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L'anello del tempo

Date post: 14-Nov-2023
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Alberto Trivero L’anello del tempo Mondovì, 1999
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Alberto Trivero

L’anello del tempo

Mondovì, 1999

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L’anello del tempo

Dobrigrad è la più bella città del mondo. E' circondata da dolci colline dalla folta vegetazione, il suo clima è mite ed è piena di fiori, di farfalle, di uccelli e di colori. La cosa più bella di Dobrigrad sono i suoi colori: coloratissime sono le facciate delle case, variopinti gli alberi sempre fioriti dei suoi viali, dorati i suoi tramonti. Dobrigrad è così ricca di colori, che anche la pioggia non può fare a meno di separarsi in mille e mille gocce, ognuna dai cento riflessi dell'arcobaleno, ed anche i rivoli che si formano sui tetti e scendono dalle grondaie sono ora rossi, ora gialli, ora verdi, ora azzurri.

Dobrigrad è la più bella città del mondo. E' piccola, ma nei suoi vicoli sembra esserci il mondo intero. Ecco in quell'angolo alcuni Siriaci e con le loro morbide tuniche gialle! Poco distante passeggiano due Cananei dalle ampie brache rosse! Ma ecco che dall'altra parte arriva una giovane sposa caldea con il suo ampio velo azzurro: l'accompagna un anziano galileo con il suo caratteristico gonnellino e l'ampio mantello verde! Infatti a Dobrigrad vivono tutti i popoli del mondo: vivono insieme da più tempo di quanto sia possibile ricordare, né vi è alcun abitante i cui nonni possano rammentare un tempo in cui tutti i popoli che abitano Dobrigrad non vivessero in armonia. Dobrigrad è la più bella città del mondo proprio perché in essa si trovano tanti popoli con tanti costumi ed usi diversi.

I Siriaci hanno la pelle tostata dal sole ed il colore che più prediligono è il giallo: gialle, infatti, sono le tuniche di seta che indossano. Queste preziose vesti sono assai leggere ed ampie, sicché svolazzano quando camminano per la città e paiono diventare come tanti astri solari quando danzano. I Siriaci, infatti, sono degli straordinari ballerini, sempre pronti alla danza, sempre instancabili: con i loro coreografici balli, che eseguono nella grande piazza situata al centro della città, donano a tutti la loro meravigliosa allegria. Così come le loro tuniche, anche le case dei Siriaci sono dipinte di giallo, ed il colore del sole riveste anche il loro meraviglioso tempio: una altissima torre gialla che si allunga verso il cielo terso, formando una spirale, e che sembra quasi di voler ammiccare al dio Sole, mentre le variopinte casette distese ai piedi della torre con la loro miriade di colori paiono un prato fiorito!

Rosso è il colore amato dai Cananei: rosse sono le loro brache e lo stretto corpetto che indossano, rosse sono le facciate delle loro case, con i riquadri bianchi delle finestre chiuse da vivacissime grate di ferro battuto, rossi sono anche i loro capelli. Mentre i Siriaci danzano, i Cananei suonano: flauti melodiosi e cornamuse profonde, pifferi gentili e tamburelli vivaci, liuti salterelli e trombe squillanti. Quanto è bella e melodiosa la musica dei Cananei! Essa risuona sempre per le vie e le piazze di Dobrigrad e non cessano mai di suonare nel loro sacro tempio: sebbene non così alto come quello dei Siriaci, tuttavia la sacra basilica rossa dei Cananei non conosce rivali in quanto ad imponenza e maestosità!

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Le case dei Caldei sono azzurre come il cielo terso della primavera e azzurra è pure la loro strana chiesa dalle mille guglie ricoperte di luccicanti stelle d'argento: i Caldei, infatti, amano le stelle poiché i loro cari al termine della loro vita si trasformano nelle lucciole che scintillano per i campi e per i boschi nelle calde serate estive.

I Caldei usano ampie vesti celesti: gli uomini coprono la loro testa con un meraviglioso turbante azzurre, impreziosito da mille penne dai riflessi color del cielo, e le loro donne coprono i neri e lunghi capelli con un velo indaco. I Caldei hanno una voce dolce e suadente ed i loro armoniosi e suggestivi canti non hanno rivali!

I Galilei sono piccoli e biondi e portano i capelli annodati a formare una lunga treccia. Vestono un corto gonnellino verde: del medesimo colore sono il corpetto, gli stivali attillati e l'ampio mantello con cui avvolgono il loro corpo. Verdi sono pure le loro case, anche se ne abbelliscono le facciate con mille e mille disegni di tutti i colori. I Galilei sono abilissimi giardinieri innamorati dei fiori: li hanno disseminati ovunque, anche lungo le vie e le piazze di Dobrigrad, ma soprattutto è meraviglioso osservare la loro straordinaria chiesa. Si tratta di una costruzione bassa e larga, tutta dipinta di verde, ma ovunque disseminata di nicchie e nicchiette tutte coltivate con fiori diversi, sicché neppure il più ricco arcobaleno può assomigliarvi! Grazie ai Galilei, Dobrigrad è ovunque ricca di fiori dai mille profumi e colori, e con i fiori giungono ad ogni stagione farfalle sgargianti e delicati uccellini.

Dobrigrad è la più bella città del mondo poiché le case dei Siriaci si mescolano a quelle dei Cananei, e quelle dei Caldei a quelle dei Galilei in una incredibile fantasmagoria di colori e di fiori, e i tanti popoli della città danno vita ad un continuo intrecciarsi di melodiosi suoni, di allegri balli e di dolcissimi canti! Dobrigrad è la più bella città del mondo poiché in essa tutto è diverso e nulla si ripete: diversi sono gli stili ed i colori delle case, le vesti delle persone, i riti e le feste, sicché ogni angolo della città ci porta in un mondo distinto e magico, quasi fossimo ogni volta in un posto distinto: è proprio la diversità la bellezza di Dobrigrad!

Comodello è un uomo non più giovane, ma non ancora vecchio. Vive a

Dobrigrad da tanto di quel tempo che neppure lui sa dire quanti anni siano trascorsi dal giorno del suo arrivo. Giunse da oriente (o forse da occidente, ma non importa) con le sue mercanzie. Era un freddo mattino invernale: nelle pianure intorno alla città la nebbia avvolgeva tutto nel grigiore e nel silenzio mentre una fine e sottile pioggerellina, quasi impercettibile, entrava nelle ossa. A mano a mano che si avvicinava alle porte di Dobrigrad, la nebbia si faceva più leggera e la pioggia meno fredda.

Mancava ancora un miglio all'ingresso della città, è già i suoni delle orchestrine cananee, i passi dei danzatori siriaci e i canti dei cori cananei sembravano costringere alla fuga gli ultimi resti di nebbia e di pioggerellina.

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Quando entrò nella città Comodello rimase sbalordito e incredulo: colori, suoni e fiori ovunque, intrecciati in un incredibile caleidoscopio solare, sicché mentre fuori della città dominava il triste inverno, al suo interno sembrava stesse per esplodere una magnifica primavera!

Non che non si sentisse il freddo: ma i colori dei fiori numerosissimi a tutti i balconi, le frenetiche danze dei ballerini, le viuzze ove si alternavano case dalle facciate ora gialle, ora rosse, ora azzurre, ora verdi, i suoni di cento strumenti armoniosamente intonati ed il coro di cento cantanti dalle cento voci diverse, la costante presenza di coloratissime farfalle e di uccelli canterini che svolazzavano ovunque, tutto insomma creava una tale sensazione di allegria che neppure il freddo inverno poteva togliere l'illusione di una prossima primavera.

Comodello giunse nella grande piazza del mercato al centro di Dobrigrad: aprì la sua bancarella e dispose le sue curiose merci. Infatti veniva da lontano e offriva prodotti sino ad allora sconosciuti ai cittadini. Sicché ben presto intorno alla bancarella di Comodello era una continuo svolazzare di tuniche e mantelli dai colori diversi. Gli piacque così tanto la città e la sua gente che decise di stabilirsi definitivamente in essa.

Comodello costruì la sua casetta: siccome non era né siriaco, né cananeo, né caldeo, né galileo, dipinse la facciata con tutti i colori dell'arcobaleno e indossava gli stivali verdi dei galilei, le brache rosse dei cananei, sopra le quali poneva una tunica gialla come quella dei siriaci, e sulle spalle non mancava mai l'azzurro scialle caldeo. Egli, infatti, era l'unico straniero e tale rimase sempre. A volte danzava insieme ai siriaci, anche se gli pareva che la loro passione per il ballo fosse eccessiva. Altre volte si accompagnava ad un'orchestrina cananea (infatti suonava assai bene il flauto), senza tuttavia entrare in troppo stretta confidenza. Non disdegnava di cantare nei cori caldei, giacché aveva una bella voce, sebbene stentasse a comprendere la loro lingua. E pur non essendo un buon giardiniere ottenne l'aiuto dei galilei cosicché anche i balconcini della facciata della sua casetta erano sempre fioriti.

