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L'acqua a Volterra. Storia dell'approvvigionamento idrico della città.

Date post: 20-Jan-2023
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nuova immagine editrice Alessandro Furiesi L’ACQUA A VOLTERRA storia dell’approvigionamento idrico della città fotografie di Dante Ghilli
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nuova immagine editrice

Alessandro Furiesi

L’ACQUA A VOLTERRAstoria dell’approvigionamento

idrico della città

fotografie di Dante Ghilli

[ISBN 88-7145-157-0

© nuova imagine editriceVia San Quirico, 13 – 53100 Sienatel. 0577 - 42625 / fax 0577 - 44633

impaginazione e grafica: nuova immagine, Sienaselezioni: nuova immagine - Fim, Sienastampa: Centrooffset, Siena

in copertina: la fonte di Docciola (foto di Dante Ghilli)

Alessandro Furiesi, direttore della Pinacoteca Civica di Volterra, è laureato all’Università di Pisa con una tesi in Archeologia Classica ed è autore di nume-rose pubblicazioni riguardanti il territorio volterrano.

SOMMARIO

pag.

7 Introduzione Alessandro Furiesi

9 L’AMBIENTE NATURALE

10 La geomorfologia di Volterra 11 La geologia 12 Caratteristiche climatiche

17 PRIMA DELLA CITTÀ

21 LA CITTÀ ETRUSCA

23 L’acropoli 28 L’abitato 34 Il sistema di drenaggio urbano 41 Sorgenti e culto delle acque

47 LA CITTÀ ROMANA

48 La fase edilizia augustea 49 Gli impianti di approvvigionamento 59 Il sistema di drenaggio del teatro 61 Il Tardo Impero 62 Gli impianti termali

77 L’ALTO MEDIOEVO

77 Le nostre conoscenze sull’uso dell’acqua

81 IL PERIODO COMUNALE 82 Il sistema di approvvigionamento di età comunale 85 Nascita e sviluppo della rete idrica 88 Il completamento del sistema (XIV secolo) 89 L’architettura delle fonti - Fonte di Docciola, 89; Fonte di S. Felice, 92; Fonte di

Mandringa, 98; Fonte di S. Marco, 98; Fonte di S. Stefano, 99; Fonte del Pino, 101; Fonte di Fontecorrenti, 103; Fonte a Selci, 103; Bagno di S. Giusto, 106; Fonte di Fontepipoli, 107; Fonte dell’Agnello, 108; Fonte Marcoli, 109; Fonte di Velloso, 109

109 Il problema delle Fontis Vallisbonae 113 La costruzione delle cisterne 115 Lo scarico delle acque e le norme igieniche 116 I bagni pubblici 120 Opere private

131 DAL MEDIOEVO ALL’UNITÀ D’ITALIA

131 L’approvvigionamento pubblico 136 Lo sviluppo delle opere idriche private 140 La fonte di S. Felice

149 DALL’UNITÀ D’ITALIA ALLA COSTRUZIONE DELL’ACQUEDOTTO

149 I problemi di approvvigionamento idrico della città 159 Le fonti di S. Felice 161 Furti d’acqua e problemi di diritti 165 Le fogne 165 I progetti per approvvigionare d’acqua la città 168 Il primo acquedotto cittadino 172 La costruzione dell’acquedotto della Carlina

183 BIBLIOGRAFIA 193 INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

Presentazione

L’iniziativa di pubblicare la tesi di laurea “L’acqua a Volterra - Storia dell’approv-vigionamento idrico della città” del volterrano Alessandro Furiesi è partita dalla volontà di consolidare le conoscenze della risorsa idrica di una parte del territorio sul quale l’azienda opera e trasmetterle come comunicazione ad un’utenza vasta per la quale l’Azienda Servizi Ambientali Valdicecina è impegnata a garantire e miglio-rare sempre più la qualità del servizio idrico integrato.

Riteniamo determinante, infatti, il rapporto tra A.S.A.V. e Utenti in particolare nella diffusione della conoscenza della risorsa e di un corretto utilizzo dell’acqua. Imparare ad usarla senza sprecarla è un segno di civismo che tutti insieme dobbia-mo ricordare, non soltanto nel periodo estivo quando la siccità conquista le prime pagine dei giornali.

Il volume sviluppa la storia dell’approvvigionamento idrico, e delle sue difficoltà, nella città di Volterra avvenuto dall’antichità fino alla costruzione dell’acquedotto della Carlina. Il percorso storico si snoda attraverso la descrizione di tutti i metodi con i quali, nel corso dei millenni, gli abitanti di Volterra hanno saputo sfrutta-re le risorse idriche locali, costituite soprattutto dalla raccolta dell’acqua piovana e dalle numerose sorgenti naturali distribuite sulle pendici della collina sulla quale è costruita la città. Con l’analisi dei resti archeologici e delle fonti scritte è stato pos-sibile ricostruire e comprendere le difficoltà per approvvigionare d’acqua Volterra e i metodi ideati per risolvere questo problema, che ha impegnato i volterrani fino a pochi anni fa.

Il libro è corredato di una esauriente documentazione iconografica che completa lo studio di ricerca dell’autore.

Tenere conto del passato per migliorare il futuro è quindi la strada indicata da questa pubblicazione, per ottimizzare non solo il servizio idrico e di depurazione, ma per mantenere alta la qualità dell’ambiente dal quale origina la risorsa idrica.

Roberto MarmelliPresidente Consiglio Amministrazione

A.S.A.V.

Introduzione

L’acqua è un elemento fondamentale nello sviluppo urbanistico, economico e demografico di tutte le città; fin dall’antichità la sua presenza (o assenza) è stata determinante nella scelta dei luoghi dove costruire centri abitati; dove l’acqua era assente, l’uomo ha trasformato il territorio per poter disporre di migliori risorse idriche, prelevandole con i me todi più ingegnosi. L’acqua oltre ad essere necessa-ria per la so pravvivenza è stata spesso considerata simbolo di ricchezza; le società più ricche e più stabili, all’apogeo della propria potenza, hanno usato anche l’acqua come segno di prestigio e di qui la costruzione di fontane monumentali o di impianti termali, anche dove l’acqua scarseggiava. Oggi nella maggior parte dell’Occidente è usuale disporre di acqua corrente nelle abi tazioni, tanto da avere dimenticato che fino a non molti anni fa solamente pochi privile giati disponevano di acqua nelle proprie case, mentre la maggior parte della popolazione si approv-vigionava alle fonti o ai pozzi pubblici.

Questo libro è nato dalla rielaborazione della mia tesi di laurea, dal titolo L’approvvigionamento idrico di Volterra nell’antichità e nel medioevo, in cui avevo esa-minato l’intero ciclo di utilizzazione dell’acqua nel centro abitato di Volterra: l’ap-provvigionamento, le tecniche di conservazione, la distribuzione e lo smaltimento, cercando di cogliere anche le trasformazioni urbane collegate allo sfruttamento di questa risorsa. In questo nuovo studio ho scelto di non fermarmi al medioevo e di proseguire seguendo un’impostazione diacronica per ripercorrere tutte le tappe evolutive di questo sistema idrico dall’antichità fino ad oggi. È un tipo di analisi che non era ancora stato effettuato per Volterra dove, peraltro, si conservano molte fonti medievali ancora funzionanti e dove sono documentate, grazie alle indagini archeologiche, numerose strutture antiche in buono stato di leggibilità.

Per la mia ricerca ho esaminato i resti archeologici noti, la documentazione archivistica medievale e le strutture monumentali ancora esistenti. Per mia scelta mi sono limitato ad indagare solamente l’area occupata dalla città moderna e il suo suburbio, cercando di individuare tutto quello che riguardava il ciclo dell’acqua in questa zona. Una grossa parte del lavoro è costituita dalla ricerca e trascrizione dei documenti riguardanti lo sfruttamento delle acque, che ho svolto basandomi soprattutto sui documenti che sono conservati presso l’Archivio Storico Comunale di Volterra (in seguito abbreviato con ASCV) e presso l’Archivio Postunitario Comunale di Volterra (abbreviato con APCV).

Desidero ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutato. In particolare la profes-soressa Giovanna Tedeschi e i professori Sauro Gelichi, Nicola Terrenato e Andrea Augenti. Vorrei ringraziare inoltre i membri della équipe di Archeologia Urbana

del progetto “Archeologia di Volterra e del suo territorio”: Francesco Galluccio, Massimiliano Munzi, Giovanni Ricci e Mirella Serlorenzi che mi hanno messo a disposizione il materiale esaminato durante la campagna di ricognizione topografi-ca urbana da loro condotta.

Inoltre un doveroso ringraziamento va alla professoressa Marisa Bonamici, al dottor Mario Iozzo, al dottor Gabriele Cateni, e a tutto il personale della Biblioteca Comunale di Volterra, in particolare ad Angelo Marrucci.

La mia gratitudine va anche al professor Costantino Caciagli, al sig. Umberto Viti per le informazioni che mi hanno fornito e a Sauro Gennai, Alberto Pasquetti e Pietro Mannucci, che hanno ispezionato, tramite immersioni subacquee, alcuni pozzi e cisterne di Volterra fornendomi i dati ricavati in quell’occasione. Un grazie in particolare a Lucia Giovannetti per l’aiuto e i consigli e a mio fratello Francesco che ha realizzato alcuni disegni.

Grazie anche all’ASAV di Volterra e al suo presidente, che hanno generosamen-te contribuito alla realizzazione di questa pubblicazione, a tutti i tecnici di questa azienda che mi hanno aiutato e in particolare a Fulvio Bigongiari.

L’AMBIENTE NATURALE

Nell’accingersi ad esaminare il sistema di approvvigionamento, distribuzio-ne e smaltimento delle acque di un centro abitato o di un territorio bisogna innanzi tutto conoscere i fattori naturali che de terminano la presenza o assenza delle acque nell’area interessata. Non tutte le aree presentano le medesime carat-teristiche, pertanto è necessario, per comprendere pienamente le decisioni che hanno portato, in una data epoca storica e in un certo contesto sociale, urbano o culturale, a prefe rire una soluzione invece che un’altra, conoscere gli aspetti geomorfologici, geologici e climatici dell’area e del periodo prescelto. L’esame dell’aspetto del territorio, della composizione del terreno e delle variazioni clima-tiche, sono gli elementi che hanno sempre determinato, anche senza bisogno di una programma zione urbana di grande livello, i luoghi dove costruire abitazioni, approntare i campi per le coltiva zioni e le aree inutilizzabili destinate a sepolture o a scarichi di rifiuti.

L’area geografica interessata può disporre di maggiori o minori risorse idriche: i fattori da considerare sono le piccole variazioni altimetriche che condizionano le vie di scorrimento delle acque superficiali, il loro possibile ristagno e la pos-

Fig. 1 Volterra vista da Sud

sibilità di risiedere nelle vicinanze di corsi d’acqua o di aree lacustri. Anche la composizione geologica è un fattore estremamente importante: infatti la quantità di acqua superficiale varia in base ai differenti tipi di rocce che compongono il suolo e allo stesso tempo la stratigrafia geologica determina la profondità a cui è possibile trovare acqua e la difficoltà necessaria a scavare il terreno per ottenere pozzi o cisterne. Il clima, con le sue variazioni stagionali e di più lunga durata (i cosiddetti cicli climatici), può agevolare o meno la presenza di acqua nell’area interessata: è soprattutto l’esame della piovosità e quello delle variazioni di tem-perature ad essere esaminato.

Viste queste premesse uno studio sulle acque di Volterra non può prescindere dall’esaminare come questi elementi si compongano nell’area urbana di Volterra. Dopo questa breve introduzione vedremo meglio nei capitoli successivi come molte caratteristiche geografiche, geologiche e climatiche abbiano condizionato lo sviluppo e la programmazione urbana di questa città nel corso della sua storia.

La geomorfologia di VolterraLa città di Volterra sorge sulla sommità di una collina posta sullo spartiacque fra

le valli dei fiumi Era (a Nord) e Cecina (a Sud). Il pianoro su cui è costruita ha una direzione Nord-Ovest Sud-Est; mentre il suo versante di Nord-Est è ripido e segnato da profonde vallate, quello di Sud-Ovest degrada con minore inclinazione verso la valle del fiume Cecina. Nel versante di Sud-Est il poggio scende con un brusco sbalzo, mentre nelle altri parti declina con una serie di altipiani. Gli allargamenti e restringimenti della città si sono sempre verificati a Ponente e a Tramontana 1.

L’altezza di questi pianori varia dalla quota di 555 metri s.l.m. del Piano di Castello, fino ai circa 460 del Piano della Guerruccia. Vicino a questa collina princi-pale vi sono altre due alture più piccole collegate ad essa: la collina di Montebradoni ad ovest (440 metri s.l.m.) e quella di Poggio alle Croci ad est (536 metri s.l.m.), che comprendono parti dell’attuale abitato.

Nella zona a Nord-Ovest è attivo da tempo un forte movimento franoso che ha dato origine al fenomeno delle “Balze” e che ha coinvolto nei secoli parte dell’abitato suburbano. Altri movimenti franosi, di minore intensità, si sono verificati nel corso degli ultimi venti anni anche nel versante meridionale.

Il rilievo collinare su cui sorge la città è uno dei più alti dell’intera Val di Cecina; le sue pendici degradano lentamente verso il fondovalle dei due fiumi isolando l’intero complesso dalle alture circostanti poste a distanze variabili in tutte le direzioni. Il Cecina e l’Era sono notevolmente distanti, ma un certo numero di “botri”, piccoli corsi d’acqua a regime torrentizio, hanno origine ai piedi della città e assicurano il deflusso delle acque sorgive dividendo il pendio della collina in varie valli scavate dalle acque correnti. Scorrendo una carta da Ovest a Est troviamo i “botri”: Scricciolo, Rioddi, Poggiarone, Marmaio, Pagliaio e Martino, che fanno parte del bacino idrografico della valle del fiume Cecina; Pinzano, di Docciola, di Valle, Docciarello, Arpino, Doccia, della Frana e della Penera, di quello della valle del fiume Era 2.

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Una conformazione geografica di questo tipo non consente l’approvvigionamen-to dell’abitato tramite corsi d’acqua, salvo che nelle aree estremamente periferiche e suburbane, poste lungo le pendici della collina e caratterizzate soprattutto da un insediamento estremamente sparso destinato soprattutto alla produzione agricola. Anche la costruzione di acquedotti risultava estremamente complessa, vista la notevo-le distanza di complessi collinari alti quanto o più della collina di Volterra e le proble-matiche da superare, soprattutto l’ampio fondovalle del Cecina e le forti pendenze.

La geologiaSotto l’aspetto geologico il colle di Volterra risulta costituito da una sovrapposi-

zione di vari depositi sedimentari di ambiente marino formatisi tra il Pliocene infe-riore e il Pliocene medio; la superficie è composta da uno strato di calcari arenacei (localmente chiamato Panchina), che si sovrappone a vari strati di sabbie e argille 3. Questi strati inoltre sono tutti debolmente inclinati di circa 10° verso Nord-Est.

La stratigrafia geologica riconosce a partire dall’alto:1 Copertura di detrito2 Arenarie e calcari (lo spessore è variabile da pochi metri ad un massimo di 40)

Fig. 2 Carta idrogeologica di Volterra (da Tamburini, 1984)

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3 Sabbie (dallo spessore medio di circa 10 m)4 Sabbie argillose5 Argille sabbiose6 Argille grigie 4

Le acque piovane penetrano attraverso lo strato superiore di calcare arenaceo, permeabile per fessurazione, fermandosi sulla fascia di contatto fra lo strato sab-bioso, permeabile per porosità, e quello inferiore di argilla impermeabile oppure si infiltrano nella copertura detritica che spesso segue questo contatto; la falda acqui-fera principale si trova fra gli ultimi due strati, ma altre falde minori sono poste anche a quote più basse.

La maggior parte dell’acqua fuoriesce all’altezza del limite inferiore dello strato di sabbie con la conseguenza che le principali sorgenti (Docciola, le Conce, S. Felice, S. Stefano, al Pino, Mandringa) si trovano nella parte più bassa della città. Alcune sorgenti minori scaturiscono anche alla base della placca calcareo-arenacea, quando lo strato inferiore di sabbie è formato da sabbie limose, di scarsa permeabilità, oppure negli strati di sabbie argillose e argille sabbiose che formano il passaggio graduale fra rocce porose e quelle impermeabili 5. Da notare che le sorgenti più ricche di acqua sono individuabili sul versante Nord della collina e che si trovano in media ad una quota inferiore rispetto alle altre fonti del lato meridionale.

La sommità della collina su cui è costruito l’abitato di Volterra presenta un’aridi-tà superficiale accentuata; in questa ampia zona, costituita dal pianoro di Castello e da quello, posto ad una quota inferiore e molto più ampio, che va da Piazza dei Priori fino a Porta a Selci, non troviamo nessuna sorgente. Inoltre la profondità dello strato di acqua rende alquanto problematica la costruzione di pozzi per la sua raccolta, in tutta la città ne esistono pochissimi e sono riconoscibili dalla notevole profondità di pescaggio.

La deforestazione compiuta negli ultimi anni alla periferia del centro abitato e l’aridità superficiale dello strato di panchino provocano un equilibrio precario dei primi strati di terreno e sono la causa principale delle numerose frane, avvenute specialmente sul versante meridionale, il cui punto di origine si trova proprio nella fascia di contatto fra gli strati di sabbie e di argille 6.

Caratteristiche climaticheDeterminare la storia del clima di un’area così ristretta come quella occupata

da una città è estremamente difficile, specialmente per le epoche più remote. Una storia accurata del clima può essere realizzata solamente grazie a rilevamenti accu-rati compiuti per lunghi periodi e registrati. Per Volterra noi disponiamo dei dati di una stazione pluviometrica, esistente dal 1881 che ci consentono di conoscere le variazioni climatiche verificatesi a partire dalla fine del secolo scorso. Più remote sono le registrazioni compiute occasionalmente da eruditi locali come l’abate della Badia, Gherardini, o il dottor Toti, che hanno rilevato saltuariamente alcuni dati riguardanti il clima a Volterra; pur essendo discontinui e piuttosto empirici, nondi-

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Fig. 3 Carta geologica di Volterra (da Giannelli e altri, 1981)

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meno questi dati ci sono utili nel determinare la frequenza con cui avevano luogo i grandi eventi climatici nella nostra zona: alluvioni, periodi di siccità, grandi nevi-cate. Per periodi ancora più antichi, a parte qualche rara segnalazione di grandi eventi climatici compiuta dagli storici locali (che però sono attendibili solo in veste di testimoni diretti), possiamo solo disporre di dati generici riguardanti, bene che vada, l’Italia Centro Settentrionale.

Sappiamo che fra il 900 e il 300 a. C. in Italia il clima era prevalentemente fresco ed umido, durante questo periodo le abbondanti piogge favorirono il formarsi di vaste foreste che furono progressivamente distrutte con l’aumento di popolazione che caratterizzò la nostra penisola a partire dal V secolo; il livello del mare era più basso di circa un metro e i fiumi navigabili erano più numerosi. A questa fase seguì, per circa due secoli, un clima decisamente mite, con un aumento della temperatura ed una diminuzione delle piogge. Dall’esame delle fonti archeologiche troviamo una possibile conferma per questo mutamento, poiché è proprio in questo periodo che vengono costruite le principali cisterne della città etrusca e romana, mentre, al contrario, diminuisce la frequentazione delle sorgenti. In seguito la temperatura continuò ad aumentare e il clima divenne più arido fino alla tarda età imperiale (era più arido dei giorni nostri); una conseguenza fu il progressivo inaridimento di alcune regioni del Mediterraneo (ad esempio il Nord Africa) e l’aumento delle epidemie e delle carestie.

Dal 400, fino al 750-800 d. C., subentrò un clima decisamente fresco ed umido, che favorì il rimboschimento di ampie aree della penisola che erano state abban-donate a causa del declino demografico che seguì la fine dell’Impero Romano. A questo periodo seguì quello che gli studiosi del clima chiamano Optimum Climatico Medievale, cioè un periodo di caldo della durata di quattro secoli (800-1200), che comportò inverni miti e estati asciutte, con diminuzione della portata d’acqua dei fiumi e la formazione di paludi ed acquitrini, soprattutto (per quanto riguarda la Toscana) nelle pianure costiere, che si spopolarono per la presenza di numerosi focolai di malaria; un’altra causa di questo spopolamento furono le infiltrazioni di acqua marina nelle falde freatiche esterne causate dall’aumento del livello del mare.

Dal 1200 al 1350 abbiamo le prove di un clima più freddo, con aumento delle precipitazioni, sia in inverno che in estate, responsabili di frequenti alluvioni e di forti danni all’agricoltura. I due secoli successivi furono invece caratterizzati da bruschi cambiamenti climatici, anche di breve durata; sappiamo dai documenti volterrani che il 1519 fu un anno estremamente piovoso, tanto che una delle deli-berazioni del Consiglio di Volterra, imponeva ai cittadini di pregare e versare ele-mosine per implorare la fine delle piogge.

A partire dal 1550 per circa tre secoli invece il clima fu decisamente molto freddo, tanto che si parlò di una Piccola Età Glaciale. Le temperature medie erano molto basse, con inverni e estati umide e fresche; le precipitazioni abbondanti comportaro-no un aumento della superficie dei laghi ed un aumento dei fiumi navigabili, mentre le condizioni di vita si rivelarono estremamente disegevoli in certe aree geografiche.

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Arrivando ai secoli più vicini ai nostri disponiamo di maggiori informazioni anche su Volterra; infatti il clima caldo che si stabilì dopo questo periodo freddo dura da allora, interrotto solamente da un periodo di circa venti anni fra il 1950 ed il 1970 in cui tornò il freddo. Nel secolo scorso la temperatura nella nostra zona era comunque più bassa di quella attuale e soprattutto gli inverni erano particolarmen-te rigidi e nevosi, mentre le estati erano fresche. Il lungo periodo di funzionamento della stazione pluviometrica di Volterra ci permette di conoscere con estrema pre-cisione l’evoluzione delle precipitazioni annue registrate in questo ultimo secolo. Si notano così una tendenza alla diminuzione delle precipitazioni, nonché ampie variazioni cicliche di esse. Questi dati sono alquanto divergenti da quelli rilevabili in altre stazioni dal lungo periodo di funzionamento poste in città vicine, come ad esempio Siena e Grosseto. A Siena vi è una tendenza all’aumento delle precipitazio-ni, mentre a Grosseto, alla diminuzione, ma le variazioni cicliche sono minori e di minore intensità rispetto a quelle osservabili per Volterra 7.

Oggi Volterra rientra nel clima tipico della Toscana collinare-montuosa, con una temperatura media annua, negli ultimi 40 anni, di 12,9 gradi centigradi ed una piovosità annua media di 861 mm. Il mese più freddo è gennaio con una media di 5,1 gradi centigradi, mentre quello più caldo è luglio con una media di 21,9 gradi centigradi 8. La stagione piovosa va dall’autunno alla primavera, con una punta di massima piovosità nei mesi di ottobre, novembre e dicembre, ma concentrata in brevi periodi di pioggia (2-7 giorni) a carattere anche temporalesco. In inverno e primavera la pioggia è ripartita più uniformemente ed è di minore intensità. In inverno compare anche la neve, soprattutto nel mese di gennaio 9.

Si tratta di un clima subumido, con un indice di umidità globale fra 20 e 0 mm, tipico di quasi tutta la Toscana meridionale, ad eccezione delle zone montuose e della fascia costiera, che hanno climi rispettivamente umido e subarido. Inoltre è decisamente mesotermico come in tutta la regione tranne che nei rilievi più alti 10. In conclusione è un tipo di clima decisamente mediterraneo con influenze conti-nentali dovute principalmente alla sua altitudine che tende a favorire una elevata ventosità, con frequenti venti di tramontana durante l’inverno 11.

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NOTE

1) SALVINI 1973-74, P. 35.2) VEDI LA CARTINA IN TAMBURINI 1984.3) GIANNELLI E ALTRI 1981, P. 124. 4) COMUNE 1990, P. 1.5) COMUNE 1990, P. 12.6) COMUNE 1990, P. 13.7) OSSERVAZIONI RICAVATE ESAM INANDO IL GRAFICO RIPORTATO IN BARAZZUOLI-SALLEOLINI 1993, FIG. 25.8) BARAZZUOLI E ALTRI 1993, PP.147-150.9) SALVINI 1973-74, P. 44.10) BARAZZUOLI E ALTRI 1993, PP. 160-171.11) SALVINI 1973-74, P. 44

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PRIMA DELLA CITTÀ

Una delle caratteristiche che hanno certamente favorito l’installazione di un insediamento umano sulla collina di Volterra è stata l’abbondanza di acqua. Trenta secoli fa lo sfruttamento intensivo dell’area non aveva ancora modificato la collina dove si trovavano molte sorgenti naturali disposte a raggiera sulle pendici, che ali-mentavano i numerosi piccoli torrenti che a loro volta formavano le vallecole natu-rali assicurando il drenaggio del terreno; la composizione dello strato superficiale di terreno, scarso di argilla, favoriva sicuramente il drenaggio naturale e la vegetazione impediva lo sviluppo di frane di notevoli dimensioni. I vari pianori più o meno pianeggianti che vi si trovavano hanno certamente attratto l’attenzione degli antichi abitanti della zona che scelsero questo luogo per costruire le loro abitazioni.

La ricerca archeologica negli ultimi anni ha dimostrato che in origine l’abitato era costituito da piccoli nuclei insediativi distribuiti sulla collina; si tratta di una tipologia di sviluppo urbano comune anche a molte altre città come Veio, Vetulonia, Tarquinia. L’identificazione dei villaggi volterrani è basata principalmente sui ritro-vamenti delle rispettive necropoli, non essendo ancora emersi resti dell’abitato vero e proprio; si suppone infatti che, come avvenne in altre città, ogni villaggio avesse una propria necropoli non utilizzata dagli abitanti di altri insediamenti. Questi vil-laggi sono stati localizzati principalmente in aree pianeggianti o di lieve pendio: sulla sommità della collina principale (l’odierna area di Castello), nell’area soprastante Vallebuona, in quelle di Guerruccia-Montebradoni, sulla sommità del Poggio alle Croci e presso le Ripaie 1.

Ognuno di questi nuclei abitati era costruito nelle vicinanze di almeno un’ab-bondante sorgente perenne 2: vicino a quello di Guerruccia-Montebradoni c’erano sia la fonte di S. Giusto che quella di Mandringa; quello di Vallebuona era servito dalle ricche sorgenti della valle sottostante, mentre quello che si doveva trovare su Poggio alle Croci aveva nelle vicinanze la fonte di Velloso. Il villaggio che occupava il sito dell’Acropoli era l’unico che non disponeva di sorgenti vicine, ma poteva eventualmente essere dotato di cisterne per la raccolta di acqua piovana sul posto; è ipotizzabile anche che usufruisse di una sorgente localizzabile nei pressi dell’at-tuale Porta a Selci ed oggi scomparsa 3. È stata recentemente avanzata l’ipotesi che il nucleo abitato a cui faceva riferimento la necropoli delle Ripaie non si trovasse nella zona dell’Acropoli, come finora sostenuto, ma nella stessa zona delle Ripaie, in un punto leggermente più ad Ovest della necropoli, proprio in vicinanza della odierna Fonte del Pino 4.

Esisteva quindi una tipologia comune nell’organizzazione interna di ogni villag-gio. Ognuno di essi aveva un punto di approvvigionamento idrico che determina-

va anche la collocazione dell’abitato ed eventualmente era integrato da bacini di raccolta dell’acqua piovana. Le sorgenti non dovevano essere monumentalizzate, ma sfruttate così come si presentavano in natura; probabilmente le sole modifiche consistevano nell’allargare il bacino di raccolta originario realizzando una sorta di grotta artificiale. Come in molti altri casi nell’antichità 5, spesso l’ingresso era posto più in alto rispetto al bacino della fonte e l’accesso avveniva tramite una rampa o una scalinata; questa tipologia probabilmente ha in parte influito anche sulla suc-cessiva struttura architettonica delle fonti costruite 6.

Appare subito evidente la somiglianza della struttura insediativa preurbana di Volterra con quella di altre città dell’Etruria Meridionale e del Lazio, in partico-lare con Tarquinia, Veio e Vetulonia. Anche il periodo che va dalla tarda età del bronzo alla prima età del ferro era caratterizzato da un certo numero di villaggi che occuparono il luogo su cui si andò in seguito a costituire, tramite un processo di sinecismo, la città etrusca 7. Nei siti destinati a diventare agglomerati urbani ogni nucleo di abitazioni interessato alla formazione della città era situato, proprio come a Volterra, nelle vicinanze di almeno una sorgente. Il villaggio poteva avere anche una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana di proprietà comune delle famiglie ivi residenti, che costituiva una riserva da usare nei periodi di siccità 8.

L’esempio meglio documentato e più vicino a Volterra ci viene da Veio; in questa città gli insediamenti originari erano distribuiti lungo il perimetro dell’altopiano su cui si sviluppò l’abitato in una posizione che permetteva di raggiungere facilmente i vari corsi d’acqua che lambivano la collina per potervi attingere acqua corrente; nell’antichità l’acqua sorgiva o corrente era considerata migliore di quella piovana e pertanto era privilegiato il rifornimento tramite le sorgenti o i corsi d’acqua 9. Costituisce un’eccezione il villaggio di Piazza d’Armi, che in seguito divenne il centro della città, che è organizzato intorno ad un grande deposito circolare “che costituisce il solo spazio pubblico ‘forense’ finora riconosciuto ... accanto alla cister-na ... sorge un edificio dagli ambigui caratteri di sacello e di regia” 10.

L’esistenza di edifici “pubblici” nei pressi di serbatoi d’acqua è documentata anche a Roma 11 e, qualche secolo dopo, anche alla civita di Artena 12, ma non si doveva trattare di casi isolati, bensì di un sistema generalizzato che è stato possibi-le riconoscere solo in rare circostanze, poiché caratteristico della fase più antica di insediamento. La sovrapposizione delle fasi successive e il prolungato utilizzo delle aree sono state evidentemente alla base delle difficoltà di riconoscere in molti siti situazioni simili.

18 Alessandro Furiesi

NOTE

1) CATENI-MAGGIANI 1997, PP. 57-592) LA P RESENZA DI SORGENTI NATURALI È SEM P RE STATO UN FATTORE ESSENZIALE NELLA SCELTA DEI LUOGHI DOVE STABILIRSI: “NON È UN CASO SE M OLTI DEGLI INSEDIAM ENTI FRA I PIÙ ANTICHI FURONO SITUATI NEI PRESSI DI UNA O PIÙ SORGIVE, CHE NEL TEM PO VENNERO POI OPPORTUNAM ENTE PROTETTE ED ADATTATE; COSÌ CNOSSO, TROIA, GERUSALEM M E, ATENE, SIRACUSA” (RIERA 1994, P. 299).3) QUESTA SORGENTE OGGI SI TROVEREBBE ALL’INTERNO DELLA FORTEZZA MEDICEA (BATTISTINI 1921, P. 25). 4) CATENI-MAGGIANI 1997, P. 48.5) AD ESEM P IO LA FONTANA CLESSIDRA DI ATENE, LA FONTE CASTALIA A DELFI, UNA GROTTA P RESSO LOCRI, LA GROTTA DI MATROM ANIA DI CAPRI (NEUERBURG 1965, PP. 31-39).6) NEUERBURG 1965, P. 31.7) GROS-TORELLI 1992, PP. 10-15. QUESTE DUE CITTÀ SONO SOLO I CASI M EGLIO STUDIATI E P IÙ INTERES-SANTI, M A LO STESSO FENOM ENO P UÒ ESSERE RICONOSCIUTO ANCHE P ER ROM A, VULCI, NARCE, FALERII E ALTRI CENTRI DELL’ETRURIA E DEL LAZIO.8) TORELLI 1991, P. 25.9) TÖLLE-KASTEBEIN 1990, PP. 129-130.10) TORELLI 1991, P. 25.11) SI TRATTA IN QUESTO CASO DI DUE CISTERNE ARCAICHE CHE SI TROVANO SUL PALATINO FRA LE Scalae Caci e la casa di Livia, presso le quali sono state scoperte due serie di terrecotte architettoniche pertinenti a “Regiae” (Tor el l i 1991, p. 25).12) De Wael e-Lambr echt s 1990.

Prima della città 19

LA CITTÀ ETRUSCA

N el corso del VII secolo a.C. si costituì un unico centro urbano nella parte sommitale della collina, servita dalla necropoli individuata nella zona delle Ripaie 1. Intorno

ad essa dovevano svilupparsi dei sobborghi distribuiti lungo le principali direttrici viarie e con aree di concentrazione privilegiate situate vicino alle sorgenti 2. È il primo nucleo della città etrusca, destinato a divenire il centro intorno a cui si svilupperà nei secoli successivi Volterra. La principale fonte di approvvigionamento era ancora costituita dalle sorgenti naturali poste più in basso lungo le pendici della collina, che erano scelte come luogo privilegiato per l’insediamento, soprattutto se vicine alle vie di comunicazione, come conferma il ritrovamento di resti di capanne villanoviane datati al VII secolo a.C. nei pressi della fonte di S. Felice 3.

L’abitato doveva quindi essere più articolato di quello che si ritiene normalmente, con suburbi localizzati in prossimità di punti importanti, come erano le sorgenti, in modo da poter sfruttare al meglio tutte le risorse a disposizione 4. Questo sistema di approvvigionamento è molto simile a quello utilizzato in molte città antiche, in par-ticolare in Grecia, a Tirinto, Micene e sull’Acropoli di Atene dove le sorgenti sgorga-

Fig. 4 Planimetria dell’Acropoli (da Bonamici 1997)

A

c

A, C: cisterne

vano nella parte inferiore della collina su cui era posto l’insediamento. In molti casi queste erano accessibili solo uscendo dalle mura di cinta; per questo motivo molte erano raggiungibili tramite gallerie in discesa dotate di scalinate il cui ingresso si trovava all’interno della cinta muraria (è il caso, ad esempio, della fonte Perseia di Micene 5).

È questo il periodo in cui in Etruria vennero applicate diffusamente le notevo-li conoscenze idrauliche importate dalla Grecia; in molti casi furono costruiti veri e propri acquedotti, ma altre città dalle caratteristiche geomorfologiche simili a quelle di Volterra provvidero a dotarsi di un sistema per la raccolta di acqua piovana o a costruire pozzi anche di profondità elevata, relegando le sorgenti e i corsi d’acqua che scorrevano vicino all’abitato a un ruolo secondario. L’esempio più significativo è quello di Veio dove, al momento della costituzione del centro urbano, si provvide a realizzare una rete di cunicoli di drenaggio che raccoglievano l’acqua piovana dalla superficie del pianoro e la convogliavano nei serbatoi 6. Una simile rete di canalizzazioni per la raccolta della pioggia, basata su di un piano regolatore ben strutturato, è documentata anche a Chiusi 7, Orvieto 8 e Perugia 9, ma in queste città è databile a qualche secolo dopo: all’età ellenistica.

Nessun pozzo, cisterna o canalizzazione di Volterra può essere datato con certezza a questa prima fase urbanistica, in ogni caso l’elevato tasso di riutilizzo di questo tipo di strutture, specialmente quelle pertinenti ad abitazioni private, rende difficile stabilire quanto i serbatoi di acqua supportassero le sorgenti naturali. L’Acropoli

22 Alessandro Furiesi

Fig. 5 Canaletta di scolo delle acque in terracotta

La città etrusca 23

La migliore documentazione disponibile per conoscere l’evoluzione della città etrusca e anche per conoscere il sistema di utilizzo delle acque, ci viene dal settore occidentale dell’Acropoli, che è la sola area intensamente scavata della città etrusca. Dobbiamo premettere, come ho spiegato nel primo capitolo, che l’unica area edifi-cata non dotata di sufficiente apporto idrico era quella dell’Acropoli, dove la falda acquifera si trovava ad una profondità eccessiva per poter essere utilizzata; esiste un’unica testimonianza dell’esistenza di una sorgente, che si trovava nei pressi del-l’attuale porta a Selci, ma la ritengo infondata 10. La carenza di acqua sorgiva in questa zona rese sicuramente necessaria la costruzione di cisterne per la raccolta del-l’acqua piovana in modo da garantire una riserva idrica sia per le esigenze igieniche che per le eventuali attività produttive.

Quest’area fu occupata da un complesso santuariale almeno dal VII secolo a.C., come ci testimonia il ritrovamento di un bronzetto votivo databile a quel periodo; nei secoli successivi si succedettero vari edifici, uno dei quali testimoniato dalla sco-perta di parte della decorazione architettonica, che fu costruito nei primi decenni del V secolo a.C. e distrutto agli inizi del III secolo. Nel corso del III secolo a.C. la zona fu interessata da una intensa attività edilizia, che portò alla creazione di un quartiere ad alta densità di edifici a destinazione religiosa. In una prima fase, data-bile al primo quarto del III secolo a.C., fu costruito un impianto sacro consistente

Fig. 6 Sezioni comparate delle cisterne dell’Acropoli (rielaborate da Acropoli 1981)

24 Alessandro Furiesi

in una serie di vasche, destinate a cerimonie di spremitura dell’uva per riti cultuali simili ad altri conosciuti in Grecia 11. Qualche decennio dopo, alla fine del secolo, venne eretto il cosiddetto Tempio “B”, un imponente tempio tuscanico collocato sul margine del pianoro dell’Acropoli, in una posizione da cui dominava il sotto-stante centro abitato, visibile da buona parte della città e di grande effetto sceno-grafico; oggi quest’edificio è quasi completamente scomparso a causa della frana del terreno su cui si trovava.

Per dotare il tempio “B” di acqua sufficiente per le necessità del culto, fu realiz-zato un sistema di raccolta dell’acqua piovana molto raffinato, con la costruzione di grandi cisterne sotterranee distribuite tutt’intorno all’edificio 12. Ne sono state rin-venute soltanto ad Est e a Sud dell’edificio, ma sicuramente doveva essercene almeno

Fig. 7 Sezione e pianta della cisterna del tempio A (rielaborata da Acropoli 1981)

La città etrusca 25

una anche sul lato Ovest 13. Le cisterne provvedevano a raccogliere l’acqua piovana precipitata sul tetto del tempio tramite un sistema che collegava le grondaie fittili del tetto a delle canalette, sempre di terracotta, sotterranee che convogliavano l’acqua in fossette scoperte realizzate in muratura e costruite lungo i lati della piazza; queste fossette avevano un’inclinazione tale da condurre l’acqua piovana in un’unica cana-letta sotterranea da cui veniva immessa nel serbatoio di raccolta 14.

La tipologia delle cisterne è sempre la medesima: la forma è pressoché cilindrica e sia le pareti che il fondo sono rivestiti prima con uno strato di argilla destinato ad impermeabilizzarle e poi da un rivestimento in pietre per renderne stabile la struttura. Differiscono fra di loro soltanto nelle dimensioni. La cisterna n. 2, che ha un diametro di due metri di diametro ed è profonda circa m 4,80, è quella che conserva meglio il sistema di captazione, in quanto è stata l’unica a non essere stata modificata in epoche successive. Al momento dello scavo presentava ancora resti dell’intonaco usato per impermeabilizzarla e il giro esterno del paramento in pietra era fermato al battuto da un cordone di blocchetti cementati.

Questa cisterna era l’unica, per quanto sappiamo, destinata a raccogliere anche l’acqua proveniente dal piazzale antistante il tempio; la piazza aveva probabilmente una pendenza tale da consentire all’acqua di entrare nelle fossette scoperte collocate a questo scopo lungo il perimetro dell’area. Questa cisterna era dotata anche di uno sfogo per immettere l’acqua in eccesso sulla strada, da cui veniva convogliata al di fuori delle mura tramite una fognatura che non è stata trovata 15. Probabilmente a questo serbatoio ne corrispondeva un altro collocato sul lato Ovest del tempio, ma che non si è conservato a causa della frana che ha interessato l’edificio. Molto inte-ressante appare il confronto della planimetria di questo tempio con il tempio B di Pyrgi, soprattutto se esaminiamo la posizione delle cisterne-pozzo in rapporto all’in-gresso dell’edificio di culto che nei due casi è molto simile 16. Grazie ai recenti scavi effettuati sull’Acropoli la somiglianza fra i due templi è ancora più marcata 17.

Una seconda cisterna, di dimensioni più modeste (diametro m 2, altezza m 2), si trovava invece a Nord di questo edificio. Il sistema di captazione dell’acqua era il medesimo e la cisterna fu costruita contemporaneamente a quelle antistanti il tempio, ma a differenza della precedente raccoglieva solo l’acqua proveniente dal tetto e non dall’area circostante l’edificio. Un terzo serbatoio fu costruito invece più lontano, sul lato Est del tempio, ed è il più grande fra quelli conservatisi sull’Acro-poli, oltre che il più interessante, in quanto fu coinvolto anche in un successivo rifacimento edilizio di cui parlerò più avanti; è profondo 7 metri ed ha un diametro massimo di 3 metri, anch’esso è scavato nella roccia ed è foderato da un paramento di blocchetti di pietra; fra il paramento e la roccia vi è uno strato di argilla di circa 80 centimetri.

Con la costruzione di un secondo edificio templare, avvenuta verso la metà del II secolo a.C., cambiò leggermente anche l’assetto delle opere idrauliche che dovevano renderlo più efficiente in relazione alla nuova sistemazione del quar-tiere. Il nuovo edificio dalla pianta allungata, chiamato Tempio “A”, si addossò

26 Alessandro Furiesi

al precedente tempio, da cui era separato solo da un piccolo stradello lastricato; intorno ai due templi fu costruito anche un recinto sacro (temenos) destinato a delimitare l’area sacra. La piazza che si trovava a Sud del tempio “B” fu mantenu-ta e risistemata, ma venne delimitata da nuovi edifici posti sul suo lato meridio-nale. Alcune cisterne costruite in quest’area del pianoro, agli estremi della piazze sono forse pertinenti ad ambienti di servizio collegati alle esigenze santuariali 18. La cisterna A sopravvive a questi cambiamenti senza trasformazioni, mentre scompare la cisterna B che fu obliterata al momento della costruzione del basa-mento del nuovo tempio.

Per continuare ad utilizzare la cisterna C, che altrimenti sarebbe stata anch’essa coperta in seguito alla costruzione del podio del nuovo tempio, fu necessario rea-lizzare un singolare accorgimento architettonico, che ci fa capire quanto fossero grandi la volontà e il bisogno di mantenere questa cisterna, per le necessità del tempio. Venne pertanto ricavato un vano nel muro Est del tempio e, tramite una piattabanda passante per il diametro dell’orifizio della cisterna, fu creato il soste-gno per un arco costruito al di sopra della cisterna e inglobato nel basamento del tempio; fu così realizzata una sorta di nicchia da cui era possibile attingere l’acqua che doveva servire per le funzioni del tempio. È probabile che questa nicchia fosse dotata di un’apertura anche nella parte superiore per mezzo della quale gli inser-vienti potessero prendere acqua direttamente dall’interno dell’edificio. La forma ellittica della cisterna è forse dovuta a lavori di allargamento compiuti in occasione di questa risistemazione dell’area con lo scopo di aumentare la capacità del depo-sito.

La cisterna serviva per conservare l’acqua piovana che veniva raccolta dal tetto del santuario e che era convogliata dentro di essa tramite grondaie e condutture in terracotta. La volontà di risparmiare questa costruzione era dovuta indubbiamente alla necessità da parte dei templi etruschi di disporre di acqua per i propri riti. Sono molti infatti i templi di altre città etrusche che hanno delle strutture di raccolta delle acque piovane o addirittura delle canalizzazioni progettate appositamente per ricevere l’acqua da sorgenti poste più o meno nelle vicinanze degli edifici 19. Si tratta di un tipo di tempio diffuso soprattutto in ambito suburbano 20, ad esempio a Veio (tempio del Portonaccio, con annessa una grande “piscina” in cui erano con-dotte le acque di un torrente) 21, a Falerii (templi di Celle e Sassi Caduti) 22, a Orvieto (santuario della Cannicella) 23, a Arezzo 24. Sono però frequenti anche i casi all’interno delle città e nelle acropoli, basti pensare a Falerii (templi del Vignale e dello Scasato) 25, e a Orvieto 26.

L’acqua in questo caso doveva essere a disposizione anche dei fedeli per le esi-genze individuali, in quanto a questo vano si accedeva dallo stradello basolato che correva intorno al tempio 27. Coloro che accedevano al tempio potevano, tramite abluzioni compiute sul posto con l’acqua di questo deposito, purificarsi prima di prendere parte alle cerimonie. Non sembra che, per quanto riguarda questo tempio, si possa pensare a una funzione curativo-sacrale dell’acqua.

La notevole ampiezza della cisterna del tempio “A” ci porta però anche a pren-dere in considerazione l’ipotesi che essa fosse in qualche modo accessibile a tutta

La città etrusca 27

la cittadinanza e quindi “pubblica”, anche se posta sotto il controllo dell’ammini-strazione templare. Dell’esistenza di pozzi e serbatoi pubblici nelle città etrusche abbiamo molti esempi 28, nella maggior parte dei casi si tratta di costruzioni situate vicino a importanti arterie viarie, che spiccano per le notevoli dimensioni. La tenta-zione di poter controllare un bene così prezioso in una zona lontana dalle sorgenti,

Fig. 8 Resti di muratura etrusca presso Porta S. Felice (da Caciagli 1980)

potrebbe avere indotto i sacerdoti a consentire il prelevamento dell’acqua anche per usi profani, in modo che il tempio potesse acquisire maggiore importanza. È anche probabile che la grandezza di questa cisterna fosse motivata dallo scopo di fungere da “riserva strategica” da sfruttare solo in casi di emergenza, come i periodi di siccità, posta sotto la protezione della divinità.

L’abitatoNel corso del IV secolo a.C. si verificò un notevole sviluppo demografico ed econo-

mico della città, collegabile ad un fenomeno generale che in questo periodo interessò tutta l’Etruria Settentrionale. L’aumento delle esportazioni, l’emissione di una propria moneta e i ricchi complessi tombali sono le prove principali della floridezza econo-mica di Volterra in quest’epoca che determinò la notevole crescita demografica che fu responsabile dell’espansione urbana, come testimonia la costruzione di una grande cerchia muraria databile alla fine del IV-prima metà del III secolo a.C.-29. L’erezione di questa cinta muraria è dovuta anche alle minacce che in quel momento interessa-rono l’intera regione e che costrinsero molte città ad aggiornare le proprie opere di difesa 30. La battaglia combattuta fra romani ed etruschi nei pressi di Volterra nel 298 a.C. spinse, probabilmente, la città a dotarsi di un’ampia cerchia di mura 31.

Purtroppo le poche indagini archeologiche condotte nel centro abitato di Volterra non ci hanno dato informazioni sufficienti per capire come fosse orga-

28 Alessandro Furiesi

Fig. 9 Pianta degli scavi compiuti durante i restauri della fonte di S. Felice (da Caciagli 1980)

La città etrusca 29

Fig. 10 Resti di muratura etrusca presso Porta S. Felice

nizzato l’approvvigionamento idrico delle abitazioni private; possiamo comun-que supporre che molto affidamento veniva fatto sulle sorgenti naturali dislo-cate lungo la collina, molte delle quali vennero inglobate nella nuova cinta muraria. Esistono inoltre due casi abbastanza interessanti: S.-Felice e Pescaia.

Presso la cosiddetta “Porta inferiore” di S. Felice, durante i lavori compiuti per la risistemazione della fonte omonima, fu rinvenuta un’interessante opera idraulica etrusca, i cui resti sono visibili, ancora in situ, sul lato Est della porta. Si tratta dei resti di due cunicoli; il più antico è una galleria interamente scavata nella roccia, che non è stata esplorata interamente, alta circa m 1,70 e larga 50 cm, che all’inizio si dirige verso Est, poi piega a Nord ed è lunga circa 30 m. Il secondo è un con-dotto di drenaggio costruito a 80 cm dal cunicolo precedente, di cui si conservano soltanto una parete laterale e due lastre della copertura; è interamente costruito e ha un percorso Nord-Sud, perpendicolare alle mura etrusche 32.

Il secondo condotto è sicuramente un cunicolo di drenaggio urbano costrui-to contemporaneamente alle mura etrusche che in quel punto si possono datare a fine IV – inizi III secolo a.C. 33, probabilmente simile ai molti altri che sono ancora oggi visibili ad intervalli pressoché regolari lungo tutte le mura di cinta. Il cunicolo posto più in basso fu scavato in epoca precedente, prima della grande espansione edilizia, in un’area non ancora protetta dalle mura di cinta. Probabilmente si trattava di una opera di presa per l’acqua potabile che doveva alimentare un bacino di raccolta posto in questa stessa area e di cui non sono stati trovati i resti 34. La sua costruzione è quindi sicuramente anteriore alla fine del IV secolo a.C.

Nei pressi del podere Pescaia, nella zona Nord della città, in un terreno coltivato poco distante dalle mura etrusche si conservano, quasi integralmente, due diversi condotti di drenaggio.

Il primo condotto parte da una piccola grotta in cui si trova una sorgente che era già frequentata in epoca etrusca poiché, come riferito dagli abitanti attuali della zona, nel corso degli anni vi sono stati rinvenuti dei non meglio preci-sati “materiali antichi”. Questo condotto consiste in una fossetta profonda da 30 a 50 centimetri e larga circa 30 centimetri, scavata nel terreno e rinforzata da muretti a secco formati da blocchetti di pietra semilavorati. Il percorso per la maggior parte non ha copertura; in un primo tratto costeggia il lato destro di un sentiero che conduce alle mura etrusche 35, poi attraversa questa strada grazie ad una breve canalizzazione realizzata con lastre di pietra come fondo e copertura e con blocchetti di pietra per le pareti. Da questo punto scorre lungo il lato sinistro del sentiero fino ad arrivare quasi a contatto con le mura; a meno di quattro metri da esse piega a sinistra per infilarsi in una conduttura coperta, lunga circa sette metri, tramite la quale attraversa le mura in diagonale, fino a sfociare fuori di esse. Lo sbocco di questa conduttura misura circa 40 x 50 cen-timetri, una pietra sporgente agevola il deflusso delle acque, mentre superior-mente una grande lastra di pietra fa da copertura. Si tratta di una canalizzazione progettata per portare fuori dalle mura le acque in eccesso della fonte posta poco

30 Alessandro Furiesi

più a monte. Il primo ad individuare questo tratto di drenaggio fu il Dennis che ne vide lo sbocco nelle mura etrusche dal basso 36.

La seconda conduttura si conserva solamente per un breve tratto, parte da una peschiera moderna posta poco sotto la casa e arriva fino alle mura. È, come la pre-cedente, interamente sotterranea, con pareti realizzate in muratura, pavimento e copertura in lastre di pietra, ma di dimensioni maggiori: infatti misura 45 cm di lar-ghezza per 150 di altezza. In un punto è possibile sollevare le lastre della copertura in modo da consentirne la pulizia 37. Si dirige anch’essa verso le mura, ma poco prima di esse si interrompe, probabilmente a causa di una frana: il tracciato doveva essere perpendicolare alle mura stesse. In questa zona il muraglione difensivo è stato restau-rato più volte e lo sbocco che doveva servire questa conduttura è scomparso; l’acqua comunque filtra ancora oggi attraverso le pietre.

