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L'altra faccia dell’adozione. Prassi documentarie, linguaggi e cerimoniali nella tutela...

Date post: 02-Mar-2023
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127 6.1 Introduzione. Definizioni giuridiche e realtà sociali Gli esperti della storia delle forme di affidamento e di adozione dei bam- bini nel tardo medioevo e nella prima età moderna hanno riconosciuto da tempo il rilievo che può avere per le loro ricerche lo studio formale, in ampio senso diplomatistico, della documentazione. E, per la verità, non hanno aspettato i diplomatisti per iniziare a osservare le loro fonti da questo particolare punto di vista. I risultati sono di grande interesse e costituiscono un invito a proseguire oltre i primi passi. Si può provare, in concreto, a chiedersi se le forme, non solo documentarie, mediante le quali nel tardo medioevo certe istituzioni rivestirono il loro essere e agi- re nella società, non costituissero un aspetto importante della sostanza stessa del loro essere ed agire per riparare in modo efficace al disordine intollerabile dello stato di abbandono, debolezza, mancanza di ogni guida e sostegno in cui versava una parte non trascurabile dell’infanzia. A chi si accosti da profano al vasto campo di studi costituito dalla storia dell’infanzia, il problema della classificazione dei rapporti istitui- ti tra l’individuo o la coppia che accoglie l’adottato o affidato non può non apparire, a tutta prima, importante. Infatti, se si assume un pun- to di vista attento alle forme, il problema degli aspetti giuridici delle prassi definibili in largo senso adottive acquista un rilievo ineludibile. Come si vedrà sommariamente più avanti, sembra certo che l’adozione romana non sia sopravvissuta al medioevo, tanto che si può parlare al 6 L’altra faccia dell’adozione. Prassi documentarie, linguaggi e cerimoniali nella tutela dell’infanzia abbandonata nel tardo medioevo di Antonio Olivieri
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6.1 Introduzione.

Definizioni giuridiche e realtà sociali

Gli esperti della storia delle forme di affidamento e di adozione dei bam-bini nel tardo medioevo e nella prima età moderna hanno riconosciuto da tempo il rilievo che può avere per le loro ricerche lo studio formale, in ampio senso diplomatistico, della documentazione. E, per la verità, non hanno aspettato i diplomatisti per iniziare a osservare le loro fonti da questo particolare punto di vista. I risultati sono di grande interesse e costituiscono un invito a proseguire oltre i primi passi. Si può provare, in concreto, a chiedersi se le forme, non solo documentarie, mediante le quali nel tardo medioevo certe istituzioni rivestirono il loro essere e agi-re nella società, non costituissero un aspetto importante della sostanza stessa del loro essere ed agire per riparare in modo efficace al disordine intollerabile dello stato di abbandono, debolezza, mancanza di ogni guida e sostegno in cui versava una parte non trascurabile dell’infanzia.

A chi si accosti da profano al vasto campo di studi costituito dalla storia dell’infanzia, il problema della classificazione dei rapporti istitui-ti tra l’individuo o la coppia che accoglie l’adottato o affidato non può non apparire, a tutta prima, importante. Infatti, se si assume un pun-to di vista attento alle forme, il problema degli aspetti giuridici delle prassi definibili in largo senso adottive acquista un rilievo ineludibile. Come si vedrà sommariamente più avanti, sembra certo che l’adozione romana non sia sopravvissuta al medioevo, tanto che si può parlare al

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L’altra faccia dell’adozione. Prassi documentarie,

linguaggi e cerimoniali nella tutela dell’infanzia abbandonata

nel tardo medioevodi Antonio Olivieri

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1. M. Corbier, Introduction. Adoptés et nourris, in Id. (éd.), Adoption et fosterage, de Boccard, Paris 1999, p. 7.

2. Essa deve comprendere quindi sia elementi personali, quali l’acquisizione per l’adottato dello status di figlio, sia l’acquisizione di elementi reali, quali il diritto alla successione ereditaria. Per un profilo sintetico di storia giuridica dell’adozione medievale cfr. G. Vismara, L’adozione nel diritto intermedio, in Id., Scritti di storia giuridica, vol. v, La famiglia, Giuffrè, Milano 1988, pp. 193-9 (già in Enciclopedia del diritto, vol. i, Giuffrè, Milano 1959, pp. 581-4). Il lavoro di riferimento sull’adozione nel diritto tardo-medievale è ora F. Roumy, L’adoption dans le droit savant du xiie au xvie siècle, Libraire Générale de Droit et de Jurisprudence, Paris 1998, in particolare, per ciò che qui più interessa, pp. 186-214.

3. M. G. Di Renzo Villata, L’adozione tra medioevo ed età moderna: un istituto al tramonto?, in M. Garbellotti, M. C. Rossi (a cura di), Pratiche dell’adozione in età bassomedievale e moderna, in “Mélanges de l’École Française de Rome. Italie et Médi-terranée”, 124, 2012, 1, pp. 7-8; Id., Il volto della famiglia medievale tra pratica e teoria nella «Summa Totius artis notariae», in G. Tamba (a cura di), Rolandino e l’“ars nota-ria” da Bologna all’Europa. Atti del Convegno internazionale di studi storici sulla figura e l’opera di Rolandino (Bologna, 9-10 ottobre 2000), Giuffrè, Milano 2002, pp. 411-8.

riguardo di una “rottura medievale”1. L’adozione infatti, intesa come concetto generale, comportava nel diritto romano l’assunzione da parte dell’adottante della patria potestà sull’adottato, l’inserimento di quest’ultimo nella linea agnatizia del padre adottivo e l’acquisizione da parte dell’adottato del diritto a essere nutrito e assistito dall’adottante e a succedergli come figlio a pieno titolo. In mancanza di uno di que-sti elementi non è possibile parlare di piena adozione2, sempre che si vogliano assumere criteri strettamente romanistici. I casi medievali di adozioni concepite secondo questi ultimi criteri sono rarissimi, tanto che i giuristi attenti alle prassi dei tribunali cittadini medievali, come il grande maestro bolognese di arte notarile Rolandino Passeggeri, avver-tivano che i formulari di adoptio e adrogatio, le due forme di adozione romane, su cui comunque si soffermavano, non avevano alcuna utilità pratica3. Come si vedrà più avanti analizzando alcuni contributi, non si può dire che gli sforzi degli storici più attenti alle distinzioni giuridica-mente fondate abbiano esaurito il loro ruolo. Il problema resta urgente e controverso, e non solo per quanti sono più inclini alle distinzioni concettuali accurate. L’importanza delle definizioni giuridiche del rap-porto adottivo e delle polemiche che esso suscitò fra tardo medioevo ed età moderna viene riconosciuta anche da chi, come Kristin Gager, autrice di un importante libro sull’adozione nella Francia della prima età moderna, è stato accusato di utilizzare il concetto di adozione in

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4. K. E. Gager, Blood Ties and Fictive Ties: Adoption and Family Life in Early Modern France, Princeton University Press, Princeton 1996, in particolare pp. 37-70; cfr. Corbier, Introduction, cit., p. 11.

5. P. Gavitt, Charity and Children in Renaissance Florence: The Ospedale degli innocenti, 1410-1536, The University of Michigan Press, Ann Arbor 1990; cfr. Th. Kuehn, L’adoption à Florence à la fin du Moyen Âge, in D. Lett, Ch. Lucken (éds.), L’adoption. Droits et pratiques, in “Médiévales”, 35, 1998, p. 71.

