della fine dellastoria, in presenza della rivoluzione globale e della tecnocrazia scientista, che procede parallelamente alla prima, si faccia largo una passione coinvolgente per il Sacro e per la Religione, evidentemente concepiti entrambi come “tappabuchi”. Abbiamo già detto che la finedella storia equivale sostanzialmente alla fine di uno specifico modo di pensare la storia - quello che la modernità ha reso universale e quasi “dogmatico” - nei termini di Storia Universale del Mondo, la Weltgeschichte. In questo scenario, le esperienze umane accadono nel vuoto di una percezione universale e sottoposta ad un unico criterio cogente, senza più criteri di “conferma” delle azioni individuali e collettive. Si tratta di un vuoto storico? Emerge il fenomeno religioso, dunque, come“tappabuchi”? Il “Dio tappabuchi”, criticato a fondo, e per certi aspetti ingiustamente, dal teologo e pastore luterano Dietrich Bonhoeffer, impiccato nel lager nazista

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di Flossenburg il 9 aprile 1945, sta così riprendendosi il centro della scena del teatro post-storico? Si parla, con sempre maggior frequenza e in varie modalità, di “religione fai-da-te” e si invoca un ordine interno al senso religioso, uno stabile fondamento sacro della vita umana. Di che si tratta? Ad una prima lettura, di una specie di religione agnostica, di una religiosità senza alcun rapporto con il Dio vivente, “amante della vita”, come recita la Bibbia. Valgono, allora, le parole della filosofa della morale Martha Nussbaum, che così scrive: “La religione aiuta gli individui ad affrontare il senso di perdita e la paura della morte; trasmette princìpi morali e motiva le persone a seguirli”. Le persone aderiscono ad una religione per trovare conforto e sostegno, un senso, seppur primordiale di comunità, come anche molta sociologia contemporanea sostiene: “Aderire auna religione che si ritiene essere quella giusta, circondarsi di seguaci dello stesso culto e infine costringere gli altri ad accettare quella religione, può far dimenticare per un momento la propria fragilità” (FPglobal, n. 5 Novembre/Dicembre 2004, p. 47). Tesi non nuova, già affermata dalla psicologia delle masse di Le Bon e poi sviluppata dalla sociologia organicista di Durkheim, decisamente favorevole allo sviluppo di un senso di appartenenza alla comunità ed allo Stato fondatosu basi di religiosità, fosse essa laica o confessionale,purché concepita e vissuta come una funzione di legittimazione dell’ordine sociale e politico e, conseguentemente, non confliggente con la sovranità del potere pubblico, ritenuto praticamente assoluto. D’altro canto, è anche vero che, in un mondo globalizzato, radicalmente altro dal “piccolo mondo antico” dai ristretti confini, è assolutamente necessario dire “chi si è”. Come è, parimenti, decisivo disporre di criteri razionali ed etici per distinguere la propria identità, vissuta ed affermata all’esterno, da quella altrui. L’identità, così, non si lega al fondamentalismo, ma ad

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un altro bisogno costitutivo, la comunicazione del proprio “Io” identitario. Questo genere di domanda, relativa al nesso identità-religione, al di fuori di una banale e fin troppo rassicurante (almeno per i laicisti) condanna del “fondamentalismo cattolico”, figlio di una super-identità confessionale, circola anche in area culturale neomarxista, soprattutto nella nuova serie di Critica marxista. Giuseppe Chiarante, in un articolo che recail titolo: Da Wojtyla a Ratzinger. Pensiero forte o crisi delle ideologie? (n. 2-3 anno 2005, pp. 9-15), pone esattamente il problema del vuoto culturale ed etico-politico del nostrotempo, comparando le ricadute politiche del messaggio di Benedetto XVI con l’assenza di un “pensiero forte” in politica, in area laica non credente. Chiarante coglie laportata della questione nei termini corretti, “domandandosi, in particolare, se si tratta davvero di un’effettiva e robusta ripresa religiosa, sia pure favorita dal declino della cultura laica e dall’eclisse di altre ideologie teoriche e pratiche. O se, al contrario, siamo in presenza di un processo molto più complesso e contraddittorio, e nel quale, quindi, occorrescavare più a fondo” (p. 9). Infatti, riconoscendo valoreoggettivo alle critiche teologiche della modernità di Ratzinger, l’autore marxista tenta una fuoriuscita dal grave impasse della filosofia laica non credente, recuperando una vecchia posizione di Bonhoeffer: “Il trascendente non è l’impegno infinito, irraggiungibile, ma il prossimo che è dato di volta in volta, raggiungibile”. Il testo si trova in Resistenza e resa e non è francamente così rilevante, ben più ricco e denso di suggestioni teologiche è quello che indica il futuro del mondo in un cristianesimo senza religione. Discutibile passaggio, certamente, ma in ogni caso significativo di un certo modo di ricomprendere il senso religioso come capacità di vivere interamente la realtà. Chiarante, da parte sua, pur non andando molto oltre un’etica della liberazione, alla Dussel, mutuata in parte anche da

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Lévinas, richiama al problema centrale che la religione pone all’ideologia laicista. In sostanza, la questione appare in questi termini: assistiamo all’abdicazione del pensiero laico, che non riesce ad esprimersi se non che attraverso espressioni laiciste, oppure all’oggettiva impossibilità da parte di questa figura di pensiero a leggere i “nuovi segni dei tempi”, in primo luogo le grandi questioni antropologica, etica e bioetica? Il problema è cruciale, dal momento che, al di fuori della tematizzazione di questi grandi capitoli del pensiero occidentale contemporaneo, non può darsi praticamente alcuna politica fondata su basi certe ed oggettive. Poiché la modernità ha fissato e definito il linguaggio che ancora oggi descrive il nostro modo di esprimere la realtà politica contemporanea. Un linguaggio novecentesco, largamente superato dalla realtà storica, ma che, prima di essere gettato alle ortiche, deve trovare una degna sostituzione, un altro modo di pensare e dire la realtà dell’epoca della globalizzazione. Tuttavia, la questione, posta in questi termini, non esaurisce ancora le problematiche contemporanee, relativeai nuovi bisogni degli uomini e delle donne e ai “nuovi segni dei tempi”, le pone solamente, e in modo non del tutto definito, nulla più. Il punto di vista da adottare,d’altra parte, deve risultare convincente sul piano antropologico, perché la questione della ricerca religiosa come sostituzione delle ideologie non più dominanti nella nostra società si lega ai bisogni umani, che certamente sono quelli di appartenenza e di identità,ma vanno anche oltre e toccano la sfera della religiositàe della fede. La chiave di lettura marxista può soltanto individuare lo spazio storico-culturale delle domande, manon è in grado di fornire risposte adeguate a queste ultime. Inoltre, la realtà è ben più stratificata e complessa del quadro descritto dalla sociologia contemporanea e dalla filosofia della Nussbaum, nel testosopra citato. Ciò significa in concreto che,

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parallelamente a questo movimento di recupero per così dire “ideologico” della religione “tappabuchi”, registriamo il riemergere chiaro di un “Sacro selvaggio”,una sorta di legittimazione di qualsiasi linguaggio, anche vagamente “religioso” o “mitico” - facendo riferimento al “mitico” secondo il pensiero di Mircea Eliade, che fa riferimento al livello simbolico che esprime la totalità dei fenomeni dell’esistenza umana - emagari facendo paradossalmente riferimento ad un linguaggio, seppur vagamente, “pagano”, anch’esso ritenuto valido e legittimo, al pari della fede cristiana, inclusi i termini culturali e simbolici di quest’ultima. Già De Benoist, l’ideologo fondatore della “Nouvelle Droite”, aveva scritto della possibilità di ritornare ad essere pagani, riaffermando pienamente la grecità come mito unificante dell’Europa. Un’assolutizzazione anti-storica delle radici dell’Europa, che tornano oggi alla ribalta dopo la loro cancellazione, nella loro espressione adeguata, vale a dire nei termini della Cristianità, dal testo della Costituzione europea. Dunque, come si vede, De Benoist aveva anticipato una crisi che giaceva da tempo nel cuoredella cultura europea. Ebbene, qual è il filo rosso che lega ciascuna di queste “soluzioni” da noi ritenute inadeguate? Innanzitutto un vizio di origine: si tratta sempre di una ideologia studiata a tavolino. E la cosa non deve destare stupore, perché ogni ideologia è un artefatto della mente, che si astrae giocoforza dai contenuti oggettivi della realtà, siano essi umani oppurestorici, onde affermare l’Idea della realtà. Evidentemente pre-confezionata. Cos’è questo, in ultima analisi, se non un “mentalismo” (una “ideocrazia”, in altre parole) che censura deliberatamente gli autentici bisogni ed i veri desideri dell’uomo, privilegiando, di contro, un modello di società e di cultura da applicare indistintamente a qualsiasi comunità umana, qualunque siano le condizioni storiche determinate e qualunque sia

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la comunità umana coinvolta in questo processo? Questo rischio, a dire il vero, è presente anche in certe forme di adesione a modelli di religione civile, strumentalmente volti alla legittimazione dell’azione politica. In questi casi, più che del vecchio schema di “religione come instrumentum regni”, si tratta di una ideologia “occidentalista”, fondata su una falsa idea di un “Cristianesimo senza più la fede”. Speculare e talvolta polemicamente configgente, la posizione degli “atei devoti”, che rappresentano un paradosso e non conducono all’approfondimento di quel che veramente latita nel mondo occidentale: la fede. Su questa drammatica mancanza, dobbiamo piuttosto seguire il pensiero di Benedetto XVI, per avere il “polso” della situazione e proporre alcune soluzioni. Poiché è evidenteche, senza la fede, il vero fondamento del Cristianesimo e della Cristianità, vale a dire della Civiltà Cristiana,gli esiti di questa operazione non potranno che risultaresmaccatamente ideologici. Anziché storici, come nel caso dell’affermazione corretta dei termini del problema: il Cristianesimo è intrinsecamente politico perché è storico. Ciò significa che, piaccia o non piaccia, il perno oggettivo e teologicamente cruciale del Cristianesimo è l’Incarnazione che apre la strada, nella Chiesa concepitacome Corpo Mistico e storico di Cristo, ad un Cristianesimo appunto “incarnato” e, in ragione di ciò, storico. Dalla storicità del Cristianesimo deriva la politica nel e del Cristianesimo. Esattamente quanto Lévinas, nel suo scritto, Un Dio uomo?, nega alla radice, ponendo al cuore della sua riflessione filosofica e messianica l’idea di “sostituzione”: il Dio che si incarna “sostituisce” la Divinità con l’Umanità, vulnerando irreversibilmente il principio di identità soggettiva e negando l’idea stessa di responsabilità etica e personale. L’Incarnazione, così, sarebbe una specie di anti-umanesimo “deviante” e il Cristianesimo un

