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«Ma colère n'est que l'effervescence de ma pitié». Motivi e figure nel Miserere di Georges...

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Mon doux pays, où êtes-vous?

Identità perdute da Rouault

ai contemporanei

A cura di

Domenica Primerano

Riccarda Turrina

MIO DOLCE PAESE, DOVE SEI?

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Mostra e catalogo a cura di

Domenica Primerano

Riccarda Turrina

Testi di

Flavia Pesci

Domenica Primerano

Riccarda Turrina

Progetto espositivo e coordinamento

Domenica Primerano

Progetto e realizzazione video

Stefano Benedetti

Computer Grafica, Trento

Trasporti

Liguigli Fine Arts service, Milano

Assicurazioni

Lloyd’s, Milano

Axa Art, Torino

Direttore

Domenica Primerano

Curatorium

Giuseppe Bernardi

Cesare Chierzi

Giovanni Cristoforetti

Marco Giuliani

Paolo Holzhauser

Johann Kronbichler

Conservatore

Domizio Cattoi

Responsabile dei Servizi educativi

Chiara Leveghi

Lorenza Liandru

Promozione e rapporti con la stampa,

segreteria e sito internet

Lorenza Liandru

Sara Meneghini

Progetto grafico e impaginazione

Nicola Acler - enigmy.com

Cecilia Negri - cecilianegri.com

Copertina a cura di

Nicola Acler - enigmy.com

Crediti fotografici

Archivio Fotografico

del Museo Diocesano Tridentino

Guido Bertero

(Robert Capa, Tino Petrelli)

Ezio Colanzi, Milano

Ugo Panella

Roberto Mascaroni/ Saporetti

Immagini d’Arte, Milano

(Georges Rouault)

Schellmann Art, Munich

and the artist, New York

(Alfredo Jaar)

Galleria Weber & Weber, Torino

(Jean Revillard)

MIO DOLCE PAESE, DOVE SEI?

Si ringraziano i prestatori

Elisabetta Alberti

e Roberto Degasperi

Guido Bertero

Ugo Panella

Simone Turra

Luigi Tavola

Alberto Weber

E inoltre

Mauro Alberti

Giovanna Mori

Bettina Mittler

L’iniziativa è stata realizzata

con il contributo di

Museo Diocesano Tridentino

Palazzo Pretorio,

Piazza Duomo 18 38122 Trento

tel. +39 0461 234419

fax +39 0461 260133

[email protected]

www.museodiocesanotridentino.it

©Tipografia Editrice Temi s.a.s.

Tutti i diritti riservati

È vietata la riproduzione

anche parziale dei testi

e delle immagini

ISBN 978-88-97372-93-6

©Georges Rouault

by SIAE 2015

Mon doux pays, où êtes-vous?

Identità perdute da Rouault

ai contemporanei

19 settembre - 11 gennaio 2016

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Il salmo 51, il più noto dei sette salmi penitenziali, vie-

ne spesso chiamato il "Miserere" perché qui il peccatore

esprime il suo pentimento ed invoca la misericordia divina.

Ad esso si è ispirato Georges Rouault, il massimo artista

religioso del Novecento, nelle cinquantotto tavole che ora il

nostro Museo Diocesano presenta, offrendo una ‘prima’ al

pubblico trentino.

In questo straordinario ciclo, concepito negli anni della

Grande Guerra, l’artista affronta il tema del dolore: un dolore

universale che attraversa il tempo e la storia e parla di

miseria, sopraffazione, ingiustizia, ipocrisia, violenza. Ma

proprio in mezzo alla sofferenza, che segna inevitabilmen-

te la vita dell’uomo, Rouault indica in Cristo, crocifisso e

redentore, una prospettiva di speranza e di riscatto.

Nella mostra del Diocesano, ideata per celebrare il cen-

tenario della Grande Guerra, il Miserere di Rouault è messo

in dialogo con immagini fotografiche scattate al termine

del quel conflitto; esse documentano i danni arrecati ai

luoghi di culto della nostra regione e raccontano la grande

desolazione di questi amati territori profondamente feriti

dalla guerra. Vi si riflettono la tristezza e il dolore anzitutto

di quanti fecero ritorno nei loro paesi dopo esser stati sfolla-

ti nel maggio 1915. Si comprende anche il loro coraggio nel

ricostruire case e luoghi della comunità.