6. Cfr. ad esempio gli studi raccolti in M. C. Rossi (a cura di), Margini di libertà. Testamenti femminili nel medioevo. Atti del convegno internazionale (Verona, 23-25 ot-tobre 2008), Cierre, Caselle di Sommacampagna 2010.

7. Corbier, Introduction, cit., p. 28.8. Esempi per Firenze quattrocentesca in Kuehn, L’adoption à Florence, cit., p. 72;

un sintetico quadro generale e un esempio di grande interesse di adozione informale

modo troppo disinvolto4. Va detto con forza che, a valle delle necessarie distinzioni, resta tutto intero, con il fascino di un enigma insoluto, il problema delle pratiche adottive medievali. è per questa ragione che si può ritenere che atteggiamenti come quelli rimproverati alla Gager o a Philipp Gavitt, autore di uno studio sull’ospedale degli Innocenti di Firenze5, abbiano alla base un’ispirazione giusta.

Insomma, ai fini di una comprensione ampia del rapporto adottivo nella storia del tardo medioevo e della prima età moderna occorre da un canto essere attenti alle classificazioni, dall’altro non adottare crite-ri eccessivamente rigidi. Si tratta di un modo di operare di particolare efficacia quando si tratti di studiare il destino medievale di concetti e comportamenti formalizzati nel diritto romano (si pensi, per fare un altro esempio, alle vicende medievali del testamento6). Occorre, quin-di, tenere conto delle differenze reali e importanti che corrono – sotto il profilo giuridico – tra le prassi diffuse nella società romana e quelle proprie dell’Occidente medievale: quindi, per quel che qui interessa, tra l’adozione, nelle sue due forme di adrogatio e adoptio, conosciuta nel mondo romano, che neppure ignorava relazioni di mise en nourriture7, e le soluzioni più diffuse nel tardo medioevo. D’altra parte è opportu-no non adottare criteri eccessivamente rigidi e ammettere senz’altro che alcune delle pratiche di accoglimento familiare di orfani, fanciulli abbandonati, giovani sradicati che il medioevo e la prima età moder-na hanno conosciuto possono essere assimilate a forme di adozione in società in cui gli spazi per i rapporti interfamiliari e intrafamiliari non formalizzati o poco formalizzati restavano ampi, soprattutto nei piani bassi della scala sociale8. è chiaro che entrambi gli approcci recano con

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in M. C. Rossi, Storie di affetti nel medioevo: figli adottivi, “figli d’anima”, figli spiri-tuali, in Garbellotti, Rossi (a cura di), Pratiche dell’adozione, cit., pp. 165-78. Anche scontando una maggiore opacità risultante dall’analisi statistica delle fonti catastali dei comportamenti familiari degli strati bassi della società toscana rispetto ai com-portamenti propri delle fasce più ricche della popolazione, una tendenza a compor-tamenti familiari meno formalizzati nei gruppi economicamente svantaggiati emerge con sicura evidenza: cfr. D. Herlihy, Ch. Klapisch-Zuber, I toscani e le loro famiglie. Uno studio sul catasto fiorentino del 1427, il Mulino, Bologna 1988 (ed. or. Tuscans and their Families: A Study of the Florentine Catasto of 1427, Yale University Press, New Haven 1978), in particolare pp. 441-600. Il canonista Enrico da Susa, poi cardinale Ostiense, polemizzò a metà del Duecento vivacemente contro le adozioni prive di forme legali e di conseguenza, a suo parere, di sostanza giuridica: Roumy, L’adoption dans le droit, cit., pp. 202 ss.

9. A. Guerreau-Jalabert, Qu’est-ce que l’“adoptio” dans la société chrétienne médiévale?, in Lett, Lucken (éds.), L’adoption. Droits et pratiques, cit., p. 40 (qui e oltre le traduzioni dal francese o dall’inglese sono di chi scrive).

sé sia feconde opportunità di ricerca sia rischi notevoli. Rischi e oppor-tunità che qui basterà aver evocato, dato che nelle pagine che seguono ci si occuperà di essi in quanto aspetti di questioni collegate in modo diretto al problema degli aspetti formali delle fonti e ad altri, che pari-menti si possono definire formali, della storia delle adozioni.

6.2 Problemi concettuali e terminologici

Per iniziare questo assai ellittico percorso si partirà da un autore pro-babilmente poco amato dagli studiosi delle pratiche adottive medieva-li. In effetti, la tersa coerenza del discorso di Anita Guerreau-Jalabert non lascia spazio ad approssimazioni terminologiche e concettuali. L’adozione, nei termini in cui viene definita nel diritto romano clas-sico, nel medioevo non esiste: «ciò che è stato interpretato da certi storici come persistenza dell’adozione nella società medievale appare con maggiore esattezza come un misto di relazioni di fosterage, d’isti-tuzioni d’erede, di donazioni tra vivi»9; o ancora, citando un altro contributo della stessa autrice: «Contrariamente alla società romana, in effetti, il medioevo pratica assai largamente – e in maniera signifi-cativa nei gruppi dominanti – la mise en nourriture, mentre ignora l’a-dozione, laddove la società contemporanea ha ristabilito l’adozione, abbandonando invece lentamente, ma con decisione, gli usi educativi

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10. E richiama poi il peso particolare che, nell’Occidente medievale, avevano i rapporti di padrinaggio e comparaggio: Id., Nutritus/oblatus: parenté et circulation d’enfants au Moyen Âge, in Corbier (éd.), Adoption et fosterage, cit., p. 264.

11. Ivi, pp. 268-9.12. Il suo orientamento è condiviso da altri importanti medievisti. Cfr. in parti-

colare il lavoro di Alain Guerreau, di cui cito qui un saggio programmatico: Avant le marché, les marchés: en Europe, xiiie-xviiie siècle (note critique), in “Annales. Histoire, Sciences Sociales”, 56, 2001, pp. 1129-75.

13. G. Duby, Avvertenza, in Id. (a cura di), La vita privata dal Feudalesimo al Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. v ss. (ed. or. De l’Europe féodale à la Re-naissance, Seuil, Paris 1985).

14. Guerreau-Jalabert, Nutritus/oblatus, cit., p. 278.

che comportano una rottura materiale, nella vita quotidiana, tra geni-tori e bambini»10.

La coerenza priva di fenditure del quadro disegnato dalla studio-sa francese riposa, almeno in parte, sulla convinzione di una certa in-traducibilità dei lessici medievali in quelli moderni: così accade per il complesso insieme semantico, linguisticamente latino e antico-france-se, del “nutrimento”, a tradurre il quale i vocabolari moderni sarebbe-ro inadeguati11. Si tratta di un aspetto importante del pensiero storico di questa studiosa12, perché, tra l’altro, esso comporta una netta presa di posizione contro la legittimità scientifica di quelle operazioni che Georges Duby definì di transfert. Operazioni che, applicando concetti contemporanei a realtà del passato, hanno consentito, pur con tutte le loro inadeguatezze, di affinare e delimitare i concetti, di individuare campi e situazioni confrontabili, sia pure in modo approssimativo, con realtà con le quali siamo in rapporto diretto13. Si pensi solo al caso, che riguarda assai da vicino i temi qui trattati, della vita privata, concetto tanto anacronistico, se applicato al medioevo, quanto fecondo, perché invita a studiare l’individuo e i gruppi entro sfere sociali estranee, in certa misura, alla vita pubblica.