Osservando la zona di Pescaia dall’alto notiamo che un ampio tratto di terreno a ridosso delle mura, oggi coltivato a orti e frutteti, è perfettamente pianeggiante. Le mura etrusche in questo caso devono avere svolto in passato una duplice funzione: di protezione della città e di terrazzamento di questo terreno. Appare infatti vero-simile che quest’area al momento della grande espansione urbana sia stata desti-nata ad usi urbani con la creazione di un ampio tratto di terreno pianeggiante. Il sentiero lastricato che oggi costeggia questo terreno si collega ad un altro che, seguendo più o meno il tracciato delle mura, arriva fino a S. Andrea; tale sentiero sicuramente è l’ultima fase di utilizzo di un tracciato antico che doveva collegare la città con quest’area, dove, nel punto di contatto fra il sentiero e le mura di cinta, si doveva aprire un valico che collegava la città con la ricca valle sottostante. Le condutture dovevano drenare con efficacia questo pianoro per consentirne l’utiliz-zo; l’abbondanza di acqua potrebbe far pensare ad una destinazione della zona sia per coltivazioni, che per attività produttive, erano infatti molte le manifatture che necessitavano di acqua, non ultimo l’allevamento di pesci, come lascia supporre il podere soprastante, chiamato Pescaia. È assai probabile che questo sistema di dre-naggio venisse realizzato contemporaneamente alle mura di cinta, alla fine del IV – inizi III secolo a.C.

L’approvvigionamento tramite sorgenti doveva essere completato dalla costru-zione, nelle abitazioni, di cisterne di medie dimensioni sufficienti per le necessità individuali di una unità familiare e anche per modeste attività artigianali. Queste cisterne venivano alimentate dall’acqua piovana raccolta dal tetto e convogliata nel deposito tramite brevi canalizzazioni in pietra o in terracotta; questa tipologia di ser-batoi è ben documentata dalle grandi cisterne templari dell’Acropoli, ma sappiamo dell’esistenza di almeno un serbatoio pertinente probabilmente ad una abitazione.

Si tratta di una cisterna rinvenuta durante alcuni lavori di ristrutturazione della cantina del Palazzo Viti, in via Sarti; attualmente è visibile all’interno della disco-teca che oggi occupa buona parte della cantina. È scavata nella roccia, ha forma approssimativamente a bottiglia con pareti che si allargano a circa 2 metri di altezza

La città etrusca 31

per poi restringersi nuovamente verso l’imboccatura; il diametro maggiore è di circa due metri, mentre all’imbocco misura circa 60 cm., l’altezza è di circa 4 metri. La parete interna è rivestita da un paramento in blocchi di pietra; fra la roccia ed il rivestimento, a detta del sig. Viti, vi è uno strato di argilla destinato all’impermea-bilizzazione. In mancanza di ulteriori informazioni possiamo comunque supporre che, per le sue caratteristiche strutturali simili a quelle dell’Acropoli, anche questa cisterna sia databile al III secolo a.C. 38. Sempre in base a quanto riferito dal sig. Viti, poco più ad Ovest, nella cantina del palazzo accanto, durante alcuni lavori, è stata intravista una cisterna simile, che non è stata però svuotata.

Non possiamo datare le cisterne o i pozzi di questo tipo senza il supporto di altri dati provenienti dallo scavo delle case per cui erano state costruite, in quanto si tratta di costruzioni realizzate in maniera assai simile un po’ ovunque. La presenza di un pozzo o di un serbatoio per l’acqua all’interno di un’unità abitativa è infatti la tipo-logia edilizia più diffusa nell’antichità ed è nota almeno dal VI secolo a.C. in molti contesti dell’Italia centrale 39. L’esempio meglio studiato è quello di Marzabotto; questa città, fondata alla fine del VI secolo a.C. sulla base di un piano regolatore ben leggibile ancora oggi, era organizzata in modo che ogni unità residenziale possedesse almeno un pozzo da cui attingere acqua per le proprie necessità 40. Lo scavo di una vasta parte dell’abitato ha dimostrato come ogni pozzo fosse adattabile alle esigen-ze che si presentavano di volta in volta a causa della facile modificabilità delle sue dimensioni 41.

Fig. 11 Ricostruzione delle condutture etrusche note

32 Alessandro Furiesi

A: S. Giusto

B: Docciarello

C: S. Chiara

D: S. Felice

E:Via della Porta all’Arco - Via Matteotti

F: Docciola

G: Pescaia

AB

C

ED

F

G

La città etrusca 33

Fig. 12 Sbocco fognario di Docciola

Il sistema di drenaggio urbanoElemento indispensabile alla costruzione di un agglomerato urbano è il sistema

di drenaggio della zona abitativa. Le zone destinate ad uso residenziale dovevano essere provviste di ottimi sistemi di drenaggio per poter consentire la costruzione di edifici senza pericolo di frane causate dalle infiltrazioni di acqua; questi drenag-gi erano assai simili a quello esaminato alla Pescaia. In tutte le città etrusche sono documentati condotti (chiamati cunicoli) scavati nel terreno e destinati, più che allo svuotamento delle fogne, al drenaggio delle acque piovane in eccesso. La prima rete drenante conosciuta a Volterra è databile alla fase della grande espansione urbana di IV- III secolo a.C. ed è direttamente collegata con la realizzazione della grande cerchia muraria, in quanto era necessario che le mura di cinta non fossero da osta-colo al deflusso delle acque. Per questo le fognature attraversavano le mura tramite canalizzazioni di cui rimangono ancora oggi le aperture lungo la cinta muraria e che per noi sono la migliore testimonianza dell’ubicazione alle condutture.

Attualmente solo alcune di esse sono ancora aperte 42, altre invece sono state tam-ponate in epoca moderna. La loro dimensione e molto variabile e va dai circa 2 metri di altezza per 50 cm di larghezza nel caso delle condutture della Valle di Docciola, ai 40 x 40 cm di molti sbocchi minori; le dimensioni dipendevano dalla quantità d’acqua che era trasportata dal condotto di drenaggio, che era sicuramente molto maggiore in un punto di fondovalle come a Docciola. La tecnica di costruzione è sempre molto simile; un’apertura quadrata o rettangolare ricavata nelle mura con sopra una lastra di pietra più grande delle altre come copertura finale del condotto; in molti degli sbocchi maggiori è presente anche una pietra sporgente nella parte infe-riore destinata a far cadere il getto il più lontano possibile dalle mura per evitare peri-colose infiltrazioni nelle fondamenta 43. Gli sbocchi si trovano, nella maggior parte dei casi, soltanto 2-3 metri più in basso della sommità delle mura, indicazione che fa pensare ad un percorso dei drenaggi vicino alla superficie. La conduttura, per quello che è possibile vedere, è stata ricavata scavando una trincea successivamente ricoperta da una serie di lastre di pietra, e consolidata con pareti in muratura.

Nelle mura etrusche che sbarrano a Nord la valle di Docciola si aprono tre sbocchi di fogna. Quello più ad Est è anche l’unico conosciuto, infatti lo hanno citato sia il Gori che il Fiumi, senza descriverlo con precisione, limitandosi soltanto a dire che serviva per la raccolta e lo smaltimento delle acque del Botro di Docciola 44. L’apertura misura circa 50 cm di larghezza per circa 170 cm di altezza, ma l’altezza del cunicolo non è molto sicura perché il condotto è franato in epoca recente; l’inter-no è realizzato con blocchi di pietra disposti a gradoni per il pavimento e il soffitto, mentre le pareti sono realizzate in muratura a piccole bozze 45. Al di sopra di esso una grande lastra di pietra ne costituisce l’architrave. Una frana blocca il condotto ad appena tre metri dallo sbocco. Attualmente questo sbocco è molto rimaneggiato a causa di restauri recenti che interessano la parte immediatamente ad Ovest di esso; tutto questo tratto di muro è franato per circa quattro metri a causa del passaggio del torrente Docciola che in origine doveva essere invece drenato da questo collettore. L’apertura, almeno nelle parti che sono rimaste intatte, appare ricavata risparmiando

34 Alessandro Furiesi

un vano nel muro e quindi si tratta di un’opera contemporanea ad esse.Circa 10 metri ad Ovest di esso vi è un altro sbocco fognario tamponato in epoca

moderna con pietre, laterizi e cemento. Questo secondo sbocco appare contempo-raneo alle mura come l’altro e misura 45 cm di larghezza per 1,50 m di altezza; un grosso lastrone di pietra funge da architrave; appare ricavato contemporanea-mente alle mura come l’altro sbocco. Non è possibile vedere il condotto a causa della muratura moderna. Entrambe queste due aperture sono realizzate circa cinque metri più in basso rispetto alla sommità del muro, quasi all’altezza del terreno (oggi sono a circa 50 cm da terra, ma forse parte del terreno è stata riportata successiva-mente). Più ad Ovest vi è invece un’apertura posta più in alto, a circa un metro e mezzo dalla sommità, e di dimensioni diverse, (circa 50 cm di larghezza per 60 di altezza) che non è stato possibile raggiungere a causa dell’altezza da terra (circa 4 metri). Quest’ultima apertura appare comunque leggermente diversa dalle due pre-cedenti: soprattutto per le dimensioni.

Questo tratto di mura di circa trenta metri che sbarrava la valle di Docciola appare realizzato con due diverse tecniche di costruzione: la parte inferiore del muro, dove si trovano le prime due aperture, è realizzata con grossi blocchi di pietra ben squadrati e congiunti fra loro, mentre quella superiore, dove si trova la terza apertura, è realiz-

La città etrusca 35

Fig. 13 Sbocco fognario della Berniona

zata con blocchi in media più piccoli, non ben squadrati e con i punti di congiun-zione che non sempre sono regolari. Queste differenze fanno pensare ad un restauro della parte superiore delle mura avvenuto in epoca non precisata e ciò sarebbe con-fermato anche dalla presenza di un frammento di colonna utilizzato come elemento di muratura per la parte superiore di esse 46.

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Fig. 14 Sbocco fognario di S. Giusto

Un’altra serie di sbocchi fognari si apre in prossimità della chiesa di S. Chiara in Borgo S. Giusto; alcuni di essi sono stati tamponati con cemento in epoca moderna. Il loro numero non è ben precisato, ce ne sono tre ben riconoscibili, ma ve ne è almeno un altro di più difficile identificazione; questi dubbi sono dovuti a una notevole quantità di altre tamponature in cemento realizzate in epoca moderna per coprire i buchi nelle mura etrusche allo scopo di impedirne il disfacimento.

L’unico sbocco oggi ben visibile è posto a pochi metri più a Est della chiesa di S.-Chiara e misura circa 120 cm di altezza per 60 di larghezza. Il cunicolo a cui fa riferimento è interrotto a meno di due metri dall’imbocco; la parte che è conser-vata è interamente in pietra. La pavimentazione e la copertura sono realizzate con grandi lastre di forma pressoché rettangolare disposte a gradoni, mentre le pareti sono formate da blocchi di pietre di piccole dimensioni. Lo sbocco della condut-tura presenta superiormente un architrave formato da un unico, grande blocco di pietra, mentre l’ultima lastra della pavimentazione sporge all’esterno per impedire che le acque finissero proprio ai piedi delle mura. Il Dennis le descrive così: “In questo tratto [di mura] si trovano due canali di drenaggio, feritoie quadrate con soglie sporgenti, come a Fiesole, a dieci o dodici piedi sopra il terreno 47”.

Poco più ad Ovest si conservano altri due sbocchi di fogna di piccole dimensio-ni. La loro altezza dal terreno, circa 5 m, non ha reso possibile misurarli con esat-tezza. In entrambi una pietra sporgente allontanava il getto d’acqua dalla base delle mura e una grande lastra di pietra fa da copertura. Si trovano ad appena un paio di metri dalla sommità del muro.

Nelle mura etrusche che proteggono il versante nord del pianoro di Borgo S.-Giusto si apre, all’altezza dei campi da tennis lungo la Strada Provinciale Pisana, un altro sbocco fognario di circa 50 x 50 cm simile a quelli che si trovano sull’al-tro versante della collina, nelle mura di S. Chiara, che probabilmente fa parte di un altro tratto dello stesso sistema di drenaggio che doveva servire al pianoro di S.-Giusto. Il condotto a cui fa capo è realizzato in muratura con lastre di pietra impiegate per la copertura e la pavimentazione; è ostruito a poche decine di cen-timetri dall’uscita e apparentemente scorreva in direzione Nord-Sud, perpendico-larmente alle mura. La fogna è stata descritta solo da Viti che la ritiene parte di un unico sistema che canalizzava le acque fino alla fognatura di Docciarello, posta più in basso verso la valle sottostante.

Nei pressi del podere Docciarello esiste infatti un grande muro di terrazzamen-to di epoca etrusca, costruito con una tecnica simile a quella delle mura della città, che corre parallelo alle mura di cinta per circa cento metri; al centro di esso si trova lo sbocco di un cunicolo di drenaggio di dimensioni modeste, circa 50 x 50 cm., l’ultima pietra della pavimentazione è sporgente e al di sopra c’è una lastra di coper-tura più grande della media di quelle che costituiscono il muro. Si trova più o meno in linea retta con l’altro sbocco di Via Pisana, e fa probabilmente parte dello stesso sistema di condutture. Non è possibile determinare, a causa della fitta vegetazione, se vi siano altri drenaggi disposti lungo questo muro, che possiamo supporre sia servito a sostenere un terreno terrazzato in antico destinato probabilmente a coltivazioni.

La città etrusca 37

Un altro terreno sostenuto da un grosso muro di sostruzione, si trova alcune cen-tinaia di metri al di fuori della cinta muraria cittadina, nella zona delle Colombaie. Il muro, che serviva per sostenere il pianoro delle Colombaie a sud della città, presenta in alto, in corrispondenza del penultimo filare di pietre, un’apertura, di circa 40 x 40 cm, di difficile lettura e rilevamento a causa del fitto roveto che si appoggia al muro. L’opera di terrazzamento di un grosso pianoro come quello delle Colombaie necessitava di un drenaggio costante e ben funzionante, per questo doveva essere percorso da cunicoli che raccoglievano l’acqua e la convogliavano fuori dell’area tramite questa e forse altre condutture oggi non conservate. I vecchi abitanti della zona sostengono di conoscerle come “fontane etrusche”. Le condut-ture non erano scavate profondamente nel terreno, ma, come nel caso di Pescaia, erano scoperte e potevano essere utilizzate anche per l’irrigazione.

I pochi resti di condotti che vediamo sbirciando dalle aperture nelle mura di cinta, sono solo la sezione finale dei cunicoli che scorrevano sotto l’abitato. Presentano, per quel che possiamo vedere, un andamento perpendicolare alle mura stesse che si sviluppa generalmente in direzione Nord-Sud; non abbiamo testimo-nianza dell’esistenza di un cunicolo trasversale che li collegasse. La scarsa profondità ci indica che, almeno nel tratto osservabile, erano ricavati scavando una trincea a cielo aperto nella quale era poi realizzata la struttura in muratura costituita da pareti in blocchetti di pietra, con pavimento e copertura formati invece da lastre di pietra affiancate una all’altra. Le dimensioni delle strutture non erano tali da consentire,

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Fig. 15 Ricostruzione della conduttura sottostante parte del Cardo Maximus

tranne che in rari casi, il passaggio di operai addetti alla manutenzione.Di questo fitto sistema di condutture, facevano parte anche i due tratti di fognatu-

ra che sono stati rinvenuti durante lavori compiuti dal Comune di Volterra al di sotto delle odierne Via Matteotti e Via della Porta all’Arco. Si tratta dei resti di un’uni-ca fogna di grosse dimensioni che doveva costituire il principale collettore di questa zona della città. Il tracciato di questo condotto corrispondeva approssimativamente a quello del principale asse veicolare cittadino Nord-Sud, il Cardo Maximus, che da Porta all’Arco conduceva a Porta Diana. Il deflusso delle acque avveniva in due dire-zioni seguendo lo spartiacque naturale, che era situato in corrispondenza dell’incrocio con l’attuale Via dei Marchesi. Il tratto di fogna che si trova sotto Via Matteotti pro-seguiva o verso la valle di Vallebuona o verso quella di Docciola, mentre il tratto di Via Porta all’Arco, con un percorso più breve, sfociava poco oltre la porta omonima.

Entrambi i due spezzoni di condotto sono realizzati con la medesima tecnica, che è comune alla maggior parte delle canalizzazioni volterrane di epoca etrusca: le pareti della fogna, che segue il percorso della via moderna, sono costruite in mura-tura realizzata con piccole pietre murate a secco, il pavimento è realizzato con lastre di pietra; secondo Viti intorno alla struttura vi era una camicia di argilla imper-meabilizzante. Al di sopra di questi due condotti, evidentemente costruito contem-poraneamente, è stato rinvenuto un basolato stradale formato da lastre di pietra affiancate seguendo l’andamento della via moderna, pur con una differente pen-denza (all’angolo della strada con Via dei Marchesi, si trova alla profondità di soli 40 cm, mentre in corrispondenza della chiesa di S. Michele arriva a quasi due metri al di sotto del piano stradale moderno 48) e che costituisce anche la copertura della fognatura. Il tratto di Via della Porta all’Arco era posto più in basso rispetto al pre-cedente, dato che la fogna si trovava a circa 3,50 metri al di sotto del piano stradale attuale 49. In questo grande collettore che attraversava tutta la collina dovevano confluire le acque provenienti anche dalla estremità occidentale dell’Acropoli 50.

Da questi brevi spezzoni possiamo dedurre l’esistenza di una serie di condut-ture che attraversavano la collina seguendo il percorso più corto e, in base all’uni-ca fognatura conosciuta quasi integralmente (quella del Cardo Maximus), divise in due sezioni nel punto dello spartiacque Est-Ovest della collina: la prima portava le acque verso Sud, la seconda verso Nord.

La datazione del sistema di drenaggio della città ci è fornita dalla costruzione delle grandi mura cittadine nella prima metà del III secolo a.C.-51. Probabilmente prima di allora esisteva già un sistema di drenaggio dell’abitato, ma non abbiamo nessun indizio che ci permetta di alzare la datazione di queste canalizzazioni.

Le canalizzazioni si dovevano trovare al di sotto delle strade e questo è dimostra-bile grazie al ritrovamento della pavimentazione stradale che copriva la fognatura del Cardo Maximus come in tutte le città etrusche. Le fo gne erano costrui te in modo da seguire i per cor si naturali della collina, generalmente le vallecole di scolo. Le acque erano poi portate fuo ri dalle mura nei punti più agevoli per essere convoglia te nei botri.

La situazione è simile a quella osservabile in molte altre città dell’Etruria come Veio-52, Orvieto 53, Perugia-54, Chiusi 55, per citare solo al cu ni esempi. In queste

La città etrusca 39

loca lità il centro abitato è attraversato da una fitta rete di cunicoli scavati nella roccia che avevano lo scopo di drenare il terreno convo-gliando le acque all’esterno della cinta muraria; al con-trario di Volterra però la rete fognaria di queste città è relativamente ben conser-vata ed è in parte praticabi-le 56.

A Perugia la rete di con-dutture segue i principali assi viari che “uscendo dalla città, passano al di sotto delle mura etrusche e si trovano in posizione orto-gonale ad esse, esattamente

là dove maggiore è l’avvallamento del terreno e dove sono ubicati i fossi principali, oppure, in alcuni casi, in prossimità delle vie di collegamento con i centri vicini” 57. Il riscontro con Volterra è immediato: le condutture che sboccano nella valle di Docciola si trovano proprio vicino ad uno dei maggiori “botri”, mentre la fogna-tura che passa sotto la Porta all’Arco e la fognatura rinvenuta nei pressi di Porta S. Felice sboccano nei punti da cui partivano rispettivamente la via per il mare e quella per Montecatini Val di Cecina.

La tipologia delle condutture di Volterra conosce si presenta analoga a molti casi, sia in Etruria che nel Lazio, dove in molte città si sono conservati condotti di dre-naggio realizzati in modo assai simile, ad esempio a Cori, ad Alba Fucens 58, a Segni-59; senza considerare i due casi più illustri della cloaca maxima di Roma e del cosiddetto great drain di Atene, entrambi più antichi delle fognature di Volterra 60, che nei condotti secondari più piccoli presentano una tipologia costruttiva identica a quella documentata a Volterra 61.

Anche le bocche di scolo risparmiate nelle mura per consentire la fuoriuscita del-l’acqua sono presenti in molte cinte murarie in opera quadrata: Cori, Ferentino, Alba Fucens, Segni, Fiesole 62; caratteristica comune in più casi è anche la pietra sporgente nella parte inferiore collocata in quella posizione per impedire che il getto d’acqua lambisse la base delle mura minandone la stabilità.Sorgenti e culto delle acque

La disponibilità di acqua era essenziale per molte pratiche di culto sia presso gli etruschi che presso le altre popolazioni italiche, soprattutto a scopo purificativo al momento del rito. Per questo in molti santuari, compresi quelli dell’Acropoli di Volterra, pozzi, cisterne e vasche costituivano parte integrante dell’architettura

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Fig. 16 Sezione ideale di una conduttura etrusca (dis. F. Furiesi)

La città etrusca 41

templare.Una caratteristica della religione etrusca era anche il culto delle acque correnti,

testimoniato dal rinvenimento in molti luoghi di ex voto di vario genere gettati in polle d’acqua formate da sorgenti 63. Erano particolarmente venerate le sorgenti di acque minerali calde o ribollenti, le cosiddette Aquae Ferventes, come si legge su una laminetta plumbea trovata a Poggio Bagnoli nel Valdarno Aretino 64; erano con-siderate sacre anche le sorgenti termali, spesso dedicate a divinità salutari come a Stigliano 65 e a Vicarello 66, località nei dintorni del lago di Bracciano.

Nell’interpretazione della Disciplina etrusca le sorgenti costituivano punti di col-legamento con le divinità ctonie e questa credenza si trasmise anche ai romani. Dal calendario “Numano” abbiamo le indicazioni di numerose feste religiose collegate con le acque che, secondo Torelli, derivano direttamente da quelle etrusche 67.

Il ritrovamento di alcuni bronzetti votivi in siti posti lungo le pendici di Volterra ci porta ad ipotizzare l’esistenza anche in questa città di santuari arcaici collegati al culto delle acque. Sono ben cinque i bronzetti databili fra la seconda metà del VII secolo e gli inizi del V secolo a.C. i cui luoghi di rinvenimento pre-sentano caratteristiche comuni: podere Pagliaio, all’imbocco dell’omonimo botro; podere Colloreto 68; S. Lazzaro; S. Ottaviano, presso il torrente Strolla; presso la fonte di S. Felice 69.

Questi luoghi sono tutti situati vicino a delle sorgenti, alcune delle quali rive-stono una notevole importanza anche in epoca medievale, sono disposti a raggiera intorno alla città e a breve distanza da essa lungo le principali direttrici stradali che partono da Volterra 70. Si tratta probabilmente di una serie di piccoli santuari di campagna disposti secondo un modello di distribuzione simile a quello attestato in altre città etrusche, Veio, Falerii 71, Chiusi 72 e soprattutto Arezzo 73.

A Volterra, come a Chiusi ed Arezzo, questa fascia di santuari intorno alla città doveva essere collegata all’esistenza di sobborghi che estendevano il centro abitato anche al di fuori dell’area murata, che in questi tre centri in epoca arcaica doveva essere piuttosto ridotta 74. Una conferma di ciò ci è data dagli scavi della fonte di S. Felice dove furono trovati resti di capanne arcaiche 75. Si può anche ipotizzare che nell’area di S. Felice vi fosse il punto di partenza della strada che immetteva sulle vie per Montecatini e per la Val di Cecina. È molto probabile che questo percorso incrociasse le due strade nei pressi del podere Colloreto; in questo caso il rinvenimento di una stipe votiva nella zona di Colloreto potrebbe far pensare all’esistenza di un santuario fontile posto sull’incrocio di alcune fra le più impor-tanti strade che partivano da Volterra: quella verso il mare e quella verso le miniere di Montecatini. Ciò indicherebbe anche un collegamento fra fonti e vie di comu-nicazione che ritroveremo per il periodo medievale

Questi santuari suburbani, o almeno alcuni di essi, non erano frequentati solo in età arcaica, ma continuarono a essere venerati a lungo: a Chiusi e Arezzo sono stati trovati anche ex voto di periodo romano nella stessa area 76. A Volterra non abbiamo prove che i santuari di età arcaica siano stati luogo di devozione anche in epoche successive 77. possiamo scendere di qualche secolo grazie ad un altro depo-

sito votivo rinvenuto nelle vicinanze di una importante sorgente cittadina, quella di Docciola, databile fra il IV ed il II secolo a.C. 78; dove sono stati trovati numerosi bronzetti votivi databili fra il IV ed il II secolo a.C. È significativo il fatto che molte statuette rappresentino figurine di portatori d’acqua, sia maschili che femminili 79. Si tratta di figurine a forma allungata, che variano come dimensioni da pochi centi-metri a qualche decina di centimetri, e che portano, generalmente sulla spalla soste-nendola con un braccio, una olla che è stata riconosciuta far parte di una tipologia di vasi destinati a contenere acqua, a testimonianza di una venerazione particolare per le sorgenti, intesa a garantire la loro continuità nel tempo.

Questa sorgente potrebbe essere stata un luogo di culto frequentato anche in precedenza, sebbene non vi siano stati trovati materiali più antichi, ma in ogni caso testimonia la permanenza di un culto delle acque fino quasi al momento della romanizzazione della città. Anche se i santuari arcaici non fossero più esistiti sap-piamo che si è comunque mantenuta la devozione verso le acque sorgive.

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NOTE

1) Fiumi 1979, pp. 10-11; Cat eni 1981, p. 198.2) Col onna 1985b, p. 98; Maggiani 1991, pp. 991-993.3) Cac iag l i 1980, p. 154.4) Maggiani 1991, p. 992.5) Töl l e-Kast ebein 1990, pp.25-28; Rier a 1994, pp. 176-177.6) War d Per kins 1961, pp. 47-48; Judson-Kahane 1963, pp. 77-80.7) Bianchi Bandinel l i 1925, pp. 235-242.8) St opponi 1991, p. 209.9) Fer ug l io 1991, p. 217.10) Bat t ist ini 1921, p. 25. 11) Bonamic i 1988, p. 118, Bonamic i 1989, p 276.12) Cr ist ofani 1973a, pp. 22-24, p. 35, p.171 13) Il lato Ovest del tempio non si è conservato perché in epoca moderna è stato interessato dai lavori di una cava che ne ha causato il crollo (Cr ist ofani 1973a, p. 25).14) La canaletta, a sezione quadrata, era scavata nel terreno e foderata in pietra con una copertura in tegole (Cr ist ofani 1973a, p. 29).15) Cr ist ofani 1973a, p. 29.16) Per Pyrgi vedi Col onna 1985, p. 127-128.17) Bonamic i 1997.18) Acropoli 1981, p. 11.19) Ad esempio il santuario del Portonaccio a Veio, il santuario delle acque di Marzabotto, i santuari di Vignale, del Casato e di Celle a Falerii, della Cannicella a Orvieto, per citarne solo alcuni.20) Col onna 1985 b, p. 98.21) Col onna 1985 c, p.p. 99-110.22) Celle: Per ina Begni e altri 1985, p. 111. Sassi Caduti: Mel is 1985 p. 113.23) St opponi 1985, p. 116.24) Col onna 1985 b, p. 98.25) Vignale: Mosc at i 1983, pp. 69-78; Mosc at i 1985, pp. 85-86. Scasato: Mel is-Co l onna 1985, pp. 87-88.26) Cr ist ofani 1973a, p. 244.27) Cr ist ofani 1973a, p. 24; Col onna 1985a, pp. 95-97.28) A Marzabotto (Sassat el l i 1991, p. 182. A Orvieto (St opponi 1991 a). A Perugia (Fer ug l io 1991, St opponi 1973, St opponi 1991 b).29) Questa nuova cinta dal perimetro di oltre 7 chilometri proteggeva una superficie di circa 116 ettari (Fiumi 1976, p. 8).30) Fiumi 1976, p. 4.31) Bonamic i 199732) Oggi lo sbocco non è più visibile a causa delle mura medievali che hanno tamponato l’apertura.33) Maggiani 1993, p. 103.34) Secondo quanto riferisce Cac iag l i 1980, pp. 154-155. I resti di questa presunta fontana non sono stati trovati, ma l’ipotesi appare plausibile.

La città etrusca 43

44 Alessandro Furiesi

35) Questo sentiero, lastricato con piccole bozze, è sicuramente di origine medievale e fa parte della strada che da S. Andrea portava nella valle di Pinzano fino alla vecchia via fiorentina, di cui oggi si conservano molti tratti ancora lastricati. Molto probabilmente la strada ricalca almeno in parte una antica via etrusca; lo confermerebbero la conformazione del terreno che non consente la costruzione di nessun’ altra strada in questa zona e il fatto che essa costeggia, per buona parte del loro percorso, la parte interna della mura etrusche.36) Dennis 1986, p. 15, n. 8.37) Alcune delle lastre di pietra che coprono la canalizzazione non sono originarie, secondo quanto racconta il proprietario esse provengono dalla copertura di alcune tombe che chiama “barbare” trovate nella zona. 38) Vit i 1984.39) Bonnin 1984, pp. 35-38; Töl l e-Kast ebein 1990, pp. 129-138.40) Sassat el l i 1991, p.182. A Marzabotto la falda acquifera poco profonda e raggiungibile da ogni punto della città con estrema facilità ha consentito la diffusione di pozzi.41) Sassat el l i 1991, p.181.42) Fiumi 1976, pp. 23 e 28.43) Dennis 1986, pp. 11-12. Questa pietra sporgente è ben visibile nelle aperture che si trovano nella zona di S. Chiara.44) Fiumi 1976, p. 21. Gor i 1743, p. 33.45) Questo è quanto appare all’imbocco del cunicolo; il fatto che i primi metri siano stati realizzati all’interno della muratura delle mura di cinta, può avere condizionato la tecnica costruttiva, omoge-neizzandola a quella delle mura; forse il tratto più a monte era scavato completamente nella roccia.46) La tecnica costruttiva della parte inferiore delle mura appare molto simile a quella che è stata trovata presso la fonte di S. Felice e a fianco della porticus del teatro romano di Vallebuona (vedi Magg iani 1993). Gli archeologi hanno datato questi due muri al III secolo a.C. e sembrano per-tinenti ad una seconda fase di realizzazione della più grande ed ultima cerchia muraria di Volterra antica. La somiglianza e la conseguente contemporaneità di queste costruzioni, appare accentuata dal fatto che la tecnica di costruzione del condotto appartenente alla prima apertura di questo tratto di mura, è identica a quella della conduttura ricavata nelle mura di S. Felice.47) Dennis 1986, pp. 11-12.48) Vit i 1974, p. 21.49) Non sono riuscito a sapere in che punto della strada sia stata misurata questa profondità.50) Umberto Viti riferisce l’esistenza di un collettore fognario che “partendo da via Matteotti, fra i numeri civici 14 e 16 e in corrispondenza del punto di minor rinterro di detta via, saliva attraver-so l’orto di proprietà Guidi al Piano di Castello. Tale fogna larga circa 50 cm ed alta 150 cm era costruita con pareti di bozzatura piccola, piano di base e copertura in lastroni tutto murato a secco; sotto il fondo e intorno ai fianchi presentava la consueta camicia di argilla necessaria all’ imper-meabilizzazione dell’opera” (Vit i 1984, p. 127). Sempre Viti (Vit i 1984, pp. 129-132) pubblica la notizia di una serie di condutture rinvenute nella città: quelle del Cardo Maximus, che secondo lui andava dalla porta all’Arco alla “porta etrusca di Docciola”, quella del Decumano Maximus, conser-vata per il tratto che va da via Gramsci 70 a via Matteotti 52, ed inoltre altri tratti di fogne che si sono conservati al di sotto di via dell’Ortaccio e in via del Mandorlo. Dell’ esistenza di tutto ciò non vi è alcuna prova al di fuori della testimonianza dell’autore.

La città etrusca 45

51) Fiumi 1976, pp. 7-8.52) War d Per kins 1961.53) Bizzar r i 1991.54) Cenc iaio l i 1991; Piro 1991.55) Bianchi Bandinel l i 1925, pp. 235-242.56) A Volterra circolano molte notizie, che riferisco per dovere di cronaca, sull’esistenza di cuni-coli sotterranei praticabili che attraverserebbero la città in varie direzioni; non esistono però prove che possano dimostrare la fondatezza di queste voci. Alcuni anni fa ho avuto occasione di vedere, durante lavori compiuti per consolidare Viale dei Filosofi, che gli operai avevano portato alla luce una apertura nella parete di roccia che fiancheggia la strada, ma venne richiusa quasi subito ed attualmente non è più visibile.57) Cenc iaio l i 1991, p. 99.58) Lug l i 1957, p. 92 e tav. XX, 6.59) Cifal ecc i 1992, p. 22.60) I due casi sono databili, il primo all’età dei Tarquini (VI secolo a.C.), il secondo al primo quarto del V secolo a.C.61) Töl l e-Kast ebein 1990, pp. 210-211.62) Lug l i 1957, p. 92.63) La maggior parte dei doni era costituita da votivi anatomici, ma troviamo anche armi, monete, statuette di animali e di offerenti (Pr ayon 1990). Una carta di distribuzione di questi depositi in rapporto alle sorgenti termali si può trovare per l’Etruria Meridionale in Gasper ini 1988, p. 29, mentre per l’Etruria Settentrionale si può consultare Romual di 1989-90.64) Tor el l i 1991, p. 19.65) Gasper ini 1976.66) Col ini 1979; Kunzl -Kunzl 1992. Questo deposito conteneva, oltre ad una enorme quantità di materiale etrusco, anche numerosi oggetti di età preistorica che ci indicano come il sito fosse frequentato già in epoca remotissima, anche in altre sorgenti-santuario etrusche sono stati trovati sporadici materiali preistorici (Gasper ini 1988, pp. 32-33).67) Tor el l i 1991, pp. 23-24.68) In questo sito nel 1742 fu rinvenuta una stipe votiva con otto bronzetti a figura umana e quattro bovidi (Maggiani 1991, p. 990). 69) Maggiani 1991, pp. 990-991. In questo articolo sono descritte con maggiore dettaglio le circo-stanze di rinvenimento.70) Maggiani 1991, p. 991.71) Col onna 1985 b, p. 98.72) Rast r el l i 1992, pp. 301-307.73) Col onna 1985 b, p. 98; Col onna 1985 d, p. 172.74) Col onna 1985 b, p. 98; Maggiani 1991, p. 992.75) Cac iag l i 1980, p. 154.76) Rast r el l i 1992, pp. 301-307; Col onna 1985 d, pp. 172-173.77) A meno che nel deposito rinvenuto a Colloreto nel 1742, ed oggi disperso, vi fossero anche materiali posteriori.78) Bonamic i 198579) Bonamic i 1985

LA CITTÀ ROMANA

Una data significativa nella storia di Volterra è il 90 a.C., quando la città, per effetto della Lex Iulia de civitate, divenne un municipium. Pur continuando a godere di note-vole autonomia interna i suoi abitanti acquisirono la cittadinanza romana entrando a far parte della tribù Sabatina. Lo schieramento della sua popolazione a favore di Caio Mario durante la guerra civile fu la causa di un lungo assedio da parte delle truppe fedeli a Silla che conquistarono la città nell’80 a.C. In seguito alla sua capitolazione, Volterra perse il suo status giuridico derivatogli dalla Lex Iulia, come ci è testimoniato da una requisitoria di Cicerone in difesa di un nobile cittadino volterrano: Aulo Cecina 1.

Dalla fine dell’assedio sillano al principato di Augusto scarseggia la documentazione archeologica attinente all’urbanistica di Volterra, abbondano invece altri tipi di infor-mazioni. Sappiamo che la città venne dichiarata colonia 2 e, grazie all’orazione pro-

Fig. 17 Pianta della cisterna romana dell’Acropoli secondo una stampa del ’700 (da Gori 1743)

nunciata da Cicerone in difesa di Aulo Cecina, siamo in grado di ricostruire in parte la situazione della società volterrana del periodo di transizione 3. Sappiamo che le famiglie nobili volterrane si trasferirono a Roma entrando in molti casi a far parte del Senato integrandosi perfettamente nella società romana.

Durante l’età augustea Volterra conobbe invece una fase di intensa attività edi-lizia pubblica e privata documentata dai resti di numerosi edifici pubblici e privati. Sull’Acropoli lo spazio antistante i due santuari fu allargato e sistemato intorno al 20 d.C., quando il terreno venne livellato e portato all’altezza della piazza antistante il tempio B 4. Contemporaneamente fu realizzata anche la più grande opera edilizia pub-blica di epoca romana della città, dovuta, insieme a molte altre iniziative, alla munifi-cenza dei membri della famiglia dei Caecinae 5, il teatro di Vallebuona.

La fase edilizia augusteaNel I secolo a.C., quando il controllo della città passò all’amministrazione

romana, verosimilmente non avvennero cambiamenti significativi nel sistema idraulico. Infatti possiamo affermare che a Volterra non furono compiuti nuovi, grandi interventi anche se la documentazione archeologica in questo periodo è scarsa.

Questa informazione contrasta con quanto sappiamo sia accaduto al momento della conquista romana in altre città dell’Italia centrale, dove fu condotta invece una intensa politica di opere pubbliche 6, ragione di ciò può essere dovuta a due

48 Alessandro Furiesi

Fig. 18 L’interno della cisterna romana dell’Acropoli secondo una stampa del ’700 (da Gori 1743)

fattori: Volterra era relegata ad una posizione di secondo piano rispetto alle nuove colonie romane fondate nelle vicinanze, Siena e Pisa, ed era lasciata in disparte dalle grandi arterie stradali romane, la via Aurelia e la via Cassia. Inoltre le grandi famiglie nobiliari etrusche, come i Caecinae, i Volasennae, i Carrinates ben presto si trasferirono nella capitale entrando a far parte della classe dirigente. Queste famiglie utilizzarono i proventi dei propri possedimenti per finanziarsi l’accesso al senato romano, limitando di conseguenza gli investimenti nella città di origine 7.

Soltanto in seguito, durante il principato di Augusto, quando evidentemente i Caecinae e le altre famiglie volterrane erano entrate nel circuito dell’élite nobiliare romana, si assistette ad un rinnovamento totale della città 8. L’evergetismo delle famiglie rese possibile la realizzazione di un nuovo progetto urbanistico di grande impegno comprendente tra l’altro la costruzione del nuovo teatro di Vallebuona. È proprio a questo periodo che sono databili alcune trasformazioni avvenute nell’as-setto dell’approvvigionamento idrico di Volterra.

Gli impianti di approvvigionamentoCon l’età romana, ed in particolare durante il principato di Augusto, si assistet-

te in tutto lo stato romano ad un vero e proprio boom degli investimenti per la realizzazione di opere di approvvigionamento idrico; il Pe riodo Imperiale è consi-derato quello in cui si raggiunse la massima evoluzione nell’idraulica nell’antichi-

La città romana 49

Fig. 19 Interno della cisterna romana dell’Acropoli

tà. Non solo quasi tutte le città dell’impero si dotarono di acquedotti per provve-dere alle proprie ne ces sità, ma anche molti pri vati costruirono condutture di varia lunghezza per assicu-rare l’approvvigionamento d’acqua alle proprie abita-zioni o alle ville di campa-gna. Un caso a noi vicino, anche se più tardo, è quello della villa di S. Vincenzino a Cecina, dotata di una gran de cisterna rifornita da un acquedotto alimentato dai monti vicini.

In questo periodo l’acqua era considerata un segno di prestigio sia per le varie famiglie, che per le città, pertanto le fon tane spun-tarono come funghi, distri-buite molto spesso an che a distanza ravvicinata, come ad esempio a Pompei, dove vi era una fontana ogni 40 metri. In molti casi furono costruite anche delle grandi fontane monumentali, chia-mate ninfei, che venivano

decorate con statue ed iscrizioni e che avevano non solo una finalità pratica, ma servivano anche come componenti essenziali dell’arredo urbano. Si diffuse l’uso delle terme, che costituivano segno della civiltà romana, nei centri di nuova come di antica fondazione e che si diffusero sia nelle nebbiose brughiere del vallo di Adriano in Scozia, che nei deserti della Siria e del Maghreb, con sistemi di approvvigiona-mento che variavano a seconda dell’area. La maggior parte delle abitazioni ricche erano dotate di terme private, spesso direttamente allacciate agli acquedotti con sistemi molto simili a quelli di oggi. L’acqua costituiva quindi un simbolo di ric-chezza, di potere, di civiltà e di “romanità”, pertanto in ogni città dell’impero le ricche famiglie nobili provvidero a donare ai propri concittadini acquedotti, fontane, ninfei, grandi serbatoi per la raccolta dell’acqua, impianti termali.

L’opera principale per l’approvvigionamento idrico della città fu la costruzione di un grande deposito idrico e di una vasca di raccolta sull’Acropoli di Volterra.

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Fig. 20 Vasca romana dell’Acropoli

Queste due strutture consentivano di rifornire l’area ed anche, viste le notevoli dimensioni, parte della città sottostante. Tali depositi furono realizzati con tecniche nuove per Volterra, utilizzando un nuovo materiale (l’opera cementizia con para-mento in blocchi), ed una più complessa tipologia di struttura. L’acqua, prima di essere immessa nel deposito principale, doveva passare da una vasca di raccolta, che non era scavata nel terreno, come all’epoca stato usuale fino ad allora, ma fu realiz-zata interamente in alzato, secondo un tipo di architettura già ampiamente diffuso nel mondo romano e anche in Etruria 9. I resti di questa vasca sono oggi visibili all’ingresso dell’area archeologica dell’Acropoli; a poche decine di metri dalla cister-na che doveva rifornire.

La cisterna principale, che i volterrani chiamano impropriamente Piscina Romana, è interamente scavata nella roccia nel settore occidentale dell’Acropoli. Si tratta di una grande costruzione a pianta trapezoidale suddivisa in tre navate coperte con volte a botte ribassate, misura 16,22 x 11,85 x 16,32 x 11,26 m e raggiunge un’altezza massima di 7,10 m 10. Le pareti sono realizzate in opus cae-menticium e conservano i segni delle casseformi in cui era stata gettata; si possono individuare in alcuni punti i resti di intonacatura. In basso si conserva uno zoccolo a cuscino di cocciopesto di circa 25 cm di lunghezza che serviva ad impermeabiliz-zare meglio la strutture, il pavimento apparentemente è in cocciopesto. Le navate sono delimitate da sei pilastri disposti su due file di tre, i due pilastri centrali misu-rano 1,20 m x 1,20 m, mentre i laterali misurano 0,90 m x 0,90 m, la loro altezza è di 5 m e sorreggono delle piattabande costituite da conci trapezoidali di calcare di Pignano che a loro volta sostengono le imposte delle volte. I pilastri sono invece realizzati con un rivestimento di piccole bozze intorno ad un’anima in cementizio. La navata centrale è più grande delle due laterali.

L’acqua proveniva da tre condutture di 15 cm di diametro disposte all’altezza dell’imposta delle volte sulla parete di Sud Ovest, che servivano a far affluire l’acqua dalla vasca di raccolta, posta circa 10 metri più in alto rispetto a queste adduzioni. Altri condotti più larghi (20 cm di diametro) si trovano sulle pareti Sud Est e Nord Ovest, con gli sbocchi all’attacco delle volte; una o più di queste aperture doveva-no servire però non per immettere l’acqua nella cisterna, ma per evacuare quella in eccesso. Un’apertura posta in basso sul lato Nord Est doveva invece servire per portare l’acqua nel punto di distribuzione, oppure per svuotare la cisterna quando doveva essere pulita. Di fronte al foro di emissione vi sono i resti di una struttu-ra quadrata di 130 x 130 cm messa a protezione dell’apertura, che forse serviva a sostenere una paratia per regolare il deflusso delle acque, di essa si conserva solo il basamento, realizzato in piccole bozze di pietra. Il fatto che al di sopra di questo punto il soffitto sia crollato può indurci a credere che qui si trovasse un mecca-nismo per mezzo del quale fosse possibile controllare l’apertura di questa paratia senza entrare dentro la cisterna.

Nella parete Nord-Ovest si trova un’altra apertura diversa dalla prima che non sembra contestuale alla costruzione della cisterna, ma realizzata successivamente. L’apertura immette, tra mi te un arco di volta, in un cunicolo interamente scavato

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nella roccia. Secondo quanto supposto dalla Innocenti questo condotto dovrebbe essere stato costruito intorno al XVI, come è testimoniato da un passo del Solaini in cui si afferma anche che esso collegasse la Piazza della Dogana direttamente con la Piscina per un percorso di 80 metri 11. Parti del soffitto originale non si sono conservate e quindi non possiamo sapere se vi fosse un foro sulla sommità della cisterna per prendere acqua direttamente sul posto tramite una vera.

Questa cisterna fu co struita, secondo Cri sto fani, nel I secolo d.C., in connessio-ne con una risistemazione di tutto il piano dell’Acro poli, come appare almeno dagli scavi condotti nell’area dei templi 12. La cisterna era conosciuta, ma non esplorata, almeno fin dal XVI secolo; il primo documento che ne parla è una relazione dell’ar-chitetto Francesco Capriani del 1580 per proporre un riutilizzo di questa cisterna come fonte di approvvigionamento per una fontana che doveva sorgere, in base ad un suo progetto, in Piazza dei Priori 13. Nel XVIII secolo e nel 1882 vennero stu-diati numerosi progetti per il reimpiego della cisterna, mai realizzati 14.

Il primo a esplorare e pubblicare dettagliatamente questo monumento fu invece Anton Francesco Gori nei suoi Monumenta Etruriae. Nel 1739 egli ne realizzò una descrizione molto completa accompagnata da un buon disegno; la datò come fab-brica etrusca e segnalò il ritrovamento dei resti, non più visibili già allora, di alcuni tubi plumbei che servivano all’immissione e distribuzione dell’acqua e di un pozzo, distrutto pochi anni prima, situato presso “parietem medianum” ritenuto un’opera più recente 15.

Ogni autore ha avanzato un’ipotesi diversa su come avvenisse l’approvvigionamen-to d’acqua. Il Capriani e il Gori ritenevano che essa fosse data da una fonte posta nelle vicinanze, chiamata Docciolina, questa opinione è errata in quanto la roccia permeabile di cui è composto principalmente il suolo dell’Acropoli non consente di supporre l’esistenza di una qualsiasi sorgente 16. Già nel secolo scorso i primi studi scientifici sulla potabilità delle acque cittadine smentirono questa ipotesi: “È da rite-nersi come erronea ... che la rammentata Piscina fosse stata alimentata da un’acqua sorgiva denominata Docciolina, dato che ... la posizione dei mattaioni e degli strati sabbionosi trovandosi assai prima della fondazione della stessa Volterra ... non era ammissibile che un’acqua della indicata specie si fosse mostrata a così grande altezza sopra il piano dei medesimi mattaioni soggiacenti alla detta Piscina” 17.

L’approvvigionamento avveniva con la raccolta dell’acqua piovana come è testi-moniato dalla presenza delle fistule plumbee per l’immissione di acqua, delle quali non è rimasta traccia, nella descrizione che il Gori fa della cisterna 18. L’acqua che riempiva la cisterna proveniva dalla raccolta delle acque piovane precipitate sui tetti degli edifici e nelle strade circostanti la cisterna; arrivava nel deposito attraverso tubi di piombo di cui conosciamo l’esistenza e immessa dai fori posti sul soffitto all’im-posta delle volte. L’acqua piovana, prima di entrare in questo deposito, rimaneva nella vasca di raccolta, per essere decantata purificata.

La vasca è di forma pressoché rettangolare, misura 19,80 x 3,41 x 20,27 x 3,52 m. Lungo il lato nord sono presenti tre speroni aggettanti esterni, mentre sul lato Sud-Ovest ve ne è uno interno. Le pareti, conservate mediamente per un’altezza di circa

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50 cm, sono realizzate in muratura a blocchetti di pietra, con una tecnica simile a quella adoperata per le costruzioni del teatro romano ed erano intonacate. Rimane l’intonaco a cuscino relativo al pavimento e allo zoccolo, che varia in lunghezza da cm 18 a cm 22, lo spessore oscilla da cm 2,5 a cm 4. Secondo Cristofani può essere datata al I secolo d.C. 19. È stata ripulita durante gli scavi di Doro Levi del 1928 che la identificò come cisterna romana pertinente ad alcune supposte strutture termali individuate nei secoli passati sull’Acropoli 20.

La cisterna, la più grande fra quelle romane rinvenute in città, dovette richiedere per la sua realizzazione un intervento complessivo sull’intero quartiere occidenta-le dell’Acropoli. Infatti, essendo approvvigionata con acqua piovana, per riempi-re questo enorme deposito sotterraneo era necessario convogliarvi le condutture dei tetti di numerosi edifici. Lo sforzo economico e organizzativo necessario per dirottare le canalizzazioni di edifici già esistenti e per indirizzarvi quelle di eventuali edifici costruiti ex novo, dovette essere considerevole e deve avere richiesto anche un sostanzioso aiuto economico da parte di qualche ricca famiglia volterrana 21; non abbiamo però nessuna testimonianza epigrafica di questa opera di evergeti-smo.

La cisterna sotterranea sorretta da pilastri era il tipo più diffuso per costruzioni di queste dimensioni che erano concepite per essere il principale punto di distribu-zione cittadino; spesso le troviamo costruite al termine di un acquedotto (Piscina Mirabilis di Miseno 22). Esistono però anche cisterne non collegate ad acquedotti, ad esempio ad Albano 23, a Fermo (cisterna di via Vittorio Veneto 24), ad Istanbul (cisterna detta Yerbatan Saray 25) e in molti altre città 26. Un’alternativa poteva essere la cisterna formata da più stanze comunicanti fra loro, ad esempio le “Cento camerelle” di Miseno 27, la “Piscina limaria” di Fermo 28 o le “Sette sale” di Roma 29.

Il canale emissario della cisterna dell’Acropoli si apre nella parete Nord Est, ma non siamo in grado di seguirne il percorso. Dovette essere probabilmente destinata alle necessità degli abitanti dei quartieri posti più in basso, più che ad approvvi-gionare qualche edificio pubblico, come sosteneva Fiumi 30. Era infatti in grado di rifornire buona parte del settore nord orientale della città da sola, ma non si può escludere la possibilità che nel soffitto si aprisse una vera per attingere acqua direttamente sul posto. Una ipotesi plausibile è che rifornisse una fontana posta più in basso, localizzabile forse nei pressi dell’incrocio fra le attuali via Matteotti e via Gramsci (che è il punto dove è ipotizzato si trovasse il foro e l’incrocio fra gli antichi assi stradali del Cardo Maximus e Decumanus Maximus).

L’esistenza di grandi depositi nella parte sommitale del centro abitato è attestata in molte città italiane, depositi che in genere venivano approvvigionati da acque-dotti o da sorgenti, ma che in molti altri casi sfruttavano l’acqua piovana 31. La loro posizione era ideale per poter distribuire acqua in qualsiasi parte del centro abitato, secondo un sistema molto diffuso, troviamo infatti cisterne di questo tipo in molte città sia di nuova che di antica fondazione: ad Assisi 32, ad Atri 33, a Todi 34, a Fermo 35, a Segni 36. Parti colar mente interessante l’ultimo esempio, dove

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abbiamo un grande serbatoio per acqua piovana a pianta circolare, ricavato sulla sommità della collina dove è costruito il centro abitato. Segni non era in grado, per la sua situazione geografica, di essere approvvigionata mediante un acquedotto, per-tanto alla cisterna faceva capo l’intero sistema urbano di distribuzione delle acque 37. Ad Assisi e Todi le cisterne erano state co struite con lo scopo di approvvigionare una fontana o un ninfeo, pertanto questi due esempi ci sembrano i più emblemati-ci e avvicinabili al caso di Volterra.