Nella mostra si accosta un terzo elemento: fotografie

sui drammi odierni delle guerre in atto o sull’impossibilità

dei profughi di oggi di ritornare nei paesi di origine, perché

sono luoghi di guerra persistenti, di discriminazione e di

violenza. Anch’essi sognano la loro patria, sì bella e perduta

e s’interrogano: "Mio dolce paese, dove sei?" E’ il titolo tratto

dalla tavola XLIV dell’esposizione del Miserere.

Siamo grati al Museo Diocesano Tridentino per proporci

una tale mostra e per aver voluto estendere la riflessione

dal grande conflitto mondiale alle troppe contraddizioni del

presente, affrontando temi ardui, ma inevitabili, come quel-

lo del dolore e della perdita di identità che ogni guerra porta

con sé; infatti, si parla oggi di una terza guerra mondiale

diffusa. La mostra non è soltanto una grande testimonianza

artistica, un riflettere sul passato, ma anche un messaggio

attuale. Attraverso la sua opera, infatti, Rouault individua

nella misericordia il mezzo con il quale l’umanità può ri-

scattarsi dalle proprie colpe: la misericordia non è debolez-

za, ma la forza di chi sa redimersi e redimere. La mostra in

tal senso ci aiuta a comprendere meglio e a vivere il senso

del giubileo straordinario indetto da papa Francesco con la

bolla Misericordiae Vultus, che si aprirà il giorno 8 dicembre

p.v.

† + Luigi Bressan

Arcivescovo di Trento

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Indice

Identità perdute da Rouault ai contemporanei

Domenica Primerano e Riccarda Turrina

Il Miserere di Georges Rouault

(Parigi 1871 - 1958)

«Ma colère n’est que l’effervescence de ma pitié»Motivi e figure nel Miserere di Georges Rouault

Flavia Pesci

Mio dolce paese, dove sei?

Mon doux pays, où êtes-vous?

La vita come sottrazione:

incontro con Ugo Panella

Riccarda Turrina

Biografie

La Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto,

nell’ambito dei propri interventi volti a favorire la crescita

della comunità, stimola la produzione, la promozione e la va-

lorizzazione di attività culturali.

Investire nell’arricchimento dell’offerta culturale ed incenti-

vare il pluralismo delle espressioni artistiche, dei linguaggi,

delle modalità di comunicazione nei confronti di diverse ti-

pologie di fruitori rappresenta un aspetto particolarmente

rilevante per la crescita culturale e sociale della comunità e

a tal fine è opportuno facilitare l’incontro tra diverse realtà

incoraggiandone la collaborazione secondo logiche di rete.

Questo progetto promosso dal Museo Diocesano Tridentino

rientra tra le iniziative sostenute dalla Fondazione nel con-

testo dei bandi annuali per progetti culturali di rilievo in

ambito espositivo, programmati e realizzati in rete con altre

realtà. Come per altre iniziative ad opera del museo, si evi-

denziano la serietà, l’originalità e la capacità di approfondire,

valorizzare e divulgare la conoscenza di importanti temati-

che e artisti.

1110

"Sui luoghi colpiti regna una grigia solitudine di

rovine, ogni giorno che scorre leva come un nuo-

vo lembo sull’estensione dei danni e scopre, in

tanti angoli fuori di mano, le tracce della violen-

za, tanto più gravi quanto per lo innanzi meno

avvertite. Sono un centinaio le chiese del Trenti-

no che portano incisi a lettere di fuoco gli effetti

terribili della guerra, e che giacciono diroccate o

in uno straziante abbandono, spogliate di tutto

l’arredo e di tutti i ricordi che intere generazioni,

nel corso dei secoli, vi avevano raccolto a testi-

monianza della loro fede e della loro pietà"1.

Si apre con queste parole l’appello che la

sezione trentina dell’"Opera di soccorso per le

chiese rovinate dalla guerra", costituita nel 1919

e diretta da don Vincenzo Casagrande, rivolse

"a tutti i cuori gentili che hanno il coraggio di

sacrificare qualcosa" per chiedere un contributo

alla ricostruzione.