La marcata specificità dei lessici e delle pratiche medievali, la loro sostanziale intraducibilità, nel discorso di Anita Guerreau-Jalabert funziona soprattutto a ritroso, segnando una profonda discontinuità rispetto alle esperienze del mondo antico: le due categorie in cui può essere distribuita la circolazione dei bambini nella società romana sono quella dell’adozione, intesa come nomen generale, e «le relazioni in-formali, sul genere del fosterage, che uniscono l’alumnus a colui che lo nutre e lo alleva»14. Nel medioevo, come si è già detto, questo doppio

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15. Ivi, pp. 281-6. A proposito dei trasferimenti di bambini legati all’educational fosterage, di carattere differente rispetto alle oblazioni monastiche da una parte e ai rapporti di padrinaggio battesimale dall’altro, l’autrice precisa che «il sont de l’ordre du tacite et ont valeur pratique, il se caractérisent par l’absence de formalisation et de ritualisation, ce qui s’oppose à ce qu’ils soient pris, là encore, pour autre chose que ce qu’ils sont» (p. 284).

16. Guerreau-Jalabert, Qu’est-ce que l’“adoptio”, cit., pp. 47-8.17. Kuehn, L’adoption à Florence, cit., p. 70; Ch. Klapisch-Zuber, L’adoption im-

possible dans l’Italie de la fin du Moyen Âge, in Corbier (éd.), Adoption et fosterage, cit., pp. 321-37.

registro scomparirebbe per essere sostituito dal solo fosterage, pur di-stinto in pratiche differenti, ma – ed è questo un punto importante, sul quale tuttavia non ci si soffermerà – tutte «attestanti la costante costituita dalla scomparsa nel medioevo della distinzione di principio tra pubblico e privato»15.

Non è necessario qui esporre le ragioni per cui, secondo la Guerre-au-Jalabert, nel medioevo l’adozione sarebbe stata esclusa e le diverse forme di fosterage si sarebbero invece sviluppate. Prima di procedere occorre tuttavia porre in rilievo la fecondità delle pur brevi analisi che la studiosa dedica al linguaggio para-adottivo delle fonti tardo-medie-vali: il lessico della carità, dell’amore filiale, del dono che percorre i testi dei contratti di affidamento stipulati, in prevalenza, tra istituzioni caritative e affidatari16.

Conviene ora soffermarsi sulle posizioni di coloro che, pur da una prospettiva di fondo fortemente diversa da quella della studiosa fran-cese, approdano, se non a una negazione dell’applicabilità al medio-evo del concetto di adozione, almeno a sostenere l’estrema rarità di applicazione fattuale dell’istituto, accentuando insieme un – presunto o reale – carattere di informalità del coevo fosterage. Thomas Kuehn e Christiane Klapisch-Zuber hanno, da una parte, insistito sulla necessi-tà di una definizione rigorosa delle pratiche adottive, quindi sulla ne-cessità di distinguere «tra l’adozione come strategia legale e patrimo-niale», estremamente rara, «e l’adozione come forma di sistemazione (fosterage) in senso affettivo e/o caritatevole»17, ribadendo il carattere non adottivo – in termini di diritto – degli accordi stretti tra indivi-dui o coppie affidatarie con un nuovo soggetto che si nomina ora per la prima volta ma che dominerà tutto il discorso che verrà fatto d’ora innanzi. Si tratta degli ospedali per l’infanzia abbandonata – nel caso specifico su cui si soffermano Kuehn e Klapisch-Zuber, degli Innocenti

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18. Kuehn, L’adoption à Florence, cit., pp. 72-3.19. Klapisch-Zuber, L’adoption impossible, cit., p. 323.20. Cfr. anche, in proposito, Herlihy, Klapisch-Zuber, I toscani e le loro famiglie,

cit., p. 448.21. Ivi, pp. 324-5. è quanto ha posto in rilievo A. Guerreau-Jalabert nelle annota-

zioni sul lessico proprio del campo degli affetti familiari, come si notava poco sopra.22. Ivi, p. 328.23. Ivi, p. 327; cfr. anche J. E. Boswell, L’abbandono dei bambini in Europa oc-

cidentale, Rizzoli, Milano 1991 (ed. or. The Kindness of Strangers: Abandonment of

di Firenze. Tali accordi – Kuehn si spinge fino a chiamarli contratti, salvo dotare la parola di robuste virgolette – erano scritti in toscano e «non erano degli istrumenti notarili giovantisi della garanzia legale del latino richiesto per una vera adoptio». E poi: «i contratti definiti con i responsabili degli Innocenti non soddisfacevano le condizioni richieste per la convalida» di un’adozione. In effetti «tutti gli accordi di affidamento conclusi con gli Innocenti» non erano che semplici ac-cordi contrattuali privati, scripta privata18. La Klapisch-Zuber è persino più netta: gli ospizi toscani – ma i riferimenti documentari sono poi tutti agli Innocenti, tramite il libro di Philip Gavitt – «concepivano l’adozione dei loro piccoli amministrati secondo una forma appena più istituzionalizzata»19 rispetto ad accordi di affidamento informale di bimbi definiti tra privati (documentati, in numero assai ridotto, dai due stessi studiosi sul cui lavoro mi sto ora soffermando)20. Tuttavia le promesse delle famiglie affidatarie, «i termini dell’accordo» che legava chi affidava e chi prendeva in affido il bambino o la bambina per giovarsi dei suoi servizi, magari insegnando loro un mestiere, sono piuttosto precisi e, si noti bene, «comportano clausole che eccedono il tenore abituale dei contratti d’apprendistato o servizio»21. Alludo a condizioni abituali in questo genere di accordi: trattare il bimbo come se fosse proprio, educarlo alla dottrina e alla morale cristiana, dotarla se è una bimba ecc. E tuttavia le strategie messe in atto dalle famiglie affi-datarie non sono che «abbozzi», dalle forme e dai colori forse voluta-mente vaghi, propizi per pentimenti e adattamenti, e i rapporti istituiti tra famiglie e bambini vengono definiti come «adoptions lâches»22. Di più: viene considerato come significativo di un «terreno giuridica-mente poco sicuro» su cui poggiano queste forme di adozione (e per le quali i registri ospedalieri utilizzano un generico lessico di adozione) il fatto che l’ospizio conservi diritti e doveri verso i “suoi” bambini23.

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Children in Western Europe from Late Antiquity to the Renaissance, Allen Lane-The Penguin Press, London 1988), p. 259. Valutazioni di tutt’altro genere in Rossi, Storie di affetti nel medioevo, cit., p. 5.

24. Kuehn, L’adoption à Florence, cit., p. 72.25. B. Jussen, “Adoptiones” franques et logique de la pratique. Remarques sur l’échec

d’une importation juridique et les nouveaux contextes d’un termes romain, in Corbier (éd.), Adoption et fosterage, cit., pp. 101-21. Il lavoro maggiore di Jussen sulla paternità spirituale e l’adozione nell’alto medioevo è Patenschaft und Adoption im frühen Mit-telalter: künstliche Verwandtschaft als soziale Praxis, Vandenhoeck & Ruprecht, Göt-tingen 1991, di cui esiste una traduzione inglese ampliata e riveduta: Spiritual Kinship as Social Practice: Godparenthood and Adoption in the Early Middle Ages, University of Delaware Press, Newark-London 2000.

26. Cfr. ad esempio D. Herlihy, La famiglia nel medioevo, Laterza, Roma-Bari 1987 (ed. or. Medieval Households, Harvard University Press, Cambridge, ma-Lon-don 1985), pp. 107-34.