Comodello, insomma, si era adattato bene: si trovava bene con tutti ed era ben visto da tutti, pur rimanendo sempre straniero alla città che pure lo aveva accolto così amabilmente. Non imparò bene nessuna delle lingue parlate dai quattro popoli di Dobrigrad, ma le comprendeva tutte e si faceva sempre intendere bene.

Tutte le mattine Comodello prendeva le sue merci ed andava a collocare la

sua bancarella nella piazza del mercato e tutte le sere se ne tornava a casa, sempre sereno, sempre soddisfatto di ciò che aveva venduto e di ciò che aveva comprato.

Una mattina, mentre spingeva il suo carretto nella viuzza, vide qualcosa luccicare per terra: era un grosso anello. Visto da un lato, sembrava rosso come se fosse di rame, mentre se lo si guardava dall'altro sembrava giallo come se fosse d'ottone: quando veniva colpito da un raggio di sole, aveva riflessi verdi ed azzurri. La forma era cilindrica e sulla sua superficie vi erano delle lettere.

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Comodello inforcò gli occhiali, giacché era assai miope, e lesse: baba bebe bibi, bobo bubu bobo, bibi bebe baba. Si guardò intorno per vedere se vi fosse qualcuno al quale potesse essere caduto: ma era solo lungo tutta la viuzza. Volle provare a porselo al dito medio: gli calzava perfettamente e quindi lo tenne al dito.

Durante tutta la giornata, mantenne il dito con l'anello ben in vista, pensando che forse il suo proprietario l'avrebbe richiesto o che qualcuno potesse riconoscerlo: nulla. Provò anche a domandare ora all'uno, ora all'altro: nessuno aveva mai visto un anello di siffatta foggia e tutti erano concordi nell'affermare che doveva essere un anello perso da qualche straniero. Mistero nel mistero, giacché Comodello era l'unico straniero che da tanti anni aveva percorso le vie di Dobrigrad. Sicuro di aver fatto quanto possibile per rintracciare il legittimo proprietario dell'anello, decise pertanto di tenerlo per sé.

Comodello era intrigato dal significato delle strambe parole incise sull'anello. Interrogò molte persone, ma nessuno sapeva dare una spiegazione. Tuttavia un giorno incontrò una giovinetta la quale gli suggerì di rivolgersi ad un anziano mago siriaco, che godeva fama di essere un uomo assai saggio e sapiente.

Un bel mattino, dunque, la curiosità prevalse e, anziché andare con la sua bancarella nella piazza del mercato, Comodello si recò dal mago siriaco. Fu ricevuto con molta cortesia e fu fatto accomodare in un luminoso salone pieno di bellissimi tappeti: non solo sul pavimento, ma anche sulle pareti e persino sul soffitto, sicché il salone sembrava una grande tenda variopinta.

Il siriaco prese l'anello e l'osservò con molta attenzione: con l'unghia tentò di graffiarne la superficie e volle anche provarne il sapore, ponendo sulla sua superficie la punta della sua lingua. Rimase perplesso, scuotendo lentamente la testa barbuta. Infine disse: "è certamente un anello zingaro, ma altro non saprei dirti. Tuttavia qui in città risiede un cananeo così vecchio che neppure i nipoti dei suoi nipoti ne conoscono l'età: egli è più saggio e sapiente di me e, sebbene ceco, certamente ti saprà dire di più di quanto io non sappia. Andiamo a parlargli!".

Subito si recarono dall'anziano cananeo, che li ricevette con molta cortesia e li fece accomodare in un salone bellissimo, con cento piccole fontane: gli zampilli, attraversati dalla luce del sole che entrava da cento piccole finestrelle, sembravano essere ognuno di un colore diverso ed ognuno produceva un suo suono, sicché sembrava che nel salone vi fosse una strana orchestra gorgogliante. Il cananeo ascoltò le parole del saggio siriaco e prese in mano l'anello e sfiorò più e più volte la sua superficie con il polpastrello dell'indice sinistro. Annuì con la testa e disse: "sono d'accordo con quanto hai detto: è certamente un anello degli zingari e sono sicuro che possiede una potente magia. La sento erompere prepotente dalla sua superficie. Ma non riesco a intenderne il significato. Qui in città vi è un saggio e sapiente caldeo; sebbene sia più giovane di me, la sua esperienza è assai più grande della mia, sicché egli mi è maestro. Andiamo a cercarlo e sicuramente saprà svelarci il mistero!".

I due saggi, insieme a Comodello, si recarono dal sapiente caldeo, che li ricevette con molta cortesia e li fece accomodare in un salone bellissimo: dal soffitto pendevano mille fili d'argento e ad ogni filo vi erano attaccate cento

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piccole campanelle, ora di cristallo, ora d'oro, ora d'argento, ora di bronzo. Ve ne erano di piccole e di grandi, di corte, di tonde, di strette e di allungate. Nel salone, poi, vi era una grande moltitudine di uccelli che svolazzavano liberi ovunque e con il fremito delle loro ali facevano suonare le centomila campanelle, sicché sembrava una musica paradisiaca. Il caldeo ascoltò quanto dissero i due saggi e quindi si accinse ad osservare con molta attenzione l'anello. Annuì più e più volte, ma rimase anche perplesso. Alla conclusione del lungo esame disse: "certamente è un anello magico degli zingari. La legenda può ancora essere letta: ciò sta a significare che la sua magia è ancora intatta. Inoltre essa ha le stesse sillabe, sia che venga letta da destra, sia che venga letta da sinistra: ciò vuol dire che la sua magia può manifestarsi una sola volta, ed una sola soltanto, e, quando ciò avverrà, le lettere che vi sono incise scompariranno. Tuttavia non riesco a comprenderne il significato. Fortunatamente abbiamo in città un grande studioso galileo: egli ha viaggiato moltissimo, conosce le terre dell'occidente e quelle dell'oriente, e conosce anche le desolate lande dell'estremo nord e le rigogliose foreste del sud. Presto, andiamo ad interrogarlo: sono sicuro che saprà svelarci il mistero nascosto dietro queste parole!".

I tre saggi, sempre accompagnati da Comodello, si recarono alla casa del grande studioso galileo, il quale li ricevette con molta cortesia e li fece accomodare in un salone bellissimo: era tutto assai strano, poiché le pareti del salone erano interamente rivestite con grandi specchi. Ma la cosa più strana era che gli specchi non restituivano la stessa immagine di colui che ci si specchiava, ma alcuni davano un'immagine assai più giovane (e Comodello si vide così come era quando, tanti e tanti anni prima, era giunto a Dobrigrad), mentre altri davano una immagine assai più anziana (e Comodello si vide così come sarebbe divenuto tra tanti e tanti anni, dalle spalle curve, con una lunghissima barba bianca che scendeva giù e giù, sino ad appoggiarsi al pavimento). Il galileo ascoltò molto attentamente quanto dissero i tre saggi e quindi prese l'anello tra le sue mani e lo osservò con grandissimo interesse.

Dopo una lunga pausa di riflessione, il sapiente studioso galileo finalmente parlò e disse queste parole: "io nulla so di magia, né conosco gli anelli degli zingari, ma poiché so bene quanto grande sia la vostra scienza non dubito che quanto avete detto sia certamente vero. Da parte mia, posso solo aggiungere che queste parole incise sull'anello appartengono ad una antichissima lingua che si parlava mille e mille anni or sono dalla parte opposta del mondo, in una terra dove gli uccelli strisciano ed i serpenti volano. Queste parole vogliono dire questo: gira, gira, gira ed il tempo tornerà indietro. Altro non so dirvi!".

Comodello ed i tre saggi ringraziarono il galileo e si accomiatarono. Quindi lo straniero tornò alla sua casa (oramai si era fatto troppo tardi per andare ancora sul mercato), soddisfatto eppur perplesso. Soddisfatto, poiché gli erano stati svelati tutti i segreti del suo anello, perplesso perché Comodello era un uomo molto concreto, che intendeva di sete e di cristalli, di coltelli e di stivali, di ogni sorta di cose utili, insomma, e conosceva bene tutte le monete del mondo, ma la magia no!, essa non faceva per lui. Incredulo e divertito, si rimise l'anello al dito e ben presto dimenticò le parole dei quattro saggi.

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Passarono gli anni. Comodello faceva sempre il mercante ed era soddisfatto

della sua vita. Pur non sentendosi siriaco, né caldeo, né cananeo e neppure galileo, tuttavia si era abituato ai diversi usi e alle diverse abitudini di tutti i popoli della città e gli pareva che fosse una bella cosa che vivessero tutti insieme. Così come Comodello, tutti gli abitanti di Dobrigrad erano orgogliosi della loro tolleranza: sebbene poco sapessero gli uni dei costumi degli altri, poco conoscessero gli uni la lingua degli altri, né si interessassero dei rispettivi problemi, tuttavia tutti si tolleravano reciprocamente ed andavano giustamente orgogliosi della loro capacità di convivere in pace.

