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L’ultimo riposo dei Ss. Filippo e Giacomo. Status quaestionis

Date post: 30-Nov-2023
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San Bonaventura Newsletter della Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura” Seraphicum Editoriale Lettera di Giacomo Si tratta di uno scritto assai importante, che insiste mol- to sulla necessità di non ridurre la propria fede a una pura dichiarazione verbale o astratta, ma di esprimerla concretamente in opere di bene. Tra l’altro, egli ci in- vita alla costanza nelle prove gioiosamente accettate e alla preghiera fiduciosa per ottenere da Dio il dono della sapienza, grazie alla quale giungiamo a compren- dere che i veri valori della vita non stanno nelle ric- chezze transitorie, ma piuttosto nel saper condividere le proprie sostanze con i poveri e i bisognosi. […] La lettera di Giacomo ci esorta ad abbandonarci alle mani di Dio in tutto ciò che facciamo, pronunciando sempre le parole: “Se il Signore vorrà” (Gc 4,15). Così egli ci insegna a non presumere di pianificare la nostra vita in maniera autonoma e interessata, ma a fare spa- zio all’imperscrutabile volontà di Dio, che conosce il vero bene per noi. In questo modo san Giacomo resta un sempre attuale maestro di vita per ciascuno di noi. “Vieni e vedi” L’intimità, la familiarità, la consuetudine ci fanno sco- prire la vera identità di Gesù Cristo. Ecco: è proprio questo che ci ricorda l’apostolo Filippo. E così ci invita a “venire”, a “vedere”, cioè ad entrare in un contatto di ascolto, di risposta e di comunione di vita con Gesù. […] egli dedicò interamente a lui la propria vita. Se- condo alcuni racconti posteriori, il nostro Apostolo avrebbe evangelizzato prima la Grecia e poi la Frigia e là avrebbe affrontato la morte, a Gerapoli, con un sup- plizio variamente descritto come crocifissione o lapi- dazione. Vogliamo concludere la nostra riflessione richiaman- do lo scopo cui deve tendere la nostra vita: incontrare Gesù come lo incontrò Filippo, cercando di vedere in lui Dio stesso. Se questo impegno mancasse, verremmo rimandati sempre solo a noi come in uno specchio, e saremmo sempre più soli! Filippo invece ci insegna a lasciarci conquistare da Gesù, a stare con lui, e a invita- re anche altri a condividere questa indispensabile com- pagnia. E vedendo, trovando Dio, trovare la vera vita. Benedetto XVI Dalle catechesi su Giacomo il Minore (28 giugno 2006) e Filippo (6 settembre 2006) APRILE 2016 focus del mese: speciale sulla ricognizione degli apostoli filippo e giacomo Pag. 2 santa sede: “amoris laetitia” e la rivoluzione della tenerezza pag. 14 morale e società: LA felicità ai tempi della crisi Pag. 16 giubileo della misericordia: il nuovo umanesimo in papa francesco PAG. 24 STORIA E PERSONAGGI: vicende e aneddoti dellA VIGNA ANTONIANA PAG. 26 cineforum: Ave Cesare! e i fratelli coen pag. 28 appuntamenti: iniziative e novità editoriali PAG. 30 Francescanamente parlando: dentro e fuori la facoltà pag. 34 ANNO IV - Nº 39 informa 1 In questo numero:
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San BonaventuraNewsletter della Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura” Seraphicum

Editoriale

Lettera di GiacomoSi tratta di uno scritto assai importante, che insiste mol-to sulla necessità di non ridurre la propria fede a una pura dichiarazione verbale o astratta, ma di esprimerla concretamente in opere di bene. Tra l’altro, egli ci in-vita alla costanza nelle prove gioiosamente accettate e alla preghiera fiduciosa per ottenere da Dio il dono della sapienza, grazie alla quale giungiamo a compren-dere che i veri valori della vita non stanno nelle ric-chezze transitorie, ma piuttosto nel saper condividere le proprie sostanze con i poveri e i bisognosi. […]La lettera di Giacomo ci esorta ad abbandonarci alle mani di Dio in tutto ciò che facciamo, pronunciando sempre le parole: “Se il Signore vorrà” (Gc 4,15). Così egli ci insegna a non presumere di pianificare la nostra vita in maniera autonoma e interessata, ma a fare spa-zio all’imperscrutabile volontà di Dio, che conosce il vero bene per noi. In questo modo san Giacomo resta un sempre attuale maestro di vita per ciascuno di noi.

“Vieni e vedi”L’intimità, la familiarità, la consuetudine ci fanno sco-prire la vera identità di Gesù Cristo. Ecco: è proprio questo che ci ricorda l’apostolo Filippo. E così ci invita a “venire”, a “vedere”, cioè ad entrare in un contatto di ascolto, di risposta e di comunione di vita con Gesù. […] egli dedicò interamente a lui la propria vita. Se-condo alcuni racconti posteriori, il nostro Apostolo avrebbe evangelizzato prima la Grecia e poi la Frigia e là avrebbe affrontato la morte, a Gerapoli, con un sup-plizio variamente descritto come crocifissione o lapi-dazione. Vogliamo concludere la nostra riflessione richiaman-do lo scopo cui deve tendere la nostra vita: incontrare Gesù come lo incontrò Filippo, cercando di vedere in lui Dio stesso. Se questo impegno mancasse, verremmo rimandati sempre solo a noi come in uno specchio, e saremmo sempre più soli! Filippo invece ci insegna a lasciarci conquistare da Gesù, a stare con lui, e a invita-re anche altri a condividere questa indispensabile com-pagnia. E vedendo, trovando Dio, trovare la vera vita.

Benedetto XVI Dalle catechesi su Giacomo il Minore (28 giugno 2006) e Filippo (6 settembre 2006)

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focus del mese: speciale sulla ricognizione degli apostoli filippo e giacomoPag. 2

santa sede: “amoris laetitia” e la rivoluzione della tenerezzapag. 14

morale e società: la felicità ai tempi della crisi Pag. 16

giubileo della misericordia: il nuovo umanesimo in papa francescoPaG. 24

STOria E PErSONaGGi: vicende e aneddoti della ViGNa aNTONiaNaPaG. 26

cineforum: ave Cesare! e i fratelli coenpag. 28

appuntamenti: iniziative e novità editorialiPaG. 30

Francescanamente parlando: dentro e fuori la facoltàpag. 34

aNNO iV - Nº 39 informa

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in questo numero:

San Bonaventura informa dedIca IL Focus deL mese a un Grande eVento a carattere deVozIonaLe

La ricognizione delle reliquie dei santi Filippo e Giacomo è avvenuta lo scorso 5 aprile nella cripta della Basilica dei Santi XII Apostoli a Roma. Una cerimonia svoltasi nel riserbo dovuto a un evento tanto delicato (l’ultima ricognizione risale al 1879), alla quale era presente San Bonaventura informa che propone un approfondimento per conoscere meglio la storia dei due apostoli, la loro presenza a Roma, le analisi alle quali sono sottoposte le reliquie e l’esposizione alla venerazione popolare, dal 3 al 15 maggio.

L’apoStolicum lumen dI FILIppo e GIacomo a serVIzIo deLL’eVanGeLIzzazIone

di Agnello Stoia*

L’idea di procedere a una ricognizione delle reliquie dei Santi apostoli Filippo e Giacomo è nata contestualmente al restauro del sacello della cripta, che era molto deteriorato a causa della forte umidità. Se lungo e faticoso è stato l’iter delle necessarie procedure per ottenere i permessi e iniziare il cantiere di restauro – la richiesta è stata inoltrata nel marzo del 2015 e i lavori sono iniziati a gennaio 2016 – non così è andata per la ricognizione. Tenendo presente i gravi danni causati dalle infiltrazioni di acqua ai dipinti di Prospero Piatti, realizzati nel 1877, pensavo spesso alle condizioni in cui da quasi centocinquanta anni si dovevano trovare le reliquie custodite nel sarcofago. Così mi convinsi a parlarne con il Ministro generale, p. Marco Tasca nonostante comprendessi la portata della mia richiesta e fossi parroco da appena due anni. P. Tasca, invece, accolse subito e volentieri la proposta e mi indirizzò al Postulatore generale delle Cause dei santi, fra Angelo Paleri, che condivise favorevolmente l’iniziativa, dandomi le dritte necessarie. Nell’arco di poche settimane avevo già presentato questa intenzione al Capitolo conventuale e ricevuto i permessi dalle Autorità ecclesiastiche competenti.

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focus del mese

La rapidità con cui si è concluso questo iter, anche abbastanza complesso per gli Uffici coinvolti e i tempi richiesti, mi ha colpito molto.Il significato di questo evento, per quello che posso comprendere e pastoralmente indirizzare, è quello di dare nuovo impulso alla devozione dei due apostoli nella Chiesa di Roma e delle altre Chiese che li venerano come Patroni. La vocazione della Basilica dei Santi XII Apostoli di essere l’apostoleion romano, un ponte tra la Chiesa di Roma e la Chiesa di Oriente, è testimoniata non solo da antiche memorie del passato.

Anche oggi sono numerosi i fedeli e i pastori della Chiesa Ortodossa che vengono a venerare gli apostoli Filippo – evangelizzatore della Frigia – e Giacomo – primo vescovo della Chiesa madre di Gerusalemme. Sotto questo aspetto mi auguro non solo che questa venerazione da parte dei fratelli separati si intensifichi, anzi, il mio desiderio guarda all’altare ubicato sotto lo scalone della cripta, di fronte al sacello e a ridosso del cosiddetto “pozzo dei martiri”, composto da due lastre di superfici abbinate, su cui, fino al Concilio Vaticano II, si poteva celebrare anche contemporaneamente. L’intento è quello di consacrare questo altare alla liturgia di rito bizantino della Chiesa Ortodossa, lasciando l’altra metà ai cattolici. La cripta, infatti, è anche il luogo dove gli Uruguayos che vivono a Roma si incontrano per la celebrazione eucaristica mensile, essendo Filippo e Giacomo i Patroni di Montevideo. In una realtà territoriale come quella della Parrocchia di Santi Apostoli, così ricca di testimonianze cristiane con otto chiese rettorie, ma anche spopolata e dispersiva nel caos della vita cittadina, sono state preziose le indicazioni del vescovo di settore, don Matteo Zuppi, ad incrementare una pastorale santuariale della Basilica, dove lo stile dell’accoglienza francescana, il servizio delle confessioni e della direzione spirituale, la devozione agli apostoli Filippo e Giacomo, traducano la passione per il Vangelo da seminare a piene mani, unitamente a una fede operosa nel segno della carità verso i poveri, come insegna proprio l’apostolo Giacomo nella Lettera a lui attribuita.Il centro della Città, infatti, è molto vissuto e poco abitato, come dice bene Padre Daniele Libanori, Rettore della chiesa del Gesù. Considerati i flussi che vi convergono per motivi di lavoro o per altri interessi, le realtà pastorali operanti al centro, sono vocate, oltre che al servizio pastorale dei residenti, anche a una pastorale dell’annuncio (in particolare il primo annuncio) e della formazione della fede. Ed è questa la “perla di grande valore” che si può offrire a quanti vengono a visitare la nostra Basilica, il “di più” inatteso che può trasformare i viandanti in pellegrini.L’epigramma nel catino absidale dell’antica Basilica del VI secolo, e visibile fino al XV secolo, si chiudeva con queste parole: I papi Pelagio e Giovanni hanno eretto questo santuario “perché il

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Le fasi di recupero dell’urna contenente le reliquie

popolo, accorrendovi, fosse sottratto al lacerante morso del lupo. Il lettore, chiunque egli sia, sappia riconoscere qui la luce che promana dagli Apostoli Giacomo e Filippo”.Il “morso del lupo” a cui si riferisce l’epigramma alludeva a un momento di grande trasformazione da un mondo in declino a uno nuovo che nasceva.