Un’annotazione a margine: l’esame critico degli usi linguistici, re-lativi alle improprietà del lessico adottivo, non riguarda, negli scritti sommariamente passati in rassegna, soltanto le opere degli storici, ma anche il dettato delle fonti: per fare un esempio, il fiorentino Guido di Piero de’ Ricci definì, nella sua portata catastale del 1480, Caterina come sua figlia «adottiva», precisando di averla accolta «per maritare e per servire» (vale a dire, perché si costituisse, come remunerazione per il servizio domestico prestato a Piero, una dote grazie alla quale potesse poi sposarsi): dunque, «ella non era stata, in apparenza, davve-ro adottata»24. Naturalmente tutti sanno che il linguaggio delle fonti va valutato alla luce degli agenti responsabili della loro produzione e delle circostanze in cui esse vengono poste in essere. La precisione del linguaggio dei giuristi non è moneta che circoli in tutti i punti del ter-ritorio vasto e composito delle fonti scritte. Tutt’altro. Quanto sono plausibili, per riprendere le parole di uno storico tedesco, le spiegazioni storiche fondate sulla ricerca di una logica giuridica dietro le pratiche sociali? Stringere tra virgolette il termine “adozione” tutte le volte che compare in fonti non giuridiche non serve più a soddisfare la coscienza giuridica che a proporre un’interpretazione?25

Lo sfondo che dà corpo a queste posizioni è costituito dalla consta-tazione dello stabilirsi del sistema dei lignaggi, ovvero della formazione e del consolidamento della famiglia aristocratica tardo-medievale eu-ropea come una salda ed esclusiva struttura patrilineare basata sui lega-mi di sangue26. Salda e molto esclusiva, se nel caso specifico fiorentino

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27. Kuehn, L’adoption à Florence, cit., pp. 77 ss. Cfr. Id., Reading between the Pa-trilines: Leon Battista Alberti’s «Della Famiglia» in Light of His Illegitimacy, in Id., Law, Family and Women: Toward a Legal Anthropology of Renaissance Italy, The Uni-versity of Chicago Press, Chicago-London 1991, pp. 157-75, in particolare pp. 167-9. Per le difficoltà che i legittimati, o coloro che le provvisioni del consiglio cittadino rendevano assimilabili a questa categoria, incontravano a Firenze al momento della successione cfr. Klapisch-Zuber, L’adoption impossible, cit., pp. 329 ss.; Di Renzo Vil-lata, L’adozione tra medioevo ed età moderna, cit., pp. 10-1.

28. Klapisch-Zuber, L’adoption impossible, cit., p. 329.29. F. Niccolai, La formazione del diritto successorio negli statuti comunali del ter-

ritorio lombardo-tosco, Giuffrè, Milano 1940.

dall’eredità restavano escluse non solo le figlie femmine, che dovevano accontentarsi della dote, ma anche gli illegittimi e persino i legittimati, mentre agli adottati le leggi municipali neppure accennavano, ma s’in-tende che l’esclusione doveva valere anche per essi. I rarissimi casi do-cumentati confermano, nella sostanza, questa esclusione27. «La logica della riproduzione familiare – per citare le parole Christiane Klapisch-Zuber – fa premio sulle aspirazioni individuali»28. La situazione appe-na descritta si può facilmente, documenti alla mano, ampliare a tutta l’Italia centro-settentrionale29.

6.3 Gli ospedali per l’infanzia abbandonata:

formalismi e processi documentari

Occorre chiedersi, giunti a questo punto, quali sono gli snodi più deli-cati e insieme più importanti delle questioni relative alla regolazione dei rapporti adottivi, al fine di individuare quali interessi si volessero tute-lare. Come si vedrà, è proprio dall’analisi di questi aspetti che emerge il rilievo che può avere lo studio dei formalismi e delle organizzazioni documentarie per una migliore comprensione del rilievo che le pratiche di affidamento dei bambini avevano nelle società tardo-medievali.

Si proverà a rovesciare la prospettiva, vale a dire a guardare i fatti che interessano non dal punto di vista degli affidatari ma dal punto di vista degli istituti caritativi, gli ospedali per bimbi abbandonati. Com-piendo questa operazione emergerà in tutta chiarezza – come hanno già visto diversi studiosi – che i rapporti di affido che si instauravano

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30. N. Terpstra, Abandoned Children of the Italian Renaissance: Orphan Care in Florence and Bologna, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 2005, ad in-dicem, s.v. statutes: Terpstra, pur non presentando una trattazione specifica sul tema degli statuti degli istituti per la cura dei trovatelli, dedica ad essi molte annotazioni, ponendo sempre attenzione nel distinguere tra i piani programmatici e i loro più o meno forti adattamenti nella pratica.

31. Cfr. soprattutto le note analisi di R. C. Trexler, Famiglia e potere a Firenze nel Rinascimento, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1990, ripreso da Boswell,

non erano governati da forme e procedure vaghe, informali, lasche, ma da modi di procedere attentamente, talvolta persino ossessiva-mente calibrati.

Il discorso non va naturalmente diluito in una generale disamina delle strutture istituzionali e amministrative degli ospedali, ma mi sembra necessario tenere presente l’insieme delle procedure median-te le quali questi istituti disponevano o, meglio, si prendevano cura dei bambini: la produzione di documentazione scritta e le formali-tà diplomatistiche adoperate non sono un precipitato delle attività degli ospedali, ma ne costituiscono parte, così come il linguaggio e i rituali adottati. Visti insieme questi aspetti parziali – ma in realtà fortemente interconnessi – compongono una struttura di compor-tamenti formalizzati volti a garantire l’ordinato e sicuro svolgimento della vita della famiglia ospedaliera, una vita condotta secondo criteri rispondenti agli ideali sociali e politici delle élites urbane che pro-mossero queste e altre imprese caritative. Gli atti e le loro ordinate se-quenze – adempimenti, scritture, cerimoniali – vennero codificati in una normativa statutaria precisa, in cui si riflessero imperiose esigen-ze di controllo, tutela, ordine dettate dalla volontà di circoscrivere e governare la realtà costituita dall’infanzia abbandonata, di eliminare un disordine che avrebbe potuto sfigurare l’immagine del buon go-verno cittadino30.

è opportuno precisare che quanto si è appena detto e quanto si aggiungerà in seguito non va inteso come una valutazione positiva o ottimistica della qualità ed efficacia delle cure prestate da questi enti ai trovatelli. Valutazioni di tal genere sono, come è noto, assai importanti per una parte rilevante della storiografia che si occupa dell’assistenza all’infanzia abbandonata: esse comportano, inevitabilmente, la neces-sità di procedere a misurazioni di tipo statistico sui tassi di mortalità dei bambini soggetti alle cure degli ospedali31. In realtà – lo ha dimo-

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L’abbandono dei bambini, cit.; cfr. anche Herlihy, Klapisch-Zuber, I toscani e le loro famiglie, cit., pp. 458-62.

32. Gavitt, Charity and Children, cit., pp. 187-271.33. L. Sandri, Le «scritture del baliatico» in Toscana tra xvi e xix secolo: il caso

degli Innocenti di Firenze, in G. Da Molin (a cura di), Trovatelli e balie in Italia (secc. xvi-xix). Atti del Convegno «Infanzia abbandonata e baliatico in Italia, secc. xvi-xix» (Bari, 20-21 maggio 1993), Cacucci, Bari 1994, pp. 471-90.

34. Cfr. T. Takahashi, Il rinascimento dei trovatelli. Il brefotrofio, la città e le cam-pagne nella Toscana del xv secolo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003 (ed. or. The Renaissance of Foundlings: The Orphanage, City and Countrysides in Tuscany of the Fifteenth Century, Nagoya University Press, Nagoya 2000), pp. 10-1, dove è tra-scritta l’intestazione del primo registro della serie Balie e bambini, recante la data del 5 febbraio 1445, e la porzione iniziale della partita relativa al primo trovatello portato all’ospedale, una bambina, quello stesso 5 febbraio. Cfr., per un esempio di modalità di registrazione che sembra analoga, sia pure più tarda, relativa al conservatorio fem-minile bolognese di Santa Maria del Baraccano, Terpstra, Abandoned Children, cit., pp. 103-4.