Passarono gli anni e venne un inverno diverso. Non era la crudezza del gelo che riusciva a penetrare sin dentro le mura della città raggelando gli animi, non era l'opacità della nebbia che smorzava i suoni ed i colori della città producendo una sorta di diffusa tristezza, non era la insistente pioggerella che faceva rabbrividire gli uomini sin nel profondo della loro anima. Era il lontano eco di una guerra. Altrove si mormorava che i siriaci combattessero contro i caldei, che i cananei fossero nemici dei galilei, che questi muovessero in armi contro quelli, senza che nessuno sapesse indicare con certezza chi fossero questi e chi fossero quelli.

Queste voci confuse turbarono la città. Nacque la diffidenza ed il sospetto. I siriaci continuavano a danzare al suono delle orchestre cananee, ma non era come prima: gli uni rimanevano separati dagli altri, cortesi, gentili, tolleranti, ma tanto distanti. I galilei continuavano a piantare i loro fiori in tutta la città, anche nei balconi dei siriaci, dei cananei e dei caldei, ma in questo caso lo facevano con cortesia, perché erano tolleranti, ma senza amore, e sembrava quasi che anche i fiori stentassero a crescere, e quando finalmente fiorivano il loro colore ed il loro profumo sembrava meno intenso. Le farfalle e gli uccellini continuavano con i loro voli, ma anche questi sembravano più lenti, meno vivaci. Anche le dolcissime voci dei cori caldei intonavano ora canti ora tristi ora marziali anziché quelli così sereni di un tempo. La città continuava la sua vita di sempre e, superficialmente, nulla sembrava cambiato. Tolleranza, cortesia, reciproco rispetto: tutto sembrava immutato. Ma a poco a poco una sorta di diffidenza si insinuava a creare una barriera tra quei popoli che sino ad allora avevano vissuto a Dobrigrad così serenamente insieme.

Lentamente, tra mille voci e tra mille contraddizioni, i rumori di guerra si avvicinavano alla città seminando una tesa inquietudine. Finché in una gelida e nebbiosa giornata invernale, apparvero i soldati con le loro nere uniformi. Neri gli stivaloni di cuoio lucidati a specchio, neri i pantaloni, nere le giacche e le camicie indossate, neri i cappelli. Neri anche i volti e le mani, in quanto macchiati dal nero fumo per renderli invisibili al nemico. Unico elemento di colore erano le macchie rosso-brune che lordavano ovunque le loro divise: era il sangue dei nemici uccisi. I soldati portavano grandi bandiere: ma anch'esse erano nere, sicché gli abitanti di Dobrigrad non riuscirono a comprendere a quale popolo essi appartenessero.

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Mentre i miliziani occupavano tutta la città, la gente della città, timorosa, si richiudeva nelle proprie case. Anche Comodello, seppur straniero, ebbe paura e preferì nascondersi nella stanza più interna della sua casa, dove non dover sentire, né vedere, né sapere quanto succedeva nella città.

Nessuno conosceva a quale popolo appartenessero i soldati. Essi, comunque, erano nemici dei cananei. Le falangi nere percorrevano compatte tutte le viuzze della città, entravano nelle case dei cananei e ne trascinavano fuori gli abitanti: le donne con i loro bambini al seno, gli anziani ricurvi sui loro bastoni, i giovani ai quali la paura aveva tolto ogni baldanza. Tutti i cananei furono condotti nella grande piazza del mercato, ora deserta, e nessuno riuscì a trovare rifugio. Qualcuno tentò di bussare alle porte dei caldei: inutilmente, poiché rimasero chiuse. I caldei osservavano dalle loro finestre (ma attenti a non farsi vedere!) quel che fuori avveniva e sentivano orrore per quanto stava succedendo: ma la paura li immobilizzava e impediva loro di muoversi. Quando sentirono bussare alle loro porte, rimasero impietriti dall'orrore e dalla pena, ma non osarono prestare soccorso. Né lo fecero i galilei, né lo fecero i siriaci, seppure tutti fossero disperati per quanto avveniva.

Bussarono anche alla porta di Comodello. Egli sentì i colpi disperati e ne ebbe una pena immensa, ma non volle aprire. "Quanto mi dispiace - pensava - è ingiusto portare via tutta questa brava gente. Per fortuna però io non sono cananeo! Quanto mi dispiace... vorrei tanto poter fare qualcosa per aiutarli, ma purtroppo non posso fare proprio nulla per nessuno di loro!".

Così le nere falangi poterono condurre tutti i cananei nella grande piazza, dove li legarono solidamente, li costrinsero a salire su grandi carri trascinati da nere coppie di buoi ed li condussero fuori della città, nessuno sapeva dove. Poi cominciarono a distruggere ad una ad una tutte le rosse case dei cananei, convertendole in nera cenere, ed in nera cenere fu convertito anche il loro imponente e maestoso sacro edificio. "Ora la città non è più impestata dai maledetti Cananei!" dicevano i soldati mentre compivano la loro maledetta opera distruttiva. E, infine, lasciarono la città. A poco a poco gli abitanti si affacciarono prima alle finestre, poi ai balconcini, infine agli usci delle porte delle loro casette. Trascorse qualche giorno prima che si ritrovassero insieme nelle viuzze della città. "Che orrore!" dicevano ovunque. "Per fortuna noi non siamo cananei!" pensavano tutti, ma senza che nessuno avesse il coraggio di manifestare il suo pensiero.

Passarono i giorni e a poco a poco la città tornò in vita. La piazza del mercato era sempre il cuore della città. Ancora affollato di bancarelle, sebbene non più come una volta. Sempre affollato di gente affaccendata: ma ora non si vedevano più le rosse brache dei cananei. Dobrigrad era ancora ricca di tanti colori e suoni, ma ovunque era scomparso il rosso. Nelle viuzze dove prima vi erano le rosse facciate delle case dei cananei, ora rimaneva solamente uno spiazzo nero, pieno di nera cenere. Anche i fiori sembravano diversi: ed infatti non fiorivano più i papaveri, né le rose rosse, e neppure i gerani color del vino. Anche il sole era diverso: non più una luminosa sfera arancione, ma pallidamente gialla.

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Anche i suoni della città erano diversi. Infatti gli uccelli non erano più così numerosi come una volta. Ma ciò che la rendeva così diversa da prima era l'assenza delle orchestrine cananee. I siriaci danzavano leggiadri e bravi come un tempo, picchiettando sul selciato con i tacchetti dei loro stivali. Ma senza la musica delle orchestre, la loro danza anziché vivace ed allegra assumeva un non so ché di macabro e di triste ed il battito dei tacchetti sul selciato rammentava il marciare delle nere legioni, facendo rabbrividire un po' tutti.

"Chissà se Dobrigrad è ancora la più bella città del mondo?" rimuginava Comodello, ancora sconvolto da quanto era avvenuto. Ma, come Comodello, tutti gli abitanti della città erano sconvolti e provavano una infinita pena per i cananei, perché la tolleranza faceva parte della loro tradizione. Ma, come Comodello, tutti nel fondo tiravano un sospiro di sollievo perché avevano la fortuna di non essere cananei. E quando un giovane galileo che soleva recarsi nei boschi cercando (inutilmente) dei fiori rossi da portare in città tornò dicendo di aver trovato un prato disseminato di tumuli, tutti preferirono ignorare la cosa e non andare a vedere di che si trattasse.

Sembrava che nonostante l'accaduto una certa serenità potesse essere

restituita alla città, ma l'eco della lontana guerra attraversava ancora le pianure e preoccupava in uguale misura siriaci, caldei e galilei. Ed anche il nostro forestiero, Comodello, si sentiva sempre inquieto; e come lui, tutti gli abitanti di Dobrigrad erano inquieta ed ora si guardavano tra loro con un certo timore e quasi con diffidenza.

Infine i soldati riapparvero. Gli stessi stendardi neri, le stesse uniformi tutte rigorosamente nere, le stesse facce e le stesse mani scurite con il nerofumo. Anche le marce erano uguali e procedevano schierati in legioni, come la prima volta. Sembrava che fossero proprio gli stessi. Ma nessuno ne era certo e, nel dubbio, tutti si chiusero nelle loro case, sprangando porte e finestre. Anche Comodello preferì rintanarsi nella camera più interna, dove non si sentiva né vedeva alcunché.

Infatti non erano gli stessi soldati, in quanto questi erano nemici giurati dei siriaci. Ovunque vedevano una casa gialla, sfondavano la porta ed entravano: ne uscivano trascinandone gli occupanti che piangevano, imploravano gli abitanti delle vicine case di intervenire per loro in nome dell'antica tolleranza.

Tutti vedevano, tutti sentivano, tutti piangevano disperati vedendo quanto avveniva: ma nessuno ebbe sufficiente coraggio per aprire la propria porta ai fuggiaschi, sicché tutti i siriaci furono catturati e portati nella grande piazza del mercato, strettamente legati. A mano a mano che catturavano i siriaci, le nere legioni davano fuoco alle loro case che bruciavano producendo un fumo spesso e scuro che appestava tutta la città: invece delle belle facciate dipinte di giallo, rimasero solamente delle chiazze di cenere nera. Infine i soldati dalle nere uniformi macchiate di sangue caricarono i siriaci sui carri e si allontanarono ebbri di felicità: "abbiamo ripulito la città dai maledetti siriaci" gridavano tirando sollevando in alto i loro neri berretti in segno di scherno per i nemici catturati.