Tetti distrutti dalle fiamme, avvolti caduti,

pavimenti in marmo divelti, lapidi frantumate,

tombe scoperchiate e violate, selvagge devasta-

zioni di altari, statue decapitate, arredi rubati

o dispersi: questo lo scenario che emerge dal-

le relazioni redatte nell’immediato dopoguerra

e dalle immagini fotografiche commissionate

da Casagrande, oggi conservate presso il Museo

Diocesano Tridentino. Un quadro che inevitabil-

Iden

tità perd

ute d

a Rou

ault ai con

temp

oranei

mente richiama l’assurda distruzione di luo-

ghi identitari alla quale assistiamo, impotenti,

sempre più spesso.

"Le famiglie tornavano a cercare il devastato

focolare e lentamente le rovine si ripopolavano",

si legge ancora nelle carte d’archivio. Ad atten-

derle, un territorio ferito, oltraggiato. Furono cir-

ca 70.000 gli sfollati trentini — i Flüchtlinge, come

li chiamavano con disprezzo le popolazioni au-

striache — rientrati nei loro paesi d’origine dopo

il forzato esodo, iniziato nel maggio del 1915.

Nasce praticamente in questi anni, con il primo

conflitto mondiale, il fenomeno dei profughi e

dei campi in cui concentrarli. Un’esperienza che

segnò tragicamente le generazioni passate, e

che oggi si ripete, assumendo dimensioni epo-

cali. Nonostante ciò, osserviamo con distacco le

masse di migranti che fuggono dai loro paesi

d’origine, come se la cosa non ci riguardasse.

O meglio, li guardiamo con crescente fastidio

e diffidenza; la loro presenza sconvolge i nostri

equilibri, mette a rischio le nostre fragili certez-

ze. Di fronte a tale tragedia, siamo incapaci di

esprimere quel sentimento al quale, molto pro-

babilmente, anche gli sfollati della Grande Guer-

ra fecero appello: la compassione.

Ed è proprio il richiamo ad un senso di soli-

dale pietà il filo conduttore che raccorda i molti

1 — Appello, Opera di

Soccorso per le chiese

rovinate dalla guerra nel

Trentino, Trento 1919, p. 3.

IDENTITÀ PERDUTE DA ROUAULT AI CONTEMPORANEIDomenica Primerano e Riccarda Turrina

1312

tasselli di questa mostra, un’iniziativa nata per

ricordare il primo conflitto mondiale ma che,

volutamente, intende allargare lo sguardo alle

contraddizioni del nostro tempo, alla dimen-

sione del dolore connessa ad altre situazioni di

guerra, di discriminazione e violenza, che sfiora-

no appena il nostro quotidiano, ben protetto da

rassicuranti abitudini.

Il percorso prende avvio da un video che,

utilizzando una selezione delle oltre quattro-

cento foto d’archivio scattate per documentare

i danni arrecati ai luoghi di culto del Trentino,

evoca le conseguenze, nella nostra regione, del

primo conflitto mondiale. Il visitatore è invitato

ad entrare in uno spazio che lo isola dal resto

dell’esposizione, così da stabilire una relazione

più intima con luoghi forse familiari, resi quasi

spettrali dagli effetti devastanti dei bombarda-

menti. Le chiese, le case, il paesaggio sono av-

volti in un silenzio sospeso e pesante; le stra-

de sono deserte e tutto è immobile. Sono paesi

svuotati dalla presenza dell’uomo; a volte tutta-

via si intravedono le loro sagome che, come om-

bre, si aggirano tra le rovine di una vita che non

potrà più essere uguale a prima. Il loro muoversi

con incredulo stupore in mezzo a tanta devasta-

zione sottende una domanda inespressa: quale

follia ha prodotto tutto questo?

Quella stessa follia che Georges Rouault

descrive con estrema durezza e austera essen-

zialità nelle cinquantotto tavole del Miserere, la

testimonianza più intensa della sua produzio-

ne artistica, alla quale egli affida una sofferta

meditazione sulla condizione del dolore che non

solo la guerra, ma la vita stessa, può generare.