Anche altre riserve di acqua vanno con buona probabilità datate alla fase edilizia augustea; sono le due di via Sarti e di via Guarnacci, entrambe costruite vicino al foro della città romana.

Durante alcuni lavori effettuati dal proprietario per il ripristino della cantina

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Fig. 21 Ricostruzione del sistema di condutture dell’Acropoli (rielaborazione da BONAMICI 1997)

1: Canale Immissario

2: Canale emissario romano

3: Canale emissario successivo

Fig. 23 Planimetria delle cantine di Palazzo Viti con indicate le cisterne

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Fig. 22 La vera della cisterna di Palazzo Viti vista dal basso

A: Cisterna etrusca

B: Cisterna Romana

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Fig. 25 Sezione della cisterna romana di Palazzo Viti (realizzata dalla équipe di Archeologia Urbana del progetto “Archeologia di Volterra e del suo territorio”)

Fig. 24 Pianta della cisterna romana di Palazzo Viti (realizzata dalla équipe di Archeologia Urbana del progetto “Archeologia di Volterra e del suo territorio”)

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sottostante Palazzo Viti, in via Sarti, fu rinvenuta una cisterna romana piena di detriti-38. Si tratta di un grande vano scavato nella roccia a pianta rettangolare di 11 x 3 m e alto 2,80 m; la struttura è coperta con volte a botte a sesto ribassato. Non è conser vata l’estremità sud in quanto la parte meridionale non è stata svuotata e questa zona della cisterna è stata chiusa da un muro moderno. L’orientamento è Nord-Sud. La muratura delle pareti e del soffitto è realizzata interamente in opera cementizia, sulle fiancate e sulla volta sono rimaste le tracce delle assi che compo-nevano la cassaforma e i fori delle buche pontaie; nella parte inferiore delle pareti, sopravvivono pochi resti dell’intonaco originario. Sulla sommità della volta si con-serva ancora la parte inferiore della vera del pozzo realizzata in cocciopesto. Nella parte superiore della parete Nord è presente un foro di piccolo diametro, verosimil-mente per il troppo pieno, chiuso successivamente.

Una conduttura portava l’acqua fino alla cisterna tramite un’apertura nella parete Ovest. La struttura del condotto è realizzata in laterizi per quanto riguarda il fondo e il tetto, mentre le pareti sono costruite in muratura. L’apertura misura circa 60 cm di altezza per 60 di larghezza, è lunga circa 5 m ed è orientata ortogonalmente alla cisterna. A circa quattro metri dall’ingresso nella cisterna vi è un’altra canalizza-zione, più piccola, che si interrompe quasi subito e che è orientata parallelamente alla cisterna. Un altro condotto, danneggiato dagli interventi moderni, di dimen-sioni simili a quelle della conduttura principale, si trova invece a circa un metro dallo sbocco nella cisterna, si conserva per un lungo tratto un metro ed è orientato parallelamente alla cisterna.

La cantina di un palazzo posto in via Guarnacci al n. 31 è invece interamen-te realizzata sfruttando una cisterna romana. Si tratta di una struttura costruita in opera cementizia di cui si conservano le pareti e il pavimento, mentre non si è man-tenuto il soffitto originario in quanto quello attuale appare realizzato contestual-mente alla costruzione del palazzo avvenuta nel XVII secolo. La forma è rettango-lare, orientata approssimativamente in senso Nord-Sud. Misura circa 4 m per 2 m e l’altezza originaria doveva essere di almeno 2,50 m. Si possono notare dei residui di intonaco impermeabilizzante sulle pareti; il pavimento, realizzato in cocciopesto, presenta una cavità circolare verso cui si dirigono due piccoli canali di scolo, che doveva servire per ripulire la cisterna.

Non siamo in grado di rintracciare il condotto per la provenienza dell’acqua, possiamo comunque supporre che fosse alimentata dall’acqua piovana che preci-pitava sul tetto dell’edificio di cui faceva parte. Al di sopra di essa sopravvivono i resti di alcuni muri dell’edificio romano che oggi formano parte delle fondamenta e delle pareti portanti del palazzo moderno 39.

Sappiamo che la cisterna fu utilizzata come cantina almeno a partire dal Settecento, quando un noto antiquario dell’epoca, Sebastiano Donati, visitando Volterra, ricorda la presenza nelle cantine di vicolo dei Lecci di strutture in cementizio che riteneva “pertinenti all’antico anfiteatro” 40. Secondo Fiumi queste cisterne furono costruite nello stesso periodo del teatro di Vallebuona, come parrebbe indicare l’orientamento,

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riferibile ad un impianto urbanistico basato sugli assi del teatro-41. Non abbiamo nessuna indicazione che ci informi su quanto a lungo sia stata utilizzata per raccoglie-re acqua e quando invece sia stata riadattata come cantina.

Queste due cisterne sono state costruite nei pressi dell’area che in epoca romana era occupata dal foro-42. In entrambi i casi non disponiamo di dati che ci forni-scano il contesto in cui le strutture erano collocate e che ci possano dire se erano destinate alle necessità di un edificio privato, all’approvvigionamento pubblico o costituivano invece una riserva per soddisfare la necessità di un’attività produttiva che impiegava molta acqua. Le due strutture facevano parte di due edifici distinti e le loro differenze strutturali ci inducono a credere che non fossero costruite per lo stesso scopo.

Queste cisterne non erano però le sole, sicuramente molte conserve etrusche continuarono ad essere ancora utilizzate in epoca romana; è il caso, ad esempio, di quella di via Sarti e di una di quelle sull’Acropoli. Inoltre molti studiosi locali ricor-dano l’esistenza di numerose cisterne romane nella zona delle Cetine, a Nord della Porta Fiorentina, ed in altre aree della città: ad esempio nel palazzo che ospita il Museo Guarnacci e in un altro edificio in Via Franceschini. Si tratta probabilmente di impluvia di ricche abitazioni private, ma non abbiamo nessuna documentazione al riguardo, in quanto nessuno le ha mai esaminate dall’interno 43.

L’unica cisterna attuale che forse riutilizza una precedente struttura romana è quella costruita nel giardino di una casa poche decine di metri a Nord del teatro romano di Vallebuona, sappiamo che questa casa è edificata al di sopra di un edifi-cio di epoca romana, di cui rimangono ancora oggi i resti di alcuni muri inglobati nelle nuove murature dell’edificio. La vera di pozzo dell’Ortino, così si chiama oggi questo villino, si trova al centro di un quadrato formato dai resti di alcuni muri di questo edificio romano. La sua posizione centrale farebbe quindi pensare a una struttura contemporanea ai muri e quindi romana, ma l’acqua contenuta al suo interno impedisce un esame approfondito.

Sappiamo che monsignor Mario Guarnacci fece alcuni scavi nell’area di Vallebuona prima della costruzione di questa abitazione e ritenne che questi resti murari facessero parte di terme etrusche 44. Secondo Fiumi invece i resti appar-terrebbero a un edificio termale o a una domus di età imperiale costruiti contem-poraneamente al teatro di Vallebuona. L’allineamento dei muri, simile a quello del teatro, farebbe propendere per una ipotesi del genere. In un saggio di Raikem conservato nella Biblioteca Guarnacci si parla degli scavi, avvenuti intorno al 1848-1850, di un edificio romano presso Porta Fiorentina: una parte delle strut-ture portate alla luce vennero identificate come resti di “bagnetti” e fu scoperto un mosaico che attualmente si trova al Museo Guarnacci 45. Secondo la Corvo il Raikem si riferirebbe ai resti delle terme di Vallebuona 46. La mia opinione è che, contrariamente a quanto supposto dalla Corvo, quello dell’Ortino sia il pozzo iden-tificato dal Raikem situato al centro delle terme.

Questo elevato numero di serbatoi rinvenuto in una piccola area come quella delle Cetine, rientra pienamente nella tipologia urbanistica romana privata che pre-

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vedeva all’interno di ogni unità abitativa un deposito per l’acqua piovana. Nelle abitazioni più ricche di età romana vi è un ambiente apposito, l’impluvium, desti-nato a raccogliere al meglio l’acqua necessaria alla casa, anche se per bere era pre-ferita l’acqua di sorgente o di pozzo. A Pompei sono conservati moltissimi esempi di impluvia 47. Anche edifici maggiori, di destinazione pubblica, potevano essere dotati di una struttura per la raccolta dell’acqua.

Allo stesso tempo a Volterra non dovette cessare lo sfruttamento delle sorgenti, anche se non abbiamo nessuna prova diretta di come in questo periodo fossero gestite. Sappiamo che nel mondo romano erano molto diffuse le fontane di cui si conosce una vasta tipologia; ne esistono sia di alimentate da acquedotti 48, sia di alimentate da sorgenti 49. A questo proposito potrebbe essere significativa la notizia riportata da Consortini del ritrovamento presso la porta di S. Francesco di una “fontanella romana nel piazzale della villa detta l’Ortino, con un bel masche-rone in pietra...”, ma le notizie riportate dal Consortini, se non verificate, vanno prese con estrema prudenza, di questa fontana non si è infatti conservata alcuna documentazione 50.

Il sistema di drenaggio del teatroL’impianto di smaltimento delle acque della città, per quello che sappiamo, non

subì variazioni considerevoli in occasione dell’intervento edilizio di età augustea. Al contrario di altre città dove le fognature furono costruite in epoca romana 51, a Volterra ci si dovette limitare a costruire dei raccordi che collegassero i nuovi edifici con le condutture preesistenti, come uno nel caso di quello individuato in via Roma. Questo è un breve tratto di fognatura, lungo meno di 2 m, rinvenuto durante uno scavo di emergenza compiuto all’interno del Distretto Socio Sanitario in via Roma. La conduttura è realizzata con muretti formati da pietre a secco e lastre più grandi per copertura e pavimento, nel tratto iniziale passa al di sotto di una soglia in pietra, probabilmente quella di ingresso all’edificio che ser vi va. La sua esigua lar ghezza, circa 20 cm, ci fa pensare che si tratti di una fognatura secondaria che raccoglieva i liquami della casa per poi portarli nella rete fognaria principale. Era pertinente ad una domus romana databile al I secolo d.C.

Altri resti di condotti sono stati trovati in varie circostanze un po’ in tutta la città, due di essi sono stati rinvenuti in occasione della frana del muro di sostegno del terreno al di fuori di Porta a Selci, di fronte alla Fortezza Medicea. Si tratta di resti sicuramente romani in quanto la parte inferiore a sezione rettangolare era sovrastata da una copertura a doppio spiovente in mattoni sesquipedali. Sono probabilmente due fogne che correvano parallele da Ovest a Est e uscivano fuori dalla città passan-do sotto o nei pressi dell’antica Porta a Selci.

L’unico intervento completamente nuovo fu quello realizzato al momento della costruzione del teatro romano di Vallebuona. La parte superiore della valle fu spia-nata realizzando un poderoso terrapieno su cui venne edificato il teatro. A causa di questo terrazzamento artificiale l’acqua piovana non avrebbe potuto seguire i canali di scolo naturali perché sarebbero stati obliterati, pertanto gli architetti romani progettarono un complesso sistema di smaltimento dell’acqua piovana provenien-

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te dalla sommità della collina; questa venne convogliata in cana-lizzazioni in grado di portarla ad una quota inferiore rispetto a quella del teatro, sca-ricandola poi nel botro di Vallebuona.

Questo sistema di deflus so raccoglieva, tramite una serie di condutture, sia l’acqua piovana che proveniva dalla collina sovrastan-te il monumento, sia quella che cadeva su di esso. L’inizio è posto in alto, nel pavimento del-l’ambiente triabsidato situato sulla som mi tà della summa cavea, dove finivano anche le acque provenienti dalla scala di discesa dell’ingres-so originale, ora chi u so dalle mura medievali 52. Il pavimento del vano triabsidato era in lieve pendenza verso il centro dell’abside cen-trale dove vi era un poz-zetto attraverso il quale l’acqua veniva convo-

gliata in una fogna che, attraversando il criptoportico, entrava nel cor ri doio semianu-lare sorreggente la summa cavea e che aveva due diramazioni, una verso Ovest e una verso Est. La fogna del lato Est oggi si interrompe dopo pochi metri, ma doveva confluire in un condotto fognario di cui rimangono scarse tracce al di sotto del-l’attuale ingresso del teatro. La fogna del lato Ovest portava invece le acque ad un pozzo circolare scavato nella roccia che, al termine del corridoio, scaricava in un pozzo, di circa 13 di profondità, che immetteva in una camera di raccolta posta al di sotto del piano dell’orchestra e alla quale giungevano anche altre fognature 53.

Tutte le acque che invece precipitavano sulle gradinate della cavea scendeva-

Fig. 26 Pianta del teatro romano con l’indicazione delle condutture (da Matzke, 1993)

La città romana 61

no a cascata fino al piano dell’orchestra dove venivano convogliate in un canale semicircolare, che corre a semicerchio alla base delle gradinate 54. Questo canale era in origine ricoperto da lastre di pietra e l’acqua doveva passare fra gli intersti-zi di queste lastre, era questa una soluzione che permetteva di lasciare fuori parte delle impurità, che altrimenti potevano ostruire il canale. Il canale scaricava in una piccola camera di raccolta da cui le acque poi venivano immesse nella camera alla base del pozzo di cui ho parlato prima.

Un ultimo, breve condotto portava alla piccola camera di raccolta anche le acque provenienti dall’aulaeum, il canale del sipario. Dall’aulaeum gli addetti alla manu-tenzione, tramite una stretta apertura, potevano entrare in questi condotti per eli-minare i sedimenti. La camera principale di raccolta era collegata ad una grande fogna, non identificata, che portava le acque a scaricarsi nella valle sottostante al monumento, il cui percorso non è stato identificato 55. Anche la porticus post scaenam aveva un sistema di smaltimento delle acque che confluiva in questa fogna. Il punto di partenza di esse era una grata posta nell’angolo Sud Ovest del piazza-le delimitato dalla porticus a cui, tramite dei condotti minori, arrivavano anche le acque dei lati Est e Nord 56. Quando, nella prima metà del I secolo d.C., la monu-mentalizzazione dell’area di Vallebuona venne completata con la costruzione dei due bracci laterali della porticus post scaenam, fu realizzata una nuova conduttura per convogliare le acque pluviali cadute sul tetto del porticato nel grande collettore in cui già confluivano quelle provenienti dal teatro 57.

Non sappiamo dove andasse a finire l’acqua, ma è suggestivo ipotizzare che venisse condotta, dopo essere stata filtrata delle impurità, in una fontana costrui-ta all’esterno della parte settentrionale della porticus post scaenam. Questa soluzio-ne potrebbe essere confermata dal ritrovamento, nel 1910, di una “antica presa d’acqua con intorno qualche opera romana” nel terreno immediatamente a Nord del teatro 58. Il punto potrebbe corrispondere, fra l’altro, a quello che nell’alto medioevo era chiamato Muroaquali 59. Se fosse così si può ipotizzare che il lato settentrionale della porticus fosse affiancato da una strada che seguiva dall’inter-no il tracciato delle mura e provvista di una fonte da cuiera possibile attingere l’acqua.

Non è infrequente che vicino ad un teatro vi fossero delle fontane nelle vicinanze potevano trovare posto anche dei ninfei 60. A Trieste, la sistemazione monumen-tale della zona del teatro è molto interessante ed è vicina a quella esaminata nel nostro caso. In questo teatro, la cui sistemazione topografica è paragonabile a quella di Volterra (anch’esso si appoggiava al fianco della collina sulla cui sommità era costruita la città antica), le canalizzazioni che partivano dall’alto passavano sotto l’edificio e portavano l’acqua al di là della scena 61.

Il Tardo ImperoFino all’età severiana non disponiamo di dati archeologici che ci consentano di

individuare variazioni di rilievo nell’urbanistica volterrana rispetto alla precedente fase edilizia di età augustea 62. Soltanto con gli inizi del III secolo abbiamo infatti

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modesti segnali di un nuovo impegno edilizio che si accompagnano però a testimo-nianze della contrazione del tessuto urbano 63. Anche la maggior parte delle cister-ne cessarono di essere utilizzate 64. Contemporaneamente terminò la frequentazio-ne dell’area templare dell’Acropoli 65. Inoltre si deve segnalare la fine dell’attività del teatro di Vallebuona avvenuta alla fine del III secolo d.C. (secondo il Fiumi più precisamente al 280 d.C.) dovuta forse ad un crollo causato da un terremoto 66.

Non siamo in grado di dire cosa motivò queste scelte, ma un segnale contra-stante ci viene dalla costruzione in questo periodo di due nuovi edifici pubbli-ci: gli impianti termali di S. Felice, databili genericamente al III secolo 67, e di Vallebuona, costruito dopo la metà del III secolo 68. Queste due nuove fabbriche rappresentano anche l’ultima fase edilizia documentabile dell’antichità che cono-sciamo e l’ultimo dato archeologico disponibile sull’idraulica antica a Volterra. Questo nuovo impegno di edilizia monumentale potrebbe essere messo in rela-zione con l’ingresso nell’ordine senatorio di una nuova gens volterrana: i Petronii Volusiani 69.

Gli impianti termali Uno degli edifici pubblici maggiormente rappresentativi dell’edilizia romana in

molte città è l’impianto termale. Le terme pubbliche erano non soltanto un luogo necessario all’igiene personale, ma anche un punto di incontro, dove parlare, far politica, cultura, trattare affari. Dotarsi di uno stabilimento termale privato voleva dire salire di stato sociale e donarne uno alla cittadinanza era considerato uno degli atti più munifici che potevano essere compiuti.

Le terme avevano bisogno di molta acqua, che poteva provenire da allacciamenti agli acquedotti cittadini 70, ma anche da acquedotti costruiti appositamente 71, da cisterne che raccoglievano l’acqua di sorgenti vicine 72, da pozzi o dalla raccolta di acqua piovana 73.

A Volterra non abbiamo prova della fondazione di un edificio termale prima del III secolo d.C., quando fu costruito quello di S. Felice. In mezzo al fervore edilizio di età augustea la presenza di questo tipo di costruzione manca, forse perché non ancora identificato oppure perché per qualche motivo non venne mai costruito. Purtroppo anche le attestazioni epigrafiche non ci forniscono alcun dato utile 74.

Secondo Raikem furono trovati nei pressi del teatro “degli avanzi di stanze da bagno e un pozzo” 75, che potrebbero essere interpretabili come resti di terme pub-bliche. Questo pozzo è da identificarsi probabilmente con la cisterna di località Ortino, dove sono ancora visibili molti resti murari di notevoli dimensioni perti-nenti ad un edificio forse collegato a questo deposito. La collocazione di questa casa in una zona residenziale di alto livello 76 fa propendere però più per terme appar-tenenti ad un’abitazione privata 77; inoltre non è possibile datare con sicurezza la sua costruzione, anche se un terminus post quem è dato dal suo orientamento con il teatro di Vallebuona 78.

Fiumi propone l’esistenza di un altro impianto termale che colloca in località Pinzano, sulle pendici a Nord di Volterra. Poco al di fuori delle mura della città,

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in un terreno coltivato, si trovano infatti i resti di una vasca in opus caementicium, che apparentemente è simile per tecnica costruttiva alla vasca dell’Acropoli. L’autore ipotizza pertanto l’esistenza di terme pubbliche romane in questo luogo, sulla base di un documento del 1219 che menziona in questa zona un “hedificium anticum quod vocatur Balneum” 79, che secondo Fiumi sarebbe riferibile ad uno stabilimen-to termale di epoca romana o etrusco-romana 80. Per il momento non è possibile stabilire la fondatezza di questa ipotesi, la vasca è infatti quasi completamente inter-rata e sul terreno non si notano tracce di strutture murarie, apparentemente sem-brerebbe però un tipo di struttura collegata ad attività produttive agricole.

Il più antico impianto termale conosciuto è quello di S. Felice, databile al III-IV secolo d.C., costruito sul versante Sud della collina, poco al di fuori della porta S. Felice, in una zona ricca di sorgenti e a breve distanza dalle strade che collegavano la città con la valle del Cecina e la costa.

Questo edificio venne esplorato per la prima volta nel 1759 da Mons. Mario Guarnacci; in esso furono trovati, ancora in situ, numerosi mosaici che Guarnacci trasferì nel suo museo, dove sono conservati ancora oggi; l’edificio venne in seguito circondato da un recinto in muratura coperto da una tettoia, i cui resti sono visibili ancora oggi. Altri scavi vennero compiuti da Annibale Cinci fra il 1874 e il 1884, furono identificate in quest’occasione una natatio, il frigidarium con due vasche, un unctorium, un tepidarium con vasca semicircolare, il calidarium e il laconicum. All’interno delle terme è stato trovato anche un frammento di iscrizione che sem-brerebbe menzionare uno dei Gordiani, datando quindi le terme fra il 238 e il 255 d.C.-81. L’edificio è stato ripulito e ridisegnato dalla Soprintendenza Archeologica di Firenze nel 1993, che ha anche provveduto ad una risistemazione dell’area; in questa occasione furono riconosciute almeno tre fasi costruttive primarie con diversi rimaneggiamenti successivi, che però non è stato possibile datare con precisione 82.

Alcuni ambienti delle terme non sono visibili perché vennero ricoperti poco dopo il rinvenimento, fra questi vi è quello a cui accedeva per primo un utente dell’im-pianto e che conteneva la natatio, una grande vasca per i bagni in acqua fredda, posta esternamente all’edificio vero e proprio. Da qui si accedeva agli ambienti di accoglienza (spogliatoi) e al frigidarium, che poteva essere utilizzato anche al termine del trattamento per rinfrescarsi prima di uscire; questo ambiente conserva due vasche semicircolari sui lati brevi e presenta sulla destra l’ingresso ad una piccola stanza qua-drata destinata con ogni probabilità alle unzioni (unctorium) e che comunicava a sua volta con un ambiente quadrilatero dotato di ipocausto ed una piccola vasca che può essere stata il tepidarium o il calidarium. Da una porta a sinistra si accedeva ad una sudatio identificabile come tale dalla forma rotonda e dalla presenza del sistema di riscaldamento (l’ipocausto) e di tubuli lungo le pareti. In questo ambiente sono particolarmente visibili le strutture dell’ipocausto, costituite da un pavimento rialza-to da pilastrini in muratura (suspensurae) nel quale circolava l’aria calda proveniente dalla combustione di legname nel forno (praefurnium) e che serviva sia a riscaldare le stanze che a mantenere più a lungo una temperatura adeguata nelle vasche. I tubi

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di terracotta nelle pareti (tubuli) erano destinati ad aumentare la temperatura di una stanza fino a realizzare una sorta di sauna (sudatio).Questo impianto termale venne dotato, in un secondo tempo, di un’altra sudatio costruita accanto all’ambiente originario e che è possibile esaminare sul lato Nord esternamente al muro costruito da Guarnacci e di cui è stato recentemente portato alla luce il praefurnium. Al momento della scoperta la stanza conservava ancora l’intonaco sulle pareti fino ad un’altezza di due metri; il mosaico che ne ornava il pavimento si trova adesso nella stanza XII del museo Guarnacci. Sempre al museo Guarnacci, nella stanza XXII, si trova un altro mosaico proveniente da questo edi-ficio. Quasi tutti gli ambienti presentavano, al momento della scoperta, resti di mosaico, che solo in un caso era policromo. Negli scavi del 1894 venne portata alla luce una vasca di forma absidale lunga 3 metri e profonda m. 1, 85 con pavimento con ipocausto e pareti interne rivestite di tubuli che fu smontata e ricostruita nel giardino del museo dove è tuttora.

Le terme prendevano acqua da una sorgente, posta più a monte, localizzabi-le nei pressi della fonte di S. Felice, e infatti nel 1783, durante una ispezione a queste fonti, vennero rinvenuti “condotti antichi per i quali passavano le acque che andavano poi alle terme, come fu rilevato dalla continuazione di detti con-dotti” 83. Il sistema di condutture che alimentava le terme è stato di recente riportato alla luce ed è oggi visibile ai visitatori, presenta pareti in muratura e pavimento e copertura formati da lastre di pietra, la spalletta a monte era realiz-zata a vespaio, per meglio assorbire le acque piovane e di deflusso, mentre quella a valle è impermeabilizzata, in modo da evitare infiltrazioni d’acqua nell’edifi-cio 84, la conduttura principale, a un certo punto si diramava in due settori, il ramo Est che portava l’acqua agli ambienti freddi (natatio e frigidarium), e il ramo Ovest che portava l’acqua nel settore destinato ai bagni caldi (tepidarium, calidarium e sudatio).

La conduttura iniziava da una cisterna, ancora oggi esistente, situata poco oltre le mura cittadine, alimentata dalle acque di una sorgente posta poco più a monte, nei pressi dell’attuale fonte di S. Felice. La cisterna è di forma rettangolare, orien-tata in senso Nord-Sud, con soffitto a volta a botte. La parte meridionale conserva solamente le due pareti laterali e al suo interno è stato realizzato invece un orto che copre il pavimento originario; nella sezione settentrionale, che conserva tutto l’alzato, è stato realizzato un ripostiglio per gli attrezzi. In origine misurava circa 23 m di lunghezza, e la parte con ancora il soffitto è lunga 8,40 m. La cisterna è quasi completamente interrata, ma si riesce a vedere comunque l’imposta della volta; l’al-tezza della volta dall’imposta è di circa 1,45 m. È realizzata in opera cementizia e la parte esterna è rivestita, per quel poco che si può vedere a causa della vegetazione che la ricopre, da blocchetti di pietra con lo stesso sistema utilizzato per il Teatro e le Terme di Vallebuona. In alcune parti conserva ancora frammenti dell’intonaco originale.

La cattiva conservazione non permette di rilevare con esattezza le sue dimen-

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Fig. 27 Ricostruzione delle strutture idriche della zona di S. Felice (disegno di F. Furiesi)

1: Conduttura Etrusca A: Vasca

2: Conduttura Romana B: Cisterna

3-4: Condutture Medioevali C: Terme

5: Conduttura dell’acqua salata D: Fonte Medioevale

6: conduttura del lavatoio E: Fontana dell’acqua salata

F: Lavatoio

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sioni e la sua planimetria, ma a prima vista sembrerebbe essere composta da più camere comunicanti una con l’altra piuttosto che da un solo vano; la prima camera forse costituiva un bacino di decantazione. Questa cisterna, posta poco più a monte delle terme di S. Felice, consentiva la scorta d’acqua necessaria a questo impianto termale. L’acqua proveniente dalla zona dove nel medioevo venne costruita la fonte di S. Felice, vi affluiva tramite delle condutture non localizzate che attraversavano la cinta muraria della città, veniva qui conservata per i periodi di siccità. È nota la presenza di condutture, sia fittili, sia plumbee, che dalle terme andavano verso la cisterna e poi verso le fonti, ma che non si sono conservate.

La cisterna di S. Felice appare divisa in più ambienti dei quali quello più a monte doveva servire per la decantazione. Una cisterna simile, databile a non prima della metà del III secolo d.C., si trova presso Montaione e doveva rifornire probabilmen-te una villa non ancora identificata 85. Per struttura e dimensioni appare molto vicina a quella di Volterra, ma un confronto preciso non è possibile poiché il depo-sito volterrano è ancora in buona parte interrato.

La presenza di una cisterna serviva a garantire che all’impianto termale arrivasse una quantità di acqua costante in ogni mese dell’anno, anche nel periodo estivo, quando il flusso dell’acqua sorgiva si riduceva. Da questa cisterna partiva un’uni-ca conduttura che, arrivata all’altezza della parete Nord della struttura termale, si biforcava verso Ovest e verso Est. Il ramo orientale andava ad alimentare la caldaia che riscaldava l’acqua per il tepidarium e il calidarium, mentre il ramo occidentale riempiva la vasca del frigidarium.

L’antica sorgente è localizzabile nella zona di piazza degli Avelli, a Nord Ovest della fonte attuale. L’acqua veniva raccolta in una camera sotterranea non indivi-duata e immessa in una conduttura defluiva in una vasca di decantazione per essere poi immessa nel sistema di rifornimento delle terme di S. Felice. Si tratta di un condotto orientato in direzione Nord-Sud e realizzato in opera cementizia sia per le pareti che per il fondo, con copertura in laterizi. È alto circa 60 cm e largo 40 cm non è possibile determinarne la lunghezza in quanto passa sotto il livello del terreno. Secondo i rilievi effettuati durante lo scavo, questa conduttura, dall’an-damento serpeggiante, penetrava nella collina in direzione Nord-Est per circa 35 metri. Conduceva l’acqua in una struttura di cui si conservano pochi resti, rea-lizzata in materiali impermeabili, calcestruzzo e muratura protetta da intonaco. Si tratta probabilmente di una vasca per la raccolta delle acque provenienti da questa conduttura che è stata datata genericamente al periodo romano visti i metodi costruttivi utilizzati 86. Il bacino poteva servire anche come fontana per rifornire gli abitanti della zona o costituire la riserva necessaria al funzionamento di qualche attività produttiva (concia, fullonica, ecc.) della zona che aveva bisogno di acqua 87. Il collettore fognario etrusco doveva essere ancora in funzione per consentire l’uscita delle acque in eccesso 88.

L’edificio di S. Felice fu costruito poco al di fuori della cinta muraria, secondo uno schema già noto alle città romane di questo periodo, ad esempio per le terme di Massimiano a Milano 89. Ma se una scelta del genere era comprensibile per

città come Milano che avevano in quel periodo una notevole importanza politica e privilegiavano spazi decentrati per una architettura di largo respiro 90, non è altret-tanto chiaro perché si sia optato per una simile soluzione a Volterra che dava chiari segnali di decadenza, primo fra tutti l’abbandono dell’area sacra dell’Acropoli, dove fin dal V secolo a.C. si trovava il tempio principale della città 91.

Fra la seconda metà del III e il IV secolo d.C., furono costruite le terme di Vallebuona. Furono realizzate all’interno della porticus post scaenam del teatro, in un momento in cui il teatro era caduto in disuso, visto l’abbondante utilizzo di materiali provenienti da questo edificio più antico nella costruzione del nuovo edi-ficio termale.

La costruzione è composta da una serie di ambienti disposti lungo una direttrice Nord-Sud. Il primo ambiente, a Sud, è una sala di ingresso di forma rettangolare con due aperture sui lati Est e Ovest che conducevano in due vani. La stanza ad Ovest può essere identificata come latrina, a causa della presenza di una canaletta di scolo. Non rimangono tracce delle sellae pertusae.

Questo edificio presenta le varie stanze poste in successione così che il visita-tore seguiva un percorso in linea retta dall’inizio alla fine del trattamento; siamo così in grado anche noi di esaminare meglio l’intero processo di utilizzo di un tale impianto. Le fonti antiche parlano di una durata di circa cinque ore per completare il servizio: l’utente dopo essersi spogliato si toglieva la polvere e il sudore di dosso immergendosi in acqua fredda in un ambiente detto natatio; quindi affrontava gra-dualmente tre ambienti sempre più riscaldati nell’ordine chiamati tepidarium, cali-darium, laconicum e spesso al termine di tutto questo processo si recava nel frigida-rium per un bagno ristoratore in acqua fredda.

Si entrava dal lato più vicino al teatro e la prima sala era adibita a spogliatoio (apodyterium); da qui si passava in un’ambiente quadrangolare con due nicchie absidate di dimensioni diverse che costituivano le vasche per l’immersione in acqua fredda (usate sia come natatio che come frigidarium); la vasca ovest conserva ancora un pavimento musivo con reticolo di rombi. Seguiva una stanza ellittica di pas-saggio che immetteva nelle stanze destinate ai bagni caldi, l’ambiente reca tuttora un mosaico con riquadri policromi di nodi salomonici e rosette. Da notare che questa stanza possedeva due porte su un lato e una sull’altro, in corrispondenza dello spazio chiuso che si trova fra le prime due porte; questo era un espediente per impedire a dispersione del calore dalle stanza calde verso quelle fredde.

Le stanze successive sono il tepidarium, il calidarium ed il laconicum. In questi ambienti i pavimenti sono sopraelevati dal suolo per mezzo di pilastri in terracotta (suspensurae); secondo un sistema per cui l’aria calda proveniente dai forni circola-va nello spazio vuoto sotto il pavimento e si irradiava fino alla volta tramite i tubuli inglobati nelle pareti. Ogni stanza ha il suo focolare (praefurnium) e la temperatu-ra saliva gradualmente fino a raggiungere il massimo nel laconicum. Da questa zona dovrebbero provenire i resti di tubi e di rubinetti in bronzo rinvenuti durante alcuni scavi condotti a Vallebuona nel Settecento e oggi dispersi. Tutte le stanze conservano ancora parte della decorazione in marmo delle pareti e alcuni mosaici 92. La muratu-

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Fig. 28 Pianta delle terme romane di Vallebuona (da CORVO, 1993)

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ra è in opus caementicium con paramento composto da blocchi di pietra di modeste dimensioni, realizzata utilizzando anche materiali di spoglio provenienti dal vicino teatro.

È difficile stabilire quale fosse la fonte di approvvigionamento idrico di queste terme. Ritengo improbabile l’ipotesi di Fiumi che le considerava approvvigionate dalla grande cisterna dell’Acropoli 93, e questo in base alla differenza di datazione fra le due costruzioni e alla notevole distanza che separa le due strutture.

Sappiamo comunque che la valle di Vallebuona è sempre stata ritenuta, fin dai primi statuti duecenteschi, zona ricchissima di acqua e quindi è ragionevole cercare qui la fonte che approvvigionava le terme. Le fonti meglio conosciute, quella di Vallebuona e quella del Broglio (sempre che non fossero una sola), si trovavano più a Nord lungo il versante Ovest della valle del Broglio e molti metri più in basso delle terme, possiamo quindi escluderle. Probabilmente le terme erano rifornite da una cisterna costruita nella zona soprastante e non identificata. L’acqua poi veniva immagazzinata in serbatoi sopraelevati e distribuita, tramite condutture, alle vasche del frigidarium e alle caldaie, mentre un’altra conduttura portava l’acqua nelle latrine costruite nella parte ovest dell’edificio 94. I canali di scarico delle acque sporche si trovavano invece ad Ovest ed andavano poi a confluire nel grande collet-tore del teatro che passava giù per la valle di Vallebuona fino oltre le mura cittadine 95. Le terme cessarono di essere utilizzate nel V secolo e l’intera zona venne desti-nata ad altre occupazioni tra il V/VI e il X secolo 96.

È interessante rilevare che è molto raro trovare degli impianti termali di nuova costruzione in età tardoantica, fra il IV e l’inizio del V secolo d.C., quando nel modo romano era uso comune riadattare costruzioni già esistenti 97. Anche a Roselle, nella seconda metà del IV secolo d.C., furono costruite nuove terme in un’area periferica e anche in questa città si registrano forti segni di degrado urbano contemporanei alla costruzione dell’edificio termale 98. Altri impianti termali vennero costruiti anche a Susa (375-378), ma nella maggior parte dei casi cono-

Fig. 29 Sezione ricostruttiva delle terme romane di Vallebuona (da CORVO, 1993)

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Fig. 31 Terme romane di Vallebuona: l’area adibita ai bagni freddi

Fig. 30 Terme romane di Vallebuona: l’area di ingresso

sciuti si trattò di restaurare gli edifici già esistenti, come avviene ad esempio a Amiternum (325), a Saepinum(352/7), a Otricoli (341), a Interamna Lirenas (408) 99. I due edifici di Volterra differiscono alquanto fra loro, per prima cosa nella pianta: le terme di Vallebuona sono di tipo “assiale”, cioè ogni ambiente è disposto di seguito all’altro, mentre quelle di S. Felice hanno una planimetria costituita da stanze disposte intorno ad un ambiente centrale 100. Un altro elemento di differenza è costituito dal sistema di conservazione dell’acqua. Il primo edificio la accumulava in serbatoi soprae-levati, mentre il secondo in una cisterna posta a metà strada fra la sorgente e l’edifi-cio stesso. Si tratta di due sistemi diversi ma utilizzati con pari frequenza nel mondo romano, il primo solitamente era realizzato quando le terme erano approvvigionate da un acquedotto di cui il serbatoio era solitamente il punto terminale di distribuzione 101. Il secondo era usato soprattutto quando la sorgente si trovava nelle vicinanze e in genere la cisterna funzionava anche come bacino di decantazione. In questo caso la scelta era motivata forse anche dal tipo di acqua utilizzata, infatti la sorgente della moderna di S. Felice, che era presumibilmente la stessa che riforniva le terme, doveva essere ricca di sostanze minerali, e nel XVIII secolo come ancora oggi e pertanto la cisterna serviva forse anche a depurare l’acqua da queste sostanze rendendola più limpida.

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Fig. 32 Terme romane di Vallebuona: l’area adibita ai bagni caldi

NOTE

1) St r abone, V, 2, 6 e Cicerone, Pro A. Caecina. 2) Vedi l’epigrafe pubblicata in Munzi-Ter r enat o 1994.3) Cic er one, Pro A. Caecina. Per considerazioni sulla città e il territorio in questo periodo vedi Munzi-Ter r enat o 1994, con bibliografia precedente.4) Cr ist ofani 1973a, p. 218, Acropoli 1981, p. 11.5) La famiglia Caecina è attestata già a Volterra fin dal IV secolo a.C. con il nome etrusco di Ceicna/Caicna. Con la concessione della cittadinanza romana nel 90 a.C., alcuni membri della famiglia si trasferirono a Roma dove, grazie alla ricchezza accumulata nella città natale, riuscirono a ottenere il rango senatorio e, con il tempo, a rivestire cariche consolari (per una storia complessiva vedi Hoht i 1975). Furono proprio due membri di questa gens che ottennero il consolato ad essere i patrocina-tori della costruzione del teatro: Aulo Caecina Severus e Caius Caecina Largus, il primo console nel 1 a.C., il secondo nel 42 d.C. (Munzi 1993, p. 42, con bibliografia precedente).6) Bodei Gig l ioni 1973; Gros-Tor el l i 1992, pp. 156-158.7) Tor el l i 1969, pp. 295-299; Tor el l i 1982, p. 282. I Carrinates sono i soli ad essersi trasferiti a Roma e ad essere entrati nell’Ordo senatorum, ricoprendo incarichi importanti prima del principato di Augusto.8) Munzi-Ter r enat o 1994, pp. 35-36 e p. 41.9) In generale sul mondo romano: Töl l e-Kast ebein 1990, p. 136; Hodge 1992, pp. 58-66; Adam 1994, pp. 257-259; Rier a 1994, pp. 311-313. Una vasta casistica è presentata in Giannet t i 1975 e in Devot i 1978. Una cisterna costruita in alzato e rinvenuta nel territorio di Volterra (comune di Montaione) è descritta in De Mar inis 1977, p. 89 e pp. 223-225.10) Innocent i 1996, p. 157.11) Innocent i 1996, p. 158.12) Cr ist ofani 1973a, p. 245.13) Cinc i 1885 a, pp. 417-418. In questa relazione si nota anche come, secondo un accertamento del Capriani, la cisterna era approvvigionata da “aqua viva”, cioè da una fonte, cosa che invece non risulta da altre pubblicazioni successive, ad esempio Fiumi 1976, p. 14.14) Bat t ist ini 1921, p. 46. Nel XVIII fu Piero Franchini che studiò un progetto sul riutilizzo della cisterna e nel 1882 Giovanni Manetti propose addirittura di utilizzarla per costruire una fontana in Piazza dei Priori.15) Gor i 1743, p. 63. 16) Cinc i 1885, pp. 417-418; Gori 1743, p. 63.17) Br asseur 1877, pp. 12-1318) Questa soluzione venne ritenuta la più probabile anche da Enrico Fiumi, Fiumi 1976, p. 14.19) Cr ist o fani 1973a, p. 241: “Il sistema struttivo della cisterna non sembra differente da quello noto nella fondazione del teatro augusteo di Volterra. La costruzione, con ogni probabilità, può essere datata nel I secolo d.C. Essa ha avuto probabilmente la funzione di sostituire la cisterna compresa nel vano III, la cui utilizzazione, come si è visto, termina con i primi decenni del I secolo a.C.”.20) Levi 1928, p. 34. Nessuno, a parte Levi, ha mai trovato resti di strutture termali in questa zona, resta da vedere se si tratta di una cattiva interpretazione dei dati oppure se non si è mai scavato di recente nel punto dove si trovavano.21) Come avvenne per la realizzazione del teatro interamente pagato dalla famiglia Caecinae, anche se in questo caso la spesa dovette essere più contenuta.

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22) Adam 1994, pp. 271-272.23) Adam 1994, p. 273.24) Pasquinucc i 1987, pp. 193-205.25) Adam 1994, pp. 272-273.26) Unampio panorama di esempi viene riportato da RIERA 1994, pp. 360-374.27) Adam 1994, p. 273.28) Pasquinucc i 1987, pp. 207-243.29) Cast agnol i 1956.30) Fiumi 1976, p. 14.31) Adam 1994, pp. 258-259.32) St r az zul l a 1983, p.155. Cisterna di grosse dimensioni approvvigionata da una sorgente, venne costruita nel I secolo a.C. da sei ricchi cittadini e alimentava una fontana posta più in basso.33) Azzena 1987, p.29-34. Cisterna di prima età imperiale, non è conosciuto il sistema di alimen-tazione.34) Nul l i Mig l io l a 1989. Cisterna di Piazza del Popolo, è divisa in almeno nove sezioni e costitui-va la sostruzione su cui si trovava il foro della città. Alimentata da cunicoli di adduzione scavati nella roccia e da condutture che vi convogliavano l’acqua piovana è databile alla prima età imperiale, ma con rifacimenti di età adrianea. Cisterne dietro i “Nicchioni”. I “Nicchioni” sono probabilmente i resti di un ninfeo di età adrianea alimentato da due cisterne, non si è conservato il sistema di capta-zione dell’acqua.35) Pasquinucc i 1987, pp. 321-322. Qui troviamo due grandi cisterne costruite nella parte supe-riore della città, che sono approvvigionate mediante cunicoli di captazione. Costruite entrambe nella prima età imperiale, servivano anche da opera di sostruzione delle piazze soprastanti, una delle quali dovette essere il foro della città romana.36) Cancel l ier i 1992, pp. 82-86. 37) Canc el l ier i 1992, pp. 84-86. Sono state trovate anche le tubature che portavano l’acqua ai quartieri sottostanti. L’intera costruzione è databile a dopo il II secolo a.C.38) La maggior parte del materiale contenuto nel riempimento che la colmava prima della scoperta è stato consegnato al Museo Guarnacci dove viene attualmente custodito.39) Alcuni resti di pareti dell’edificio originario si conservano nella struttura del palazzo seicentesco, una parete portante arriva fino al secondo piano, per un’altezza di almeno sette metri.40) Cat eni 1993, p. 18.41) Fiumi 1976, pp. 10 e 16.42) La chiesa di S. Michele, che si trova a poche decine di metri da queste due costruzioni, è nomi-nata in un documento del 987 come S. Michele in Foro, per cui possiamo supporre che si trovasse nelle immediate vicinanze di esso (Fiumi 1976, p. 10).43) Consor t ini 1940, p. 187; Fiumi 1955, pp. 114-118.44) Corvo 1993, p. 87, n. 8: “Mons. Guarnacci interpretò queste strutture come edificio termale a causa del rinvenimento di alcune tubature fittili che vennero in parte trasportate al museo”.45) Raikem 1850, pp. 37-38.46) Corvo 1993, p. 87, n. 6. "Ai giorni nostri, in prossimità del luogo che occupava il teatro e dalla parte di Tramontana si sono scoperti degli avanzi di stanze da bagno e un pozzo che poté forse servire a quelli l’acqua occorrente". Questa citazione è stata ripresa da Raikem 1850, pp. 37-38.

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47) De Al bent iis, pp. 99-101; Adam 1994, pp. 257-259.48) Gli esempi migliori li troviamo a Pompei dove si è conservata quasi tutta la rete idrica (Adam 1994, p. 278-282).49) Monacchi 1985; Adam 1994, pp. 259-260; Neuer burg 1965, pp. 20-102.50) Consor t ini 1940, p. 194.51) Oltre che nelle città di nuova fondazione, come a Firmum Picenum (Pasquinuc c i 1987, pp.-169-191) o a Fanum Fortunae (Sommel l a 1988, p. 177), le fognature sono realizzate anche in città antiche come nel caso di Tuder, dove si affiancano alle condutture già esistenti (Nul l i Mig l io l a 1989, p.-36).52) L’acqua proveniente dalla scala veniva fatta deviare in una piccola conduttura che passa sotto il corridoio orientale. Si conserva solo per un piccolo tratto a causa della frana delle strutture antiche (Maet zke 1993, p. 94). Doveva comunque portare queste acque in un collettore fognario di dimensioni maggiori non identificato che passava più o meno sotto la moderna Via di Porta Diana, e che doveva costiture il tratto successivo della fogna etrusca rinvenuta in Via Matteotti e in Via Guarnacci.53) Maet zke 1993, pp. 94-96.54) Maet zke 1993, p. 96.55) Maet zke 1993, pp. 94-97.56) Il condotto proveniente dal lato Est partiva dalla esedra posta su questo lato della porticus, quello del lato Nord invece da un punto non identificato nella zona non scavata sotto la strada moderna.57) Questo intervento doveva essere già previsto all’inizio dei lavori del teatro e venne realizzato probabilmente da membri della stessa famiglia che aveva finanziato il teatro stesso, i Caecina; forse si tratta di Caius Caecina Largus, indicato dalle fonti a lui contemporanee come amico intimo dell’im-peratore Claudio (Munzi 1993, p. 42).58) Fiumi 1955, pp. 39-42.59) Vedi oltre pp. 110-111.60) Un’ampia casistica è elencata in Par r a 1976.61) Font ana 1991, pp. 42-50. L’autrice elenca numerosi esempi di teatri che presentano lo stesso tipo di soluzione e varianti di esso.62) Ciampolt r ini 1992, pp. 231-233.63) Esistono dati che testimoniano una attività edilizia privata in età severiana a Volterra, ma riguardano l’ammodernamento di un ricco edificio privato già esistente nel quartiere a Nord del teatro, per il momento non vi sono però indicazioni che provino l’avvio di nuove costruzioni. Cr ist ofani-1973b; Ciampolt r ini 1992, pp. 231-233; Munzi e altri 1994, p. 639.64) Munzi e altri 1994, p. 644. Nel fondo della cisterna del tempio A dell’acropoli è stata trovata una moneta di Gordiano III databile al 238 e tutto il riempimento è più o meno contemporaneo ad essa.65) Cr ist o fani-1973a, pp. 165-166. I materiali più tardi non vanno oltre gli inizi del IV secolo d.C.66) Fiumi 1955 pp. 137-138.67) È stata rinvenuta durante gli scavi congiunti nel secolo scorso a S. Felice una epigrafe mutila (CIL, XI, 1739), recante soltanto le prime due lettere di un nome: “GO...” e parte dell’attributo imperiale [Pius] Fe[lix]; è stato ipotizzato che si trattasse delle iniziali di un Gordiano, ma la perdita

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dell’epigrafe ci impedisce di estrapolarne altri dati.68) Munzi e altri 1994.69) Questa teoria è proposta da M. Munzi in Munzi e altri 1994, p. 643. L’ingresso di questa fami-glia nell’ordine senatorio è databile all’età di Gallieno. 70) Come nel caso delle grandi terme delle principali città dell’impero: Roma, Treviri, Leptis Magna, ecc. (Hodge 1992, pp. 264-266).71) Ad esempio le terme di Agrippa a Roma che erano alimentate dall’Aqua Virgo, costruita apposi-tamente per questo impianto nel 18 a.C. (Hodge 1992, p. 267).72) Questo soprattutto nel caso in cui si trattasse di acqua nota per le sue proprietà curative, ad esempio a Bath, Aix en Provence, Wuesbaden, ecc. (Hodge 1992, pp. 262-263).73) Ad esempio a Pompei prima dell’allacciamento della città all’acquedotto del Miseno (Maiur i 1931, pp. 552-557).74) Le iscrizioni dedicatorie di edifici pubblici sono totalmente assenti ad eccezione di quella del teatro romano. Le epigrafi volterrane sono praticamente tutte di ambito funerario, ad eccezione di alcune, fra cui un testo di lustratio (Gabba 1977, p. 135), la dedica di un orologio solare e, forse, la nuova epigrafe trovata a Montecatini che sembrerebbe essere di tipo dedicatorio e che con ogni probabilità proviene da Volterra (Munzi-Ter r enat o 1994, p. 32).75) Raikem 1850, pp. 37-38.76) Cr ist o fani 1973b; Ciampolt r ini 1992. In passato in questa zona sono stati rinvenuti nume-rosi resti di pavimentazioni a mosaico pertinenti a più edifici e che ci testimoniano come in questa zona fossero concentrate numerose abitazioni di lusso, pertinenti senza dubbio a ricche famiglie volterrane.77) Privato deve essere stato anche il “bagno” che, secondo alcuni studiosi, venne ritrovato nel 1668 insieme a tre statue di marmo nei pressi della chiesa di S. Alessandro, in un terreno di proprietà del cav. Giovanni Guidi (Giachi 1887, p. 155; Consor t ini 1940, p. 259).78) Anche Consortini identifica questo edificio come un impianto termale (Consor t ini 1940, p.-186).79) Fiumi 1944, pp. 381-382.80) Fiumi 1944, p. 382.81) Giac hi 1887, p. 100. Munz i e altri 1993, p. 639. I tre imperatori di nome Gordiano sono: Gordiano Pio (238 – 244 d.C.), Gordiano l’Africano I (238 d.C.) e Gordiano Africano II(238 d.C.). L’epigrafe (CIL, XI, 1739) è oggi perduta; il testo, Co[-] o Go[-], seguito dall’epiteto [Pius] Fe[lix], appare lacunoso e non si presta a una facile interpretazione; secondo Donati in CIL, XI, 1739 potrebbe trattarsi anche di Commodo. 82) Iozzo 1997, p. 35.83) Cinc i 1885 b, p. 164. Questa notizia è ripresa da ASCV: D nera 148, c. 790.84) Iozzo 1997, p. 3585) De Mar inis 1977, pp. 223-225.86) Cac iag l i 1980, p. 148, dis. 5; pp. 154-155.87) Da rilevare che questa vasca probabilmente era in funzione o era visibile ancora in età medieva-le, infatti molti documenti del XIII secolo menzionano un toponimo Piscinale che è possibile loca-lizzare in questa zona. Il termine, solitamente usato per indicare le vasche per la concia delle pelli, potrebbe rispecchiare la funzione antica di questa struttura o un riutilizzo di essa. Rilevante anche il fatto che a pochi metri vi sia un altro toponimo che indica la presenza di impianti per la conciatura:

La città romana 75

Piazza degli Avelli (Fiumi 1944, p. 376-379).88) Cac iag l i 1980, PP. 154-155.89) Sommel l a 1988, p.197.90) Sommel l a 1988, p. 214. È comunque una struttura compresa in un periodo di intensa attività edilizia di Milano, che vede anche la costruzione di nuove mura urbane, di un circo, di un anfitea-tro, di un altro impianto termale intramuraneo, dei grandi horrea presso la porta Comacina e di numerosi altri edifici pubblici e privati.91) Si può ipotizzare però che questo impianto non fosse pubblico, ma privato e che questo luogo fosse stato scelto semplicemente perché era il sito più idoneo alla costruzione di un edificio termale.92) Corvo 1993, pp. 77-78.93) Fiumi 1976, p. 19. Fiumi riferisce che l’acqua della Cisterna dell’Acropoli sarebbe stata portata alle terme grazie ad un condotto che si apriva nelle vicinanze della Porta Fiorentina. Questa con-duttura, che non sappiamo nemmeno se fosse etrusca o romana, esiste ma oggi è stata obliterata dai detriti dello scavo che sono stati accumulati per creare il parcheggio di Porta Fiorentina.94) Corvo 1993, p. 83.95) Fiumi 1976, p. 20. Pianta delle condutture in Maet zke 1993, p. 97.96) Munz i e altri 1994, p. 651. Gli autori ipotizzano che questa zona venisse adibita ad attività agricole o di pastorizia e che un ambiente delle terme fosse stato trasformato in struttura di suppor-to per queste attività produttive.97) Munzi e altri 1994, p. 641.98) Cel uzza-Feint r ess 1994, pp. 606-608.99) War d-Per kins 1984, pp. 20-30.100) Vedi la pianta riportata in fig. n. 2 su Munzi e altri 1994.101) Ad esempio per le terme di Traiano a Roma (Cast agnol i 1956).