Nella Chiesa si ricomponeva lo scisma seguito al Concilio di Calcedonia e si usciva dall’annosa questione dei “tre capitoli” e dalle ingerenze dell’imperatore Giustiniano per cui tanto aveva sofferto papa Vigilio, predecessore di Pelagio, fondatore della Basilica. Roma, ridotta ad una popolazione di circa 18.000 abitanti, concentrata tra le falde del Quirinale e del Campidoglio, dopo venti anni di guerra gotica cui era seguito il flagello della peste e della carestia, trovava in Narsete un effimero liberatore: di lì a poco le forze dei Longobardi cominciarono a calare nella Penisola.

Il progetto di Pelagio, perseguito, ampliato e compiuto da Giovanni III, di costruire una basilica al centro della Città – le altre erette da Costantino rimanevano comunque periferiche – esprimeva un voto per la pace nella Chiesa e una rifondazione dell’Urbe sul fondamento degli Apostoli, rappresentati da Filippo e Giacomo. A modello della nuova Basilica l’apostoleion di Costantinopoli.Sono fatti storici molto lontani ma, al presente, anche noi viviamo un tempo di grande trasformazione, in un contesto geografico globale. Prendono nuove sembianze quanti cercano di sfuggire al “morso del lupo” – spiritualmente e materialmente inteso – che cercano un rifugio nella nostra Basilica. Offrire un luogo di riparo e far splendere dal sepolcro di Filippo e Giacomo l’apostolicum lumen mi sembra una vocazione quanto mai attuale della nostra Basilica-Santuario.La ricognizione delle reliquie degli apostoli, fondamento e motivo della edificazione della Basilica, insieme al restauro del sacello e al progetto di una nuova e più degna sistemazione in un sarcofago paleocristiano, mi auguro possano rendere un buon servizio a questa luce che deve splendere. Dal prossimo 3 maggio, festa liturgica dei nostri Patroni, fino a Pentecoste, le reliquie saranno esposte in Basilica per la devozione dei fedeli. Sono state spedite più di centocinquanta lettere a parroci e rettori di chiese dedicate ai due apostoli. Poter essere a contatto così diretto con gli apostoli Filippo e Giacomo, in occasione dell’anno della Misericordia indetto dal nostro vescovo papa Francesco, è una gioia grande che desideriamo francescanamente condividere.

*OFMConv, parroco di Santi XII Apostoli di Roma Basilica Santi Apostoli

[email protected]

L’attesa della comunità dei frati, con il ministro generale fra Marco Tasca (a destra)

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La scoperta deLLa chIesa e deLLa tomBa deLL’apostoLo FILIppo a hIerapoLIs dI FrIGIa

di Francesco D’Andria*

La valle del fiume Lykos (attuale provincia di Denizli, in Turchia), nella quale fiorirono le città di Hierapolis, Laodicea, Colossae e Tripolis sul Meandro, costituisce una della regioni dell’Anatolia in cui il Cristianesimo potè svilupparsi vigorosamente già nel I secolo, come documentano gli scritti del Nuovo Testamento, in particolare di Paolo, nella lettera ai Colossesi, in cui fa riferimento alla chiesa che si riunisce a Laodicea nella casa di Nympha, e di Giovanni, che cita Laodicea tra le sette città dell’Apocalisse. Il prestigio di Hierapolis era legato, in particolare, alla tradizione relativa all’apostolo Filippo che avrebbe portato a Hierapolis la parola del Vangelo e qui avrebbe subito il martirio; la presenza della sua tomba nella città frigia, associata a quella del sepolcro di Giovanni ad Efeso, è citata, già alla fine del II sec., nella famosa lettera del vescovo Policrate al papa Vittore, riguardante la data della Pasqua, in cui le nobili origini della Chiesa di Asia, fondata dagli Apostoli Giovanni e Filippo sono confrontate con quelle di Roma, dove si venerano i trofei degli Apostoli Pietro e Paolo.Un programma di ricerca condotto dalla Missione Archeologica Italiana a Hierapolis, diretta da chi scrive, ha permesso di identificare, nel 2011, la

chiesa costruita intorno alla tomba di Filippo e di condurre un’estesa campagna di scavi che ha portato alla luce uno dei più celebri santuari di pellegrinaggio dell’Oriente, permettendo di ricostruire l’itinerario che i fedeli seguivano per venerare la tomba dell’Apostolo.Usciti dalla città essi attraversavano un ponte che permetteva di superare lo scosceso avvallamento di un torrente invernale. Subito oltre il ponte era un edificio termale a pianta ottagonale:

anche negli altri Santuari d’Oriente, come a S. Simeone Stilita, i fedeli dovevano purificarsi, prima di iniziare la salita alla sommità della collina; qui era l’aghiasma, una fontana dove i pellegrini potevano dissetarsi e compiere le abluzioni, per entrare quindi nella chiesa e venerare il sepolcro dell’Apostolo.

Hierapolis. La facciata della tomba di San Filippo all’interno della chiesa

Chiesa di San Filippo. Il templon in marmo dopo i lavori di restauro

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La chiesa di Filippo è una edificio a tre navate, lungo m 35 e largo m 21,50, con pilastri che definiscono la navata centrale e sorreggono i matronei; la sua costruzione, riferibile al VI sec., ingloba la tomba C127, un monumento romano a sacello, databile al I sec., oggetto di straordinaria venerazione. La sepoltura, evidentemente attribuita al Santo, era protetta da una sorta di balaustra metallica di cui restano i numerosi chiodi di fissaggio; soltanto la cornice sulla porta della tomba non era copertadal rivestimento metallico ed infatti appare consunta dalle mani dei fedeli che potevano così toccare l’edificio legato alla memoria dell’Apostolo, ed incidere croci.Di particolare importanza è l’apprestamento dell’altare, sormontato dal ciborio in marmo, e poggiato su una lastra monolitica, sempre in marmo, che copre un vano sotterraneo, collegato al piano dell’altare da un tubo fittile, probabilmente per l’offerta del myron, l’olio profumato, che vi era versato per onorare le reliquie dei martiri; attraverso il tubo fittile si immettevano nella camera dove erano conservate le reliquie, i brandea, le strisce di stoffa che diventavano esse stesse reliquie per contatto. L’apprestamento dell’altare sopra il vano sotterraneo contenente le reliquie appare simile nella grande Basilica giustinianea di S. Giovanni ad Efeso, dove, nel giorno della sua panegyris, l’Apostolo riprendeva a respirare, e dalla tomba usciva una polvere miracolosa, raccolta dai pellegrini per curare ogni genere di malattie. Anche nella Basilica romana dei SS. Filippo e Giacomo, le reliquie erano custodite nel vano dell’altare, in prezioso marmo pavonazzetto, in un loculo sottostante comunicante con il piano dell’altare

attraverso un foro circolare, dove erano introdotti i brandea.A Hierapolis lo scavo, nell’ultima campagna del 2015, del vano davanti al nartece, ha rivelato sull’intonaco del muro nord, un fitto reticolo di graffiti e di iscrizioni dipinte, attribuibili ai pellegrini che si radunavano in quest’ambiente in attesa di entrare nella chiesa. Gran parte dei graffiti, databili all’età mediobizantina, si riferiscono ad invocazioni al Signore (Kyrie boethi ton doulon sou: Signore, aiuta il tuo servo), alcune recano soltanto nomi, ed una, dipinta, riporta un nome seguito dall’espressione “doulos tou apostolou Filippou” (servo dell’Apostolo Filippo), che rappresenta il primo riferimento

esplicito, rinvenuto nel suo Santuario. Una scoperta recente ha offerto nuovi dati sulla presenza nei santuari dell’Anatolia, anche di pellegrini occidentali; questo fatto era stato largamente documentato dai graffiti scoperti nel Cimitero dei Sette Dormienti, ad Efeso.Nella necropoli orientale, a pochi metri dal Martyrion di S. Filippo, una tomba a sacello di età romana, fu riutilizzata, agli inizi del Trecento, per seppellire un pellegrino proveniente dalla Francia.

Ricostruzione virtuale della Chiesa di San Filippo (M. Limoncelli)

Chiesa di San Filippo, i lavori di restauro del pavimento

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Il suo itinerario si è potuto ricostruire sulla base dei signa peregrinorum in piombo rinvenuti accanto al suo scheletro. L’itinerario iniziò da S. Leonardo di Noblat, nella zona di Limoges, proseguì a S. Maria di Rocamadour, nei Pirenei, quindi in Provenza, a St. Maximin La Baume, dov’era la tomba di S. Maria Magdalena; l’ultimo dei signa proviene da Roma e reca i ritratti dei Santi Pietro e Paolo. Il viaggio del pellegrino, probabilmente diretto in Terra Santa, si concluse a Hierapolis, dove venne sepolto, presso il Santuario ormai in abbandono.Già nel VI sec. alcune reliquie dell’Apostolo furono trasferite a Costantinopoli, dove le cronache medievali riferiscono della loro presenza in una cappella del Palazzo Imperiale; è molto probabile che, dalla Capitale dell’Impero bizantino, per intervento del papa Pelagio le reliquie furono portate a Roma, dove venne edificata la Basilica Apostolorum, dedicata da papa Giovanni III (561-574). Dopo la scoperta della Tomba e della chiesa di S. Filippo si è sviluppato un intenso fenomeno di pellegrinaggio; lo stesso anno della scoperta, il 14 novembre 2011, giorno della panegyris (il dies natalis, che corrisponde alla data del martirio) dell’Apostolo, Sua Santità il Patriarca Ecumenico Bartholomeos I ha voluto visitare il sito, partecipando alla celebrazione della Divina Liturgia di S. Giovanni Crisostomo: in un clima di straordinaria suggestione, risuonavano dopo più di mille anni i canti bizantini tra le rovine della ritrovata Basilica di Filippo!

*Archeologo, docente all’Università del Salento, direttore della missione archeologica italiana che ha scoperto la sepoltura dell’apostolo Filippo a Hierapolis

Per saperne di più:La prima presentazione del ritrovamento in: F. D’Andria, Hierapolis, nella città dell’Apostolo Filippo, in Archeo, 320, apr.2012, pp. 28-43.

F. D’Andria, Il Santuario e la Tomba dell’apostolo Filippo a Hierapolis di Frigia, in Rendiconti Pontificia Accademia Romana di Archeologia, LXXXIV, 2011-2012, pp. 3-75.

Per le fasi bizantina e selgiuchide del Santuario, vedi: M.P. Caggia, La collina di S. Filippo a Hierapolis di Frigia: osservazioni sulle fasi di occupazione bizantina e selgiuchide (IX-XIV sec.), in Scienze dell’Antichità, 20.2, 2014, pp. 143-161.