Abbiamo scelto di affrontare il tema della

Grande Guerra attraverso le immagini severe,

forse sconcertanti e talvolta sgradevoli, di colui

che Raïssa Maritain ha definito "il più grande

pittore religioso del suo tempo". Ci pare infatti

che questo ciclo, concepito negli anni del primo

conflitto mondiale ma sviluppato tra il 1922 e

il 1927, mentre si ergevano monumenti enfati-

camente retorici alla guerra da poco conclusa,

proponga invece una riflessione intensa ma

asciutta, e perciò estremamente coinvolgente,

sulle molte devastazioni che hanno attraversa-

to e attraverseranno la storia.

Rouault esprime con forza, e spesso urla, la

sua accusa per l’uomo calpestato, offeso, discri-

minato; condanna la miseria, la sofferenza, la

guerra, che mostrano l’essere umano in tutta la

sua fragilità e impotenza. Ma sia le colpe che la

miseria umana sono abbracciate da un’infinita

pietà, sono illuminate dalla Croce e dalla resur-

rezione di Cristo. In mezzo a tanta disperazione

l’artista riesce a portare una nota di speranza,

che permetterà all’uomo di raggiungere una

sorta di riscatto da un’esistenza fatta di dolo-

re. In un mondo che allontana la sofferenza, un

sentimento con cui non si è più abituati a con-

vivere, o a condividere, Rouault ci ricorda che

l’unico varco aperto al dolore è la misericordia. È

questa la risposta di speranza che l’artista indi-

vidua nel Miserere.

A ispirarlo è il salmo 51, un testo che Gian-

franco Ravasi indica come "la segreta biografia

di anime sensibili, lo specchio della coscienza

vivissima e lacerata di uomini come Dostoe-

vskij, l’atto di accusa contro ogni forma di fari-

seismo ipocrita"2. "Riportami la gioia della tua

salvezza, sostieni in me uno spirito generoso"

recita il Salmo di Davide. Per Rouault la salvezza

può giungere solo ricomponendo quella relazio-

ne, con Dio e con gli uomini, che violenza, so-

praffazione, ingiustizia, ipocrisia hanno infran-

to. L’artista auspica che l’uomo possa compiere

un’autentica rinascita, evocata infatti dalle due

immagini, il Mattutino e il Battesimo di Cristo, "po-

ste non a caso nel punto esatto che separa le

ventotto tavole iniziali dalle ventotto tavole fi-

nali"3, più strettamente connesse al tema del-

la guerra. Il sole annuncia il nuovo giorno, così

come "la luce vera che illumina ogni uomo" (Gv

1,9) segna per il battezzato l’inizio di una nuova

vita.

L’iter del Miserere giunse faticosamente a

conclusione solo nel 1948, con la sua pubblica-

zione; come osserva Flavia Pesci, al cui saggio

in catalogo si rimanda per l’analisi del ciclo,

esso costituisce "l’ideale opera di raccordo nella

ricezione figurativa della guerra fra i due conflit-

ti mondiali e anche oltre, proiettandosi fino alle

tragedie del nostro tempo". E proprio l’atempo-

ralità di queste cinquantotto tavole ci ha indot-

to a metterle in dialogo con immagini fotogra-

fiche che richiamano altre guerre, più o meno

lontane da noi, anche solo geograficamente.

Vicine al nostro vissuto e quasi familiari

sono le immagini della Seconda Guerra Mondia-

le, che fungono da raccordo tra la Grande Guerra

e i conflitti del nostro tempo. Si è scelto di inse-

rire in mostra una ristretta selezione di scatti

realizzati nel 1943 da Robert Capa quando, al se-

guito dell’esercito americano, fu chiamato a do-

cumentare l’avanzata delle truppe alleate. Nelle

sue immagini, come attraverso le sue parole,

Capa racconta la povertà e la paura che accom-

pagnano ogni guerra, ma anche l’accoglienza,

l’emozione e la speranza.

Ritrae i soldati nelle vie di Napoli, mesco-

lati alla gente mentre condividono momenti di

spensieratezza; blocca l’istante in cui il carro

armato, di cui si percepisce il lento movimento

e la straniante dimensione di sorpresa, incontra

sulla sua strada uno scorcio dell’Italia del sud

dove un uomo sistema il basto al suo asinello;

guarda con trasporto al contadino di Troina che,

puntando il suo bastone, indica ai soldati ame-

ricani la direzione presa da un convoglio tede-

sco; racconta di una fragile bambina dall’aspet-

to sgualcito che si aggira incredula fra le ombre

della guerra: lascia penzolare il piccolo fiasco di

vetro e si guarda attorno cercando di capire. Fo-

tografie in bianco e nero, che mostrano come la

cecità della guerra colpisca sempre le persone

più indifese, immagini di una bellezza inarriva-

bile, dove una nuova dimensione umana, a poco

a poco, riprende forma tra le macerie.