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L’ALTO MEDIOEVO

Con la fine dell’Impero Romano la città si trasforma, le epidemie e le carestie spopo-lano Volterra che si riduce di dimensioni e assume un aspetto frammentato, con varie aree abitate separate da ampi spazi destinati a campi coltivati o lasciati all’abbandono; molte infrastrutture romane cessano di esistere e gli edifici pubblici vengono trasformati in cave di materiale da costruzione per i nuovi edifici. Volterra manterrà questo aspetto a lungo e durante questo periodo si riconoscono solo due nuclei insediativi di una certa consistenza, il primo è individuabile nei pressi delle attuali Piazza dei Priori e Piazza S. Giovanni, zona in cui vi era il Duomo e la residenza vescovile. L’area occupata da tale insediamento andava da Piazza S. Giovanni, fino all’attuale chiesa di S. Michele e verosimilmente occupava anche una parte dell’antica acropoli. Sul luogo dell’attuale Duomo di Volterra si trovavano l’antica chiesa di S. Maria, l’oratorio di S. Ottaviano con la relativa canonica e la residenza vescovile, mentre l’attuale Battistero sorge sul sito dell’omonima chiesa di S. Giovanni 1. La chiesa di S. Michele invece è verosimilmente di fondazione longobarda 2, nelle vicinanze di essa è documentata anche una chiesa dedicata a S. Vitale di probabile fondazione bizantina 3. A questo nucleo insediativo sono probabilmente collegate le due tombe di Porta Fiorentina e di Piazza XX settem-bre, ma gli abitanti si dovettero servire anche della zona sepolcrale delle Ripaie, rimasta in uso 4.

L’altro nucleo insediativo è invece identificabile con il sito dell’attuale chiesa di S.-Giusto, fino alla zona delle Balze. L’abitato era conosciuto con il nome di Pratum Martium e doveva corrispondere grossomodo all’area dell’attuale Borgo S. Giusto com-prendendo al suo interno il sito del Mons Albuini, la prima chiesa di S. Giusto e la collina dove nel 1030 venne fondato il Monastero di S.Giusto. Probabilmente dovette far capo alla necropoli di Badia-Montebradoni, dove sono state rinvenute due epigrafi che documentano l’esistenza di un cimitero cristiano tardo antico; questo cimitero era collegato ad una chiesa dedicata a S. Giusto che fu restaurata in età longobarda dal gastaldo Alchis, come documentato da una epigrafe 5.

Le nostre conoscenze sull’uso dell’acquaPer il periodo che va dal VI al XII secolo non abbiamo alcun tipo di documenta-

zione che ci fornisca dati sull’approvvigionamento o sullo smaltimento delle acque all’interno della città. Né documenti archivistici, né reperti archeologici riguardanti questo periodo sono rimasti in nostro possesso. Fino all’anno Mille la documenta-zione archeologica e quella manoscritta non ci consentono di conoscere nulla sul sistema di approvvigionamento idraulico o sull’apparato fognario. Non è possibi-le fare nemmeno delle ipotesi attendibili. A partire dal X secolo la quantità delle informazioni aumenta decisamente, ma non riguarda la situazione idraulica. Quali

fonti erano attive e se fossero monumentalizzate o meno è impossibile saperlo allo stato attuale delle nostre conoscenze, inoltre sono pochissimi i documenti che ci rendono nota l’esistenza di cisterne o pozzi nel territorio 6; negli atti di vendita di abitazioni o terreni all’interno della città non vi è nulla di pertinente. Possiamo fare comunque delle ipotesi basandosi su informazioni indirette o su alcuni documenti successivi.

Sappiamo intanto che la maggior parte delle opere di approvvigionamento e smal-timento idrico antiche erano ormai fuori uso. La prova più significativa a questo riguardo la troviamo nei documenti di XIII secolo: negli Statuti del Comune di Volterra del 1238 viene infatti segnalato per la prima volta l’ordine dato dai Priori ai competenti magistrati cittadini, di interrare lo stagno che allora si trovava a Vallebuona affinché non vi cadessero dentro né fanciulli, né adulti 7. Secondo M. Munzi l’ordine era motivato dal fatto che le opere di drenaggio etrusche e romane non erano più funzionanti già dalla tarda antichità, perché franate o riempite di sedi-menti. Pertanto l’acqua piovana proveniente dalla collina, non trovando uno sbocco per scendere verso i ruscelli che la convogliavano verso il fondo della valle, si era accumulata in qualche punto più o meno pianeggiante e lì era ristagnata causando non pochi problemi 8. Credo che l’origine di questo stagno possa essere anche più recente e collegabile alla scarsa efficienza delle riparazioni medievali alle poche opere idrauliche antiche rimaste in funzione. L’area di Vallebuona venne risistemata più volte negli anni precedenti l’emanazione questa legge, e di questi interventi sono rimaste le lamentele per lavori non adeguati e compiuti malamente 9.

In un contratto di affitto del 18 giugno 980 compare il toponimo Muroaquali, riferito ad un luogo all’interno della città: questo è l’unico termine menzionato nei documenti che ci può far pensare ad una struttura cittadina collegata con l’acqua, databile a prima della nascita del Comune 10; forse si trattava di una struttura di distribuzione dell’acqua costruita nell’antichità e sopravvissuta in uno stato tale da consentire di essere utilizzata ancora nel X secolo. Muroaquali è un termine oggi scomparso dalla toponomastica cittadina e pertanto rende difficile la localizzazione, ma in base a quanto riportato dal documento che lo cita sappiamo che la località si trovava nelle vicinanze di terreni di proprietà della chiesa di S. Michele e della chiesa di S. Maria, in Valle Publico. Dallo stesso documento sappiamo che in Valle Publico si trovava pure una chiesa dedicata a S. Vitale che Lessi colloca nella zona di Vallebuona, pertanto Valle Publico può corrispondere alla valle di Vallebuona 11. Sul documento è poi specificato che nelle vicinanze della località si trovavano le mura cittadine. Sappiamo poi che nel 980 le mura medievali non erano ancora state costruite poiché venivano utilizzate le mura etrusche, che in questo punto si trovano circa 100 metri più a Nord di quelle medievali 12, nei pressi della sorgente delle Conce, poco lontano dal terrapieno che sostiene Viale Francesco Ferrucci; questa località potrebbe pertanto essere identificata con la sorgente delle Conce 13.

Possiamo poi supporre che prima della nascita del Comune, che emanò delle leggi ben precise sull’uso dell’acqua, non vi fosse alcuna regolamentazione particolare sulle fonti e che nello stesso tempo le sorgenti, o almeno quelle principali, fossero pub-

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bliche e mantenute dall’autorità vescovile, come avveniva nella maggior parte delle città su cui abbiamo a disposizione informazioni relative a questo periodo 14, anche se nei documenti non vi è alcuna traccia di lavori eseguiti alle strutture 15. Forse alcune fonti erano di proprietà di possidenti volterrani, come parrebbero suggerire i due toponimi Fons Saracinorum e Fons Grimaldinga, che ci rimandano alle famiglie Saracini e Grimaldi, entrambe attestate a Volterra nel XIII secolo 16. Oppure le pro-prietà di queste famiglie si trovavano vicino alla fonte, consentendo loro di esercitare una sorveglianza, anche armata, all’accesso all’acqua; in questo caso il controllo su di esse poteva essere abusivo e consentito solo dal potere familiare o dalla noncuranza del governo cittadino. Nel primo caso i lavori ordinari potevano essere di compe-tenza di queste famiglie, ma non sempre la popolazione aveva diritto di prendervi l’acqua. Nel secondo caso le famiglie non erano tenute a garantire la manutenzione, ma potevano decidere chi dovesse avere accesso o meno all’acqua17.

Appare comunque strano che a Volterra non esista alcun documento che provi un interesse da parte della maggiore autorità di quel tempo, il vescovo, nei confronti della gestione e della manutenzione dell’acqua, quando in molte altre città italiane esisto-no prove di un controllo diretto da parte dell’autorità ecclesiastica sulle sorgenti, sulle cisterne, sui bagni e sulle strutture antiche ancora funzionanti, soprattutto se subordi-nati alle esigenze delle strutture ecclesiastiche 18. Anche la costruzione di nuove infra-strutture idrauliche non è un fenomeno così raro come si pensa e sono molti i vescovi di città della penisola che riparano o costruiscono acquedotti, cisterne o impianti termali, soprattutto nel centro delle città o in vicinanza della Domus Episcopi 19.

In molte sedi episcopali italiane i vescovi si insediavano in aree prossime a edifici termali romani, che molto spesso venivano ancora riutilizzati o come bagni per gli ecclesiastici o come battisteri, non mancano gli esempi anche vicini a noi, come quello di Roselle 20. A Volterra non abbiamo alcuna prova certa di questo utilizzo degli impianti termali, però siamo a conoscenza dell’esistenza di una grande resi-denza signorile romana nei pressi dell’area occupata dai principali edifici ecclesiastici della città 21 e in cui sono state trovate delle grandi strutture che forse sono identifi-cabili con delle cisterne destinate a rifornire le terme dell’abitazione (terme che però non sono state individuate) 22. Non è pertanto improbabile che questo antico edifi-cio romano fosse di proprietà vescovile e che, per un periodo non ben definibile, sia stato usato come impianto termale a beneficio degli ecclesiastici.

Forse era destinato a bagno anche il “Bagno di San Giusto”, una sorgente che la tradizione considerava scaturita tramite un miracolo compiuto dal santo eponimo, e che si trovava nei pressi della chiesa di S. Giusto, una delle più antiche di Volterra e saldamente sotto il controllo vescovile. La sorgente è conosciuta dai documenti di età comunale, ma in via ipotetica il suo nome potrebbe essere collegato ad un utilizzo come bagno, appunto, almeno in età altomedievale quando i bagni pubbli-ci erano abbastanza diffusi, come abbiamo visto. Possiamo anche ipotizzare che il documento citato da Fiumi, dal quale sappiamo che nel 1219 nella zona di Pinzano esisteva un “hedificium anticum quod vocatur Balneum” 23, non si riferisca ad un impianto termale romano, come da lui sostenuto, ma ad un edificio più recente 24.

L’alto Medioevo 79

NOTE

1) MUNZI E ALTRI 1994, P. 646.2) MUNZI E ALTRI 1994, P. 647.3) LESSI 1995, P. 12.4) MUNZI E ALTRI 1994, PP. 646-648, LESSI 1995, PP. 11-12. 5) MUNZI E ALTRI 1994, P. 649, LESSI 1995, P. 12. AUGENTI-MUNZI, 1977, PP. 43-466) IL PRIM O CHE È CONOSCIUTO È DEL 1003; SI TRATTA DI UNA CISTERNA CHE SI TROVAVA ALL’INTERNO DEL CASTELLO DI MONTECERBOLI (CAVALLINI 1972, N. 5, 9 AGOSTO 1003).7) ASCV, G NERA 4 BIS, CAP. CLXXXIX, De Vallebuona; l’ordine fu ripetuto in ASCV, G nera 7, cap. XXXVII, De Vallebuona. Il primo documento è databile al 1238-1241, mentre il secondo al 1251.8) Munzi e altri 1994, p. 653.9) Vedi oltre, pp 109-113.10) ASCV, pergamene di Badia, n. 5, 18 giugno 980. Regestato in Sc hneider 1907, n. 63. Si tratta di un contratto in cui il vescovo di Volterra, Pietro, concede in livello a Fluritio filius Veneri Clericus alcune cases seu cassinas et sortes, fra di esse “uno de ex ipse pegia de terra ubi modo vocitatur Muroaquali quo de uno latere in muro de ipsa civitatem et de alio lato tenet in terra S. Marie et in terra S. Angeli.(FURIESI 1996-1997, PP. 39-42)”. 11) Lessi 1995, p. 13.12) Vedi il percorso in Fiumi 1947.13) Per una identificazione più precisa di questa località vedi oltre a pp. 109-113.14) Vedi in generale Squat r it i 1998, pp. 10-43.15) Per quel poco che sappiamo è praticamente nullo il contributo del vescovo di Volterra alla realiz-zazione o al mantenimento di opere pubbliche che non fossero connesse all’attività religiosa (chiese, conventi, ecc.) o al patrimonio della mensa vescovile; la nostra conoscenza su questo argomento è però solo parziale, in quanto i documenti di questo periodo, che sono conservati nell’Archivio Vescovile della Diocesi di Volterra, sono inaccessibili ed è possibile consultare solo il regesto di una parte di essi che è stato pubblicato in Schneider 1907.16) La fons Saracinorum è l’antico nome di S. Felice, mentre la Grimaldinga è Mandringa.17) Un esempio di questo comportamento è quello citato da Heer s 1995, p. 284.18) Squat r it i 1998, pp. 13-15.19) Squat r it i 1998, p. 15; War d Per kins 1984, p. 48.20) Cel uzza-Feint r ess 1994, pp. 606-608.21) Si tratta della domus di età imperiale rinvenuta sotto il Centro Studi S. Maria Maddalena, sulla cui area, fra l’altro, nel XII secolo verrà edificato un ospedale di proprietà vescovile.22) Queste strutture sono state trovate riempite di materiale tardo medievale, quindi sono rimaste in uso a lungo. Anche il Falconcini riferisce del ritrovamento di tubature in piombo che portavano l’acqua verso queste strutture che erano state trovate da poco nell’Ospedale di S. Maria.23) Fiumi 1944, pp. 381-382.24) Vedi sopra pp. 62-63.

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IL PERIODO COMUNALE

Nel 1193 è attestata per la prima volta la presenza a Volterra di un podestà e l’en-trata in vigore del Comune medievale 1. Da allora la quantità di documenti aumenta enormemente, soprattutto quelli legati ad opere pubbliche, fra cui abbondano in parti-colare le strutture di approvvigionamento idrico.

La città aveva raggiunto un assetto definitivo con un unico centro costituitosi nella zona occupata in precedenza dal palazzo vescovile e dagli edifici religiosi circostanti; intorno ad essa si allargarono le zone di espansione edilizia che nel corso del XII secolo andarono a costituire i quartieri di Borgo S. Maria, di S. Agnolo e di Porta a Selci, tutte zone che nell’Alto Medioevo erano occupate da terreni coltivati, mentre la zona di Pratum Martium rimase periferica 2.

Il periodo di massimo sviluppo della città è databile all’inizio dell’Età Comunale, nella prima metà del XIII secolo, quando il Comune di Volterra ordinò che coloro che volevano essere dichiarati cittadini volterrani dovevano possedere una abitazione all’in-terno della città; si moltiplicarono così le case e le torri delle ricche famiglie provenienti dal territorio sotto il controllo del Comune volterrano 3.

Anche attorno all’altro nucleo insediativo altomedievale del borgo di Prato Marzio si assiste ad un’ intenso sviluppo edilizio concentrato principalmente lungo il Corso, una via che partiva dalla Piazza dei Priori e attraversava in direzione Est-Ovest tutta la città fino a congiungersi, al di fuori della porta di S. Marco, con la strada che andava nella Valdera 4. Inoltre nacquero due nuovi borghi alle altre estremità della città: Borgo S. Alessandro a Sud e Borgo S. Lazzero a Est .

L’attività del Comune si distinse per le grandi opere pubbliche compiute in questo periodo nella città e nel territorio: vennero costruiti o acquistati i palazzi che saranno sede dell’ amministrazione pubblica: il Palazzo dei Priori, il Palazzo Pretorio, la Dogana del sale, i Granai Pubblici; furono edificate le nuove mura di cinta destinate a sostituire la vecchia cerchia difensiva etrusca 5; furono soprattutto monumentalizzate numerose fonti.

Con lo sviluppo e l’espansione del centro abitato vengono costruite nuove strade, molte delle quali proprio con lo scopo di andare più comodamente alle fonti, che erano poste in zone periferiche, spesso al di fuori delle mura urbane 6. Queste strade divennero poi la base intorno a cui realizzare i nuovi quartieri residenziali. L’esempio più interessante è quello della strada che collegava le fonti di S. Felice con la grande arteria di Borgo S. Maria (l’attuale via di S. Felice); fu iniziata intorno al 1335 7 e costituì l’asse di riferimento per tutte le strade, private o pubbliche, che vennero suc-cessivamente costruite in questa zona.

Il sistema di approvvigionamento di età comunaleLa conoscenza che abbiamo dei sistemi medievali di approvvigionamento idrico a

Volterra si ribalta completamente al momento dell’insediamento del Comune, che convenzionalmente coincide con la nomina del primo podestà nel 1193. Non sol-tanto buona parte delle strutture idrauliche realizzate dal comune nel XII e XIII secolo sono arrivate a noi in buono stato di conservazione e funzionanti, ma i docu-menti che ne parlano aumentano in maniera considerevole rispetto ai secoli prece-denti. A partire da allora fu prodotta anche una notevole quantità di materiale scritto che ci fornisce ulteriori notizie sull’attività edilizia nel medioevo a Volterra. La prima fonte ad essere ricordata nei documenti scritti è Fonte Marcoli, nel 1195 8. Segue poi a distanza di pochi anni (1204) quella delle Zatre 9. Invece i primi lavori condotti dall’amministrazione pubblica sono documentati per quanto riguarda l’abbeveratoio di Vallebuona e i lavatoi di Nuce e Velloso, tutti del 1210 10. Di queste tre fonti è possibile identificare con certezza solo quella del Velloso, costruita nei pressi della chiesa di S. Girolamo sul versante Ovest della collina di Poggio alle Croci.

A partire da questi anni cominciano ad essere riportate sugli statuti cittadini leggi e norme in materia edilizia e anche le prime notizie di una normativa igienica da osservare; quest’ultima si rendeva sempre più necessarie a causa dell’aumento della popolazione cittadina e concentrazione in un luogo ristretto. Assumono importanza soprattutto le leggi sulla gestione delle fonti e lo smaltimento delle acque piovane e dei liquami, sia per i privati che per il comune stesso 11.

Siamo in grado di ricostruire, grazie alla comparazione fra i documenti scritti e le testimonianze monumentali, tutte le fasi della realizzazione del sistema di approvvi-gionamento delle acque per la città, che si basava essenzialmente sull’impiego mas-siccio delle sorgenti naturali, seguendo tre direttive principali:

1 Migliore sfruttamento delle vene;2 sistemazione architettonica adeguata a tutte le necessità;3 migliore qualità dell’acqua attraverso misure igieniche rigorose;

Il primo punto prevedeva l’organizzazione di una rete di fonti distribuita in maniera omogenea su tutto il territorio urbano e suburbano, e organizzata in maniera tale che i luoghi dove poter attingere acqua fossero scelti con lo scopo di ridurre al minimo le distanze dalle abitazioni, realizzando anche nuove vie che colle-gassero le zone più popolate con le sorgenti garantendo così una migliore comodità di accesso per gli utenti. Vennero creati due livelli di intervento. Il primo di tipo urbano, organizzato su base topografica e facente capo alle contrade 12: quasi tutte le contrade avevano almeno una sorgente a disposizione, dentro o fuori delle mura di cinta, ad eccezione delle contrade di Piazza, Castello e Piano di Castello, corrispon-denti alle zone più alte della città, dove, a causa dell’altitudine, non vi erano sorgenti 13. Il secondo livello di intervento era quello delle Pendici, il territorio suburbano fino a circa due-tre chilometri al di fuori delle mura, dove vennero utilizzate solo le sorgenti poste lungo le vie di comunicazione.

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Possono essere considerate fonti del primo livello quelle di Vallebuona, Docciola, S. Felice, Mandringa, S. Marco (o della Frana), S. Stefano, Fonte al Pino, Fonte a Selci, Fonte del Velloso, Fonte Marcoli, le Zatre, la Fontaccia di Montebradoni. Del secondo livello facevano parte invece Fonte Corrente, Fonte Pipoli, la fonte di Papignano, la fonte Morli, le Fontanelle presso Monte Terzi, le Rivolte, le due fonti all’Agnello e il Bagno di San Giusto; di molte di esse conosciamo solo il nome in quanto non si sono conservate. Ve ne sono poi altre la cui struttura edilizia è di aspetto moderno, delle quali non sappiamo se fossero utilizzate anche nel medioe-vo, perché non sono menzionate nei documenti (ad esempio le fonti di Fontanella, delle Colombaie, della Pescaia, del Purgo).

Questa divisione in due livelli delle fonti è testimoniata anche in altre città medievali; l’unico caso ampiamente studiato è quello di Atri, sulla base delle infor-mazioni recuperate dall’esame degli statuti medievali di quel comune. In questa città le fontane si dividevano in urbane e in vicinali, differenziandosi anche nelle tipologie architettoniche, che nel primo caso prevedevano fonti molto più grandi e ben strutturate e nel secondo delle semplici prese d’acqua ad uso soprattutto di abbeveratoio per gli animali 14.

Per soddisfare il secondo punto programmatico tutte le sorgenti vennero monumentalizzate. Fu utilizzato un tipo architettonico standard, consistente in un corpo principale formato da una vasca in muratura, realizzata generalmen-te in pietra, in cui si gettava l’acqua proveniente dal condotto di captazione scavato nella parete di roccia e terminante in una apposita camera di raccolta sotterranea che serviva anche da bacino di decantazione. La vasca normalmente era coperta da una tettoia in muratura sorretta da un’arcata che aveva lo scopo di proteggerla dalla sporcizia e di rallentare l’evaporazione dell’acqua; se la vasca era particolarmente ampia vi erano più arcate divise da pilastri. Soltanto le fonti principali avevano due archi: S. Felice, Docciola e Fonte a Selci, tutte le altre ne avevano uno 15. Le fonti di campagna, salvo qualche eccezione, erano invece scoperte; in un caso, quello della fonte all’Agnello, sono presenti due fonti, una posta proprio lungo la vecchia strada dell’Era, che non è coperta, ma presenta uno stemma della città infisso sulla parete di fondo, e l’altra posta poco lontano, nei pressi del podere, che invece ha una copertura molto sempli-ce ad arco unico.

Le fonti erano poi dotate di un particolare sistema di vasche comunicanti l’una con l’altra per mezzo di muretti separatori costruiti a pelo d’acqua, che facevano passare l’acqua proveniente da una vasca all’altra, sfruttando semplicemente la forza di gravità; lo scopo di questo espediente era quello di utilizzare l’acqua contenuta in ciascun bacino per usi diversi. La vasca principale, di solito coperta dalla tettoia, era l’abeveratorium, da dove si attingeva l’acqua potabile, per gli uomini direttamente dal doccio, per gli animali dal bacino; la seconda era il lavatorium, dove si lavava-no i panni; e infine c’era il guaççatorium, dove si lavavano gli animali macellati, la lana e le fibre vegetali e dove si poteva usare l’acqua per le necessità di lavorazione.

Il periodo comunale 83

Questa divisione serviva a provvedere a tutte le necessità e a garantire che i punti dove l’acqua serviva per usi più inquinanti fossero separati dai punti dove si attinge-va l’acqua per bere. Le fonti del secondo livello spesso non avevano l’arco di coper-tura, ma per il resto presentavano lo stesso sistema a vasche comunicanti, come ad esempio, nel caso della Fonte all’Agnello. Questo sistema era identico a quello usato in molte altre città italiane, l’esempio più noto e vicino a noi è quello di Siena dove i vari bacini erano chiamati Trabocchi 16.

Il terzo punto fu invece attuato emanando una serie di leggi che evitassero l’in-quinamento delle acque pubbliche; fu impedito di lavare panni, bestiame e verdure nelle vasche da cui si prendeva l’acqua da bere e l’utilizzo indiscriminato delle fonti pubbliche per attività lavorative, soprattutto di quelle inquinanti, e fu vietato di depositare rifiuti nelle vicinanze. Contemporaneamente venne emanata una serie di leggi che regolamentavano anche lo scarico delle acque sporche provenienti dai gabinetti (necessaria) e dai lavandini (aquaiola) dei privati.

Le due principali fonti cittadine erano quelle di Docciola e di S. Felice, al momento della loro costruzione furono progettate non soltanto in base alla funzio-nalità, ma anche pensando alla scenografia architettonica; in particolare si individua l’esistenza a Docciola di un rapporto fra la fonte e la porta antistante; per cui lo sguardo di chi entra è immediatamente attratto dalla presentazione di questo bene (l’acqua) e del suo mezzo di distribuzione (la fonte), con la possibilità di riconoscere immediatamente chi ha voluto questa costruzione (il Comune di Volterra) grazie agli stemmi apposti sulla facciata e all’epigrafe dedicatoria. Il fatto che in questo caso lo stemma del Comune (la croce rossa in campo bianco) coincida con un segno reli-gioso indica anche la volontà di consacrare la costruzione e porla sotto la protezione di Dio. Interessante è l’effetto ottico per cui ad un osservatore che stia all’esterno la piazza antistante la fonte sembri leggermente più profonda che nella realtà 17.

Le fonti di Docciola e San Felice, come quelle di Siena, S. Gimignano e Atri, sono collocate in una posizione strategicamente importante, vicino ad una porta che si apre su un percorso che collega Volterra con il suo territorio 18. A Volterra poi si progettarono le mura di cinta in modo da proteggere anche le sorgen-ti; l’esempio più significativo è quello della costruzione di un enorme muro che serrava “a diga” la valle di Docciola e che aveva lo scopo di non lasciar fuori di esse una delle sorgenti principali. Si trattò di una spesa non indifferente, che comportò anche la creazione di un vuoto urbano di notevoli dimensioni 19. Questa stessa scelta venne compiuta anche dai governanti di Siena, ma non fu adottata in tutte le città 20 e questo ci dà la misura dell’importanza dell’acqua per la nostra città.

Anche le altre sorgenti del primo livello costruite all’esterno delle mura sono collocate in vicinanza delle porte: la fonte di S. Stefano si trova vicino alla porta Pisana (oggi detta di S. Francesco), la fonte a Selci nei pressi della porta omonima, Mandringa poco lontano dalla porta di Docciarello, che era una postierla nelle mura etrusche; per andare alla fonte di S. Marco, detta oggi della Frana, fu costrui-ta nella prima metà del ’200 la postierla di Menseri, con lo scopo di collegare la contrada di Prato Marzio con la fonte più vicina alle abitazioni 21.

La spesa per completare la realizzazione di questo sistema di approvvigionamen-

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to fu considerevole, certo motivata dall’importanza che si dette a questo bene. Non mancarono pure gli abbellimenti estetici, soprattutto per le due fonti principali col-locate dentro le mura; con ogni probabilità se non fosse sopravvenuta la grande epi-demia di peste del 1348, che uccise circa un terzo degli abitanti della città e bloccò ogni futuro sviluppo urbanistico, sarebbero state abbellite anche le altre.

Nascita e sviluppo della rete idrica (XIII secolo)La prima mossa che il Comune dovette compiere fu quella di impossessarsi

delle sorgenti cittadine; non sappiamo se ciò avvenne con espropri o per acquisto, perché non è rimasta nessuna traccia di contratti. L’unica notizia di una possibile acquisizione ci viene dagli statuti del 1224, dove troviamo scritto che la valle di Vallebuona da allora in poi sarà di proprietà del Comune di Volterra cum fontibus et arboribus 22. Contrariamente a quanto avvenne in altre città italiane, ad esempio Genova e Venezia, dove in molti casi famiglie private si impossessarono di fontane pubbliche 23, qui non c’erano consentiti dubbi sulla proprietà delle opere idriche, che erano tutte, ad eccezione dei pozzi e delle cisterne interne alle abitazioni, di proprietà pubblica.

Non solo, ma negli statuti cittadini abbondano le norme che imponevano ai governanti di chiarire tutte le situazioni controverse sulla proprietà delle fonti e di concludere contratti per la collaborazione con religiosi e privati cittadini sulla manutenzione delle opere pubbliche, specificando che fossero esse stratae, pontes et aquae. L’unico contratto di questo tipo che ci sia rimasto è quello che venne rogato il 6 novembre 1203 fra Pietro, operaio della Chiesa di S. Giusto, e il podestà di Volterra, per la costruzione di una condotta che regolasse le acque che, fuoriuscen-do da Pratomarzio, lambivano la chiesa, in modo che non si disperdessero e potes-sero essere invece utilizzate 24.

Il periodo comunale 85

Fig. 33 Ricostruzione ideale del sistema dei trabocchi medievali (disegno di F. Furiesi)

A: Doccia

B: Abeveratorium

C: Lavatorium

D: Guaççatorium

La prima notizia che abbiamo di un intervento compiuto dal Comune è la costruzione, fra il 1204 ed il 1210, di una via che andava alla fonte delle Zatre 25. Essendo oggi la fonte scomparsa non sappiamo quale possa essere questa via, sulla quale non abbiamo alcuna indicazione più precisa. Qualche anno dopo, nel 1224, il comune intervenne in maniera massiccia in tre luoghi: alla fonte di Nuce e a quella di Velloso, dove dovevano essere aggiustati i lavatoi già esistenti, e a Vallebuona, dove furono rifatti gli abbeveratoi delle fonti e risistemate le vene dell’acqua 26. Sempre a Vallebuona venne deciso di fare guazzatoi e lavatoi dove si ritenesse opportuno e un canale per l’acqua della sorgente di Broglio, in modo da poterla prendere con comodità. Tutto questo ci porta a pensare che vi fossero più sorgenti nella valle di Vallebuona, non tutte attrezzate con vasche in muratura e che il massiccio intervento fosse legato all’acquisto di questa zona da parte del Comune che evidentemente ne voleva fare il centro del sistema di approvvigionamento citta-dino vista la vicinanza al centro della città. Ci sono indicazioni precise anche sulla profondità degli abbeveratoi: due braccia.

Della ricerca delle vene d’acqua era in genere incaricato un guerco (minatore) proveniente da Montieri che si occupava dello scavo del condotto sotterraneo di captazione. La prima volta in cui si fa menzione di un minatore assunto a questo scopo risale al 1251-1255, allorché venne chiamato un operaio a scavare la vena del Broglio 27. Il 9 aprile del 1320 fu assunto un minatore di Massa Marittima per lavorare alla fonte di S. Felice 28, ma dobbiamo supporre che queste non siano state le sole occasioni in cui venivano utilizzati questi tecnici. A Siena i minatori di Montieri furono ripetutamente incaricati di scavare i bottini della città nel corso del Trecento. La loro esperienza nell’attività mineraria ne faceva dei tecnici ricercati anche in queste circostanze; in genere si trattava di maestri di pietra che fungevano solamente da sovrintendenti al lavoro degli operai del luogo 29, sia a Volterra che a Siena.

Il fatto che il Comune sia intervenuto più volte con operai specializzati esterni per risistemare le sorgenti di Vallebuona ci porta a pensare che vi fossero delle dif-ficoltà di natura geologica nel mantenere le strutture di captazione delle acque. Questo può essere il motivo per cui le fonti non si sono conservate fino ad oggi e per cui da allora il comune preferì concentrarsi di più su altre grandi sorgenti, come Docciola o S. Felice, benché più lontane dal centro della città. Infatti con i successivi statuti, datati al 1230, si cominciò ad intervenire anche a Docciola, dove furono ordinate la copertura sul fonte nuovo, la spianatura della piazza anti-stante 30, e la realizzazione di una via che portava da Docciola fino al fiume Era 31. Contemporaneamente venne stabilita la costruzione di un nuovo lavatoio in Vallebuona e di uno a la Noce, ma solo se lo avesse ritenuto opportuno il consiglio speciale 32.

L’arco della fonte nuova di Docciola non fu però realizzato perché negli statuti posteriori, del 1241, è riportato il capitolo che ne ordinava nuovamente la costru-zione; accanto ad esso, scritto da un’altra mano qualche anno dopo, fu ripetuto di “facere fieri alium fontem novum ex alia parte fontis veteris cum arcu et volta” 33.

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Questo arco evidentemente deve essere quello della fonte ancora oggi esistente in quanto l’epigrafe inserita nella muratura riporta il 1244 come data del comple-tamento del lavoro da parte di mastro Stefano 34. In questi stessi anni i lavori alle fonti si moltiplicarono, non solo a Vallebuona, dove si ordinò di riempire il gotium vel pelagum che si era formato a causa della scarsa tenuta delle opere di presa 35. Fra l’altro sappiamo che almeno una delle sorgenti di Vallebuona si trovava ai piedi del muro della città; nel 1240 in questa zona era ancora in funzione il muro di cinta di IV secolo a.C., poiché questo tratto delle nuove mura fu costruito solo dopo il 1260. Pertanto la fonte potrebbe coincidere con il Muroaquali nominato nel 980 36. Nel 1241 fu costruito anche un lavatoio a S. Felice, e, sempre in questo anno, sono citate per la prima volta le fonti di Pratomarzio, di Fonte Corrente e di Canale 37.

L’opera di sviluppo della rete idrica cittadina non subì modifiche in seguito ai cambiamenti politici avvenuti a Volterra. Gli ordini di continuare a migliorare le prese d’acqua e le strutture collegate ad esse non cambiarono nel corso del decennio 1250-1260, periodo cruciale per la storia di Volterra. Il governo cittadino cambiò frequentemente a causa delle lotte fra guelfi e ghibellini volterrani; di questo decen-nio si conservano quattro statuti comunali completi che ci presentano un quadro molto chiaro di cosa avvenne. I primi due (ASCV, filze G nera 7 e G nera 8) sono scritti ancora sotto il regime consolare iniziato nel 1193 (rispettivamente nel 1251-52 e 1252-53), gli altri (ASCV, filze G nera 9 e G nera 10) sono stati scritti sotto il governo guelfo instauratosi dopo la conquista di Volterra da parte di Firenze avve-nuta nel 1254 38 (rispettivamente nel 1254-55 e nel 1258-59). Non si è conser-vato nessuno statuto duecentesco posteriore al 1260 quando, dopo la battaglia di Montaperti, i ghibellini tornarono al potere 39. Si tratta di una situazione diame-tralmente opposta rispetto a quanto accadde al progetto di costruzione delle mura di Volterra; iniziato anch’esso nei primi anni del XIII secolo, fu bruscamente inter-rotto durante il periodo guelfo e ripreso solo dal governo ghibellino dopo il 1260 40.

Nei quattro codici emessi in questi anni i capitoli dedicati all’idraulica differi-scono di pochissimo. In tutti venne riportato l’ordine di continuare a lavorare a Vallebuona-41, al Broglio 42 e a S. Felice 43. Contemporaneamente furono costruite delle nuove cisterne in alcune ville del territorio-44. Nel 1251 si cominciò inoltre a lavorare alla copertura delle fonti di S. Stefano e Mandringa 45 e a fare la Fonte Pipuli 46. Le prime due opere vennero concluse prima del 1254 perché lo statuto di quell’anno non ne parla, mentre la terza è ancora antecedente perché non è nomi-nata nemmeno nello statuto del 1252. Nel 1252 si iniziarono i lavori per una strada che avrebbe dovuto portare a due fonti non ancora nominate nei documenti: Fonte Bernardi e S. Jacopo, che probabilmente coincidevano entrambe con la Fonte a Selci 47. Durante il governo guelfo vennero condotti dei nuovi lavori solo a S. Felice 48.Il completamento del sistema (XIV secolo)

Negli ultimi anni del XIII secolo e nel primo ventennio del XIV si concluse

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l’opera di razionalizzazione dell’approvvigionamento idrico. In un periodo in cui si moltiplicavano le città rifornite da acquedotti 49, a Volterra si continuò a sfruttare le risorse idriche della collina, così abbondanti da poter provvedere a tutte le neces-sità degli abitanti senza far ricorso ad un’opera dispendiosa come un acquedotto, con difficoltà progettuali che sarebbero state moltiplicate dalla geomorfologia del nostro territorio.

Nel 1293 iniziò la costruzione della fonte a Selci; di questi lavori si sono con-servate anche le registrazioni dei pagamenti degli operai 50. La data dell’inizio delle rendicontazioni è il 9 novembre 1293 e dall’esame di questi documenti sap-piamo che in totale vi lavorarono 21 persone di cui 3 Maestri, per uno dei quali è specificata l’appartenenza all’Arte della pietra. Gli operai specializzati erano due manovali addetti a murare le tegole, due mulattieri che trasportavano i materia-li con i propri asini e due fabbri che fornivano gli attrezzi, gli altri erano tutti operai, molti dei quali semplici braccianti assunti a giornata (ad esempio Palmerio Buonamici fu pagato per 12 giornate durante le quali “stetit al buoiolo cum calcina et aliis rebus”). Furono pagate in totale 92 giornate lavorative, di cui 31 ai maestri, 34 ai manovali e 27 agli altri lavoratori; le paghe erano di 3 soldi al giorno per il maestro, di 2 soldi e 6 denari al manovale, 4 soldi ai trasportatori e paghe variabili per gli altri. La spesa totale per il comune fu di 213 soldi, poco meno di 11 lire. La costruzione del lavatoio del Posatoio, avvenuta nello stesso anno, venne invece data in appalto, visto che fu pagata una sola persona per tutto il lavoro, che costò al comune 3 lire 51.

Dai primi statuti del XIV secolo i lavori alle fonti risultano in quegli anni quasi ultimati, in quanto vi si trovano solo norme relative alla manutenzione delle fonti costruite nel secolo precedente e alla loro pulizia, fatta eccezione per la fonte di S. Felice 52 e quella del Pino 53. S. Felice fu l’ultima fonte grande sorgente ad essere monumentalizzata; i primi fondi vennero stanziati nel 1305 54 e confermati prima nel 1313 55 e poi nel 1319 56, anno in cui fu completata, come attesta anche l’epi-grafe dedicatoria. Probabilmente questa sorgente fu l’ultima ad essere ristrutturata, perché la sua acqua è di qualità inferiore rispetto alle altre.

La costruzione dell’ultima fonte, quella di S. Felice 57, completò la realizzazio-ne di questo elaborato sistema di approvvigionamento idrico basato sulle sorgenti cittadine. All’interno delle mura medievali rimasero solo le due fonti di maggiore portata d’acqua, S. Felice e Docciola 58, che erano anche quelle per le quali fu dedicata più attenzione all’aspetto estetico e alla collocazione urbanistica. Queste e molte altre sorgenti cittadine poste immediatamente al di fuori delle mura medie-vali (Fonte Marcoli, Fonte a Selci, S. Stefano, S. Marco, Mandringa, Vallebuona) presentano alcune caratteristiche in comune: ad esempio si trovano tutte quante in prossimità di una porta e di un importante asse viario 59.

Le altre fonti erano costruite lungo le strade principali, anche se a una certa distanza dalle mura medievali 60. Tutte, anche quelle che si trovavano nel territorio, erano comunque costruite vicino a vie di comunicazione più o meno importanti. La presenza della fonte all’Agnello 61 e della fonte De le Rivolte 62, su due strade principali ad oltre un chilometro dalle porte cittadine, ci fa supporre l’esistenza di

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un sistema di approvvigionamento idrico molto complesso che tendeva a sfruttare ogni sorgente conosciuta sia in città che nel territorio, sempre sotto il controllo del comune.

L’architettura delle fontiL’architettura delle fonti di Volterra rispecchia il tipo più comunemente usato

per strutture di questo genere in Toscana. Le più famose fonti di questo tipo sono quelle di Siena, per molte delle quali veniva usato il medesimo sistema di trabocchi conosciuto per Volterra 63 (ad esempio la fonte senese di Follonica, costruita nel 1249 con la stessa tecnica edilizia che troviamo a Volterra). In molti casi a Siena solo una vasca era in muratura, le altre invece erano realizzate in legno oppure veni-vano semplicemente scavate nel terreno 64. Altre fonti di questo stesso tipo le tro-viamo a S. Gimignano (fonti di Docciola del 1232 65), a Colle Val d’Elsa, a Massa Marittima (1265 66), solo per citare gli esempi più vicini.

Le fonti di Volterra, pur rispettando sostanzialmente le caratteristiche architet-toniche generali, presentano differenze nella loro realizzazione, sia estetica che fun-zionale. Non per tutte le fonti è documentato il sistema di trabocchi, in alcuni casi solo la vasca principale doveva essere realizzata in pietra, in altri invece vennero uti-lizzate vasche in legno. In alcuni casi i bacini secondari erano costruiti a una certa distanza gli uni dagli altri e l’acqua vi arrivava con delle condutture sotterranee o in muratura. Non è possibile catalogare le varie differenze nelle tecniche costruttive e nelle tipologie della muratura in quanto i numerosi interventi successivi hanno notevolmente modificato l’aspetto di queste strutture rendendo spesso molto diffi-cile riconoscere la muratura originaria (solamente alla fonte del Pino è ancora oggi in parte leggibile il sistema dei trabocchi); in molti casi sono stati gli interventi di restauro compiuti negli ultimi anni a impedire questo tipo di lettura, senza contare che spesso si sono limitati solamente all’estetica architettonica e non hanno preso in considerazione le opere sotterranee di captazione, che oggi in molti casi sono completamente ostruite dalle frane o dalle concrezioni calcaree, mai più eliminate da quando è stato attivato il moderno acquedotto 67.

Esaminiamo adesso le principali fonti medievali di Volterra.

FONTE DI DOCCIOLA Costruita sul versante Nord della collina, appena dentro la cinta muraria medie-

vale e a poca distanza dalla porta omonima è uno dei monumenti più importanti e meglio conservati della città.

Il primo ricordo documentario di una fonte di Docciola è del 1224 68: in un capitolo degli statuti del comune di Volterra di quell’anno si stabilì di costruire una via che andasse dalla fonte di Docciola fino al fiume Era, passando attraverso il fossato inferiore della città. Un altro documento è quello in cui fu ordinato al potestà e ai consoli di provvedere, a spese del comune, alla copertura super fontem novum de Docciola e di spianare la zona antistante al monumento per la comodità degli utenti della detta fonte 69. Il fatto che sia stata chiamata nuova ci informa

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della presenza di una fonte in quel luogo già da prima del 1224, anno in cui si rese necessario ristrutturarla.

Gli statuti comunali e una epigrafe in pietra murata sulla facciata del porticato ci informano che la fonte “nuova” fu costruita nel 1244 70; i due archi a ogiva in pietra del porticato che sorregge la copertura del lavatoio vennero completati da Mastro Stefano nel 1244, al tempo del podestà Orlando Rustichelli 71, ai lati e al centro della facciata vi sono tre croci, rappresentanti lo stemma del Comune di Volterra, croce rossa in campo bianco. Il lavatoio oggi prende acqua da una bocca posta al centro del muro Sud, quello che si appoggia alla collina, la bocca è molto grande, di forma quadrangolare e in basso presenta una soglia sporgente che con-sente di non far scorrere l’acqua lungo il muro. Sul lato Ovest si trova un altro sbocco non funzionante, mentre una seconda bocca attiva, dalla quale viene ali-mentato anche un piccolo bacino in pietra posta sulla parete Ovest, è databile ad una seconda ristrutturazione avvenuta nel 1520, quando era Capitano del Popolo il nobile fiorentino Roberto di Giovanni di Federigo de Ricci. Questa apertura è molto piccola e di sezione circolare; le bocche, come si vede dalla carta ricavata da un’esplorazione della fonte compiuta nel 1886, sono i punti terminali di un sistema di condotte di captazione molto articolato.

La bocca centrale prende acqua da un “grottino”, che dovrebbe essere la con-dotta di captazione più antica, di breve lunghezza, che pesca proprio alle spalle della costruzione; l’acqua proviene anche da un secondo condotto sotterraneo più grande che prosegue in direzione Sud Est per circa 55 metri, la conduttura, a circa 15 metri dallo sbocco si biforca e un canale secondario lungo circa 30 metri pesca l’acqua in un punto più ad Est di quello precedente. Questo condotto di captazio-ne, più recente rispetto al “grottino”, è il canale di captazione principale, costrui-to probabilmente nel 1244 in occasione della risistemazione della fonte, presenta infatti molte somiglianze con i contemporanei bottini senesi, è alto a sufficienza per poterlo percorrere per la pulizia e in alcuni punti è rinforzato da murature in pietra. L’acqua scorreva in canalette ricavate sul pavimento e più strette della larghezza del condotto in modo da consentire agli operai di percorrerlo con relativa facilità, oggi queste condutture sono in buona parte ostruite dalle concrezioni calcaree 72.

L’apertura posta sulla parete Ovest è quella che oggi fornisce la maggior parte del-l’acqua alla fontana, viene alimentata tramite una condotta, che ha direzione Ovest-Est, con altre due derivazioni a Nord e a Sud; tutte le condotte sono brevi, lunghe al massimo 15 metri ciascuna, sono più piccole di quelle precedenti e sono direttamen-te nella roccia senza murature di rinforzo. Probabilmente queste tre condutture sono state costruite nel 1520, durante la ristrutturazione di quell’anno documentata dal-l’epigrafe posta sopra il Doccino, come viene abitualmente chiamata questa bocca.

Quando venne realizzata la cinta muraria, nella seconda metà del XIII secolo, fu costruita una muraglia che divideva la valle a diga con lo scopo di comprendere questa sorgente all’interno del perimetro difensivo e fu anche realizzata una porta

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Fig. 34 Pianta ottocentesca della conduttura della fonte di Docciola

proprio di fronte alla struttura da cui si ricavava l’acqua 73. Fu risistemato anche lo spiazzo fra la fonte e la porta; un canale, scavato nella pavimentazione dello spiazzo antistante, portava ad una bocca di spurgo che si apriva nelle mura tramite la quale l’acqua in eccesso poteva uscire fuori del muro di cinta alimentando un ulteriore bacino (forse un abbeveratoio) da cui era possibile attingere acqua anche quando la porta era chiusa 74.

Furono anche emanate delle norme per organizzare la viabilità di quest’area, che fu migliorata con la costruzione di una strada che collegava la fonte con la zona di Postierla (Porta Marcoli); negli statuti del 1238-1241 (ASCV, G nera 4 Bis) è riportata anche l’autorizzazione del comune per la costruzione di una via che andava da Porta Selci a Docciola a spese degli uomini della contrada di Porta a Selci 75. Al di fuori della Porta di Docciola esisteva anche la via che conduceva in Era già ricordata 76.

FONTE DI S. FELICE

La fonte medievale di S. Felice si trova nella parte Sud della città, nei pressi delle mura cittadine. Nelle sue vicinanze sono stati ritrovati numerosi resti archeologici di strutture etrusche e romane da cui è possibile dedurre che la sorgente era un sito molto frequentato fin dalla remota antichità. Proprio di fronte alla fonte sono stati trovati anche resti di capanne villanoviane 77. Sempre nella stessa zona va segnala-to il ritrovamento di numerosi tratti di fogne e canalizzazioni etrusche e romane, queste ultime realizzate con lo scopo di rifornire di acqua le terme costruite poco al di fuori delle mura, le acque provenienti dalla fonte venivano però prima raccolte in una cisterna posta più o meno a metà strada fra la fonte e le terme 78.

Il lavatoio, dalla struttura architettonica molto simile a quella della fonte di Docciola, è protetto tramite una copertura sorretta da due archi in pietra, le pareti laterali e di fondo sono in muratura con paramento in blocchi di pietra. La fonte è alimentata da due bocche, di cui una posta nel centro della parete di fondo, a cui fanno però capo più condotti; l’altra si apre invece sulla parte Nord-Ovest. Secondo Costantino Caciagli, che ha collaborato ai lavori di scavo e di recupero del com-plesso, uno dei condotti di alimentazione della fonte medievale è stato scavato in epoca etrusca 79, mentre un altro si collega con il condotto di epoca romana che alimentava le vicine terme.

Nella facciata esterna della fonte è murata una epigrafe che ricorda la costruzione della copertura porticata, della vasca principale e del sistema di raccolta dell’acqua sorgiva 80; essa attesta che questi lavori vennero compiuti nel 1319 dal mastro di pietra Chelino Ducci Tancredi per ordine dei balitori della contrada di S. Stefano. Abbiamo però una notizia che la fonte di S. Felice esisteva già nel periodo 1238-1241, perché gli statuti riportano l’obbligo da parte del comune di costruire un lavatoio a S.Felice, insieme a quello di Vallebuona 81.

Nell’epigrafe commemorativa si ricorda come in precedenza qui esistesse una fonte, chiamata Fons Saracinorum, che forse veniva alimentata dall’acqua prove-niente dall’antico condotto romano. Altri lavori compiuti presso questa sorgente sono ricordati negli statuti del 1251, 1252, 1255, 1258 82. In seguito questa fonte

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Fig. 35 Fonte di Docciola

si disperse e una parte dell’acqua fu condotta al di fuori delle mura in un’altra strut-tura, forse un semplice bacino di legno; l’esistenza di questa vasca fuori della porta è testimoniata con sicurezza per la prima volta solo nel 1295, quando è conosciuto il toponimo in loca S. Felicis ubi dictu fuisse fons, posto immediatamente dentro le mura 83. Altri lavori alla fonte esterna vennero pagati dal comune nel 1305 84.

La sorgente necessitò di tutti questi interventi perché probabilmente la struttura geologica dell’area e la forte percentuale di minerali presenti nell’acqua, dovette-ro avere causato numerose frane od ostruzioni alle strutture di captazione iniziali. Ancora oggi la sorgente fornisce poca acqua e saltuariamente rimane a secco.

Fu all’inizio del XIV secolo che il comune decise di operare un serio intervento mirante a realizzare una fonte duratura e vicina al centro della città. Abbiamo un primo ricordo di questi lavori nel 1318 quando fu ordinato, da parte del Consiglio Maggiore del Comune, che la fonte, che allora si trovava fuori delle mura presso la porta di San Felice, venisse ricondotta all’interno. La frase esatta dice che doveva essere ritrovata e ricostruita in modo che l’acqua vi abbondasse e andava costruito pure un abbeveratoio, ma con facoltà di realizzarlo sia dentro le mura che fuori 85. Le spese necessarie per la realizzazione delle opere furono stanziate il 13 maggio del 1319: il costo preventivato era di cinquanta lire, cifra stabilita dopo la supervisio-ne del progetto fatta dal bistarius Butus Michelis Falippe. Sempre in questa data fu decretato che a sovrintendere ai lavori fosse Neri Rustichini 86. Queste opere dove-vano essere realizzate dagli abitanti delle contrade di Borgo, Fornelli e S. Stefano

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Fig. 36 L’iscrizione che commemora la costruzione della fonte di Docciola

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residenti dentro le mura, sotto il controllo degli ufficiali del “danno dato” e del “vessillifero dei seicento”, a spese del Comune volterrano 87.