Ricostruzione virtuale del Santuario di San Filippo (M. Limoncelli)

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L’uLtImo rIposo deI ss. FILIppo e GIacomo: StatuS QuaeStioniS

di Simone Pietro Schiavone*

Da Hierapolis di Frigia (attuale Turchia) e da Gerusalemme a Roma, i santi apostoli Filippo e Giacomo il Minore, cugino di Gesù, rappresentano un ponte tra l’Oriente e l’Occidente, testimoni dell’ecumene cristiano che tutti abbraccia ed accoglie nel nome del Figlio di Dio, Gesù Cristo. Il loro culto, diffuso singolarmente già all’indomani del martirio tra i primi cristiani, che ricordavano il primo per le particolari doti taumaturgiche e l’altro quale primo vescovo di Gerusalemme, fu combinato soltanto in Occidente - a Roma per l’appunto - ad opera di papa Pelagio (556-561). Prova ne è il fatto che egli prima della nomina pontificale fu diacono apocrisario presso la corte di Bisanzio, ovvero rappresentava la sede apostolica presso l’imperatore Giustiniano, del quale godeva le simpatie e al quale dovette esprimere il desiderio di trasportare nell’Urbe alcune reliquie degli apostoli nell’intenzione di dedicare loro un Apostoleion su modello di quello di Costantinopoli, cosa che non gli fu negata quando venne ad occupare il soglio pontificio. Non si trattò - a detta di diversi storici - di una costruzione ex novo ma del restyling di una basilica preesistente edificata dall’imperatore Costantino sulla via Lata (attuale via del Corso) e al centro di importanti e funzionali strutture dell’impero: la prima coorte dei Vigili, sulla sinistra, il foro Traiano con la basilica Ulpia, sul lato opposto, e immediatamente davanti alle terme costantiniane, cioè presso i resti del tempio di Serapide. Se a Pelagio si deve il merito di aver ideato e avviato la fabbrica dell’Apostoleion romano, al successore, Giovanni III (561-574), spettò invece il completamento dei lavori e la consacrazione del luogo di culto con relativa dedicazione ai due Apostoli. Tale titolazione si protrasse per qualche secolo, almeno fino all’età carolingia, quando una lettera di papa Adriano I (772-795) al re Carlo Magno, datata 792, ne attesta già l’estensione a tutti gli Apostoli senza soluzione di continuità fino ad oggi. Entrando oggi nella basilica dei Ss. XII Apostoli di Roma, non c’è nulla che parli di quella fase iniziale, così fortemente trasformata dagli interventi ricostruttivi settecenteschi del Fontana. Per quanto radicale e stravolgente sia stato il suo progetto di ridimensionamento, l’architetto in realtà intese preservare ciò che fecero altri prima di lui, dal Di Tebaldo (1162), sotto papa Alessandro III,

Sopralluogo nell’area sepolcrale

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al Rainaldi, su interessamento del cardinal Brancati di Lauria sotto Alessandro VII (1665), passando per Sisto IV della Rovere (1474). La memoria apostolorum fu infatti intenzionalmente inglobata e sormontata dall’altare marmoreo monumentale, a tal punto che se ne persero del tutto le tracce. I lavori di restauro e di decorazione che interessarono la chiesa e l’intero complesso conventuale tra il 1869 e il 1879 rappresentarono solamente un risveglio apparente. Riscoperta in tutta la sua entità, la tomba degli Apostoli avrebbe rivissuto una nuova stagione di abbandono segnata questa volta dalla poderosa opera di realizzazione della cripta. La rampa d’accesso si apre nel transetto, in asse con la navata centrale, e si approfondisce per

oltre 5 metri per tutta l’estensione del presbiterio, e oltre. L’espediente architettonico, messo in atto proprio in concomitanza con la scoperta dell’originario sepolcro degli Apostoli, aveva lo scopo di dare lustro e sontuosità a quella stessa memoria, ricreando in un contesto cimiteriale, decorato da pitture e lapidi sepolcrali finte, una confessio martyrum descritta da un cubiculum (camera sepolcrale) all’interno del quale campeggiava un sarcofago tardoantico, che le attuali operazioni di ricognizione hanno rivelato essere un semplice e rudimentale accrocchio di mattoni e malta, la cui decorazione avrebbe ingannato anche l’occhio più attento ed esperto. Nella messa in atto di questa inventio - sulla stregua di altri esempi contemporanei di cripte aperte nelle chiese romane, assieme ad interventi di abbellimento decorativi di sacelli

esistenti, sistemazioni presbiteriali e definizioni di arredi liturgici, sostenuti e approvati caldamente dal papa Pio IX (1846-1878) e da una vasta schiera di studiosi e di fedeli - si ebbero fortunatamente l’accortezza e l’intuizione di posizionare il nuovo sacello in asse con quello primigenio, ad una distanza in verticale di circa 3 metri l’uno dall’altro. In realtà questa fu la sola attenzione che ebbero i promotori della cripta, per la realizzazione della quale si scelse arbitrariamente di sacrificare quanto si conservava al di sotto del piano pavimentale della chiesa, ovvero le evidenze materiali di quasi 1500 anni di storia. Tra le più antiche c’era il piano di calpestio della chiesa di VI secolo, di cui resta una traccia nella parete destra del limite dello sbancamento effettuato per la realizzazione della cripta. “Sarebbe stato ovvio - scrive il padre Ippolito Mazzucco, autore del preziosissimo e puntuale libro intitolato Filippo e Giacomo apostoli nel loro santuario romano ed edito nel 1982 - che, avendo davanti a sé un pavimento del sesto secolo, anche se molto sconnesso e degradato, con parte della gradinata e i muri di conta della tribuna, se ne tenesse conto e si conservassero con la massima cura. Un ripristino del famoso monumento paleocristiano era ancora possibile. Non possiamo non rimpiangere la mancanza di accortezza e di sensibilità che i responsabili del tempo, preoccupati piuttosto di presentare al pubblico una pseudo costruzione neoclassica, decorata con figurazione catacombale, quale appare la nuova cripta”.

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Non risponde pertanto a verità quanto gli stessi autori dichiaravano nella documentazione di scavo e nelle corrispondenze intercorse tra loro e gli uffici statali preposti, giustificando tale mastodontica opera con la volontà di individuare la tomba dei santi titolari, per cui fu necessario aprire all’interno del presbiterio gallerie di detta profondità, né altresì si spiega come specialisti di antichità cristiane della nascente Pontificia Commissione di Arte Sacra, impegnati contemporaneamente nelle meticolose attività di scoperta delle catacombe, abbiano potuto avallare tutto questo.Sospeso ogni coinvolgimento emotivo e fatte le puntuali quanto necessarie constatazioni, ci spostiamo nell’area del presbiterio, alle spalle dell’altare barocco, per focalizzare la nostra attenzione sull’antica e originale memoria apostolorum. La struttura, posizionata ad una profondità di circa un metro, ricorda una comunissima vasca di forma pseudo-rettangolare, le cui pareti sono definite da lastre monolitiche di marmo, separate da pilastrini modanati sulla parte esterna; sulla lastra di fondo, ugualmente monolitica, si apre un foro circolare che immette in un pozzetto. Si tratta dell’intera urna sepolcrale che ha ospitato ora nell’uno ora nell’altro dei due vani le reliquie degli Apostoli. Essa ha assolto anticamente anche la funzione di altare, la cui superficie era composta di due lastre conformi in marmo frigio che accostate componevano una grande croce scolpita su di esse: le stesse sono oggi conservate in posizione verticale sopra le pareti di destra e di sinistra dell’urna. Questa sistemazione rappresenta la prima modifica apportata al monumento, assieme al drastico taglio orizzontale operato contro le pareti e i pilastri dell’urna, intervento da ascrivere verosimilmente all’architetto Di Tebaldo nel 1162 per la costruzione di un ciborio. Fino ad allora l’altare sepolcrale doveva essere almeno tre volte più alto con una fenestella confessionis sulla parete antistante oltre la quale i pellegrini raggiungevano la cateratta (il foro circolare) e calavano i brandea (pezzi di stoffa) nel pozzetto per toccare le reliquie degli apostoli. Della fenestella, anch’essa interessata dal taglio eseguito dal Di Tebaldo, non rimase che un piccolo pezzetto relativo al limite superiore. Esso, come si evince dalla traccia dei perni di ferro della grata alloggiati sulla sezione interna, fu capovolto a costituire una sottile feritoia necessaria alla venerazione delle reliquie che intanto dal pozzetto erano state trasferite nel vano soprastante e verosimilmente sistemate in una cassetta di legno. A questa fase di frequentazione devozionale si riferiscono le 10 monete conservate tra le ossa e gli altri reperti, riferibili ad un arco cronologico compreso tra il XIII e l’inizio del XV secolo, a comprovare che Sisto IV nel 1474 obliterò la situazione sotto la predella di un nuovo altare con baldacchino. Da allora fino alla documentata ricognizione del 1869-79, bypassando anche le operazioni barocchizzanti del Fontana, il sito e le reliquie non furono mai più toccate, per essere state da ultimo ritrovate nel finto sarcofago del sacello della cripta lo scorso 5 aprile, in attesa che le operazioni di studio e le previste analisi diagnostiche sui reperti a corredo delle ossa possano dare ulteriori informazioni.

*OFMConv, archeologo e studente del Seraphicum

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Le reLIQuIe aI tempI deL proGresso scIentIFIco

I restI dI FILIppo e GIacomo oGGetto dI approFondIte anaLIsI

di Elisabetta Lo Iacono*

Un pool di esperti sta esaminando le reliquie dei santi Filippo e Giacomo, nella consapevolezza di avere in mano molti più strumenti rispetto all’ultima ricognizione, effettuata nel 1879, quando gli esami erano soprattutto a carattere visivo.Con oltre cento anni, la tecnologia si è enormemente sviluppata, tanto che a quel tempo sarebbe sembrata fantascienza poter pensare a degli esami capaci di offrire elementi di dettaglio sui resti dei due apostoli, conservati in un’urna nella cripta della Basilica dei Santi Apostoli.Al clima solenne del giorno della ricognizione, il 5 aprile, con le preghiere, le litanie dei santi e la processione che a lume di candela ha accompagnato l’urna dal luogo di sepoltura al vicino altare nella cripta, per l’apertura e la ricognizione del contenuto, sta seguendo la fase più scientifica, caratterizzata da camici bianchi, lenti di ingrandimento, microscopi, apparecchiature all’avanguardia.Quei contenitori, con ciò che rimane dei due apostoli, sono stati riportati alla luce dopo 137 anni di sepoltura, durante una cerimonia caratterizzata dalla riservatezza e dalla rinnovata emozione di essere a contatto con i resti mortali di due seguaci di Gesù, vissuti nel I secolo d.C., entrambi martirizzati.

Tra i presenti alla ricognizione anche il professor Nazareno Gabrielli (nella foto), già dirigente del Gabinetto di ricerche scientifiche dei Musei Vaticani, che sta coordinando gli esami sulle reliquie, insieme ad alcuni membri del comitato scientifico per lo studio dei reperti. Un esperto nel settore, per decenni impegnato nella conservazione delle opere d’arte vaticane, una professione-passione alla quale, in modo imprevisto, si aggiunse anni fa quella del trattamento per la conservazione dei corpi di papi, beati e santi, in Italia e nel mondo. Tutto partì da una richiesta dei frati di Gubbio per un intervento sui resti di sant’Ubaldo vescovo. Da quel momento, sotto le sue mani sono passati i corpi di santa Francesca Cabrini, del beato Pier Giorgio Frassati, dei papi Pio IX e Giovanni XXIII, di san Pio da Pietrelcina,

del beato don Carlo Gnocchi, di santa Chiara di Assisi, di san Giovanni della Croce, dei beati coniugi

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Beltrame Quattrocchi e di tanti altri. Il professor Gabrielli lo ritroviamo in camice bianco, in una stanza al quarto piano del convento dei Santi Apostoli, attiguo alla basilica, che sta ospitando il laboratorio di analisi sulle reliquie riportate alla luce. Con il professor Gabrielli, in questa fase delle analisi, la dottoressa Rosa Boano (nella foto) dell’Università di Torino, impegnata in una meticolosa osservazione di ogni reperto, compresi i più piccoli frammenti. Qui sono stati portati i contenitori presenti nella cassa - a sua volta inserita in una di legno sulla quale erano stati apposti i sigilli dopo la precedente ricognizione -, assieme al piede di san Filippo e al femore di san Giacomo, conservati in due grossi reliquiari e sempre esposti alla venerazione dei fedeli.Su un tavolo vengono deposti, di volta in volta, i resti da osservare, confrontare, analizzare, attorno al quale si stanno alternando esperti di più settori.

dunque, professore, in quei vasi estratti dall’urna, cosa era contenuto con precisione?In alcuni vasi era presente polvere cineraria, polvere di tessuti mummificati, in alcuni filamenti e pezzetti dei quali è possibile ricostruire la trama, come del resto già si evidenziava nella ricognizione del 1879. E ancora ossa, una scapola e la parte centrale di una tibia, assieme a diversi ossicini minuti dei quali stiamo facendo le verifiche per capire se appartengano alle ossa già catalogate.