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“messianismo imperfetto”, con le inevitabili conseguenze sul piano della “responsabilità” di fronte al “volto dell’altro”. Una ideologia messianica, questa, che si infrange contro il muro della storia, al contrario della cultura cristiana. La Chiesa di oggi si pone agli antipodi di questo messianismo gnosticheggiante, facendo vibrare la responsabilità individuale del cristiano nel grigiore della storia e nello scenario del nulla del teatro post-ideologico. Sbaglia, dunque, anche il teologobenedettino Salmann quando afferma, in modo evocativo: “Se riuscissimo a cogliere il Cristianesimo come fenomeno, come paesaggio, forse sarebbe di nuovo più allettante, potremmo scoprirvi una grazia, una parola potente, una comunione” (Contro Severino, Piemme, Casale Monferrato, (AL), 1996, p. 317). E’ l’esatto contrario: èla post-storia che oggi ricerca il Cristianesimo proprio per ricongiungersi al Mito rifondatore di un senso, al Mistero rievocatore del destino dell’uomo. E Papa Ratzinger oggi parla appunto alla storia ed agli uomini storicamente impegnati nei risvolti contraddittori della storia contemporanea, soprattutto nella rivoluzione globale, proprio perché assume seriamente e rigorosamente, fino in fondo, il criterio dell’Incarnazione. Benedetto XVI appare oggi più vicino al genio poetico e teologico di Péguy che a qualsiasi altro velleitario progetto di “restaurazione cattolica”, da lui, infatti, sempre criticato e respinto.Non sono, così, queste le vie e le soluzioni adeguate alla ripresa della fede e del senso religioso nel tempo post-storico. Né la via ideologica, né la via restauratrice. La strada è la storia interpretata alla luce della fede. Dunque, la strada è il Cristianesimo come Fatto globale capace di contenere in sé ogni momentocritico e drammatico della storia contemporanea. E capaceanche, per quanto storicamente possibile, di fornire una risposta o, almeno, una ipotesi plausibile e ragionevole di risposta.

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Ciò comporta evidentemente che il Cristianesimo ritorni ad essere un fatto non meramente privatistico e, come tale, individuale, mal sopportato dalla cultura contemporanea, anche perché, come hanno riaffermato il Card. Scola e uno studio della rivista Il Mulino, la civiltà italiana è ancora culturalmente cattolica. La nostra è certamente un’epoca travagliata, ma anche autenticamente affascinante e ricca di chances di vita, nella quale urge affermare la verità della testimonianza cristiana, rendendola fattore di ripresa della chiarezza sulla realtà umana in quanto tale e in ogni suo aspetto determinante e specifico. In qualche modo, ritorna la necessità da parte della Chiesa di porre il soggetto, cioè di porre un soggetto nuovo, in grado di invitare lasocietà post-storica - che si è spinta addirittura oltre l’affermazione dell’irrilevanza del Cristianesimo, propria della società cosiddetta “post-moderna” – a rendere ragione di se stessa, nei suoi princìpi fondamentali. Esprimendoci con la terminologia tradizionale della Chiesa, potremmo ridire la parola “martirio”, vale a dire martirìa, testimonianza, quella parola al centro dell’ultima riflessione di Balthasar e affrontata in altra modalità anche da un Vescovo di fortetempra pastorale come Maggiolini. Naturalmente, tutto ciòal di fuori della duplice caratterizzazione descritta da Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi, i “maestri” e i “testimoni”. Non di questo si tratta, siamo al di là di questa contestalizzazione puramente evocativa, che non dice molto sullo spessore dei problemi della modernità, né sulle possibili soluzioni. Il problema, insomma, anchecon Papa Ratzinger, torna ad essere quello classico e mairisolto una volta per tutte dal Cristianesimo cosiddetto “moderno”: come può la comunità cristiana, cioè la Chiesa, nuovamente contare nella storia, nella vita dei popoli e delle persone? Non siamo più nello spazio della tragica aspettativa della “fine della Cristianità”, che ha riempito biblioteche intere di studi e diagnosi

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funeste; il quadro, oggi, è piuttosto legato alla nuova specificità della fede personale, al nuovo modo di incontrare Cristo nella Chiesa, ma anche nel mondo. In fondo, il tema della tragedia della “fine della Cristianità” è ancora l’appendice di un’escatologia negativa, pessimistica e anti-progressista, dunque ancorainserita nel contesto della Tradizione Cattolica, della sua “linea d’ombra” di profezia negativa mai tramontata (il tradizionalismo è l’ideologia clericale che meglio rappresenta questa visione della fede e della storia): oggi, per contro, la cornice è profondamente cambiata e paradossalmente pone meno problemi rispetto al declino oggettivo della fede e dei collegamenti culturali a quest’ultima. Ecco, così, che il tema dell’unità tra fedee vita è ancora una volta decisivo e ripropone la presenza delle fondamentali categorie cristiane, operativamente coinvolte nell’elaborazioni di interpretazioni e risposte delle più drammatiche problematiche contemporanee. Si riparte dai “fondamentali”: questa appare la cornice teologica e culturale del Cristianesimo di oggi. In questo senso, la comunità cristiana, la Chiesa è sì un soggetto in qualchemodo politico, facendo però bene attenzione a scandire bene la dimensione di questa “politicità”, che non deve mai essere confusa con una riedizione della formula, per certi aspetti equivoca, “politique d’abord”. La “politica” per la Chiesa è la risultante dell’intervento della fede del cristiano nella società e scaturisce da unprofondo contatto con il Mito e il Mistero. Entrambe queste dimensioni, il Mito e il Mistero, che sono recuperabili dall’Evento dell’Incarnazione, anche secondofilosofi del calibro di Henry e Rosenzweig, quest’ultimo,ebreo, inoltre, si occupa di questa realtà della fede da un punto di vista ebraico parzialmente convertito alla logica della fede cristiana. Non a caso, sono questi due filosofi, molto più radicalmente di Lévinas, paradossalmente invece ammirato nel mondo intellettuale

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cattolico “modernista”, a ridefinire originalmente nelle cornici analitiche dei loro pensieri la categoria di “verità”, accentuando adeguatamente la sfida con il nostro tempo. Una sfida di fronte alla verità. Nel tempo della rivoluzione globale.

4.L’ateismo, passione “triste”

Secondo Lèvinas, l’ateismo, come esperienza umana, è la “separazione” dell’interiorità della coscienza dal regimedella Verità, senza il quale non può neanche porsi l’ideadi una Weltgeschichte, di una Storia universale. Questa tesiè centrale nell’economia della sua opera fondamentale, Totalità et Infini (1961). L’idea di una Storia Universale, chesi incarna nel mondo storico, umano e culturale, è una pura utopia e mostra come sia difficile, già dagli anni sessanta, tematizzare la realtà dell’ateismo, sempre più indecifrabile nella tarda modernità. Un problema rilevante. Cos’è l’ateismo nel tempo della rivoluzione globale? Il problema si lega a quello della ridefinizionedella fede come Mito e Mistero. Perché l’ateismo, in ognicaso, è sempre il frutto di un “pensiero forte” e di una dimensione etica della ragione che, pur tra mille contraddizioni, cerca, anche con accenti disperati, un brandello di verità. Ma cosa accade quando non viene neanche più posto il problema della verità in quanto tale? Perché questo è, di fatto, il timbro culturale del nichilismo, indipendentemente dalle varie scuole di pensiero. La domanda che Pilato pone direttamente a Gesù,“cos’è la verità?”, è diventata l’atmosfera dominante delnichilismo. Questa domanda è oggi una domanda retorica, un periodo ipotetico dell’irrealtà, un assoluto non-senso. Tutto è giustificabile, ad eccezione della verità e della sua ricerca come valore assoluto e bene prezioso per la persona e l’umanità. Benedetto XVI, con la sensibilità filosofica tesa all’indagine dell’attualità,

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quando tematizza l’anti-relativismo sistematico, non intende affatto compiere un’operazione ideologica di “restaurazione” di un’antica idea di pensiero cattolico, ma, in realtà, e ben più significativamente, sta mettendoin questione il vero punto teorico e pratico da affrontare nel nostro tempo: la totale assenza di qualsiasi idea di verità. Ecco lo snodo oggettivo del tempo post-moderno o, per dirla con il linguaggio che vogliamo articolare in questo lavoro, del tempo post-storico. La storia finisce come articolazione compiuta disenso nella misura in cui l’idea di verità non trova più una seppur minima scansione logica. Senza una grammatica della verità, non può sussistere neppure una sintassi della storia. Rimangono solo le regole e le procedure, neppure un brandello di Senso capace di delineare oggettivamente e universalmente la storia. Il mondo post-moderno è il teatro delle regole e delle procedure formali. Non a caso, gli antropologi, i cultori del “dogma” relativista per eccellenza, hanno posto all’attenzione del mondo contemporaneo il mutamento delloscenario secondo i tratti da noi sopra evidenziati, ma l’hanno fatto senza alcun senso critico, semplicemente prendendo atto acriticamente del cambiamento rispetto alla modernità, sic et simpliciter. L’ideologia delle procedure e della retorica formalistica elevata a nuovo costume del pensiero, ad “etica del limite”, che nasconde, infine, la resa all’indebolimento del pensiero occidentale. Viene così teorizzato un “fondamentalismo razionalista illuminista”, che rifiuta qualsiasi “rivelazione assoluta”. La posizione di base del fondamentalismo razionalista assolutista è la seguente: assolutistico e non relativistico nella procedura, sempreassolutista e non relativista nella sua convinzione sostanziale più importante. E la convinzione dominante diquesta “scuola di pensiero”, decisamente post-moderna, è che non esistano certamente rivelazioni religiose assolute alle quali aderire, ma che, per contro, esistano