La fonte, come testimonia l’epigrafe, venne terminata nel corso di un anno circa, ma necessitò di altri interventi a causa dei problemi di manutenzione. Nel 1320, il 9 aprile, fu mandato a Massa Marittima un incaricato per ingaggiare un mastro che fosse in grado di ritrovare la vena dell’acqua e la convogliasse nella fonte recen-

Fig. 37 Lo sbocco del condotto principale della fonte di Docciola

temente edificata 88. Inoltre l’abbeveratoio non era stato ancora finito nel 1335 quando si rese necessario un nuovo intervento dell’autorità cittadina 89; nello stesso anno, in un altro capitolo degli statuti, si ordinò che le varie vene che rifornivano di acqua la fonte fossero convogliate in un unico canale 90. Nel 1335 venne miglio-rata anche la viabilità con la costruzione di una nuova strada che conducesse dalla contrada di Borgo fino alla fonte. Questa via doveva cominciare dal fonte nuovo che era presso la Porta di S. Felice e proseguire fino alla strada principale che attra-versava il borgo 91. Il nuovo tracciato viario, che arrivava fino alle case di proprietà dell’abbazia di S. Giusto poste sulla via chiamata il Corso, doveva essere costruito recta corda, cioè in maniera ortogonale e più breve possibile, ciò ci fa supporre che la strada qui menzionata fosse la moderna Via di S. Felice, che dall’attuale Via S. Lino, corrispondente e parte del Corso medievale, arriva fino alla Porta omonima. Questa via ricalcava il percorso del “bottino” di Borgo, che sboccava fuori della porta, come si rileva continuando la lettura del documento; il bottino potrebbe corrispondere ad un cunicolo che oggi si apre al di sotto della strada provinciale Pisana, all’angolo fra via Fonda e lo stradello che conduce al lavatoio abbandonato. Questo cunicolo è scavato nella roccia e conduce al di sotto delle mura, è alto circa 1,80 m e largo circa 0,65 m, Si addentra nella collina per circa 30 metri con un percorso quasi rettilineo, a 5 m dall’imbocco vi è una seconda canalizzazione sul lato sinistro che dopo circa 10 metri torna ad essere parallela al condotto originario, per circa altri 13 m. Entrambi i cunicoli sono scavati nella roccia, con copertura a botte a sesto ribassato e, al termine, vi sono due piccole camere di captazione.

Nei pressi della fonte e della porta di S. Felice è localizzato un toponimo riporta-to in alcuni capitoli degli statuti di Volterra 92 e in altri documenti del XIII secolo: Piscinale. Dai documenti non è possibile stabilire con precisione dove si trovasse, comunque sappiamo che era costruito nelle vicinanze o all’interno della contrada di Borgo S. Maria e quindi potrebbe essere riferito sia alle costruzioni recentemente scoperte sotto il vecchio Ospedale di S. Maria, sia a qualche costruzione posta nella zona di S. Felice. Poiché nel medioevo questo è un termine impiegato per indicare le vasche pubbliche usate per bagnarvi indumenti e mettervi a macerare le pelli per la loro lavorazione, si deve supporre che si trovasse vicino ad una sorgente o ad una canalizzazione ricca di acqua e comunque, visto che tale funzione poteva causare odori sgradevoli, doveva essere collocato alla periferia della città.

Secondo Fiumi il toponimo si dovrebbe identificare con l’odierna Piazza degli Avelli, posta appunto nelle vicinanze della fonte di S. Felice, sulla strada che condu-ceva a Borgo S. Maria 93. La presenza di una vasca utilizzata dai volterrani scom-parve, sempre secondo Fiumi, prima della redazione degli statuti duecenteschi, in quanto la ferrea regolamentazione per lo sfruttamento delle acque presente su quegli statuti non prevedeva l’uso di un Piscinale, pertanto già agli inizi del XIII secolo fu ricordato solamente come indicazione topografica 94.

Ritengo che sia possibile identificarlo con i resti della vasca romana in cocciope-sto rinvenuta nei pressi della fonte di S. Felice 95. La possibilità che la vasca medie-

96 Alessandro Furiesi

Il periodo comunale 97

Fig. 39 Planimetria dell’area della fonte di S. Felice (da CACIAGLI, 1980)

Fig. 38 L’area della fonte di S. Felice

vale possa essere collocata presso la fonte di S. Felice e l’esistenza di una struttura più antica tipologicamente affine, che potrebbe essere stata riutilizzata 96, sono due dati che fanno propendere decisamente per la corrispondenza di queste due opere idrauliche.

FONTE DI MANDRINGA Costruita poco al di fuori delle mura etrusche, presso una porta omonima oggi

scomparsa e al di sotto di un enorme masso divenuto famoso nelle guide, all’estre-mità Ovest dell’abitato cittadino lungo la via che portava in Valle Guiniçinga. È una struttura di modeste dimensioni, posta al di sotto del piano stradale e coperta da un unico arco in pietra, la sorgente versa le sue acque, che provengono da un breve cunicolo di captazione che va in direzione Sud-Est, in un piccolo bacino poco profondo. Gran parte dell’ambiente ricavato sotto l’arco è stato occupato in tempi recenti dalle pareti in muratura di un vano che protegge un deposito da cui proviene l’acqua che oggi alimenta la cannella della fonte. Questo deposito è visi-bile tramite uno sportello aperto in una delle pareti. In molti documenti del XIII secolo la fonte è chiamata Grimaldinga, toponimo di probabile origine germani-ca, forse riferibile alla famiglia Grimaldi attestata a Volterra nel XIII secolo, con il significato di “… dei Grimaldi”. In altri documenti viene chiamata anche fonte di Pratomarzio, confondendola con quella della Frana, perché riforniva gli abitanti di quella contrada, come faceva la fonte della Frana.

L’arco è di costruzione medievale, probabilmente databile al 1251, anno in cui, in base agli statuti comunali, si ordinò agli uomini della contrada di Pratomarzio, sotto la cui giurisdizione si trovava la sorgente, di lavorare alla copertura di essa a spese del comune volterrano 97. Nel 1252 questo ordine non era ancora stato rispettato, visto che ripetuto 98, mentre negli statuti del 1258 il capitolo che tratta questo argomento non compare più, così che si deve supporre che questi lavori fossero stati completati.

Nel 1293 vennero date a Rimbaldo Cancellari tre lire per la costruzione del-l’abbeveratoio della fonte di Mandringa a spese del comune di Volterra 99. In tale occasione la fonte viene menzionata con il nome di fontis novae Grimaldingae 100.

FONTE DI S. MARCO

Costruita a Sud dell’attuale abitato di Borgo S. Giusto, al di fuori delle mura etrusche in località La Frana; il nome S. Marco, attestato nel medioevo, deriva dal fatto che si trovava nella contrada chiamata di Pratomarzio o di S. Marco. Oggi la struttura medievale non esiste più, soppiantata dai lavatoi della Frana costruiti nel secolo scorso, anche se non sappiamo se la fonte medievale si trovasse esattamente in quel punto, infatti la zona è talmente ricca di acqua che esistono altre due sor-genti che oggi alimentano le peschiere e la fonte del Purgo, un podere posto poco più a Sud della Frana, e che potrebbero avere approvvigionato la fonte, che in questo caso si sarebbe trovata poco più in basso. La fonte della Frana è costruita su un qua-drivio e in una posizione estremamente vicina all’abitato, pertanto questi due fattori,

98 Alessandro Furiesi

entrambi importanti nella scelta della collocazione di una sorgente fanno propendere per una identificazione della fonte di S. Marco con quella della Frana.

La fonte medievale è ricordata per la prima volta negli statuti del 1238-1241 101. Talvolta viene ricordata con altri nomi: in un capitolo degli statuti di questo anno è chiamata fonte di Canale 102. Probabilmente almeno per un certo periodo venne chiamata anche fonte del Posatoio 103. Fu anche costruita la postierla di Menseri, che consentiva agli abitanti della contrada di Pratomarzio di arrivare più facilmente alla sorgente collegando direttamente la strada della Frana con il Corso, la principale strada che attraversava la contrada.

FONTE DI S. STEFANO Si trova nel borgo omonimo, circa cento metri ad Ovest della Porta S. Francesco,

al di fuori delle mura medievali, lungo la via chiamata durante il medioevo il Corso e di fronte alla chiesa di S. Stefano, da cui prendono il nome la fonte e la contrada. Un grande arco sostiene la copertura della fonte, ridotta oggi ad un semplice can-nello collegato ad un rubinetto moderno, che prende acqua da un bacino di raccol-ta posto dietro la muratura di fondo della fonte.

L’arco è costruito in pietra e nel concio centrale è scolpita in rilievo una croce rappresentante lo stemma del comune. L’arco è l’unica parte conservata della fonte medievale, per il resto molto rimaneggiata e totalmente priva delle vasche che dove-vano essere almeno due. Nei documenti è infatti ricordato, oltre al deposito collo-

Il periodo comunale 99

Fig. 40 L’iscrizione che ricorda la costruzione della fonte di S. Felice

100 Alessandro Furiesi

Fig. 41 Lo sbocco del condotto principale della fonte di S. Felice

cato sotto l’arco, anche un abbeveratoio 104 che doveva consistere in una semplice vasca di raccolta dell’acqua, e si doveva trovare poco lontano dalla vasca principa-le in un punto al di fuori della copertura. Questo abbeveratoio era alimentato da un condotto in terracotta murato sulla parete destra della fonte di cui oggi sono rimaste solo le tracce nel muro: una scanalatura poco profonda che conserva scarsi resti del tubo in terracotta.

La prima menzione della fonte di S. Stefano si trova in ASCV, G nera 4 bis, cap CCXLV, De clausuris civitatis faciendis, del 1238-1241. Nello statuto siglato ASCV, G nera 7, del 1251, è scritto l’ordine per gli uomini delle contrade di S. Stefano e di S. Giovanni, di coprire con una volta di mattoni e pietre la fonte di S. Stefano, entro 5 mesi dall’emissione di questo ordine, a spese del comune di Volterra 105. Nel 1252 questo ordine non era ancora stato rispettato, visto che viene ripetuto negli statuti di quell’anno 106, mentre negli statuti del 1258 il capi-tolo che tratta questo argomento non compare più, probabilmente perché vennero eseguiti i lavori.

A questa fonte era pertinente pure un “guazzatoio”, ricordato nel 1313 107 dove, in base a quanto prescritto dalle norme igieniche imposte dal comune, era consen-tito lavare solo gli animali vivi, non panni, carcasse di animali o cuoiami. Questo ordine venne poi ribadito nel 1335 108.

FONTE DEL PINO La fonte è situata nei pressi del campo sportivo comunale delle Ripaie, sul ver-

sante Sud della collina di Volterra. È stata pesantemente restaurata nel corso dei secoli e soltanto l’arco di copertura della vasca principale conserva parti della mura-tura medievale. Consiste in una vasca principale coperta da una struttura sorretta da un unico arco in laterizi, a cui arriva l’acqua tramite un breve acquedotto sotter-raneo che collega la fonte alla sorgente, posta più a Nord. Sul fianco Est di questa costruzione esiste anche una seconda vasca non coperta collocata più in basso della vasca principale e in cui defluisce l’acqua in eccesso. In origine da questa seconda vasca l’acqua andava in un terzo bacino attiguo; oggi l’acqua finisce invece nella fognatura. La sistemazione di questa fonte, con le due vasche esterne è documen-tata da alcune fotografie degli inizi del secolo, quando i bacini erano ancora tutti esistenti, seppur usati come semplici lavatoi. Queste vasche sono l’ultima docu-mentazione rimasta a Volterra del sistema dei trabocchi a caditoio usato per le fonti medievali; le vasche erano tutte in muratura lunghe circa dieci metri l’una e trasfor-mate col tempo in semplici lavatoi, fino al dopoguerra, quando furono smantellate in occasione dei lavori edilizi compiuti nell’area delle Ripaie.

La fonte era chiamata anche fonte di S. Alessandro e la prima traccia documen-taria risale al 1305 109. I lavori per monumentalizzarla vennero decretati qualche anno dopo, nel 1310, con spese considerevoli e accompagnati da ordini diretti agli abitanti della zona circostante perché non intralciassero il lavoro dell’acquedot-to che portava l’acqua alla fonte 110. Ci furono però alcune controversie con i

Il periodo comunale 101

102 Alessandro Furiesi

In alto, fig. 42Fonte d di Mandringa

Fig. 43 Planimetria, prospetto, sezione e pianta della fonte

di Mandringa (da CACIAGLI 1994)

proprietari di alcuni campi vicini che protestavano per l’impossibilità di eseguire lavori agricoli a causa della presenza dell’acquedotto. Nel 1317 vi furono eseguiti nuovi lavori e in quell’occasione venne anche comprato un campo che si trovava al di sopra della fonte, probabilmente per risolvere, almeno in parte, le controversie 111.

FONTE DI FONTECORRENTI Si trova a poche decine di metri a Sud dell’attuale campo sportivo comunale

delle Ripaie, sul versante Sud della collina. Attualmente non viene più sfruttata ed è chiusa con un portello di ferro. Tutta la struttura è scavata nel terreno e ne è visibile solo la parte esterna, che si presenta pesantemente rimaneggiata in epoca moderna.

Nominata per la prima volta nello statuto del 1238-41 (ASCV, G nera 4 Bis, cap. CCLXXX), non doveva essere dotata di un lavatoio, ma era comunque di notevole importanza visto che era proibito lavarvi panni ed erbe numerosi interventi comune 112. Nel 1335 furono necessari nuovi lavori, sostenuti completamente a spese degli utenti e dei proprietari dei terreni circostanti 113.

FONTE A SELCI

Con questo nome, ampiamente documentato nel medioevo, sono identificabili i resti di una fonte, molto rimaneggiati in epoca moderna, che è possibile vedere nei pressi dell’incrocio fra la SS 68 e viale dei Filosofi, ad Est della Porta a Selci, all’in-terno dell’orto di una abitazione.

Consiste in una struttura, in parte ricavata nella roccia, composta da quattro pro-fondi archi in laterizi, dei quali due sono più antichi e due più recenti. Nella parte anteriore, in epoca moderna è stata realizzata una peschiera che ha trasformato la struttura del monumento. All’interno dei quattro archi l’attuale proprietario ha ricavato un ripostiglio utilizzato per conservare gli attrezzi agricoli in tempi recenti i pilastri minacciavano di franare perciò il proprietario ha costruito tre contrafforti in muratura per sorreggerli. In occasione di quell’intervento ha anche intonacato in cemento tutta la parte esterna impedendo così la lettura della muratura origina-ria. L’acqua proviene da un condotto posto nel lato Sud della fonte che, secondo il proprietario, conduce qui l’acqua provenente dalla zona presso Porta a Selci. Sempre secondo il proprietario vi è un altro condotto a Nord, non visibile, che porta l’acqua di un’altra sorgente più vicina.

Il primo ricordo dell’esistenza di questa struttura si trova in un documento del 1293, nel quale vennero elencate tutte le spese necessarie per i lavori che il comune affrontò nell’ottobre di quell’anno e dove è riportato l’elenco completo dei lavoran-ti, delle loro paghe e delle spese del materiale 114. Negli statuti del 1313 si dice che essa avrebbe dovuto essere collegata a due vie, quella che andava verso Valle Asinaia, e quella per Pignano 115. Questa indicazione evidentemente non fu seguita se la troviamo ribadita, nel 1335 116. Nel 1348 i consiglieri comunali ordinarono di costruire di nuovo la fonte (o l’abbeveratoio) di Selci, spostandola sulla via che da

Il periodo comunale 103

104 Alessandro Furiesi

Fig. 44 Fonte di S. Stefano

Porta a Selci conduceva alla Fornace, a spese degli abitanti della contrada di Selci e dei comitati circostanti 117; fu in quest’occasione che venne edificata nel punto in cui si trova ancora oggi.

Questa fonte coincide probabilmente con quella detta di S. Iacopo o S. Bernardo, ricordata in numerosi statuti e documenti medievali, ma di cui si è persa ogni traccia nella memoria storica dei volterrani. Una prima menzione è del 1252, e la troviamo in un capitolo degli statuti comunali che prescriveva di chiudere la via di Peruccio a partire dal muro cittadino 118. Nel 1336 vi furono fatti dei lavori mentre veniva

Il periodo comunale 105

Fig. 45 Planimetria, prospetto, sezione e pianta della fonte di S. Stefano (da CACIAGLI 1994)

fortificata la Porta a Selci 119. Dalla documentazione esistente sappiamo che le fonti di S. Iacopo e di S. Bernardo, erano costruite nei pressi della Porta a Selci, in un luogo non precisato, ma comunque situato fra la porta stessa e la SS 68, la stessa zona dove oggi si trova anche la Fonte a Selci. Il fatto che i toponimi S. Iacopo, S. Bernardo e Selci non compaiano mai contemporaneamente nei documenti e che siano individuabili nella stessa zona, fa propendere decisamente per l’ipotesi che esse coincidano con la stessa sorgente, che nel corso degli anni ha cambiato posizione e nome.

BAGNO DI S. GIUSTO Si trovava nelle vici nanze della chiesa di S. Giusto al Botro, franata nelle Balze

agli inizi del XVII secolo, la fonte è an da ta distrutta inve ce più tardi, alla fine del secolo scor so.

Secondo le leggen -de che parlano di S.-Giu sto, venne rea lizzata dal santo quando battè con il suo bastone sulla roccia nei pressi di Monte Nibbio (Mon te bradoni). De l l ’ a c q u a c h e fuoriusciva dalla sorg en te erano note le proprietà curative e i volterrani vi si ba gnavano spesso per devozione verso i l santo con la speranza di curare le pro prie malattie 120.

Sappiamo dove si tro vava grazie ad al cune carte della c i t tà precedent i alla sua frana, che la localizzano con relativa pre cisione,

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Fig. 46 Fonte del Pino

e cioé dietro il muro po s t e r i o re d e l l a chie sa di S.-Giusto; se con do il Leoncini, si trovava proprio die tro il coro-121.

Da una lettera del 20 luglio 1885 del-l’ingegnere comunale che risponde ad una richiesta di informa-zioni pervenuta dalla Pretura di Volterra, per chiarire una que-stione sull’uso delle fonti del Bagno di S.-Giusto, sappiamo che in quell’anno il bagno era ancora esi-stente. L’ingegnere specifica che la fonte allora si trovava sul terreno del signor Maino, e che prima appar teneva a l l a Badia dei Camal-dolesi, “ma l’uso di quest’acqua è stato da tempo remotis-simo di diritto pub-blico. Questo bagno nei primi secoli dopo il 1000 si trovava entro l’area dell’an-tica chiesa e sacrestia di S. Giusto e le sue

acque eran ritenute dai devoti per prodigiose e salutifere ... la sua struttura moderna essendo coperta a volta di mattoni interni nel muro di faccia e una piccola nicchia in quello di tergo con statuetta del Santo mutilata” 122.

FONTE DI FONTEPIPOLI Oggi scomparsa, è nominata per la prima volta nel 1251 123. Non conosciamo

con esattezza il luogo dove si trovasse, sappiamo solo che doveva essere fuori della

Il periodo comunale 107

Fig. 47 Fonte del Pino, particolare dei caditoi

città, sulle pendici Sud della collina, lungo la via che portava a Pomarance, come scritto negli statuti comunali 124.

Forse è possibile identificarla con la fonte di Ripoli, che fino agli anni sessanta si trovava dove venne poi costruita la curva Est dello stadio comunale delle Ripaie 125.

FONTE ALL’AGNELLO Con questo nome sono identificate due fonti situate in località Santa Margherita,

a Nord di Volterra, a circa un chilometro di distanza dal centro abitato.La prima si trova proprio a fianco dell’antica via Fiorentina, che da Volterra

108 Alessandro Furiesi

Fig. 48 Planimetria, prospetto, sezione e pianta della fonte del Pino

portava nella valle dell’Era, di cui, in questo tratto, si conserva ancora il lastricato originale; consiste in una semplice vasca in pietra senza copertura, cui si associa un lavatoio posto poco più in basso alimentato dalla stessa acqua del bacino prin-cipale. Rimangono scarse tracce di una copertura in mattoni, forse di costruzione moderna; al centro della parete di fondo è murata una lastra di marmo con inciso lo stemma del comune di Volterra (croce rossa in campo bianco) ad indicarne la proprietà.

La seconda fonte è invece costruita poco lontano dalla strada, si trova accanto ad un edificio di campagna e consiste in una unica vasca in pietra con una semplice copertura realizzata in pietra e mattoni sostenuta da un arco che poggia su due pila-stri lapidei e su un muro posto a protezione della parete di fondo, da cui scaturisce l’acqua proveniente da una sorgente posta poco lontano.

Non sappiamo se siano alimentate dalla medesima sorgente o da due sorgenti diverse, è comunque una zona ricca di acqua e non è pertanto improbabile che si tratti di due sorgenti.

FONTE MARCOLI

Si trovava nella zona detta oggi di Porta Marcoli, ma è stata completamente distrutta nel dopoguerra per far posto ad abitazioni. Nella sua ultima fase la fonte era posta al di sotto del piano stradale e vi si poteva attingere acqua solo utilizzando un’apposita pompa a mano. Gli statuti comunali la menzionano per la prima volta solo nel 1251 126 ma, la sua prima attestazione si trova già in un documento del 1195 127.

FONTE DI VELLOSO

La fonte si trova nei pressi della chiesa di S. Girolamo sul versante Ovest della collina di Poggio alle Croci. Consiste oggi in una semplice copertura sostenuta da un unico arco in laterizi; la bocca della fonte è ridotta ad un semplice cannello che versa l’acqua direttamente in un canale di scarico, non in una vasca per la raccolta che sappiamo esisteva nella fonte medioevale. La struttura attuale è stata pesan-temente ricostruita nel secolo scorso; dall’esame delle foto d’epoca sappiamo che le vasche per il lavatoio erano state realizzate al di là della strada per S. Girolamo, proprio davanti alla fonte e poco più in basso del livello del bacino principale. I due lavatoi erano protetti da un muro costruito sul ciglio della strada.

Il problema delle Fontis VallisbonaeCon il nome di Fontis Vallisbonae si intende quì una serie di sorgenti, poste nella

valle di Vallebuona, che negli statuti medievali del comune di Volterra vengono nominate in numerose occasioni, ma la cui collocazione non viene specificata 128, oggi nessuna di esse è più identificabile con certezza. Nella valle di Vallebuona, al di sotto del teatro romano e lungo il sentiero che partendo dal parcheggio di fronte al teatro scende nella valle, si trova una fonte moderna senza nome che potrebbe essere stata costruita nel medesimo luogo di una di esse. Un’altra fonte si trova sul

Il periodo comunale 109

versante Ovest della valle e consiste oggi in una semplice vasca scavata sotto il livello stradale e con la copertura sorretta da un unico arco in pietra; vasca e copertura sono di dimensioni molto piccole, sufficienti appena per pescarvi l’acqua tramite un secchio, dimensioni che risultano anomale rispetto alle altre sorgenti volterrane. Non ci sono comunque indizi migliori per localizzare le strutture medievali, visto che le carte più antiche di Volterra sono molto imprecise. Sappiamo anche che una di esse era chiamata fonte del Broglio e il “botro” che attraversa la valle scendendo verso il fiume Era si chiama Broglio, quindi questa sorgente si doveva trovare vicino ad esso, e forse costituire proprio la sorgente da cui nasceva il botro.

In base a quanto riferiscono gli statuti di Volterra sappiamo che la vena della fonte di Vallebuona venne scavata molte volte e fu stabilito che l’acqua avesse nel bacino dell’abbeveratoio una profondità di due braccia, né più né meno. Inoltre vi doveva essere costruito un lavatoio ed un “guazzatoio”, come sanciscono gli statuti del comune del 1224, a spese del Comune 129. L’acqua del Broglio, il “botro” che aveva origine da questa fonte, doveva defluire tramite un canale da cui poter attin-gere agevolmente l’acqua con orci e barili. Nel codice degli statuti ASCV, G nera 4 bis, del 1238-1241, venne ordinato di riempire il gotium vel pelagum de Vallebona allo scopo di impedire che vi potessero affogare uomini o fanciulli 130. Sempre nel medesimo capitolo, ma aggiunto posteriormente a fianco, è ordinato di ritrovare la vena di Broglio e quella del “gozzo” di Vallebuona; nel medesimo passo viene anche ricordato che questa fonte originariamente sgorgava ai piedi del muro cittadino e fu stabilito dai magistrati cittadini che dovesse tornare a sgorgare nel medesimo punto 131. Il murum civitatis qui citato non è quello costruito nel periodo comu-nale, ma quello etrusco, ancora funzionante in questa zona fino almeno al 1260 132, pertanto questa sorgente potrebbe coincidere con quella delle Conce, che si trova proprio a ridosso delle mura etrusche di questa zona.

Nel 1251 fu prescritto l’obbligo da parte del Comune di rifare il lavatoio o abbe-veratoio del Broglio e di scavare in Vallebuona per ritrovare la vena di cui è stato detto sopra 133; il compito doveva essere affidato ad un guerco, cioè un minatore, di Montieri ingaggiato a questo scopo da parte del podestà.

Va ipoteticamente collocata fra le fonti di Vallebuona anche la misteriosa fonte del Noce, nominata solo nei più antichi statuti di Volterra 134; non abbiamo nessun indizio sulla sua collocazione, nessun resto archeologico o alcuna indica-zione topografica sono rimasti, anche il toponimo è attualmente sconosciuto a Volterra. Era, come la fonte di Vallebuona, dotata anche di un lavatoio realizzato e mantenuto a spese del Comune 135.

Sempre fra le fonti che non possiamo collocare con precisione, ma che si trovava sicuramente in questa zona, bisogna ricordare la fonte delle Zatre, ricordata fin dagli statuti comunali del 1204, quando fu stabilito di costruirvi una strada di accesso 136. Localizzare oggi questa fonte non è facile, sappiamo che con Zatre era chiamata la zona in cui sorse nel Seicento Palazzo Incontri-Viti, e dove si trovava una piazza destinata ad accogliere il mercato delle carni macellate ricordata con

110 Alessandro Furiesi

Il periodo comunale 111

Fig. 49 Fonte dell’Agnello di Sopra

112 Alessandro Furiesi

il nome di Piazza delle Zatre. Questa si estendeva dalla attuale Via dei Sarti fino alle mura medievali del Mandorlo, al di sopra del teatro romano, allora non più visibile e usato come discarica. Il termine Zatre è l’unica traccia medievale del più grande edificio romano costruito nelle vicinanze: il teatro di Vallebuona. Il toponi-mo compare anche in altre città come Padova 137, Pola, Trieste e Aquileia, proprio nei pressi di teatri romani e deriva dalla deformazione del termine theatrum, prima in Cadris, poi in Zatris 138. È possibile che in età romana questa fonte fosse la principale sorgente della zona e che da essa prendessero acqua la struttura termale costruita all’interno della porticus post scaenam del teatro e le cisterne della zona. Non abbiamo, oltre alla testimonianza degli statuti del 1204, altri ricordi di questa fonte, anche se non mancano menzioni della piazza omonima, fino al XVII secolo.

Alle sorgenti finora citate che si contendono l’identificazione delle fontis Vallisbonae va aggiunta anche la località del Muroaquali, di cui è stato trattato in precedenza e di cui è stata proposta la collocazione proprio in Vallebuona 139. Il termine Muroaquali, suggerendoci l’immagine di un muro da cui sgorga l’acqua ci porta a ritenere che si trattasse di un’opera idraulica, forse di antica costruzione. Nella zona di Vallebuona abbiamo la testimonianza di due strutture che potrebbero avere dato origine a questo toponimo. La prima si riferisce ad alcuni resti di muri rinvenuti nel 1910 al di sotto della strada moderna di Vallebuona, sul lato Nord, in località Le Conce; fra gli altri fu trovata “appena sotto un tratto di mura etru-sche un’antica presa d’acqua con intorno qualche opera romana” 140. La seconda

Fig. 50 Fonte all’Agnello di Sotto

Il periodo comunale 113

potrebbe essere la sorgente di Broglio, che negli statuti comunali del 1238 è ricor-data come “...ad pedem muri civitatis exiri et labi ubi olim esset consuevit...” 141.

Le due testimonianze potrebbero anche far riferimento allo stesso monumento. Infatti sappiamo che le mura della cinta medievale di questa zona vengono comple-tate soltanto fra il 1260 ed il 1284 142; fino ad allora erano le mura etrusche che costituivano la difesa della città. Dato che l’ultima testimonianza degli archivi su questa sorgente è al massimo del 1255-1260 143 dobbiamo dedurre che le mura in questione siano quelle etrusche e che quindi la sorgente chiamata di Broglio potrebbe coincidere con la struttura, oggi scomparsa, rinvenuta presso le Conce nel 1910. La sorgente di Broglio, secondo quanto detto prima potrebbe poi coincidere a sua volta con quella delle Conce, così da ipotizzare una coincidenza dei tre topo-nimi 144, corrispondenti ad una unica struttura, quella delle Conce, ancora oggi esistente, seppur dimenticata dalla maggior parte dei volterrani e seminascosta dalla fitta vegetazione che copre le mura etrusche della zona.

La costruzione delle cisterneTerminata la creazione di questo sistema basato sullo sfruttamento delle sorgenti

il Comune emanò delle leggi per favorire la costruzione, all’interno della città, di cisterne private, in un primo momento presenti in gran numero solo in campa-gna o sulle pendici cittadine 145. Le nuove leggi prevedevano anche un contributo da parte del comune alle spese necessarie alla realizzazione di quelle che venivano

Fig. 51 Fonte di Velloso

114 Alessandro Furiesi

costruite dentro la città 146. Fino ad allora soltanto in una occasione era stata con-cessa l’autorizzazione alla costruzione di una cisterna in città, in contrada di Piazza (che corrisponde più o meno al/la zona di Piazza dei Priori), ma come testimoniano gli statuti del 1313 le spese avrebbero duvuto essere per la maggior parte a carico degli uomini della contrada stessa non del Comune 147. Esistevano anche delle cisterne private di piccole dimensioni, pagate per intero dai proprietari e una cister-na all’interno del Palazzo dei Priori, della quale non è specificato se fosse accessibile anche alla popolazione. La cisterna, ancora oggi esistente, si trova nel chiostro del Palazzo dei Priori, raccoglie l’acqua piovana dal tetto del palazzo ed è profonda 8 metri con una circonferenza di 2,25 m. È ricordata anche negli inventari dell’edifi-cio conservatisi nell’Archivio Storico Comunale 148. Sappiamo che ve ne era un’al-tra a cui si accedeva dall’interno del palazzo, dalla stanza dove si conservavano le pergamene dell’archivio, ma che oggi non è più visibile.

Il motivo di questo cambiamento nella programmazione deve essere stato il notevole aumento demografico della città verificatosi fra gli ultimi anni del XIII

Fig. 52 Planimetria, prospetto, sezione e pianta della fonte di Velloso (da CACIAGLI, 1994)

e gli inizi del XIV secolo 149, aumento che evidentemente preoccupò i notabili del comune al punto che fu progettata una rete di raccolta delle acque comple-mentare al sistema delle fonti. La decisione di fare una cisterna nella contrada di Piazza fu probabilmente giustificata dal fatto che la contrada era priva di sorgen-ti. Anche negli statuti di Perugia del 1342 erano previsti incentivi ai privati che costruire cisterne 150; a Siena agli inizi del Trecento furono emesse ordinanze simili 151. Non è improbabile che in quel periodo dei mutamenti nel clima abbiano portato a una diminuzione della quantità di acqua piovana e di conseguenza della portata di acqua delle sorgenti, con grande preoccupazione dei Priori volterrani che corsero ai ripari favorendo la costruzione anche di riserve d’acqua con contributo del Comune.

Lo scarico delle acque e le norme igieniche.Un’altra opera portata avanti dal Comune fu lo scarico delle acque piovane, in

modo da impedire che esse danneggiassero le costruzioni e non accumulassero in città la sporcizia che raccoglievano lungo le strade; questo problema venne affron-tato fin dagli inizi con l’obbligo imposto dagli statuti, della costruzione di apposi-te canalizzazioni che passavano sotto le strade e uscivano dalle mura in corrispon-denza delle principali porte cittadine. Queste opere non raggiunsero la complessità delle fognature antiche, né per l’estensione né per la portata; l’acqua scorreva per le strade e veniva incanalata solo quando la via era vicina alle mura. Le fogne medie-vali si limitavano a portare modeste quantità di acqua piovana per brevi tratti, gene-ralmente soltanto con lo scopo di portarle fuori dalle mura senza recare danno alle strade o alle opere di difesa.

La prima norma in tal senso è scritta nello statuto del 1238-41, si tratta dell’ordi-ne di far passare l’acqua che viene da Castello al di sotto della porta Gualduccia 152; non sappiamo con precisione a quale porta corrisponda, ma è sicuro che si trovava all’interno o nelle vicinanze della contrada di Castello al confine con quella di Piazza in un settore delle mura comunali che era già stato completato in quell’anno 153. Con gli statuti successivi si provvide a sistemare anche altre zone, prima la contrada di Porta a Selci nel 1251 154, poi la contrada di S. Angelo nel 1254 155. Si trattava di interventi limitati a gestire lo scarico dell’acqua piovana delle vie cittadine.

Nelle mura medievali si aprivano molte bocchette per il deflusso delle acque piovane. Si tratta di piccole aperture molto strette ad alte in media circa 50 cm, alcune di esse conservano il gocciolatoio sporgente in pietra per allontanare il deflus-so delle acque, in altre è visibile la parte finale di una tubatura in terracotta. Non è facile quantificarne il numero, in quanto gli interventi di restauro delle mura attuati negli ultimi anni ne hanno chiuse molte. Sono presenti in tutto il tracciato murario, ma non sempre a distanza regolare. Le zone dove sono maggiormente concentrate sono quelle di Vallebuona e di Porta Marcoli, dove ve ne sono sette concentrate in circa cinquanta metri di muro. Probabilmente sono da collegarsi con l’imposizio-ne, documentata negli statuti comunali, di realizzare degli sbocchi per far defluire le acque piovane fuori della Porta Marcoli. Sappiamo che all’interno delle mura, dove

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oggi vi sono solo orti e giardini, vi era una fascia di rispetto che costituiva anche una via pubblica. Niente di più probabile quindi che le acque che si raccoglievano lungo questa via venissero canalizzate e fatte defluire da queste bocche.

Nelle abitazioni private l’acqua sporca veniva normalmente gettata in strada dalle finestre. Per garantire un minimo di igiene ed impedire che i liquami fossero scari-cati in testa ai passanti vennero imposte alcune semplici regole: i cittadini potevano gettare l’acqua sulle pubbliche strade solo dopo il terzo suono della campana, che segnalava il coprifuoco notturno, e non prima di avere detto tre volte Guarda 156. Non si poteva scaricare nelle strade pubbliche l’acqua con cui si era pulito i frantoi o lavato gli animali macellati, questa era una norma che veniva fatta osservare con scrupolosità, arrivando perfino a pagare i cittadini perché riferissero ai magistrati le violazioni di questa legge 157.

Un’altra opera imposta dal comune fu la costruzione di latrine pubbliche (neces-saria), come testimoniano già i primi statuti; la principale latrina pubblica si trovava nella contrada di Piazza, ma era previsto di costruirne anche in altre contrade 158. Queste latrine erano molto simili a quelle romane, consistevano in seggette disposte una accanto all’altra all’interno di una stanza; un canale di scolo, dove scorreva in continuazione l’acqua, serviva a portare via la sporcizia e proba-bilmente fra una seggetta e l’altra vi dovevano essere dei divisori in legno. Vi erano anche latrine private e i loro proprietari dovevano stare attenti che non filtrassero liquami nelle strade pubbliche o che fossero lontani dalle mura delle altre abita-zioni 159. Le norme degli statuti cittadini dei primi del Trecento ricordano spesso che non si potevano distruggere i sedili, né prendere pietre e legno dai necessari pubblici, indizio questo di un’abitudine radicata nella popolazione che smantella-va questi edifici con facilità, ma probabilmente anche indizio di una diminuzione dell’uso di queste strutture in questo secolo, perché ormai, al contrario di quanto avveniva nei secoli precedenti, si tendeva a non svolgere più i propri bisogni nei luoghi pubblici, ma solo nelle proprie abitazioni.

I cittadini di Volterra dovevano stare particolarmente attenti anche nell’utilizzare le fonti pubbliche, vi erano infatti severe pene per chi contravveniva alle numerose norme riguardanti il loro uso. Le leggi erano rivolte ad impedire l’inquinamento delle acque, considerato causa di numerose malattie. Già la realizzazione di una serie di vasche, ciascuna delle quali specializzata in un certo uso, era una tattica per limitare i danni causati da un uso improprio e per consentire che una medesima fonte potesse svolgere contemporaneamente più funzioni. La prima legge sull’igiene nelle fonti è riportata nello statuto del 1238-1241, ed è rivolta alle donne affinché non lavassero i panni a meno di 10 braccia dalla fonte di Fontecorrente e panni, accia, verdure et i aliqua putredo per meno di 20 braccia dalla fonte di Docciola 160. Con gli statuti successivi questo divieto si estende a tutte le fonti e ai fossati che si trovavano di fronte alle mura cittadine 161.

I bagni pubbliciContrariamente a quanto solitamente supposto, nel Medioevo l’uso dei bagni

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Fig. 53 Vera della cisterna di Palazzo dei Priori

pubblici era molto diffuso, ne esistevano di moltissimi tipi, di solito chiamati Stufae o Balnea, i primi erano maggiormente diffusi in città e i secondi nel territorio e si trattava solitamente di bagni termali. La loro apertura era regolata dalle norme sta-tutarie e vi potevano accedere sia uomini che donne, senza che ciò fosse considerato immorale, come si legge invece in alcune opere letterarie posteriori. Spesso sono addirittura gli stessi padri della chiesa a sollecitare un maggior uso di queste strut-ture igieniche. Fu solo con la fine del Trecento che l’aumentato senso del pudore cominciò a causare un maggiore disinteresse verso i bagni pubblici, con la conse-guente diminuzione della pratica del bagno promiscuo che fu sostituito dal bagno in privato o nei postribola. A Volterra non abbiamo alcuna menzione dell’esisten-za delle stufae all’interno della città, ma il comune possedeva alcuni balnea nelle immediate vicinanze della città o nel territorio: il Balneum de Risalso, il Balneum de Hera, il Balneum de Miemo e il Balneum de Morba.

Il primo documento che parla dei bagni è un capitolo degli statuti comunali del 1313, nel quale sono nominate solamente le prime tre strutture 162, mentre il Bagno a Morba è nominato negli statuti successivi, del 1335 163.

Il Bagno di Risalso si doveva trovare presso il podere omonimo, fra il botro Zolfinaia e il torrente Zambra, circa quattro chilometri a sud di Volterra. In questa zona, come testimonia il nome del botro Zolfinaia, si dovevano trovare delle sor-genti di acqua calda e lievemente salata, utili ad un uso termale, motivazione alla base della costruzione un bagno. Nel 1313 fu ordinato che fossero fatti dei lavori allo stagno del Risalso in modo che l’acqua della vena potesse esser portata diretta-mente nel bagno, separandolo dallo stagno. Altri lavori vi vennero compiuti anche nel 1335, ma quella volta interessarono l’edificio 164.

Il Bagno dell’Era era invece costruito, da quanto si ricava da un contratto della Badia di S. Giusto, nei piani dell’Era, nel luogo detto Planum Balnei, che confinava da un lato con il fiume, dall’altro con la via, superiormente con la terra del mona-stero e inferiormente con la terra di Bonavie da Montebradoni 165. Negli statuti del Comune compare invece per la prima volta nel 1313 quando il comune decise di comprare della terra tutt’intorno al bagno e di spostare l’acqua da questo luogo per costruire un bagno in un luogo congruo, a spese del comune di Volterra, ma nel 1335 la costruzione non era stata ancora realizzata, come testimoniato dagli statuti di quell’anno166. Non conservandosi più un toponimo Bagno dell’Era, non siamo in grado di stabilire con esattezza dove si trovasse. Inoltre l’edificio che il Comune avrebbe voluto costruire probabilmente non venne mai realizzato, e ciò non aiuta nella localizzazione. È però probabile che si trovasse nei pressi della chiesa di S. Quirico, intorno a cui erano concentrati tutti i possedimenti del monastero di S. Giusto, o poco lontano perché quella zona sempre essere l’unica adatta a ospitare delle sorgenti tali da alimentare il bagno.

Più lontani si trovavano i bagni di Miemo e di Morba, il primo vicino al castello omonimo e il secondo nei pressi di Montecerboli; per entrambe le località venne predisposto di ristrutturare gli edifici o rifarne di nuovi, per maggiore comodità di coloro che ne usufruivano; alle spese per il bagno di Miemo avrebbe dovuto contri-buire la comunità di Miemo 167.

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Fig. 54 Bocchetta per il deflusso delle acque nelle mura medievali

Questi bagni erano tutti sicuramente collegati a delle sorgenti termali e salutifere o comunque ritenute tali, l’unico su cui siamo incerti è quello dell’Era. La tendenza alla costruzione di bagni a Volterra e nel suo territorio appare quindi legata soprat-tutto all’aspetto curativo dell’acqua più che a quello igienico e la spiegazione circa la mancanza di bagni nella città può essere collegata a questo tipo di concezione 168. Inoltre i bagni, almeno in un primo tempo, dovettero essere effettuati per lo più negli stagni che si trovavano vicino alle sorgenti, perché in un capitolo degli statuti veniva vietata la macerazione di lino, di ginestre o di panni in qualunque bagno 169.

Gli unici bagni abbastanza vicini da poter essere utilizzati abitualmente dalla popo-lazione cittadina erano quelli di Risalso e dell’Era, che distavano pochi chilometri, circa un’ora – un’ora e mezzo di cammino, dalla città; le due strutture si trovavano poi lungo due vie di comunicazione importanti: Risalso lungo quella che collegava Volterra con Fatagliano e poi, attraversando il Cecina, con Pomarance; Bagno d’Era lungo la via che costeggiava il fiume e che, pur non essendo una via principale di comunicazione, collegava le varie strade che da Volterra conducevano nei territori di S. Gimignano, Siena, Firenze e Pisa. Si tratta quindi di strutture poste in luoghi stra-tegici e dedicate ad un tipo di attività che poteva richiamare molte persone; probabil-mente erano presenti nelle vicinanze anche dei servizi collaterali, locande e taverne.

Opere privatePer quanto riguarda i privati cittadini sappiamo che contribuivano finanziaria-

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Fig. 55 Bocchette per lo scolo delle acque degli acquai della Torre Minucci

mente alla sistemazione delle fonti e delle cisterne pubbliche, costruite all’interno della contrada di residenza; per quanto riguarda l’approvvigionamento e lo smal-timento idrico delle abitazioni private non abbiamo quasi nessuna informazione. L’esistenza di una cisterna all’interno dei resti della torre medievale di Castello e la cisterna della torre Toscano, ci fanno supporre che anche le abitazioni private, o almeno quelle di proprietà delle famiglie di una certa importanza, avessero proprie cisterne e pozzi 170.

Le uniche cisterne cittadine private sicuramente esistenti nel XIII secolo sono quella di una casa torre scavata sull’Acropoli e quella della casa torre Toscano 171, ma ve ne dovevano essere anche altre. La prima cisterna fu rinvenuta durante gli scavi dell’Acropoli etrusca nel settore occidentale dell’area interessata dall’investigazione, aveva forma cilindrica e modeste dimensioni: 0,70 m di diametro e profondità impre-cisata. Si trovava all’interno di quella che Cristofani ritiene essere una torre costruita al di sopra del terreno che ricopriva il tempio B dell’Acropoli e da lui scavata nel 1971-172. Il materiale che la riempiva è databile alla prima metà del XIV secolo 173. La cisterna della Torre Toscano è profonda 7,20 m, trova su un lato del cortile del Palazzo Guarnacci, e la vera si appoggia ad una delle pareti della torre costruita nel 1250, ostruendo in parte una feritoia, aperta a circa 40 cm da terra in questa parete. Quasi sicuramente la vera della cisterna fu costruita successivamente, ma la cisterna era preesistente, contemporanea alla costruzione della torre medievale.

Dagli statuti comunali si apprende che esistevano anche aquaioli e necessaria nelle abitazioni private, ma non dovevano essere molto frequenti e soprattutto non colle-gati con una rete fognaria pubblica, in quanto era prescritto che fossero consentiti solo a chi disponeva di un cortile dove dirigere le acque di scarico 174. L’esistenza di alcuni di questi scarichi sulla parete delle torri Minucci che dà sul giardino ci documenta l’osservanza di questa legge, che per le sue caratteristiche era sicuramente rispettata dai ricchi volterrani che si potevano permettere abitazioni con strutture in muratura per lo scarico delle acque e cortili o giardini dove scaricare i liquami.

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NOTE

1) SCHNEIDER 1907, n. 236, 27 ottobre 1193: “Henrico Vulterrani potestati”, n. 237, 2 gennaio 1194: “Henrigum Vulterrani potestatem”.2) La contrada di Borgo S. Maria occupava quello che nel IX e X secolo era chiamato Hortus cano-nicorum (LESSI 1995, p. 13); quella di S. Agnolo la zona intorno alla chiesa di S. Michele in foro; la contrada di Porta a Selci, detta anche semplicemente Silice, comprendeva la zona di via Gramsci e piazza XX settembre, gli stessi punti dove sono state trovate stratificazioni di dark earth (MUNZI e altri, 1994, p. 645).3) FIUMI 1951 b, con bibliografia precedente. Sono i cosidetti magnati che, o come singole famiglie, o all’interno di consorterie, comprarono appezzamenti di terra per costruire torri all’interno della città. 4) Questa strada doveva corrispondere al Decumanus Maximus della città antica.5) La cerchia muraria etrusca continuerà ad essere funzionante anche dopo la costruzione di quella medievale, con lo scopo di difendere il terziere inferiore della città, che non era stato interessato dalla costruzione delle nuove mura. Con la costruzione di questa nuova cinta muraria viene deli-mitata una zona ben precisa della città che andrà a costituire l’area privilegiata di residenza separata dall’area dei borghi del terziere inferiore abitati solo in parte. Le nuove mura furono realizzate in due fasi. La prima, databile fra il 1200 e il 1238, dovette consistere in un semplice ammodernamen-to delle mura etrusche, di cui venne seguito il percorso nel tratto da Porta a Selci a Porta all’Arco. La seconda fase, che completò il circuito, fu costruita fra il 1260 e il 1284. Lo scopo dell’opera fu quello di realizzare una cerchia che proteggesse la città e che fosse difendibile da una popolazione non numerosa come era quella che abitava Volterra in quel periodo, in questo senso l’ampia esten-sione delle mura antiche creava più problemi che vantaggi per la difesa cittadina (FIUMI 1947, pp. 28-58).6) ASCV, G nera 7, cap. CCXIV, De via mictenda a fonte Marcoli ad Docciola.7) ASCV, G nera 16, cap. LXXII, De mictenda unam viam Burgi S. Marie versus fontem S. Felicis civitatis Vulterra.8) SCHNEIDER, doc. 239, 14 novembre 1195. È un documento dell’Archivio Vescovile di Volterra dove viene nominata una "vineam, quam fuit Pennini, posita in civitate Vulterrae, super fontem Marcoli”.9) ASCV, G nera 3, cap. CLXXXXIII, De facienda via pro fonte de Zatris, in FIUMI 1951, p. 101.10) ASCV, G nera 1, cap. CCXXX De Vallebuona et Nuce et Vellosore, in FIUMI 1951, pp. 222-223. 11) FIUMI 1951 b, pp. 96-101.12) Va fatto notare che durante il Medioevo la città non era limitata alla parte racchiusa dalle mura di cinta duecentesche, ma comprendeva tutto il territorio limitato dalle mura etrusche ed anche alcune parti, come i borghi di S. Alessandro, S. Lazzero, Montebradoni e S. Giusto, al di fuori di queste ultime. Essi erano parte integrante della città, oltre la quale vi erano le Pendici, cioè il territorio fino a circa due chilometri di distanza dalle mura. Il resto del territorio comunale era chiamato Distretto e organizzato in castelli e ville. Città e Pendici erano divisi in contrade e terzieri, le contrade variarono col tempo da quindici-sedici a dodici e poi a nove-otto, i terzieri, attestati solo dal 1296, si chiamavano Superiore, Medio e Inferiore e comprendevano ciascuno un numero variabile di contrade.

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13) Di queste tre contrade solo Piazza (la zona di Piazza dei Priori) aveva un elevato numero di abi-tanti, le altre due, che corrispondevano all’Acropoli della città antica, fino alla metà del XIII secolo erano quasi disabitate e occupate da orti e vigneti.14) MARTELLA 1981, p. 55.15) A differenza di Volterra, in molte città italiane esistono anche fonti con più di due arcate, ad esempio a Siena, San Gimignano, Atri.16) BALESTRACCI 1992, p. 467.17) CACIAGLI 1995, p. 17.18) BALESTRACCI-PICCINNI 1977, p. 153; PECORI 1853, p. 579; MARTELLA 1981, pp. 53-56. A Massa Marittima la principale fonte cittadina è situata non vicino ad una porta, ma alla piazza prin-cipale della città.19) La fonte di Docciola era già monumentalizzata prima della costruzione delle mura, questa venne infatti costruita nel 1244, mentre le mura vennero iniziate solo dopo il 1260 (FIUMI 1947, p. 41).20) San Gimignano del resto era approvvigionata soprattutto dai pozzi e dalle cisterne. Ad Atri si dette invece maggiore importanza alle fortificazioni (MARTELLA 1981, p. 55).21) ASCV, G nera 4 bis, cap. CCXLV, De clausuris civitatis faciendis.22) ASCV, G nera 1, cap. CCXXX, De Vallebuona et Nuce et Vellosore. Pubblicata in FIUMI 1951, pp. 222-223.23) HEERS 1995, pp. 284-286.24) ASCV, Pergamene di Badia, perg. n. 167, anno 1203.25) ASCV, G nera 3, cap. De facienda via pro fonte de Zatris. Pubblicata in FIUMI 1951, p. 101.26) ASCV, G nera 1, cap. CCXXX, De Vallebuona et Nuce et Vellosore. Pubblicata in FIUMI 1951, pp. 222-223.27) ASCV, G nera 7, cap. XXIX; G nera 8, cap. XXIX; G nera 9, cap. XXVI; G nera 10, cap. XVI, tutti dal titolo De lavatorio de Bruoilo.28) BATTISTINI 1921, p. 23.29) BALESTRACCI 1995, p. 46.30) ASCV, G Nera 2, cap. CCXC, De arcu fontis. Dal testo si deduce che in questa zona vi era anche una fonte più antica di cui però non sappiamo nulla.31) ASCV, G Nera 2, cap. CCLXVIII, De via mictenda.32) ASCV, G Nera 2, cap. CCXCI, De lavatoriis faciendis.33) ASCV, G Nera 4 bis, cap. CCVII, De arcu fontis.34) AUGENTI-MUNZI 1997, pp. 76-78.35) ASCV, G Nera 4 bis, cap. CLXXXIX, De Vallebuona.36) Vedi sopra alla pagina 78.37) ASCV, G Nera 4 bis, cap. CCVII, De lavatoriis faciendis; cap. CCXLV, De clausuris civitatis faciendis; cap. CCLXXX, De fonte facienda de Pratomarzio et de inveniendi venis aquarum in Collina.38) G. VILLANI, Cronaca, VI, 57.39) Il primo statuto che ci è rimasto dopo quelli del 1252-1258, è quello databile al 1310.40) Per una panoramica sugli statuti del comune di questo periodo e la costruzione delle mura citta-dine vedi FIUMI 1947, pp. 36-40.41) ASCV, G nera 7, cap. XXXVII; ASCV, G nera 8, cap. XXXVII; ASCV, G nera 9, cap. XXXIII; ASCV, G nera 10, cap. XXXIII, tutti dal titolo De Vallebuona.