Quale è il metodo di lavoro che avete adottato per l’analisi di questi resti?La prima operazione è stata quella di una prima ricognizione e separazione, condotta con un

anatomopatologo, mediante una osservazione molto accurata dei resti rinvenuti nell’urna, tutti fotografati e catalogati. Quella che si definisce documentazione preliminare, nel senso archeologico. È quindi la volta di un antropologo cui spetta l’osservazione delle ossa, la consistenza, le misure, la verifica se debbano essere attribuite a un soggetto di sesso maschile o femminile, adulto o bambino, e il riconoscimento di eventuali frammenti ossei che si siano staccati. Ci sono poi prelievi eseguiti per il riconoscimento dei tessuti, attraverso le tecniche della microscopia elettronica.

C’è qualche anticipazione riguardo agli esami finora eseguiti? In questa fase stiamo riconducendo i frammenti alle ossa di appartenenza, svolgendo quelle verifiche di cui parlavo. Abbiamo notato anche come alcune ossa siano state recise di netto, al momento della morte, segno evidente del martirio subito. Questo si riconosce dal fatto che quando si tratta di rotture successive, ad esempio per il prelievo di reliquie, le ossa si presentano solitamente sfrangiate.

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C’è poi da anticipare che sono stati trovati anche dei resti, di piccole dimensioni, sicuramente riconducibili a un bambino. Una cosa assai frequente in questi casi, spesso le tombe erano utilizzate più volte e non era raro che, al momento del prelievo delle ossa, ce ne finisse qualcuna estranea. Gli esami visivi e quelli più approfonditi, servono proprio a questo, a chiarire la presenza di eventuali reperti estranei.

tornando agli esami cui sono sottoposte le reliquie, qual è il contributo concreto di cui può usufruire questa ricognizione, rispetto a quella del 1879?Il primo aiuto concreto è sicuramente nel permettere di identificare e raggruppare tutte le ossa appartenute a uno stesso individuo, trattandosi di esami che vanno ben oltre l’analisi visiva. Mi riferisco in particolare alle analisi sugli elementi paleo-nutrizionali, ovvero quelli che si fissano nelle ossa a seconda della dieta seguita. Questa indagine è importantissima e prende in esame elementi come calcio, stronzio, bario, zinco, magnesio e rame, dando utilissime indicazioni. Peraltro si tratta di un esame non distruttivo, svolto con due piccoli apparecchi, un generatore di raggi e un rilevatore che capta la presenza degli elementi eccitati attraverso i raggi X. E poi, per concludere, ci sono altri esami oggi consentiti dalle tecnologie, come il DNA e il Carbonio-14.

mi sembra pure di capire che, in queste ricognizioni, ha un peso decisamente rilevante l’intesa tra gli esperti, anche per garantire la massima tutela delle reliquie.Questo indubbiamente, l’affiatamento è una carta vincente, la perfetta intesa su come trattare resti che richiedono il massimo rispetto, costituendo un vero e proprio patrimonio a carattere storico e, per i credenti, anche devozionale. L’unicità di questi resti obbliga a operare nella consapevolezza che vanno preservati e che è richiesta la massima attenzione anche sugli esami cui sottoporli. Una volta concluse le analisi, daremo a queste reliquie una sistemazione sicuramente migliore di quella precedente. Basti pensare che le ossa erano conservate nei contenitori in posizione verticale (nella foto), un grosso errore che potrebbe comprometterne la conservazione. Per questo adesso verranno disposte orizzontalmente, perché possano testimoniare, ancora per tanto tempo, la vita di questi due apostoli.

* Giornalista, docente di Mass media @eliloiacono

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amoriS laetitia: suL cammIno deLLa mIserIcordIa

per aLImentare La rIVoLuzIone deLLa tenerezza

di Giulio Cesareo*

Amoris laetitia è certamente un grande dono di Dio, attraverso il magistero ordinario dei nostri pastori, sotto la guida e il carisma di Pietro, custode e promotore dell’unità ecclesiale, per favorire l’adesione alla persona di Cristo e al suo insegnamento nella verità. Molti commenti, già in questi giorni, stanno evidenziando il contenuto e le peculiarità dell’insegnamento di questo testo, in particolare riguardo alle questioni riguardanti l’etica matrimoniale e familiare. Come osservato dal Gran Cancelliere della nostra Facoltà, fra Marco Tasca (OFMConv, nella foto)in una sua intervista al quotidiano Avvenire del settembre scorso, alla vigilia della seconda “sessione” del sinodo dei vescovi sulla famiglia, era ecclesialmente saggio attendersi dal Sinodo – di cui Amoris laetitia è l’autorevole conclusione e sintesi – non uno stravolgimento ma un approfondimento, nella fedeltà a Dio e all’uomo di oggi, dell’insegnamento costante della Chiesa sulla famiglia, all’interno del contesto delle sfide e delle opportunità che il nostro mondo concreto porta con sé. La Chiesa infatti non avanza nella verità rinnegando il passato, ma purificando costantemente la propria comprensione del Vangelo (che è una bella notizia per tutto l’uomo, per tutti gli uomini e per ogni ambito della vita umana, pertanto anche per il mondo delle relazioni d’amore all’interno del matrimonio e della famiglia), grazie anche a una lettura nella fede delle istanze che vengono dalla società e dalle culture. Queste, di primo acchito, possono talora sembrare del tutto inadeguate a provocare un tale approfondimento. Eppure è già successo che il mondo abbia aiutato i cristiani a comprendere meglio il Vangelo stesso. Come quando la Chiesa ha saputo cogliere il valore delle provocazioni provenienti dal movimento dei diritti umani, della rivendicazione di una condizione di lavoro più umana per gli operai, di una maggiore giustizia sociale e/o di una più consapevole attenzione ambientale ed ecologica, ecc.In modo particolare, allora, Amoris laetitia si presenta innovativa non perché cambia la dottrina teologica della Chiesa che, essendo parte essenziale del tesoro della Rivelazione, non può essere tradita, proprio per non tradire anzitutto l’uomo.

santa sede

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L’esortazione invece cerca costantemente di leggere la realtà nella sua concretezza alla luce del Vangelo (che non è solo un ideale, ma la Bella notizia per l’uomo e le sue relazioni), cercando così

di cogliere, nelle pieghe della nostra storia, la voce di Dio che ci chiama a un ascolto più attento e a una conversione più sincera. Allo stesso tempo, poi, il Papa sottolinea con chiarezza che “non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero”, dal momento che “le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale […] ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato” (AL 3). Viene così introdotta con decisione la necessità, per le singole situazioni,

di saper procedere con sapienza nell’arte del discernimento dei passi possibili (e dunque doverosi) per quella persona, quella coppia, quella famiglia, in vista della vita bella e buona - perché fondata nell’amore - che il Signore ci vuole donare, ma che è affidata anche alla nostra responsabilità personale, e che per questo certamente assume anche una rilevanza morale. E bella e buona è anche la fiducia che il Papa ripone in tutti noi credenti, ma certo in particolare proprio nei pastori della Chiesa, i vescovi e i sacerdoti, ai quali per primi è affidato il compito del discernimento. Questo atteggiamento di così grande responsabilizzazione col tempo porterà certamente a una svolta pastorale importante, nonché a un ulteriore approfondimento della comprensione e della prassi della Chiesa come comunione, secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II. E forse tutto ciò lascia emergere ancora una volta l’ottica paradossale della fede cristiana, che è il punto di vista della Pasqua: una crisi, un problema, perfino una sconfitta, nella fede in Cristo – crocifisso risorto – diventano l’opportunità per delle grazie insperate, per dei passi inimmaginabili, come quelli che la Chiesa, in questi anni di Papa Francesco, sta compiendo: il cammino della misericordia e la rivoluzione della tenerezza.

*OFMConv, docente di Teologia morale, Metodologia e Teologia trinitaria. Direttore dell’Istituto“Mulieris dignitatem” per lo studio dell’unidualità uomo-donna

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IL Fattore FeLIcItà

di Maria Beatrice Toro*

A partire dagli anni duemila la ricerca psicologica ha incrementato studi e proposte riguardo la natura della felicità umana: se è vero, infatti, che condizioni esteriori di tipo sociale, economico, lavorativo, affettivo sono in grado di influenzare il nostro stato d’animo, è vero, sorprendentemente, anche che alcune persone tendano a essere stabilmente più felici di altre, quasi che l’attitudine a questo stato mentale potesse essere un fattore di personalità. In un recente articolo, pubblicato sulla prestigiosa rivista Science, Matthew Killingsworth e Daniel Gilbert definiscono così la questione: “Molte tradizioni filosofiche e religiose insegnano che la felicità si trova vivendo in questo momento (…); suggeriscono che una mente errante è una mente infelice. Hanno ragione?”

La ricerca

Il teologo Anselm Grun (nella foto) scrisse che “chi vuole afferrare la felicità e tenerla stretta” non la catturerà mai, e che chi la insegue affaccendandosi in un’attivazione continua e senza soste non la raggiungerà mai. Vediamo se ciò ha qualche corrispettivo di tipo psicologico.Killingsworth e Gilbert hanno ideato un disegno di ricerca attraverso un’applicazione scaricata dai partecipanti sui loro cellulari, raccogliendo dati simultanei da più di duemila persone. L’applicazione mandava dei messaggi contenenti domande sullo stato d’animo e le attitudini:

“Come ti senti adesso?” dando la possibilità di rispondere su una scala graduata su cinque gradini, da “molto male” a “molto bene”; “Cosa stai facendo in questo momento?”;“Stai pensando a qualcosa di diverso rispetto a ciò che stai facendo attualmente?” - se si rispondeva di sì, veniva chiesto di segnalare se l’esperienza immaginata fosse piacevole, spiacevole, o neutra.In linea con gli studi precedenti, le persone hanno riportato che la mente vagava per circa la metà del tempo. La scoperta importante, però, è stata che le persone, quando le loro menti vagavano tendevano a focalizzarsi su pensieri negativi, e avevano stati d’animo più inquieti e infelici. Dunque, in linea con la tradizione, e come recita il titolo della ricerca, una mente errante sembra essere davvero una mente infelice.

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morale e società

scenari di infelicità

Non è tanto il sognare ad occhi aperti che ci rende infelici, quanto il fatto che nella maggior parte dei casi lo scenario immaginato non era affatto piacevole. Anche nell’attività onirica, i sogni più comuni che facciamo non sono positivi: prima o poi tutti sogniamo di essere in qualche situazione imbarazzante, o, anche, di essere inseguiti...Consideriamo anche le storie che risultano più attrattive al cinema, o in televisione. Molti tipi popolari di narrativa corrispondono a esperienze che sono sgradevoli, o anche qualcosa di peggio.

Molti spettatori sono attratti da storie raccapriccianti di zombie, cannibali, serial killer, camere di tortura, e simili. Altri, ancora, amano le storie tristi, o storie di tradimenti, perdite, abbandoni; insomma tutto il vasto campo della sofferenza umana. Passiamo tempo a intrattenerci con storie che ci fanno rabbrividire e piangiamo.Questo era vero già ai tempi dei classici greci e latini, dove il pubblico sperimentava piacere a contatto con le emozioni negative evocate da tragedia. Ci deve essere dunque un motivo se le nostre menti funzionano in questo modo e, probabilmente, il senso è che tendiamo a imparare di più nella sofferenza che nella gioia, il che, naturalmente, dà un senso all’esperienza del dolore, che ci chiede di essere attraversata con un atteggiamento di profonda accettazione. Ma dov’è il valore di spendere tanto tempo a pensare a eventi spiacevoli che non sono neppure reali? Forse tendiamo a utilizzare scenari virtuali per prepararci a quella che è la vita reale. Ciò, però, ci spinge in un circuito mentale cupo in cui pensiamo agli scenari peggiori, o rimuginiamo su temi di fallimento e perdita. soprattutto, a mio avviso, ciò che fa l’infelicità è il rifiuto della nostra vita perché non è come l’avevamo progettata.