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procedure formali e metodologiche alle quali aderire senza discutere. Nelle ricerche bisogna procedere in un certo modo: questo principio è sicuramente transculturale, non deve niente a nessuna cultura, ed è anche in qualche modo ultramondano. In qualsiasi mondo venissimo a trovarci, ci sarebbe sempre un solo metodo per esplorarlo. Assolutezza delle regole formali, delle procedure e del metodo; totale cancellazione di qualsiasirivelazione assoluta, religiosa e/o mitica. Un ateismo salvaguardato dalle stampelle del proceduralismo. Una passione veramente “triste”, come quelle indagate da molti psichiatri contemporanei, dei giovani di oggi. Procedendo così, salta naturalmente l’intero congegno della ragione storica universale, la “ragione storica” diOrtega e Toynbee, e salta anche il processo storico che ha originato la modernità. Infine, il pensiero moderno inquanto tale, di cui oggi rimane soltanto la memoria o la sensibilità archivistica. Il suo “ordine del discorso” semplicemente non esiste più, cancellato dal post-modernoe dal tempo post-storico. La linea che lega il tempo al concetto, secondo la ragione universale di origine moderna, salta e, al suo posto, rimane soltanto il nulla della volontà soggettiva, la violenza individuale, la “s-grammatica” del soggettivismo: lo scenario del nostro tempo. Che coinvolge anche la memoria storica, sempre piùvulnerata dal dominio incontrastato dell’attimo e del presente: la fine della storia. Secondo la filosofia cristiana di Ferdinand Ulrich, fondata su una rilettura del pensiero di Tommaso con mediazioni balthasariane, l’essere appartiene alla dimensione dell’amore, che deriva da Dio e, insieme, costituisce lo sfondo della storia umana. Non nel senso sentimentale, ma in quello, ormai dimenticato, ontologico, vale a dire come calco riproduttivo della cura di Dio Creatore nei confronti della storia. Quando questo fenomeno non viene più concepito dalla mente umana, subentra una forma di ateismo che non può che cogliere la storia sotto forma di

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frammento, come storia “dissociata”. E il divenire umano,non più assunto nella sua dimensione teologica, diventa puro immanentismo, culto ateo del “progresso”. L’uomo dissociato dalla storia come luogo dell’epifania di Dio, diventa costitutivamente ateo, un ateo “pratico” direbbe Evdokimov. Questa tesi, esposta nel saggio Atheismus und Menschwerdung (1966), riapre ancora una volta la questionecruciale: senza la dimensione teologica della storia, nonpiù percepibile nel tempo post-storico, il nichilismo diventa inevitabile, l’ultima Thule dell’esistenza umana,la “cronaca di una morte annunciata”. La morte della storia e del pensiero che ne fornisce adeguatamente le ragioni. Questa atmosfera può essere quella di un “nichilismo gaio” oppure il dominio dell’emotivismo, ma si tratta pur sempre di un nulla vissuto come vuoto e come implosione di qualsiasi orizzonte progettuale dell’esistenza. Siamo ben al di là del bene e del male, per dirla con Nietzsche, ma anche, a ben guardare, al dilà anche della laicità moderna, ci troviamo, così, nei bassifondi dell’esperienza, “ai margini del minimo esistenziale”, secondo l’efficace espressione di Benjamin. E’ la distruzione della ragione. La modernità, al suo apice, è stata razionalistica e moralizzatrice, inmolti suoi tratti, dall’ ”hegelismo senza riserve” (Derrida) al giacobinismo, tuttavia mai fragile e depotenziata in questa misura. In questa nuova dimensioneaerea e insieme violenta del nulla, non c’è più il drammadella ricerca, la ricerca come fine di pensatori moderni di formazione diversa ma uniti dal medesimo spirito moderno, come Ugo Spirito e Karl Popper. Per cogliere la differenza specifica tra il neo-nichilismo astratto e violento del tempo post-storico e la realtà autentica della razionalità non relativistica della razionalità moderna, è sufficiente leggere questa significativa pagina del filosofo polacco Kolakowski: “Se si vuol salvare ciò che l’uomo ha di più prezioso, e cioè la capacità di pensare in modo razionale, si deve

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risolutamente resistere alle tentazioni del relativismo, conservando, costi quel che costi, la fortezza dei valoriindistruttibili. Se, durante i grandi combattimenti, non rimane più nessuno in grado di esprimere con calma un giudizio spassionato, l’umanità è destinata ad una distruzione ancora più efficace di quella che potrebbe provocare una catastrofe cosmica” (Il marxismo e oltre. Responsabilità e storia (a cura di Pietro Veronese), Lerici, Cosenza, 1979, p. 34). Affermazioni condivisibili e condivise dalla dottrina cattolica: l’encicilica di Giovanni Paolo II, Fides et ratio (1998), muove da presupposti analoghi, declinati sul piano teologico, allariscoperta non soltanto della metafisica, ma anche della filosofia cristiana, descritta giustamente come un arcipelago di modelli e proposte metodologiche. In questodocumento papale, che ha fatto scuola anche nel mondo laico non relativista e non laicista, il relativismo è superato totalmente sul duplice piano della conoscenza oggettiva, da un lato, e dell’autocoscienza soggettiva, dall’altro: “Sia in Oriente che in Occidente, è possibileravvisare un cammino che, nel corso dei secoli, ha portato l’umanità a incontrarsi progressivamente con la verità e a confrontarsi con essa. E’ un cammino che si è svolto – né poteva essere altrimenti – entro l’orizzonte dell’autocoscienza personale: più l’uomo conosce la realtà e il mondo e più conosce se stesso nella sua unicità, mentre gli diventa sempre più impellente la domanda sul senso delle cose e sulla sua stessa esistenza” (n.1). La dimensione veritativa oggettiva era illuminata in maniera omogenea, ancorché sul terreno dell’etica naturale, dall’altra grande enciclica di Giovanni Paolo II, la Veritatis Splendor (1993). Osserva Papa Wojtyla: “Ogni uomo non può sfuggire alle domande fondamentali: “Che cosa devo fare?” “Come discernere il bene dal male?” La risposta è possibile solo grazie allo splendore della verità che rifulge nell’intimo dello spirito umano, come attesta il salmista: “Molti dicono:

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“Chi ci farà vedere il bene?”. Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto” (Sal 4,7)” (n.2). E le domande fondamentali rifuggono da qualsiasi “gabbia d’acciaio” di natura confessionalistica, avendo appunto come tratto unificante l’universalità e l’oggettività. Ogni uomo, osserva Papa Wojtyla, non può non porsi questedomande, indipendentemente dalle risposte che egli riuscirà a fornire, spesso dipendenti da fattori soggettivi e dalla storia individuale del tutto unica ed irriducibile a qualsiasi giudizio esterno. “La Chiesa, osserva il Papa, sa che l’istanza morale raggiunge in profondità ogni uomo, coinvolge tutti, anche coloro che non conoscono Cristo e il suo Vangelo e neppure Dio. Sa che proprio sulla strada della vita morale è aperta a tutti la via della salvezza” (n.3). L’impianto teorico non muta, anche quando l’accento venga spostato sensibilmente sul versante coscienziale e soggettivo, come nel caso dell’ipotesi filosofica, per la verità più suggestiva che convincente, di Marìa Zambrano, che pone il soggetto alla ricerca della verità in foro interiore, per poi diffonderla storicamente e pubblicamente a partire dal grado di comprensione raggiunto. Questo paradigma viene definito “confessione”, analogamente allageniale invenzione filosofica e mistica di Agostino, e sitraduce in un “genere letterario”, ma sempre mantenendo ferma la barra sull’obiettivo del raggiungimento, seppur a tentoni e per errori, della verità universale ed oggettiva. Il Cristianesimo, in ogni sua forma, anche la più originale, è e rimane una passione per la ricerca della verità, una “gaia scienza” della vita e della verità, liberamente cercata, nei limiti storici oggettivie, inevitabilmente, all’interno di un mondo di condizionamenti soggettivi. San Paolo descrive efficacemente la condizione umana nei suoi termini originari ed essenziali: “In Dio ci muoviamo e in Lui esistiamo”. Il Cristianesimo, con la sua passione superlativa per la verità, riafferma la vita nel suo

