+ All Categories
Home > Documents > L'odore dei pensieri. Etica e scritttura dell'animale in JM Coetzee, aut aut, n. 363, 2014, pp....

L'odore dei pensieri. Etica e scritttura dell'animale in JM Coetzee, aut aut, n. 363, 2014, pp....

Date post: 05-Dec-2023
Category:
Upload: triestearchitettura
View: 0 times
Download: 0 times
Share this document with a friend
28
363 luglio settembre 2014 J.M. Coetzee. Ricominciare con niente J.M. Coetzee La vecchia e i gatti 5 Raoul Kirchmayr L’odore dei pensieri. Etica e scrittura dell’animale in J.M. Coetzee 23 Pier Aldo Rovatti L’uomo lento 51 Massimiliano Roveretto Un occhiello senza bottone. Soggettività e scrittura in J.M. Coetzee 61 Alessandro Dal Lago Elizabeth Costello. O dell’indicibilità del vero 83 David Attwell Dominare l’autorità: Diario di un anno difficile di J.M. Coetzee 89 INTERVENTI Roberto Esposito A che serve pensare 105 Massimo De Carolis Governance senza governo: un paradigma della crisi 119 CONTRIBUTI Antonello Sciacchitano L’ontologia alla prova 137 Günter Figal C’è ancora filosofia? 155 Enrica Lisciani-Petrini Vladimir Jankélévitch. Quando l’equivoco fa bene 169 Felice Cimatti Linguaggio e immanenza. Kierkegaard e Deleuze sul “divenir-animale” 189 Livio Boni Dare atto dell’impossibile: Badiou, Lacan e l’antifilosofia 209
Transcript

363lugliosettembre 2014

J.M. Coetzee. Ricominciare con niente

J.M. Coetzee La vecchia e i gatti 5

Raoul Kirchmayr L’odore dei pensieri. Etica e scrittura dell’animale in J.M. Coetzee 23

Pier Aldo Rovatti L’uomo lento 51Massimiliano Roveretto Un occhiello senza

bottone. Soggettività e scrittura in J.M. Coetzee 61

Alessandro Dal Lago Elizabeth Costello. O dell’indicibilità del vero 83

David Attwell Dominare l’autorità: Diario di un anno difficile di J.M. Coetzee 89

INTERVENTI Roberto Esposito A che serve pensare 105Massimo De Carolis Governance senza governo:

un paradigma della crisi 119

CONTRIBUTI Antonello Sciacchitano L’ontologia alla prova 137Günter Figal C’è ancora filosofia? 155Enrica Lisciani-Petrini Vladimir Jankélévitch.

Quando l’equivoco fa bene 169Felice Cimatti Linguaggio e immanenza.

Kierkegaard e Deleuze sul “divenir-animale” 189Livio Boni Dare atto dell’impossibile: Badiou,

Lacan e l’antifilosofia 209

23aut aut, 363, 2014, 23-49

L’odore dei pensieri. Etica e scrittura dell’animale in J.M. Coetzee

RAOUL KIRCHMAYR

Tutto è allegoria […]. Ogni creatura è la chiave per tutte le altre creature. Un cane accucciato a leccarsi in un fazzoletto di sole […] un momento prima è un cane e il momento successivo è un veicolo di rivelazione.1

1. Non sapere dove si èJ.M. Coetzee non scrive per compiacere i suoi lettori. Con lui la letteratura ritrova uno dei suoi compiti: condurre al cuore della condizione umana e interrogarla bruscamente. Coetzee non sol-letica il lettore, lo guida verso ignote falesie da dove si scopre che non c’è nessuno spettacolo da contemplare. Giunti a quell’altezza scopriamo un po’ per volta di aver assunto uno sguardo ravvicinato sulle cose e sugli esseri animati. Da lì le linee si confondono e non sappiamo più dire dove siamo giunti. La vertigine è quella che può dare il mare in una giornata nebbiosa, quando ciò che prevale è l’indistinto e i confini, che pure immaginiamo, scompaiono. Ci guardiamo indietro, smarriti, e ci domandiamo se lui, Coetzee, possieda una qualche carta con cui si è orientato per poterci con-durre fino a quel punto. Nell’incertezza della finzione letteraria, la domanda rimane in sospeso, perché quel punto è “proibito”. Se il rischio della letteratura è di “avventurarsi in luoghi proibiti”,2 là lo scrittore rischia se stesso. Con Coetzee torniamo a pensare che la posta in gioco della letteratura sia anzitutto il rischio della perdita.

Nelle opere di Coetzee lo smarrimento è frutto di una messa in questione dei limiti. Il rapporto tra l’uomo e l’animale – di cui proveremo ad analizzare alcuni aspetti – si aggroviglia come una matassa dai fili molteplici che il romanziere sudafricano segue,

1. J.M. Coetzee, Elizabeth Costello (2003), trad. di M. Baiocchi, Einaudi, Torino 20052, p. 191.

2. Ivi, p. 127.

24

allenta, stringe di volta in volta, come per saggiare la possibilità di un discorso che non si conclude mai, ma si fa in continuazione per mezzo di tentativi, aporie, domande ripetute, incorniciature e sospensioni. In forma più o meno diretta, più o meno esplicita, il tema lavora a fondo la scrittura di Coetzee da tempo, almeno fin da Aspettando i barbari (1984) e da Foe (1986), dove la figura dell’estraneo e il focus tematico sull’assenza del linguaggio pre-annunciano il problema dell’animalità. Qui prenderemo in esame alcune pagine tratte dalle opere narrative in cui Coetzee procede a una massiccia messa a tema della questione dell’animale e del suo rapporto con l’umano, riferendoci così a La vita degli animali (1999), a Vergogna (1999), a Elizabeth Costello (2003) e, infine, al breve racconto, più recente, La vecchia e i gatti (2013).

In La vita degli animali 3 la parola che credo introduca al meglio la questione dell’animale è “sospensione”. Non solo perché – con un procedimento di costruzione narrativa di tipo citazionistico – il testo eccede la divisione tra generi letterari, ma anche perché – quanto alla questione stessa – non emerge chiaramente alcuna formulazione teorica che sia dichiarata come tenibile o che possa essere attribuita all’autore. Infatti, le conferenze pronunciate da Coetzee come letture di racconti racchiudono a loro volta dei nu-clei saggistici e dei dialoghi filosofici che hanno tutti come centro la questione dell’animale e del rapporto tra uomini e animali. La protagonista delle lectures è Elizabeth Costello, la figura di anziana scrittrice che ritorna nel romanzo eponimo di poco successivo. In La vita degli animali Coetzee la colloca al centro di un milieu – nella finzione letteraria l’Appleton College di Waltham4 – che riproduce l’ambientazione classica dell’academic novel,5 ma senza

3. J.M. Coetzee, La vita degli animali (1999), trad. di F. Cavagnoli e G. Arduini, Adelphi, Milano 2000.

4. Coetzee tenne due conferenze presso il Centre for Human Values di Princeton, il 15 e il 16 ottobre 1997, nel quadro delle Tanner Lectures. Le conferenze furono i due racconti che compongono La vita degli animali, cioè “I filosofi e gli animali” e “I poeti e gli animali”. Il testo originale è disponibile a questo indirizzo: tannerlectures.utah.edu/_documents/a-to-z/c/Coetzee99.pdf

5. Su questo riferimento, cfr. le considerazioni di M. Garber in appendice a La vita degli animali, cit., p. 93. Per una critica a queste considerazioni, cfr. D. Attwell, The life and times of Elizabeth Costello, in J. Poyner (a cura di), J.M. Coetzee and the Idea of Public Intellectual,

25

gli intenti ironici e satirici che lo contraddistinguono: se vi è critica del mondo accademico, dei suoi riti e dei suoi linguaggi, delle sue abitudini e delle sue forme di relazione, avviene per via obliqua e per tocchi rapidi, come se l’intero impianto narrativo e lo scenario intendessero mostrare l’impotenza del sapere e l’inanità degli ar-gomenti a cogliere la radicalità dell’appello contenuto nei discorsi della protagonista a favore della vita degli animali.

Difatti, nel dispositivo narrativo di La vita degli animali Elizabeth Costello ha una funzione chiave, consistente in un’intenzione impos-sibile, quella di dare voce al silenzio degli animali. Nel romanzo tutto accade come se lei parlasse in vece degli animali, non solo prendendo le loro parti, ma formulando un discorso che propriamente non può avere luogo. Assumendo l’impossibilità di presa di parola da parte dell’animale e supplendole con una presa di posizione etica radicale, la protagonista agisce in modo che il suo discorso, per antifrasi, inciampi nel tentativo di dire il silenzio, risultando così incomprensibile al démi-monde universitario di Waltham.