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Ancora una volta nessuno sapeva a quale popolo appartenessero queste legioni: qualcuno pensava che fossero i cananei che si vendicavano, altri dicevano di aver riconosciuto la parlata dei galilei, ma nessuno era certo. O forse nessuno voleva veramente saperlo.

Nonostante Comodello fosse nella stanza più interna della sua casa, senza finestre che dessero sulla strada, tuttavia sentiva le implorazioni di soccorso dei disperati siriaci: avrebbe voluto far qualcosa, ma cosa poteva fare? Per fortuna lui non era siriaco, anche se tutta la sua compassione andava verso quegli infelici! E così sentivano anche i caldei ed i galilei: abituati alla tolleranza avevano in orrore l'accaduto, ma in cuor loro si sentivano sollevati di non essere siriaci.

Dopo che le nere legioni con i loro carri ebbero portato lontano tutti i siriaci catturati, dopo che ebbero distrutto tutte le gialle case dei nemici, dopo che ebbero abbattuto pietra su pietra la meravigliosa torre gialla con forma di spirale, così bella che non ne esisteva l'uguale, infine si allontanarono dalla città a passo di marcia. I superstiti abitanti aspettarono che la cadenza delle legioni cessasse del tutto, prima di osare respirare. E trascorsero alcuni giorni prima che osassero affacciarsi alle finestre ed ai loro balconi per osservare ciò che rimaneva della loro città. E trascorsero alcune settimane prima che osassero incontrarsi tutti nuovamente nelle strade.

Al posto delle gialle case dei siriaci ora vi erano solamente spiazzi pieni di cenere nera e poiché ormai metà delle case della città erano state distrutte, le vie sembravano tante scacchiere dove le case azzurre dei caldei e quelle verdi dei galilei erano sempre interrotte da ampie macchie nere. Anche i fiori gialli, come le bellissime bocche di leone, scomparvero e non si riuscì più a ritrovarne. Neppure il sole quando sorse ritrovò il suo colore: era sempre luminoso, ma la sua luce era ora grigia e nonostante fosse calda come prima ora lasciava un senso di freddo sulla pelle.

Il giovane galileo che ancora una volta era andato nei boschi nell'inutile ricerca di fiori gialli per sostituire quelli persi, tornò dicendo di aver trovato un altro grande prato pieno di tumuli, ma tutti preferirono non fargli caso e nessuno ebbe il coraggio di andare a vedere di cosa si trattasse. La città rimase triste e sgomenta ed anche le farfalle divennero rare e persero i loro colori e gli uccelli svolazzavano ancora per le vie, ma in assoluto silenzio.

"Quanta distruzione hanno arrecato alla nostra bella città!" piangevano insieme caldei e galilei incontrandosi nelle strade, ma nel loro intimo tanto gli uni come gli altri pensavano: "per fortuna che noi non siamo siriaci!". Allo stesso modo anche Comodello si disperava e si consolava ad un tempo: "avrei tanto voluto fare qualcosa, ma come? ed in fondo io non sono mica siriaco!". Intanto passavano i giorni e a poco a poco la città ancora una volta tornava lentamente alla vita.

La piazza del mercato, ora, non era più affollata, e le bancarelle erano

distanziate l'una dall'altra, così come distanziate erano le case della città.

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Solamente si osservavano le donne caldee velate d'azzurro e gli ampi mantelli verdi dei galilei. I colori solari dei siriaci e dei cananei erano persi per sempre, con le loro danze e le loro orchestrine. Passò il tempo e i cori dei caldei nuovamente si rincorrevano per le strade: ma ora erano cori tristi che incupivano l'animo. L'antica tolleranza tra caldei e galilei non era certa venuta a meno, ma ormai era soffocata dalla diffidenza e dal timore che le cupe legioni potessero, ancora una volta, tornare nella città.

Quasi fossero evocati dal timore dei superstiti, i soldati dalle neri uniformi insozzate dal sangue non tardarono a tornare con gli stessi neri stendardi. A tutti parvero che fossero i medesimi volti già tristemente noti. Tutti corsero a cercare rifugio nelle proprie case, ognuno sperando che i miliziani fossero venuti per catturare il suo vicino. "Fuori i caldei!" gridavano feroci i soldati delle legioni mentre incendiavano le case azzurre con ancor dentro i loro abitanti. E infatti non vi fu alcun tentativo di cattura, ma subito si distrusse ogni cosa con il fuoco, riducendo tutto a nera cenere.

E poi fu ancora la volta della strana chiesa dei caldei, dalle mille guglie ricoperte di luccicanti stelle d'argento.

Erano ancora alte le fiamme quando le legioni, ebbre di distruzione, lasciarono la città. A mano a mano che il crepitio degli incendi veniva a meno, Comodello riprendeva fiato. Era disperato perché avrebbe voluto poter fare qualcosa per impedire tanti lutti e tante distruzioni, ma cosa poteva fare? Fortunatamente lui non era caldeo, era uno straniero.

Ed anche i galilei pensavano nello stesso modo: "è triste perché i caldei erano buoni vicini, ma noi siamo galilei e abbiamo il dovere di preoccuparci del nostro popolo, non degli altri popoli...".

♠ Sembrava impossibile, eppure ancora una volta la città tentò di risollevarsi.

Ormai sembrava essere lo spettro di quella che una volta era la bellissima Dobrigrad, superba della tolleranza dei suoi abitanti, ciò che aveva consentito a tanti popoli di vivere insieme in armonia. Quella che prima era un meraviglioso caleidoscopio di colori, ora era ridotta a poche case che emergevano da un mare di cenere nera, ed anche l'azzurro delle case, scurito dal fumo degli incendi, sembrava grigio, così come grigio era il cielo anche nei giorni sereni. Quella che prima era un meraviglioso teatro di suoni, ora conosceva solamente il triste silenzio dei cimiteri. Non più le ritmiche orchestrine dei cananei, non più le vivaci danze dei siriaci, non più i dolci cori dei caldei.

Anche i fiori vennero a meno, ché i superstiti galilei più non avevano voglia di seminarli, poiché ormai non vi erano altri popoli che potessero ammirare la loro abilità di giardinieri. Ed anche le farfalle e gli uccelli abbandonarono la città divenuta troppo triste. La nebbia e la pioggia, che prima non osavano avvicinarsi a Dobrigrad neppure nelle giornate più crude dell'inverno, ora invadevano la città anche nelle calde giornate estive ed i pochi superstiti abitanti più non riuscivano a togliersi dalle ossa quella sensazione di freddo che li faceva rabbrividire anche quando il grigio sole splendeva nel cielo dall'azzurro fumoso.

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Quando le persone si incontravano per strada, si scambiavano appena un cenno di saluto con un impercettibile movimento della testa, senza proferire parola, quasi avessero paura di turbare quel sepolcrale silenzio, quasi temessero che i suoni ed i colori avessero il potere di attirare verso la città la maledizione delle legioni dalle nere uniformi.

Ma la maledizione non doveva aver fine: e infatti una mattina d'inverno quatte quatte le nere legioni occuparono la città. Pioveva fitto e la nebbia era spessa come il fumo di cento incendi, impedendo agli abitanti di vedere quanto stesse avvenendo e di percepire anche il minimo rumore. Per i galilei, pertanto, non vi fu alcuna possibilità di fuga. "Morte ai galilei! purifichiamo la nostra terra!" gridavano i neri legionari le cui nere uniformi erano divenute rigide per il tanto sangue rappreso che le lordava. "Misericordia! Aiutateci!" imploravano i galilei in direzione di Comodello, che inutilmente si era nascosto nella stanza più interna della sua casa, sul suo letto, nascosto sotto le coperte cercando inutilmente di impedire che le suppliche di aiuto ed i gemiti dei moribondi lo raggiungessero. Inutilmente, giacché le grida erano così disperate che superavano qualunque ostacolo.

Inutilmente, perché anche chiudendo con forza gli occhi, ugualmente aveva la chiara visione di quanto stava avvenendo, ancor più che se la tragedia lo avesse colto per strada, durante una luminosa giornata. "Vorrei poter far qualcosa, ma non posso far niente per aiutarvi!" diceva piangendo per calmare la sua coscienza ed il suo timore. "So che siete tutti buona gente - siriaci, cananei, caldei e galilei - e vorrei aver potuto aiutarvi tutti. Ma io sono solo uno straniero: non conosco i vostri usi, non comprendo le ragioni che vi hanno portato ad uccidervi gli uni con gli altri. Io non posso intervenire... non potete chiedermelo...". E quasi ad accogliere la muta preghiera di Comodello, le grida poco a poco si diradarono ed infine cessarono completamente.