35. G. M. Varanini, Per la storia delle istituzioni ospedaliere nelle città della Terra-ferma veneta nel Quattrocento, in A. J. Grieco, L. Sandri (a cura di), Ospedali e città: l’Italia del Centro-Nord, xiii-xvi secolo. Atti del Convegno internazionale di studio

strato con grande efficacia Philip Gavitt32 – le cautele necessarie per interpretare in modo corretto i dati offerti dalle fonti sono molteplici ed è raro che il materiale a disposizione dello storico consenta quei raf-finati ragionamenti necessari a evitare che le percentuali non misurino altro che l’intensità della propensione dello storico a prendere partito.

In un articolo pubblicato nel 1994 Lucia Sandri si è occupata espressamente dei caratteri formali delle «scritture relative all’ab-bandono dei bambini in Toscana»33. La studiosa ha individuato un modello comune di registrazione scritta delle vicende di rilievo isti-tuzionale relative a ciascuno dei bambini abbandonati accolti negli ospedali toscani. Modi dell’abbandono, notizie sul bambino, affida-mento alla balia erano inseriti nei registri alla maniera di quel partico-lare tipo di registri finanziari costituiti da sequenze di conti intestati a singole persone: a ogni bambino una pagina di registro – anzi, come ebbe a scrivere il primo camerlengo dell’ospedale fiorentino degli In-nocenti, una “partita” – in cui venivano iscritte notizie, adempimenti e conti riguardanti il trovatello a partire dal momento in cui era con-dotto all’ospizio34.

Questa tipologia, che sembrerebbe diffusa anche fuori della Tosca-na35, non esaurisce certo la ricchezza formale dei registri tardo-medie-

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tenuto presso l’Istituto degli Innocenti e Villa i Tatti (Firenze 27-28 aprile 1995), Le Lettere, Firenze 1997, p. 131.

36. Sandri, Le «scritture del baliatico», cit., pp. 473 ss.37. P. Cammarosano, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Ca-

rocci, Roma 1991. Ampie prospettive di ricerca sono state aperte, oltre che dal libro appena citato, dal breve contributo di J.-C. Maire Vigueur, Révolution documentaire et révolution scripturaire: le cas de l’Italie médiévale, in “Bibliothèque de l’École des Chartes”, 153, 1995, pp. 177-85.

38. Gavitt, Charity and Children, cit., pp. 187 ss.; Takahashi, Il rinascimento dei trovatelli, cit., pp. 10 ss.

39. Sandri, Le «scritture del baliatico», cit., p. 476: l’archivio dell’ospedale degli Innocenti conserva una serie di «piccoli registri adatti per essere contenuti nelle ta-sche o nelle pieghe delle vesti» (il più antico è del 1568) in cui le balie interne dell’o-spedale, addette all’accoglimento degli esposti, appuntavano in «un linguaggio [...] di marcata impronta dialettale, quotidiana e familiare», i dati ricavabili da un primo esame autoptico dei bambini.

40. Rimando ad alcuni importanti studi di Armando Petrucci: Modello notarile e testualità, in Il notariato nella civiltà toscana. Atti di un Convegno (maggio 1981), Consiglio nazionale del notariato, Roma 1985, pp. 125-45; Minuta, autografo, libro d’autore, in C. Questa, R. Raffaelli (a cura di), Il libro e il testo. Atti del Convegno in-ternazionale (Urbino, 20-23 settembre 1982), Università degli studi di Urbino, Urbino 1984, pp. 399-414; Dalla minuta al manoscritto d’autore, in G. Cavallo, C. Leonardi, E. Menestò (a cura di), Lo spazio letterario del medioevo. Il medioevo latino, vol. i, La produzione del testo, Salerno editrice, Roma 1992, pp. 353-72. Per gli ospedali fiorenti-

vali toscani relativi ai bambini accolti negli ospizi36. Lavori sistematici di descrizione diplomatistica dei registri in questione non esistono, che io sappia, ma l’esempio è importante perché pone in rilievo la con-divisione da parte degli amministratori degli ospedali della raffinata cultura documentaria propria della società cittadina dell’Italia tardo-medievale, nelle sue complesse articolazioni pubbliche e private (mer-cantili e bancarie)37. Molto di più su questo materiale non si può dire, anche se Lucia Sandri e altri – si pensi al libro di Philip Gavitt, qui più volte citato, e al successivo volume di Tomoko Takahashi38 – ac-cennano a documenti d’altra natura, di alcuni dei quali è chiaro, ad esempio, il carattere di primo appunto redatto su registri di formato portatile, vacchette o manuali39, per tutti la più o meno stretta aderenza al modello notarile che, dal punto di vista tecnico, era anche un modo di procedere attraverso scritture preparatorie verso il registro in forma compiuta, e che sotto un profilo generale, istituzionale e culturale, in una parola storico, era il modello delle scritture, non solo documenta-rie, cittadine40.

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ni diretti da corporazioni si è parlato di una cultura documentaria specifica «ricon-ducibile a parametri “borghesi”-mercantili» (Varanini, Per la storia delle istituzioni, cit., p. 118), il che è certamente vero, anche se credo sia altrettanto corretto rimandare a un complesso di nozioni, competenze e prassi di dimensioni più vaste, non soltanto laiche, e di matrice essenzialmente notarile: cfr., tra i diversi lavori di Gian Giacomo Fissore che si potrebbero citare a tale proposito, «Iacobus Sarrachus notarius et scopo-lanus Astensis ecclesie»: i chierici notai nella documentazione capitolare e vescovile ad Asti fra xiii e xiv secolo, in D. Puncuh (a cura di), Studi in onore di Giorgio Costama-gna, Società ligure di storia patria, Genova 2003, pp. 365-414; Prassi autenticatoria e prospettive di organizzazione burocratica nella documentazione episcopale torinese alle soglie del Trecento, in L. Pani (a cura di), «In uno volumine». Studi in onore di Cesare Scalon, Forum, Udine 2009, pp. 229-56, saggi che, a dispetto dei loro titoli, costitui-scono contributi interpretativi di ampio raggio.

41. G. Albini, La gestione dell’Ospedale Maggiore di Milano nel Quattrocento: un esempio di concentrazione ospedaliera, in Grieco, Sandri (a cura di), Ospedali e città, cit., pp. 157-78; Id., Città e ospedali nella Lombardia medievale, clueb, Bologna 1993, pp. 103-27.

42. Id., Dall’abbandono all’affido: storie di bambini nella Milano del tardo Quat-trocento, in Garbellotti, Rossi (a cura di), Pratiche dell’adozione, cit., p. 197.

Altri contributi consentono di misurarsi in modo diretto, per dire così, con la dimensione documentaria dell’affido, dopo il termine del consueto periodo di collocazione presso una balia da latte esterna, del bimbo assistito da un istituto ospedaliero a nuclei familiari che ne avessero fatto richiesta. Tra le carte dell’Ospedale maggiore di Mila-no, il nuovo ospedale unificato istituito a metà circa del xv secolo41, si trova un importante registro dedicato esclusivamente all’affidamento dei trovatelli. Il suo interesse non risiede soltanto nella ricchezza inu-sitata dei dati offerti, ma anche nel rilievo delle scelte formali: il regi-stro, infatti, «rispecchia, nel mutare delle modalità di compilazione, la progressiva definizione di una precisa prassi di affidamento»42. La progressiva elaborazione della forma degli atti di affido, a partire da un inizio piuttosto disomogeneo, assume il significato di una ricerca in direzione di una definizione accurata delle procedure di affido: i particolari – intestazione delle pagine di registro, progressiva stabiliz-zazione dei formulari, riferimenti a documentazione collegata – co-stituiscono tutti chiari riferimenti al campo dello strumentario e delle competenze notarili.