La posizione che Coetzee fa occupare alla protagonista è impor-tante tanto quanto l’impaccio in cui cade il suo discorso. Occorre vedere in questo impaccio non qualcosa di accidentale, ma la posta in gioco stessa del discorso della protagonista e dell’operazione letteraria che Coetzee compie, consistente nello spingere il logos umano verso il suo estremo limite. In prossimità di questo limite esso ritrova il linguaggio animale come l’altro da sé da cui, tuttavia, non cessa di essere parassitato come gesto e grido. Perciò, quando ci fa sapere che John, il figlio della protagonista, “ha la sensazione che ciò che [lei] dice non vada a segno”,6 e quando, più avanti, Norma, la ricercatrice moglie di John, noterà causticamente che “non sa più che pesci pigliare. Ha perso il filo”,7 Coetzee sta in-dicando che in questa incertezza del discorso risiede ciò che deve

Ohio University Press, Athens 2006, p. 34, che vede nel dispositivo citazionale della scrittura di Coetzee una particolare forma narrativa con cui il discorso pubblico è riassorbito nella sfera della finzione letteraria. Per inciso, Vergogna rappresenta anch’esso una variazione importante del modello dell’academic novel (cfr. M. Moseley, The Academic Novel: New and Classic Essays, Chester Academic Press, Chester 2007, p. 160).

6. J.M. Coetzee, La vita degli animali, cit., p. 27.7. Ivi, p. 41.

26

essere pensato: è esattamente ciò che appare come interruzione del logos, come scacco dell’argomentazione razionale e come eccesso rispetto a essa, ciò che conferisce al discorso di Elizabeth il senso di un’affermazione che è fatta in nome della vita animale.

Quel che emerge è la denuncia del limite della ragione a coglie-re la posta in gioco del discorso, dal momento che questa non è razionale né discorsiva ma sensibile e carnale. Ciò verso cui porta il discorso di Elizabeth è dunque una resistenza del discorso, un nocciolo di reale contro cui il linguaggio urta, un traumatismo che precede ogni trauma, una ferita che si apre nel tessuto dell’espe-rienza, e di cui lei cerca di rendere conto. Attraverso la sua alter ego,8 Coetzee pare così indicare un taglio nel sensibile che è fonte del doloroso come del meraviglioso, una sorta di apertura del sensibile da cui sgorga la stessa domanda di senso per ciò che vi resiste. Si direbbe un’esperienza che precede e innerva ogni altro tipo di esperienza, luogo traumatico che dà da pensare, come se proprio questo traumatismo originario (senza origine né causa) fosse precisamente la Cosa da pensare e da mettere in scrittura.

La condizione che permette la scrittura dell’esperienza della Cosa richiede la sospensione contemporanea dei predicati di realtà e di finzione, di modo che il rapporto tra la carta e il territorio divenga plastico, mobile, e il passaggio dall’una all’altro smetta di procedere secondo le relazioni – più o meno assicurate – della metafora e dell’analogia. La descrizione della Cosa mostra il limi-te stesso del “come” della metafora. Infatti, è la stessa funzione di trasferimento dal piano della rappresentazione o del discorso (la carta) a quello dell’esperienza (il territorio) che Coetzee pare mettere in questione attraverso l’espediente della sospensione dei punti di riferimento testuali e dell’impiego di dispositivi meta-testuali, secondo un procedimento che solo per amore di etichetta si può definire come “postmoderno”.9 Questo procedimento si

8. Il patto narrativo impedisce di attribuire le tesi espresse da Elizabeth all’autore, pertanto occorre procedere anche qui con una sospensione circa l’identificazione tra autore e personaggio.

9. Sul Coetzee “postmoderno” la letteratura critica, specie nel mondo anglosassone, è assai ampia e ricca di declinazioni. Su Coetzee scrittore postmoderno alla luce della critica postcoloniale, cfr. lo studio inaugurale di D. Attwell, J.M. Coetzee: South Africa and the Poli-

27

riverbera sull’insieme del testo: citazioni esplicite di saggi filosofici – con il loro riconosciuto statuto discorsivo – che sono impiegate alla stessa stregua di citazioni del canone letterario – come nel caso della presenza incessante di Kafka e del racconto Pietro il rosso, per esempio – e citazioni implicite, rimandi seri o ironici a tradizioni di pensiero e a dottrine ecc., tutto entra a far parte del gioco del testo, con cui le partizioni tra generi, stili, linguaggi vengono erose. Una prima sospensione riguarda lo stesso genere di scrittura attribuibile al testo: né romanzo né saggio, esso si regge su una cornice di finzione che disegna lo spazio conflittuale in cui si trovano ad agire i molteplici personaggi, i quali ruotano tutti attorno alla protagonista. Ma tale erosione dei criteri di definizione del testo va a vantaggio di che cosa?

Lo statuto ambiguo del testo richiede un personaggio dall’iden-tità mobile, che sia in grado di produrre dei discorsi che toccano il limite del poetico. Collocata al centro del dispositivo narrativo, tanto come oggetto dei discorsi degli altri personaggi quanto come soggetto di discorso, la figura di Elizabeth Costello ha il compito di condurre il lettore verso il punto abissale della narrazione, la condizione spaesata che lei scopre come propria.

Così Coetzee ci mette di fronte a un volto in cui non riusciamo ancora a riconoscerci, il volto di un’anziana intellettuale segnata dalla perdita di tutte le certezze. “È che non so più dove sono”,10 “devo essere pazza”,11 sono due delle frasi di cui è intessuto il dialogo finale tra Elizabeth e il figlio John. Eppure non sono di-chiarazioni che preludono a una conclusione della vicenda – che si è già esaurita con il resoconto delle due conferenze e del dibattito che ne è seguito –, perché esse non sigillano la narrazione ma, una volta di più, permettono al lettore di toccare, al limite del racconto, in quella specie di appendice drammatica in cui è messo in scena

tics of Writing, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1993; cfr. anche K. Parker, J.M. Coetzee: The postmodern and the postcolonial, in G. Huggan, S. Watson (a cura di), Critical Perspectives on J.M. Coetzee, MacMillan, Basingstoke 1996, pp. 82-104; J. Poyner (a cura di), J.M. Coetzee and the Idea of the Public Intellectual, cit.

10. J.M. Coetzee, La vita degli animali, cit., p. 84. 11. Ivi, p. 85.

28

nuovamente il rapporto tra madre e figlio – secondo un modulo narrativo che ritorna tanto in Elizabeth Costello12 quanto in La vecchia e i gatti –, qualcosa che si potrebbe chiamare addirittura la verità espressa della condizione umana quale essa è colta dalla protagonista: nessun possesso di sapere, nessuna padronanza, nes-suna certezza ma, al contrario, una déroute finale che accompagna la visione tragica di un’ottusa quotidianità. Le lacrime sono il segno sensibile e patetico dello smarrimento. È attraverso queste dichiarazioni, formulate da un personaggio non più certo di sé, il luogo verso cui il lettore è condotto per comprendere il cuore del rapporto tra l’uomo e l’animale, e la grande questione che in esso è implicata: la tracciatura del limite del logos.

2. Non venire a patti con la vita, ovvero il termine della compassione

È questa un’indicazione decisiva che Coetzee fa enunciare al suo personaggio: per potersi disporre a comprendere il rapporto tra l’uomo e l’animale occorre poter sentire secondo un pathos che è il risultato di un cammino lungo il quale le certezze sono state di-sintegrate. Si tratta di discendere alla fonte di questa commozione perché, solo dopo esservi pervenuti, gli argomenti smetteranno di essere mere formulazioni intellettuali, il discorso pubblico afferma-zione di sé e di un sapere, il dibattito accademico gioco raffinato di esibizione, narcisismo e potere. Se Elizabeth ha potuto esporsi con le sue conferenze e sostenere gli attacchi critici che le sono stati rivolti, è perché ha visto altro con il suo sguardo bagnato dalle lacrime. E che cosa ha visto? La scena descritta da Coetzee riprende in fine uno dei più controversi fili conduttori del testo, l’analogia tra il quotidiano massacro degli animali e lo sterminio degli ebrei, uniti dal tratto dell’eccesso spaventoso di una morte concepita ed

12. In Elizabeth Costello il narratore pone il lettore di fronte all’esperienza di spaesamento che il figlio John prova quando la Cosa si mostra – quale forma informe della vita organica – durante il sonno della madre. È la vita prima di ogni determinazione ciò che egli intravvede e in cui si rifiuta di riconoscersi: “Lui riesce a vedere su per le narici, giù per la bocca, fino in fondo alla gola di sua madre. E quello che non vede può immaginarlo: l’esofago, rosa e brutto, che si contrae quando ingoia, come un pitone, che trascina giù il cibo verso il sacco a pera dello stomaco […]. No, si dice, non è da lì che vengo. Non è da lì” (Elizabeth Costello, cit., p. 38).