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42) ASCV, G nera 7, cap. XXIX; ASCV, G nera 8, cap. XXIX; ASCV, G nera 9, cap. XXVI; ASCV, G nera 10, cap. XXVI, tutti dal titolo De lavatorio de Bruoilo.43) ASCV, G nera 7, cap. XL; ASCV, G nera 8, cap. XL; ASCV, G nera 9, cap. XXXVI; ASCV, G nera 10, cap. XXXVI, tutti dal titolo De faciendis fontibus.44) ASCV, G nera 7, cap. CCXII, De cisternis faciendis. Le ville sono Fiorli, Bibbiano (oppure, a discrezione del podestà, Fognano o Gello) e S. Cipriano.45) ASCV, G nera 7, cap. CCXI, De fonte S. Stefani cooperienda; ASCV, G nera 8, cap. CCXI, senza titolo.46) ASCV, G nera 7, cap. XLII, De vena de Fonte Pipuli e cap. CCI, De Fonte Pipuli. Stessi capitoli in G nera 8.47) ASCV, G nera 8, cap. CCIV, Viam publicam comunis Vulterre de Peruccio turatam muro civi-tatis; ASCV, G nera 9, cap. CLXXXVII, De via Perucci et Fonte Bernardi; ASCV, G nera 10, cap.-CLXXXIV, stesso titolo.48) ASCV, G nera 9, cap. XXVII, De faciendo Fonte S. Felicitis; ASCV, G nera 10, cap. XVII, stesso titolo.49) Orvieto (RICCETTI 1992, p. 92), Perugia (BALESTRACCI 1992, p. 463), Viterbo (BALESTRACCI 1992, p. 464), a Siena la rete dei bottini viene iniziata all’inizio del ’300 (BALESTRACCI 1995, p. 25-28)50) ASCV, filza A nera 1, quaderno IV, cc. 14-16.51) ASCV, filza A nera 1, quaderno IV, c. 19.52) ASCV, G nera 11, cap. LVIII De fontibus et beveratorum actandis et fiendis et venis invenendis.53) ASCV, A nera 6, quaderno IV, c. 22, XXVI giugno 1310.54) ASCV, A nera 2, quaderno V, cc. 3 e 4, VIII luglio 130555) Vedi nota 135.56) ASCV, A nera 5, quaderno VIII, c, 20.57) In realtà la fonte di S. Felice venne soltanto spostata all’interno delle mura, infatti fra il 1238 e il 1241 fu deciso di rifare un lavatorium S. Felicite, che si trovava al di fuori del circuito murario (ASCV, G nera 4 bis, cap. CCVIII De lavatoriis faciendis).58) Sulla portata d’acqua della sorgente di S. Felice abbiamo solo le testimonianze del secolo scorso che parlano di “20.880 litri in 24 ore” (BRASSEUR 1877, p. 24), mentre l’acqua di Docciola è ancora oggi molto abbondante, pur se lontana dai circa 80.000 litri in 24 ore del secolo scorso (BRASSEUR 1877, pp. 20 e 23; PANICHI 1975, p. 11).59) S. Felice vicino alla porta omonima e alla strada per Montecatini. Docciola è di fronte alla porta omonima da cui partiva la strada per la Val di Pinzano e la Val d’Era, a questa strada faceva capo in realtà la Posterula, vicino a cui vi era la Fonte Marcoli, ma la strada passava comunque vicino anche alla porta di Docciola (in realtà questa venne murata per la maggior parte del XIV e tutto il XV secolo). A Fonte a Selci faceva capo la strada che andava verso Siena partendo dalla Porta a Selci. S. Stefano era vicino alla porta omonima ed a quella della Penera aperta nelle mura etrusche, da cui partiva la strada per il Montornese che poi si congiungeva con quella per Montecatini. S. Marco, appena al di fuori di Porta Menseri, conduceva verso la valle di Doccia, ricca di orti e frutteti. Mandringa si trovava vicino alla strada per la Valdera e alla porta di Mandringa. A Vallebuona si andava da Porta Fiorentina lungo la via che andava a Firenze.60) Velloso vicino alla via per Siena, Bagno di S. Giusto sulla strada per Pisa, Fonte al Pino vicino alla via per il mare, Fonte Pipoli, come è ricordato negli statuti, doveva essere costruita sulla strada che andava a Pomarance (ASCV, filza G nera 7, cap. XLII, De vena de Fonte Pipoli e filza G nera 8,

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cap. XLII, Rubrica de vena de Fonte Pipoli). Quest’ultima fonte oggi non è più localizzabile, forse corrisponde a quella che fino agli anni Sessanta di questo secolo era chiamata Fonte Ripoli e che si trovava in vicinanza della curva Est dello Stadio delle Ripaie (TAMBURINI 1984, carta n. 1).61) La fonte all’Agnello è l’unica fra quelle di campagna in cui si conservi ancora oggi un bello stemma del comune di Volterra, ma questo stemma doveva essere visibile su tutte le fonti pubbliche della città e del territorio.62) Della fonte chiamata De le Rivolte sappiamo solo che si trovava presso Monte Terzi, vicino alla strada per Siena (vedi ASCV, G nera 11, cap. LVIII, De fontibus et beveratorum actandis et fiandi et venis inveniendis). 63) BALESTRACCI-PICCINNI 1977, pp. 146-147; BALESTRACCI 1992, p. 467.64) FRANCOVICH 1982, pp. 174-194.65) PECORI 1853, p. 579. 66) GUIDONI 1970, p. 448.67) L’ostruzione dei condotti di captazione, che in molti casi sono delle gallerie lunghe decine di metri, ha impedito che l’acqua fuoriuscisse dalle sue vie abituali causando vari tipi di danni, i princi-pali sono la diminuzione della portata di acqua nelle fonti (che però è causata anche da altri fattori) e il prodursi di stillicidi e di microfrane in zone vicine alle fonti causate dall’acqua che cerca altre vie per fuoriuscire. 68) ASCV, G nera 4, cap. CCLIX, De via mictenda. Lo stesso è poi ripetuto nel 1230: G nera 2, cap. CCLXVIII, De via mictenda.69) ASCV, G nera 4, cap. CCXVII, De arcu fontis. Ripetuto poi nel 1230: G nera 2, cap. CCXC, De arcu fontis e nel 1238-1241: G nera 4 bis, cap. CCVII, stesso titolo.70) ASCV, G nera 4 bis, cap. CCVII, De arcu fontis.71) AUGENTI-MUNZI 1997, pp. 59-61.72) Questa descrizione è ricavata dal rapporto fatto nel 1886 dall’ingegnere comunale che provvide alla pulitura delle condutture, che erano state contaminate da una infiltrazione delle fogne sopra-stanti. Secondo questo rapporto il calcare si formava con estrema rapidità, tanto da rendere necessa-ria una ripulitura biennale dei condotti per evitarne l’ostruzione (A. C. P. Volterra, Deliberazione di Consiglio Comunale n. 22 del 30 aprile 1886, all. 1: Visita alle Fonti di Docciola)73) Vedi FIUMI 1947.74) Abbiamo forse una informazione che ci ricorda l’esistenza di questa struttura esterna da ASCV, A nera 2, quad. I, c. 11 r., in cui si ordina a Mone di Ugolino di far spianare la terra nei pressi del-l’abbeveratoio che si trovava al di fuori della porta di Docciola. Questo documento è datato al 7 agosto 1300.75) ASCV, G nera 4 Bis, cap CCLXXIV, De via danda illis de Porta ad eundo ad Docciolam.76) Vedi pag 83. 77) CACIAGLI 1980, p. 154.78) CACIAGLI 1980, p. 148. Per la descrizione delle terme e del sistema di approvvigionamento vedi sopra a pp. 59-63.79) CACIAGLI 1979, p. 90. 80) AUGENTI-MUNZI 1997, pp. 76-78.81) ASCV, G nera 4 Bis, cap. CCVIII, De lavatoriis faciendis. Questo capitolo è molto simile a quelli che ricordavano l’obbligo della costruzione del lavatoio di Vallebuona e del Noce (questa secondo toponimo non sarà ricordato negli statuti comunali posteriori). Poiché la parte riguardante S. Felice è scritta sopra una parte di testo abrasa, si può ipotizzare o che questi due toponimi (Noce e

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S. Felice) riguardino la stessa località, oppure che la fonte del Noce sia scomparsa per motivi naturali e abbia acquistato importanza quella di S. Felice.82) ASCV, G nera 7 e G nera 8, cap. XL, De faciendis fontibus; G nera 9, quad. I, cap. XXXVI, stesso titolo e quad. II, cap. XXVII De faciendo Fonte S. Felicis; G nera 10, quad. I, cap. XXXVI e quad. II, cap. XXVII stessi titoli.83) ASCV, A nera 1, quad. V, c. 19 v.84) ASCV, A nera 2, quad. V, c. 3 r. e c. 4 r. In questi documenti si chiama solo fonte di S. Felice, ma è indubbio che si tratti di quella esterna, che era la sola ad essere sfruttata in questo periodo.85) ASCV, G nera 11, cap. LVIII, De fontibus et beveratorum actandis et fiendi et venis inveniendis. 86) ASCV, A nera 5, quad. VIII, c. 20 v. e c. 127 r. 87) ASCV, G nera 11, cap. LVIII, De fontibus et beveratorum actandis et fiendi et venis invenien-dis. Questo capitolo è ben datato dall’ultima frase che dice: “Iste capitulum facto fuit per statutum comunis Vulterre sub anno domini MCCC octavo decimo. Indictione V de mense septembris prout in originali comunis predicti scriptus per sser Vanne Notaio ceste continetur”.88) BATTISTINI 1921, p. 23: “Pro uno suficiente magistro, qui inveniat et invenire debeat venas aquarum, fontis noviter hedificatae iuxta portam Santi Felicis (ASCV, A nera 8, c. 23)”.89) ASCV, G nera 16, cap. XXXI, De fontibus beveratorum et lavatorum actandis et venis aquam inveniendis et fontibus faciendis.90) ASCV, G nera 16, cap. XXXI, De fontibus beveratorum et lavatorum actandis et venis aquam inveniendis et fontibus faciendis.91) ASCV, G nera 16, cap. LXXII, De mictenda unam viam Burgi S. Marie versus fontem S. Felicis civitatis Vulterra.92) ASCV, G nera 7, c. 32, si nomina il toponimo via Piscinale de Burgi S. Marie; ASCV, G nera 8, cap. CCXIV, ricorda l’esistenza di una crux vie de Piscinale Burgi S. Marie.93) FIUMI 1944, p. 372. Lo stesso termine di Avelli parrebbe indicare delle connessioni con lavori che producevano cattivi odori, come la concia delle pelli.94) FIUMI 1944, p. 373.95) CACIAGLI 1980, p. 145.96) Non è infrequente infatti, che nel medioevo strutture antiche fossero riutilizzate.97) ASCV, G nera 7, cap. CCXI, De fonte S. Stephani cooperienda.98) ASCV, G nera 8, cap. CCXI.99) ASCV, A nera 1, c. 19 v. 100) BATTISTINI 1921, p. 24. ASCV, A nera 1, c. 21 v.101) ASCV, G nera 4 Bis, cap. CCXLV, De clausuris civitatis faciendis. Questo capitolo, poi cassato, prescriveva la costruzione di una postierla che portasse alla fonte dalla via di Pratomarzio. Questa postierla evidentemente non fu costruita in quel periodo, ma oggi esiste una postierla che svolge quella funzione e che fu costruita evidentemente più tardi: porta Menseri. Negli statuti del 1252 si ricorda la presenza di una porta e quindi ne dobbiamo dedurre che la porta fu aperta in questo periodo (1241-1252).102) ASCV, G nera 4 Bis, cap. CCLXXX, De fonte facienda de Pratomarzio et de inveniendi venis aquarum in collina.103) ASCV, A nera 1, quad. I c. 19 v. Questo toponimo compare in questo documento del 1279, però non è ben leggibile a causa del pessimo stato di conservazione; dalla pergamena si capisce solo che questa fonte si trovava nella contrada di Pratomarzio, presso la porta. Poiché in questa zona l’unica fonte conosciuta è quella di S. Marco l’identificazione con essa appare molto probabile.

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104) ASCV, G nera 7, cap. XL, De faciendis fontibus; G nera 8, cap. XL, G nera 9, cap. XXXVI e G nera 10, cap. XXXVI, stesso titolo.105) ASCV, G nera 7, cap. CCXI, De fonte S.Stephani cooperienda.106) ASCV, G nera 8, cap. CCXI.107) ASCV, G nera 11, cap. LVIII, De fontibus et beveratorum actandis et fiendi et venis inveniendis.108) ASCV, G nera 16, cap. V, De guazzatoio S. Stephani.109) ASCV, A nera 2, quad. V, c. 46 v.110) ASCV, A nera 6, quad. IV, c. 22 r., 26 giugno 1310.111) ASCV A nera 5, quad. IV, c. 42 r.112) ASCV, G nera 7 e G nera 8, cap. XL, De faciendis fontibus; G nera 9, cap. XXXVI e G nera 10, cap. XXXVI, stesso titolo.113) ASCV, G nera 16, cap. XXXI, De fontibus beveratorum et lavatorum actandis et venis aquam inveniendis et fontibus faciendis.114) ASCV, A nera 1, quad. IV, cc. 14 r.- 16 v. Vedi sopra a pag 85.115) ASCV, G nera 11, cap. LVIII, De fontibus et beveratorum actandis et fiendi et venis inveniendis.116) ASCV, G nera 16, cap. XXXI, De fontibus beveratorum et lavatorum actandis et venis aquam inveniendis et fontibus faciendis.117) ASCV, G nera 16, cap. De constructore fontis de Selice.118) ASCV, G nera 8, cap. CCIV, Viam publicam comunis Vulterre de Peruccio turatam muro civi-tatis; stesso argomento in G nera 9, cap. CLXXXVII, De via Perucci et Fonte Bernardi e G nera 10, cap. CLXXXIV, stesso titolo. Il toponimo è indicato così: “via posita in loco dicto Fontis Bernardi in confinibus fontis S. Iacopi”.119) ASCV, A nera 11: “Pro edificatione et constructione fontis de Sancto Iacobo, sita extra portam Silicim, qua nunc edificatur...” (BATTISTINI 1921, p. 24).120) Guida 1832, p. 183.121) LEONCINI 1869, p. 205. 122) APCV, 1885, cat. 13, tit. 4, fasc. 3.123) ASCV, G nera 7, cap. XLII, De vena de Fonte Pipoli e idem, cap. CCI, De Fonte Pipuli.124) ASCV, G nera 7, cap. XLII, De vena de Fonte Pipoli; ASCV, G nera 8, cap. XLII, stesso titolo.125) TAMBURINI 1984, p. 12.126) ASCV, G nera 7, cap. CC, De aqua pluvia Porte Silicis.127) Vedi sopra p. 79, n. 8.128) ASCV, G nera 1, cap. CCXXX, De Vallebuona et Nuce et Vellosore, in FIUMI 1951, pp. 222-223; G nera 2, cap. CCLVIII, De via mictenda; G nera 4, cap. CCXII, De Vallebuona; G nera 4 bis, cap. CLXXXIX; G nera 7, cap. XXXVII; G nera 8, cap. XXXVIII; G nera 9, cap. XXXIII; G nera 10, cap. XXXIII, tutti con lo stesso titolo.129) ASCV, G nera 4, cap. CCXII, De Vallebuona.130) ASCV, G nera 4 bis, cap. CLXXXIX, De Vallebuona. Stessa norma nel G nera 7, cap. XXXVII, stesso titolo, con in più il divieto di tagliare alberi in Vallebuona.131) Et tenuatur potestas facere inveniri venam aquam de Broilo et ibi ad pedem muri civitatis exiri et labi ubi olim esset et labi consuevit. Si potuerit inveniri et tenuatur facere inveniri venam goczi de Vallebona et per comuni retineri. 132) FIUMI 1947, pp. 28-58.

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133) ASCV, G nera 7, cap. XXIX, De lavatorio de Bruoilo. Stesso ordine in G nera 8, cap. XXIX, G nera 9, cap. XXVI e G nera 10 cap. XXVI, dal medesimo titolo. 134) ASCV, G nera 1, cap. CCXXX, De Vallebuona et Nuce et Vellosore, in FIUMI 1951, pp. 222-223; G nera 2, cap. CCXCI, De lavatoriis faciendis; G nera 4, cap. CCLXXXVII, De lavatoriis.135) ASCV, G nera 2, cap. CCXCI, De lavatoriis faciendis; G nera 4, cap. CCLXXXVII, De lava-toriis.136) ASCV, G nera 3, cap. CLXXXXIII, De facienda via pro fonte de Zatris, in FIUMI 1951, p. 101.137) BATTISTI 1959, p. 657.138) DORIA 1991, p. 217.139) Vedi sopra p. 78.140) FIUMI 1955, p. 114. Il Consortini dice che questa fonte era ancora visibile quando scrive e che “esce fuori da una costruzione etrusca” (CONSORTINI 1940, p. 69).141) ASCV, G nera 4 bis, cap. CLXXXIX, De Vallebuona. La stessa frase si legge in ASCV, G nera 7, cap. XXXVII, in ASCV, G nera 8, cap. XXXVII, in ASCV, G nera 9, cap. XXXIII, e in ASCV, G nera 10, cap. XXXIII, tutti con lo stesso titolo.142) FIUMI 1947, pp. 39-42.143) La filza G nera 10 non reca una data, ma è databile, secondo il Fiumi, al questo periodo in base ad alcune informazioni contenute nel testo (FIUMI 1947, pp. 38-41).144) Se non addirittura con quattro se anche la fonte di Vallebuona fosse identificabile con quella di Broglio.145) Il Comune cominciò a sollecitare la costruzione di cisterne intorno alla metà del XIII secolo, ma solo in campagna: ASCV, G nera 7, cap. CCXII De cisternis faciendis; G nera 8, cap. CCXII; G nera 9, cap. CLXXXXV; G nera 10, cap. CXCII, tutte dallo stesso titolo. Venne anche restaurata la cisterna del castello di Monte Voltraio: ASCV, G nera 8, cap. CXLII, senza titolo.146) ASCV, G nera 16, cap. XV, cap. XV, De salario facientium cisternam in civitate Vulterrae.147) ASCV, G nera 11, cap. LVIII, De fontibus et beveratorum actandis et fiendi et venis inveniendis.148) Vedi CINCI 1885, p. 7.149) FIUMI 1962, pp. 136-138.150) BALESTRACCI 1992, p. 466.151) BALESTRACCI-PICCINNI 1977, p. 145.152) ASCV, G nera 4 bis, cap. CCLXIII, De aqua de Castello.153) Forse corrisponde a quella porta che si trova vicino alla Fortezza Medicea e chiamata anche “porta del vescovo” o “Porta di Castello” (FIUMI 1947, p. 31). Il problema è ulteriormente aggravato dal fatto che non è chiaro dove in quel periodo fosse il confine fra le contrade di Piazza e Castello.154) ASCV, G nera 7, cap. CC, De aqua pluvia Porte Silicis.155) ASCV, G nera 9, cap. LIV, De aqua pluvia vie nove de S. Angelo.156) Si tratta di un curioso costume documentato anche negli statuti di altre città italiane.157) Questa norma è presente in tutti gli statuti della città, prima inserita nella rubrica dal titolo De spatiis vendendis et de porticis et ballatoriis et grundis e poi in quella dal titolo De aqua putrida.158) ASCV, G nera 3, cap. CLXXXVIIII, De necessario faciendo; ASCV, G nera 8, cap. CLVI, Ut attentur necessaria comuni; ASCV, G nera 16, cap. CXLVII, De pena destruenda sedilia comunis.159) ASCV, G nera 9, cap. CX, Ut non fiat necessaria. ASCV, G nera 16, cap. CLXXVII, De pena illis qui fecerit necessarium in muro comunali vel qui labatur in via.160) ASCV, G nera 4 bis, cap. CCLXXX, De fonte facienda de Pratomarzio et de inveniendi venis

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aquarum in collina.161) ASCV, G nera 7, cap. XL; ASCV, G nera 8, cap. XL; ASCV, G nera 9, cap. XXXVI; ASCV, G nera 10, cap. XXXVI, tutti dal titolo De faciendis fontibus; ASCV, G nera 11, cap. LVIII, De fon-tibus et beveratorum actandis et fiendi et venis inveniendis; ASCV, G nera 16, cap. IV, De fontibus et abeveratorum e cap. XXXI, De fontibus beveratorum et lavatorum actandis et venis aquam inveniendis et fontibus faciendis.162) ASCV, G nera 11, cap. LXII, De balneo de Risalsi et alium actando et faciendo.163) ASCV, G nera 16, cap. CXLVI, De reficiendo domos balneorum de Morba.164) ASCV, G nera 11, cap. LXII, De balneo de Risalsi et alium actando et faciendo e ASCV, G nera 16, cap. XXXII, De balneo de Risalsi et Miemo et aliis balnei actandis.165) ASCV, Pergamene di Badia, n. 431, 1 dicembre 1252.166) ASCV, G nera 11, cap. LXII, De balneo de Risalsi et alium actando et faciendo e ASCV, G nera 16, cap. XXXII, De balneo de Risalsi et Miemo et aliis balnei actandis.167) Per il bagno di Miemo: ASCV, G nera 11, cap. LXII, De balneo de Risalsi et alium actando et faciendo e ASCV, G nera 16, cap. XXXII, De balneo de Risalsi et Miemo et aliis balnei actandis. Per il bagno a Morba: ASCV, G nera 16, cap. CXLVI, De reficiendo domos balneorum de Morba.168) Del resto l’uso di bagnarsi per ottenere la salute è legato, secondo la tradizione popolare, anche alla frequentazione del Bagno di S. Giusto.169) ASCV, G nera 16, cap. XVIII, De pena illis qui misint linum ad macerandum in balneis.170) Non è facile riconoscere, fra tutti i pozzi che si conservano attualmente a Volterra, quali siano quelli medievali, in quanto le strutture sono state tutte rimaneggiate. Anche per quanto riguarda i pozzi dei palazzi dell ’500 e ’600 non sappiamo se siano preesistenti o costruiti contemporaneamen-te ad essi.171) Anche se in quest’ultimo caso la datazione non è sicura.172) CRISTOFANI 1973a, p.219.173) CRISTOFANI 1973a, p. 233.174) ASCV, G nera 1, cap. CXXXXIII, De spatiis vendendis et de porticis et ballatoriis et grundis, in FIUMI 1951, pp. 180-181.

Il periodo comunale 129

DAL MEDIOEVO ALL’UNITÀ D’ITALIA

La grande epidemia di peste del 1348 causò vari cambiamenti a Volterra, la popo-lazione diminuì notevolmente e si assistette ad un incremento dell’emigrazione verso zone più ricche come Firenze ed il Valdarno. Nella seconda metà del XIV secolo crebbe sempre di più l’influenza politica di Firenze che divenne il punto di riferimento per ogni importante decisione politica o economica di Volterra. Nel 1472 la “Guerra delle Allumiere”, scoppiata per ottenere il controllo delle miniere di allume rinvenute nel Volterrano, fu la causa che portò alla definitiva conquista della città da parte della Signoria fiorentina. Da allora Volterra seguì le vicende politiche dello Stato fiorentino.

Dopo il periodo di fervore edilizio civile e religioso dei primi anni del Trecento, una nuova stagione di lavori fu quella che riguardò numerosi monumenti ed edifici pubblici durante il Cinquecento, culminati con la ricostruzione della Cattedrale di Volterra nel 1580. Fu però l’edilizia privata, con la costruzione dei grandi palazzi signorili di pro-prietà delle più importanti famiglie volterrane, che modificò profondamente l’aspetto architettonico ed urbanistico della città. Questi palazzi, spesso di grandi dimensioni, furono costruiti a partire dal Cinquecento in tutto il centro cittadino e si sostituirono alle case torri e agli altri edifici più modesti che finora avevano caratterizzato la città. Da questo momento fino a tutto il Settecento i nuovi edifici privati predominano nel-l’edilizia volterrana; anche le chiese ed i monasteri registrano nuovi lavori, spesso sov-venzionati dalle famiglie nobili.

Nel campo delle opere pubbliche in questo periodo furono fatti pochi lavori di rilievo: si trattò soprattutto di opere di ordinaria e straordinaria manutenzione di edifici ed infrastrutture già esistenti; in molti casi l’impegno più consistente fu quello di ammoder-nare e ristrutturare gli edifici pubblici. Fanno eccezione le opere religiose, chiese e mona-steri, che non hanno mai smesso di essere edificate o fortemente ristrutturate. L’impegno edilizio più importante, che assorbì buona parte della manodopera e della disponibilità economica cittadina fu la costruzione della nuova chiesa di S. Giusto, dopo che l’edificio medievale venne inghiottito dalla voragine delle Balze nel 1628.

Anche durante il regno del Granduca Leopoldo II ci fu un notevole interesse per le opere pubbliche, soprattutto quelle collegate alla viabilità, come ad esempio la costruzio-ne del Viale dei Ponti e della Piazza Martiri della Libertà.

L’approvvigionamento pubblicoDopo la peste del 1348 non fu interesse del Comune migliorare e sviluppa-

re ulteriormente il sistema di approvvigionamento idrico realizzato durante il XIII ed il XIV secolo, aggiungendo nuove fonti o adeguando quelle già esisten-ti. Negli statuti comunali non compaiono più ordini riguardanti la costruzione di

nuove fonti, salvo in quelli del 1348, quando fu ordinato di spostare la Fonte a Selci dal luogo dove si trovava e ricostruirla lungo la strada che va alla Fornace (di Papignano) a spese degli uomini della contrada di Porta a Selci e delle ville di Monte Voltraio, Mazzolla, Castel Populo (Montemiccioli), Ponsano e Luppiano 1.

Gli unici lavori documentati sono quelli di manutenzione ordinaria e i piccoli abbellimenti che vennero condotti ad alcune fonti. Nel 1358 fu ordinato agli uomini della contrada di Prato Marzio di restaurare la fonte di Mandringa entro il primo giorno di ottobre di quell’anno 2. Nel 1359 fu invece ordinato di costruire de novo un abbeveratoio presso la fonte di S. Felice; probabilmente si tratta dell’ab-beveratoio posto all’interno delle mura e che finirà per sostituire quello esterno. Questo abbeveratoio venne edificato all’angolo fra la fonte del 1319 e il muro di sostruzione alla destra 3. Nel 1372 il Comune pagò mastro Paolo muratore per la realizzazione di un leone di pietra nel quale venne infisso un condotto metallico per la fuoriuscita dell’acqua della sorgente di Docciola 4.

Sulla legislazione del XIV e XV secolo continuarono però a essere presenti le norme che imponevano ai magistrati cittadini di contribuire economicamente alla costruzione di cisterne in città 5, segno che l’interesse degli amministratori dell’epo-ca era ancora concentrato sul disporre di acqua nel centro della città, tramite la rea-lizzazione di depositi di acqua piovana da parte dei privati. Un contratto conservato nell’Archivio della Badia Camaldolese parla della vendita, da parte dei monaci di una casa, che si trovava in Borgo S. Maria e che era dotata, fra l’altro, di una cister-na interna 6. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, non mancano gli esempi di cisterne in edifici medievali cittadini già dal XIII secolo, ma non dovevano essere frequenti, se nei contratti di vendita o affitto veniva sempre specificata la presenza di queste strutture.

Una disposizione strana, che compare per la prima volta negli statuti del 1411 è quella che imponeva alle persone che raccoglievano acqua piovana per i propri usi, di farlo sia in estate che in inverno 7. Probabilmente era dovuta alla cattiva abitudine di qualche persona che, disponendo evidentemente di depositi non molto capienti e dovendo usare solo una certa quantità d’acqua, era solita disper-dere quella in eccesso di inverno, quando la pioggia era maggiore che in estate; l’acqua probabilmente veniva scaricata dai condotti per la raccolta direttamente nella strada, dove causava danni ad altre persone o edifici. Per questo motivo dovet-tero intervenire i magistrati cittadini, dapprima solo contro questa o queste persone e poi emanando leggi che prevenissero questo reato in generale.

Continuarono a rimanere in vigore alcune delle norme già compresenegli statuti duecenteschi, come quelle che ordinavano di incanalare l’acqua piovana che scor-reva per le strade cittadine o quelle sull’igiene pubblica, che vennero mantenute quasi inalterate dagli inizi dell’Età Comunale fino a tutto il Quattrocento. In tutti gli statuti del Trecento e Quattrocento ritroviamo, quasi identiche, anche le leggi sui gabinetti pubblici e privati (necessaria) e quelle per impedire che l’acqua putrida degli acquai venisse gettata in strada indiscriminatamente 8.

132 Alessandro Furiesi

Da un documento del 1514 scopriamo che la pulizia e la manutenzione ordinaria delle cloache di Docciola, di S. Felice e Vallebuona era affidata in base a contrat-ti rinnovabili ogni triennio, in quell’anno infatti, per problemi non specificati, il bando per l’affidamento che scadeva allora fu posticipato, prorogando il contratto precedente fino ad una data indefinita 9. Nel 1515 il consiglio ordinò di provvedere a degli interventi di restauro e di ripulitura dalle immondizie alla fonte all’Agnello 10.

Nel 1518 il consiglio, dopo aver constatato che in quell’anno la fonte di Docciola ed altre fonti cittadine, erano “…extra diruti intusque immundi…”, per “…civitatis usum commodiatatesque…” ordinò di provvedere alla pulizia della fonte di Docciola ed al suo restauro 11. L’intervento che fu deliberato in quell’anno deve essere collegato con quello documentato dall’epigrafe affissa sopra il doccio laterale della fonte; in questa è ricordato come fosse stato il capitano del popolo di Volterra del 1520, Roberto di Giovan Federigo Ricci, a completare il lavoro 12. L’opera, che prevedeva la riparazione della bocca dell’abbeveratoio di Docciola, fu compiu-ta con la costruzione di una nuova conduttura di captazione, che prendeva acqua dal versante Ovest della valle; questa conduttura terminava nella bocca Ovest della fontana, che in origine portava l’acqua alla vasca dell’abbeveratoio ed oggi invece la conduce direttamente nella fonte. Furono necessari tre anni per poter completare il lavoro e probabilmente si trattò di una impresa difficoltosa, tanto da essere comme-morata con l’affissione di un’iscrizione.

A partire dal 1519 si iniziò a pensare a restaurare anche la fonte di S. Felice; in una prima seduta del 17 giugno 1519 questi lavori furono proposti la discussione fu particolarmente accesa in quanto il consiglio era molto discorde su questa deci-sione. L’unico accordo raggiunto fu la proposta di rinviare la decisione spostandola a data da definirsi 13; esattamente quattro anni dopo, il 17 giugno 1523, il consi-glio tornò a discutere questa proposta ipotizzando di impegnare 100 lire per pagare i lavori da farsi alla fonte, ma l’indecisione dei consiglieri non portò a nulla 14. Solamente qualche giorno dopo, il 25 giugno, su proposta di Agostino Falconcini, furono nominate due persone ai cui venne affidata la soprintendenza ai lavori, per ricondurre nei vecchi condotti, l’acqua nella quantità che finora era stata abituale, per la comodità di tutti gli abitanti della zona. Il consiglio però diminuì la cifra da impegnare per i lavori, che passò da 100 a 35 lire 15. Fu probabilmente in questa occasione o durante altri lavori successivi, che vennero affissi sopra gli archi della fonte i sei globi di arenaria, in modo da rappresentare rozzamente lo stemma della famiglia Medici.

Da una deliberazione presa dal Consiglio veniamo a sapere che il 1519 fu un anno caratterizzato da eccessive precipitazioni piovose autunnali, che sicuramente causarono danni e devastazioni nel territorio volterrano, tanto che fu ordinato di compiere elemosine per implorare la fine delle piogge 16.

Dalla seconda metà di questo secolo i lavori alle fonti vennero ridotti al minimo indispensabile; esaminando le filze che riportano i rendiconti dei magistrati “Delle

Dal Medioevo all’Unità d’Italia 133

134 Alessandro Furiesi

Fig. 56 Lo sbocco della fonte di Docciola costruito nel 1520

strade, dei ponti e delle acque”, non troviamo che poche notizie sulla manutenzio-ne ordinaria, ma spesso fra l’impegno ad attuare un lavoro e la fase operativa passò molto tempo, indizio di uno scarso interesse verso questo tipo di opere pubbli-che. Sicuramente l’intervento pubblico fu deliberato solo dove e quando si rendeva necessario. Volterra durante il Cinquecento conobbe un periodo di depressione demografica, raggiungendo con il censimento del 1555 il suo minimo storico di abitanti, pertanto per lungo tempo le fonti già esistenti dovettero risultare sufficien-ti ad approvvigionare i cittadini.

Che il grande numero di sorgenti e di fonti presenti sulla collina fosse sovrabbon-dante rispetto alle effettive necessità della popolazione ce lo dimostrano le descri-zioni di Volterra compiute da politici, storici e geografi che la visitarono durante quei secoli. La più famosa fra queste relazioni è quella che fu scritta dal Giovanni Rondinelli dopo la sua nomina a Capitano avvenuta nel 1580, egli descris-se Volterra come una città ricca di acque sorgive di ottima qualità 17. Nel 1659 Francesco Schott, nel suo Nuovo itinerario d’Italia, evidenzia il fatto che davanti ad ognuna delle cinque porte della città si trovava una “…bella fontana, [che] getta chiare e soavi acque. Poi nella Città due grandi se ne ritrovano…” 18.

Nel 1580, mentre lavorava alla ristrutturazione della Cattedrale di Volterra, i Priori chiesero all’architetto Francesco Capriani, di esaminare la Piscina romana di Castello per controllare se era possibile rimetterla in funzione in modo da costruire una fontana in Piazza dei Priori. Il 16 ottobre di quell’anno il Capriani inviò una lettera al consiglio cittadino nella quale propose di realizzare il progetto che gli era stato ordinato e specificò che era necessaria una spesa di venti o ven-ticinque scudi. Il 26 ottobre il consiglio esaminò questo progetto incaricando il Capriani e Cosimo di Gherardo Fei di sovrintendere ai lavori per la costruzione di questo acquedotto, potendo spendere fino alla somma di 20 scudi 19. Questi lavori però non furono mai compiuti, non sappiamo perché; forse il motivo va cercato in qualche problema tecnico che lievitò i costi al di sopra del limite fissato dai Priori.

Questo tipo di progetto che venne chiesto dai Priori non era destinato solamente alla pubblica utilità, poiché si parla anche di ornamento. Lo scopo a cui era desti-nato era quello di costruire un monumento che servisse anche a decorare la piazza come avveniva in tante altre città italiane dell’epoca. Costruire una fontana artistica in quegli anni non voleva dire però solamente realizzare un’opera destinata al godi-mento della vista, ma adatta anche a fornire acqua. Del resto anche la bellissima Fonte Gaia di Siena o la fontana di Piazza di Perugia erano state costruite secoli prima allo scopo di prendervi acqua; oggi che abbiamo l’acqua nelle nostre case queste strutture sono considerate dei monumenti artistici e chiunque si scandalizze-rebbe se ne usassimo l’acqua per bere o per lavarci.

Questa cisterna romana ha comunque sempre suscitato un notevole interesse e non sono stati pochi quelli che, dopo il Capriani provarono a proporre ai magistrati cittadini che si succedettero nel tempo la sua riutilizzazione per portare acqua alla

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Piazza dei Priori. Nel 1789 Pietro Franchini e Giuseppe Sanfinocchi presentarono all’adunanza di Consiglio Municipale del 2 maggio di quell’anno un progetto per il reimpiego della cisterna. I due ideatori avevano previsto che fosse convogliata nella cisterna l’acqua delle grondaie della Fortezza, che si trovava poco lontano, e che avrebbero garantito un approvvigionamento sufficiente a tutte le necessità. Dalla Piscina altre tubature avrebbero portato l’acqua dalla cisterna fino ad una fontana costruita a ridosso del Palazzo Pretorio e ad un altro abbeveratoio da costruire nel-l’Ortaccio 20. Per il periodo successivo, fino a tutto il ’700, non abbiamo molta documentazione circa le opere pubbliche di carattere idrico. Si trovano soltanto ordinanze riguardanti alcune puliture alle fonti principali. Buona parte della manu-tenzione ordinaria non è documentata a parte, ma si confonde nelle migliaia di decreti che regolavano i lavori pubblici in città.

Durante il periodo del governo francese in Toscana, l’unica occasione in cui furono effettuati lavori di manutenzione alle opere di approvvigionamento idrico della città, sono alcune pulizie e piccoli interventi ordinati dal maire di Volterra il 12 giugno 1811 e compiute ad alcune fonti cittadine 21.

1) Alla fonte di S. Lazzero fu ripulito il condotto che portava l’acqua dalle radici che vi erano entrate. Fu necessario fare due saggi ed entrare nel condotto che venne riparato perché non s’intasasse di nuovo; furono anche riparate le can-nelle. Andava rifatta la fonte sotto il doccio con calcina buona e intonacata con pozzolana e calcina forte, lo stesso nell’abbeveratoio, inoltre fu ordinato anche di rifare la massicciata di fronte alla fonte. La spesa fu di 145 franchi.

2) “Alla fonte di S. Felice va rifatto il condotto per un tratto di 10 braccia con le sue cannelle a calcina forte e pozzolana che si perde tutta l’acqua. Va rifatto tre scaloni ovvero soglie che servano per ascendere al suddetto lavatoio che in tutto la spese di franchi 18. Va ripulita detta fonte abbeveratoio e lavatoio con la spesa di franchi 8”.

3) “Va ripulito labbeveratoio della fonte di Docciola con lavatoio tutti quelli che vi sono con la spesa di franchi 9”.

4) “La fonte di S. Stefano va ripulito labbeveratoio e lavatoio annesso con la spesa di franchi 8”.

5) “La fonte del Pino va ripulito lavatoio e abbeveratoio e rifatto piuolo presso il selciato che non rivano a bere le bestie, franchi 10”.

Lo sviluppo delle opere idriche privateDi pari passo con il diminuito interesse per l’approvvigionamento idrico pub-

blico, aumentò invece quello per il privato. Le norme che prescrivevano contri-buti del comune ai privati che rifossero dotati di cisterne devono avere favorito il proliferarsi di queste opere, ma dato il loro costo elevato solamente le famiglie più ricche devono averne costruite effettivamente. Anche le loro notevoli dimensioni (la capacità minima richiesta per ottenere il contributo comunale era di 500 salme), erano adatte a raccogliere la quantità di pioggia che cadeva dal tetto di un palazzo

signorile, più ampio di quello di abitazioni più modeste.Tutti i palazzi privati della città che furono costruiti dal Quattrocento al secolo

scorso erano dotati di una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana, solamente il palazzo Inghirami, costruito nel 1615, disponeva con certezza di un pozzo. Negli ultimi decenni, dopo che la costruzione dell’acquedotto ha reso inutili pozzi e cisterne, molti di questi furono riempiti ed abbandonati, mentre in molti casi la vera del pozzo è stata coperta da una grata che ha reso inaccessibili queste strutture, pertanto è assai difficile realizzare un censimento completo di queste prese d’acqua e soprattutto riuscire a capire se si tratta di veri pozzi, che pescano direttamente dalla vena, o se si tratta di cisterne per la raccolta dell’acqua piovana.

Il più antico palazzo signorile che possieda un sistema per la raccolta dell’acqua noto, è il Palazzo Minucci Solaini, oggi sede della Pinacoteca comunale, costruito fra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento. L’approvvigionamento del-l’edificio era garantito da una grande cisterna sotterranea ancora oggi esistente, al di sotto del cortile interno. La cisterna è profonda circa otto metri ed è larga quattro e completamente rivestita di mattoni; il prelievo dell’acqua avveniva tramite un pozzo la cui vera è costruita in un angolo del cortile. In questo edificio si può ancora inte-ramente osservare il sistema di raccolta dell’acqua: l’acqua piovana che cadeva sul tetto veniva raccolta da una grondaia disposta al bordo del tetto dalla parte del chiostro 22. Due tubi partivano dalla gronda e finivano in un bacino posto alla sommità di due delle colonne d’angolo del colonnato costruito sottotetto. Le due

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Fig. 57 L’iscrizione che testimonia i lavori compiuti alla fonte di Docciola nel 1520

colonne erano vuote e da esse partivano due condutture che attraversavano le pareti esterne dell’edificio e le colonne del porticato del cortile, arrivando infine nella cisterna dove veniva conservata fino al suo uso.

La vera del pozzo è circolare e il suo profilo, lavorato molto accuratamente, pre-senta una doppia bombatura con curve molto ampie, con una cordonatura a metà altezza; è il tipo di pozzo più presente nelle ville lucchesi ed è ampiamente docu-mentato anche nel senese: si tratta di una tipologia decorativa documentata dagli inizi del XVI secolo e che fu realizzata fino ai primi anni del Seicento 23.

Un’altra vera di pozzo, simile a quella di Palazzo Minucci Solaini è conservata nel cortile di Palazzo Guidi in Via Matteotti, costruito anch’esso tra la fine del ’400 e gli inizi del ’500. la forma è così simile da rendere plausibile l’ipotesi che le due vere siano state ispirate allo stesso modello e realizzate più o meno nello stesso periodo. Anche questa seconda cisterna si trova in un angolo del cortile.

Un altro deposito, venuto recentemente alla luce, è quello che riforniva Palazzo Incontri Viti, costruito probabilmente contemporaneamente al palazzo agli inizi del Seicento (1606), poi abbandonato con la costruzione del Teatro Persio Flacco nel 1820. Questa cisterna presenta alcune caratteristiche affini con quella di Palazzo Minucci: le dimensioni, che sono assai simili (8 metri di profondità per 3,50-4 metri di larghezza), il rivestimento in mattoni e la posizione lievemente decentrata rispetto al centro del cortile del palazzo.

Quest’ultima caratteristica, comune a quasi tutte le strutture di questo tipo che si trovano nei palazzi signorili volterrani e non, è voluta e non è dettata da criteri estetici, ma semplicemente alla funzionalità. Infatti questi depositi erano costruiti a ridosso delle pareti per far sì che fosse possibile attingervi acqua anche dai piani superiori; la prova più evidente la troviamo proprio in Palazzo Minucci Solaini, dove alla balaustra dell’ultimo piano, esattamente al di sopra della vera della cister-na, è conservato un cerchio di ferro fissato in una pietra su cui sono visibili ancora oggi i fori che dovevano ospitare una struttura in ferro o legno destinata ad assi-curare il secchio di legno che veniva calato per prendere acqua. Si trattava di un espediente escogitato per evitare di fare troppa fatica per portare l’acqua nelle stanze dei piani superiori, un tentativo di avere l’acqua a propria disposizione il più vicino possibile a dove era necessaria. Sempre per di agevolare la raccolta dell’acqua ai piani superiori, l’architetto che costruì nel XVII il palazzo Guarnacci collocò la vera della cisterna del cortile proprio a ridosso della parete Est della Torre Toscano, ostruendo in parte una feritoia, in questo caso forse riutilizzando un deposito più antico, probabilmente contemporaneo alle torri.

Un altro esempio, leggermente diverso, di questo espediente è visibile nel Palazzo vescovile di Volterra. Questo palazzo in origine era utilizzato dal Comune come magazzino delle granaglie; nel 1472, dopo la demolizione del palazzo del vescovo in Castello, fu destinato ad ospitare l’autorità ecclesiastica e iniziarono i lavori per tra-sformarlo in un lussuoso edificio residenziale adatto ad ospitare la massima autorità ecclesiastica; i lavori finirono però solamente nel 1618. Contemporaneamente alla trasformazione del palazzo fu costruita una grande cisterna, che forse era preesisten-

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te, il cui pozzo di presa è interno all’edificio; questa si trova nelle cantine del palazzo, ma grazie al condotto, si poteva prendervi acqua da tutti i piani: infatti due apertu-re create a questo scopo sono presenti al pianterreno e all’ultimo piano vicino alle cucine dell’appartamento del vescovo. Anche nel caso di palazzo Incontri-Viti la vera della cisterna comunica con un camino verticale dotato di finestrelle posizionate ad ogni piano dell’edificio, consentendo una facile raccolta dell’acqua.

Così, anche in periodi in cui non era possibile disporre di acqua direttamente nelle abitazioni, esistevano espedienti, come questi che è stato possibile individuare, che consentivano a chi poteva permetterselo, di godere di comodità sconosciute alla maggioranza della popolazione. In altre città, come ad esempio Siena, questo tipo di strutture erano abbastanza comuni, ancora oggi molte abitazioni conservano i pozzi interni o esterni per prendere acqua dai bottini che scorrevano nel sottosuolo di Siena 24.

Anche chiese e monasteri avevano a disposizione riserve idriche per le proprie esigenze, che in caso di necessità potevano essere messe a disposizione della città. La chiesa di S. Giusto, ricostruita nel 1628 sulla collina di Monte Alboino, nella contrada di Prato Marzio, fu dotata di una cisterna, costruita sul lato sinistro della chiesa accanto all’ingresso della sagrestia. In questo deposito erano convogliate le acque piovane precipitate sul tetto della chiesa tramite le grondaie ed altre condut-ture. La cisterna è profonda 14 metri e ha pianta circolare, con un diametro di 2,6 metri.

Quella di S. Giusto è l’unica chiesa cittadina che, a quanto ne sappiamo, era dotata di una presa d’acqua, pozzo o cisterna. Tutti i conventi cittadini ne avevano a disposizione una, infatti, di solito costruita al centro del chiostro, secondo una tipologia estremamente comune per i monasteri.

L’unico convento dotato di un pozzo vero e proprio era quello di S. Girolamo, costruito alla fine del ’400 su progetto dell’architetto Michelozzo, sulle pendici della collina di Poggio alle Croci, in località Velloso. La sua posizione periferica e la sua collocazione a una quota più bassa rispetto al resto della città, furono deter-minanti nel favorire la costruzione di un pozzo che attingesse alla falda acquifera sottostante, che si trovava a pochi metri di profondità. Il pozzo è posto al centro del chiostro, è profondo circa 12 metri e ha un diametro di circa 2 metri.

Un altro convento costruito in questo periodo è quello di S. Lino, ma l’unica cisterna oggi facilmente identificabile è quella che si trova all’interno dell’ala oggi adibita a scuola elementare, di più tarda costruzione.

Sappiamo poi che dei pozzi erano presenti anche presso il convento di S.-Francesco e di S. Dalmazio, attualmente non più individuabili in quanto rico-perti. Non ho potuto, invece, esaminare, il deposito che si trovava nel chiostro dell’ex convento di S. Agostino.

L’edificio religioso di cui abbiamo la maggiore documentazione per questo periodo è la Badia di S. Giusto, presso Montebradoni. La cisterna del convento, da cui i monaci attingevano l’acqua per le necessità quotidiane venne fatta (o rifatta)

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nel 1599, al tempo dell’abate Samuele di Olivo Risaliti ed era in grado di conte-nere 3200 barili (145000 litri circa). Questo deposito si trovava nel chiostro; un documento del 1745 ci informa sulla sua posizione e del fatto che in quell’anno ne fu rifatta la copertura. Altri lavori alla cisterna furono compiuti nel 1763, quando vennero ricostruiti i condotti per portarvi l’acqua e nel 1767, quando fu ripulita.

La Badia era fornita però anche di un’altra cisterna, che serviva per le necessi-tà dell’orto, cisterna che nel 1641 fu resa pubblica e ceduta a Curzio Verani con l’impegno di aprire una finestra per prendervi acqua per un frantoio di proprietà del Verani; essa doveva trovarsi nei pressi dell’abitato di Montebradoni, al confine delle proprietà del convento. L’orto aveva a disposizione anche una peschiera, che fu ricostruita nel 1726, di forma rotonda, disfatta pochi mesi dopo perché non suf-ficientemente impermeabilizzata. Un’altra peschiera fu edificata nel 1760 dietro alla sagrestia e nel 1768 fu interessata da alcuni interventi di manutenzione 25.

La fonte di S. Felice Nel Settecento e Ottocento la fonte di S. Felice assunse importanza presso la popo-

lazione volterrana perché era voce comune che la sua acqua avesse proprietà curati-ve, tanto che nel corso di pochi anni un buon numero di analisi condotte da illu-stri medici cittadini e non 26 confermarono questa diceria sostenendo che nell’acqua erano disciolti sali e minerali in percentuali simili a quelle dell’acqua marina. Così

Fig. 58 Particolare del sistema di raccolta dell’acqua piovana di Palazzo Minucci-Soalini

furono ad essa attribuiti gli stessi benefici dell’acqua marina e fu dichiarata adatta a curare alcune malattie della pelle e intestinali sia tramite bagni che bevendola.

L’uso di quest’acqua purgativa divenne comune fra i volterrani già dalla fine del ’700, ma solamente con i primi anni del secolo successivo l’amministrazione

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Fig. 59 Vera della cisterna di Palazzo Minucci-Solaini

comunale decise di regolamen-tarne la gestione. Fu costruito sul lato destro della fonte medievale un pozzetto per il prelevamento dell’acqua salmastra, separata dal-l’acqua più pura che alimentava la fonte; l’accesso fu limitato e posto sotto il controllo di persone inca-ricate dall’ammministrazione. Vi fu poi apposto uno sportello salda-mente serrato da un catenaccio, la cui chiave inizialmente era tenuta dalla guardia comunale. A partire dal 1834 venne però pagato un apposito fontaniere per provvede-re alla distribuzione dell’acqua, il signor Pietro Lazzeri, di professione commerciante, a cui veniva corri-sposta dal comune la paga di 50.40 lire annue; la popolazione, in base al regolamento comunale, poteva prelevare gratuitamente un fiasco d’acqua soltanto nell’arco di tre ore al giorno, dalle 6 alle 8 di mattina e dalle 23 alle 24 di sera; chi chie-deva più acqua o in orari diversi da quelli stabiliti, doveva pagare 7 cen-tesimi per il diritto di prelievo.

Nel 1854 Luigi Inghirami decise di sfruttare intensamente le proprietà di quest’acqua, costruendo in un suo terreno posto nelle vicinanze della fonte, un edificio destinato ad uso di bagni utilizzando le acque minerali di S.-Felice. In questo bagno, come recitavano i volantini pubblicita-ri diffusi dall’Ing hirami, potevano essere fatti bagni non solo con l’ac-qua di S. Felice, ma anche con acqua

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Fig. 60 Assonometria della cisterna di Palazzo Vescovile (Disegno di Claudio Antonelli)

A: cisterna

B: pozzo

C: finestre per prendere l’acqua

D: pianerottolo con ringhiera

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Fig. 61 Vera della cisterna di palazzo Guidi

dolce ed acqua sulfurea artificiale. Secondo quanto scri ve Annibale Cin ci nella sua Guida di Volterra, lo stabilimento bal neare è stato aperto regolarmente ogni anno dal 1854 fino almeno al 1885-27.