La felicità in un istante

Di fronte al qui e ora, infatti, abbiamo due possibilità: scegliere di viverlo appieno, così com’è, senza aspettare che sia come noi lo vorremmo. Oppure abbandonarsi al pregiudizio per cui occorre essere sempre all’opera per modificare le cose che non vanno e, solo successivamente, dopo aver raggiunto alcuni obiettivi, si potrà cominciare a vivere. Tale modo di procedere si basa, sostanzialmente, su una forma di rifiuto di se stessi e su una perdita di fiducia nella vita; è un modo di porsi verso la realtà in grado di generare una serie interminabile di sofferenze e effetti negativi a cascata.

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Ci ritrova bloccati e distaccati da se stessi, entro un processo doloroso, che ci priva della gioia di ricevere e di fare di ogni momento un’esperienza viva e potenzialmente gioiosa. Si può pensare all’accettazione come a una forma di relazione sana con la realtà e di compassione verso i propri inevitabili limiti: possiamo continuare a desiderare un cambiamento, senza per questo dover rinnegare alcuna parte noi stessi. Anche quando ci sentiamo inadeguati, spaventati, rabbiosi, confusi, o disperati possiamo portare

gentilezza verso noi stessi e recuperare la capacità di pacificarci, gioire insieme agli altri. È possibile, infatti, vivere esperienze ricche e illuminanti anche quando c’è “qualche catastrofe in atto”, restando connessi con noi stessi e agendo in armonia con i nostri valori fondamentali. La profondità che viene recuperata dalla presenza mentale, dalla connessione relazionale e dall’impegno verso la

realizzazione di ciò in cui crediamo, ci può condurre a uno stato di gratitudine e a un senso di adempimento, profondamente stabilizzati attraverso l’accettazione verso noi stessi, così come siamo ora, e verso gli altri, così come sono.

Riprendendo il discorso di Anselm Grun, allora, possiamo impegnarci a vivere il presente, in pace, in armonia, nell’accettazione, liberi dalle pretese del nostro Ego che ci vorrebbe sempre più affermati, più ricchi, più potenti di quanto non siamo. L’Ego vuole sempre ottenere qualcosa, ma il bello della felicità è che non si può ottenere, non si può programmare e non si può possedere. La si può solo accogliere, gustare, vivere in pienezza quando ci si ponga verso la vita con la pace nella mente e nel cuore, e con letizia, uscendo dal circuito delle cose da fare per entrare nel circuito dell’amore.

* Psicologa, psicoterapeuta, docente di Psicologia di comunità alla LUMSA di Roma, Direttrice della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo Interpersonale

Maria Beatrice Toro

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La GIoIa tra ed oLtre IL pIacere e La trIstezzaIL paradosso deLLa perFetta LetIzIa neL poVereLLo dI assIsI

di Domenico Paoletti*

Circa un mese fa è stato presentato il Rapporto Mondiale sulla Felicità 2016 dove l’Italia figura al 50° posto tra i 156 esaminati. Un Rapporto condotto in base a dei parametri che per molti studiosi risultano poco attendibili perché incentrati più sulla crescita economica che su un approccio olistico e pluridimensionale. Difatti diversi studiosi riconoscono che il PIL non basta a misurare il benessere e, in particolare, la felicità. Una società che promuove l’individualismo, e il benessere dell’individuo, non favorisce la felicità per il semplice fatto che non si può essere felici da soli. In realtà la gioia è la cifra olistica della persona in quanto espressione della felicità, intesa come risultante dell’essere in armonia con se stessi, con gli altri, con l’ambiente e con il Creatore, come illustra papa Francesco nella Laudato si’.In questa breve nota si tenta di dare una descrizione fenomenologica della felicità e alcune riflessioni di carattere filosofico-teologico per una visione integrale della felicità.È un dato di fatto che l’uomo tende alla gioia, senza la quale la vita perde di dinamismo e finisce di essere vita umana. La gioia è un’aspirazione universale che accomuna tutti gli uomini. Il problema non è l’aspirazione alla gioia, fenomeno connaturale all’uomo, ma a quale gioia aspiriamo e che cosa intendiamo per gioia.La gioia è quell’esperienza umana che coniuga tempo ed eternità, avvertibile dai sensi ma trascendente i sensi. La vera gioia orienta tutta la persona verso un orizzonte di pienezza ineffabile.L’esperienza ci dice che l’uomo è fatto per la gioia: tutto ciò che fa e desidera è mosso dalla ricerca, più o meno consapevole, della gioia. Mentre aspira alla gioia si ritrova teso e conteso tra piacere e tristezza.Un fenomeno non affatto assente oggi, specie nelle nostre società sempre più tecnologizzate dove si moltiplicano le occasioni di piacere con una quantità smisurata di offerte di benessere fisico. Ma queste stesse società del benessere fisico offrono un appagamento destinato inesorabilmente a finire e difficilmente riescono a procurare vera gioia.Oggi a una ipertrofia di mezzi e strumenti sempre più tecnologizzati e accessoriati, fa riscontro un’atrofia dei fini, o meglio del fine, del senso globale del nostro vivere e del nostro cammino

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esistenziale. Senza l’ascolto delle due domande fondamentali, e la conseguente ricerca della risposta - da dove vengo? e che sarà di me dopo questa breve esistenza terrena? - non si raggiunge la vera gioia che esprime e orienta alla pienezza, al compimento, all’eternità, al per sempre.La riflessione filosofica, illuminata dalla rivelazione cristiana, ci porta a riconoscere che la gioia attinge il suo dinamismo profondo, duraturo e globale dalla consapevolezza del primato del dono e dalla sana tensione verso la pienezza, tra il già e il non ancora. La gioia nasce e scaturisce dal riconoscere ed accogliere con gratitudine il dono ricevuto dell’esistenza. È felice fondamentalmente non chi ha ciò che vuole, ma chi vuole ciò che ha. Il sorriso del bambino è il primo segno di gioia che scaturisce dal riconoscere la madre, fonte della sua vita, nella gratitudine per il bene ricevuto. Se manca questo primo sorriso manca la crescita

relazionale e, quindi, manca la gioia. L’accettazione di sé e della propria storia come “il meglio per me”, è il primo passo fondamentale della gioia, perché senza questa mia esistenza e questa mia storia io semplicemente non esisto.Alla gratitudine, fonte di gioia, va unita come secondo passo la gratuità nel donarsi che solo fa sbocciare la gioia piena. Il donarsi è la legge della vita, donata per donare vita, è la logica esodale dell’uscita da sé per vivere, è il paradigma pasquale del morire per vivere in pienezza e per sempre.

La verità della gioia è allora quella pasquale che vediamo vissuta, testimoniata ed insegnata da Francesco d’Assisi. Francesco, l’uomo più ammirato della storia, senza Gesù Cristo, senza la Pasqua, risulta incomprensibile per il semplice fatto che non esiste. Francesco è un cristiano autentico. Il fenomeno dell’ammirazione per il poverello da parte di quasi tutti gli uomini delle più diverse religioni e dai non credenti, va compreso all’interno della fede cristiana, verità dell’amore e pienezza di umanità. Senza l’incontro con Gesù Cristo, il Vivente, Francesco è inspiegabile. Dalla sua vita e dai suoi scritti è evidente che Francesco è un uomo convertito a Gesù Cristo, chiave per capire l’assisiate. Quello di Francesco è un cammino di gioia esodale, pasquale: dall’incontro con il lebbroso e con il Crocifisso di san Damiano alla missione come araldo del Gran Re con il saluto di pace, dono del Risorto, fino alla stigmatizzazione/trasfigurazione su La Verna e alla morte vissuta come vera Pasqua personale. Il suo vivere in armonia fraterna con tutti e con tutto il creato in “perfetta letizia”, è segno della sua esperienza di Dio Padre e della sequela del Crocifisso-Risorto nella novità dello Spirito Santo. Francesco è l’uomo della gioia e della letizia.La gioia è il segno credibile della Pasqua, della fede cristiana e della speranza nella carità. Anzi, possiamo affermare con ragione, che la gioia è la misura della verità del Vangelo, come ha scritto papa Francesco nella Evangelii Gaudium e va ripetendo continuamente.

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Francesco bacia il lebboro di M.I. Rupnik

Per il Poverello la gioia è segno e frutto della comunione con Dio, con gli uomini e con il creato; una gioia che è sempre relazionale e pasquale. Una gioia che è frutto ed espressione del “rinnegare se stessi, prendere la propria croce ogni giorno e seguire Gesù Cristo”, nella verità che “chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per il Signore, la salverà” e sarà nella gioia piena! Dall’esperienza della gioia cristiana Francesco propone il paradosso della perfetta letizia.Il paradosso (παρά =contro, e δόξα=opinione) è un ragionamento che provoca la rottura degli schemi del comune sentire per fare emergere la verità più profonda che tiene unita la realtà che appare contraddittoria. In Gesù Cristo in realtà è apparso un Dio che sorprende: un Dio che si manifesta in un falegname, che resta nascosto nella ferialità della vita comune per trent’anni, un Dio che muore in croce per l’uomo (e non un uomo che muore per Dio, secondo l’opinione comune). Ma è in questo paradosso che risiede la grandezza e la credibilità dell’amore del Dio di Gesù Cristo. Francesco d’Assisi vive questa logica evangelica che lo porta a scoprire la vera gioia nel dono sincero di sé senza nessuna pretesa, se non quella di amare con libertà tutti, compresi coloro che non lo accettano e lo rifiutano. La letizia in Francesco è unita, paradossalmente, alla povertà. È la “paupertas cum laetitia”, due termini, secondo la logica del mondo, antitetici e ricomposti da Francesco nella logica pasquale. La perfetta letizia per Francesco e in Francesco proviene dall’amore gratuito del Padre che dona la pazienza nelle avversità e dona di compiere atti d’amore gratuiti. La gioia perfetta è solo in Dio, non nelle cose e in se stessi, ed è frutto della povertà intesa come non appropriazione di nulla, neanche dei meriti.Quanta differenza con la ricerca di essere approvati dagli altri, di essere riconosciuti, di curare la nostra immagine in una cultura dove ciò che non appare non esiste e si finisce per dipendere da quello che si fa, dai risultati positivi, dai successi, dagli applausi. La perfetta letizia ci dice che è Dio la sorgente, il modello e la meta della vera gioia che è sempre

relazionale ed eterna. Tutto ciò che non è eterno non dona la perfetta letizia. Vive la gioia duratura, la perfetta letizia chi riconosce lo sguardo del Padre nel deserto della solitudine e/o dell’umana ingratitudine, nella consapevolezza gustata che sei sempre prezioso ai suoi occhi, sempre amato dall’Eterno Amore, anche quando non conti nulla per nessuno, e chi hai amato e servito ti si rivolta contro. La perfetta letizia per Francesco è quando si vede rifiutato dai frati e lasciato fuori del convento sotto la pioggia, al freddo e al gelo ed essere e sentirsi in Cristo. Francesco d’Assisi ha fatto esperienza di essere amato

dall’Eterno, quindi da tutta l’eternità, da sempre e per sempre, nei suoi limiti e nei suoi peccati. La perfetta letizia gli è donata per la misericordia di Dio. Nel nostro mondo non c’è altro modo che testimoniare autenticamente la fede cristiana al di fuori di questa gioia testimoniata e insegnata dal poverello.