29

eseguita su grande scala, pianificata e realizzata tecnologicamente. Così, nel dialogo conclusivo, Elizabeth rivela il contenuto della sua visione al figlio, mentre questi la sta accompagnando in auto all’aeroporto. Nell’immagine fantastica (fancy) ne va del rapporto tra il sogno e la realtà, tra l’inganno e la verità. È nello spazio di un non sapere che lei si muove, è dallo spazio di una visione trau-matica che lei riemerge.

“È possibile, mi chiedo, che tutti quanti siano complici di un crimine di proporzioni stupefacenti? Sono tutte fantasie? Devo essere pazza [I must be mad!]. Eppure ogni giorno ne vedo le prove [Yet every day I see the evidences]. Le stesse persone che sospetto le producono, me le mostrano, me le offrono. Cadaveri. Frammenti di cadaveri che hanno comprato in cambio di denaro.“È come se andassi a trovare degli amici, e dopo che ho fatto un’osservazione gentile sulla lampada che hanno in salotto, loro dicessero: ‘Sì, è bella, vero? È in pelle di ebrea polacca; secondo noi è la migliore, la pelle delle vergini ebree polacche’. Poi vado in bagno e sull’involto di una saponetta c’è scritto: ‘Treblinka – 100% stearato umano’. Sto forse sognando?, mi chiedo. Che razza di casa è mai questa?“Eppure non sto sognando [Yet I’m not dreaming]. Guardo nei tuoi occhi, in quelli di Norma, in quelli dei bambini, e vedo soltanto bontà, bontà umana. Calmati, mi dico, stai facendo di una mosca un elefante […].”13

Rivelando al figlio il contenuto della visione, Elizabeth piange. Le sue lacrime non sono la fine del tragitto, ma danno corpo all’inter-rogarsi sulla verità di una condizione di cui ha fatto l’esperienza. Tale verità è detta nella forma di una domanda e, al contempo, di una radicale impotenza, di un “non posso” che ribalta ogni certezza metafisica circa l’identità di sé. La domanda suona patetica nella sua formulazione retorica e reiterata. L’impotenza qui è espressa come se fosse assoluta, come se lo “scendere a patti con la vita”

13. J.M. Coetzee, La vita degli animali, cit., p. 85.

30

(This is life. Everyone else comes to terms with it) si scontrasse contro una impossibilità radicale. E se “questa è la vita”, Coetzee fa risplendere, tramite il suo personaggio, un’istanza etica che ac-compagna la vita stessa impedendo di poterla accettare così com’è. Questa istanza richiede una separazione radicale tra l’affermazione della vita e la sua accettazione “come essa è”. Si possono fare dei patti con la vita, ma l’istanza etica esige e fa appello a una presa di distanza rispetto alla vita, affinché possa essere affermata: affermare la vita non coincide con l’accettarla così come essa è.

“Tutti scendono a patti con la vita, perché tu non puoi? Perché tu non puoi? [Why can’t you?]”Gira verso di lui un volto rigato di lacrime [a tearful face]. Che cosa vuole?, pensa lui. Vuole che risponda per lei alla sua domanda?14

La legge che impedisce di “scendere a patti con la vita” interdice l’economia sacrificale della vita stessa, il fagocitarsi della vita da parte di se stessa in un processo autoimmune, quella cieca volontà di morte con cui la vita si afferma e che non accoglie alcun limite a essa esterno. Contro l’autofagia della vita come sua apparente affermazione, Coetzee sembra alludere a un Fuori rispetto alla vita che fa divenire-vita la vita, come se – prima di tale istanza – la vita non fosse ancora pienamente vita.

È questo differenziarsi della vita a essere dunque messo in scena come affermazione della vita grazie alla legge che ci permette di vedere e di sentire altrimenti da ciò che sarebbe la mera “realtà” della vita. Questa legge etica introduce così due ordini e due acce-zioni della vita: una vita che procede indipendentemente da ogni legge e una vita che si afferma grazie e per mezzo della legge. È questo un altro modo per parlare di un’istanza di giustizia – che precede, senza anteriorità, ogni altra legge – con cui si accoglie la vita nella dimensione etica dell’ospitalità e della domesticità. “Che razza di casa è mai questa? [What kind of house is this?]” si chiede infatti Elizabeth, constatando con raccapriccio la presenza – nella

14. Ibidem.

31

sua spaesante fancy – di paralumi fatti con pelle umana e saponi prodotti con il grasso di cadaveri.

La visione non è solo accesso a una dimensione etica assoluta. Elizabeth piange perché ha visto altrimenti, e ha visto altrimenti perché ha avuto accesso a un’esperienza di debolezza, di fragi-lità e di impotenza che si fa largo come esperienza poetica della vita e, per questo, come interrogazione sul limite del logos come razionalità. Pensare la Cosa, farne l’esperienza, pone il problema della sua dicibilità. Citando Coetzee, commentandolo e ripren-dendo precisamente questo passo di La vita degli animali, Cora Diamond si pone l’interrogativo concernente ciò che chiama “la difficoltà della realtà” e che ritrova nella prosa di Coetzee. Di che cosa avrebbe fatto dunque esperienza Elizabeth Costello, se non di quella Cosa che, sfidando la dicibilità, ci spinge a quell’altra lingua, patetica e sensibile, che è il pianto?

Questo tipo di esperienze ci fanno sentire come se ci fosse qualcosa, nella realtà, che resiste al nostro pensiero – qualcosa, forse, che è doloroso nella sua inesplicabilità (e in questo senso difficile); o magari qualcosa che, nella sua inesplicabilità, ci meraviglia e ci incute rispetto. Noi sentiamo le cose in questo modo. Ma altri potrebbero semplicemente non avvertire, in ciò che noi sentiamo in questo modo, quel tipo di difficoltà che ha a che vedere con la fatica, l’impossibilità o il tormento di comprendere qualcosa fino in fondo.15

In questa posizione non c’è nessun romanticismo né alcuna esal-tazione dell’ineffabilità del reale. C’è piuttosto il riconoscimento

15. C. Diamond, “La difficoltà della realtà e la difficoltà della filosofia” (2003), in L’im-maginazione e la vita morale, a cura di P. Donatelli, trad. di M. Falomi e L. Greco, Carocci, Roma 2006, pp. 176-177. Il saggio di Cora Diamond, apparso originariamente nella rivista “Partial Answers”, è stato ripubblicato in un volume collettaneo, intitolato Philosophy and Animal Life (Columbia University Press, New York 2008), con contributi di S. Cavell, C. Diamond, J. McDowell, I. Hacking e C. Wolfe, che ha prodotto degli effetti importanti nel dibattito sull’animalità nel pensiero analitico e sulla scia della cosiddetta corrente del “new Wittgenstein”; una ricostruzione del dibattito si trova in S. Mulhall, The Wounded Animal: J.M. Coetzee and the Difficulty of Reality in Literature and Philosophy, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 2009.

32

dell’assoluta singolarità di un’esperienza che da un lato richiede di essere detta – poiché è in essa che occorre riconoscere la fonte stessa del senso, il suo sgorgare da un punto di non-tenuta del senso –, dall’altro si scontra con l’impossibilità a dire. Per il logos la Cosa è il Fuori, quell’impossibile che non può essere detto e che, tuttavia, il linguaggio non smette di accogliere in sé, dibattendosi contro il proprio limite. Le lacrime non sono altro che questo: la manife-stazione sensibile del limite patito dal logos nel suo urtarsi contro la Cosa, l’effetto di un trauma antico come la lingua che segna la lingua medesima e la taglia affinché per essa vi possa essere mondo, affinché essa possa significare. È questo trauma archi-originario che incide la lingua prima ancora che essa sia logos ciò di cui Coetzee si mette alla ricerca. Perciò la sua prosa non smette di riportarci os-sessivamente all’evento di una perdita che, presso un’origine senza origine e prima di ogni Cosa, fa essere la lingua lingua poetica.