Ancora un ultimo esempio relativo alla documentazione. Si tratta del caso particolare costituito da una piccola ma significativa sezione delle carte dell’ospedale confraternale di Santa Maria dei Battuti di

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43. F. Bianchi, Adottare nella terraferma veneta del Quattrocento: investimenti affettivi, opportunità economiche, benefici spirituali, in Garbellotti, Rossi (a cura di), Pratiche dell’adozione, cit., pp. 179-94.

44. Cfr. Varanini, Per la storia delle istituzioni, cit., p. 137, sia per l’assetto istitu-zionale della confraternita e dell’ospedale, soggetti già nei primi decenni del Trecento alla giurisdizione del Comune di Treviso, sia per i quattro addetti al governo dell’o-spedale, che dovevano essere espressi dai quattro ordines costituiti da nobili, artefici, notai e cives sive mercatores.

45. Cfr. A. Esposito, La documentazione degli archivi di ospedali e confraternite come fonte per la storia sociale di Roma, in P. Brezzi, E. Lee (a cura di), Gli atti privati nel tardo medioevo: fonti per la storia sociale. Atti del convegno promosso dall’Istituto di studi romani, dall’Università di Calgary e dal Centro accademico canadese in Italia (Roma 16-18 giugno 1980), Istituto nazionale di studi romani, Roma 1984, pp. 69-79, in particolare pp. 69-71.

Treviso. Chi se ne è occupato43 ha parlato di undici piccoli registri o frammenti di registri di imbreviature notarili: sono in prevalenza re-gistri specializzati (o solo parzialmente specializzati) contenenti im-breviature di istrumenti di adozione relativi agli anni 1429-82. La cir-costanza che spiega la presenza di questa documentazione di stretta pertinenza notarile in un archivio ospedaliero, e che insieme ne delinea alcuni importanti aspetti, consiste nel fatto che i notai – cui tali re-gistri sono dovuti – erano, allo stesso tempo, preposti alla cura delle attività documentarie della confraternita che amministrava l’ospedale e membri di rilievo della confraternita stessa44. Come sempre accade, si desidererebbe conoscere maggiori particolari; tuttavia, dato il carattere generale del protocollo notarile, che è insieme strumento professiona-le e patrimonio economico del notaio, mi sembra di poter dire che la presenza di questi registri nell’archivio dell’ospedale possa essere con-siderata come una sorta di prolungamento dell’impegno caritativo dei notai. Essi, in quanto confratelli, prestavano il loro servizio specializza-to in un’ottica volta a separare dalla prestazione professionale il suo ri-torno economico. Quest’ultimo era oggetto di rinuncia caritativa, una rinuncia che si prolungava nel tempo mediante il lascito dei fascicoli all’archivio dell’ospedale45.

Se si torna a riflettere sul caso milanese e sugli esempi citati ancor prima, credo che risulti ben chiaro come l’organizzazione dei registri fosse espressione, più o meno compiuta, di quella raffinata koiné do-cumentaria che costituiva una delle elaborazioni più originali degli intellettuali urbani dell’Italia basso-medievale. Che tali elaborazio-

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46. Indispensabile, a questo proposito, la lettura dei saggi che Attilio Bartoli Langeli ha raccolto nel suo Notai: scrivere documenti nell’Italia medievale, Viella, Roma 2009. Cfr. anche gli articoli compresi in I. Lazzarini, G. Gardoni (a cura di), Notariato e medievistica. Per i cento anni di studi e ricerche di diplomatica co-munale di Pietro Torelli. Atti delle giornate di studi, Istituto storico italiano per il medioevo, Roma 2014. Una prospettiva diversa, di grande interesse, offrono i saggi di argomento diplomatistico di Giovanna Nicolaj, ora raccolti in C. Mantegna (a cura di), Storie di documenti, storie di libri, Quarant’anni di studi, ricerche e vagabondaggi nell’età antica e medievale, Urs-Graf, Dietikon-Zürich 2013. è impossibile dare conto in una nota dei lavori dei diplomatisti italiani che, a partire dal secondo dopoguerra e basandosi soprattutto sul fondamentale lavoro di Pietro Torelli sulla diplomati-ca comunale e sulle ricerche, anch’esse imprescindibili, di Giorgio Costamagna sul notariato italiano e genovese e sui protocolli notarili genovesi, hanno contribuito a rinnovare profondamente gli studi sulla documentazione tardo-medievale. Informa-zioni bibliografiche, saggi e rassegne sono disponibili nel sito web Scrineum. Saggi e materiali on-line di scienze del documento e del libro medievali, http://scrineum.unipv.it (consultato il 10 gennaio 2014). Mi limiterò qui a ricordare, tra i lavori delle genera-zioni di studiosi precedenti a quella di chi scrive, oltre al volume innovatore di G. G. Fissore, Autonomia notarile e organizzazione cancelleresca nel Comune di Asti. I modi e le forme dell’intervento notarile nella costruzione del documento comunale, cisam, Spoleto 1977, la raccolta di saggi, di prevalente argomento pisano, di O. Banti, Studi di storia e diplomatica comunale, Edizioni del lavoro, Roma 1983 e la silloge di studi di D. Puncuh, All’ombra della lanterna. 50 anni tra archivi e biblioteche: 1956-2006, 2 voll., a cura di A. Rovere, M. Calleri, S. Macchiavello, Società ligure di storia patria, Genova 2006, contenente tra l’altro saggi di argomento diplomatistico e di ecdotica documentaria; infine, i saggi di diplomatica comunale genovese di Antonella Rovere, in http://scrineum.unipv.it/biblioteca/scaffale-nz.html#Antonella Rovere (consul-tato il 20 gennaio 2014).

ni siano da ricondurre in massima parte al diuturno lavoro dei notai all’interno delle istituzioni cittadine è indubbio46. Tuttavia, mi sem-bra vada chiarito bene che non si è soltanto di fronte a una circola-zione, affermazione, pervasività di modelli documentari. Ci si trova, assai di più, in presenza di una componente costitutiva e fondativa dell’assetto complessivo delle società cittadine italiane degli ultimi secoli del medioevo.