*OFMConv, docente di Teologia fondamentale @fraterdominicus

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La FeLIcItà, tra crIsI e rIsentImento

di Vincenzo Rosito*

Siamo sempre più abituati a indicizzare la felicità. Il ricorso compulsivo e costante allo strumento dei calcoli statistici o demografici ci sta lentamente ma inesorabilmente abituando a indicizzare ciò che a prima vista si presenta come non quantificabile o difficilmente rapportabile a misurazioni quantitative. La felicità non si sottrae a questa modalità di analisi. Rilevarla demograficamente significa infatti inventare o predisporre un indice di misurazione, una scala di riferimenti costanti in funzione della quale avanzare pretese o calcoli statistici. Non è un caso che questo tipo di approcci goda di una particolare popolarità e frequentazione in un periodo di crisi economico-finanziaria come quella che stiamo attraversando. La crisi parte infatti dall’economia, dal mondo dei mercati e della finanza, per attestare in realtà il dominio o il predominio delle stesse logiche economicistiche su altri spazi o ambiti valoriali. Ecco perché paradossalmente, quando la precarietà economica avanza, è la stessa logica economica a colonizzare altri spazi o a presentarsi come strumento utile e indispensabile all’analisi e alla risoluzione di alcuni problemi. In questo panorama la felicità individualmente o comunitariamente esperita diventa materia di economisti e architetti sociali e non lo spazio ampio e profondo dell’immaginazione umanistica. Analizzare oggi la felicità in una prospettiva filosofica significa partire non dalla classica domanda su cosa essa sia per l’uomo contemporaneo, ma sul fatto che la felicità sia diventata materia di calcolo e dunque oggetto di contrattazione o ancor più di controllo da parte dei tecno-analisti sociali e dei loro consulenti economici.La crisi economico-finanziaria che ancora attraversiamo a livello globale è non solo il contesto antropologico e sociale in cui collocare la nostra personale esperienza di felicità, ma a ben pensare è anche lo scenario che sta profondamente condizionando la realizzabilità di progetti individuali e collettivi di felicità.Credo che la generazione che sta vivendo gli anni della prima maturità durante gli anni della crisi economica globale sia intimamente segnata da un tratto profondo e marcato di disillusione nei

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confronti delle prospettive mancanti o delle promesse disattese. È questo probabilmente il tratto che, più di ogni altro, è necessario analizzare quando si parla di felicità in termini di autorealizzazione personale in una chiave costruttiva, progressiva e socialmente collocata. Questa riflessione rimanda, in realtà, a un concetto essenziale e cruciale come l’idea e l’esperienza del risentimento. Il rapporto tra felicità e risentimento costituisce con molta probabilità una lente privilegiata con cui guardare la costruzione prospettica del bene e della comunità nel tempo presente. Il risentimento infatti «sul piano individuale, così come su quello collettivo, nasce per un’attesa di fraternità, per un’istanza sociale che sono state negate. In questa prospettiva, il risentimento è figlio di un’umiliazione, di una promessa mancata, di un conflitto negato, di una ferita non rimarginata, di un desiderio di cambiamento ostruito, reale o immaginario, di un’attesa delusa di fraternità e di solidarietà, che prendono senso nel contesto dell’appagamento dei desideri individuali promesso dalla modernità e dal suo inarrestabile declino» (S. Tomelleri, Identità e gerarchia. Per una sociologia del risentimento, Carocci, Roma 2009, p. 18).Nel risentimento la dinamica sociale e intersoggettiva della reciprocità si manifesta indirettamente nella voce strozzata delle attese deluse, si rovescia nell’atto sommesso e sottomesso del non-emergente in quanto non detto o addirittura non-dicibile. Ecco perché l’immagine intrapsichica del risentimento riguarda innanzitutto la dimensione degli

stati d’animo, lo stato della coscienza personale che potrebbe essere tradotto nell’immobilizzazione rancorosa e scissa di attese tradite, di presupposti mancanti per la realizzazione di desideri annunciati: «Il risentimento è la condizione sentimentale di chi ha per lungo tempo desiderato, ma che non ha potuto realizzare, e sente che non potrà mai realizzare, quanto aveva immaginato» (Ivi, 16). Proprio a partire dal rapporto tra felicità e risentimento si

aprono prospettive per l’elaborazione di nuovi modelli di convivenza e di sostenibilità. Il rischio non è quello di un’umanità infelice, ma quello di una soggettività o di compagini sociali rancorose perché intrise di risentimento intergenerazionale, interculturale o addirittura interreligioso. La dialettica delle promesse disattese o dei progetti espropriati è il luogo stesso da cui partire per la costruzione di un tessuto sociale che sia in grado di ri-dire e di ri-dirsi attraverso un rinnovato lessico della fiducia e della fedeltà.

* Docente di Filosofia teoretica

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rIpensare IL nuoVo umanesImo aLLa Luce deI GestI e deLLe paroLe dI papa BerGoGLIo

di Biagio Aprile*

Un filo rosso attraversa la scelta dei viaggi apostolici di Papa Bergoglio: è l’annuncio della misericordia di Dio. Essa non è solo un criterio di scelta, ma costituisce la fonte dei suoi discorsi e dei suoi gesti che, densi di valore simbolico, ne esplicitano i significati.A cosa allude il pontefice quando invoca la misericordia di Dio indicando Gesù Cristo, “uomo nuovo” per antonomasia e paradigma di un “nuovo umanesimo”? Per capire questa prospettiva rimandiamo alla prima intervista fatta a Bergoglio e pubblicata nel 2013 su La Civiltà Cattolica (n. 3918), quando il Papa ebbe a dire: «Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove e richiede pazienza e attesa». Per Bergoglio la pienezza del tempo corrisponde con la pienezza di Dio presente nella nostra storia. Purtroppo, tutto ciò sembra vanificarsi di fronte alle molteplici forme di ingiustizia e di violenza che aggrediscono continuamente l’umanità. Il Pontefice, però, afferma che questo fiume di miseria in piena non può nulla contro l’oceano di misericordia che inonda e sovrasta il mondo. Bastano queste poche battute, densissime di significato, a farci comprendere perché la questione della misericordia diventi il criterio di scelta dei luoghi che Francesco ha visitato. Si tratta di terre ferite da lotte e sopraffazioni, che, con fatica, hanno intrapreso la via della guarigione. È facile comprendere come in simili contesti i suoi gesti assumono, altresì, un valore terapeutico. Secondo p. Antonio Spadaro, egli tocca le barriere degli Stati come fossero la testa di un malato e vuole toccare le terre ferite ad una ad una, almeno nominandole. Non fa un discorso generale e astratto valido sempre e comunque, ma crea dinamiche dialogiche e relazioni, non solo in forza delle parole, ma con i gesti espressi attraverso tutta la sua persona. Per questo ha toccato le ferite del muro di Betlemme, sul quale ha poggiato la testa in preghiera, la frontiera delle due Coree, Sarajevo, lo Sri Lanka diviso, il mare tra Cuba e gli Stati Uniti.

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giubileo della misericordia

Foto Evandro Inetti

Vogliamo sottolineare, soprattutto, la scelta di iniziare l’Anno Santo della Misericordia aprendo la Porta principale della Cattedrale di Bangui, terra martoriata e povera, luogo di conflitto e segnata da

profonde ferite. Papa Francesco, in quel luogo, ha voluto indicare al mondo che il Vangelo è la via della rinascita ed ha il potere di trasformare questa nostra umanità. La visita del Papa ha messo in luce drammi e problematiche ingenti presenti in quello Stato, come il terrorismo internazionale e la prossimità a terre insanguinate dal fondamentalismo. Ma l’elemento di novità è dato dal fatto che quel luogo dimenticato diventa spazio di misericordia e di grazia. Le

parole rivolte al popolo in quella circostanza hanno ridato forza spirituale e hanno ribaltato il senso drammatico di quella storia: «Oggi Bangui diventa la capitale spirituale del mondo». Con quel gesto il pontefice ha riconosciuto «anche tutti i Paesi che stanno passando attraverso la croce della guerra». La capitale centroafricana che nel secolo scorso era dominata da Bokassa, un sedicente imperatore sanguinario, è stata trasformata dal papa in «capitale spirituale del mondo». Per meglio comprendere la portata di questa eredità spirituale, prendiamo spunto da quanto il prof. Adriano Fabris ha tratteggiato riguardo uno dei cinque “verbi” desunti dal magistero di questo pontificato e consegnati al recente convegno di Firenze, ossia l’abitare: «“abitare” è un verbo che, come viene mostrato anche nella Evangelii Gaudium, non indica semplicemente qualcosa che si realizza in uno spazio. Non si abitano solo luoghi: si abitano anzitutto relazioni. Non si tratta di qualcosa di statico, che indica uno “star dentro” fisso e definito, ma l’abitare implica una dinamica». Il privilegiare i processi, anche se lunghi, come prima ricordato, si tramuta, pertanto, nella cura delle relazioni umane, coltivate con pazienza e amore, unico rimedio agli spazi di potere che soffocano sempre più l’umanità in cerca di una autentica espressione della sua identità.Risulta chiaro, in conclusione, come i gesti e le parole di papa Bergoglio vadano tracciando una via da percorrere che ha come meta l’incontro con l’uomo e la sua umanità in questo frammento di storia che siamo chiamati ad attraversare. Il tempo di questa storia non è da pensare dentro uno spazio chiuso e recintato da muri, ma aperto a tante opportunità offerte da Dio che abita il tempo di questa nostra storia. La Chiesa, fatta di uomini che la abitano, è uno spazio dinamico perché in essa batte il cuore di Cristo, ed in forza di questo è chiamata a diventare luogo d’incontro e di ascolto, di accoglienza e di perdono, di dialogo e di collaborazione. Ognuno di questi atteggiamenti non è un abito da indossare al bisogno, ma un habitus, uno stile di vita da maturare, con pazienza e misericordia. Sembra essere, questo, il sogno di Francesco per la sua Chiesa.

*OFMConv, docente di Patrologia e direttore della Cattedra di dialogo tra le culture

Biagio Aprile

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VIcende e aneddotI deLLa VIGna antonIana meta dI VescoVI e cardInaLI

di Francesco Costa*

(prosegue dal precedente numero) - Come luogo gradevole e ameno, la Vigna era spesso meta di vescovi e cardinali. Tra i visitatori di riguardo, molto amico dell’Orioli, era il card. Bartolomeo Mauro Cappellari di Belluno, camaldolese che, divenuto papa Gregorio XVI (1831-1846), vi tornò nell’estate del 1834 in compagnia del card. Placido Zurla e di Gaetano Moroni, l’autore del noto Dizionario di erudizione storico ecclesiastica. Nell’occasione fece gli onori di casa mons. Orioli, che fu ritratto con gli illustri ospiti in una tela (1834), dal pittore bellunese Pietro Paoletti, come scrive il Moroni nel Dizionario. A ricordo della visita papale, almeno fino agli anni sessanta del secolo scorso, in cima alla parete del primo piano, campeggiava a caratteri cubitali il seguente distico: “Heic sedit Summus Pater, heic de vitae racemos,/ malaque gustavit persica Gregorius” (Qui sedette il Sommo Padre, qui Gregorio gustò uva e pesche).Con l’invasione dello Stato pontificio da parte del regno d’Italia (1870) e la conseguente chiusura del convento dei SS. XII Apostoli a Roma (1871), il Reggente del collegio di S. Bonaventura, p. Salvatore Pelligra da Comiso (Ragusa) (1860-1873) si adoperò per salvare il collegio sistino, insistendo sull’internazionalità degli studenti. Tutto fu inutile, perciò il 19 giugno 1873 anche la Vigna passava al Demanio, che la vendette a privati, dai quali tuttavia, sotto il p. Generale Lorenzo Caratelli da Segni (1891-1904), con regolare strumento del 25 settembre 1895, la Vigna tornava ai Conventuali. Tra i firmatari, del contratto, oltre al Reggente (nominale) del Bonaventuriano p. Luigi Avella (1873-1913), figura il più anziano dei sei Martiri Conventuali della guerra civile spagnola (1936), il B. Dionisio Vicente y Ramos, allora sacerdote di pochi mesi.Nel tempo in cui appartenne al collegio di S. Bonaventura, ma anche dopo il nuovo acquisto, la Vigna antoniniana non era abitata se non nei brevi periodi di vacanza estiva. Dal 1911 i Conventuali, grati ai Gesuiti per la loro disponibilità a confessare gli studenti della Facoltà teologica in via S. Teodoro, permisero ai professori e alunni della Gregoriana di recarsi alla Vigna i giovedì dell’anno scolastico. Messi però in allarme dall’autorità civile su un’eventuale occupazione della Vigna da parte dei “bolscevichi”, nell’agosto 1921 i Superiori, vi trasferirono precipitosamente da S. Teodoro gli studenti di filosofia, che vi rimasero fino al 1924.