Comodello non seppe mai per quanto tempo rimase nascosto nella camera

più interna della sua casa, con il corpo rannicchiato ad occultare il viso tra le ginocchia. Quando infine decise di uscire Dobrigrad non esisteva più. Ovunque guardasse, a oriente come a occidente, a settentrione come a meridione, ovunque era un enorme mare di cenere nera. Delle legioni non rimaneva neppure più l'ombra. Guardò lontano, verso le colline boscose che da ogni lato cingevano la città: anche i boschi erano anneriti, e così il cielo ed i ruscelli. Ovunque guardasse, tutto era grigiore e silenzio.

Comodello preparò la sua carretta con le sue merci esotiche: sarebbe partito e sarebbe andato alla ricerca di un'altra città, dove le persone sapessero convivere senza odii e senza intolleranza, perché lui, Comodello, era una persona tollerante e di quei barbari che si erano scannati così crudelmente non ne voleva più sapere. Sarebbe andato lontano, lontano, lontano e avrebbe dimenticato Dobrigrad, quella che un tempo fu la più bella città del mondo.

Ormai il carretto era pronto e Comodello iniziava i primi passi quando all'orizzonte apparvero ancora una volta i neri drappi delle nere legioni. "Cosa

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vengono a fare che ormai non rimane più nulla da distruggere!" disse tra sé Comodello: ed infatti l'unica cosa che rimaneva alle sue spalle era la sua casa che una volta aveva i colori dell'arcobaleno, ma che ora era nera per il fumo... e intorno solamente cenere più scura della più profonda notte. Ed istintivamente accelerò il passo. Ben presto i soldati dalle neri uniformi gli furono intorno. Comodello guardava con orrore il sangue raggrumato sulle loro uniformi, sui loro volti e sulle loro mani, sicché non avevano ormai più alcun bisogno di scurirsi la pelle. Era inquieto e timoroso, tuttavia si faceva coraggio ripetendosi: "a me non faranno nulla. Io non c'entro con le loro lotte fratricide... io sono straniero!" E invece i miliziani cercavano proprio lui! "Fuori gli stranieri dalla nostra terra!" gridò uno, e presto altri dieci gli rovesciarono la carretta e calpestavano le sue merci distruggendole. "Fuori gli stranieri dalla nostra terra!" gridò un altro, e presto altri dieci lo afferrarono, strappandogli senza misericordia i capelli insieme ai suoi abiti. Comodello gridava "aiuto, siriaci, aiutatemi! Prestatemi soccorso!": ma non restava più alcun siriaco che potesse udire il grido disperato e prestargli soccorso.

Comodello sentiva le lame dei coltelli dei legionari penetrargli nella carne e ancora gridava "aiuto, cananei, aiutatemi! Venite a liberarmi!": ma non restava più alcun cananeo che potesse udire la sua supplica accorata ed accorrere al suo fianco. Comodello sentiva i colpi dei bastoni che gli piombavano addosso rompendogli le ossa e gridava: "aiuto, caldei, aiutatemi! Nascondetemi nelle vostre dimore!": ma non restava più alcun caldeo che potesse aprirgli l'uscio della sua casa per dargli riparo, né rimanevano case ove nascondersi. Comodello sentiva la ruvida corda che gli veniva stretta intorno al collo ed ancora tentò per l'ultima volta di lanciare una estrema invocazione: "aiuto, galilei, aiutatemi! Impedite ai miliziani di fare scempio delle mie carni!": ma non restava più alcun galileo che potesse allontanare i miliziani ed impedire loro di far scempio delle sue carni.

Inutile fu ogni grido, ogni supplica, ogni disperata invocazione, perché nella città di Dobrigrad non rimaneva più nessun abitante, né siriaco né cananeo, né caldeo né galileo, che potesse udire i suoi lamenti ed accorrere a prestargli soccorso.

Comodello ormai sentiva la vita allontanarsi dal suo corpo. Fu dunque quasi

senza accorgersene che in un ultimo quanto disperato tentativo tre volte girò il magico anello zingaro, che sempre portava al suo dito... ed al terzo giro si ritrovò libero, perfettamente sano, serenamente disteso sul suo grande letto, nella sua bella ed accogliente casetta!

Prese fiato, scrollò la testa, come per allontanare quello certamente doveva essere stato un orrendo incubo. Ancora incerto, corse alla finestra: ma Dobrigrad era veramente intorno a lui, con tutti i suoi fiori, i suoi colori, i suoi suoni, l'allegria della sua esistenza... nei suoi vicoli sembrava esserci il mondo intero. Ecco in quell'angolo alcuni siriaci e con le loro morbide tuniche gialle! Poco distante passeggiavano due cananei dalle ampie brache rosse! Ma ecco

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che dall'altra parte arrivava una giovane sposa caldea con il suo ampio velo azzurro: l'accompagnava un anziano galileo con il suo caratteristico gonnellino e l'ampio mantello verde!

"Un incubo - disse a se stesso - un tremendo incubo! il peggiore di tutti gli incubi!" e, aperta la finestra, respirava la tiepida aria primaverile, inebriava la sua vista con i mille colori della città e deliziava le sue orecchie con i meravigliosi suoni di Dobrigrad: le ritmiche danze dei siriaci che ballavano al suono delle orchestrine cananee mentre i caldei innalzavano i loro suggestivi cori. Comodello non capiva più nulla. "Non può essere che un brutto sogno" continuava a ripetersi, ma i suoi occhi si posavano sull'anello magico posto al suo dito, dove non appariva più alcuna leggenda. Lo sfiorò con il polpastrello: era talmente liscio che sembrava coperto da un velo d'olio. "Non è possibile!" si disse, e si sfilò l'anello dal dito, riponendolo in fondo ad un baule, coperto da cento e cento cianfrusaglie.

Dobrigrad era ancora la più bella città del mondo, dove cento popoli avrebbero potuto vivere in armonia grazie alla tolleranza dei suoi abitanti. La nebbia e la fredda pioggia invernale non osavano avvicinarsi troppo alle case della città, che sembrava vivere il sogno di una eterna primavera. I fiori fiorivano con mille colori nei dodici mesi dell'anno ed anche le farfalle variopinte che svolazzavano nell'aria tiepida sembravano eterne. Il cinguettio degli uccellini faceva contrappunto ai cori dei caldei ed alle orchestrine dei cananei.

Comodello aveva ripreso tutte le sue vecchie abitudini: al mattino si alzava di buonora, preparava il suo carretto con le sue merci esotiche ed andava nella piazza del mercato ad allestire la sua bancarella; alla sera tornava nella sua casetta, soddisfatto di quanto aveva venduto e di quanto aveva comprato, soddisfatto della vita che stava conducendo.

A volte Comodello rammentava quanto era occorso, incerto tuttavia su quale interpretazione dare ai fatti. Ricordava perfettamente come sull'anello vi fosse stata incisa la formula magica, ora scomparsa. Fortunatamente la magia dell'anello aveva funzionato: il tempo era tornato indietro e la distruzione della città sembrava ora un evento futuro assurdo ed impossibile. Ma il ricordo di quel passato era così doloroso che Comodello preferiva dimenticarlo. A volte provò a raccontare ai suoi vicini il suo incubo e scoprì che anche i suoi vicini avevano il ricordo di un sogno drammatico, nel quale la città veniva distrutta. Sembrava che tutti gli abitanti di Dobrigrad avessero avuto lo stesso incubo, ma, del pari di Comodello, tutti volessero scordarlo al più presto per recuperare la propria sicurezza nel presente e nel futuro della bellissima città.

Tuttavia la sicurezza del mercante venne a meno quando dai colli boscosi che

cingevano Dobrigrad cominciarono a giungere vaghe voci di guerra. Siriaci, cananei, caldei e galilei si stavano combattendo, senza che nessuno a Dobrigrad sapesse indicare chi alzasse la spada e contro chi, o perché fosse nata questa guerra, o chi vi avesse dato inizio. Queste voci cambiarono la vita di Comodello che ora guardava con occhi ben diversi la tolleranza reciproca di cui tanto si

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vantavano gli abitanti di Dobrigrad. Ora non si sentiva più forestiero nella città, ma si sentiva siriaco tra i siriaci, cananeo tra i cananei, caldeo tra i caldei e galileo tra i galilei. Comprendeva bene il loro sentire, poiché era divenuto il suo sentire. Anche se ormai percepiva che l'anello magico aveva perso la sua magia, ciò non di meno volle rimetterselo al dito.

I rumori di guerra a poco a poco si avvicinavano alla città seminando una tesa inquietudine. Poi, un giorno d'inverno, apparvero i soldati con le loro nere uniformi. Neri gli stivali, neri i pantaloni, nere le giacche e le camicie indossate, neri i cappelli. Neri anche i volti e le mani, in quanto macchiati dal nero fumo per renderli invisibili al nemico. Unico elemento di colore erano le macchie rosso-brune che lordavano ovunque le loro divise: era il sangue dei nemici uccisi. I soldati portavano grandi bandiere: ma anch'esse erano nere, sicché gli abitanti di Dobrigrad non riuscirono a comprendere a quale nazione essi appartenessero.