3. L’odore dei pensieri. Il limite dell’empatia e l’esperienza della morte

Nella scrittura di Coetzee il traumatico e il poetico si intrecciano. Di questo intreccio disturbante il romanzo Vergogna (Disgrace) ci presenta una messa all’opera riuscita, dura e impietosa. Racconto di ferite molteplici (il Sudafrica post-apartheid, la violenza tra i sessi, la violenza tra bianchi e neri, il conflitto tra l’uomo e la natura ecc.), l’intera narrazione pare attingere al trauma come ciò che deve essere salvaguardato nella memoria affinché ve ne possa essere testimonianza. La parola che dà il titolo al romanzo – Disgrace – indica tanto la concatenazione degli effetti delle ferite quanto la possibilità stessa di assumerle, benché questa assunzione implichi un cammino di degradazione e di umiliazione di sé attraverso cui David Lurie, il professore universitario protagonista, vede man mano frantumarsi la propria identità.

In Vergogna la strada percorsa dal protagonista è una progres-sione senza progresso verso l’aprirsi di nuove esperienze raccontate (da un narratore esterno) eppure di per sé indicibili perché del tutto singolari, al limite della testimonianza. Il filo del silenzio percorre i discorsi di David, il quale non vuole rendere ragione dei suoi atti di

33

fronte alla commissione etica dell’università che lo deve giudicare per l’accusa di stupro verso una studentessa, così come preferisce non sottrarsi allo strano meccanicismo che domina la sua esperienza di caduta e di degrado. Ciò che lo guida pare piuttosto un impulso a scoprire dimensioni d’esperienza marginali per quanto comuni ad altre vite, umane e animali, in precedenza escluse dalla sua identità di professore universitario, maschio e bianco. L’identità che egli è deve essere smantellata pezzo dopo pezzo, in una discesa verso la vita alla quale egli decide di non opporsi, per trasformarsi a sua volta in una figura liminare tra il mondo dei vivi e quello dei morti, tra quello degli uomini e quello degli animali, cioè la figura del “becchino e psicopompo”16 dei cani. È questo fondo dell’esistenza ciò che David tocca con la sua discesa verso un’esperienza di vio-lenza, morte e umiliazione. Ma qui sta anche la sola possibilità per ricominciare a vivere alla fine e dal fondo, come constata con la figlia Lucy, dopo aver perso quasi tutto, speranze comprese. È Lucy a pronunciare questa parola di verità modulata dal forse (perhaps) del dubbio e che si chiude con la metafora del cane:

C’è una lunga pausa in cui nessuno dei due parla.– Che umiliazione, – dice David alla fine. – Tante grandi spe-ranze per poi ridursi così [to end like this].– Sì, concordo con te, è umiliante. Ma forse è il punto di par-tenza giusto per ricominciare da capo [a good point to start from again]. Forse [perhaps] è una lezione da accettare. Bisogna saper ricominciare dal fondo [to start at the ground level]. Senza nien-te [with nothing. Not with nothing but. With nothing]. Senza una carta da giocare, senza un’arma, senza una proprietà, senza un diritto, senza dignità.

16. J.M. Coetzee, Vergogna (1999), trad. di G. Bona, Einaudi, Torino 2000, p. 153. Sul percorso del protagonista come perdita di sé, cfr. K. O’Neill, The dispossession of David Lurie, in B. McDonald (a cura di), Encountering Disgrace: Reading and Teaching Coetzee’s Novel, Camden House, Rochester (N.Y.) 2009, pp. 202-230; cfr. anche H.A.M. Nashef, The Politics of Humiliation in the Novels of J.M. Coetzee, Routledge, London-New York 2009. Per una prospettiva critica di tipo deleuziano e sul “divenire-animale” del protagonista di Vergogna, cfr. P. Patton, Becoming-Animal and Pure Life in Coetzee’s “Disgrace”, “Ariel. A Review of International English Literature”, 1-2, 2004, pp. 101-119.

34

– Come un cane [Like a dog].– Sì, come un cane.17

Nel suo cammino di “discesa”18 – dunque l’esatto opposto di un’ascesi – David Lurie scopre l’altra faccia della vita, quella non conforme alle regole della ragione, una vita che si esprime mediante una sofferenza che pare senza confini, attraversando i generi e le ge-nerazioni. L’elemento comune, se ce n’è uno, sembra allora essere questo con-diviso senza misura che non sia sola sofferenza,19 come se egli scoprisse lentamente e a sue spese una dimensione sensibi-le dell’essere-al-mondo che include tutti i viventi e che coincide con il pathos dell’esistenza. Si tratta di un “dolore d’essere” che è anzitutto muto e che, purtuttavia, accompagna la parola umana e i gesti dei viventi. David lo scopre grazie a una frase che Bev, la volontaria del canile, pronuncia a proposito del comportamento dei cani quando sono condotti alla stanza per l’eutanasia: “I cani sentono l’odore dei pensieri”, dice Bev.20

La scoperta dolorosa di David è anche il punto di partenza di Elizabeth Costello, come se le due figure si passassero il testimo-ne del discorso, ergendosi contemporaneamente a monumento letterario del loro stesso pathos come esito di un processo di decostruzione dell’Io. Perché il territorio in cui Coetzee si inoltra richiede anzi tutto che l’Io sia smontato un pezzo per volta e che

17. J.M. Coetzee, Vergogna, cit., p. 214. Nella traduzione italiana è stata omessa una frase importante: Lucy non si limita a dire “With nothing”, ma aggiunge “Not with nothing but”, che si potrebbe tradurre “Senza nient’altro”. Per poi ribadire “With nothing”. Il fondo, il ground, è un nulla, è una mancanza di terreno. Così come è un “buco da cui si scivola fuori dall’esistenza [a hole where one leaks out of existence]” la stanza della clinica in cui i cani vengono eliminati (cfr. ivi, p. 228, traduzione anche qui modificata).

18. Si tratta di una paradossale trasformazione della propria vita che, così constata Da-vid, non può più cambiare. David lo pensa dopo aver dato una lezione a Pollux, il giovane nero: “Se Pollux insulterà di nuovo sua figlia, lo picchierà di nuovo. ‘Du musst dein Leben ändern!’ Devi cambiare vita. Be’, ormai è troppo vecchio per dare retta ai consigli, troppo vecchio per cambiare” (ivi, p. 218).

19. Una parte della letteratura critica anglosassone ha invece sottolineato l’importanza della shared sufferance come posizione etica ascrivibile a Coetzee. Per un confronto tra l’etica di matrice levinassiana di Judith Butler e i contenuti del romanzo di Coetzee, cfr. C. Bailey, The Precarious Lives of Animals: Butler, Coetzee and Animal Ethics, “Philosophy Today”, 1, 2008, pp. 60-72, in particolare p. 67 sgg.

20. J.M. Coetzee, Vergogna, cit., p. 85.

35

il soggetto, fattosi viandante, perda le garanzie della sua identità, fino a riconoscersi in un’animalità sfigurata o, come nei ritratti di Bacon, in una carne tormentata. “Holbein […]. Grünewald. Se vuoi la forma umana in extremis, è a loro che devi rivolgerti. Il Cristo morto. Gesù nella tomba.”21

Se si condivide la posizione di Derrida, secondo la quale non c’è proprio dell’uomo, ciò che Coetzee mette in scena sono gli effetti dello smantellamento della metafisica umanistica e del canone degli studia humanitatis che su quella si reggono, attraverso il détour della scrittura postcoloniale. I suoi anti-eroi sono figure letterarie che mostrano, dandogli corpo, il frutto del processo di decostruzione del soggetto occidentale. Infatti, in Vergogna David è un accade-mico; in La vita degli animali, così come in Elizabeth Costello, la protagonista è una scrittrice riconosciuta e premiata. Tuttavia sono entrambe silhouette crepuscolari, colte lungo un percorso che le conduce a mettere in questione la loro stessa identità in quanto frutto di un’intera tradizione culturale.