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storia e personaggi

Urgeva, infatti, la necessità di alloggiarvi un gruppo di postulanti conventuali della Crociata Missionaria Francescana, e si provvide trasformando il Loggiato della Vigna nell’accennato terzo piano, che nel 1925 accolse appunto i ragazzi della Crociata o «Scuola Apostolica per le Missioni». Ideata dal Procuratore p. Antonio Rocchetti nella Congregazione generale del 1922, accolta con favore dal Generale Domenico Tavani e con entusiasmo dal successore Alfonso Orlich, che la raccomandava ai Superiori maggiori dell’Ordine, la Crociata nel 1924 ebbe anche la benedizione di Pio XI, il papa delle missioni. È stata soppressa dalla S. Sede nel generalato del p. Vittorio Costantini (1954-1960). Da notare che a Roma, sulla Strada felice, i Conventuali avevano il loro Collegio Missionario dedicato a S. Antonio ma soppresso nel 1873 dal governo italiano, che lo adibì, allora, a sede dell’Istituto Anatomico Fisiologico (nell’attuale via Depretis). La Crociata sembrò quindi riaccendere nell’Ordine l’antica fiamma missionaria. Certo è che nel giro di pochi anni essa contava decine di postulanti, ospitati, oltre che alla Vigna, a Montottone nelle Marche, a Civitella del Tronto in Abruzzo, nell’episcopio di Amelia (Terni), qui accolti benevolmente dal vescovo Conventuale mons. Francesco Berti, poi trasferiti (1927) al Sacro convento di Assisi.Alla Vigna antoniniana i postulanti ebbero Rettore il trentaquattrenne p. Francesco Bonfante da Mussomeli (Caltanissetta), che si distinguerà per le benemerenze acquisite nell’Ordine, in specie come Ministro di Bologna, una Provincia che non era la sua, ma nella quale egli lavorò con passione avviandola a un più rapido sviluppo dopo la soppressione del 1866, proseguendo i restauri per la cancellazione delle gravi manomissioni napoleoniche inferte al “Bel S. Francesco” di Bologna e ricostruendo l’augusto tempio dalle macerie della seconda guerra mondiale. Nella Vigna è del p. Bonfante l’artistico altare di marmo all’interno della stanza-cappella di S. Ignazio

(nella foto), dove troneggia da un’elegante cornice ovale “L’Immacolata fra gli angeli”, opera del p. Pasquale Sarullo OFMConv, copia perfetta dell’originale, un tempo nella cappella della Curia generale. P. Bonfante costruì inoltre alla Vigna il lastricato in cemento con vasca al centro, proseguendo il rivestimento fino al portone d’ingresso.Nel 1938 buona parte del terreno della Vigna antoniniana fu espropriata dal governo per la costruzione del viale

intitolato a Guido Baccelli, noto medico romano, uomo politico e archeologo, al quale è dedicata la strada che costeggia la “Passeggiata archeologica”, da lui ideata. Essendo a disposizione del Ministro generale, la Vigna (o convento di S. Antonio alle Terme), è servita di volta in volta come collegio di studi superiori dopo il normale ciclo in Facoltà, come Centro Missionario, come collegio per i professi temporanei iscritti alla nostra Facoltà, come casa per i professi solenni che frequentano le Facoltà/Università romane.

* OFMConv, docente emerito della Facoltà

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“aVe cesare!” : L’epoca d’oro dI hoLLYWood raccontata daI coen

di Vincenzo Laurito*

“Heil Caesar!” (Ave Cesare!), è senza ombra di dubbio tra i film meno riusciti dei fratelli Coen. Lungi dal voler stroncare un sodalizio cinematografico che negli anni ha firmato opere divenute ormai veri e propri cult come “Fargo”, “Il grande Lebowsky”, “L’uomo che non c’era” e via dicendo, questa volta ci permettiamo di uscire dal coro dei fedeli seguaci del duo registico.Nonostante un cast di tutto rispetto, l’omaggio a un certo cinema hollywoodiano a cavallo degli anni tra i ’50 e i ’60, non colpisce nel segno, e l’opera dei Coen si mostra alla fine per essere un film datato, volutamente retrò a beneficio di cinefili nostalgici di quella age d’or. Primeggia sicuramente l’ottima interpretazione di Josh Brolin, protagonista nei panni del “fixer” Eddie Mannix, una sorta di Mr. Wolf di tarantiniana memoria, che lavora per uno dei più importanti studios di Hollywood con lo scopo di tutelare i suoi divi, proteggendoli da scandali e vizi vari, occultandoli agli occhi indiscreti dei paparazzi di turno. Attorno a lui gravita un circo di personaggi, anch’essi chiaro omaggio a celebri divi realmente esistiti. Abbiamo la star dei film acquatici DeeAnna Moran (Scarlett Johansson) ispirata alla famosa Ester Williams, che deve ad ogni costo celare una maternità in arrivo con partner sconosciuto, il giovane cowboy/acrobata prestato al cinema, al quale il regista di punta degli studios (interpretato magistralmente da un Ralph Fiennes in versione George Cukor) non riesce a far dire nemmeno mezza riga di battuta, e poi c’è lui, il protagonista del “Peplum” sulla vita di Gesù di Nazareth “Ave Cesare!” (altro chiaro richiamo a film celebri dell’epoca come “La Tunica” e “Quo Vadis”), il divo Baird Whitlock, interpretato da un gigioneggiante George Clooney, che sarà suo malgrado vittima d’una congiura ordita da un gruppo di sceneggiatori appartenenti al partito Comunista, messi al bando da Hollywood (siamo in piena caccia alle streghe, ma l’accenno al maccartismo è velato ed anch’esso ironico come il resto del film).

Cineforum

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L’atmosfera che si respira durante tutta la visione sembra dunque pervasa da una profonda nostalgia nei confronti dell’epoca che fu, quando la finzione scenica dei fondali dipinti era evidente, le scenografie volutamente grandiose e i dialoghi d’amore riecheggiavano il perbenismo tipico d’una società conservatrice e politically correct. Era quello il cinema dei buoni sentimenti, dove i mandriani della rincorsa all’oro cantavano al chiaro

di luna nello sterminato west, dei musical di Gene Kelly sognando Parigi e New York (ma in proposito i Coen (nella foto) riescono a essere loro stessi con il loro graffiante sarcasmo, quando girano una scena di ballo con il bravo Channing Tatum/Gene Kelly, tra marinai che si dimenano con innocente gaiezza velatamente “omosex”, che sicuramente negli anni ’50 era improponibile).

I Coen si mostrano come al solito geniali a riprodurre tali cliché girando il loro film ripercorrendo quello stile demodé, ma alla fine di tutto la delusione prevale, soprattutto per chi era stato piacevolmente sorpreso da un piccolo grande film come “A proposito di Davis”, accolto positivamente dal pubblico e dalla critica. Ma con i fratelli terribili è così: o si amano o si odiano. E noi preferiamo pensare che “Heil Caesar!” sia stato un tuffo nel passato e nella loro memoria di affamati cinefili, che i Coen hanno inteso regalare ai loro fan anch’essi nostalgici verso un certo tipo di cinema che ormai non si fa più.

*Avvocato, collaboratore del Cineforum Seraphicum

Vincenzo Laurito @Cine_Seraphicum

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appuntamenti

conVeGno su p. KoLBe, martIre Fra I martIrI

Nel 75° anniversario del martirio di p. Massimiliano Kolbe, la Cattedra kolbiana della Pontificia Facoltà teologica “San Bonaventura” dedica l’annuale convegno al tema “Kolbe fra i martiri”, in programma

sabato 7 maggio alle ore 15.30 al Seraphicum.Il convegno vuole sia ricordare il sacrificio del martire di Auschwitz, ucciso il 14 agosto del 1941 dopo aver offerto la propria vita al posto di quella di un padre di famiglia, sia gettare uno sguardo sui martiri di oggi.L’appuntamento sarà aperto, alle ore 15,30, da fra raffaele di muro (OFMConv), direttore della Cattedra Kolbiana e presidente internazionale della Milizia dell’Immacolata, fondata proprio dal martire polacco nel 1917, durante il suo soggiorno di studio nel convento dei frati minori conventuali di via san Teodoro a Roma.Seguirà la relazione di fra aleksander horowski (OFMCapp), direttore di Collectanea Francescana e membro dell’Istituto Storico dei Cappuccini, su “Il martirio nella riflessione teologica e nella predicazione dei maestri francescani del XIII secolo”.Alle 16,30 sarà la volta di fra Andrzej Zając

(OFMConv), direttore dell’Istituto di Studi Francescani di Cracovia sul tema “Massimiliano Kolbe primo martire della carità. Dal significato al senso”.Alle 17,45 sr. mary melone, rettore della Pontificia Università Antonianum, interverrà su “Martirio, martirii, nuovi martiri: il martirologio del XX secolo”.Concluderà il convegno, alle 18,30, fra dinh anh nhue nguyen, preside della Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura”.

La pagina Facebook dell’evento dove seguire gli aggiornamenti

uLtImo appuntamento con “aL dI Là deL concerto”

Quinto e ultimo appuntamento, domenica 15 maggio alle ore 18 al Seraphicum (via del Serafico, 1 Roma), con la rassegna “Al di là del concerto – Musica & Letture” che ha permesso di conoscere i grandi musicisti di ogni epoca, non solo sotto il profilo del genio artistico ma anche come uomini, nella loro quotidianità. Il cartellone si chiuderà con lo spettacolo “Bob Dylan: dal Folk all’età della disillusione” e vedrà la partecipazione di Massimo Baiocco, voce e chitarra; Joseph Servino, chitarra; Giorgio Ceccarelli Paxton, interventi di carattere storico e critico; Francesco Marcolini, letture; Noemi Colitti, elaborazione contenuti multimediali. La rassegna, riproposta anche quest’anno con successo, è sotto la direzione artistica di Pamela Gargiuto e Paola Pegan.Costo di ingresso 10 euro - Ampio parcheggio interno gratuito - Per info: tel. 06 51 50 31

VIsIta aLLa catacomBe deI santI marceLLIno e pIetro

La catacombe dei Santi Marcellino e Pietro è la meta della visita, in programma il 18 maggio alle ore 16, organizzata dal professor Francesco Scialpi (OFMConv) per gli studenti del corso di Introduzione alla Liturgia. Il gruppo sarà guidato da Alessandro Vella, assistente del Reparto di Antichità Cristiane dei Musei Vaticani, e rappresenterà l’occasione per una esperienza diretta su alcuni temi trattati durante il corso.

IL seraphIcum sBarca anche su GooGLe+ e InstaGram

Si ampliano gli spazi virtuali “abitati” dal Seraphicum. Dopo Facebook, Twitter e YouTube (in fase di revisione), la Pontificia Facoltà teologica “San Bonaventura” ha aperto un account anche su Google+ e su Instagram. Nuove opportunità per diffondere le informazioni sulla Facoltà, le iniziative accademiche e culturali ma, soprattutto, per costituire uno spazio di condivisione. Studenti, amici e naviganti, hanno così svariate occasioni per rimanere in costante contatto con la Facoltà, per conoscere la sua lunghissima storia nel panorama accademico, le attività, attingendo a una puntuale lettura francescana sui fatti ecclesiali e sociali.