Giuliana Albini ha pienamente ragione quando, al termine dell’a-nalisi del caso specifico del registro tardo-quattrocentesco milanese, conclude che il progressivo raffinarsi delle forme di registrazione scrit-ta degli atti di affido corrispose a un progressivo definirsi delle forme di affido, in un percorso volto a incrementare l’efficacia dei dispositivi posti a protezione degli interessi della famiglia ospedaliera e dei singoli bambini. Il binomio che così si istituisce fra protezione di persone e

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47. Terpstra, Abandoned Children, cit., pp. 149-53 e in generale i capp. 3 e 4.48. T. Vinyoles Vidal, X. Illanes Zubieta, Tratados como hijos e hijas. La crianza de

pequeños abandonados a través de la documentación catalana medieval, in Garbellotti, Rossi (a cura di), Pratiche dell’adozione, cit., pp. 209-22. Per l’assistenza ai bambini ab-bandonati nella Catalogna medievale rimando alla sintesi di J. W. Brodman, Charity and Welfare: Hospitals and the Poor in Medieval Catalonia, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1998, pp. 100-24. Per l’età moderna cfr. Sandri, Le «scritture del baliatico», cit., pp. 481 ss.; Terpstra, Abandoned Children, cit., p. 250; accenni relativi a Treviso e Vicenza in Varanini, Per la storia delle istituzioni, cit., pp. 141, nota 90, e 147; per Treviso anche Bianchi, Adottare nella terraferma, cit., p. 8; per la Ca’ di Dio di

interessi da una parte e documentazione dall’altra, quindi fra ricerca di una maggiore efficacia dell’azione complessiva di tutela e raffina-mento delle forme della documentazione e dei sistemi documentari e archivistici nel loro complesso, può apparire una linea comune di svi-luppo di molte vicende storiche medievali. Tuttavia, che questo non sia un aspetto generico delle strategie poste in essere dagli ospizi per l’infanzia abbandonata sembra suggerito anche da certi esiti post-medievali, fortemente marcati da politiche di tutela diversificate per genere, maschile o femminile, degli assistiti. Nicholas Terpstra, nel suo libro sull’infanzia abbandonata a Bologna e Firenze tra Cinquecen-to e primo Seicento, ha notato che i casi tardo-cinquecenteschi da lui studiati si differenziano per forme e prassi assai più accurate di docu-mentazione – intesa nel senso di records keeping – da parte degli istituti per bambine e ragazze rispetto a quanto accadeva invece per gli istituti maschili. Le rigide regole di controllo imposte alle ragazze, a tutela del-la loro “onestà”, andavano insieme con pratiche di registrazione scritta diligenti e accurate. Il controllo sulla vita dei ragazzi e le registrazioni scritte che li riguardavano non erano altrettanto stringenti47.

Mi sembra chiaro quindi che sia la particolare articolazione isti-tuzionale che gli ospedali per l’infanzia abbandonata si dettero sia il carattere degli adempimenti che tali strutture posero in opera furono ispirati dalla volontà di garantire un valido sistema di tutela. Si trattava di una tutela che si proiettava fuori dalle mura degli istituti, perché i fanciulli continuavano a essere parte di essi anche quando venivano collocati in affido. Si pensi soltanto al sistema delle visite di controllo da parte di messi degli istituti presso le balie da latte e gli affidatari, di cui ci restano talvolta i verbali: mi limito qui a ricordare il caso di un istituto non italiano, ma di evidente ispirazione italiana, l’ospedale della Santa Creu di Barcellona48.

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Padova Id., La Ca’ di Dio di Padova nel Quattrocento. Riforma e governo di un ospedale per l’infanzia abbandonata, Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, Venezia 2005, p. 18. Sulla primazia dell’Italia nel campo degli istituti per l’infanzia abbandonata cfr. ad esempio V. Hunecke, L’invenzione dell’assistenza agli esposti nell’Italia del Quattrocen-to, in C. Grandi (a cura di), «Benedetto chi ti porta maledetto chi ti manda». L’infan-zia abbandonata nel Triveneto (secoli xv-xix). Atti del convegno (Treviso, 18-20 giugno 1996), Fondazione Benetton-Canova, Treviso 1997, pp. 273-83.

49. Si legga, per intendere questa affermazione, l’incipit di un’entrata in un re-gistro dell’ospedale fiorentino degli Innocenti, parte della serie detta appunto Ri-cordanze (citata in Gavitt, Charity and Children, cit., p. 269, nota 197): «Ricordo questo dì 5 di giugno 1470 e’ consoli dell’arte di Por Santa Maria dichiararono e concordarono Francesco di Guccio detto Rossi lanaiuolo dovere pagare nelle mani del camarlingo...».

50. Terpstra, Abandoned Children, cit., pp. 4-5, 281 e in particolare 284: «Surro-gate kinship that was at once so determined and yet potentially so detached under-lines powerfully the extent to which Bologna’s governing class saw its institutional charitable work as an exercise of parental authority over the city’s poor»; pp. 284-5 per Firenze (sempre per la prima età moderna), con alcune riserve sull’efficacia della

6.4 L’ospedale come famiglia surrogata:

linguaggi e cerimoniali

L’esame degli atti pratici compiuti dagli agenti degli ospedali, debi-tamente documentati mediante il tipico sistema tardo-medievale del verbale (o mediante altri sistemi, come il modello familiare della ricor-danza49), illumina sui tanti aspetti delle diligenze da buon padre di fa-miglia poste in essere dagli amministratori di questi enti di assistenza. A monte di tali diligenze non ci sono naturalmente soltanto schemi procedurali e sistemi documentari ma, come si accennava, anche pecu-liari sistemi organizzativi, lessicali e rituali.

Si tratta di aspetti noti, il cui rilievo non viene tuttavia sempre po-sto nella debita evidenza. Qui si dedicheranno ad essi alcuni accenni, anche perché essi consentiranno di giungere a una sia pure imperfetta e provvisoria conclusione del discorso. L’idea complessiva dell’ospe-dale per bambini abbandonati sembra dominata dalla precisa volontà di costruire una vera e propria famiglia surrogata, realizzata con mez-zi – anche linguistici e retorici – che concorsero a formare una realtà plasmata a modo di famiglia, in cui la «family rhetoric» e la «pious fiction» non furono «empty rhetoric, but powerful, contested, and an inducement to action»50. In questo senso è di particolare chiarez-

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locale politica di surroga familiare (citazione a p. 285). Cfr. anche Rossi, Storie di affetti, cit., p. 5.

51. Gavitt, Charity and Children, cit., cap. 4 (Hospital and Family, citazioni dalle pp. 344 e 353); cfr. Bianchi, La Ca’ di Dio, cit., p. 89: il priore della Ca’ di Dio di Padova come pater orphanorum (espressione che ha anche un evidente rilievo giuridi-co), accompagnato dalla moglie ma, secondo la disposizione degli statuti di Padova, privo di figli. L’uso di un lessico attinto al campo linguistico della famiglia sembra avere in realtà dimensioni europee: cfr., per l’esempio dell’ospedale parigino di Saint-Esprit-en-Grève, Gager, Blood Ties, cit., p. 107.

za il caso degli Innocenti di Firenze. Le forme organizzative vennero modellate in modo da imitare gli assetti della famiglia nucleare, favo-rendo, ad esempio, l’assunzione al ruolo di “commessi” dell’ospedale di coppie costituite da marito e moglie insieme, che avevano entram-bi consacrato se stessi e la propria vita all’istituto. Questo per fare in modo che il personale che copriva posizioni direttive potesse assume-re più agevolmente agli occhi dei fanciulli i ruoli di padre e madre. Oppure, per fare un altro esempio, i pasti venivano organizzati come «affollate riunioni di adulti e bambini» raccolti per consumare il cibo nello stesso momento, combinando così il modello monastico del refettorio con l’uso familiare di raccogliere bambini e bambine, separati negli altri momenti della giornata, allo stesso desco. I pii e facoltosi laici che dedicarono se stessi all’ospedale per costituirne le istanze direttive interne divennero così, secondo la felice definizione di Philip Gavitt, «foster grandparents»: essi non solo assicurarono la gestione del personale dedicato alla cura dei bambini, ma fornirono gli strumenti «per replicare l’ambiente di una famiglia estesa», in cui adulti e bambini partecipavano a un contesto di vita comune e familiare51.