Avvicinarsi il più possibile al soggetto, en-

trare nel suo sguardo, respirare la paura e la

polvere, ma anche sentire le stesse emozioni,

vivere la speranza e la bellezza di piccoli fram-

menti di umana e quotidiana normalità, è ciò

che Robert Capa intende comunicare attraver-

so i suoi reportage di guerra. Così scriveva di lui

John Steinbeck:"Capa sapeva che cosa cercare

e che cosa farne dopo averlo trovato. Sapeva, ad

esempio, che non si può ritrarre la guerra, per-

ché è soprattutto un’emozione. Ma lui è riuscito

a fotografare quell’emozione conoscendola da

vicino. Poteva mostrare l’orrore di un intero po-

polo attraverso il viso di un bambino"4.

Una figura di fotoreporter, dunque, che ha

vissuto la propria professione con impegno,

con il desiderio di restituire una visone il più

possibile vicina alla realtà. Ciò ha significato

per Capa affrontare situazioni rischiose, cam-

minare accanto ai soldati, guardare in faccia

la morte, entrare nel vivo della battaglia ma an-

che cogliere gli aspetti più nascosti, quelli lon-

tani dalle azioni di guerra e proprio per questo

in grado di testimoniare la complessità degli

eventi bellici dove anche ogni vittoria, inevita-

bilmente, porta con sé l’eco di luoghi devastati e

di identità calpestate.

La sua avventura fotografica muove dal de-

siderio di stabilire un’intesa empatica con i pro-

pri soggetti, quell’intesa in grado di accorciare

ogni distanza, di cancellare ogni timore perché,

com’era solito affermare, l’importante era ama-

re la gente e farglielo capire. Capa utilizzava la

fotografia come strumento di indagine; il suo

intento era quello di catturare ‘il momento de-

cisivo’, l’istante che avrebbe dato vita a tutto

il racconto, quale testimonianza indelebile nel

percorso della storia.

In mostra viene esposta anche una fotogra-

fia di Tino Petrelli: l’immagine ferma l’intensità

di un insperato abbraccio fra un soldato e, pro-

babilmente, la madre. Il taglio e l’inquadratura

tanto ravvicinata fanno di questa fotografia il

simbolico incontro con l’umanità liberata dal

dolore, dall’incertezza, dalle intollerabili priva-

zioni che ogni guerra porta con sé. La donna ha il

viso seminascosto, avvolto dal morbido affetto

che forse credeva perduto per sempre, nel silen-

zio della storia, fra le molteplici domande sen-

za risposta. Per i reduci della guerra di Russia,

infatti, il rientro a casa non fu sempre così im-

2 — G. Ravasi, "Miserere mei,

Deus". Teologia del peccato e

del perdono nel Salmo 51 (50),

in Georges Rouault Miserere,

a cura di F. Arensi, D. Ca-

tana Vallemani, E. Feggi,

Milano 2007, p. 35.

3 — E. Pontiggia, Meditatio

mortis, in Oltre il buio. Medi-

tazioni sulla morte. Georges

Rouault, Damien Hirst e Mim-

mo Paladino, a cura di A.

Dall’Asta S.I. e E. Pontiggia,

Milano 2011, p. 6.

4 — R. Capa, Leggermente

fuori fuoco (Slightly out of

focus), Aosta 2014, p. 9.

1514

mediato e qualcuno dovette attendere la morte

di Stalin prima di poter ricominciare una nuova

vita. La travolgente bellezza di questa immagine

sta in quel grido di gioia soffocato dall’emozio-

ne, in quel dolore intenso che si sfalda al calore

di un abbraccio, cancellando ogni angoscia del

passato.