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aspetto più complesso e drammatico, senza mai censurare niente di veramente umano. Niente di veramente umano è estraneo al Cristianesimo. Questo atteggiamento rimane identico anche nella modernità, anche quando il confrontocon la secolarizzazione e la cosiddetta “società post-cristiana” si fa duro e radicale. Si badi: niente di più lontano dal sentimentalismo astratto della “teologia della gioia” che, oggi, nel vuoto dell’ortodossia e nel dominio dell’ortoprassi, giunge fino alle alte sfere della pastorale cristiana. Qui ciò che emerge è la drammatica passione per la ricerca spregiudicata della verità propria del Cristianesimo e il fatto, corrispondente e speculare, della presenza di un ateismo,che si rivela, per contro, una passione “triste”, cioè una dimensione interamente incapace di assumere, neppure sul piano critico-dialettico e/o “rivoluzionario”, il carico insopprimibile delle grandi domande di senso che gravano sulla vita degli uomini e delle donne del nostro tempo. Il vuoto nichilistico assume contorni inquietanti e, ad un tempo, provoca una reazione non più contratta daparte del pensiero cristiano e della Chiesa, che appaionopiù liberi nelle loro proposte rispetto al passato. Proprio perché Dio, nella dimensione pubblica del tempo post-storico, non è certamente il convitato di pietra, bensì l’Ospite inquieto ed inquietante, la pista per una nuova necessità di intelligenza e di comprensione della realtà storica contemporanea. Un Dio che riacquista i tratti biblici originari, del “mormorìo di vento leggero”che cattura Elìa, come anche del Segno provvidenziale, celato all’interno dei fatti più imprevisti, così come l’Esodo ci mostra in ogni sua pagina. Ecco la vera novità: Dio viene ricercato dagli uomini e dalle donne del tempo post-storico, esattamente perché non vi è più storia e, dunque, “solo il Dio della storia ci può salvare”. E’, questa, una chance e, ad un tempo, una necessità. Se non esiste più la Ragione universale del corso storico e, dunque, non esiste più la Storia nel suo

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disegno razionale universale, o la storia diventa una sommatoria di causalità e di accidentalità, oppure nel suo corpo abita il Mistero di Dio. E, così, Dio diventa necessario per rendere abitabile il progetto storico. Neltempo post-storico. Cadute le grandi promesse della storia secolarizzata e immanentizzata ad uso e consumo ora della dialettica rivoluzionaria, che può anche avere una versione “soft”, “riformista” e “socialdemocratica”, ora del “mercatismo” progressista che prende il posto della teodicea secolarizzata dispiegata dal materialismo storico, non rimane altra “uscita di sicurezza” che la fede concepita e vissuta come una necessità del cuore. Lanecessità di Dio si ricongiunge qui con la necessità da parte della coscienza soggettiva di recuperare frammenti di senso nel mondo vitale che la coinvolge con la società. Questa necessità si implica con l’altra necessità, quella che intende evitare l’anomìa della società. Si tratta, infine, come appare ad una riflessione critica ancora al suo inizio, di una fede capace di originare nuovamente una passione per la ricerca della verità e, congiuntamente, una passione non ideologica per l’uomo e la salvezza dell’esperienza storica del mondo globalizzato. Senza questi orizzonti, anche la politica, perfino nella sua dimensione più spicciola, non potrà fare molti passi in avanti, anzi si avvierà ad una lenta ma inesorabile consunzione per iper-soluzioni, direbbe Watzlawick, cioè per aver prodotto in quantità industriali speranze progettuali e promesse mancate nell’ora della redenzione secolarizzata. L’eccesso di gnosticismo circolante nel Moderno – ben studiato da Voegelin, Strauss, Pellicani e Del Noce - hanno impedito alle risorse umane di ritrovare la strada della speranza o, almeno del principio-speranza, in qualsiasi forma esso fosse declinato e declinabile. Se poi consideriamo che, senza il Cristianesimo, non avremmoavuto neanche la società moderna tecnologica e industrializzata, il capitalismo e la società aperta,

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ecco che la ferita della divaricazione tra il progetto originario del Moderno e la Croce di Cristo diventa davvero un peso insostenibile. E’ ciò che accade oggi. Come è possibile registrare aprendo i giornali o mettendosi in ascolto, in modo attento, delle persone, sempre più atomizzate e de-socializzate, da un lato, e vittime di un narcisismo aggressivo e violento, dall’altro. Scrive correttamente Geminello Alvi: “Sempre un esperimento casto ed estremo della libertà, ma non concluso, precede il nichilismo” (Dell’estremo Occidente. Il Secolo Americano in Europa. Storie economiche:1916-1933, Marco NardiEditore, Firenze, 1993, p. 172). In questo contesto non più meramente di crisi strutturale, ma di evidenza intellettuale della fine della storia concepita e vissutacome storia universale e coinvolgente ogni aspetto del mondo globalizzato, al pari delle vite personali, si aprono alcune domande ineludibili: 1) in realtà, non saràche la conoscenza possibile, oggi, in primo luogo quella scientifica, come anche quella culturale, venga spacciata per “ideologia pubblica” e, dunque ritenuta intoccabile, un dogma laico, un feticcio e forse anche untabù?; 2) Che ne è del fondamento della vita di ciascuna persona in un mondo spersonalizzato e senza più orizzonticerti e stabili, un mondo non più moderno e non ancora chiaramente cosciente di se stesso, post-storico?; 3) L’opposizione polare tra la mancanza di fondamenti e di certezze, da un lato, e la dogmatizzazione di alcuni postulati “politicamente corretti”, dall’altro, non saranno una causa ulteriore di scissione dell’io e, dunque, di separazione tra la sfera individuale e quella universale, anche politica?. A queste domande fornisce unmodello di risposta originale un pensatore americano fuori dal coro e del tutto “irregolare” come Cristopher Lasch e vale la pena, a questo punto della nostra analisi, confrontarsi con le sue osservazioni teoriche per poi approfondire ulteriormente la questione che

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sostiene l’architettonica del nostro ragionamento: la necessità di Dio nel tempo post-storico.

5.La violenza del “nichilismo liberale” e il ruolo pubblico della religione

Nel mondo occidentale, il nichilismo ha prodotto un evento di portata universale: la fine delle certezze. Ciòha comportato, e comporta anche oggi, che non vi siano più punti di riferimento etici e culturali in grado di determinare le condizioni di convivenza sociale e politica. E’, questo, un problema che coinvolge evidentemente non soltanto i singoli, ma anche le comunità. Un problema pubblico, universale, oggi specificamente occidentale. E, dall’Occidente, sta spostandosi anche nel Medioriente e nel mondo asiatico, perché la secolarizzazione e la caduta delle certezze puòconvivere con i totalitarismi e i regimi politici non democratici. Lasch percepisce in modo esemplare che, allacaduta delle certezze, non può corrispondere parallelamente, sic et simpliciter, la rinascita della religione, come riempimento del vuoto generale. E ciò riguarda anche la religione civile. Se è vero, come è vero, che non può sussistere il vuoto nella politica e nella storia umana, è altresì evidente, almeno nel nostrotempo, che la religione non può essere collocata allo stesso livello delle vecchie ideologie del Novecento. Perché essa, contrariamente a queste ultime, riguarda l’anima, la visione personale del mondo e Dio, e non l’idea astratta e generale della società e del mondo, da applicare sterilmente a qualsiasi realtà umana e comunitaria. Siamo, per molti aspetti, agli antipodi, anche se, nel Novecento, si è variamente tentato di rendere le ideologie dei momenti di una sorta di

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religione dell’uomo, una specie di religione senza Dio. Ma, in realtà, non esiste una relazione necessaria e qualitativa tra ideologia e religione. E ciò comporta un’accurata riflessione quando si tematizza la rinascita di una “religione civile” che, molto giustamente, il Card. Ratzinger, nel suo libro scritto con il Presidente del Senato Pera, ha delineato come fondato su una razionalità pubblica e politica e su un’etica in un certoqual senso “illuministiche”: cioè, il primato della ragione al cuore della “religione civile”. Uno spazio meta-ideologico. Rimane, così, in ultima analisi, che nonvi possa essere sovrapposizione e giustapposizione meccanica tra le prime e la seconda, tra le ideologie e la religione. Colletti auspicava una cultura post-ideologica di impianto razionalistico e pragmatico, una realtà francamente parziale e non adeguata al superamentodell’atmosfera nichilistica dell’età della globalizzazione; Lasch, da parte sua, non intende porre la religione come nuova frontiera della lotta all’ “anarchismo morale” e nuova ideologia del bene comune, ma, ben più radicalmente, punta a collocare la dimensionereligiosa nell’alveo della sfida aperta alla crisi dei fondamenti della cultura e della società. Lasch osserva, infine, che una “società laica” rischia costantemente di fraintendere la vera “natura” della religione, “che è, sì, strumento di consolazione, ma innanzitutto di sfida edi messa a confronto” (La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, Feltrinelli, Milano, 1995, p. 21). Qui si inserisce anche l’ansia, comprensibile, legata alla rinascita di un’educazione della persona improntata all’etica oggettiva ed alle dispute libere e autentiche circa i fondamenti della vita e del vivere civile. E’ la grande tradizione americana del “populismo”, che non ha niente a che vedere con la concezione negativa e distortache noi europei conferiamo a questo “ismo”, è ben altro, significa la riflessione sul legame organico tra il diritto naturale e il popolo, dunque tra la visione

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religiosa ed etica dell’esistenza e il popolo come soggetto al quale questa visione non può non riferirsi. Ecco, allora, perché Lasch continua affermando che “le controversie politiche e religiose hanno di per sé un grande valore educativo” (Op. cit., p. 16). Emerge, quindi, una dimensione pedagogica della democrazia, che non soltanto sfida a viso aperto le concezioni relativistichedella medesima, di matrice kelseniana, ma induce, inoltre, a ripensare gli stessi fondamenti della convivenza democratica. Non c’è alcuna necessità di esagerare: la democrazia nel tempo post-storico non è necessariamente la dimensione pubblica del “vuoto nichilistico”, esistono infatti molte “zone grigie” e spazi intermedi. Evitiamo nuovi fondamentalismi e radicalismi razionalistici. E’ anche vero, d’altronde, che la democrazia funziona se e solo se viene messa in esercizio da uomini liberi, se, dunque, la vita pubblica è ordinata e regolata da regole comuni, se così la coscienza civile è educata: ma uomini liberi, ordine pubblico ed educazione civile non sono beni disponibili apriori, prima dell’esercizio democratico. Così afferma ilpensiero democratico “progressista”, genericamente “di sinistra”. E così la democrazia sarebbe inserito in una sorta di “circolo ermeneutico” e pratico, ancora una volta procedurale, in cui, in ultima istanza, sarebbe la democrazia ad essere pedagogia a se stessa. Un universo procedurale ed autoreferenziale. Non e’ forse, questo, unnichilismo giuridico e procedurale, che, se da un lato elimina il vuoto di regole e diritti, dall’altro lascia tutto appeso alle stesse procedure giuridiche, anche ciò che dovrebbe essere in qualche modo assunto a priori, ad esempio ciò che è bene e ciò che è male, la verità da assumere come pubblicamente accettabile, e il tutto per evitare ricadute “multiculturalistiche” tanto dannose quanto equivoche, perfino allo scopo di mantenere un corretto ordinamento procedurale e giuridico? Dopo l’età della democrazia come surrogato della religione, processo