Questa volta, tuttavia, Comodello non rimase inoperoso. Si recò dunque alla casa dell'anziano mago siriaco ed ancora una volta fu ricevuto con grande cortesia nel grande salone tutto coperto dai tappeti. Il mago ascoltò con molta attenzione il racconto di Comodello sui trascorsi eventi, osservò l'anello ora privo della lettere che vi erano incise, e non dubitò che gli eventi narrati dal mercante rispondessero a verità. "Il tuo incubo - disse il mago siriaco - corrisponde assai bene al mio, giacché anch'io ho sognato cose altrettanto sconvolgenti. Andiamo a parlarne con il più vecchio dei cananei!".

Il vecchio cananeo li accolse con grande cortesia nel bellissimo salone dalle cento fontane, ed ascoltò il loro racconto. A mano a mano che Comodello parlava, la sua faccia si incupiva ed il suo sguardo non poteva più nascondere la grave preoccupazione. Volle poi sfiorare l'anello al dito di Comodello: "non sento più erompere la sua magia: è certo che essa si è compiuta e dunque, come tu dici, il tempo è già tornato una prima volta, ma non potrà tornare indietro una seconda volta! ...e questi vostri sogni di cui mi avete detto, sono anche i miei stessi incubi. Chiediamo consiglio al saggio caldeo, che sicuramente saprà dirci cosa dobbiamo fare! andiamo, presto!".

I tre furono accolti dal saggio caldeo nel suo tintinnante salone dalle centomila campanelle e Comodello ripeté ancora una volta il suo racconto. "Ora comprendo il significato dei sogni che mi hanno tanto tormentato!" disse il saggio caldeo quando il mercante ed i suoi accompagnatori ebbero concluso, ed aggiunse: "poiché tutti insieme abbiamo svelato il significato dell'anello magico che ha salvato noi tutti e la nostra città, tutti insieme dobbiamo decidere sul da farsi. Andiamo dunque dal saggio galileo!".

Così fecero ed i quattro furono accolti dal saggio galileo nel suo salone ed ancora una volta Comodello rimase sconcertato dalle immagini restituite dagli specchi magici. Il sapiente ascoltò silenzioso il racconto dei quattro amici e poi disse: "questi sogni che hanno tormentato così a lungo tutti voi, hanno tormentato anche me. Sono sicuro che questi eventi si sono veramente prodotti nel passato, così dicono i miei specchi, ma si ripeteranno anche nel futuro, così dicono ancora i miei specchi, se noi non riusciremo ad impedirlo. Né sarà più possibile ricorrere alla magia dell'anello del tempo, poiché la sua magia è

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svanita. Siamo noi che dobbiamo salvare la nostra città e la nostra gente! Siamo noi che dobbiamo impedire che il triste destino di Dobrigrad debba compiersi, né possiamo indugiare. Riuniamo subito tutti gli adulti nella piazza del mercato e tu, Comodello, farai a tutti il tuo racconto!".

Così fu ed ogni bambino, ogni donna, ogni uomo, ogni anziano, tutti fecero correre la voce che tutti dovevano accorrere alla grande piazza del mercato e ben presto Comodello ed i quattro anziani saggi furono circondati da tutta la popolazione di Dobrigrad, senza che mancasse proprio nessuno.

Disse il mago siriaco: "gente di Dobrigrad, drammatici eventi sono giunti alle nostre porte. Ascoltate con attenzione le parole del nostro amico Comodello!". Disse il vecchio cananeo: "gente di Dobrigrad, il lutto del nostro vicino è il nostro lutto.

Non dubitate delle parole del nostro amico Comodello!". Disse il saggio caldeo: "gente di Dobrigrad, la salvezza del nostro vicino oggi, sarà la salvezza nostra domani. Nelle parole del nostro amico Comodello c'è la salvezza di tutti noi!". Disse il sapiente galileo: "gente di Dobrigrad, solamente se saremo tutti l'uno per l'altro potremo salvare la nostra città e le nostre vite. Obbedite ai comandi del nostro amico Comodello!".

E così quando Comodello fece il suo racconto tutti ascoltarono con la massima attenzione e nel massimo silenzio. Nessuno strumento cananeo emetteva le sue note, né più si udivano i cori caldei, né più picchiettavano sulle pietre i passi dei ballerini siriaci; anche i Galilei avevano sospeso le cure ai propri fiori e persino gli uccelli e le farfalle avevano interrotto i loro voli o i loro canti. Comodello raccontò il suo sogno, ed in esso tutti ritrovarono i propri sogni. Le donne caldee rabbrividirono e strinsero al seno i propri bimbi, mentre le donne galilee guardavano smarrite i propri anziani. Comodello mostrò il suo anello e tutti ricordarono che una volta possedeva misteriose lettere, mentre ora era liscio, e le donne siriache si strinsero più vicine ai loro mariti mentre le donne siriache volgevano al cielo gli occhi rossi per le trattenute lacrime.

Quando Comodello ebbe concluso, fu un unico vociare angosciato: "cosa possiamo fare? cosa dobbiamo fare? cosa vogliamo fare?", chiedevano bimbi ed anziani, donne e bambini. Allora il mago siriaco soggiunse: "ancora una volta non sappiamo chi siano questi soldati dalle nere bandiere, ma ora sappiamo che sono venuti per distruggere i cananei e le loro case. Dicci tu, Comodello, cosa dobbiamo fare e noi ti ubbidiremo!". Il mercante rispose: "il tempo per rimediare è pochissimo: tra breve i soldati entreranno in città, né abbiamo come impedirglielo. Però possiamo vestirci tutti di rosso, come i cananei, mettendo le loro stesse brache ed il loro stesso corpetto, così i soldati non potranno distinguere i cananei dagli altri popoli e, per non ferire coloro che appartengono alla loro stessa gente, non potranno colpire nessuno!".

I galilei, i siriaci ed i caldei avrebbero volentieri fatto a meno di obbedire a Comodello poiché avevano molto timore di essere confusi con i cananei ed uccisi, ma non ebbero l'animo di mostrarsi così codardi di fronte al mercante straniero e di disobbedire al comando dei quattro saggi, che aveva chiesto di seguire il consiglio di Comodello. Sicché alcuni improvvisarono con la stoffa rossa brache e corpetti simili al vestire dei cananei e scesero in strada,

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chiamando tutti gli altri affinché facessero la stessa cosa, sicché quando fu mezzogiorno tutta la città era un pullulare di uomini, donne e bambini, tutti vestiti come i cananei.

Quando nelle prime ore del pomeriggio i miliziani occuparono tutta la città, la gente di Dobrigrad, non più timorosa, anziché richiudersi nelle proprie case per non dover sentire, né vedere, né sapere quanto succedeva nella città, volle, al contrario, sentire, vedere e sapere ogni cosa, e tutti si riversarono nelle strade e nelle piazze. Poi la moltitudine si diresse verso la grande piazza, dove le milizie dalle nere uniformi si erano raccolte: i soldati, vedendo arrivare tutta questa gente, non capirono più niente. Ora non sapevano più chi fosse cananeo e chi non lo fosse, chi dovessero uccidere (questi erano gli ordini ricevuti!) e chi dovessero difendere. Nella confusione che seguì tutti cantavano insieme ai cananei i loro cori e si disperdevano in tutte le direzioni.

I soldati con il volto dipinto di nero cercarono di recuperare l'ordine, ma era ormai impossibile. Infine, il loro comandante diede l'ordine di abbandonare la città al suo destino. "Siete dei traditori! Siete dei senza patria!" gridava il truce comandante della falange agli abitanti della città, che ormai sventolavano mille e mille vessilli di tutti i colori per le vie e le piazze di Dobrigrad, mentre le milizie la abbandonavano. Quando giunse l'alba, delle nere falangi non rimaneva neppure più l'ombra.

Passarono i mesi. Comodello faceva sempre il mercante ed ora era assai più

soddisfatto della sua vita, di quanto non lo fosse prima. Ora si sentiva siriaco, ora gli pareva d'esser nato caldeo, ora pensava come cananeo, ma ecco che le sue parole suonavano come di galileo. E così come sentiva Comodello, sentivano tutti gli abitanti di Dobrigrad: ora sembrava loro che quella tolleranza di cui una volta erano così soddisfatti, fosse cosa ben misera comparata con quel sentirsi partecipi gli uni degli altri, con quel sentire che le diverse culture che convivevano a Dobrigrad non appartenevano ai siriaci o ai galilei, ai cananei o ai caldei, ma appartenevano a tutti i cittadini di Dobrigrad e che nessuna cultura, nessuna lingua, nessuna musica e nessun ballo poteva essere veramente bello se non rallegrava tutti, senza distinguere né la lingua, né il colore delle proprie vesti, né il modo di pregare il proprio Dio.

Mentre un tempo gli abitanti di Dobrigrad, così orgogliosi della loro tolleranza, poco sapevano gli uni dei costumi degli altri, poco conoscevano gli uni la lingua degli altri, né si interessavano dei rispettivi problemi, ora era diverso: tutti imparavano a ballare, a cantare, a suonare ed a coltivare i fiori.