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Fig. 62 Vera della cisterna presso la torre Toscano

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Fig. 63 Vera della cisterna del Conservatorio di S. Pietro

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Fig. 64 Panorama delle fonti di S. Felice

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NOTE

1) ASCV, A NERA 16, De constructore Fontis de Selice, c. 353 v.2) ASCV, A nera 16, c. 382 v.3) ASCV, A nera 16, quad. XV, c. 5 v., 30 ottobre 1359.4) ASCV, A nera 22, I, c. 50 r. e c. 61 v.; Bat t ist ini 1921, p. 12.5) ASCV, A nera 18, cap. VII, De salario facientium cisternam in civitate Vulterrae c. 132 r. e v.6) ASCV, Pergamene di Badia, n. 933, 20 novembre 1364.7) ASCV, A nera 18, cap. LXXXXI, Quod qui recolligent aquam pluvialem in extatem eam in yeme recolligere teneatur, c.163 r.8) ASCV, A nera 18, cap. LXXXXII, De pena destruendis sedilia comunis, c. 70 v.; cap. CVI, De pena illi fecerit necessarium in muro comunali vel qui labitur in via, cc. 73 v. e r.; cap. CXVIIII, De pena illi qui proicerit aquam putridam in via, c. 75 v.; cap. LXXXVII, De pena lavantis pannos in fonte aut in abeveratorio aut aliqua putredinem ibi aut iuxta facientis, c. 162 v.; cap. C, De aqua pluvia qua labitur per viam novam de S. Angelo et aliis operis pluvialibus, c. 164 v.9) ASCV, A nera 71, c. 48 v., 6 dicembre 1514.10) ASCV, A nera 71, c. 73 r., 27 ottobre 1515.11) ASCV, A nera 71, c. 168 v., 26 ottobre 1518.12) L’iscrizione dice: Restaurata per / Roberto di Giova/nni di Federigo de / Ricci cap(itanus) MDXX (Cont ug i Serguidi, p. 40; Bat t ist ini 1921, p. 22; Cac iag l i 1995, p. 27).13) ASCV, A nera 71, c. 191 r., 17 giugno 1519.14) ASCV, A nera 71, c. 321 v., 17 giugno 1523. 15) ASCV, A nera 71, c. 323 r., 25 giugno 1523.16) ASCV, A nera 71, c. 208 v., 23 novembre 1519.17) “…molta copia et abbondanza dell’acque vive, alla fertilità del paese, et alla vicinità del mare; le quali cose tutt’insieme, e ciascuna per se furono dai primi abitatori e facitori di Volterra con sin-golarissimo sentimento vedute…”, in Mar r ucc i 1992, pp. 127-128 l’autore torna a magnificare le fonti di Volterra poco più avanti, in Mar r ucc i 1992, p. 130.18) Mar r ucc i 1992, p. 61.19) Cinc i 1885a, Francesco Capriani, pp. 8-10.20) Bat t ist ini 1921, p.46.21) ASCV, X nera 36, 12 giugno 1811, “Pulizia delle fonti presso la città di Volterra di fuori e di dentro”.22) Il tetto è inclinato in maniera tale che la maggior parte dell’acqua cada verso il cortile.23) Altri pozzi simili sono quelli dei palazzi Sbarra, Spada, Balbani e di villa Burlamacchi di Lucca, nonché quello dell’Abbazia di Sant’Antimo in provincia di Siena (Toniet t i 1987, p.-325).24) Ser ini 1998, pp. 114-116 e144-149.25) ASCV, Archivio di Badia, Ricordi S 3, 6, 12 e T 82.26) Sono numerose le analisi compiute sulle acque e sono tutte elencate in Bat t ist ini 1921,pp. 22-23; fra le altre vennero notate quelle del 1769 effettuata da Saverio Manetti e Iacopo Pagnini, quella del 1783 di Francesco Marmocchi e Ottaviano Vigilanti, e quella del dottor Antonio Raikem del 1822. L’unica pubblicata è quella di A. Cozzi, Cozzi 1858.27) Cinc i 1885 b, p. 166-167.

DALL’UNITÀ D’ITALIA ALLA COSTRUZIONE DELL’ACQUEDOTTO

Per Volterra il periodo che va dall’Unità d’Italia alla Seconda Guerra Mondiale è un periodo molto importante e ricco di avvenimenti significativi nel campo dell’edilizia e delle opere pubbliche. Nel 1846 un violento terremoto sconvolse la città distruggen-do o lesionando gravemente decine di abitazioni private e edifici pubblici, compreso il Palazzo dei Priori di cui fu demolita la torre campanaria. La ricostruzione dei monu-menti iniziò solamente dopo il 1860 e fu in seguito a questa circostanza che la Piazza dei Priori assunse l’aspetto che vediamo ancora oggi. Si può senz’altro dire che, a parte alcuni casi, l’assetto urbanistico e architettonico della città venne completato nel corso di quegli anni; dopo di allora lo sviluppo urbanistico interessò solamente le aree periferiche, mentre nel centro gli edifici non vennero più modificati.

In seguito alle riforme amministrative del 1865 Volterra fu inserita nella provincia di Pisa come capoluogo di un vasto circondario gestito da un sottoprefetto 1, divenne sede di un tribunale, di numerosi uffici amministrativi e ospitò una caserma militare. L’incremento demografico di questi anni fu dovuto sicuramente alla rinnovata impor-tanza amministrativa della città, ma anche ad una favorevole congiuntura economica, dovuta alla rinascita dell’industria dell’alabastro che, pur alternando periodi di crisi e di sviluppo, tornò ad occupare un notevole numero di operai. Inoltre le varie amministra-zioni che si succedettero da allora nel governo della città, progressiste, liberali, socialiste, fasciste, adottarono come politica il favorire la realizzazione di lavori pubblici. Uno dei sindaci che professò maggiormente questo tipo di politica fu Niccolò Maffei (1865-1866 e 1879-1882), il primo ad essere eletto sindaco dopo le riforme del 1865 2.

Con l’inizio del nuovo secolo, l’espansione dell’Ospedale Psichiatrico e la costruzio-ne di una ferrovia che collegava Volterra con la costa, costituirono ulteriori incentivi alla crescita economica, che subì un brusco arresto alla fine degli anni Venti. Infatti fra 1924 ed il 1927 vennero trasferiti numerosi uffici pubblici che finora avevano la sede a Volterra: la Procura, il Tribunale, la Sottoprefettura, il Catasto, ecc. Un notevole con-traccolpo subirono lo sviluppo dell’alabastro e tutte le attività produttive per la crisi del 1929 alla quale il governo fascista reagì con una politica di lavori pubblici che però non coinvolsero Volterra. Solo con il 1931 si cominciò ad assorbire disoccupati grazie a due istituzioni locali: l’Ospedale Psichiatrico e il Consorzio di Bonifica della Valdera 3.

I problemi di approvvigionamento idrico della cittàIl periodo fra il 1870 e il 1914 è caratterizzato da un rinnovato interesse da parte

dell’amministrazione comunale per risolvere i problemi di approvvigionamento idrico della città di Volterra. L’aumento demografico avvenuto sul finire del secolo scorso e continuato fino alla Seconda Guerra Mondiale si verificò nel periodo in cui si ebbe una serie di giunte comunali di stampo liberale e socialista che fecero

propria una politica di opere pubbliche per la città ed il territorio. Fra quelle più sentite dalla popolazione e ritenute più necessarie rientrarono quelle destinate a risolvere i problemi idrici di cui soffriva la città, che negli ultimi tempi si erano aggravati per il susseguirsi di annate di siccità. Dal 1881 siamo anche in grado di conoscere con precisione la quantità di pioggia grazie alla creazione di una stazione pluviometrica a Volterra.

Questo periodo è inoltre segnato dalla riscoperta del decoro urbano che portò come conseguenza il desiderio, da parte dei volterrani, di sentirsi alla pari con le altre città italiane. Fu così che si iniziò a pensare alla creazione di quelli che oggi sono piccoli lussi, ma che in quegli anni erano invece aspirazioni difficili da realiz-zare, la possibilità per ogni cittadino di avere acqua fresca e pura il più vicino possi-bile alla propria abitazione, uno dei desideri più fervidi.

Il primo tentativo di poter disporre di acqua sufficiente ai fabbisogni della popolazione venne attuato utilizzando gli impianti tradizionali, i pozzi, le cister-ne e le fonti. Queste ultime si trovavano per lo più in periferia, in zone che fino agli anni Trenta di questo secolo erano scarsamente abitati; gli abitanti dei borghi di S. Lazzero, S. Alessandro, S. Stefano e S. Giusto avevano a disposizione sor-genti e fonti che potevano soddisfare il fabbisogno di tutta la popolazione, ma di cui purtroppo non era facile riuscire a garantire la manutenzione. Spesso le acque erano inquinate dalle infiltrazioni di liquami, provenienti dalle fogne e dai pozzi neri, o dall’incuria di alcuni abitanti che vi buttavano la spazzatura; in questi casi il comune doveva intervenire per ripulirle, ma spesso le lentezze burocratiche allunga-vano i tempi dei lavori con conseguenti disagi per i cittadini.

Sappiamo ad esempio che il 28 luglio del 1881 fu ripulito il condotto della fonte di S. Lazzero perché invaso da terra e radici di piante che erano penetrate nelle con-nessure del condotto e avevano inquinato l’acqua; a segnalare il probabile motivo del guasto era stato il proprietario di una cantina scavata accanto al condotto, il quale aveva notato uno stillicidio dalla parete posta a contatto con la tubazione 4. La circostanza che in questo caso il guasto sia stato segnalato da un cittadino ci fa supporre che probabilmente il comune non organizzava ispezioni periodiche a queste fonti (al contrario di quanto previsto per i pozzi pubblici del centro città), ma si affidava alla buona volontà degli abitanti, in quanto era solo prevista una pulizia settimanale da parte degli spazzini comunali, che però si limitavano a ripuli-re le vasche e il piazzale antistante dalla sporcizia più evidente 5.

I principali problemi alle fonti erano causati dagli eventuali spostamenti delle sorgenti che si potevano verificare dopo annate troppo piovose o di siccità, come fu ad esempio il 1883; questa siccità comportò che le sorgenti della fonte del Velloso si abbassassero di quota, pertanto il 26 settembre dell’anno successivo l’ingegne-re comunale preparò un progetto per l’abbassamento del livello dei condotti e del deposito d’acqua. Nella relazione che accompagna questa inchiesta l’ingegnere sottolinea il fatto che nonostante l’abbassamento di livello, la quantità di acqua che sgorgava dalla fonte sarebbe stata sufficiente per il fabbisogno degli abitanti del borgo, se non ci fosse stato un prelievo massiccio e continuo da parte di molte

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persone che venivano a prendere acqua con i carri e le botti anche da altre località, perché in quegli anni quella era l’unica facilmente accessibile ai mezzi 6.

Il borgo di S. Lazzero era approvvigionato da due fonti. La prima era quella del Velloso, che si trovava lungo la strada per S. Girolamo; come possiamo vedere da una vecchia fotografia, in quegli anni era diversa da come si presenta oggi 7. Della fonte illustrata nella foto rimane solamente l’arco che copriva la vasca in cui veniva raccolta l’acqua che sgorgava dalla sorgente, oggi non più esistente. Da questa vasca l’acqua si versava poi in altri due bacini, utilizzati come lavatoio, costruiti dall’altro lato della via carrozzabile, tramite una tubatura che correva sotto quest’ultima; un muro separava i lavatoi dalla strada per proteggere le lavandaie dalla polvere solleva-ta dai carretti e dai viandanti.

Altri lavori alla fonte del Velloso sono documentati nel 1899, quando venne rifatto il serbatoio sotterraneo di raccolta delle acque 8, nel 1902 e nel 1903. Nel 1902 le piogge invernali dovevano avere causato una frana del condotto sotterra-neo della fonte, visto che il primo maggio di quell’anno l’ingegnere riferisce che gli spazzini, durante la ripulitura settimanale della zona, avevano tolto dalla vasca una quantità di sabbione superiore a quella consentita, la stessa osservazione viene fatta il 30 giugno successivo dagli abitanti di S. Girolamo, che notarono come l’acqua fosse piuttosto torba e poco abbondante 9.

L’abitato di S. Lazzero era servito anche da una seconda fonte omonima, che sgorgava dalle pendici di Poggio alle Croci, in un punto vicino a quello dove oggi c’è la fontanella coperta dal ponte della ferrovia 10. Anche questa fonte era spesso soggetta ad interventi causati dalla siccità o dalle frane. Sappiamo che il doccio era protetto da una copertura, ma l’arco era fortemente danneggiato, tanto che fu necessario ripararlo nel 1890 11. L’anno dopo fu riparato l’abbeveratoio e nel 1904 vi vennero fatti altri lavori non meglio precisati 12.

Le due sorgenti del Borgo S. Lazzero furono interessate nel 1903 da dei lavori di risistemazione che si protrassero per diversi mesi: da marzo a novembre. La durata dei lavori, che sembrerebbe eccessiva, era dovuta all’effettiva difficoltà nell’operare su quelle due fonti, soprattutto su quella di S. Lazzero, particolarmente problema-tica in quanto sgorgava al di sotto di un masso e aveva un grottino così piccolo che non vi si poteva lavorare. Dopo vari tentativi, tutti infruttuosi, a novembre l’in-gegnere comunale decise di cercare acqua in un’altra zona e di condurla all’antico grottino con una nuova galleria 13.

Il Borgo di S. Giusto era ugualmente rifornito da due sorgenti poste però ad una certa distanza dall’abitato: le fonti di Mandringa e della Frana. La fonte di Mandringa nel periodo qui esaminato fu interessata solamente da interventi di manutenzione ordinaria, l’unica opera straordinaria fu intrapresa nel 1885, quando furono ricontrollati il condotto ed il serbatoio perché dalla cannella scaturiva acqua in misura minore del consueto 14. Mandringa, insieme alla fonte del Velloso, era la sorgente più pura e forniva l’acqua migliore di tutta Volterra: il motivo va sicura-mente cercato nel fatto che entrambe prendevano acqua da aree non edificate della collina, quindi meno soggette ad infiltrazioni di liquami nella falda acquifera.

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La fonte della Frana, che era straordinariamente abbondante (nel 1877 aveva una portata di 86.400 litri al giorno 15) fu interessata invece da numerosi interventi a partire dal 1885, quando vi furono costruiti i lavatoi. Dalla relazione del 13 maggio di quell’anno che accompagna il progetto, sappiamo che l’intervento fu necessario perché delle tre vene che alimentavano la Frana, ne era rimasta attiva una sola in quanto la fonte da tempo era guasta; anche se si manteneva sempre la più copiosa di Volterra. Una di queste vene aveva trovato un’altra uscita, a circa quindici metri di distanza dalla conserva, in un terreno privato e l’acqua veniva indebitamente usata per innaffiare l’orto 16. La costruzione del nuovo lavatoio fu appaltata alla ditta edile Filippo Barbafiera, che doveva costruire le vasche del lavatoio, il condotto di addu-zione, la fogna di scarico e, per la comodità delle lavandaie, selciare il terreno tut-t’intorno alle vasche. L’ingegnere comunale decise anche di risistemare la piazzetta antistante e di ribassare la strada per potervi venire ad attingere acqua con i carri. Il 4 maggio, prima di iniziare i lavori vennero demoliti alcuni macigni dalla parete della collina soprastante la fonte della Frana. Il lavoro fu terminato il 13 maggio di quel-l’anno, nei tempi previsti dal capitolato di appalto. Altri lavori vi furono compiuti nel 1897, anno in cui una frana ostruì il lavatoio e pertanto si rese necessario riaprire il condotto. Anche questo guasto fu segnalato dai cittadini del borgo 17.

Il Borgo di S. Alessandro aveva a disposizione la fonte del Pino, che non ha mai avuto bisogno di grossi interventi da parte dell’amministrazione comunale, salvo nel 1934, quando alcuni danni al serbatoio portarono alla diminuzione della portata d’acqua. I lavori furono compiuti il 19 ottobre di quell’anno e costarono 222 lire per la manodopera 18. Poco lontano, lungo la SS 68 si trova la fonte di Fontanella, il 30 aprile del 1886 il Consiglio Comunale deliberò di costruire un condotto praticabile alla fonte di Fontanella. La perizia fu eseguita il 3 luglio di quell’anno specificando che “il condotto verrà eseguito dal doccio della prima con-serva che è distante da questa m 40 e sarà largo m 0.60 e alto m 1.00 coperto con volta reale rinfiancata e impiantito nel fondo. Nell’interno del condotto vi sarà costruito un sodo di muramento accanto ad uno dei muri di fianco per quanto è lungo il condotto e questo sodo dovrà contenere una fila di tegole murate che comunicheranno con una estremità col foro della conserva e coll’altra col doccio. Alla metà circa del condotto vi sarà fatto un pozzetto con chiusino per poter scen-dere a visitare il condotto” 19.

Il borgo di S. Stefano era l’unico ad avere una sola fonte a disposizione, quella di S. Stefano, interessata da pochi lavori, nel 1888 e nel 1890, soprattutto alla fogna di scarico 20; i lavori del 1888 prevedevano la ricostruzione del lavatoio, ma furono compiuti malamente, tanto che nel vecchio muro si verificò un’infiltrazione che costrinse, pochi giorni dopo, a programmare un nuovo intervento. Il 4 maggio 1906 un’ordinanza comunale notificava che veniva vietato lavare animali nel lava-toio di S. Stefano, in quanto destinato all’unico uso di lavaggio biancheria 21.

Anche la zona di S. Andrea era servita da una fonte: quella di Porta Marcoli, che non necessitò mai di grandi interventi salvo che nell’agosto del 1934, quando si riscon-trò che veniva sovente inquinata dalle acque piovane trasportate dalle fosse stradali in

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caso di acquazzone perché il pozzetto di raccolta dell’acqua che sgorgava da un grottino sotterraneo poteva subire delle infiltrazioni, non essendo il coperchio a tenuta stagna. Fu così costruito un muretto a tenuta che isolò lo spazio del pozzetto 22.

Per rifornire d’acqua il centro cittadino, vennero utilizzati alcuni pozzi e cisterne di proprietà pubblica e privata sparsi un po’ per tutta la città destinati con ordinan-ze del Sindaco ad uso della popolazione. L’idea di sfruttare queste strutture nacque poco dopo il 1870 e si concretizzò nell’ottobre 1874 quando il comune deliberò di attrezzare con pompe a mano il pozzo del museo e il pozzo di Nello che si trovava in Palazzo Inghirami. Questi due, insieme a quello di casa Melani (Via Gramsci 16), erano probabilmente gli unici pozzi esistenti a Volterra, sicuramente i più ricchi, che pescavano direttamente dalla falda. Il pozzo del Museo pescava a 6.50 m di profon-dità, portando acqua tramite la pompa alla cannella che era collocata in un vano lungo via di Porta Marcoli, pochi anni dopo fu collocato un altro tubo che pescava in una seconda cisterna 24; il pozzo di Nello era nella corte di Palazzo Inghirami 23, era profondo 8 m, portava acqua direttamente ad una pompa posta sulla Piazza dei Ponti, addossata a Palazzo Inghirami, da cui la popolazione poteva attingere acqua. Il pozzo del Museo era di proprietà comunale e pertanto il comune poteva farne quello che voleva, ma per ottenere l’uso di quello della famiglia Inghirami dovette esserne formalizzata la concessione, firmata il 14 dicembre 1876 e di durata venticinquen-nale; a quanto sappiamo fu confermata solo una volta, nel 1900 25.

Le pompe vennero collocate nell’aprile 1875 ed il 2 settembre 1876, con una

Dall’Unità d’Italia alla costruzione dell’acquedotto 153

Fig. 65 Particolare della fonte del Velloso

ordinanza comunale fu deciso di stabilire un orario di fruizione: la cittadinanza poteva prendere acqua solamente dalle 8 alle 10 di mattina in inverno e dalle 7 alle 9 nelle altre stagioni, poi dalle 11 alle 12.30 e dalle 23 alle 24 26

L’anno successivo furono rese accessibili altre due pompe, una collocata sotto la volta dell’andito di ingresso dell’edificio dei Pubblici Macelli e l’altra in Piazza San Giovanni, che pescava dalla cisterna di Canonica; con deliberazione del Consiglio Comunale n. 47 del 2 settembre 1878 fu deciso di acquistare quattro pompe, due da mettere al posto di quelle esistenti e due a quelle nuove. Le pompe erano a mano e, tramite uno stantuffo potevano far salire l’acqua dai tubi che pescavano nelle riserve a cui erano collegate. A vendere le pompe fu la ditta Coppini di Firenze che ottenne anche la concessione per la loro manutenzione 27.

Queste prese però non bastavano e pertanto fu proposto dall’ufficio tecnico comunale di prevedere nel bilancio 1892 la spesa per la costruzione di tre nuove cisterne pubbliche della capacità di 5000 barili ciascuna, da edificare in Via del-l’Ortaccio, presso la chiesa di S. Cristoforo e presso la chiesa di S. Agostino; per ciascuna era prevista la spesa di L. 4356,19. Questa proposta non fu approva-ta, ma il consiglio comunale cercò di risolvere il problema attrezzando per l’uso pubblico anche la cisterna che si trovava nel cortile di Palazzo dei Priori, che era stata restaurata nel 1886, collocandovi una pompa a mano alla fine del 1891 28. Nel 1892, per provvedere alle necessità degli abitanti della zona di S. Francesco, fu chiesta alla Curia la disponibilità a cedere in uso la cisterna della chiesa di S. Francesco. Alla risposta affermativa delle autorità ecclesiastiche, fu stipulato un contratto di affitto con l’unica condizione che il parroco della suddetta chiesa godesse dell’usufrutto dell’acqua proveniente da detta cisterna 29. Il 23 settembre 1895 fu proposto di acquistare la cisterna, in modo da poter pagare 900 lire per i necessari interventi di restauro sulla struttura 30.

Fra tutte queste strutture quella che creava maggiori problemi era la cisterna di canonica, un grande deposito sotterraneo costruito al di sotto del giardino nel chio-stro del Palazzo Vescovile, ancora oggi esistente, ma da cui non viene più prelevata l’acqua; raccoglie ancora oggi l’acqua proveniente dai tetti del Duomo e del Palazzo Vescovile, ha pianta quadrata con i lati di m 6 15, è alta m 5 e contiene circa 400 metri cubi d’acqua. La cisterna serviva ad alimentare una cannella posta in Piazza S. Giovanni dove, tramite una pompa a mano, la cittadinanza poteva attingere acqua. Prima dei restauri del 1889, che la rivestirono completamente di cemento imper-meabile, era realizzata a bozze, con il pavimento in pietre. Il 13 ottobre del 1883, su segnalazione di alcuni cittadini, l’ingegnere comunale si recò ad ispezionare la struttura scoprendo che dal tetto erano caduti al suo interno dei topi, forse dopo l’ultimo temporale, che vi erano morti e poi andati in putrefazione. L’ingegnere fece ripulire la cisterna e provvide a farvi mettere una grata in ferro per rendere facili le pulizie e per dare luce alla cisterna stessa.

Il 18 novembre 1887 il comune dette il via ai lavori per il restauro della cisterna per evitare problemi di inquinamento, che furono compiuti solamente il 2 dicem-bre del 1889. Questi lavori non dovettero essere fatti a regola d’arte se undici anni

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dopo, il 19 aprile del 1900 31, l’acqua della cisterna di canonica venne dichiarata non potabile e pertanto, su decreto del sindaco, destinata ai soli usi di lavanderia. Vista la situazione il 19 luglio il consiglio dell’ospeda-le di S. Giovanni fece domanda al comune per ottenere la concessione dell’acqua per la lavan-deria dell’ospedale 32.

Una cisterna che non era pubblica, ma che serviva numerosi uffici e famiglie era quella di Palazzo Pretorio, utilizza-ta dalla sottoprefettura e dalla famiglia del sotto-prefetto, dalle carceri giu-diziarie e dal Tribunale. Questa cisterna si trovava nel cortile del palazzo, ma secondo quanto scrive un ispettore del Genio Civile nel 1904, non era igieni-camente sicura, in quanto aveva una bocca di oltre 1,50 m dalla quale l’acqua veniva presa con dei secchi direttamente dalle

finestre 33, le stesse da cui si gettava abitualmente la spazzatura. Inoltre nello stesso cortile, a poca distanza, si trovava un pozzo nero. Il Genio Civile propose di abbattere i piccioni che lordavano l’acqua e di prendere tutte le misure igieniche necessarie per ripulire la cisterna e rendere l’acqua potabile, isolando il pozzo nero che spesso faceva filtrare i liquami. Pochi mesi dopo, in seguito anche alle numerose proteste da parte degli uffici presenti nel palazzo, il comune provvide ai necessari restauri 34. La cisterna fu però chiusa definitivamente nel 1914 35.

La creazione di questi punti da cui poter attingere acqua non risolse il problema della sete di Volterra, però riuscì a alleviare i disagi per i cittadini. L’acqua di queste cisterne e pozzi non era pura come quella di sorgente, ma i Volterrani c’erano abi-

Dall’Unità d’Italia alla costruzione dell’acquedotto 155

Fig. 66 Fonte e lavatoi della Frana

tuati; infatti fino ai primi decenni di questo secolo gli abitanti di molte città italia-ne (e in alcune parti del mondo ancora oggi) erano abituati a bere anche l’acqua che oggi definiremmo sub-potabile, cioè acqua lievemente torbida o con sapori più forti di quelli a cui siamo oggi abituati. Esaminando i documenti dell’Archivio Comunale di Volterra, ho trovato una lettera dell’ufficiale sanitario di Volterra che rispondeva ad un querelante il quale aveva chiesto in che condizioni fosse l’acqua proveniente da una cisterna. Secondo l’ufficiale sanitario questa persona doveva essere immigrata di recente “perché le acque di Volterra sono abbastanza scarse e non sono paragonabili a quelle pure che ci sono in città”, aggiungendo che nelle acque delle cisterne cittadine erano presenti dei piccoli crostacei chiamati bacheroz-zoli, totalmente innocui alla salute e in numero così abbondante che faceva stupore il non trovarne 36.

Il sentimento che prevaleva nei Volterrani era l’umiliazione del sentirsi costret-ti ad usare metodi “primitivi” per avere acqua quando “molte città italiane già si sono dotate di capaci acquedotti” 37, mescolata talvolta alla rabbia di fronte all’im-possibilità del Comune di provvedere a questo bisogno. Il 7 giugno 1890 alcuni cittadini chiesero al Comune di far aprire la cannella di Piazza dei Ponti, che era accessibile solo la mattina dalle 7 alle 10, anche dopo pranzo, dalle 5 alle 8, per poter bere un bicchiere di acqua fresca la sera durante la passeggiata sui Ponti 38. Leggere questa lettera è estremamente toccante, perché oggi, che possiamo disporre dell’acqua quando e come vogliamo e in quantità tale da poterla sprecare a volontà, non ci rendiamo a sufficienza conto di cosa voglia veramente dire avere sete e che lusso fosse il poter disporre di un bicchiere di acqua fresca da sorseggiare in estate o la sera durante la passeggiata. E ancora, in un periodo in cui la povera gente mangiava per lo più legumi secchi, non tutta l’acqua potabile era adatta a cuocerli adeguatamente, pertanto si dovette affrontare anche questo problema, di non facile soluzione, che si sommava ai problemi già ricordati.

Il 1903 fu un anno di siccità; l’acqua era talmente scarsa che il sindaco dovette ricorrere a delle misure straordinarie, limitando l’uso delle pubbliche fonti e con-sentendo alla popolazione di attingere acqua alla pompa della scuola di S. Lino durante l’estate quando questa era chiusa. Il 29 luglio del 1903 una lettera del sottoprefetto al sindaco informa che per il giorno dopo erano previste delle mani-festazioni di piazza da parte degli abitanti di Borgo S. Lazzero per protestare contro la mancanza di acqua. Rammaricandosi che i cittadini avessero ragione, pur temendo per l’ordine pubblico, il sottoprefetto invitava il sindaco a eliminare la fonte del malcontento. La manifestazione si svolse però con civiltà e fu anche promossa una lista di firme di protesta a cui aderirono oltre 100 persone 39.

Per risolvere almeno temporaneamente il problema di S. Lazzero il sindaco chiese la collaborazione del comandante del 10° reggimento di fanteria stazionato in for-tezza, pregandolo di consentire alla popolazione di attingere acqua dalla cisterna che si trovava sotto il suo controllo. L’8 settembre il comandante deve però riferire al sindaco che non può distribuire l’acqua alla popolazione, come già concordato, perché delle due cisterne presenti nella caserma una è vuota e quindi, per timore di

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Fig. 68 Vera della cisterna del chiostro di Palazzo Vescovile

privarne anche la guarnigione è costretto a limitare a quel giorno e all’indomani la possibilità di prendere acqua alla popolazione 40.

Le fonti di S. FeliceUn’area che nel secolo scorso fu particolarmente interessata da lavori di ristruttu-

razione fu quella delle fonti di S. Felice. Qui si trovava la cannella di acqua purga-tiva di cui si riforniva abitualmente la popolazione e che era alimentata dalla stessa sorgente che riforniva il bagno 41.

Nel 1868 fu aggiunta una pila di pietra e rifatta la serratura che proteggeva la cannella per impedirne il prelievo incontrollato: era infatti consentito prendere acqua solamente per poche ore al giorno e sotto la sorveglianza di un custode. Il custode era il signor Pietro Lazzeri, nominato nel 1834 e che continuò almeno fino al 1870 a controllare la distribuzione dell’acqua 42. Fino al 1870 l’acqua poteva essere attinta gratuitamente per tre ore al giorno, dalle 6 alle 8 di mattina e dalle 23 alle 24 di sera; nel 1871 il sindaco dispose che la distribuzione di acqua purgativa gratuita alla fonte di S. Felice fosse portata a quattro ore al giorno: la mattina dalle 6 alle 9 e la sera dalle 23 alle 24. Coloro che si presentavano ad altre ore dovevano pagare al custode il diritto di 7 centesimi per ogni quantità di acqua non maggiore di litri 2,5 43.

Nel 1870 fu restaurata la cannella dell’acqua purgativa che era stata rotta già da qualche tempo. L’anno dopo l’ingegner Guerrieri propose altri lavori alla fonte, fra cui la chiusura della porta inferiore, che passa sotto alla strada detta “suburbana del Poggio Volterrano”.

Nell’area della fonte medievale si trovavano in quegli anni, oltre alla cannella dell’acqua purgativa, un lavatoio, che era la vecchia struttura del 1319 coperta dal-l’arcata, e un abbeveratoio di acqua dolce, costruito sul fianco sinistro della fonte, addossato al muro a retta della collina. Nel 1869 le gelate del mese di gennaio avevano causato la rottura dei condotti per l’immissione dell’acqua e per lo scolo delle acque sporche al lavatoio di S. Felice che furono riparate dall’amministrazione comunale alla fine di febbraio.

A partire dal 1888 si cominciò a sistemare l’area in maniera più congrua e comoda per gli utenti. L’ingegnere comunale propose, il 10 aprile 1888, di spostare il lavatoio di S. Felice all’esterno delle mura. Il Consiglio Comunale deliberò di risistemare l’area di S. Felice il 18 luglio 1888; gli scopi erano: costruire un nuovo lavatoio più utile alle lavandaie, dividendo la sorgente dell’acqua dolce da quella dell’acqua salata, cercare di ottenere una maggior quantità di acqua e di risistema-re lo spiazzo antistante la fonte eliminando anche il cattivo odore proveniente dal vecchio lavatoio. Con delibera del 10 luglio furono stanziate £. 3752.12, per lavori di muratura, 214.40 per lavori di magnano e £. 197.32 per indennità di suolo da pagare ai proprietari 44.

Il lavatoio che venne costruito in quell’anno è quello ancora oggi visibile al di fuori della porta di S. Felice, la vasca per il lavaggio era di 7,50 X 4.70 m. ed era

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160 Alessandro Furiesi

Fig. 69 Planimetria ottocentesca con la cisterna del Palazzo Vescovile e l’annessa fontanella

possibile accedervi da tutti e quattro i lati, per la comodità delle lavandaie venne lastricato il terreno intorno alla vasca e il tutto fu coperto da una tettoia sostenuta da due volte a crociera; l’acqua vi veniva portata tramite un condotto che partiva dalla vecchia fonte. I lavori furono compiuti nel corso dell’anno, ma nel 1889 fu necessa-rio rimettere le mani all’opera perché non tutti i lavori furono eseguiti correttamen-te, in particolare furono costretti a rifare la gronda del tetto del nuovo lavatoio 45.

Nel 1891 il Comune chiese alla provincia di Pisa di mettere a disposizione l’in-gegnere dell’Amministrazione Provinciale per approntare il progetto di sistemazio-ne dell’intera area di S. Felice sia all’interno che all’esterno delle mura. Secondo il progetto di questo ingegnere il primo lavoro era quello di separare le acque dolci da quelle salate che confluivano nella vasca della fonte medievale. Per questo motivo fu costruito, all’interno del bacino, un muretto che era in grado di separare l’acqua di una sorgente dall’altra. Dal punto di raccolta dell’acqua salata e dalla vasca par-tivano due condutture, dalla prima quella per l’acqua purgativa e dall’altra quella per l’acqua dolce. L’acqua dolce, veniva immessa nel nuovo lavatoio costruito pochi anni prima fuori delle mura, mentre quella salata veniva inviata nel nuovo edificio destinato alla distribuzione, eretto pochi metri di fronte alla porta inferiore di S. Felice e al di sopra della cisterna romana che serviva ad approvvigionare le terme poste poco più in basso 46.

Fu anche spianata e risistemata l’area racchiusa dai nuovi edifici. Alcune indica-zioni date dall’ingegnere provinciale nel suo progetto non vennero eseguite, come il suggerimento di chiudere con pareti di mattoni il vecchio lavatoio della fonte medievale e il consolidamento del tetto della concimaia sottostante l’edificio per la presa dell’acqua purgativa (la concimaia era la cisterna romana). Le opere furono appaltate alla Operaia Cooperativa Costruttrice di Volterra e i lavori vennero con-clusi il primo gennaio del 1893 47.

Il 13 febbraio del 1895, in seguito alle forti nevicate cadute nel gennaio di quell’anno, il tetto del lavatoio di S. Felice rimase fortemente lesionato e l’ufficio tecnico del Comune propose di rimetterlo in sesto 48. Ma evidentemente i lavori non vennero fatti correttamente perché fu necessario rifare nuovamente la tettoia al lavatoio nel 1901, la gara d’appalto venne condotta il 26 ottobre di quell’anno, ma nel febbraio dell’anno successivo i lavori non erano ancora compiuti, tanto che fu necessario sostenere altre spese per la sua realizzazione 49.

Il 15 luglio del 1932 il Comune decide di chiudere l’acqua purgativa di S. Felice perché era inquinata e di provvedere alle riparazioni dei condotti, lavori, questi, che furono completati il 30 agosto del 1932 50. A partire da quell’anno il comune non si interessò più della distribuzione dell’acqua purgativa.

Furti d’acqua e problemi di dirittiUna situazione come quella volterrana, caratterizzata dalla scarsità d’acqua, da

frequenti annate di siccità e da forti problemi di distribuzione rendeva molto fre-quenti i problemi riguardanti i diritti di utilizzo, i furti di acqua e tutti gli abusi di

Dall’Unità d’Italia alla costruzione dell’acquedotto 161

questo prezioso bene.Il primo abuso ai danni di una fonte che sia rimasto documentato avvenne nel

1878 in base a quanto ci viene ricordato da una relazione dell’ingegnere comunale Guerrieri. Il sig. Stefano Gazzarri era proprietario del luogo (con questo termine sono chiamati molti piccoli poderi caratteristici delle campagne suburbane di Volterra) posto accanto alla Fonte all’Agnello, che era pubblica, dove fece dei lavori abusivi costruendo un muro a secco sopra la fonte e una “peschierina” alla distanza di 24 m. In base ad accertamenti l’ingegnere scoprì che la peschiera non prendeva acqua dalla stessa vena della fonte 51, ma la costruzione del muro poteva preludere alla coltivazione, nel terreno soprastante, di un oliveto. In questo caso ove fosse stato necessario intervenire sul condotto di immissione della fonte il Comune avrebbe dovuto pagare un indennizzo al suddetto Gazzarri per l’esproprio del terreno; inoltre le radici delle piante avrebbero comunque rovinato il condotto dell’acqua costrin-gendo il comune ad intervenirvi spesso. Ma il terreno sopra la fonte era suolo pub-blico, pertanto l’ingegnere fece demolire il muro al di sopra della fonte e impose che sul terreno soprastante non fossero piantati alberi a meno di 3 metri dal condotto.

Un altro episodio significativo avvenne nel 1881. Il signor Carissimo Faldini scrisse una lettera al sindaco di Volterra, specifican-

do che era proprietario di alcuni terreni posti nei pressi di Borgo S. Stefano con diritto di avere una parte dell’acqua dalla fonte di S. Stefano. Dalla fonte partiva infatti una conduttura che portava una certa quantità di acqua nel lavatoio pubbli-

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Fig. 70 Vera della cisterna della scuola di S. Lino

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Il 16 dicembre 1881 l’ingegnere Guerrieri rispose al sindaco descrivendo la realtà dei fatti. Dopo un’accurata ispezione al luogo predetto l’ingegnere notò che sì, vi era questa conduttura, che “per mezzo di una apertura esistente nel muro di tergo” portava l’acqua nel lavatoio e nella peschiera del Faldini e quindi non aveva pro-blemi a riconoscere il diritto del Faldini, però riteneva che, questo diritto di uso dell’acqua andasse a nocumento dell’igiene pubblica in quanto l’acqua del lavatoio non faceva in tempo a rinnovarsi che, per la gran quantità di persone che andavano a lavarvi il bucato, subito puzzava e si inquinava. Pertanto propose al sindaco di revocare questo diritto al Faldini, per motivi di igiene.

La Giunta Municipale, il 30 maggio dell’anno successivo, approvò l’istanza del Faldini di riottenere la servitù dell’acqua, in quanto fu ritenuta inutile la spesa pre-vista per restaurare la fonte come proposto dall’ingegnere e pertanto si approvò il progetto di ripristino integrale della suddetta fonte, che fu sistemata il 12 ottobre del 1882, collocando un blocco di pietra dove vi erano i mattoni consumati che facevano da divisorio per l’acqua.

Un altro caso di abuso compiuto dal Faldini emerse invece nel 1894 quando fu avviata un’indagine per scoprire se egli prelevasse abusivamente l’acqua dal lavatoio,

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Fig. 72 I Lavori ottocenteschi di S. Felice

che il 30 agosto di quell’anno pescava solo 10 centimetri. Faldini infatti, dopo avere riottenuto la concessione dell’uso dell’acqua per il proprio orto, se ne approfittò innal-zando più del dovuto la pietra che separava la sua acqua da quella del lavatoio di S. Stefano, in modo che la maggior parte dell’acqua andasse nella sua proprietà. L’acqua finiva poi in un pozzo deposito che serviva il suo orto, a scapito dei vicini che non potevano averne a sufficienza. In questo caso il comune riuscì a scoprire l’inganno 52.

Le fogneSempre alla fine del secolo scorso si provvide anche alla costruzione di nuove

fognature o alla riparazione di quelle vecchie con tecniche più perfezionate, cercan-do di renderle effettivamente impermeabili allo scopo di impedire infiltrazioni di liquami nelle gallerie di captazione delle fonti o nei serbatoi pubblici.

Il 12 giugno 1876 fu appaltata la costruzione di due fogne, una a Docciola e l’altra a S. Felice, entrambe furono eseguite con fondo in pietra e copertura di lastre di pietra, secondo una tecnica che risale agli etruschi. La prima fogna doveva essere lunga 37 metri e avere una sezione di 0.55 metri di larghezza per 0.61 di altezza ed era destinata a collegare quella già esistente che scendeva da S. Agostino fino allo scolo dei lavatoi. Quella di S. Felice era lunga 23 metri con una sezione di 0.50 metri di larghezza per 0.50 di altezza, iniziando da via della Ripetta fino all’acque-dotto scoperto che si trovava in prossimità della porta inferiore di S. Felice. I due lavori furono aggiudicati dalla ditta edile Andrea Parenti che aveva già ottenuto il lavoro di ricostruzione degli archi della fonte di Docciola, pertanto con il materiale vecchio avanzato dai lavori della fonte avrebbe costruito la fogna stessa.

La fognatura di Docciola non fu però sufficiente a proteggere il condotto di captazione della fonte dalle infiltrazioni di acqua, pertanto il 30 aprile 1886 il Consiglio Comunale stabilì di costruire un grande collettore che andasse dalla ripa di S. Agostino alle fonti di Docciola, portando gli scarichi della parte superiore della città. I lavori si resero necessari perché l’acqua era guastata dagli scarichi della lavanderia del carcere e dei frantoi che si trovavano in via di Sotto 53.

Nel 1890 fu rifatta anche la fogna maestra del Vicolo del Laberinto, perché pre-sentava un difetto di costruzione, rischiando di minare le fondamenta di un edifi-cio vicino a cui passava; fu rifatto l’intero condotto abbassandone il fondo in modo che gli scoli confluissero nel fognone di Via della Porta all’Arco che era più basso del precedente 54.

I progetti per approvvigionare d’acqua la cittàL’Amministrazione Comunale si avvide ben presto che non era possibile risolvere

il problema dell’acqua, potabile e non, utilizzando solamente le cisterne, i pozzi e le poche sorgenti che non erano troppo lontane per arrivarvi. Inoltre le sorgenti che si trovavano vicino alla città, i pozzi e le cisterne, rischiavano di frequente di essere chiusi perché sottoposti ad inquinamento da parte delle fognature scadenti, dei pozzi neri non impermeabili e dell’incuria degli utenti. Si cominciò così a pensare a come

Dall’Unità d’Italia alla costruzione dell’acquedotto 165

utilizzare le fonti più distanti come quella delle Conce, che non solo erano molto pure e gradevoli, ma anche notevolmente abbondanti 55.

Il primo tentativo per cercare di approvvigionare la città avvenne all’inizio del 1891, quando il consiglio previde, per le spese da sostenere nel bilancio di quell’an-no, un fondo da utilizzare per la creazione di nuove fonti per l’acqua in città e per migliorare gli accessi a quelle già esistenti. In particolare fu proposto il progetto di una via rotabile per Docciola e di una grande cisterna in Piazza dei Priori. La spesa prevista era di L 12.000, ma secondo i consiglieri con quella cifra si poteva fare di meglio. Infatti fu realizzato anche un progetto per una strada rotabile per le Conce e per il miglioramento di Docciola. Nello stesso tempo erano stati avviati i contatti per rendere pubblico il pozzo di casa Melani; mentre il consiglio si oppose alla spesa di L. 400 per la chiusura del pozzo di Porta Marcoli 56.

Di tutti questi progetti l’unico che fu probabilmente realizzato subito fu quello della strada per Docciola; questa venne caldamente appoggiata, oltre che dai tecnici del comune che dettero parere positivo, anche dal consigliere comunale Cecchi, che riteneva utile la realizzazione di questa strada soprattutto perché avrebbe consenti-to di migliorare l’approvvigionamento specialmente nelle aree “abitate dalla classe operaia”, e aiutato le attività a procurarsi acqua con il metodo del trasporto di due barilotti da 50 litri a dorso di mulo 57.

Dieci anni dopo, il 18 marzo del 1891, la giunta comunale invitò il dr. Giovanni Cuppari, medico sanitario di Pisa, a fare una ricognizione delle fonti di Volterra, per ristrutturare il servizio di acqua potabile. Il 30 marzo il dottor Cuppari accettò l’incarico elaborando una relazione in cui metteva in evidenza tutti i problemi di cui soffriva Volterra collegati all’acqua; per prima cosa questo luminare calcolò la quantità minima di acqua di cui doveva disporre la città che valutò in 284 mila litri al giorno. Dopo avere esaminato ed analizzato le prese d’acqua a disposizione della cittadinanza (le cisterne ed i pozzi), ritenne insufficiente il quantitativo di acqua fornito da queste e passò ad esaminare le sorgenti circostanti per trovare una solu-zione. Esaminò in particolare le sorgenti di Docciola, della Concia, di Vallebuona, della Frana e del Purgo, che risultarono tutte abbondanti e dall’acqua pura e pota-bilissima, sebbene la fonte di Docciola potesse essere a rischio di infiltrazioni di liquami provenienti da fogne o pozzi neri non impermeabili.

Alla fine il dottor Cuppari propose all’amministrazione di utilizzare i moderni ricavati della tecnologia per installare una pompa a motore che sollevasse l’acqua dalla sorgente della Concia per servire il centro, e un’altra perché alimentasse la borgata di S. Giusto. Quest’acqua, per mezzo di opportune canalizzazioni sarebbe stata condotta fino ad un serbatoio di raccolta per essere poi distribuita in tutta la città; la spesa necessaria sarebbe stata di circa 22.000 lire. L’acqua proveniente da questo piccolo, ma funzionale, acquedotto avrebbe così facilmente integrato quella già a disposizione dei cittadini 58.

Dopo questa relazione, divenuta ben presto famosa, molti semplici cittadini ed esperti sia di Volterra che di altre città italiane e straniere, si prodigarono nel proporre progetti più o meno fantasiosi per la realizzazione di una rete idrica per

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Volterra, molti dei quali coinvolgevano la cisterna romana di Castello. Il primo ad avanzare un progetto del genere fu Giovanni Manetti che nel 1882, propose di uti-lizzare l’acqua raccolta nella Piscina romana, da rimettere in funzione, per rifornire una fontana da costruire nel centro di Piazza dei Priori 59. Il volterrano Giovanni Berti il 14 febbraio 1892 spedì una lettera al sindaco di Volterra, nella quale avan-zava l’ipotesi che l’antica cisterna romana di Castello ed il Pozzo Inghirami fossero alimentati da una ricca sorgente sotterranea, per cui sarebbe stato sufficiente rin-tracciare questa sorgente e, con una pompa aspirante a vapore o a vento, mandare l’acqua nella cisterna romana, da cui con un sistema di canalizzazioni si sarebbe potuto distribuirla in tutta la città 60.

L’ingegner Alberto Pacini, domiciliato a Reims, fu particolarmente insistente, pre-sentando lo stesso progetto per tre anni consecutivi, dal 1894 al 1896. Secondo il Pacini l’acqua della sorgente della Frana, che era molto abbondante, poteva essere immessa in un serbatoio che, per mezzo di un condotto di ferro, avrebbe alimentato “una o due turbine poste ai piedi del monte nella vallata, l’ufficio delle quali turbine sarebbe di trasformare la forza della cascata in corrente elettrica continua a 1000 volts”; da qui l’acqua sarebbe stata condotta alle Conce per mezzo di una tubatura di dimensioni adeguate, dove sarebbe stata utilizzata insieme a quella delle Conce per produrre corrente elettrica. Questa corrente di giorno sarebbe servita per alimentare le pompe che dovevano portare l’acqua nella cisterna romana in Castello e da questo serbatoio sarebbe stata distribuita in tutta città; invece di notte la corrente avrebbe alimentato i lampioni per l’illuminazione pubblica cittadina. Per l’impianto, secondo questo ingegnere, sarebbe stata necessaria poca manutenzione e l’impiego di un solo uomo; in più lo stesso impianto per la corrente elettrica avrebbe anche prodotto del ghiaccio.

Esaminando la pianta allegata al progetto si vede che dalla cisterna romana di Castello doveva partire una canalizzazione per portare l’acqua alla fontana di Palazzo Inghirami, dove sarebbe stata collocata anche una derivazione per condur-re l’acqua ad una fontana posta sul lato Sud della Caserma, vicino a dove oggi c’è l’ingresso del parcheggio sotterraneo. La conduttura si sarebbe poi divisa in due rami, uno diretto verso Piazza dei Priori, dove vi doveva essere la deviazione per una fontana da costruire nell’Ortaccio che proseguiva fino a Piazza S. Cristoforo, luogo dove sarebbe stata collocata un’ultima fontana. L’altro ramo invece sarebbe sceso per via Guidi e via Guarnacci fino a Porta Diana; lungo il suo percorso era prevista una fontana davanti a San Michele e una deviazione che doveva percorre-re via Nuova fino a Porta a Selci. Lungo questo tracciato si sarebbero inserite due fontane, una in Piazza XX settembre e una all’angolo fra la chiesa di S. Pietro ed il conservatorio.

Prima di decidere se adottare o meno questo fantasioso progetto l’amministrazio-ne si volle avvalere della perizia dell’ingegnere comunale e dell’ingegner Ferruccio Nicoli. Sia l’ingegnere comunale, Guerrieri, che il Nicoli manifestarono pesanti dubbi, chiedendo di avere dal Pacini altri dati per capire meglio il progetto (non si

Dall’Unità d’Italia alla costruzione dell’acquedotto 167

sa se questi dati siano mai arrivati). Il Consiglio Comunale, riunitosi l’8 luglio 1897, espresse parere fortemente negativo nei confronti del progetto del Pacini.

Nel 1895 fu la volta di una proposta di David Giovannoni. Costui aveva avuto la possibilità di esaminare le pompe per l’acqua alimentate dalla forza eolica, che erano utilizzate negli Stati Uniti per pompare anche da grande profondità, pertan-to propose di portare l’acqua dalla fonte di Docciola fino alla cisterna romana in Castello per mezzo di alcune di queste pompe messe in serie partendo da Docciola lungo via della Fonte, piazza XX settembre e via Ormanni, fino alla piscina; per superare un dislivello di 68 metri sarebbero state necessarie 4 pompe a vento. Insieme alla lettera questo volenteroso signore inviò al sindaco anche un’ampia rac-colta di depliant pubblicitari di pompe elettriche, idrauliche, a vento o a combu-stione, in grado di sollevare grossi quantitativi d’acqua a notevoli altezze 61.

D’altro canto anche il Comune non rimase fermo; l’ingegnere comunale nel 1896 propose di lastricare un’ampia area del Piano di Castello e di convogliare le acque così raccolte nella cisterna romana, da cui, seguendo lo schema dei condotti già pro-posto dal Pacini, sarebbe stata distribuita alla popolazione. Contemporaneamente si sarebbe dovuto fare un ampio deposito per l’acqua alla fonte di Docciola. Il progetto di riutilizzo della cisterna romana venne bloccato da una lettera del direttore del Museo Guarnacci, che informò il sindaco che il Regio Direttore dei Monumenti e Scavi della Toscana si riservava il parere di esaminare il progetto dettagliato sulla sistemazione della Piscina Romana per utilizzarla come deposito per l’acqua 62.

Il primo acquedotto cittadinoNel 1909 l’Amministrazione Comunale decise di costruire l’acquedotto

seguendo il progetto risalente al 1891 del dottor Cuppari, con qualche modifica. L’acquedotto utilizzava l’acqua delle Conce che veniva innalzata fino al deposito di Castello da cui era distribuita tramite un certo numero di fontanelle installa-te in posti strategici della città. Non fu riutilizzata l’antica cisterna romana, ma fu creato un grande serbatoio sotterraneo, che è poi quello dove oggi termina il moderno acquedotto. Il contratto per l’appalto dei lavori di scavo fu firmato il 31 ottobre 1909 dalla ditta vincitrice, la Ghelli e Lombardo di Ponsacco. Nel contrat-to era previsto che il terreno sarebbe stato concesso dalla famiglia Inghirami, ma se durante lo scavo fossero stati rinvenuti degli oggetti antichi, essi sarebbero divenuti di proprietà del sig. Pier Nello Inghirami, che aveva l’incarico di far sorvegliare i lavori che dovevano finire nel 1911 nel 1911. Il cantiere fu aperto pochi giorni dopo, il 16 novembre 63. Era previsto che la lunghezza della tubatura fosse di 750 metri circa, l’acqua della sorgente veniva immessa in un bacino, successivamente racchiuso in un edificio 64, dove pescava la pompa a motore posizionata in un piccolo edificio costruito nelle vicinanze.