Le prime tavole della seconda parte del Mise-

rere, quella più direttamente connessa al tema

della guerra, vengono messe in relazione con le

immagini scattate da Ugo Panella in Sierra Leo-

ne, un paese dell’Africa Occidentale segnato dal

marzo 1991 al gennaio 2002 da una lunga e san-

guinosa guerra civile. Furono decine di migliaia

le vittime di questo conflitto e circa due milioni

i profughi. Uno degli esiti più aberranti di questa

guerra fu l’impiego in azioni militari di ragazzi-

ni tra i 10 e i 15 anni, drogati e costretti con la

forza dai ribelli del Revolutionary United Front a

diventare protagonisti di episodi estremamen-

te cruenti. I ragazzini che camminano tra edifici

bombardati nella regione di Kono, ritratti da Pa-

nella, forse sono quegli stessi bambini soldato,

marchiati sulla fronte come bestie con la sigla

RUF, carnefici e vittime al tempo stesso di una

guerra che ne ha devastato l’adolescenza.

L’uomo può essere un animale spietato,

ci ricorda Rouault. Homo homini lupus è il titolo

della tavola XXXVII del Miserere, nella quale uno

scheletro dal ghigno beffardo e un berretto mi-

litare sulla testa avanza in un silenzio surreale

su un campo desolatamente vuoto cosparso di

teschi. Anche nella tavola precedente Rouault

raffigura uno scheletro mentre osserva, gelido

presagio di morte, l’abbraccio di due commili-

toni in partenza per il fronte. Quello che sembra

un ragazzino posa un bacio sulla guancia del

più anziano, cercando protezione o almeno con-

solazione per quanto lo attende. Un abbraccio

consolatorio che certo i bambini soldato della

Sierra Leone non poterono chiedere né ottenere...

"È invece la metafora della guerra – racconta

Ugo Panella nell’intervista che chiude il cata-

logo, alla quale si rimanda — la fotografia che

ritrae quattro ragazzi dietro al filo spinato. È vo-

lutamente un bianco e nero in controluce, non

si dovevano vedere i volti ma solo intuire le sa-

gome, figure di giovani che a causa dei conflitti

perdono la loro identità".

E di perdita parla anche Walking, la fotogra-

fia scattata nel 1994 da Alfredo Jaar, prodotta

nella versione in mostra nel 2002: "Sono stato

testimone di questa scena in Zaire, oggi chia-

mato Congo, nel 1994. — racconta — Un rifugiato

sta camminando. Il suo aspetto è simile a quello

di molti rifugiati, con i piedi nudi e un bastone.

Egli porta con sé solo un sacchetto riempito con

vecchi indumenti; ha perso tutto. Quest’uomo

era solo uno tra i quattro milioni di profughi

ruandesi alla ricerca di un rifugio al di fuori del

Ruanda o sfollati all’interno del Ruanda. Io non

ero in grado di offrire assistenza a quest’uomo

nel suo viaggio disperato. Mi ricordo di lui che

cammina".

I diritti violati, l’emarginazione sociale,

l’oppressione politica, l’emergenza umanitaria

sono i temi che il cileno Alfredo Jaar affronta uti-

lizzando diversi mezzi espressivi: fotografia, vi-

deo, installazioni multimediali. Per lui l’arte è in-

nanzitutto denuncia; deve scuotere le coscienze

e aprire un confronto con realtà che altrimenti

sarebbero ignorate. La correlazione fra etica ed

estetica è dunque l’elemento portante del suo

modo di operare; servendosi di un linguaggio

non convenzionale fa sì che l’opera d’arte inte-

ragisca con la realtà più scomoda. Ogni lavoro

nasce dalla realtà, non solo studiata ma incon-

trata, quotidianamente vissuta. Jaar infatti, pri-

ma di realizzare le sue opere, entra in contatto

con i luoghi, con le persone, con quelle situazio-

ni che poi diventano l’oggetto della sua indagi-

ne critica. Dice di aver imparato questo modo di

procedere dall’architettura e proprio per questo

si definisce un architetto che fa arte e non un

artista da studio. Un’arte critica spesso scomo-

da e senza compromessi che grida con tutti i

linguaggi possibili come la libertà sia un diritto

inviolabile. Protagonisti delle sue opere, infatti,

sono coloro che subiscono gli effetti delle disu-

guaglianza: le vittime del genocidio in Ruanda,

gli schiavi della miniere d’oro in Brasile, i mi-

granti che tentano di attraversare il confine tra

Messico e Stati Uniti, gli abitanti contaminati

dalle discariche di rifiuti tossici in Nigeria. È l’e-

sperienza personale a conferire a queste opere

l’autentico valore di testimonianza ma anche di

monito contro ogni forma di odio, di ignoranza,

di disimpegno sociale e politico.