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specificamente moderno, che vedeva un culto della democrazia, interpretata come rigenerazione di una umanità da ricondurre ad una virtù originaria e naturale – cioè, in sostanza, la pretesa di costruire una meta-identità che distrugga le identità reali e storicamente corpose -, ci ritroviamo, nel post-moderno alla dittaturadel formalismo procedurale. Il che equivale allo smantellamento della classe “religiosa” degli intellettuali, sacerdoti della democrazia come surrogato della religione. La fine di un messianismo laico e secolarizzato, di “assoluti terrestri” di origine politico-ideologica. Il postmoderno, per contro, appare esattamente come un universo autoreferenziale fatto di procedure e di pedagogia autoreferenziale, non come quella di impianto liberale voluta da Strass, fondata sulle verità antropologiche obiettive e sulla saggezza umana e civile, tutto ciò frutto dei costumi nazionali, della tradizione religiosa e civile, dei diritti naturalie dell’etica pubblica. Questo contesto etico, religioso einsieme politico, che vede Lasch come Strauss, infine tutti i pensatori occidentali non relativisti e dotati disenso religioso (anche Del Noce è fra questi), costituisce lo sfondo di una nuova impostazione del problema del superamento del nichilismo in una modalità non “reazionaria”, cioè non anti-moderna, ma, più radicalmente, trans-moderna, cioè connessa alla tematizzazione delle contraddizioni del Moderno e ultimamente della sua fine, mentre si dipana di fronte a noi l’orizzonte del post-moderno, che, in definitiva, si ricompone, in forma inedita, con insorgenze pre-moderne interamente da indagare oggi. Il post-moderno, come mondodominato dalle regole e dalle procedure formali, appare assimilabile ad alcune insorgenze pre-moderne e, in definitiva, il pre-moderno riacquista in esso una tonalità sostanziata di una nuova “riconquista” dei mondivitali e individuali, il mondo dei diritti naturali. Il mondo post-storico non può che alimentarsi anch’esso a

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queste tonalità e sostanze culturali pre-moderne, poiché,finite le Grandi Narrazioni novecentesche, riemerge il senso dei diritti naturali, dei mondi locali e dei destini personali. Come questo processo - complesso e convergente con altre declinazioni mondiali come la scomposizione della geopolitica mondiale, con la Cina e l’India a dettare le nuove leggi del dominio della politica internazionale - prenda corpo è questione che merita un’indagine approfondita e che non potrà trovare interamente spazio in queste pagine. Il dato da trattenere a questo punto dell’analisi è che l’elemento emergente dallo sfondo della fine della modernità è la figura di un nichilismo apparentemente “liberale” ma, neifatti, violento. E questo elemento si interseca con la costante di un relativismo oltranzista, che non vuol cedere di fronte alla verità storica ed etica della religione, come anche della Cristianità. Neanche il “non possiamo non dirci cristiani” di Croce è adeguato a questa nuova situazione storica ed antropologica. Ha certamente ragione Ruini a delineare il cuore della crisidel nostro tempo sotto la voce “questione antropologica”.Perché di questo si tratta. Anche pensatori agnostici e atei, uno fra i tanti, Lucio Colletti, criticando a fondoil dominio del “Reich filosofico”, concorda con la diagnosi di una generale decadenza del pensiero che risulta inevitabilmente foriera di indebolimento della visione dell’uomo che agisce ed opera storicamente delineando un progetto di conoscenza e cambiamento della realtà. E’ sempre Colletti a descrivere il modo di viveree di addentrarsi nelle vicende storiche caratteristico dell’uomo del nichilismo post-storico: egli vive e pensa “addentrandosi a lume di candela nel buio” (Fine della filosofia e altri saggi, Ideazione, Roma, 1996, p. 13). Era ben altra la realtà del pensiero nel tempo in cui la filosofia si muoveva “verso la religione”, che era ancorapiena modernità, ma una modernità non decisamente avviatain direzione della dissoluzione del quadro delle

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certezze. Il filosofo Amato Masnovo, di scuola neotomista, asseriva, convinto che si poteva essere certidi una cosa: “la ragione umana”, “appunto filosofando, sfocia immancabilmente nella religione” (La filosofia verso la religione, Società Editrice Vita e Pensiero, Milano, 1960, p. 7). Crollato questo assunto - oggi recuperato largamente da Benedetto XVI e dalla traduzione filosoficadi larga parte della produzione delle encicliche di Giovanni Paolo II, che aveva come suo autore di riferimento, ricordiamolo sempre, Max Scheler, cioè il filosofo che contribuì in modo decisivo alla ricostituzione di un paradigma di etica oggettivistica vicino al neotomismo -, si apre lo spazio del vuoto e deltempo post-storico. Un tempo in cui la storia non è più Weltgeschichte, storia universale del mondo. Un tempo, inoltre, in cui perfino quel che appare di origine squisitamente occidentale, come il liberalismo, diventa condizione oggettiva di violenza ideologica. Un esempio eclatante di questo mix di nichilismo “liberale” e violenza ideologica è la retorica pseudofilosofica di Rorty, che Colletti comprendeva nel bavardage salottiero contemporaneo, nella “chiacchiera” radical-chic mondana ed astratta, presente anche negli Stati Uniti. Scrive, a questo proposito, Irene Giurovich: “Dietro il nichilismo liberale di Richard Rorty si nascondono progetti politico-culturali di natura autoritaria. Il fine del filosofo postmetafisico è proprio quello di eliminare le opinioni che divergono dalle proprie e di allontanare fisicamente quanti non le accettano, in una presunta democrazia, il suo pensiero relativista. In quanto filosofo relativista, le idee di cui si fa portavoce ricalcano, seppur estremizzate, quelle del relativismo antico: inesistenza di una natura umana, inconcepibilità di valori oggettivi, assenza della verità. Salvo però poispacciare il suo punto di vista come la verità, tradendo così l’illiberalità e la “follia” di un progetto liberalesolo a parole”

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(http://mondodomani.org/dialegesthai/ig01.htm). E’ un fatto che quasi sempre, dietro questi progetti anarco-relativisti, sedicenti “liberali”, vi sia un’idea di società interamente retta sul potere del Welfare State e,dunque, dello Stato novecentesco. Con ciò, si comprende bene che il vero nemico del liberalismo è il laicismo. E diciamo “laicismo”, non “laicità”. La differenza consistenel fatto che il laico riconosce il primato morale della coscienza dell’individuo, mentre il laicista considera invece lo Stato come il solo e unico interprete della verità. Tocqueville è il liberale laico che oggi, insiemea Croce, interpreta una visione laica adeguata ai mutamenti del tempo post-storico. Entrambi avversi ad ogni forma di laicismo. Con questa percezione della verità, che punta sul primato della coscienza individuale, il liberalismo autenticamente laico si congiunge oggettivamente con il cattolicesimo spiritualmente più avvertito nei confronti della modernità. Un esempio di questa figura di cattolicesimo ècostituita dal pensiero del Card. Daniélou.Il giudizio del Card. Daniélou circa la crisi dell’intelligenza contemporanea rimane ancora valido: tale crisi consiste “in una certa impotenza ad aderire, adire di sì, in un primato assoluto del no, e nella convinzione che questo non sia contrario a ciò che costituisce per me la dignità fondamentale dell’intelligenza che è la possibilità di cogliere l’essere” (La crisi attuale dell’intelligenza, Edizioni Paoline, Roma, 1970, p. 47). La de-ontologizzazione del pensiero, che ha assunto varie e differenziate forme, anche di timbro contrapposto, è il fenomeno che più significativamente accompagna la cifra del tempo post-storico, coincidente con la fine della modernità. Perché,nel Moderno, resisteva ancora qualche forma di pensiero ontologico, a cominciare dalla “ripetizione” della “storia dell’essere” da parte di Heidegger, in Sein und Zeit(1921). Con la fine della modernità e l’inizio del tempo

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post-storico, tutto questo ritorna nell’archivistica e nel “museo” delle Grandi Narrazioni. Una linea non più lineare, con molteplici punti di fuga, si dipana a partire da questa dissoluzione del paradigma intellettuale moderno. I sentieri interrotti del tempo post-storico dai quali ripartire.