L’esito del percorso di Elizabeth Costello è una domanda abissale che ritma lo svolgersi della narrazione. “Chi sono io per giudicare?”, si chiede spesso la protagonista. Ma la domanda non deve essere intesa tanto nel senso della rethorical question, quasi ad affermare la prudenza dell’anziana scrittrice di fronte al compito di riconoscere un significato alla vita, quanto nel senso di una domanda filosofica che revoca, nel momento stesso in cui è pronunciata, qualsiasi fondatezza all’Io quale soggetto di discorso e ai giudizi razionali che egli pronuncia. “Chi sono io per giudi-care?” è così la declinazione singolare della domanda “Chi è l’Io per giudicare?”. La posizione di discorso di Elizabeth Costello è paradossale: essa è permessa dalla centralità metafisica dell’io eppure il suo discorso, cioè il discorso che la conduce fino alla presa in carico della vita nella sua eccedenza di senso, è il frutto della distruzione di quello stesso soggetto. Ciò che rimane è lei, Elizabeth Costello, con il suo nome proprio nelle fasi in cui viene colta come soggetto locutore del suo discorso che si disfa più che

21. Id., Elizabeth Costello, cit., p. 90.

36

farsi, che si smaglia più che intessere trame di senso, mostrando così il suo drammatico revers: una parola che è sospesa nel nulla e che, tuttavia, è voce di un corpo vivente.

Se il soggetto metafisico si spegne, il nome e la voce restano nella forma del dubbio che rilancia ogni volta la questione dell’emergere di un ordine dal caos, di una forma dall’informe, di una vita dalla materia inanimata. Da dove proviene questa voce? Il progetto di Coetzee è di individuare questo punto di insorgenza del logos che è anche punto di articolazione e di disgiunzione tra il logos umano e il logos animale. Se di questo logos animale occorre andare alla ricerca, il presupposto che la guiderà non potrà che essere quello dell’inceppamento del logos umano, fino al punto in cui la parola non riesce più a fare presa sulla cosa, in cui quella cosa che chia-miamo “vita” rifugge la prensione della parola.

La vita detta dal logos non coincide con la vita evocata da quella parola in grado di mostrare il risvolto a-logos del logos. La figura dell’animale è l’articolazione di questo diritto-e-rovescio del di-scorso con cui Coetzee trama i suoi romanzi atipici. C’è dunque un’altra vita al di là di questa, una vita in cui ne va dell’affermazione della vita che avviene con l’assunzione della morte e al cospetto di essa. In Vergogna è il tema del rapporto con i cani – punto finale del movimento di caduta del protagonista – a introdurre il senso della scoperta di un’altra vita. La scena centrale del romanzo è ambientata nella clinica dove Bev Shaw si prodiga per lenire le sofferenze degli animali, fino all’ultimo passo, quello della sop-pressione. Più che essere un luogo dove gli animali sono curati, la clinica è un luogo dove essi sono avviati compassionevolmente alla morte. Così è descritto da David ciò che accade tra il cortile, dove i cani sono riuniti, e la sala operatoria, dove vengono eliminati:

È profondamente impressionato da ciò che accade nella sala operatoria. È sicuro che i cani sappiano che è giunta la loro ora. Sebbene la procedura sia silenziosa e indolore, sebbene Bev Shaw emani pensieri positivi e lui si sforzi di fare altrettanto, sebbene i cadaveri siano sigillati in sacchi ermetici, i cani in cortile fiuta-no ciò che avviene dentro la clinica. Appiattiscono le orecchie,

37

abbassano la coda, come se anche loro percepissero la vergogna della morte [as if they too feel the disgrace of dying]; s’impuntano e devono essere trascinati, spinti o portati di peso oltre la soglia. Sul tavolo alcuni sbattono selvaggiamente le mascelle, altri uggiolano e frignano; nessuno guarda l’ago nella mano di Bev, perché in un modo o nell’altro sanno che ne deriverà un danno irreparabile.22

La scena narrata da Coetzee descrive una singolare esperienza, quale l’attesa della morte da parte dell’animale. Tutto il passo è preannunciato da un’espressione che gli dà il tono: i cani “sentono l’odore dei pensieri”, riporta l’io narrante di ciò che David pensa mentre cerca di aiutare Bev. Forse tutto il problema del rapporto uomo-animale è racchiuso in questa sinestesia, poiché essa pone un limite che separa, congiungendole, la sfera della sensibilità e quella della ragione, uno dei sensi – certo non quelli nobili e “teoretici” come la vista e l’udito, ma forse il più “basso” come l’odorato (smell) – e il pensiero.

Nel passo la descrizione prende avvio con una costatazione patetica: il protagonista è “profondamente impressionato” da ciò che esperisce, l’esperienza è uno choc che egli subisce prima e al di qua di ogni riflessione. Da questa esperienza sensibile deriva però l’espressione di certezza (“è sicuro”). Ma certezza di che cosa, per l’appunto? Qual è il contenuto di questa certezza che riguarda il singolare oggetto dell’esperienza, cioè la morte dei cani? Il prota-gonista “è sicuro che i cani sappiano”. Questo sapere non è dello stesso tipo del sapere riflessivo. È qui che la sinestesia mostra di implicare un pensiero che non si articola in linguaggio verbale. Eppure questo pensiero non-riflessivo si esprime nei molti modi con cui i cani affrontano la loro morte. Ritroviamo la dimensione del pathos, ma questa volta per come essa è vissuta dall’animale.

In corrispondenza di questo evento raccontato, il tradizionale primato del logos è scosso. È il limite uomo-animale che è messo in causa ed è reso poroso dall’esperienza della morte nella sua singolarità assoluta. Questo punto è paradossale. Infatti, se il

22. J.M. Coetzee, Vergogna, cit., p. 150.

38

concatenamento metafisico che definisce l’animale umano come parlante e parlante in quanto mortale è a garanzia della divisione tra l’umano e l’animale, una volta che si affermi l’intraducibilità assoluta dell’evento del morire in quanto tale, la sua inappropria-bilità da parte del logos, la conseguenza è che ciò che separava la condizione umana da quella animale – cioè l’esperienza riflessiva e linguistica del morire – si rivela in ciò che vi è di comune. Comune è la separazione, la disgiunzione, l’assenza di un comune.

Qualcosa accade: un essere vivente muore. Ciò che di que-sto evento sfugge al linguaggio è la sua singolarità, il suo essere semelfattivo23 che lo dispone su un altro ordine dell’esperienza rispetto al discorso. Per l’uomo, la condizione di possibilità del lutto e del discorso stesso risiede nell’inappropriabilità dell’evento singolare della morte.24 Come Elizabeth Costello riconoscerà, “solo questo, alla fine, significa essere vivi: poter morire”.25 Al tempo stesso, l’inappropriabilità della propria morte diventa la possibilità stessa di dire ciò che si sottrae alla parola. L’abisso che separa gli esistenti individuati e mortali non è colmabile: il linguaggio si mostra qui nella sua fragilità impotente e si apre a ciò che lo eccede nel momento stesso in cui l’eccesso, il suo Fuori, gli conferisce il potere di dire.

Ma come dire, posto che ciò che deve essere detto non può essere detto? Ecco il compito più-che-etico della letteratura: non solo tentare di spingere il linguaggio al di là di sé, portandolo sulla soglia stessa della sua possibilità di dire la Cosa, ma indurlo alla sua stessa esplosione quando esso cerca di cogliere e dire l’evento sempre unico della morte. Il limite del linguaggio è la frontiera che divide il mondo animale da quello umano. In questo

23. “Semelfattivo” è un termine di V. Jankélévitch, cfr. La morte (1977), a cura di E. Lisciani-Petrini, Einaudi, Torino 2009, p. 302 sgg.

24. Per una discussione sull’importanza del tema nella letteratura critica su Coetzee, con riferimento al dibattito sull’animalità e alla posizione filosofica di Derrida, rimando a C. Wolfe, Exposures, in AA.VV., Philosophy and Animal Life, cit., p. 21 sgg. Cfr. anche l’im-portante raccolta curata da P. Cavalieri, The Death of the Animal: A Dialogue, Columbia University Press, New York 2009, con interventi di M. Calarco, J.M. Coetzee, H.B. Miller e C. Wolfe, in particolare le osservazioni di Coetzee (pp. 85 sgg., 89 sgg.).

25. J.M. Coetzee, Elizabeth Costello, cit., p. 170.

39

territorio, l’uomo si scopre più umano quando ritrova il silenzio animale su cui il logos si infrange. Ciò non significa che un ponte tra una dimensione e l’altra sia così stabilito. Se fosse pensata come una risorsa interiore del vissuto d’esperienza o come una facoltà di dislocare il proprio punto di vista, l’empatia non sareb-be in grado di cogliere alcunché di essenziale della condizione umana versus quella animale. Forse essa rappresenterebbe tutt’al più una scorciatoia di fronte al problema della dicibilità della condizione mortale.