Al centro del suo interesse sta il rapporto tra

l’occidente e terzo mondo; per questo ha docu-

mentato in numerosi progetti l’approccio irre-

sponsabile dei media occidentali nei confronti

del continente africano, mettendo più volte in

evidenza le mancanze della comunità interna-

zionale nei confronti dei paesi più poveri.

Alfredo Jaar nell’agosto del 1994 si è recato

in Ruanda per conoscere e quindi documentare

la triste storia di un paese deturpato dalla vio-

lenza. Tra il 1994 e il 2000 ha parlato con i so-

pravvissuti, ha registrato le loro voci, scattato

moltissime fotografie, nelle quali l’artista rac-

conta il genocidio del 1994, quando, in soli cento

giorni, un milione di persone vennero massa-

crate dalle milizie Hutu, mentre la comunità in-

ternazionale rimaneva indifferente.

Walking può essere accostata alla tavola

XXIV del Miserere, nella quale una figura cam-

mina con il capo reclinato, portando sulle spalle

un pesante fardello. Il titolo, Inverno lebbra della

terra, collega questa scena alla stagione "odiata

dalla povera gente"5. Ma lo sguardo di Rouault

volge nella direzione della speranza. Nella ta-

vola V, Si rifugia nel tuo cuore, infelice vagabondo,

un poveraccio, con un pesante sacco in spalla,

sembra voler guidare o solamente accompa-

gnare il cammino di un bambino. Tende la sua

mano, con un gesto carico di dolcezza, e la posa

sulla spalla del piccolo. Aiutano a comprendere

meglio questa immagine i versi dei Soliloques di

Rouault: "La strada è lunga / Scende e poi risale

/ E scende ancora / Fino alla fine dei Tempi. /

Fuggitivi! / La primavera ritornerà / Torna sem-

pre"6.

Nella loro fuga, anche i disperati di Calais

rincorrono una speranza: quella di un’esistenza

migliore, al di là della Manica. Qui nel 2007 Jean

Revillard ha realizzato Jungles, un lavoro fotogra-

fico ancora, nonostante il passare del tempo, di

scottante attualità.

La cittadina francese, da sempre punto di

transito per i migranti verso il Regno Unito, è

diventata un luogo di frontiera interna all’Unio-

ne Europea. I migranti, attualmente circa tremi-

la persone, che non hanno trovano ospitalità e

condizioni di vita decenti nei paesi europei at-

traversati durante il loro difficile percorso, cer-

cano proprio qui un passaggio. La maggioranza

di loro sono afghani, iracheni, iraniani, somali,

eritrei, sudanesi, siriani; provengono quindi da

zone di conflitto o da paesi con dittature. Un

problema di immensa portata che sta causan-

do numerose vittime fra coloro che, per scap-

pare dalla guerra, compiono viaggi estenuanti:

uomini, donne e bambini che spesso trovano la

morte in mare o nei camion abbandonati lungo

la strada.

Quando giungono a Calais stazionano in pe-

riferia in accampamenti occasionali, senza ser-

vizi, senza assistenza e sono spesso vittime di

sgomberi improvvisi e violazioni dei diritti uma-

ni da parte della polizia e del governo francese.

In seguito alla chiusura del campo di Sangat-

te avvenuta nel 2002, sono spuntati in tutta la

zona una serie di campi informali, dove le con-

dizioni di vita sono estremamente precarie. Pic-

coli ripari, sgangherati e colorati si intrecciano

a un sottobosco disordinato, fatto di ramaglie

pungenti che accentuano la desolante situazio-

ne umana, più volte denunciata da associazioni

umanitarie quali Médecins du Monde e France Ter-

re d’Asile. E da anni i migranti protestano, anche

attraverso occupazioni e azioni dirette, affinché

venga riconosciuta la loro condizione di rifugia-

ti.