6.Per una fenomenologia del tempo post-storico: nel segno residuale della Cristianità, oltre la Cristianità

Il cinismo è forse l’orizzonte intrascendibile del tempo post-storico? Oppure, in altri termini: smarrito il sensodel progetto universale, frutto delle Grandi Narrazioni ideologiche, la realtà della globalizzazione è soltanto transazione economica e/o cinismo? Cioè, è soltanto dominio mercatistico – non mercato libero, si badi – che apre spazi inediti al cinismo inteso come nichilismo meta-etico, al di là del bene e del male? Non è, questa, una domanda che intende riaprire una sorta di nuova “questione morale” con base teoretica, anzi, al contrario, mira a sintetizzare in chiave oggettiva la dimensione post-storica conferendole, per quanto possibile, una valenza concreta e simbolicamente chiara eintelligibile. Il cinismo è quel fenomeno per il quale larealtà storica e comunitaria non rappresentano più lo sfondo delle azioni individuali, ma soltanto il campo di battaglia più estremo. Una dissoluzione dei legami, dei costumi, delle regole e della politica. Il nichilismo tradotto in chiave meta-etica: l’ “al di là del bene e del male” di Nietzsche traslato sullo sfondo del processodi dissoluzione del Moderno, sin qui analizzato.Un testo che descrive in maniera pressoché sintomatologica il cinismo possibile nel tempo post-

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storico è l’apertura del romanzo di Michel Houellebecq, Le particelle elementari:

“Questo libro è innanzitutto la storia di un uomo, di un uomo che passò la maggior parte della propria vita in Europa occidentale nella seconda metà del Ventesimo Secolo. Perlopiù solo, egli intrattenne tuttavia saltuarirapporti con altri uomini. Visse in un’epoca infelice e travagliata. La nazione che gli aveva dato i natali scivolava lentamente ma inesorabilmente verso la fascia economica delle nazioni di media povertà; sovente incalzati dalla miseria, gli uomini della sua generazionepativano comunque un’esistenza solitaria e astiosa. I sentimenti d’amore, di tenerezza e di umana fratellanza erano in gran parte scomparsi; nei loro mutui rapporti, isuoi contemporanei davano assai spesso prova di indifferenza e di crudeltà”.

E’ la descrizione del cinismo e della disgregazione tantodel quadro etico tanto della modernità nel suo stato avanzato, la “seconda metà del Ventesimo Secolo”. E’ l’inizio della percezione emotiva e soggettiva del tempo post-storico? Certamente si tratta di un diffuso senso della fine di un’età che ha segnato la trasformazione piùgrande del tempo storico universale, delle civiltà umane,vagliando il Moderno secondo un’ottica comparativa, seguendo il metodo di Braudel e di Toynbee.Finita questa fase storica, cosa rimane dell’esperienza umana? Lo scrittore francese descrive un uomo che vive con un senso della fine della realtà che risulta più una constatazione, per quanto soggettiva, di uno stato di cose, che una valutazione teorica. E questa constatazionecarica di amarezza fornisce la cifra dell’insufficienza dei criteri etici, che non riescono più a segnalare il dolore dell’uomo di fronte a questo mondo cinico e freddo, dominato dalle “passioni tristi”, il mal di

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vivere. Questa percezione non è molto distante dal “decliniamo” oggi molto diffuso in Italia, alimentata dall’antagonismo neo-comunista non più marxista e senza rivoluzione, come anche da una componente tecnocratica e anti-politica della sinistra che preferisce smontare la positività possibile delle riforme politiche anziché recedere dall’affermazione di un’esistenza radicale e critica, pur nel vuoto delle soluzioni concrete e progettuali. Questo è lo status quo che circola nel presente post-storico.Stiamo parlando di un orizzonte cinico in trascendibile oppure di un orizzonte capace di generare una novità religiosa ed umana che noi vogliamo definire come “necessità di Dio”?. Per cominciare a rispondere al quesito, dobbiamo innanzitutto avanzare una figura più concreta di quel che intendiamo “tempo post-storico”. E, per far ciò, ci rivolgeremo alla scrittura simbolica e allegorica della poesia, alla grande poesia di T. S. Eliot, attingeremo dai Four Quartets (Quattro Quartetti).

“Al punto fermo del mondo che ruota. Né corporeo né incorporeo;Né muove da né verso; al punto fermo, là è la danza,Ma né arresto né movimento. E non la chiamate fissità,Quella dove sono riuniti il passato e il futuro. Né moto da Né verso,Né ascesa né declino. Tranne che per il punto, il punto Fermo,Non ci sarebbe danza, e c’è solo la danza.Posso soltanto dire: là siamo stati, ma non so dire dove.E non so dire per quanto tempo, perché questo è collocarloNel tempo”.

Così inizia l’opera di Eliot. E si tratta di una prefigurazione profetica della fine della storia, del

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tempo post-storico: non esiste più un punto fisso, storico, concreto, puntuale, dal quale muovere; e non vi è più neanche un terminus ad quem, una finalità immanentealla storia, al percorso umano. E’ così che si dissolve anche la memoria storica: “là siamo stati, ma non so diredove”. Esperienze senza senso e senza destinazione, privedi destino universale: l’anti-storia come negazione radicale della storia universale. La post-storia. La finedella storia come fatto compiuto. Eliot aveva già còlto lo snodo e la fine del processo storico, quando questo era ancora agli albori, anzi quando questo era il teatro del secondo conflitto bellico mondiale, e prima ancora della genesi del totalitarismo nazista e comunista: i versi sono stati elaborati nel periodo che va dal 1936 al1942. Oggi il percorso è giunto al compimento estremo. Dal cinismo descritto nella pagina di Houellebecq al teatro profetico della fine della storia inscritto da Eliot nell’universo poetico: due passaggi di epoca che fanno pensare al tempo contemporaneo. La filosofia, d’altronde, è la nottola che si leva sul far della sera. Il pensiero occidentale nasce con alcune caratteristiche precise che, in qualche modo, prefigurano la fine della storia?Intanto, recuperiamo la percezione dell’autocoscienza occidentale, attingendo stavolta dall’esperienza scientifica. Scrive il fisico premio Nobel Feynman: “La civiltà occidentale, mi sembra, poggia su due grandi pilastri. Uno è lo spirito scientifico di avventura – avventura in un ignoto che va innanzitutto riconosciuto come tale, se lo vogliamo esplorare -, l’esigenza che glienigmi insolubili dell’universo rimangano senza risposta,l’atteggiamento mentale che tutto è incerto. In poche parole: l’umiltà dell’intelletto. L’altro grande pilastroè l’etica cristiana – l’amore come base di ogni azione, la fratellanza universale, il valore dell’individuo, l’umiltà dello spirito. Dal punto di vista logico, questedue grandi eredità sono del tutto coerenti” (Il senso delle

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cose, Adelphi, Milano, 2004, pp. 55-56). Questi elementi teorici, culturali ed etici segnano l’esperienza vitale dell’Occidente cristiano e rimane ancora oggi, nonostantela dissoluzione del quadro storico della modernità, un fondamento imprescindibile. Anche oggi, dunque, questi pilastri costituiscono la base per rinnovare l’esperienzacristiana? Anche nel tempo post-storico? Appare, in realtà, un fenomeno contraddittorio, difficile da decifrare: mentre permane la memoria storica del Cristianesimo, è, nel contempo, molto difficile restaurare il medesimo livello di omogeneità religioso-culturale tra la fede vissuta dal popolo cristiano e la Cristianità, cioè la civiltà cristiana, il Corpus Christianorum. Se non c’è più oggettivamente il prodotto reale della Cristianità, cioè il tempo storico universaledella modernità, risulta impossibile riconnettere la fedealla Cristianità, alla civiltà cristiana. Un dato deve sempre essere tenuto presente: la Cristianità non è solo un fatto spirituale, riguardante il rapporto tra l’anima e Dio, ma anche oggettivo e materiale, costituisce il nucleo storico della civiltà occidentale, che oggi abbisogna di un impero come regolatore forte del mondo globalizzato. Maggiolini, in un articolo di una decina d’anni fa, pubblicato sulla rivista teologica Communio, ha fornito tutte le prove teologiche e storiche della tesi culturale che stiamo qui semplicemente riproducendo,nota fin dagli albori dell’esperienza cristiana e sempre riproposta come punto-cardine della dottrina cattolica. Per cogliere la portata di questa figura centrale del Cristianesimo storico che si chiama Christianitas, occorre uscir fuori decisamente dagli astratti spiritualismi. Aggiungo che anche Pezzotta, il segretariogenerale della Cisl, in un articolo pubblicato su Il Riformista, si muoveva esattamente sulla linea della Cristianità come fattore di progresso materiale e civile.Perché esiste realmente anche una storia di Cristianità declinata sul piano del progresso materiale e sociale.

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E’, questa, un’eredità del cattolicesimo sociale non progressista, dunque non dossettiano, che, anche con Craxi, ha trovato il suo spazio, si pensi al contributo di Gennaro Acquaviva nell’elaborazione del nuovo Concordato del 1985. Anche questo spazio si inserisce nell’ambito ampio della religione civile e la fede, affermata pubblicamente come forma di edificazione anche della società civile, diventa il modello politico di riferimento anche per molti laici non credenti. Anche il filosofo McIntyre, raccontando l’esperienza dei monaci nelle invasioni barbariche del primo millennio, pone l’accento sulla costruzione di “nuove forme di comunità”, cioè di una Cristianità che edifica appunto subase religiosa e civile un mondo nuovo. Benedetto XVI riprende questo filone aureo della Cristianità come luogodella civiltà umana universale e, in qualche modo, sostanzia una nuova forma di illuminismo non laicista dotato di un progetto razionale a vantaggio delle societàoccidentali. E’ la storia ormai corrosa nei suoi fondamenti oggettivamente universali il teatro della sfida che il Papa sta giocando di fronte al mondo laico. Con il suo intervento dialogante, ma sempre acutamente mirato alla ricerca della verità, Benedetto XVI non risparmia il “politicamente corretto” come, parimenti, illessico neo-clericale, il pensiero di quelli che Péguy chiamava “intellettuali clericali”. E, inoltre, non sfugge alla sua griglia di riflessione che anche fra molti laici non credenti circola una nuova figura di fondamentalismo laicista privo di ragioni storiche adeguate, del tutto anacronistico e certamente fragile sul piano teorico e culturale. Una super-ideologia laicista che si allea oggettivamente con i poteri dominanti tecnocratici ed eurocratici che hanno impedito l’inserimento nella Costituzione europea della citazione riguardante le radici cristiane. Questa è la lotta della fede contro i nuovi poteri dominanti burocratici, contro le tecnocrazie atee e laiciste, nichiliste e scientiste