Da questa prospettiva, Coetzee non è lo scrittore che spinge a provare empatia per gli animali. Attribuirgli questa posizione significa contemporaneamente fargli dire troppo e troppo poco. Troppo, perché ciò coinciderebbe con il riconoscimento di una posizione etica ancora incentrata su un presupposto soggetto uma-no che farebbe di una specie di nuovo umanesimo il suo orizzonte ideale: abbandonati gli ormeggi razionalistici e la metafisica occi-dentale dell’uomo come padrone della natura, il nuovo soggetto sarebbe in grado di entrare in un rapporto più “profondo” con il mondo animale, tanto da riuscire a identificarsi con l’animale nella sua singolarità.26 Troppo poco, perché il fondo che si toccherebbe in questa prospettiva è quello relativo a un’etica della con-divisione dell’esperienza del vivere che l’uomo può fare come soggetto razionale, in grado di interrogarsi sulla propria responsabilità di fronte alla vita animale. Né la fenomenologia del sensibile – e il ritrovamento della Lebenswelt attraverso l’esperienza della vita animale – né l’etica della compassione sembrano qui sufficienti per

26. La funzione dell’empatia (Einfühlung) come operatore era già stata messa a punto dalla fenomenologia: Husserl aveva parlato non solo di possibilità di Paarung tra gli esseri umani, ma di ritrovamento della dimensione sensibile-animale, quando egli aveva trattato di costituzione del mondo animale. Cfr. E. Husserl, Idee II, a cura di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, libro II, sezione II (“La costituzione della natura animale”), cap. IV (“La costituzione della realtà psichica nell’entropatia”), §§ 43-47, pp. 164-173. Sulla linea della Lebenswelt come logos animale prosegue, come è noto, Maurice Merleau-Ponty, del quale si veda al-meno il corso dedicato alla questione della Natura (La natura. Lezioni al Collège de France, 1956-1960, a cura di M. Carbone, trad. di M. Mazzocut-Mis e F. Sossi, Raffaello Cortina, Milano 1996), dove si trova una frase come la seguente, ispirata da Paul Valéry: “Ciascuno di noi, diceva Valéry, è un ‘animal de mots’. Reciprocamente, si può dire che l’animalità sia il Logos del mondo sensibile: un senso incorporato” (p. 244).

40

descrivere il passo che Coetzee compie quando pone la questione dell’animale.

Se è recusata l’essenza metafisica della morte, allora il rapporto della morte con il linguaggio si sottrae a ogni tentativo di specula-zione che miri a reintrodurre divisioni, categorizzazioni e gerarchie a partire dalla possibilità impossibile di dire la morte. La morte, ogni volta unica: precisamente questo le permette di sottrarsi alla rete che il logos getta sull’esperienza ingenua. Così, quando David procede nella sua discesa verso il fondo muto dell’esperienza, scopre che non si può più neppure parlare di un’empatia tra lui e i cani raccolti nel canile e che egli ha il compito di eliminare con un atto che, ci viene fatto intendere, dovrebbe essere di pietà, di quella caritas che Elizabeth Costello gradualmente trova come condizione comune al vivente. Ma Coetzee descrive pure, con ciò, la scoperta di un’altra condizione, che il protagonista fa fatica a nominare e che, in fondo, nel suo fondo, non corrisponde ad alcuna determinazione:

Non capisce che cosa gli stia succedendo [He does not understand what is happening to him]. Fino a oggi gli animali gli erano quasi indifferenti. Anche se, in modo astratto, è contrario alla crudel-tà, non saprebbe dire se la sua indole sia crudele o compassio-nevole. Si sente indefinibile [He’s simply nothing]. Secondo lui, le persone costrette a praticare la crudeltà per lavoro, gli addetti dei mattatoi, per esempio, avvolgono l’anima in una specie di carapace. L’abitudine indurisce: nella maggior parte dei casi, ma non nel suo. A quanto pare non ha il dono della durezza.27

Non c’è rispecchiamento tra David e i cani: le due dimensioni dell’esperienza rimangono separate, come se fossero confinate in regioni dell’essere solo apparentemente tangenti e comunicabili e che l’io narrante ci restituisce dall’esterno nella loro irriduci-bilità. Questa interruzione tra le regioni dell’essere è la stessa condizione di possibilità della metafora, per la quale l’esistenza canina diviene metafora di quella umana, e viceversa. In questa

27. J.M. Coetzee, Vergogna, cit., p. 150 (corsivi miei).

41

prospettiva ciò che vi sarebbe di comune nella Lebenswelt condi-visa tra uomo e animale, cioè l’evento del morire, si scopre invece incommensurabile: la morte del cane resta inaccessibile nella sua estrema lontananza rispetto allo sguardo e alla parola umani. In prossimità della morte i cani si comportano allora “as if they too feel the disgrace of dying”.28

La traduzione italiana di questo passo capitale del romanzo pre-giudica la comprensione di ciò cui Coetzee lascia intendere (essa suona infatti “come se anche loro percepissero la vergogna della morte”).29 Anzitutto lo fa per la resa di disgrace con “vergogna” – che è fuoviante dunque fin dal titolo – quindi per l’occultamento del nesso essenziale tra disgrace e dying, quando quest’ultimo ver-bo, posto all’infinito sostantivato, indica qui l’evento del morire. L’evento del morire è, potremmo dire, disgraceful. Lo si potrebbe infatti tradurre così: esso è privo di grazia e di giustizia, è un torto perché implica la rottura di un ordine e di un equilibrio, quello che regola il rapporto tra la morte e la vita. Disgrace è parola che dovremmo intendere come se in essa risuonasse il trauma e il torto è il perpetuarsi della catena di ingiustizie che fanno la legge di una terra tormentata. Il rapporto tra David e i cani diventa allora metafora della stessa condizione di un uomo che decide – senza una vera e propria scelta – di assumere su di sé la legge della “di-sgrazia”, l’assenza della grazia, facendo spazio nella sua esistenza alla lacerazione del trauma. Anche i cani – come il protagonista – sentono il torto del morire. La sentono sensibilmente, con un linguaggio segreto e muto, rispetto al linguaggio della ragione.

Così, la parola “sofferenza” – paradossale condivisione senza condivisione tra l’uomo e l’animale – fa risuonare il suo significato più straniante quando è sentita come una parola di confine, la quale indica che in quel territorio qualsiasi colonizzazione è impossibile,

28. Un commento a questa frase si trova in W. Woodward, Dogs as social subjects, in L. van Sittert, S. Swart (a cura di), Canis Africanis: A Dog History of Southern Africa, Brill, Leiden-Boston 2008, pp. 259-261. Di W. Woodward si veda anche The Animal Gaze: Animal Subjectivities in Southern African Narratives, University of Witwatersrand Press, Johannesburg 2008. Sul divenire-cane dell’uomo in Vergogna, cfr. anche T. Herron, The Dog Man: Becoming Animal in Coetzee’s “Disgrace”, “Twentieth-Century Literature”, 4, 2005, pp. 467-490.

29. J.M. Coetzee, Vergogna, cit., p. 150.

42

che da lì in poi non ci si appropria più di nulla e che, al contra-rio, la parola si espone alla sua stessa impotenza. Quando David racconta della morte tecnica e serializzata dei cani è questo fondo abissale che fa emergere con la sua narrazione: è il limite su cui la parola si infrange, affermando così che il limite alla compassione è immanente alla compassione stessa. Non c’è compassione che non dichiari da sé la sua impotenza e che non affermi il suo scac-co: non ci si può mai mettere al posto dell’altro né scambiare la sua morte con la nostra. Se il linguaggio è ciò che accomuna rendendo comunicabili le esperienze, esso fallisce in relazione all’esperienza della morte: la compassione, così, non si può mai rivolgere verso il vivente che sta per morire, ma è sempre relativa a sé, e all’esperienza della separazione che essa ci porta a fare e che sempre richiede un tratto di giunzione affinché sia resa possibile.