Ancora una volta altrove si mormorava che i siriaci combattessero contro i caldei, che i cananei fossero nemici dei galilei, che questi muovessero in armi contro quelli, senza che nessuno sapesse indicare con certezza chi fossero questi e chi fossero quelli: ma ora queste voci confuse non turbarono più la città, ed ogni diffidenza e sospetto scomparvero. I siriaci continuavano a danzare al suono delle orchestre cananee, ma ora era più bello di prima: gli uni si mescolavano con gli altri, cortesi, gentili, tolleranti, ma, soprattutto, tanto

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vicini. I galilei continuavano a piantare i loro fiori in tutta la città, ma quando lo facevano nei balconi dei siriaci, dei cananei e dei caldei, in questo caso la terra era innaffiata da tanta simpatia che i fiori sembravano quasi crescere più in fretta e più rigogliosi e quando fiorivano il loro colore ed il loro profumo sembrava molto intenso. Le farfalle e gli uccellini continuavano con i loro voli, ma anche questi ora sembravano ancora più veloci e vivaci di un tempo. Anche le dolcissime voci dei cori caldei ora sembravano incapaci di intonare canti tristi o marziali, ma solamente quelli più sereni e gioiosi. La città continuava la sua vita di sempre: anche se nulla sembrava cambiato, in realtà un nuovo senso di reciproca partecipazione a poco a poco aveva contribuito a distruggere qualunque diffidenza, sicché gli eventi drammatici di cui giungevano notizie anche all'interno della città erano incapaci di creare qualunque forma di barriera tra i popoli che sino ad allora avevano vissuto così serenamente a Dobrigrad.

Sembrava che quanto era accaduto avesse dato alla città una serenità che nulla poteva mettere a repentaglio, ma tuttavia l'eco della lontana guerra attraversava ancora le pianure e preoccupava in uguale misura cananei, siriaci, caldei e galilei. Ed anche il nostro forestiero, Comodello, si sentiva sempre inquieto.

Infine i soldati riapparvero. Gli stessi stendardi neri, le stesse uniformi tutte rigorosamente nere, le stesse facce e le stesse mani scurite con il nerofumo. Anche le marce erano uguali e procedevano schierati in legioni, come la prima volta. Sembrava che fossero proprio gli stessi, anche se nessuno ne era certo.

Ancora una volta Comodello corse dai quattro saggi della città ed ancora una volta la città intera si riunì nella grande piazza del mercato. "Neppure questa volta sappiamo chi siano questi neri soldati, ma è certo che sono venuti per distruggere i siriaci" disse Comodello, ed aggiunse: "ma anche questa volta li potremo sconfiggere se saremo tutti uniti! Ora dipingeremo di giallo tutte le case e le botteghe ed i templi della città, e rimarremo tutti chiusi all'interno delle nostre case senza pronunciare parola, né cantare, ne suonare, né ballare, sino a quando i soldati non se ne saranno andati!".

Questa volta nessuno ebbe timore, ma immediatamente tutti corsero per dipingere di giallo anche le case dei cananei, dei galilei e dei caldei. Tutte le case di Dobrigrad erano gialle, tranne quella di Comodello che, invece, aveva i colori dell'arcobaleno. E come la volta scorsa, tutti gli abitanti di Dobrigrad si vestirono con le rosse vesti dei cananei.

Fecero appena in tempo a terminare di dipingere tutte le facciate che i neri legionari con le uniformi imbrattate di sangue entrarono nella città. "Distruggete tutte le case gialle e coloro che vivono in esse!" era l'ordine ricevuto "ma fate attenzione a non procurare danno alle altre case e a coloro che non sono siriaci!" era l'altro ordine ricevuto. Sicché i soldati non sapevano che fare: tutte le case erano gialle, tranne quella di Comodello che aveva i colori dell'arcobaleno, e tutti gli abitanti, tranne il mercante, vestivano di rosso! Non capivano più, i miliziani, chi fosse amico e chi fosse nemico! Sicché sempre più perplessi i comandanti delle legioni tennero consiglio: mentre uno sosteneva che gli ordini erano sbagliati, un altro affermava che in Dobrigrad non vivevano più siriaci; allorché un terzo spiegava di essere certo che il loro compito era

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quello di proteggere i cananei, un quarto ribatteva con altrettanta certezza che il loro dovere era quello di impedire che i siriaci potessero sfuggire. Già ... ma dove erano, i siriaci? Le case sembravano tutte siriache, ma ciò non poteva essere vero, perché sapevano che a Dobrigrad vivevano anche altri popoli. Forse le indicazioni ricevute erano sbagliate: non si potevano riconoscere le case siriache per il loro colore, così come non si potevano distinguere i siriaci per il colore delle loro vesti!

Allora i soldati ascoltarono attentamente i suoni che provenivano dall'interno delle case: speravano di riconoscere i siriaci a causa della loro lingua oppure dal ritmo delle loro danze. Silenzio totale! Ancora una volta i legionari si ritrovarono a discutere senza alcun indizio. Discussero ancora ed ogni miliziano aveva una idea ed una soluzione diversa e con tanta foga sosteneva l'una e l'altra, che ben presto vennero alle mani ed incrociarono le spade. Allora i loro comandanti non riuscendo in nessun modo a venirne a capo, comandarono ai soldati di ritirarsi, sicché si allontanarono dalla città a passo di marcia.

Gli abitanti di Dobrigrad, chiusi nelle loro gialle case, aspettarono che la cadenza delle legioni cessasse del tutto, prima di osare respirare. E trascorsero alcuni giorni prima che osassero affacciarsi alle finestre ed ai loro balconi per osservare cosa fosse successo, ma quando lo fecero scoprirono che c'era una meravigliosa giornata di sole e che la loro città era più ricca e bella di quanto non lo fosse mai stata. Ma mentre erano rimasti chiusi nelle loro case era sopraggiunta una intensa pioggia che aveva ripulito le facciate appena dipinte, sicché Dobrigrad era nuovamente una meravigliosa festa di colori. Ed erano apparsi anche nuovi uccelli, nuovi fiori e nuove farfalle. "Sono le farfalle, i fiori e gli uccelli fuggiti dalle città devastate dalla guerra che hanno cercato rifugio qui, nella nostra città" spiegarono i quattro saggi, e tutti ne furono lieti.

La piazza del mercato, ora, era assai più affollata di prima, e le bancarelle

erano vicine l'una all'altra così come le facciate delle case erano tutte unite a formare un'unica grande tavolozza. Ai costumi di tutti i popoli di Dobrigrad, ora si aggiungevano sempre più spesso quelli dei popoli delle vicine città: uomini e donne intristiti dalla lunga e crudele guerra, che cercavano a Dobrigrad quei prodotti e quelle merci che il conflitto scatenato (ma ancora ora nessuno sapeva né da chi, né perché!) aveva reso introvabili altrove. Questi forestieri parlavano dei lutti e della miseria che la guerra aveva loro arrecato e gli abitanti della bella città non si stancavano mai di suggerir loro l'unica soluzione: "dovete sentirvi siriani", dicevano ai caldei; "dovete sentirvi galilei", dicevano ai siriaci; e continuavano di questa sorta. Ma i forestieri ascoltavano e non comprendevano e pensavano che gli abitanti di Dobrigrad non volessero raccontare il segreto della loro sopravvivenza e della loro serenità. Serenità che, tuttavia, era turbata dal timore che le cupe legioni potessero, ancora una volta, tornare nella città.

Quasi fossero evocati da questo timore, i soldati dalle neri uniformi insozzate dal sangue non tardarono a tornare con gli stessi neri stendardi. A tutti parvero che fossero i medesimi volti già tristemente noti. Senza più attendere di essere

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invitati, tutti corsero ad affollare la piazza del mercato per ascoltare i consigli di Comodello.

"Non so chi siano - disse il mercante - ma so con certezza che sono venuti per uccidere tutti i caldei!". "Prima di poter uccidere un solo caldeo, dovranno passare tutti noi a fil di spada!" interruppe un siriaco e questo divenne ben presto il coro unanime della folla radunata nella piazza. "Questa volta andremo noi incontro ai soldati, e ci vestiremo con tutti i colori dell'arcobaleno: i siriaci parleranno come caldei e suoneranno gli strumenti dei cananei, i cananei parleranno come siriaci e canteranno come galilei ed i caldei parleranno come cananei e danzeranno come siriaci...".

"E noi? cosa faremo noi?" domandavano a gran voce i galilei. Comodello rifletté qualche istante e poi rispose: "i galilei prima offriranno i loro fiori ai soldati, poi parlando ora come siriaci, ora come cananei, ora come galilei, diranno: "noi siamo caldei!". E così fecero.