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nel contempo. Il Papa sa perfettamente che oggi è necessaria l’affermazione di una ragionevole apologia dell’Occidente e dell’Europa che sembra arrendersi all’Islam ed alle sue debolezze strutturali, inerme e imbelle come mai è stata. Resta di una sconcertante attualità la frase di un grande storico francese, laico nel senso buono del termine: “Quella che è minacciata nonè necessariamente la libertà, è la verità…”. (Emmanuel LeRoy Ladurie, Autobiografia, 1945-1963). E’ quanto un altro storico, belga, Leo Moulin, ha scritto nella sua autobiografia spirituale, rimarcando con forza che, senzail Cristianesimo, non sarebbe neanche possibile balbettare malamente i fondamentali rudimenti della civiltà europea, a cominciare dal pensiero, dalla culturae dalla politica. Questi sono i fatti inoppugnabili, anche se rozzamente messi in discussione, nel tempo post-storico, sulla base di apriorismi ideologici. E ciò avviene ignorando gli stessi fondamenti filosofici e filosofico-politici della modernità più matura e cosciente, quale quella delineata da Weber, con la sua magistrale conferenza del 1918, sulla “Politica come vocazione” (in tedesco, Beruf, termine luterano, scelto non casualmente). E un autore oggi ritenuto impresentabile e controverso, ma certamente tanto drammatico quanto geniale, il filosofo del diritto filonazista tedesco Carl Schmitt osservò acutamente che le categorie della politica sono, in realtà, categorie teologiche secolarizzate. In altri termini: la politica modernanon ha smantellato l' apparato sacrale della convivenza, l' ha rovesciato. Tanto che la politica è diventata la "patria del disincanto", lo spazio dell' agire umano in cui la responsabilità individuale si gioca senza poter fare riferimento a fondamenti trascendenti o sacrali. Eppure, a ben guardare, il fatto stesso che la politica sia costretta a dichiararsi "separata" dall' elemento teologico, la riconduce ad esserne ultimamente implicata,poiché, per distaccarsene, deve appunto "secolarizzare"

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le categorie teologiche, dichiarandosene influenzata. Questo è il dissidio della politica moderna: o "religionidella politica" o disincanto cinico e Realpolitik. Dilemma apparentemente insolubile. Sembra un’aporia, un vicolo cieco della ragion politica. In realtà, si tratta di una estremizzazione quasi violenta di un processo durato sette secoli - dal XIII° al XX° - e che ha avuto fasi complesse e contraddittorie, certamente non riconducibili, con un colpo di mano, ad una riduzione cosiffatta. Un processo che si è svolto interamente nel corpo storico, teologico e culturale della Cristianità. E' altresì certamente vero che la modernità abbia ridotto il fondamento trascendente della politica, ma è altrettanto vero che una certa visione della modernità - da Tocqueville fino al cattolicesimo liberale contemporaneo - ha salvato tanto il realismo politico tanto il fondamento cristiano della convivenza sociale. Prova ne sia che anche uno storico del pensiero politico anglosassone e non credente come Larry Siedentop afferma:"La concezione cristiana di Dio avviò (...) la costruzione di una futura società umana senza precedenti.Per capirlo è sufficiente considerare le immagini che ancora guidano l' Occidente cristiano nella comprensione del mondo sociale. Per noi ogni individuo dispone, per natura o per diritto, di una via d' accesso alla verità, di un suo fondamento dell' essere. Ognuno viene ritenuto in possesso di un pezzo di realtà, un campo di verità a cui può accedere direttamente. La natura delle cose vienecolta tramite la coscienza ed il giudizio personale anziché tramite l' appartenenza ad un gruppo. Ecco il punto cruciale. Il Dio cristiano sopravvive infatti nel presupposto che tutti abbiano accesso alla natura delle cose in quanto individui. Questo presupposto giustifica asua volta la società democratica, organizzata per rispettare lo status morale spettante in uguale misura a tutti i suoi membri e che garantisce ad ognuno la "pari libertà". Rivela come la nozione di "libertà cristiana"

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fondò a poco a poco un nuovo modello di associazione umana profondamente "democratico" ". (La democrazia in Europa, Einaudi, Torino, 2001, p. 232). Questo sviluppo teorico, qui declinato sul versante politico, trova la sua conferma nella filosofia morale di un altro significativo filosofo americano, Frankena, che coglie ilfondamento dell' azione morale nell' amore concepito comeespressione individuale ed interattiva. Come si vede, la filosofia politica e morale anglosassone centra la naturadel cristianesimo nella realtà individuale, laddove Maritain e compagnia ragionavano del Vangelo come cementosociale delle democrazie.Siedentop afferma ancora: "L' ontologia cristiana fornisce dunque le basi di quelli che in Occidente vengono normalmente definiti i valori liberali - di quell' impegno per l' eguaglianza e la reciprocità, come pure del postulato sulla libertà individuale" (Op. cit., p. 251).Si osservi che qui Siedentop parla esplicitamente di "ontologia cristiana", assumendo, dunque, e correttamente, che la fede cristiana fornisce le basi peruna filosofia realistica, ovvero fondata su base ontologica (capace di conoscere la natura delle cose). Ciò premesso, a questo punto, emerge con netta evidenza che lo sviluppo moderno della concezione della politica non ha affatto ribaltato il fondamento addirittura ontologico del cristianesimo, l' ha invece espanso sul terreno civile e democratico, creando una realtà nuova.L' ideale della politica liberale è contrassegnato ontologicamente dal cristianesimo - aldilà delle riflessioni sulla "religione civile", che pure hanno la loro ragion d' essere - e questo "marchio d' origine" consente di tradurre il "disincanto" in chiave di realismo politico. Si può cioè parlare di "disincanto" nei termini di superamento della ingenuità e degli stereotipi ideologici, consegnando a questa concezione del "disincanto" una natura essenzialmente metodologica.

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Il "disincanto", quindi, è più un metodo che un’ideologia. E’ la possibilità reale di guardare la realtà della fine del Moderno con una umiltà che non cedeal pensiero debole e, nel contempo, con la consapevolezzacreativa che cerca nuove strade per la vita personale ed associata. Viene, così, a cadere la dicotomia romanticheggiante proposta da Claudio Magris, l' utopia eil disincanto, come se l' oscillazione fosse tra due realtà che, rovesciandosi, produrrebbero immediatamente un cortocircuito negativo. Il disincanto è, in realtà, laposizione e l’atteggiamento esistenziale di tutti coloro che, di fronte alla realtà, desiderano coglierne i tratticostitutivi senza affidarsi a schemi preconfezionati e riduttivi. Si tratta, così, di una mossa della ragione, non di un cedimento nichilistico della morale individuale.Lo stesso Max Weber, considerato il padre del cosiddetto “disincanto” moderno, chiudendo la sua celebre conferenzasul “lavoro intellettuale come vocazione”, nel 1918, affermò: "Quale debba essere la causa per i cui fini l' uomo politico aspira al potere e si serve del potere, è una questione di fede".Shakespeare, nel suo Amleto, annotava: "Ci sono più cose in cielo ed in terra, Orazio, di quanto le nostre filosofie possano pensare". Ogni filosofia, infatti, giunta al termine ultimo del suo percorso, lascia spazio all' azione guidata dall' ideale ed all' uomo giustamentedisincantato. E così salva se stessa e anche la persona. E così siamo ancora nel solco della Cristianità, ma non più percepita come autocoscienza universale dell’esperienza umana. E’ questa la fenomenologia del tempo post-storico, priva del “senno del post”. Almeno apparentemente.

7.L’esperienza cristiana nel post-moderno: una chance per il tempo post-storico?

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Il pensiero sul post-moderno è un pensiero senza oggetto.Perché il post-moderno è una realtà che si definisce secondo un “post” e, dunque, sembra aver rinunciato in partenza a detenere una realtà definita, un orizzonte di senso cresciuto all’interno di un’esperienza storica delimitata. Eppure, pur senza oggetto, il post-moderno sidice in molti sensi. Oltre allo studio di Lyotard, che però non ha chiuso la questione, che tratteggia il post-moderno come tempo della fine delle Grandi Narrazioni, cioè dei grandi progetti ideologici e culturali, spesso il post-moderno viene accostato al post-industriale, già studiato dal sociologo Bell negli anni cinquanta. Talvolta viene inquadrato nel corpus della nuova esteticanon più legata alle scuole moderne, all’estetica senza referente e senza radici, sperimentale e permanentemente transitoria. Ma non sono mancate interpretazioni ancor più suggestive e vicine al senso della fine della storia,che leggono il post-moderno come fenomeno preconizzato già nella dialettica servo-padrone di Hegel. In questa celebre dialettica, verrebbe rovesciato il regime fondamentale della storia, che vede prevalere la classe dominante e ciò a vantaggio della liberazione del servo, sì, ma sotto lo schiaffo ultimo della morte. Dunque, in qualche modo, della fine inscritta nel destino storico delle classi lavoratrici e del servo come figura universale dell’umanità che non riesce più ad emanciparsistoricamente. Questa è la lezione di Kojève riveduta e inparte corretta, ma infine sostanzialmente mantenuta nei suoi tratti essenziali. Kojève è anche, non dimentichiamolo, il pensatore della “fine della storia”, colui che intravede oltre gli orizzonti compiuti del Moderno un caos che soltanto un Disegno trascendente può reintegrare nella ragione ultima della realtà. Kojève nonaccenna a ciò, ma nel suo discorso tutto ciò che è mondano, tanto sul piano storico, quanto su quello filosofico, vengono meno. Per giungere a cosa? Questa è