Morire come un cane, dice il linguaggio comune. L’esperienza di compassione non fa altro che affermare il valore della metafora, facendo consistere l’espropriazione radicale che la morte è per il vivente con un evento discorsivo. Mettersi al posto del cane non è possibile; ciò che è possibile non è dunque morire al suo posto né, tantomeno, compatire la sua condizione di morente. Invece, ciò che empatia e compassione fanno emergere, traducendo l’espe-rienza della morte subita dal cane, è che anche l’uomo è mortale alla stessa stregua del cane. Ma l’esperienza di questa morte sem-pre singolare non è mai traducibile in discorso. “La morte è una storia privata”,30 dice Elizabeth Costello. Riconoscere la struttura della singolarità del vivente significa pertanto riconoscere che c’è un limite, al contempo etico e più-che-etico, che deve essere salvaguardato: “L’artista non dovrebbe invadere la morte altrui. Non certo una posizione esagerata, in un mondo in cui i feriti e i morti si ritrovano continuamente con l’occhio della telecamera piantato in faccia”.31 L’esposizione della morte dell’altro occulta la struttura singolare della vita e della morte, cancellando ciò che in essa vi è di proprio e di inappropriabile. Ma alla visibilità ostentata

30. Id., Elizabeth Costello, cit., p. 128.31. Ibidem.

43

della morte umana si accompagna l’occultamento della quotidiana morte animale. È in questa doppia economia della morte e della visibilità che emerge l’orrore della morte animale.

4. La morte seriale e il moltepliceIn cosa consiste l’orrore della morte animale per mano dell’uomo? Anzitutto in questo: essa è una morte inferta dal logos quando esso si pone come ambito e mezzo della scambiabilità universale, come traduzione sempre possibile del vissuto in parola e come comuni-cazione di esso con altri parlanti. È ciò che possiamo chiamare il paradigma sacrificale dell’animale, la cui matrice teologica-sacrale è ritrovabile nel canone del pensiero occidentale moderno, da He-gel a Lacan. Per questo paradigma la morte dell’animale prelude alla sua spiritualizzazione, come dire alla sua salvezza nell’ordine del logos e alla costruzione di una gerarchia metafisica: perduto come presenza vivente, l’animale viene conservato come simbolo, conservato come assenza della sua presenza vivente. Tuttavia, la modernità è anche l’epoca che segna il declino del paradigma sacrificale e la sua contemporanea estensione sregolata, cosicché il rapporto tra sacrificio e simbolo si scioglie a vantaggio di una diversa economia simbolica della morte. Nella tarda modernità l’esperienza della morte dell’animale avviene nella dimensio-ne della serialità. Di certo è possibile ravvisare un’analogia di struttura tra il logos che impone il suo principio di traducibilità a ogni ambito dell’esperienza, resa così veicolabile, scambiabile, comprensibile, e la morte seriale dell’animale, al quale è sottratta la sua morte come evento. Il punto più-che-etico della questione – riguardante la possibilità di un’etica al di là dell’etica – è che tale desacralizzazione della vita dell’animale nell’universo simbolico è il presupposto dell’estensione del dominio della morte (reale) del vivente. È questa estensione indiscriminata della morte, che non conosce limite e diviene ripetizione meccanica, a suscitare spaesamento e angoscia.

L’orrore della morte seriale ci porta a considerare la nudità di un’esperienza della vita senza grazia e senza giustizia perché la morte seriale impone la cancellazione della possibilità – con cui coincide

44

ciascuna esistenza singolare – che il vivente faccia l’esperienza radi-calmente singolare della propria morte, di modo che quest’ultima non sia il risultato di un processo calcolato ed esteriore. Se ciascun vivente muore individualmente, ciascuna morte è incommensura-bile con ogni altra. Nel suo essere ogni-volta-unica e semelfattiva, l’esperienza del morire fa esplodere la logica dell’identico – e della ripetizione dell’identico – posta alla base del funzionamento delle macchine di morte industriali, dal mattatoio al campo di sterminio. L’orrore è dunque la produzione tecnica serializzata della morte, il ripetersi del sempre-uguale come innumerevole.

Per queste ragioni l’analogia tra il mattatoio e il campo di ster-minio – che ritroviamo tanto in Vergogna quanto nella Vita degli animali e in Elizabeth Costello – è al tempo stesso appropriata e assolutamente impropria rispetto all’ordine dell’evento. Appro-priata perché essa mostra il medesimo principio di funzionamento della serializzazione dell’incommensurabile – che viene così ri- dotto alla comune misura del logos quale ragione calcolante. As-solutamente impropria perché il “come” dell’analogia denuncia l’abisso tra il silenzio dell’animale e la possibilità umana di (non poter) dire l’evento, tracciando dunque il tratto di una differenza che, unendole, separa due esperienze incomunicabili. È questo che Coetzee intende quando fa dire al narratore che Elizabeth sarebbe “andata oltre, troppo oltre [a step further, a step too far]”, spingen-dosi al di là del confine di una morte propria (perché ascrivibile ancora a un umano) e una morte impropria (perché dell’animale). Il superare il limite consiste nell’affermare il contenuto della vi-sione con cui Elizabeth accosta mattatoi e campi di sterminio, nel dire la possibilità di un’analogia intollerabile perché, togliendo il limite tra l’umano e l’animale, confonde il proprio e l’estraneo. Tra la morte industriale dei campi di sterminio nazisti e la morte industriale prodotta in serie dai mattatoi c’è una distanza incol-mabile e, al tempo stesso, un’inaudita corrispondenza. Ecco ciò che disturba nell’“andare oltre” di Elizabeth: tra l’uno e l’altro termine dell’analogia, la possibilità di dire qualcosa di indicibile, il portare testimonianza da parte del testimone, in nome di una fedeltà a ciò che non può essere detto.

45

Il testimone è colui che ha visto, ma è anche colui che con-tinua a vedere nonostante la cecità di fronte a una morte che è ovunque programmata ed eseguita meccanicamente. La veggen-za di Elizabeth Costello è ciò che le permette di togliere il velo della rimozione della morte animale, di riconoscere il dolore innanzitutto, di portare la sofferenza del vivente alla parola, di denunciare la schiavitù imposta all’animale in nome dell’umanità dell’uomo.

Schiavo: un essere la cui vita e la cui morte sono nelle mani dell’altro. Cos’altro sono mucche, pecore, polli? I campi di sterminio non sarebbero stati inventati senza l’esempio dell’in-dustria di lavorazione della carne.Aveva detto queste cose e anche altre: cose che le sembravano talmente ovvie da non meritare neppure una pausa di riflessione. Ma poi era andata oltre, troppo oltre [But she had gone a step further, a step too far]. Il massacro degli inermi [The massacre of the defenseless] si ripete dappertutto intorno a noi, ogni giorno, aveva detto, un massacro non diverso per orrore o per rilevanza morale da quello che chiamiamo l’Olocausto con la O maiuscola [from what we call holocaust], e che però decidiamo di non vedere [yet we choose not to see it].32

Come Elizabeth, anche David Lurie “va oltre”, si spinge a step further, a step too far: egli varca una frontiera invisibile e si lascia portare verso quel territorio a lui ignoto nel quale fa la scoperta della vita e della morte dei cani come evento il cui senso non si appiattisce affatto sul funzionamento della macchina seriale dell’e-liminazione. Il discorso del testimone, nella sua impossibilità strut-turale di cogliere l’evento di una morte sempre singolare, accede al paradosso con cui la parola dicendosi si spegne e spegnendosi illumina l’altro da sé, quel silenzio di cui è imbevuto il logos animale.

La singolarità della morte del vivente si lega indissolubilmente alla molteplicità dei viventi. Il tema della molteplicità, del nume-

32. J.M. Coetzee, Elizabeth Costello, cit., p. 109 (corsivi miei).

46

ro, perfino del grande numero o dell’innumerevole, è posto da Coetzee in Vergogna – mediante il flusso di coscienza di David – come associato all’esperienza della fragilità del vivente e della cura dell’animale destinato alla morte. I cani sono destinati alla morte, alla morte programmata e serializzata, perché – così pensa il protagonista – essi sono troppi. “I cani vengono portati alla cli-nica perché nessuno li vuole: perché siamo troppi”,33 pensa David, unendo il destino del cane a quello dell’essere umano.