I soldati delle legioni non comprendevano cosa fosse successo. Nessuno parlava la propria lingua, ma tutti storpiavano quella degli altri, sicché era evidente che non poteva essere la propria... e questa gente che offriva fiori e diceva di essere caldea, ma il loro accento li tradiva: non potevano essere certamente caldei. Eppoi si era anche sparsa la voce che Dobrigrad fosse una città molto strana, dove nessuno era mai né ciò che sembrava, né ciò che doveva essere. E si era pure sparsa la voce che questa grande confusione creava attriti tra i legionari, i quali si mettevano a discutere tra loro con tanta foga che poteva accadere anche che essi venissero alle armi. Sicché i generali cominciarono ad arringare la folla: "vergognatevi! vergognatevi! - gridavano i generali - siete uomini senza patria, avete perso l'orgoglio della vostra razza! noi siamo venuti a difendervi dai caldei, ma non meritate certo che noi rischiamo la nostra pelle per voi!" gridavano i generali, ma tutti ridevano, ridevano, ridevano... Ridevano i siriaci, i cananei, i galilei, ma soprattutto ridevano i caldei ridevano della stupidità dei soldati, ridevano della loro inutile stanchezza, ridevano delle loro vili ferite, ridevano e disprezzavano la loro meschinità, li disprezzavano e compativano per il sangue che lordava le loro uniformi, ed ancor più li compativano per la disperazione e la solitudine delle loro nere coscienze.

Inutilmente i generali arringavano la folla, sicché decisero di andarsene. E così fecero, nel generale tripudio degli abitanti di Dobrigrad.

Ma la maledizione non doveva aver fine, perché una mattina d'inverno quatte

quatte le nere legioni si accamparono ancora una volta al bordo della città. Pioveva fitto e la nebbia era spessa come il fumo di cento incendi, impedendo agli abitanti di vedere quanto stesse avvenendo e di percepire anche il minimo rumore, ma un pastore forestiero che conduceva le sue pecore al mercato della città diede l'allarme.

Ancora una volta i quattro popoli di Dobrigrad si ritrovarono nella piazza del mercato a chiedere consiglio a Comodello. Non c'era più tempo per predisporre

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qualche stratagemma e l'unica cosa che venne a mente al mercante fu: "presto, presto! vestitevi tutti come forestieri e qualunque cosa i soldati vi domandino, rispondete loro: io sono forestiero, non capisco la tua lingua, chiedi a qualcun altro!". E così fecero.

"Morte ai galilei! purifichiamo la nostra terra!" gridavano i neri legionari, le cui nere uniformi erano divenute rigide per il tanto sangue rappreso che le impregnava, mentre sciamavano nei vicoli e nelle piazze di Dobrigrad. Ma non vedevano nessun galileo nelle strade della città. Allora chiesero ad un forestiero: "dove sono i galilei?"; ma questi rispose loro: "io non sono di questa città, non capisco la tua lingua, non so cosa mi chiedi, rivolgiti a qualcun altro" ed i soldati si guardavano intorno, ma tutti sembravano forestieri, tutti erano vestiti in modo strano e nessuno sembrava comprendere la lingua dei legionari. Più e più volte i soldati percorsero in lungo ed in largo la città: inutilmente, ché di galilei non ne trovarono neppure l'ombra! Più e più volte i generali si ritrovarono nella piazza del mercato, ma ovunque vedevano solamente forestieri cortesi e gentilissimi, ma incapaci di capire la loro lingua e di rispondere alle loro domande. Intanto il tempo passava e i soldati erano sempre più scontenti, giacché nulla rende più infelice un legionario che non trovare un nemico da combattere. Ed anche ai generali pareva ormai di perdere tempo nella vana ricerca di un fantasma. Finalmente un soldato più impaziente e smanioso degli altri di menare la sua spada gridò: "andiamo oltre la montagna: là ci sono molti galilei da scannare!" ed il gregge di legionari si mosse per seguirlo. Ed i generali, i quali non ammettono che i soldati possano prendersi delle iniziative, tuonarono con voce possente: "tutti in fila! tutti in fila! andiamo oltre la montagna e conquisteremo tutte quelle terre!". Così con passo marziale ad una ad una le legioni abbandonarono Dobrigrad.

Non si può descrivere quanto grande fosse il giubilo degli abitanti della città. Ad uno ad uno era arrivati tutti gli eserciti che si stavano combattendo e tutti erano stati sconfitti dalla solidarietà! Ormai non rimaneva più alcun esercito e la pace sembrava finalmente sicura. I colori della città erano così intensi che sembravano emanare luce propria, i voli delle farfalle erano così frenetici che sembravano condividere l'allegria degli abitanti ed i canti degli uccelli erano così sublimi che uguagliavano i suoni dei più abili flautisti di tutte le terre conosciute.

Ma purtroppo la vicenda non era ancora conclusa. Infatti i generali di tutti gli eserciti decisero di riunirsi per discutere

sull'andamento della guerra. Con le armi in mano, giacché nessuno si fidava dell'altro, riuscirono tuttavia ad incontrarsi e discussero di Dobrigrad: nessuno si capacitava di quale fosse il sortilegio, ma tutti si trovarono d'accordo (fu la prima e l'ultima volta che ciò avvenne!) nel sostenere che non era tollerabile che popoli diversi convivessero pacificamente nella stessa città, per di più con degli stranieri. "E' il forestiero che li ha convinti a tradire la propria razza! A morte lo straniero!" disse un generale. "A morte lo straniero!" replicarono gli

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altri generali e decisero di mettere per una sola volta insieme le loro legioni per scacciare lo straniero da Dobrigrad.

Il mercante si accingeva ad andare al mercato con il suo carretto, come avveniva ogni mattina, quando da tutte le strade giunsero con i loro neri drappi le nere legioni. "Cosa vengono a fare che ormai son già venuti tutti senza nulla ottenere!" disse tra s‚ Comodello: ma istintivamente accelerò il passo.

Ben presto i soldati dalle neri uniformi gli furono intorno. Comodello guardava con orrore il sangue raggrumato sulle loro uniformi, sui loro volti e sulle loro mani, sicché non avevano ormai più alcun bisogno di scurirsi la pelle. Era inquieto e timoroso, tuttavia si faceva coraggio ripetendosi: "a me non faranno nulla. Io non c'entro con le loro lotte fratricide... Io sono uno straniero!"

E invece i miliziani cercavano proprio lui! "Fuori gli stranieri dalla nostra terra!" gridò uno, e presto altri dieci gli rovesciarono la carretta e calpestavano le sue merci distruggendole. "Fuori gli stranieri dalla nostra terra!" gridò un altro, e presto altri dieci lo afferrarono, strappandogli senza misericordia i capelli insieme ai suoi abiti. Comodello gridava "aiuto, siriaci, aiutatemi! Prestatemi soccorso!". Comodello sentiva le lame dei coltelli dei legionari penetrargli nella carne e ancora gridava "aiuto, cananei, aiutatemi! Venite a liberarmi!". Comodello sentiva i colpi dei bastoni che gli piombavano addosso rompendogli le ossa e gridava: "aiuto, caldei, aiutatemi! Nascondetemi nelle vostre dimore!". Comodello sentiva la ruvida corda che gli veniva stretta intorno al collo ed ancora tentò per l'ultima volta di lanciare una estrema invocazione: "aiuto, galilei, aiutatemi! Impedite ai miliziani di fare scempio delle mie carni!".

Comodello già sentiva la vita allontanarsi dal suo corpo, quando improvvisamente si ritrovò libero: intorno a lui ovunque siriaci giunti a prestargli soccorso, cananei venuti a liberarlo, caldei pronti ad offrirgli rifugio, galilei pronti a battersi per impedire ai miliziani di fare scempio delle sue carni! Con pietre, con bastoni, con secchi pieni di olio bollente, gli abitanti di Dobrigrad, donne e uomini, ma anche anziani e bambini, tutti accorrevano in difesa di Comodello e ben presto misero in fuga tutte le legioni.

Ed i generali ebbero tanta vergogna vedendo che i loro miliziani erano stati sconfitti da modesti contadini, artigiani, commercianti, suonatori di flauto e giardinieri, che tutti insieme giurarono di non tornare mai più a Dobrigrad e decisero di dimenticare per sempre la città.

Sicché Comodello prese fiato, scrollò la testa come ad allontanare un orrendo incubo e si guardò intorno: Dobrigrad era intorno a lui con tutti i suoi fiori, i suoi colori, i suoi suoni, l'allegria della sua esistenza... nei suoi vicoli sembrava esserci il mondo intero accorso in suo aiuto!

Dobrigrad è la più bella città del mondo. E' circondata da dolci colline dalla folta vegetazione, il suo clima è mite ed è piena di fiori, di farfalle, di uccelli e di colori. La cosa più bella di Dobrigrad sono i suoi colori: coloratissime sono le facciate delle case, variopinti gli alberi sempre fioriti dei suoi viali, dorati i suoi tramonti. Dobrigrad è così ricca di colori, che anche la pioggia non può fare a meno di separarsi in mille e mille gocce, ognuna dai cento riflessi

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dell'arcobaleno, ed anche i rivoli che si formano sui tetti e scendono dalle grondaie sono ora rossi, ora gialli, ora verdi, ora azzurri.


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