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Festa dI rInGrazIamento

Si chiuderà ufficialmente giovedì 23 giugno il 112° anno accademico della Facoltà. Come da tradizione, sarà un momento di ringraziamento e di festa, aperto alle ore 18.30 dalla santa messa alla quale seguirà la cena all’aperto nel parco del Seraphicum.Una occasione di ritrovo per studenti di oggi e di ieri, per i docenti e per gli amici che seguono le attività del Seraphicum. Un’opportunità anche per quanti vogliono conoscere da vicino la realtà accademica della Facoltà, l’ambiente di studio immerso nel verde, i docenti e le numerose attività.

La serata sarà accompagnata dalla “Sveglia francescana”, il gruppo di evangelizzazione di strada dei frati minori conventuali del Collegio Seraphicum.

noVItà edItorIaLI

LIBerare La VerItà. percorsI deLLa scuoLa Francescana di orlando todisco

Più che a conservare o a innovare, i francescani tendono a indebolire la forza dogmatizzante di alcuni orientamenti di carattere sia filosofico e politico che teologico. L’assunto teorico generale è che, essendo espressione della libertà progettuale del loro autore, le cose – fenomeni, eventi, prospettive – sono “res et signa”, con un senso che passa attraverso la loro struttura senza però risolversi in essa. In questa cornice teorica viene discussa la diffusa persuasione, secondo cui una prospettiva storiografica è attendibile unicamente in rapporto al suo impianto razionale. Atteggiamento diffuso, di cui qui viene problematizzato l’aspetto intransigente e lo scarso coinvolgimento esistenziale. In tale contesto si ripropongono alcuni tratti degli itinerari – filosofico-scientifico (Bacone), filosofico-teologico (Bonaventura, Scoto) e filosofico-politico (Occam) – dei maggiori rappresentanti della Scuola francescana, con l’intento di mostrarne la fecondità sia teoretica che pastorale a condizione che siano liberati dal peso di una razionalità fondante e autoreferenziale.

(dalla quarta di copertina - Cittadella Editrice, Assisi, 2016, pp. 340).

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«non VoGLIo essere Ladro» Francesco d’assIsI e La restItuzIone deI BenI di raffaele ruffo (Itinerari EDB, Bologna 2015, pp. 110)

«Non voglio essere ladro» è una frase che Francesco d’Assisi ripeteva spesso ai suoi frati per esortarli a non commettere il grave peccato di appropriarsi dei beni che appartengono di diritto a Dio e ai poveri. Si tratta di un invito ad apprendere l’arte della restituzione, vero caposaldo della spiritualità francescana, che si declina nelle azioni di rendere grazie, lodare, testimoniare e condividere.

Il primo capitolo del libro analizza il pensiero di Francesco sulla restituzione a partire dai suoi scritti, il secondo completa la riflessione sulla base delle testimonianze riportate dai suoi primi biografi, mentre il terzo approfondisce il tema dal punto di vista teologico, interrogando i vangeli, la tradizione e il magistero della Chiesa.Nel quarto e ultimo capitolo, il pensiero e l’esperienza del santo d’Assisi dialogano infine con la cultura contemporanea per mostrare l’attualità profetica del suo messaggio.

Wanted - esercIzI spIrItuaLI FrancescanI per LadrI e BrIGantI di Fabio scarsato

(Prefazione a cura della redazione di “Ristretti orizzonti” della Casa di reclusione di Padova - Edizioni Messaggero Padova, 2015, pp. 223)

Briganti che infrangono le leggi, che fanno del male ai loro simili, ma che cercano dei barlumi di salvezza nella spiritualità, spesso frequentando assiduamente gli uomini di fede.È ciò che il lettore troverà tra le pagine di questo libro, storie di ladri e di briganti che sono stati in qualche modo portatori di una loro qual «spiritualità».

Dalla Prefazione a cura della redazione di «Ristretti Orizzonti», giornale dei detenuti e dei volontari della Casa di reclusione di PadovaQuesto libro racconta, iniziando dal buon ladrone crocifisso insieme a Gesù, storie e aneddoti di ladri, briganti, malfattori di vario genere, divenuti poi grandi amici di Dio e testimoni del suo amore.La Misericordia è davvero tale quando riesce a trasformare in santo il peggiore dei malviventi mostrando così che per ognuno di noi c’è sempre speranza!

Segnalazioni a cura di fra emil Kumka, direttore della Biblioteca del Seraphicum

novità in biblioteca

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Fra Germano scaGLIonI VIce presIde deLLa FacoLtà

Fra Germano Scaglioni, docente di Nuovo Testamento, è il nuovo vice preside della Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura” Seraphicum. Il Consiglio di Facoltà, nella seduta dell’8 aprile - alla quale hanno partecipato anche il Gran Cancelliere e Ministro Generale OFMConv fra Marco Tasca con il vicario fra Jerzy Norel -, ha provveduto all’elezione del vice preside che affiancherà fra Dinh Anh Nhue Nguyen, recentemente nominato Preside della Facoltà dalla Congregazione per l’Educazione cattolica. Fra Scaglioni, nato a Fidenza (Pr) nel 1961, oltre alla docenza al

Seraphicum, riveste l’incarico di direttore del bimestrale di teologia Credere Oggi delle Edizioni Messaggero Padova.

La scomparsa deL proF. rIGoBeLLo

Armando Rigobello, nato a Badia Polesine nel 1924, docente di Filosofia morale nelle Università prima di Perugia e poi di Roma, è deceduto nella notte tra il 3 e il 4 aprile a Roma, dove viveva dal 1974. È stato per un venticinquennio – dagli anni ’70 agli anni ’95 – apprezzato docente di antropologia filosofica nel biennio di Filosofia della Facoltà, che lo ricorda con affettuosa stima e gratitudine. Formatosi all’Università di Padova, alla scuola di Luigi Stefanini, ha incentrato il suo magistero intorno alla centralità della persona, intrecciando l’eredità classica con istanze del pensiero moderno e contemporaneo. Il suo primo libro è intorno a Mounier (1955) con un confronto a tutto campo tra il personalismo francese e il personalismo cristiano. La sua produzione filosofica, fino all’ultimo volume del 2014 – Dalla pluralità delle ermeneutiche all’allargamento della razionalità – attiva un duplice movimento, uno all’indietro, verso la matrice socratico-platonico-agostiniana, e l’altro in avanti fino a Sartre e a Camus, attraverso un confronto rigoroso con il ‘trascendentale’ e il ‘regno dei fini’ di Kant. Lo sbocco, in cordiale interlocuzione con Ricoeur, è nella tematizzazione della condizione umana, intorno alla quale egli ha amato soffermarsi, mettendone in evidenza le costanti: il piacere e la sofferenza, la morte e la speranza di immortalità, l’intimità del rapporto interpersonale. In un’epoca in bilico tra suggestioni biocentriche e miraggi postumani, egli ci invita a ritornare all’essenziale vocazione platonico-agostiniana del pensare e a riscoprire la fede cristiana come originaria donazione di senso. (Orlando Todisco)

francescanamente parlando

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nuoVo dottore In teoLoGIa

Esce un nuovo dottore in teologia dalle aule del Seraphicum. Lauretta Viscardi ha infatti sostenuto la difesa pubblica della sua tesi dottorale dal titolo “Nuove esperienza pastorali, ispirate agli insegnamenti di Giovanni Paolo II, come risposta alle sfide della post modernità”. L’atto di difesa della tesi è stato presieduto dal vice preside, prof. Germano Scaglioni (OFMConv), alla presenza del primo relatore, il prof. Roberto Tamanti

(OFMConv), del secondo relatore il prof. Oreste Bazzichi e del censore, prof. Giulio Cesareo (OFMConv).

L’ordInazIone epIscopaLe dI Fra roBerto carBonI

C’era anche una rappresentanza del Seraphicum, il 17 aprile ad Ales (Oristano), all’ordinazione episcopale di fra Roberto Carboni, ex segretario generale per la Formazione dell’Ordine dei Frati minori conventuali, nuovo vescovo della diocesi sarda di Ales-Terralba.Alla celebrazione hanno partecipato, tra gli altri, i vescovi della Conferenza Episcopale Sarda; mons. Giuseppe Piemontese, vescovo di Terni-Narni-Amelia; mons. Gianfranco Girotti, Reggente Emerito della Penitenzieria Apostolica; fra Marco Tasca, Ministro generale OFMConv; fra Salvatore Sanna, Ministro provinciale dei Frati Minori Conventuali di Sardegna; tanti sacerdoti, religiosi e religiose ed alcune migliaia di fedeli. (Nella foto, da sinistra, fra Elias Marswanian, studente; fra Adam Mączka, Rettore del Collegio; fra Felice Fiasconaro, Padre Guardiano; il neo vescovo; fra Louis Panthiruvelil, successore di fra Carboni alla guida della Segreteria per la formazione; fra Domenico Paoletti, docente della Facoltà).

KoLBe e IL trIonFo deLL’amore

È stato presentato il 20 aprile, nella biblioteca del Seraphicum, il libro “Massimiliano Kolbe, il trionfo dell’amore” (LEV) di fra Raffaele Di Muro, direttore della Cattedra kolbiana della Facoltà e presidente internazionale della Milizia dell’Immacolata. Erano presenti, nella veste di relatori, don Giuseppe Costa, Direttore della Libreria Editrice Vaticana; p. Luca Bianchi, Direttore dell’Istituto di Spiritualità della Pontificia Università Antonianum; p. Zdzislaw Kijas, Relatore della Congregazione delle Cause dei Santi e Mons. Alessandro

Saraco, Officiale della Penitenzieria Apostolica. Moderatore dell’incontro p. Ugo Sartorio, teologo e giornalista.

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un pomerIGGIo con La sVeGLIa FrancescanaLa Sveglia francescana, il gruppo di evangelizzazione di strada dei frati minori conventuali del Seraphicum di Roma, ha ospitato dal 23 al 25 aprile una sessantina di giovani provenienti dal nord Italia, per condividere lo “stile” di evangelizzazione adottato in questi anni. Il gruppo ospite, composto da ragazze e ragazzi di età compresa tra i 18 e i 28 anni, seguiti dai frati minori conventuali del nord Italia e dalle suore francescane missionarie di Assisi, ha partecipato - il 24 aprile - a una giornata di evangelizzazione a via del Corso a Roma. Centinaia e centinaia le persone presenti che hanno pregato, cantato, ballato, hanno partecipato all’adorazione eucaristica e si sono confessate, condividendo con i frati della Sveglia francescana una giornata improntata alla fede e alla gioia dell’annuncio.

ItInerarIo paoLIno

Sui passi di san Paolo, per conoscere i luoghi più significativi della sua permanenza a Roma. È l’iniziativa, svoltasi il 30 aprile, promossa dal professor Germano Scaglioni (OFMConv), biblista e vice preside della

Facoltà. Una opportunità di approfondimento per gli studenti che frequentano il corso sul “Corpo Paolino” ma anche per quanti interessati a conoscere meglio l’apostolo Paolo. Nel corso della giornata sono stati visitati i principali luoghi frequentati da san Paolo, accompagnati da un approfondimento della sua storia e degli scritti: la via Appia, le catacombe di san Sebastiano. il luogo del “Domine, quo vadis?”, la chiesa di san Paolo alla Regola, il carcere Mamertino, la Basilica di san Paolo fuori le Mura e le Tre

Fontane, luogo del martirio. Per approfondire la figura di san Paolo, leggi l’intervista di fra Scaglioni a Zenit.

In paroLe Francescane

Io ti dico che, se avrò avuto pazienza e non mi sarò inquietato, in questo è vera letizia e vera virtù e la salvezza dell’anima

SAN FRANCESCO Laudi e preghiere: FF 278

pontIFIcIa FacoLtÁ teoLoGIca “san BonaVentura” seraphIcumVia del Serafico, 1 - 00142 RomaSan Bonaventura informa è a cura dell’Ufficio Stampa del Seraphicum Responsabile: Elisabetta Lo Iacono ([email protected])

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