Il 27 agosto del 1910 il sottoprefetto di Volterra mandò una lettera al sindaco nella quale veniva segnalato che, su indicazione di un ufficiale sanitario, il serba-toio della Concia da cui si doveva pescare l’acqua per l’acquedotto, era soggetto ad inquinamento per la presenza di una stalla equina. Il giorno dopo il sindaco,

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Guido Incontri, ordinò di allontanare da detta stalla tutto il bestiame ivi esistente entro due giorni 65. I lavori per l’acquedotto vennero conclusi con quattro anni di ritardo rispetto al previsto e con un aumento notevole dei prezzi, dovuti a proble-mi nella realizzazione a cui non si era pensato nel progetto iniziale; la spesa totale risultò di 51.361,94 lire contro le 22.881,49 preventivate; in seguito a questo note-vole rialzo la ditta ed il comune dovettero ricorrere alla mediazione di avvocati per arrivare ad un accordo sulle spese 66.

L’8 novembre 1915 il comune, con delibera n. 45 del Consiglio Comunale, approvò il collaudo dei lavori di costruzione dell’acquedotto comunale delle Conce e il conseguente svincolo della cauzione prestata alla Impresa Lombardi Patrizio, ma successivamente, il 21 dicembre 1915, nominò una commissione d’inchiesta per verificare le irregolarità che alcuni consiglieri comunali avevano sostenuto sussistere nell’esecuzione dei lavori e nel pagamento della ditta esecutrice e del collaudatore nominato dal comune. Facevano parte della commissione l’ing. Lorenzo Bresciani, il rag. Leonida Landi e il cav. Luigi Ciapetti, consiglieri comunali, che giunsero alla conclusione che il rialzo del prezzo non era giustificato attribuendo la colpa all’ingegnere comunale, Allegri, e all’ingegnere Pisani che aveva eseguito i collaudi e approvato il rialzo.

Da una relazione scritta nel 1917 dall’assessore Inghirami, che aveva seguito i lavori, si evince che il progetto originale era corretto, ma non poteva prevedere situazioni che si sarebbero verificate in corso d’opera, ed a cui non si poteva rime-diare se non con l’aggiunta di altri lavori, fra cui la tubatura dell’idrante di Piazza, la tubatura per l’acqua dei Macelli, 7 saracinesche e il cunicolo di scolo per l’acqua della cisterna di castello. Inoltre lo scavo del serbatoio aveva richiesto più tempo e più impegno perché la pietra che si trovava in quel punto era particolarmente resi-stente, più della media del resto della collina. Il prezzo di questi lavori era lievitato fino ad un costo complessivo che arrivava a 49.000 lire da aggiungere alla spesa inizialmente preventivata; in più la ditta pretendeva altre 12.000 per rimborsi vari che non erano stati conteggiati, per un totale di 61.000 lire. Dopo varie discussioni condotte fra la ditta e l’ingegnere comunale, Allegri, tramite la mediazione del col-laudatore, ing. Pisani, la ditta Lombardo scese a 45.469.67 lire più 6.000 lire per danni e interessi.

Anche l’ingegner Allegri scrisse una relazione rispondendo alle accuse mosse nei suoi confronti dal Consiglio Comunale e smentendo, come aveva già fatto l’asses-sore Inghirami, tutte le imputazioni a suo carico 67.

Dal serbatoio di Castello l’acqua veniva portata alla cittadinanza tramite fon-tanelle; inizialmente ne erano state collocate solo quattro: a S. Agostino, a S. Michele, in Piazza. S. Cristoforo e in Piazza Minucci. Gli abitanti del quartiere di S.-Francesco chiesero, visto che la fontana più vicina era per loro estremamente scomoda, di poter disporre di una fontana anche in Piazza Marcello Inghirami. L’Amministrazione Comunale rispose favorevolmente ed il 18 giugno 1910 fu deciso di costruirne una presso la chiesa di S. Francesco 68. Nello stesso anno una richiesta analoga venne sottoposta all’attenzione del consiglio da parte degli abi-

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tanti di Porta a Selci, ma questi ultimi dovettero aspettare quasi venti anni (14 dicembre 1929) perché il comune approvasse la costruzione di una fontanella in quella zona, all’angolo del Conservatorio di S. Pietro. La spesa prevista era di L. 6600 e l’impianto doveva essere rifornito da una conduttura che si allacciava a quella che alimentava la fontanella di S. Agostino. Da una lettera del presidente del Conservatorio di S. Pietro sappiamo però che il 17 marzo del 1930 i lavori non erano ancora stati iniziati 69.

Oltre a questo impianto di pompaggio ne esisteva un altro che prendeva acqua alla fonte della Frana e andava ad alimentare le fontanelle del Borgo San Giusto; la pompa era elettrica e pescava acqua da un piccolo deposito posto accanto al casotto antistante il lavatoio che resiste ancora oggi nonostante i lavatoi siano da tempo abbandonati all’incuria e l’acqua venga dispersa. L’impianto fu realizzato nel 1916 durante la prima guerra mondiale.

La pompa collocata alla Frana venne ritirata dal compartimento trazione delle ferrovie dello stato (in origine serviva per l’innalzamento dell’acqua per il riforni-mento delle locomotive nella stazione di Volterra allora fuori uso); vennero anche riutilizzati tutti i condotti e i cavi elettrici delle ferrovie che erano legati a quell’im-pianto. L’idea venne probabilmente all’ingegnere comunale, su suggerimento del responsabile di questo impianto per le Ferrovie dello Stato, forse il capostazione o forse il direttore dell’officina. La richiesta di poter ottenere l’uso di questo impianto fu presentata ai dirigenti del compartimento di Firenze il 17 giugno 1916. In un primo tempo le Ferrovie negarono l’impianto, poi, in seguito a uno scambio epi-stolare fra il Comune e la direzione dei lavori delle ferrovie l’impianto fu concesso a condizione che il Comune lo considerasse un prestito gratuito della durata di un anno e di usarlo solo per la condotta per i prigionieri di guerra; il 16 settembre di quell’anno il sindaco accettò invece di prendere il gruppo pompa e di sostenere la spesa per installarne un altro alla Stazione Ferroviaria di Volterra 70.

L’8 agosto 1916 la Congregazione di Carità, che gestiva la Casa di Riposo “Principi di Piemonte” (oggi Casa di Riposo Santa Chiara) approvò una convenzio-ne con il Comune per ottenere l’utilizzo dell’acqua della sorgente della Frana che, grazie all’impianto di sollevamento, poteva non solo alimentare le fontanelle del borgo, ma anche essere portata all’ospizio.

La necessità di provvedere al rifornimento di acqua per il Borgo S. Giusto emerse quando il Comando Militare decise di utilizzare l’edificio della ex Badia Camaldolese per internarvi i prigionieri di guerra. Nel 1916 la Sottodirezione del Genio Militare di Livorno chiese di poter ottenere l’uso dell’acqua della Frana per i prigionieri di guerra, ottenendo il consenso dal comune. Nella risposta al coman-dante del genio il sindaco fece notare come l’acqua fosse comunque poca per i fab-bisogni della popolazione e dei prigionieri, non superando i sette litri a persona quando ne sarebbero necessari almeno trenta. Da qui la necessità di aumentare la quantità di acqua disponibile creando questo impianto di pompaggio 71.

Nel febbraio del 1931 furono compiuti alcuni lavori di ampliamento del depo-

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sito della sorgente della Frana, ma pochi giorni dopo l’apertura del cantiere furono interrotti per le proteste dell’ing. Gabellieri che era proprietario del terreno e che non voleva far costruire il deposito. Il sindaco, sentito l’ingegnere comunale, rispose che, da una verifica fatta, tutto il terreno antistante la fonte era di proprietà comu-nale e pertanto la protesta non aveva ragion d’essere; tuttavia, per evitare polemi-che, dispose di spostare il deposito accanto al casotto già esistente.

Contemporaneamente scoppiò una diatriba fra il Comune e l’amministrazione della Casa di Riposo “Principi di Piemonte”, per il pagamento della corrente elettrica per il funzionamento della pompa della Frana. Secondo quanto era stato stabilito dalla con-venzione fra questi due enti, la spesa per la corrente elettrica era a carico del Comune, purché l’amministrazione della Casa di Riposo provvedesse a distribuire l’acqua agli abitanti del Borgo S. Giusto. Il Comune rinfacciò all’amministrazione della casa di riposo di non avere mai distribuito l’acqua e di avere utilizzato le pompe a scopo per-sonale. Quest’ultima replicò di avere provveduto a distribuire l’acqua solo in un primo momento, fino a quando le fontanelle si erano guastate e la popolazione cessò di ser-virsene: la riparazione, pertanto, doveva essere eseguita dal Comune a sue spese.

Pochi mesi dopo, nell’ottobre di quell’anno, la popolazione del Borgo di S.-Giusto si trovò ancora una volta senza acqua a sufficienza, la guardia comunale si

Dall’Unità d’Italia alla costruzione dell’acquedotto 171

Fig. 73 Ricostruzione del tracciato del primo acquedotto cittadino con indicate le fontanelle

1: Deposito delle Conce

2: Serbatoio di Castello

3: Fontana di S. Francesco

4: Fontana di S. Cristoforo

5: Fontana di P.zza Minucci

6: Fontana di S. Michele

7: Fontana di P.zza XX Settembre

8: Fontana di Porta a Selci

recò ad ispezionare le fonti e scoprì che il problema era dovuto al fatto che la ditta edile Ghelli e Lombardi, a cui era stata concessa la possibilità di prendere acqua alla Frana solo nelle ore in cui non veniva usata dalla popolazione, prendeva acqua tutto il giorno lasciando a secco le fontanelle del borgo 72.

L’acqua venne a mancare a questo piccolo acquedotto anche nel 1937 quando il Comune, in base alle proteste degli abitanti del borgo rimasti senz’acqua, accusò l’Istituto Santa Chiara di utilizzarne la maggior parte per uso non domestico. L’istituto fu pertanto invitato ad usare per questo scopo solo l’acqua delle proprie cisterne. Allo stesso tempo fu riparato il serbatoio della fontanella del borgo, che in parte era stato danneggiato da alcuni lavori edilizi 73.

La costruzione dell’acquedotto della CarlinaI lavori per quella che fu considerata la soluzione definitiva al problema della scar-

sità d’acqua a Volterra iniziarono nei primi anni Venti, quando si cominciò a fare le stime per costruire il grande acquedotto che, dalle sorgenti sparse nel bosco della Carlina sulle pendici di Poggio Ritrovoli, fra Castelnuovo Val di Cecina e Anqua, avrebbe potuto portare l’acqua in città dopo un percorso di quasi quaranta chilome-tri. Ci vollero degli anni e vari tentativi per ideare un progetto che fosse attuabile; il Comune di Volterra incaricò a questo scopo l’ingegner Filippo Allegri, che individuò le sorgenti adatte, e contemporaneamente si mosse per coinvolgere nell’iniziativa anche il Comune di Pomarance che in quegli anni stava pensando di realizzare un proprio acquedotto. Dopo lunghe trattative fu creata una società consortile per la costruzione (e poi la gestione) dell’acquedotto e fu iniziata la lunga trafila della richiesta di mutui alle banche per pagare la progettazione e la costruzione di questa grande opera.

Progettare questo acquedotto non fu affatto semplice; prima di tutto non esiste-va una sola sorgente che fosse in grado di fornire l’acqua sufficiente per i bisogni di Volterra e Pomarance, pertanto fu necessario seguire la via più complessa imbri-gliando 6 sorgenti, da tre diverse aree del monte. Un secondo grosso problema da affrontare fu quello dell’attraversamento-dei torrenti che si trovano lungo il per-corso (Fodera, Pavone, Possera, Zambriolo, Zambra, botro Pagliaio e botro di S.-Lorenzo), e del fiume Cecina. L’ultimo, ma più serio problema, fu la creazione di un sistema di sollevamento adeguato a portare una notevole quantità d’acqua dal fondovalle alla sommità della collina di Volterra.

La decisione definitiva per la creazione di un acquedotto consortile fu espres-sa dal Consiglio del Comune di Volterra con deliberazione del 30 dicembre 1924, quando si arrivò anche alla determinazione di comprare le sorgenti di Carlina dagli attuali proprietari, investendo una forte somma a questo scopo. Furono attivati due mutui, che vennero rinnovati ogni anno fino al termine dei lavori: uno di 70.000 lire con il Monte dei Paschi di Siena e uno di 50.000 lire con la Cassa di Risparmio di Volterra; il primo mutuo era destinato al pagamento dei lavori di captazione alle sor-genti, mentre il secondo serviva per acquistare le fonti. Fu formalizzata la nascita del Consorzio con la nomina, da parte dei comuni, dei membri del consiglio di gestio-ne; come presidente venne eletto il sindaco di Volterra, Fabio Guidi 74. Il progetto generale fu terminato dall’ingegner Allegri solamente il 15 novembre 1929 e da allora

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cominciò una lunga lotta con la burocrazia per la prosecuzione dei lavori e per otte-nere finanziamenti dallo stato.

Le richieste che vennero inoltrate agli uffici ministeriali competenti erano rivolte sia ad ottenere le autorizzazioni necessarie per la costruzione di questa opera pubblica, sia ad accedere a finanziamenti o sovvenzioni da parte dello Stato per pagare i lavori 75. L’anno cruciale durante il quale furono ottenute la maggior parte delle autoriz-zazioni ministeriali per avviare i lavori fu il 1932. All’inizio di quell’anno il Comune comprò un’altra sorgente, quella delle Pescine, che poteva servire ad ottenere la quanti-tà d’acqua minima richiesta dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici per dare l’au-torizzazione ai lavori. Prima di poter valutare se la quantità di acqua era sufficiente, bisognava imbrigliare le sorgenti, pertanto il Comune dovette pagare questi lavori di tasca propria con i mutui avviati da anni con i due istituti di credito sopra menzionati

Da una relazione dell’ing. Allegri del 19 maggio 1932, che accompagnava la richiesta fatta al Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, sappiamo che i tubi previsti potevano reggere un carico di 12 litri al secondo, che era superiore a quello misurato dalle sorgenti, ma che prevedeva il fatto di poterne allacciare delle altre se fosse stato necessario aumentare la portata d’acqua. Rispetto al progetto che era stato visionato (quello presentato nel 1929) il Ministero dei Lavori Pubblici aveva richiesto come unica modifica la realizzazione di una doppia tubazione a partire da due chilometri a

Dall’Unità d’Italia alla costruzione dell’acquedotto 173

Fig. 74 La fontana dei Ponti

monte di Pomarance. L’ingegnere Allegri rispose alle modifiche del Ministero facendo notare che, se si seguiva questa indicazione, la spesa per l’acquedotto sarebbe salita a 5.698.403,03 lire, troppo per il Consorzio. Se invece la tubazione supplementare fosse stata fatta in un secondo momento la spesa si poteva ridurre a L. 4.747.000,00. Era poi previsto di mantenere il piccolo acquedotto delle Conce a Volterra, capace di 0.75 litri al secondo inoltre, innalzando di due metri la capacità del serbatoio di Volterra, si arrivava a una quantità di 471 metri cubi che, aggiunti a quelli dell’acque-dotto delle Conce, portavano a 18 litri al giorno la disponibilità di acqua per abitante della città, cioè esattamente quanto richiesto dal suddetto ministero.

Il 29 giugno 1932 il podestà scrisse al prefetto per cercare di accelerare i tempi per ottenere le autorizzazioni, perché quello era il momento opportuno per ini-ziare i lavori dell’acquedotto, soprattutto in relazione alla decisione presa pochi giorni prima (20 giugno) dal Consiglio dei Ministri di assegnare 20 milioni in Italia Settentrionale e centrale per opere igieniche urgenti. Il podestà, il 2 luglio di quell’anno, scrisse anche all’ingegnere capo del Genio Civile di Pisa, lamentando-si che il problema principale per far approvare il progetto fosse la spesa giudicata eccessiva in rapporto alla quantità di acqua ritenuta insufficiente per la popolazio-ne, obiezione obiezioni a cui replicava sostenendo che la disponibilità attuale era di litri 11.564, di cui 9643 dalle sorgenti già appartenenti al Consorzio e 1921 dalle nuove sorgenti delle Piscine (il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici voleva che la quantità minima fosse di litri 10500). Il 10 luglio il podestà scrisse anche a Mussolini chiedendo il suo personale interessamento alla costruzione dell’acquedot-to, vista anche la politica di sviluppo di opere pubbliche condotta in quel periodo dal governo fascista.

Il 15 luglio 1932 fu approvata l’ultima modifica del progetto. Le spese previste erano così ripartite:

Il 20 ottobre del 1932 il Podestà di Volterra informò il prefetto di Pisa che i lavori alle sorgenti per l’acquedotto consortile erano stati ultimati, come da richiesta del Genio Civile e pertanto sollecitò il sopralluogo per autorizzare la prosecuzione dei

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Capo I Espropriazioni Acquisto delle sorgenti e spese consequenziali 130000.00 Acquisto dei terreni per la posa della conduttura 30000.00 o indennità per servitù di acquedotto (prev.) Spese contrattuali (prev.) 20000.00Totale Espropriazioni 180000.00

Capo II Lavori di captazione Lavori di ricerca delle sorgenti (prev.) 18000.00 Lavori di captazione delle sorgenti (prev) 198000.00Totale lavori di captazione 216000.00

Capo III Condutture e pezzi speciali Tubi di acciaio rivestiti esternamente di 2648857.50 cemento e amianto

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Saracinesche 900.00 Sfiatatoi 3600.00 Manometri 1700.00 Rubinetti a galleggiante 2360.00

Totale condutture e pezzi speciali 2657417.50Capo IV Opere d’arte Ponticello in cemento armato a tre luci fra 9365.96 Pietrasdrucciola e le Piscine Pozzetto di raccolta delle sorgenti 14092.21 Pozzetto di carico delle Piscine e ponticello 28663.71 Ponticello alle prog.ve 0+425,25 e 0+481,60 15490.17 Chiavica alla prog.va 0+646,55 2155.96 Ponticello alla prog.va 0+863,65 7334.27 Muri a secco alle prog.ve 1+294,30, 1+352,30, 1559.98 1+380,85 Chiavica di m 1.20 alla prog.va 1+434,05 3692.69 Chiavica a pozzetto e muri alla prog.va 1+730,01 4484.47 Chiavica alla prog.va 2+530,46 1550.57 Ponte di m 7,15 sul torrente Fodera 15481.81 Ponticello alla prog.va 4+388,11 2937.19 Ponticello alla prog.va 4+565,41 3400.89 Passerella canale a due luci in cemento 5133.76 armato alla prog.va 5+083,66 Passerella canale in cemento armato sul 13789.21 torrente Pavone a cinque luci di m. 7.50 Muro laterale alla prog.va 7+412,36 904.96 Pozzetto di carico sul poggio di Quercetonda 28918.62 Passerella canale in cemento armato sul 18726.20 torrente Possera a sei luci di m. 7.50 Traversa a pozzetto alla prog.va 1+340.30 6240.37 Traversa sullo Zambriolo 16037.10 Traversa sullo Zambra 21739.84 Traversa sul botro Pagliaio 8549.88 Traversa sul botro di S. Lorenzo 1456.39 Pozzetti di scarico 100002.45 Pozzetti per sfiatatoi 23163.00 Passerella canale in cemento armato sul torrente 10184.59 Possera nella diramazione per Montecerboli Serbatoio circolare di m. 10.00 di diametro in 54201.39 cemento armato per la città di Volterra Serbatoio circolare in cemento armato per Pomarance 32985.94

lavori. Il prefetto rispose che il sopralluogo era stato effettuato il 6 settembre, in quel-l’occasione fu misurata la portata delle sorgenti imbrigliate che era di litri 7.160; l’acqua era quindi in misura sufficiente ed abbondante, però il comune doveva prov-vedere ai lavori per misurare la portata di ogni singola sorgente, come prescritto dalle norme igieniche. Il 31 dicembre di quell’anno il Corpo Reale del Genio Civile di Pisa informò il podestà che la portata d’acqua minima nei periodi di magra doveva essere di litri 12; se le sorgenti non fossero state sufficienti bisognava imbrigliarne altre.

Negli ultimi mesi del 1932 iniziarono ad arrivare le lettere di presentazione delle ditte, in particolare una delle più insistenti, che fu presentata dal prefetto e da altri politici fu la SIAF (Società Italiana Acquedotti e Fognature) di Roma, che si pre-sentava con un curriculum di tutto rispetto avendo realizzato, fra gli altri, gli acque-dotti di Pavia, Treviso, Riccione e Trieste.

Finalmente il 13 marzo del 1933 il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici approvò definitivamente il progetto per la realizzazione dell’acquedotto e autorizzò l’inizio dei lavori; fu approvata la variante suggerita dall’ingegner Allegri, che pre-vedeva di costruire inizialmente una sola conduttura per un costo totale previsto in 4.747.000 lire, consentendo un risparmio di circa un milione di lire al Consorzio Acquedotto della Carlina. Da una lettera di convocazione del consiglio del con-sorzio sappiamo anche che il Ministero dei Lavori Pubblici si era reso disponibile per contribuire finanziariamente alla costruzione dell’acquedotto. Il 7 dicembre di quell’anno il progetto del lavoro fu affidato alla supervisione del Provveditore per le Opere Pubbliche della Maremma di Grosseto; il prefetto di Pisa pochi giorni dopo scrisse al senatore Fabio Guidi, podestà di Volterra, invitandolo a sollecitare il prov-veditore per ottenere il finanziamento dell’acquedotto. Il 29 dicembre il podestà scrisse una lettera in tal senso al provveditore, evidenziando come il 22 dicembre avesse chiesto l’interessamento per la realizzazione dell’opera al capo dello Stato, Mussolini, che assicurò la sua attenzione verso questa opera 76.

Nel 1934, infatti, il podestà Guidi era stato eletto senatore ed aveva potuto parlare del problema dell’acquedotto personalmente con il Duce, il quale fu in

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Serbatoio di Saline 28093.31 Serbatoio di carico per Larderello e Montecerboli 21805.54 Muratura ordinaria per ancoraggi alle condutture 20000.00 nelle curve di raggio limitato (prev.)Totale Opere d’arte 522139.43Cap. V Linea telefonica 6 apparecchi telefonici fissi 1500.00 2 apparecchi telefonici normali 500.00 Linea telefonica e misure di protezione 65600.00Totale linea telefonica 67600.00Totale spese 3643156.93Spese impreviste (5% in più) 102435.32Spese di progettazione 254407.75Totale generale 4000000.00

grado di dargli ampie garanzie per la realizzazione dell’opera 77. Appena appresa la notizia i giornali locali dettero particolare enfasi al fatto che Mussolini aveva assicu-rato il proprio appoggio alla realizzazione dell’acquedotto di Volterra.

Finalmente, alla fine della primavera del 1935, arrivarono anche i tanto sospira-ti finanziamenti e dopo molte vicissitudini fu ottenuto un mutuo presso la Cassa Depositi e Prestiti di 4 milioni di lire; la stampa locale scrisse articoli entusiasman-ti sul futuro di Volterra 78. Il 3 agosto 1935 fu indetta l’asta per l’affidamento del primo lotto dell’acquedotto, direttore dei lavori era stato nominato l’ingegner Filippo Allegri del Comune di Volterra 79. Un lavoro così impegnativo era ambito da qualunque ditta costruttrice e le domande di partecipazione arrivarono da tutta Italia, spesso accompagnate dalla presentazione di qualche personaggio influente; le ditte locali si consorziarono per cercare di ottenere l’appalto, che fu però vinto dalla Società Anonima Condotte di Roma 80.

Il secondo appalto, che prevedeva l’acquisto delle tubature, venne bandito pochi mesi dopo, ma fu contestato in Consiglio Comunale e pertanto fu necessario annul-larlo e bandire una seconda gara 81. Fu solo nel 1936 che iniziarono ad arrivare le tubature necessarie alla realizzazione dell’opera, ma la Dalmine, che le produceva, non ne aveva forniti abbastanza per garantire un lavoro costante di messa in opera.

Un anno dopo, il primo dicembre del 1937, il podestà Lagorio scrisse al prefetto di Pisa dicendo che mancava una adeguata assegnazione di tubi per la posa del-l’acquedotto: invece di 178 tonnellate ne erano arrivate solamente 10, sufficienti appena per 500 metri di tubature. Pertanto, non potendo far lavorare gli operai, fu decisa la sospensione dei lavori. Il podestà sottolineò nella lettera la speranza che le spedizioni dei successivi mesi di dicembre, gennaio e febbraio fossero sufficienti a iniziare i lavori in maniera continuativa a marzo. Fece quindi appello al prefetto perché sollecitasse di assegnare all’acquedotto Volterra-Pomarance almeno 30 ton-nellate di tubi al mese 82, in modo da completare l’acquedotto entro la primavera del 1938. Inoltre si lamentò per gli oltre 100 operai che rimasero disoccupati e, come soluzione per impedire la disoccupazione, sollecitò l’invio dei finanziamen-ti ottenuti, ma non ancora arrivati, per il Consorzio di Bonifica della Valdera in modo da poter impiegare i 100 operai disoccupati in quell’altro progetto. Il 27 aprile dello stesso anno Lagorio tentò un’altra strada per risolvere il problema della fornitura dei tubi, scrivendo una lettera del tenore della precedente al sottosegreta-rio al Ministero degli Interni, onorevole Guido Guidi Bufalini 83.

Le due lettere non ottennero risultati di rilievo: nell’agosto del 1937 i lavori furono sospesi una seconda volta. La data prevista per l’inaugurazione e comunicata alla direzione degli Acquedotti Fascisti di Roma, il 28 ottobre 1937, non fu rispet-tata. I tubi necessari al completamento dell’impianto arrivavano in misura insuf-ficiente per garantire un lavoro continuativo. Nel frattempo il comune contrasse altri due mutui per pagare le opere collaterali all’acquedotto: il nuovo sistema di fognature e il nuovo sistema di distribuzione. Ma, con una decisione personale, il podestà scelse di non realizzare queste due opere, la nuova conduttura dell’acqua si sarebbe allacciata al vecchio deposito di Castello e sarebbe stato sfruttato il sistema di distribuzione già esistente, lo stesso per la fognatura, annullando i due mutui

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contratti con le banche in quell’anno 84.L’acqua arrivò in città il 3 agosto del 1938, dopo tante tribolazioni e dopo quasi

quindici anni di progetti e lotte per ottenere finanziamenti ed autorizzazioni 85. Dopo tremila anni, per usare tre parole fin troppo sfruttate, Volterra non doveva più limitarsi a sfruttare l’acqua delle proprie sorgenti, ma era in grado di disporre di maggiori e continue riserve idriche. L’acquedotto fu terminato in un periodo di tendenza climatica secca e arida, gli anni dal 1938 al 1940 furono infatti caratteriz-zati da grande siccità. La scelta di non realizzare il nuovo sistema di distribuzione fu pagata con l’insufficienza di quello vecchio a rifornire ampie zone dell’abitato, soprattutto le periferie causando malcontento fra gli abitanti.

Il Comune nel 1939 decise di realizzare una fontana monumentale che comme-morasse la fatica fatta per portare l’acqua in città e allo stesso tempo fosse un pia-cevole diversivo per i volterrani che passeggiavano sui Ponti. Fu stabilito di bandire un concorso distinto in due settori, architettonico per la progettazione della strut-tura, e artistico, per la realizzazione di statue di ornamento alla fontana. Il concorso fu bandito il 2 aprile 1939; l’incarico di disegnare il progetto fu affidato all’archi-tetto volterrano Bruno Colivicchi il cui studio venne approvato dal sovrintendente ai monumenti di Siena professor Peleo Bacci e allo scultore Raffaello Consortini fu affidato il compito di realizzare due statue. La fontana fu ultimata il 3 giugno del 1939 con soddisfazione generale, sebbene di poca durata: ben presto si scoprì infatti che l’acqua era difficilmente in grado di raggiungerla. Vennero fatti ripetuti lavori che furono in grado saltuariamente di farla funzionare, ma non venne trovata una soluzione definitiva; ben presto tutti i tentativi furono abbandonati e la fontana fu lasciata all’asciutto. Anche le due statue ideate dal Consortini non furono mai com-pletate rimanendo a livello di bozzetti. Alcuni arguti volterrani, che evidentemente sapevano già l’esito dei lavori, la notte precedente l’inaugurazione scrissero sopra una tavola dell’impalcatura: “Fonte Secca” 86.

La rete di distribuzione iniziale non copriva tutta la città, ampie aree della peri-feria furono rifornite adeguatamente solo a partire dal Dopoguerra e la campagna dovette aspettare ancora a lungo. Solamente negli anni ’70 fu coperto tutto il terri-torio comunale. L’acquedotto della Carlina inoltre non risolse tutti i problemi idrici della città, soprattutto dopo il 1975, con l’inversione di tendenza del clima che tornò verso il caldo arido, con scarse piogge invernali. Quasi tutti gli anni la totale mancanza di piogge del periodo estivo e le scarse piogge primaverili hanno com-portato lunghi periodi di razionamento dell’acqua per gli abitanti di Volterra, con disagi simili a quelli che gravavano sui volterrani della fine del secolo scorso, mag-giorati dal fatto che, a differenza di coloro che vissero in quel periodo, noi oggi non siamo abituati a fare a meno di usare grandi quantità di acqua per le nostre attività domestiche. Si calcola infatti che alla fine del secolo scorso una persona utilizzasse in media fra i 7 ed i 10 litri di acqua al giorno, contro i quasi 70 di oggi.

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Fig. 75 Una delle fontanelle che distribuiscono l’acqua in città

NOTE

1) La sottoprefettura di Volterra comprendeva tutto il territorio da Casole d’Elsa al mare con il controllo dei comuni della costa da Cecina a Piombino, era divise in 5 preture e 15 comuni con un territorio di 1689 kmq (Lagor io 1997, pp. 130-131).2) Niccolò Maffei fu anche eletto per tre volte deputato al Parlamento del Regno, dal suo seggio cercò di favorire il più possibile la sua città natale (Mar r ucc i 1997, pp. 1102-1103). 3) Lagor io 1997, pp. 216-217.4) APCV, Anno 1881, cat. 13, tit. 4, fasc. 3.5) APCV, Anno 1902, cat. 13, tit. 4, fasc. 2.6) APCV, Anno 1884, cat. 13, tit. 4, fasc. 4.7) Pubblicata in Panichi 1975, p. 12.8) APCV, Anno 1899, cat. 13, tit. 4, fasc. 4.9) APCV, Anno 1902, cat. 13, tit. 4, fasc. 2.10) Panichi 1975, p. 12.11) APCV, Anno 1890, cat. 13, tit. 4, fasc. 6.12) APCV, Anno 1891, cat. 13, tit. 4, fasc. 4 e Anno 1904, cat. 13, tit. 4, fasc. 4.13) APCV, Anno 1903, cat. 13, tit. 4, fasc. 3.14) APCV, Anno 1885, cat. 13, tit. 4, fasc. 2.15) Panichi 1975, p. 11.16) APCV, Anno 1885, cat. 13, tit. 4, fasc. 2.17) APCV, Anno 1897, cat. 13, tit. 4, fasc. 3.18) APCV, Anno 1934, cat. 13, tit. 4, fasc. 7.19) APCV, Anno 1886, cat. 13, tit. 4, fasc. 1.20) APCV, Anno 1888, cat. 13, tit. 4, fasc. 3.21) APCV, Anno 1906, cat. 13, tit. 4, fasc. 3.22) APCV, Anno 1934, cat. 10, tit. 4, fasc. 7.23) APCV, Anno 1877, cat. 13, tit. 4, fasc. 2.24) APCV, Anno 1892, cat. 13, tit. 4, fasc. 3.25) APCV, Anno 1900, cat. 13, tit. 4, fasc. 3.26) APCV, Anno 1877, cat. 13, tit. 4, fasc. 2.27) APCV, Anno 1878, cat. 13, tit. 4, fasc. 2.28) APCV, Anno 1892, cat. 13, tit. 4, fasc. 5.29) APCV, Anno 1892, cat. 13, tit. 4, fasc. 5.30) APCV, Anno 1895, cat. 13, tit. 4, fasc. 6.31) APCV, Anno 1889, cat. 13, tit. 4, fasc. 1.32) APCV, Anno 1900, cat. 13, tit. 4, fasc. 4.33)Abitudine che, come illustrato nel capitolo precedente, era esistente già da secoli a Volterra.34) APCV, Anno 1904, cat. 13, tit. 4, fasc. 4.35) APCV, Anno 1814, cat. 13, tit. 4, fasc. 8.36) APCV, Anno 1900, cat. 13, tit. 4, fasc. 6.

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37) APCV, Anno 1890, cat. 13, tit. 4, fasc. 6.38) APCV, Anno 1890, cat. 13, tit. 4, fasc. 6.39) APCV, Anno 1903, cat. 13, tit. 4, fasc. 3.40) APCV, Anno 1904, cat. 13, tit. 4, fasc. 4.41) Sul bagno di S. Felice vedi il capitolo precedente a p. 140-14442) Il fontaniere era pagato 50,40 lire all’anno; da una lettera inviata al sindaco per avere un aumento di stipendio, sappiamo che in un primo momento la richiesta di acqua era scarsa, ma dopo il 1850 la fama si diffuse così tanto che la richiesta era aumentata a dismisura.43) APCV, Anno 1871, cat. 13, tit. 6, fasc. 2.44) APCV, Anno 1888, cat. 13, tit. 4, fasc. 4.45) APCV, Anno 1889, cat. 13, tit. 4, fasc. 2.46) APCV, Anno 1891, cat. 13, tit. 4, fasc. 3.47) APCV, Anno 1893, cat. 13, tit. 4, fasc. 3.48) APCV, Anno 1895, cat. 13, tit. 4, fasc. 3.49) APCV, Anno 1901, cat. 13, tit. 4, fasc. 3 e Anno 1902, cat. 13, tit. 4, fasc. 2.50) APCV, Anno 1932, cat. 10, tit. 4, fasc. 7.51) Si tratta di un’altra vena, lo stesso ing. Guerrieri riferisce che in quella zona, sottostante il pianoro di Poggio alla Fame, vi erano numerose polle di acqua.52) APCV, Anno 1894, cat. 13, tit. 4, fasc. 1.53) APCV, Anno 1886, cat. 13, tit. 4, fasc. 1.54) APCV, Anno 1890, cat. 13, tit. 4, fasc. 6.55) La fonte delle Conce era in grado di portare 0,75 litri d’acqua al secondo, circa 64000 litri al giorno (APCV, Anno 1932, cat. 10, tit. 4, fasc.4).56) APCV, Anno 1881, cat. 13, tit. 4, fasc. 3.57) APCV, Anno 1881, cat. 13, tit. 4, fasc. 3.58) APCV, Anno 1891, cat. 13, tit. 4, fasc. 4.59) Bat t ist ini 1921, p.46.60) APCV, Anno 1892, cat. 13, tit. 4, fasc. 6.61) Al l egr i 1905, p. 4 e APCV, Anno 1896, cat. 13, tit. 4, fasc. 4.62) APCV, Anno 1896, cat. 13, tit. 4, fasc. 4.63) APCV, Anno 1909, cat. 13, tit. 4, fasc. 5.64) Il deposito dell’acqua delle Conce è quell’edificio, ormai semidiroccato, costruito poco più a valle della villa del Concino, sulla sponda destra del botro di Vallebuona; oggi dalla maggior parte dei volterrani quel deposito è scambiato per i resti di un mulino.65) APCV, Anno 1910, cat. 13, tit. 4, fasc. 5.66) APCV, Anno 1915, cat. 13, tit. 4, fasc. 1.67) APCV, Anno 1917, cat. 13, tit. 4, fasc. 1.68) APCV, Anno 1910, cat. 13, tit. 4, fasc. 5.69) APCV, Anno 1930, cat. 10, tit. 4, fasc. 1.70) APCV, Anno 1916, cat. 13, tit. 4, fasc. 8.71) APCV, Anno 1916, cat. 13, tit. 4, fasc. 8.72) APCV, Anno 1931, cat. 10, tit. 4, fasc. 6.

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73) APCV, Anno 1937, cat. 10, tit. 4, fasc. 5.74) APCV, Anno 1931, cat. 10, tit. 4, fasc. 4.75) Tutta la documentazione relativa a questo anno si trova in APCV, Anno 1932, cat. 10, tit. 4, fasc. 4.76) APCV, Anno 1933, cat. 10, tit. 4, fasc. 4.77) Lagor io 1995, p. 86.78) Lagor io 1995, p. 110.79) APCV, Anno 1935, cat. 10, tit. 4, fasc. 2.80) Lagor io 1995, p. 111.81) Lagor io 1995, p. 112.82) Le tubature erano razionate per le fabbricazioni di guerra (Lagor io 1995, p. 167, n. 25).83) APCV, Anno 1937, cat. 10, tit. 4, fasc. 2.84) Lagor io 1995, p. 168.85) Lagor io 1995, p. 166.86) Fur iesi 1997, pp. 466-467.

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Acropoli di Atene, 21Acropoli di Volterra, 6,23-28, 32, 39, 41, 48,

50, 51, 52, 53, 58, 62, 67, 69, 77, 121Alba Fucens, 40Albano, 53Alchis, gastaldo, 77Allegri Filippo, 169, 172, 173, 174, 176, 177Amiternum, 69Anqua, 172Aquileia, 112Arezzo, 41, 42Arpino, botro, 10Artena, 18Assisi, 53,54Atene, 40Atri, 83, 84Augusto, 49Aulo Cecina, 47, 48

Bacci Peleo, 178Badia dei Camaldolesi, 107Bagno a Morba, 118Bagno dell’Era, 118, 120Bagno di Miemo, 118Bagno di Risalso, 118, 120 Bagno di San Giusto, 106-107, 124n, 129nBarbafiera Filippo, 152Battistero, 77Berti, Giovanni, 167Bonavie da Montebradoni, 118Borgo S. Alessandro, 81, 122n, 150, 152Borgo S. Giusto, 37, 77, 98, 122n, 150, 151,

166, 170, 171, 172Borgo S. Lazzero, 81, 122n, 150, 151, 156Borgo S. Maria, 81, 96, 122n, 132Borgo S. Stefano, 152, 162

Bresciani Lorenzo, 169Broglio, 69, 86, 110, 113, 128nBroglio, sorgente, 86, 113Buonamici Palmerio, 88Butus Michelis Falippe, 95

Caciagli Costantino, 92Caecinae, famiglia, 48, 49, 72nCaio Mario, 47Cancellari Rimbaldo, 98Cannicella, santuario della,26, 43nCapriani Francesco, 52, 72n, 135Cardo Maximus, 38, 40, 44n, 53Carlina, acquedotto, bosco, 172, 176, 178Carrinates, 49, 72nCasa Melani, 153, 166Castel Populo, 132Castelnuovo Val di Cecina, 172Cattedrale di Volterra, 130, 134Cecina, fiume, valle, 10, 11, 40, 41, 50, 63,

120, 172, 180nCelle, tempio, 26, 43nCetine, 58Chelino Ducci Tancredi, 92Chiesa di S. Chiara, 37Chiesa di S. Francesco, 154, 170Chiesa di S. Giovanni, 77Chiesa di S. Girolamo, 82, 109Chiesa di S. Giusto, 77, 79, 85, 96, 106, 107,

118, 131, 139Chiesa di S. Maria, 77, 78Chiesa di S. Michele, 39, 73, 77, 78, 122Chiesa di S. Quirico, 119Chiesa di S. Vitale, 77, 78Chiusi, 22, 40, 41, 42Ciapetti Luigi, 169

INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

194 Alessandro Furiesi

Cicerone, 47, 48Cisterna di Canonica, 154Colivicchi Bruno, 178Colle Val d’Elsa, 88Colombaie, 38, 83Conservatorio di S. Pietro, 169, 170Consortini Raffaello, 178Contrada S. Angelo, 115Contrada di Borgo, 81, 95, 96, 98, 122nContrada di Fornelli, 95Convento di S. Lino, 139Contrada di S. Stefano, 92, 95, 101Cori, 40Corso, 81, 96, 99Cristofani Mauro, 52, 53, 121Cuppari, dottor, 166, 168

Dalmine, 177Decumanus Maximus, 53, 122nDennis George, 31, 37Doccia, botro, valle, 10, 124Docciarello, 37, 84Docciarello, botro, 10Docciola, botro, valle, sorgente, 10, 12, 34, 35,

36, 38, 40, 42, 86, 132, 166Dogana del sale, 81Domus Episcopi, 79Donati Sebastiano, 57Duomo, vedi Cattedrale

Era, fiume, valle, piano, 10, 83, 86, 89, 92, 108, 110, 118, 124n

Etruria, 18, 19n, 22, 28, 40, 45n, 51

Falconcini Agostino, 80n, 133Faldini, 162,164,165Falerii, 19n, 26, 41, 43nFei Cosimo di Gherardo, 135Ferentino, 40Fermo, 53Fiesole, 37, 40Firenze, 63,-87, 120, 124n, 131, 154, 170Fiumi Enrico, 34, 53, 57, 58, 62, 63, 69, 72n,

76n, 79, 96, 128n

Follonica, 87Fons Grimaldinga, vedi Fonte di Mandringa, Fons Saracinorum, 79, 94Fontaccia di Montebradoni, 83Fontanelle, 81Fonte a Selci, 81, 83, 87, 88, 103-106, 124n,

132Fonte al Pino, 83, 124nFonte all’Agnello, 83, 84, 89, 108-109, 123n,

133, 162Fonte Bernardi, 86Fonte Corrente, 83, 87 Fonte de le Rivolte, 83, 89, 122nFonte del Purgo, 83, 99, 166Fonte del Velloso, 16, 82, 86, 109, 124n, 150,

151Fonte della Docciola, 83, 84, 86, 88, 89, 92,

116, 123n, 124n, 125n, 133, 136, 165, 166, 168

Fonte della Frana (vedi anche Fonte di S.-Marco), 83, 84, 98, 99, 151, 152, 170, 171, 172

Fonte delle Zatre, 82, 83, 86, 110 Fonte di Canale, 87, 99 Fonte di Fontanella, 83, 152Fonte di Fontecorrente, 116Fonte di Mandringa, 17, 79, 80n, 82, 83, 87n,

88, 98, 124n, 132, 151Fonte di Papignano, 83, 132Fonte di S. Alessandro, 101Fonte di S. Felice, 21, 30, 41, 44n, 64, 66, 71,

80n, 81, 83, 84, 86, 87, 88, 92-98, 124n, 126n, 133, 136, 140-144, 159-161, 165

Fonte di S. Giusto, 17Fonte di S. Marco, (vedi anche Fonte di

S.-Marco), 83, 84, 88, 98-99, 127Fonte di S. Stefano, 83, 84, 87, 88, 99-101,

136, 164Fonte di Vallebuona, 69, 83, 88, 110, 128nFonte Gaia, 135Fonte Marcoli, 82, 83, 88, 107, 122n, 124nFonte Morli, 83Fonte Pipoli, 83, 124n, 125nFonte S. Jacopo, 87

L’acqua a Volterra 195

Fornace, 105, 132Fortezza Medicea, 19n, 59, 128nFrana, botro, 10Franchini, Pietro, 72n, 135

Gabellieri, ingegnere, 171Gazzarri, 162Genova, 83Ghelli e Lombardo, ditta, 168Gherardini, abate, 12Giovannoni David, 168Gori Anton Francesco, 34, 52Granai Pubblici, 81Granduca Leopoldo II, 131Grecia, 21, 22, 24Grimaldi, famiglia, 79, 98Grimaldinga, vedi Fonte di MandringaGrosseto, 15, 176Guerrieri, ingegnere, 159, 162, 164, 168, 181nGuidi Bufalini Guido , 177Guidi Fabio, 173, 176

Impero Romano, 14, 77Incontri Guido, 169Inghirami Luigi, 142Inghirami Pier Nello, 168Interamna Lirenas, 69Istanbul, 53Istituto Santa Chiara, 172

Lago di Bracciano, 41Lagorio Lelio, 177Landi Leonida, 169Lazio, 18, 19n, 40Lazzeri Pietro, 142, 159Le Balze, 10, 77, 106, 131Le Conce, 12, 113, 121, 166Le Conce, sorgente, 12, 78, 110, 113Le Ripaie, 17Le Rivolte, vedi Fonte de le RivolteLeoncini, 107Lessi Franco Alessandro, 78

Levi Doro, 53, 72nLuppiano, 132

Maffei Niccolò, 149, 180nManetti Giovanni, 72n, 147n, 167Marmaio, botro, 10Martino, botro, 10Marzabotto, 32, 43n, 44nMassa Marittima, 86, 89, 96, 123nMastro Stefano, 90Mazzolla, 132Medici, famiglia, 133Micene, 21, 22Milano, 66, 76nMiseno, 53, 75nMonastero di S. Giusto, 77Mons Albuini, vedi Monte AlboinoMontaione, 66, 72nMonte Alboino, 77, 139Monte Nibbio, 106Monte Terzi, 83, 125nMonte Voltraio, 128n, 132Montebradoni, 10, 17, 77, 106, 122n, 139,

140Montecatini Val di Cecina, 40Montecerboli, 80n, 118, 174, 176Montemiccioli, 132Montieri, 86, 110Mura medievali del Mandorlo, 112Muroaquali, 61, 78, 80n, 87, 112Museo Guarnacci, 58, 64, 73n, 168Mussolini, 174, 177

Necropoli di Badia, 77Neri Rustichini, 95Nord Africa, 14Nuce, 82, 86, 122n

Oratorio di S. Ottaviano, 77Ortaccio, 136, 167Orvieto, 22, 26, 40, 43nOspedale di S. Maria, 80n, 96Otricoli, 69

196 Alessandro Furiesi

Pacini, 167, 168Padova, 112Pagliaio, botro, 10, 172, 174Palazzo Guarnacci, 121, 138Palazzo Incontri-Viti, 110, 138, 139Palazzo Inghirami, 137, 153, 167Palazzo Minucci Solaini, 137, 138Palazzo Pretorio, 81, 135, 155Palazzo Vescovile, 81, 138, 154Palazzo Viti, 31, 54Parenti, Andrea, 165Penera, botro, 10, 124Perseia, fonte, 22Perugia, 22, 40, 115, 135Pescaia, 30, 31, 34, 38, 83Piano della Guerruccia, 10, 17Piano di Castello, 10, 44n, 82, 168Piazza degli Avelli, 66, 76n, 96Piazza dei Ponti, 153, 156Piazza dei Priori, 12, 52, 72n, 77, 81, 114,

123n, 135, 149, 166, 167Piazza della Dogana, 52Piazza delle Zatre, 112Piazza Marcello Inghirami, 169Piazza Martiri della Libertà, 131Piazza S. Cristoforo, 167Piazza S. Giovanni, 154Piazza XX settembre, 77, 122, 167, 168Pignano, 51, 103Pinzano, botro, valle, 10, 44, 62, 79, 124Pisa, 49, 120, 124n, 149, 161, 166, 174, 176,

177Pisani, ingegnere, 169Planum Balnei, 118Podere Colloreto, 41, 45nPodere Pagliaio, 41Poggiarone, botro, 10Poggio alle Croci, collina, 10, 17, 82, 109,

139, 151Poggio Bagnoli, 41Poggio Ritrovoli, 172Pola, 112Pomarance, 108, 120, 125n, 172, 174, 177, 175

Pompei, 50, 59, 74n, 75nPonsacco, 168Ponsano, 132Porta a Selci, 12, 17, 23, 59, 81, 92, 103, 105,

106, 115, 122n, 124n, 132, 167, 170Porta all’Arco, 39, 40, 44n, 122nPorta Diana, 44, 167Porta Fiorentina, 58, 76n, 77, 124nPorta Marcoli, 92, 109, 115, 152, 153, 166Porta Menseri, 124, 126Porta S. Felice, 40, 63Porta di S. Francesco, 59, 84, 99Porta di S. Marco, 81Porta Gualduccia, 115Portonaccio, 26, 43nPostierla, località, 92Postierla di Menseri, 84, 99Pozzo dell’Ortino, 58, 62Pozzo di Nello, 153Prato Marzio, 77, 81, 84, 132, 139Pratum Martium, vedi Prato MarzioPubblici Macelli, 154Pyrgi, 25

Raikem Antonio, 58, 62Rioddi, botro, 10Risaliti Samuele di Olivo, 140Risalso, stagno, 118Roberto di Giovanni di Federigo de Ricci, 90Roma, 18, 19n, 40, 48, 53, 59, 72n, 75n, 76n,

176, 177Rondinelli Giovanni, 135Roselle, 135Rustichelli Orlando, 90

S. Agnolo, 81, 122nS. Andrea, 31, 44n, 152S. Felice, sorgente, 88, 92, 94, 124nS. Felice, terme, 62, 63, 66, 71S. Gimignano, 84, 89, 120S. Lazzaro, 41S. Ottaviano, 41S. Vincenzino, 50

L’acqua a Volterra 197

Saepinum, 69Sanfinocchi Giuseppe, 135Saracini, famiglia, 79Sassi Caduti, tempio, 26Scasato, tempioSchott Francesco, 135Scozia, 50Scricciolo, botro, 10Segni, 40, 53Siena, 15, 49, 84, 86, 89, 115, 120, 123n,

124n, 125n, 135, 139, 147n, 172, 178Silla, 46Siria, 50Solaini, ezio, 52Stati Uniti, 168Stigliano, 41Strolla, torrente, 41Susa, 69

Tarquinia, 17, 18Teatro Persio Flacco, 138Tirinto, 21Todi, 53, 54Torelli Mario, 41Torre Toscano, 121, 138Toscana, 14, 15, 89, 136, 168Trieste, 61, 112, 176

Valdarno Aretino, 41 Valdera, 81, 124, 149, 177Valle Asinaia, 103Valle Guiniçinga, 98Valle Publico, 78Valle, botro, 10Vallebuona, area, 17, 58, 61, 67, 78, 82, 86, 87,

92, 110, 112, 115, 124n, 125n, 133Vallebuona, botro, 60, 181nVallebuona, sorgente, 86, 87, 166Vallebuona, teatro, 44n, 48, 49, 57, 58, 59,

62, 112Vallebuona, terme, 58, 62, 64, 67, 71,Vallebuona, valle, 39, 69, 78, 85, 86, 109Vallo di Adriano, 50Veio, 17, 18, 22, 26, 38, 41, 43nVenezia, 85Verani Curzio, 140Vetulonia, 17, 18Via Aurelia, 49Via Cassia, 49Via dei Marchesi, 37Via del Mandorlo, 44nVia della Porta all’Arco, 39, 165Via Fiorentina, 108Via Franceschini, 58Via Gramsci, 44n, 45, 122n, 153Via Matteotti, 39, 44n, 53, 74n, 138Via Pisana, 38Via S. Lino, 96, 156Via Vittorio Veneto, 52Via della Fonte, 168Via Guarnacci, 54, 57, 74, 167Via Guidi, 167Via Nuova, 167Via Ormanni, 168Via Sarti, 31, 54, 58, 112Viale dei Ponti, 131Viale Francesco Ferrucci; Viale dei Filosofi, 45Vicarello, 41Vicolo dei Lecci, 57Vignale, tempio, 26, 43Volasennae, 48Yerbatan Saray, 53Zambra, torrente, 118, 172, 175Zolfinaia, botro, 118Zolfinaia, torrente, 118

198 Alessandro Furiesi

L’acqua a Volterra 199

200 Alessandro Furiesi

L’acqua a Volterra 201


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