Il grande numero è ciò che umani e animali condividono in vita. La vita (singolare) non è che con-divisione della vita stessa, la quale – in quanto tale, cioè come vita in-divisa – non è da nessuna parte. Però, questa vita con-divisa, da cui il numero si genera, è la sola vita: non c’è raddoppiamento della vita in una vita “qui”, nel saeculum, e in una vita vera “altrove”, al di là della morte. Non c’è pertanto nessuna promessa di redenzione di questa vita in nome di una vita vera. Perciò il grande numero e l’innumerevole non ammettono prospettiva di salvezza o di redenzione. “Non sarà il loro salvatore, colui per il quale non sono troppi, ma è disposto a occuparsi di loro quando ormai non possono più badare a se stessi.”34

Questo passo del romanzo deve essere messo in risonanza con almeno altri due passi: la rete di discorsi, attribuiti a diversi perso-naggi (a Lucy, la figlia di David, a Bev Shaw e al protagonista stesso), delineano una disposizione etica con cui si cerca di cogliere il rap-porto tra il non-ancora-individuato e l’individuato, tra il veniente-al-mondo e il mortale in quanto già-al-mondo. Il primo discorso – che formula quello che pare un vero e proprio principio circa il valore della vita di ciascuno – è formulato da Lucy. La quale si esprime in questi termini: “Questa è l’unica vita che c’è. E dobbiamo dividerla con gli animali […]. Dividere con le bestie alcuni dei nostri privilegi umani”.35 Per poi aggiungere l’argomento della metempsicosi: “Non voglio reincarnarmi in un cane o in un maiale ed essere costretta a

33. Id., Vergogna, cit., p. 153.34. Ibidem.35. Ivi, p. 77.

47

vivere come vivono i cani e i maiali sotto le nostre grinfie”.36 È la stessa questione speculativa che si pone Elizabeth Costello quando riflette sulla possibilità di altre modalità di esistenza, nel secondo passo che entra in risonanza con il primo, come un interrogativo sul senso del limite del visibile e dell’esistente:

Altre modalità dell’essere. Questa è forse una formulazione più appropriata. Esistono altre modalità dell’essere, al di là di quella che definiamo umana, nelle quali possiamo entrare? E se non esistono, che cosa ci dice, questo, di noi e dei nostri limiti? Lei non sa granché di Kant, ma le sembra un interrogativo di tipo kantiano. Se ha capito bene, l’interiorità ha cominciato la sua carriera con l’uomo di Königsberg ed è finita, più o meno, con Wittgenstein, il guastatore viennese.37

Analogamente, la protagonista del racconto La vecchia e i gatti affer-ma di aver scelto la compagnia dei gatti, che, dice, sono gli esseri il cui modo di essere è il più differente dal suo. Perché lo fa? Perché si sta preparando a quella che chiama “l’ultima mossa”. I’m preparing myself for […] the last move, “mi preparo all’ultima mossa”, quando l’ultima mossa è uscire dalla vita, è morire, scegliendo – con una decisione che non può essere riportata a nessuna ragione, poiché non può rientrare nel dominio del principio di ragione – di collo-carsi dalla parte delle prede e non da quella dei cacciatori.38 È un gesto di responsabilità come accoglienza, un dono di quell’amore per il vivente singolare che è reso possibile dall’apprensione della morte.39 Il gesto d’amore non ha nessuna garanzia etica se non una protezione della vita indifesa che reclama per sé il proprio diritto a

36. Ibidem.37. J.M. Coetzee, Elizabeth Costello, cit., p. 144.38. “Decisi che per i gatti avrei voltato le spalle alla mia tribù – la tribù dei cacciatori

– per appoggiare quella delle prede”, J.M. Coetzee, La vecchia e i gatti, in questo fascicolo.39. Cfr. J. Derrida, Donare la morte (1996), trad. di L. Berta, Jaca Book, Milano 2002, p.

87: “Questo dono d’amore infinito viene da qualcuno e si indirizza a qualcuno. La respon-sabilità esige la singolarità insostituibile. Solo a partire dall’insostituibilità si può parlare di soggetto responsabile, di anima come coscienza di sé, di io ecc. E questa insostituibilità la può dare solo la morte, o piuttosto l’apprensione della morte”.

48

vivere. All’opposto di David, che concepisce il suo gesto di amore e di pietà verso i cani portandoli alla stanza dell’eutanasia, prenden-dosi cura di essi accompagnandoli fino alla soglia dell’esistenza, la vecchia decide di accoglierli senza condizione presso di sé, come fa con Pablo, l’idiota del villaggio.

Il problema della molteplicità dei viventi – nel racconto esem-plificata dal gran numero di gatti che abitano la casa della vecchia – si unisce così alla decisione dell’appello a una vita che ciascuno di essi, silenziosamente o con un ringhio sordo, rivendica. Quando la vecchia racconta al figlio di aver scorto, un giorno, una gatta in un canalone mentre era in procinto di sgravarsi, Coetzee descrive la radicale impossibilità di qualsiasi comunicazione tra la donna e l’animale – che rispecchia nel racconto il difficile, se non impossi-bile, rapporto tra la madre e il figlio i quali, letteralmente, non si capiscono. Non c’è comunicazione perché non c’è alcun cum con cui poter giustificare un gesto di condivisione. Non c’è linguaggio che possa dire la separazione delle esistenze e la possibilità della morte. “Anch’io sono una madre, le avrei voluto dire. Ma certo non avrebbe capito. Non avrebbe voluto capire”,40 dice la vecchia riferendosi alla gatta. È questo il momento, incalcolabile, della decisione, senza cal-colo né giustificazione. Nell’attimo della decisione, la vecchia sceglie che avrebbe avuto cura dei gatti.41 Nutrire un gatto, quel gatto, è un gesto abissale di ospitalità che rende visibile la separazione tra gli esseri, la loro molteplicità e la “possibilità dell’incarnazione [the chance of incarnation]”. Come Elizabeth Costello, anche la vecchia del racconto è una veggente. La sua immaginazione la porta a vede-re i limiti dell’essere (at the borders of being), e perfino oltre i suoi

40. J.M. Coetzee, La vecchia e i gatti, cit.41. Il brano sembra citare e giocare intertestualmente con un passo di Donare la morte

di Derrida, in cui è proprio la figura del gatto che viene convocata per poter pensare il fondamento abissale e mancante della decisione, che per Derrida prende la forma di un sacrificio implicito nella stessa condizione di finitezza del vivente: “Ciò che mi lega a delle singolarità, a questo o a quella piuttosto che ad altri, resta in fin dei conti ingiustificabile […], non più di quanto sia giustificabile il sacrificio infinito che così faccio a ogni istante. Queste singolarità sono altre, tutt’altra forma di alterità: una o più altre persone, ma anche luoghi, animali, lingue. Come potrete mai giustificare il sacrificio di tutti i gatti del mondo per il gatto che nutrite a casa vostra tutti i giorni da anni, mentre altri gatti muoiono di fame a ogni istante?” (J. Derrida, Donare la morte, cit., pp. 104-105).

49

confini, come se lei stessa si ponesse alle porte dell’essere per tenerle sempre aperte. Piccole anime di gatti, di topi, di uccelli, di bambini non nati, si affollano alle frontiere dell’essere, chiedendo di poter entrare. Lei, dice la vecchia, vorrebbe farli entrare tutti, anche solo per poco (even if it is only for a day or two) affinché possano dare una rapida occhiata al mondo. “Perché chi sono io per negare loro la possibilità di incarnarsi?”

Così, con questa visione delle anime prima dell’incarnazione, Coetzee mette in scena nuovamente la possibilità della letteratura di vedere al di là del visibile e di dare così corpo – anche solo in una finzione narrativa, cioè nel corpo del testo – alle molteplici ani-me che si affollano nell’invisibile. La scrittura delle altre modalità dell’essere travalica l’etica dell’empatia e della compassione, riven-dicando invece il dramma della separazione e il sogno di un’unità immaginata che la scrittura si assume il compito di dire. Destituendo ironicamente la pretesa, da parte della scrittura, di farsi medium della realtà, Coetzee ci conduce di fronte al paradosso stesso della letteratura, la quale mostra in questo modo il suo segreto, occul-tandolo. Si tratta della rivelazione di un segreto che è too literary. Esso coincide con il racconto di un’altra visione di Elizabeth, in cui la scena di Di fronte alla legge di Kafka è riscritta e sovrascritta. Anche qui si racconta della visione di una porta (she has a vision of the gate), l’accesso lontano (the far side of the gate), quello che le è negato (the side she is denied), e che dà su uno spettacolo di desolazione, fatto di deserto e pietre. Custode di questa porta sul nulla, un vecchio cane sonnacchioso. Visione dell’invisibile, si po-trebbe pensare. O, anche, di quella dimensione al di là dell’etica, oltre le porte della legge che questa volta, invece, rimangono chiuse. Tuttavia, pur riuscendo a vedere al di là della porta, varcando così da veggente il limite custodito dal cane, Elizabeth rimane nella condizione di dubbio e di incertezza che è la sua. Qual è il senso di ciò che sta vedendo? L’unica cosa che sa è che non si fida di ciò che vede, “in particolare non si fida dell’anagramma GOD e DOG. Troppo letterario, pensa di nuovo. Maledetta letteratura!”.42

42. J.M. Coetzee, Elizabeth Costello, cit., pp. 183-184.


Recommended