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la domanda e da questo punto ripartiamo, volendo nuovamente riprendere la problematica del senso del post-moderno in un quadro di Cristianità e di risorsa spirituale e culturale fornita dal Cristianesimo all’uomopost-storico. L’uomo post-storico, se, da un lato, non è religioso, dall’altro, non ha particolari obiezioni alla religione e al Cristianesimo, semplicemente percepisce tutto come irrilevante per la sua esistenza. Questo è un limite insuperabile oppure una nuova chance per il Cristianesimo? La storia, non essendo più l’unico discorso universale sulla vita dell’uomo, e trasformandosi in storia locale, personale, regionale, inogni caso mai universale, sembra come riscoprire una sua imprevista infanzia. Nel momento in cui avviene una sortadi distruzione dell’esperienza personale, intesa come senso e orientamento univoco e universale, comunicabile come verità a tutti, nasce la storia come evento unico, irriducibile a qualsiasi schema ideologico, avvenimento di scoperta di “cieli nuovi e terre nuove”. E’, questo, un elemento di futuro e di speranza nell’apparente morte e nella fine della storia anticipata. E ciò anche nel tempo irrimediabilmente secolarizzato e forse anche profano. Un tempo di profanazioni, si direbbe. D’altra parte, esistono almeno due etimologie del termine “religio”. Una, la più comune, fa discendere la “religio”dal verbo latino “religare”, che significa “tenere insieme”, “unire”, evidentemente l’umano e il divino. L’altra, che rappresenta una “lectio difficilior”, per dirla con la filologia classica, fa discendera la “religio” dal verbo latino “relegere”, che indica l’atteggiamento di scrupolo e di attenzione cui devono improntarsi i rapporti con gli dèi e con Dio, una sorta di trèmula esitazione di fronte alle formule sacre, considerate imperscrutabili e figlie del Mistero. Dunque:una separazione netta e non una congiunzione. Ma sia in un senso che nell’altro, la religione è sempre una “nostalgia delle origini”, come scriveva Mircea Elide, o

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un desiderio insaziabile di congiunzione perfetta fra l’umano e il divino o, nell’altra possibilità, un senso del Sacro simile alla descrizione di Otto, Mysterium tremendum et fascinans, affascinante Mistero e tremendo, tanto da tenere separate la sfera dell’umano da quella del divino, di Dio. Ma ciò, anche se radicalmente declinato, non ostacola la ripresa del Cristianesimo, concepito non più come legame ferreo fra Dio e la Storia universale del mondo, ma come Mito e Mistero, Senso oltremondano necessario, una volta distrutto l’ordine deldiscorso legato alla Storia Universale. Se non si vuole vagare come anime senza patria e senza vita nelle cose della vita e nelle vicende storiche, occorre, in qualche modo, attribuire al Mistero, perché no, provvidenziale, la rotta del mondo e delle vite individuali, pena il decadere dell’esistenza al livello di “animali post-storici”. Sarebbe qualcosa di ancor più grave e devastante del relativismo e del nichilismo; sarebbe l’anomìa sociale assoluta e il bellum omnium contra omnesstatuito come unica forma di sopravvivenza storica. Può apparire così paradossale che un nichilista di genio comeCioran abbia còlto il segnale più antico e più umano del Cristianesimo proprio nelle parole di Gesù, eppure così èe questo intenso testo lo documenta: “Quando Cristo affermava che il “regno di Dio” non è né “qui” né “là”, ma dentro di noi, condannava in anticipo le costruzioni utopistiche per le quali ogni “regno” è necessariamente esterno, senza alcun rapporto con il nostro “io” profondo o con la nostra salvezza individuale. Esse hanno a tal punto inciso su di noi che aspettiamo la nostra liberazione dal di fuori, dal corso delle cose o dal cammino delle collettività. Così si sarebbe delineato il Senso della storia, la cui voga doveva soppiantare quelladel Progresso, senza aggiungervi nulla di nuovo. (…) Che la storia si svolga e niente più, indipendentemente da una direzione determinata, da uno scopo, nessuno vuole riconoscerlo” (Storia e utopia, Adelphi, Milano, 1982, p.

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113). Appare l’apologia del nichilismo anti-storicistico,ma, a ben guardare, dal punto di vista del presente post-storico, questo è un invito a ripercorrere i movimenti della nuova infanzia della storia, con la “s” minuscola, nella direzione del Cristianesimo non storicizzato e non “fratello maggiore” del finalismo storico assoluto, dell’escatologia intramondana. Un Cristianesimo forse depauperato di storicità tradizionale, ma, nel contempo, arricchito di nuove possibilità di traduzione esistenziale e storica, nei mondi vitali locali, regionali, individuali. Un percorso minore, se vogliamo, ma non per questo debole e irrilevante. Anzi, tutt’altro che irrilevante e insignificante. Questa dimensione è biblica, dunque forte e profeticamente tesa tra il cielo e la terra. Una dimensione che è stata sintetizzata in termini che risultano evocativi, insufficienti, ma che rendono bene i “nuovi segni dei tempi”: “l’onnipotenza povera di Dio”, ha scritto il biblista Daniele Carota, seguendo alcune intuizioni di Bonhoeffer. Certo, anche Sergio Quinzio aveva presagito questo ritorno del momentobiblico-profetico, in un orizzonte di disfacimento della modernità tecnologica. Oggi questa lettura è più attuale di quanto fosse ieri. In un frammento sulla religione, Quinzio esprimeva un pensiero importante: “Quel che è morto è definitivamente morto: la “nostra civiltà” è morta, per lei non desidero nulla. La fede può cominciaresolo qui, o finire. Comunque, si articola su questi termini estremi” (Religione e futuro, Adelphi, Milano, 2001, p. 97). Questa è un’interpretazione della fede secondo un’alterità, cioè secondo una concezione teologica e mistica che vede la storia come “altro” da Dio, non più come orizzonte inscritto naturalmente in Lui. Ecco perchéla post-storica può farci riaccogliere la storia in una duplicità maggiormente sperimentabile dall’uomo: da un lato, come fine della Storia Universale e liberazione dalla “gabbia d’acciaio” dello Spirito del mondo che si riflette nello Spirito Santo di Dio; dall’altro, come

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spazio dell’esperienza individuale, locale e regionale che si rimette in gioco con maggiore senso della realtà, spinta dalla necessità suprema di riappropriarsi di un senso del mondo e della vita. E’, questa, una fede biblica partorita dentro i molteplici “ritorni di Dio”. L’ultimo, nel tempo post-storico. Ha così sbagliato il filosofo Nancy quando ha affermato: “La morte di Dio ha richiesto e suscitato un pensiero che si arrischia là dove Dio non assicura più né l’essere, né il soggetto, néil mondo. A questi estremi, su questi abissi e in queste derive, nessun dio potrebbe far ritorno” (Luoghi divini, il Poligrafo, Padova, 1999, p. 25). Il testo citato è del 1987, un tempo in cui della “morte di Dio” si predicava secondo l’ordine del discorso tecnologico-scientista e nichilista-libertario, avendo alle spalle il mito morto sul nascere, in realtà, della “società radicale”. Oggi Nancy si accosta con ben altro spirito e ragionamento al Mistero di Dio e proprio seguendo il filo rosso del contatto con il Divino. Ebbene, da quel giudizio oggi da ritenere errato, possiamo uscire ripensando il ritorno del Dio di Gesù Cristo non più come il Dio della Storia Universale, come neanche il Dio del silenzio, dell’apofasi assoluta. Ma come il Dio totalmente Altro, come altra rispetto a questo Dio è la Storia Universale. Il Dio totalmente Altro, il Dio di Karl Barth, è il Dio che vede la Storia Universale come “altra” da Lui. Due alterità assolute che non si toccano. E così possono sussistere in modo diverso: il Dio totalmente Altro come Mito e Mistero nel tempo post-storico; la Storia universale come memoria del Moderno, che non c’è più. Si apre infine il teatro della nuova esperienza del tempo post-storico, che si lega costitutivamente al post-moderno, pur senza essere schiacciato al suo modello e alla sua fenomenologia. Il nulla del senso può essere superato se e solo se ritorna al centro della vita umana la necessità di Dio come totalmente Altro. E se ritorna la questione della fede come scommessa, come il pari

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pascaliano. L’uomo può tornare a credere e così riaprire nella sua vita la partita con la necessità estrema del senso e, attraverso questa sfida, recuperare il senso della sua storia. Questo passo aprirà la strada al successivo snodo storico, di micro-storia se vogliamo, marealissimo: la storia del mondo tornerà ad essere lo spazio della memoria a partire dal senso individuale della micro-storia recuperato. Non sarà più come nel Moderno, ciò non avverrà su base ideologica o religiosa, ma potrà accadere qualcosa di più vicino alla sensibilitàindividuale, alla coscienza, qualcosa di spiritualmente rilevante e significativo. Dio si conosce più per fede che per ragione. Analogamente, la propria storia diventa un nuovo spazio di senso quando Dio, il totalmente Altro,irrompe, a causa della fede ritrovata. Un mistero? Un mito ritrovato e perpetuato anche nel tempo post-storico?L’uomo post-storico non desidera più magisteri tradizionali, ma non per questo ha rinunciato alla ricerca della verità. Se egli non può più controllare la natura, può, però, aderire alla necessità imperiosa che la sua vita gli pone innanzi, nel tempo che gli è dato davivere. E, nel tempo post-storico, se non si vuol vedere la barca dell’esistenza andare incontro alla deriva ultima e insuperabile e, con essa, la storia stessa, non si può che riconoscere la necessità di Dio. Péguy, in Véronique, scrive che vi è una “eresia senza futuro” e questa consiste nel “negare il cielo”; piuttosto è l’altra quella più pericolosa, la negazione della terra, della carnalità e storicità del Cristianesimo. Ebbene, oggi questa carnalità e questa storicità è strettamente legata all’urgenza di aderire al Dio necessario, per ritrovare il senso degli eventi e della storia, qui e ora. Storia che, altrimenti, stenterebbe a trovare un orientamento e un causalità di qualche genere. A quel punto, l’unica categoria in gioco sarebbe quella della “catastrofe”, dell’implosione e dell’autoreferenzialità

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che distrugge qualsiasi tentativo di conoscenza della realtà esterna. “Naufragio con spettatore” (Blumenberg).

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