Il vocabolario adottato nella documentazione – e, si può facilmen-te ipotizzare, nei discorsi quotidiani e nei momenti ufficiali della vita dell’istituzione – venne naturalmente attinto al campo lessicale della famiglia: il personale a servizio degli Innocenti si riferiva ai membri dell’ospedale come “famiglia” o “brigata”, l’ospedale definiva se stesso come “casa” e le sue spese come “spese di casa”. Ma c’è di più: se bambi-ni e bambine erano, naturalmente, “figli” e “figlie” dell’ospedale, essi non cessavano di esserlo quando uscivano da esso. Non cessavano di esserlo, e ci si stupirebbe del contrario, quando i bambini di entrambi i sessi, dopo il periodo di baliatico, venivano affidati a famiglie esterne

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52. Gavitt, Charity and Children, cit., pp. 373 ss. Sugli sviluppi tardo-cinquecen-teschi, seicenteschi e ulteriori degli orfanatrofi cfr. Terpstra, Abandoned Children, cit., p. 4. Per l’amministrazione di Borghini agli Innocenti cfr. P. Gavitt, Charity and State Building in Cinquecento Florence: Vincenzio Borghini as Administrator of the Ospedale degli Innocenti, in “Journal of Modern History”, 69, 1997, pp. 230-70.

53. N. Terpstra, Real and Virtual Families: Forms and Dynamics of Fostering and Adoption in Bologna’s Early Modern Hospitals, in Garbellotti, Rossi (a cura di), Prati-che dell’adozione, cit., pp. 223-34 e soprattutto Id., Abandoned Children, cit. Sul tema dei rituali nelle società tardo-medievali, oggetto di numerose indagini, rimando per una prima informazione a J. Chiffoleau, L. Martines, A. Paravicini Bagliani (a cura

per i motivi e le ragioni che bene si conoscono, ma neppure quando i ragazzi, imparato un mestiere e sposatisi, si rendevano indipendenti, e le ragazze, ricevuta una dote dalla famiglia affidataria, magari inte-grata dall’ospedale, si sposavano: i loro mariti divenivano, negli scritti dell’ospedale, «i nostri generi». Questi e altri particolari di cui tra poco si parlerà sono a mio avviso di grande importanza per interpreta-re in modo corretto senso e dinamiche dei rapporti tra istituto, bam-bini e affidatari.

Certo, non bisogna cadere nell’equivoco di considerare un istitu-to come quello degli Innocenti nella spanna quattrocentesca della sua storia come un centro residenziale, come lo fu poi nella Toscana gran-ducale al tempo della soprintendenza di Vincenzio Borghini. Gavitt pone bene in evidenza questo fatto, tracciando una sorta di percorso ideale del trovatello52, dal primo accoglimento all’affidamento alla ba-lia esterna per l’allattamento fino al ritorno all’ospedale dopo lo svez-zamento, tra i 18 e i 24 mesi d’età. Seguivano la sistemazione presso i foster parents, il ritorno verso i 4 anni d’età all’ospedale per una resi-denza stabile che poteva estendersi da un periodo di due sino a quattro anni e infine l’adozione, per riprendere il termine usato dallo studioso americano, che segnava l’inizio di un percorso diverso per i bambini a seconda del sesso, ma che nella maggior parte dei casi prevedeva l’inse-rimento in una famiglia di tipo nucleare.

Si può partire da quanto appena detto – in cui si colgono diversi riferimenti a complessi nodi problematici – per accennare all’ultimo degli argomenti su cui si vuole stimolare la riflessione dei lettori, quel-lo dei rituali che scandiscono i momenti di passaggio della vita dei bambini in quanto membri della famiglia ospedaliera, di cui si è oc-cupato in particolare Nicholas Terpstra53. La celebrazione delle leave-

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di), Riti e rituali nelle società medievali, cisam, Spoleto 1994, di cui va vista anzitutto l’avant-propos dei curatori, pp. vii-xiv.

54. Terpstra, Abandoned Children, cit., pp. 245 ss.55. Per un primo approccio Hunecke, L’invenzione dell’assistenza, cit., pp. 281-2;

cfr. anche Trexler, Famiglia e potere, cit., pp. 4-7 e 37-78.

taking cerimonies, cerimonie di congedo degli assistiti che uscivano definitivamente dall’istituto dopo il periodo dell’apprendistato lavo-rativo per vivere dei propri mezzi, può costituire un esempio: esse po-tevano comprendere una sequenza ordinata di celebrazioni liturgiche, solenni riunioni in cui i ragazzi stazionavano di fronte al corpo diret-tivo dell’istituto per udire le rispettive destinazioni e il discorso di congedo pronunziato dal rettore, cui seguiva infine, nel cortile dell’i-stituto, l’emozionante addio al personale della casa e ai compagni54. Certo, in tempi di gravi crisi gli scostamenti, talora assai marcati, dalle paterne provvidenze, dalle cautele burocratiche, dalle cerimonie in-trise di commozione e austero paternalismo lasciavano allo scoperto tutti i limiti delle politiche caritative di cui si sostanziavano le ideo-logie di inclusione sociale dei ceti dirigenti urbani55. Resta però che il grande apparato di scritture, procedure, linguaggi e cerimonie doveva costituire, nei periodi di ordinato svolgimento della vita ospedaliera, lo strumento adatto per restituire, sul piano di un’organizzazione col-lettiva, un quadro familiare ordinato ed efficace a chi ne era rimasto privo. E si trattava di famiglie, sia pure artificiali, per le quali la delega mediante affidamento a nuclei familiari esterni delle cure parentali più essenziali, e poi dell’istruzione religiosa e dell’alfabetizzazione, dell’apprendimento di un mestiere o dei principi dell’economia do-mestica, non costituivano una rottura dell’appartenenza alla famiglia ospedaliera. Al di là del possibile maturare di affetti e legami forti con gli affidatari, che veniva incoraggiato, il minore restava sotto la supe-riore tutela dell’istituto.

Chi ha dipinto un quadro tetro dei destini dei trovatelli non aveva certamente tutti i torti: la sorte, mai tenera con i bambini del passato e con gran parte dei bambini dei nostri tempi, con loro è stata parti-colarmente avara. Ma non è corretto elevare a simbolo della loro sven-tura circostanze che, certo, a tutta prima possono suscitare sconcerto. Così, se si può revocare in dubbio che le coppie affidatarie, malgrado le diligenze delle autorità ospedaliere, vedessero negli accordi di affida-mento solo un mezzo di procurarsi lavoro a buon prezzo, il fatto che,

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56. Boswell, L’abbandono dei bambini, cit., pp. 259-60, per il quale gli ospizi per trovatelli producevano adolescenti «senza status sociale, senza famiglia, e senza aiuti o sostegno da parte di alcun membro della comunità», in sostanza nonpersons, de-stino migliore in ogni caso della morte che, secondo i calcoli degli storici citati da Boswell, colpiva la gran parte dei trovatelli entro i primi anni di vita, secondo tassi di mortalità incomparabilmente più alti rispetto a quelli degli infanti dati a balia dalle famiglie. Di là dalle questioni demografiche, da precisare, l’impostazione generale data da Boswell al problema della cura dell’infanzia abbandonata da parte degli ospe-dali va respinta: cfr. ivi, pp. 257-63. Per il ritorno agli ospedali di corpi dei trovatelli morti fuori cfr. Bianchi, La Ca’ di Dio, cit., p. 176.

in caso di morte del ragazzo, restituissero il suo corpo all’ospedale56 non è segno di indifferenza o di mancanza d’affetto: il defunto tornava lì dov’era la sua casa, la sua famiglia, nel luogo che l’aveva accolto nel momento più critico della sua vita per assicurargli quella tutela che i genitori non avevano potuto dargli.


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