Le Jungles di Calais, che Revillard racconta

nelle sue fotografie, sono dunque dei ripari di

fortuna situati ai margini della città, lontani da

ogni sguardo compassionevole. I migranti oc-

cupano abusivamente pezzi di terreno incolto

e boscoso, accanto a una fabbrica, nei pressi

6 — Ibidem, p. 196.

5 — G. Rouault, Soliloques,

Neuchâtel 1944, p. 182.

1716

dell’autostrada, in riva al mare; sono angoli ab-

bandonati dove l’umanità in cammino, travolta

dalle guerre e dalla violenza, si ritrova e chiede

aiuto, ammassata in tuguri che nulla possono

contro il freddo inverno dell’egoismo. "Sono un

medico", dice all’intervistatore un ragazzo si-

riano, quasi a giustificare la sua presenza e ha

nello sguardo l’incertezza del futuro e l’impon-

derabile paura della guerra.

Ma a Calais non ci vogliono rimanere per

sempre, anche se spesso sono costretti a sta-

zionare per mesi fino a quando trovano un

camion che attraversa l’eurotunnel. Allora si

nascondono all’interno del veicolo, ma anche

all’esterno aggrappati sotto, sperando di sfuggi-

re ai controlli della polizia francese e inglese che

negli anni si sono fatti sempre più severi. Anche

le donne cercano questo genere di passaggio,

magari mentre i tir sono fermi alle stazioni di

servizio o lungo le aree di sosta in autostrada.

L’attesa dunque è lunga; devono poi pagare i tra-

ghettatori che controllano i parcheggi, schivare

le retate della polizia e la distruzione periodica

delle giungle, effettuata con mezzi cingolati.

Mentre i sostenitori dell’ondata antimigrato-

ria mettono in sicurezza il porto con barriere e

reticolati e un numero sempre più consistente

di poliziotti cerca di impedire gli imbarchi clan-

destini, qualcuno riesce a raggiungere l’altra

costa.

Nelle sue immagini Revillard ha fotografato

solo le capanne, cancellando la presenza uma-

na e accentuando, attraverso l’assenza, il vento

gelido della solitudine, della sofferenza. Sono

dunque i cartoni, i teloni, le coperte a parlare:

dimore sghembe e traballanti, dalle pareti in-

stabili, appoggiate a ramaglie intricate dove i

migranti si riparano dalle intemperie, condivi-

dendo un sogno o forse un’illusione.

Sono le dimore provvisorie di chi ha dovuto

lasciare paesaggi come quello afgano, ritratto

da Ugo Panella, quasi al confine con il Pakistan,

verso il Khyber Pass. Di chi è fuggito dalla pro-

pria terra, dalla propria casa, sapendo che non

vi avrebbe più fatto ritorno. La malinconica don-

na afghana, coperta dal burka e rivolta verso il

lago, esprime forse il presagio di futuri, inevita-

bili abbandoni.

C’è una forte assonanza tra questa imma-

gine e la tavola XLIII, Dobbiamo morire, noi e tutto

ciò che è nostro del Miserere: il titolo è tratto da un

verso dell’Ars poetica di Orazio che "paragona la

vita dell’uomo a quella delle parole che passa-

no e delle foglie che hanno una vita breve e si

seccano"7. Al centro dell’immagine Rouault raf-

figura una giovane donna dallo sguardo malin-

conico; il corpo sottile e sinuoso, la lunga mano

affusolata posata sul mento, i grandi occhi ab-

bassati con grazia, sembra accettare con paca-

ta rassegnazione il destino che la attende. Ana-

loga consapevolezza e composta accettazione

si coglie nella donna ritratta da Panella.

In mostra sono presenti inoltre due scultu-

re di Simone Turra, artista trentino che dà vita

a figure arcaiche, quasi mitiche, che sembrano

ancora fuse alla natura; in dialogo con quelle di

Rouault, raccontano la dimensione tragica del

dolore, i silenzi e gli abbandoni che accompa-

gnano il vivere umano.

La scultura per Simone Turra, prima di di-

ventare interazione fra spazio e figura, è mani-

festazione di un modo di essere e di vivere, è il

racconto tangibile del proprio pensiero esisten-

ziale, è pura bellezza connessa alla semplicità

di un gesto, ma anche alla teatralità della sua

rappresentazione. I corpi colti nel momento

di abbandono, con il capo reclinato, le braccia

che toccano il vuoto, avvolti dal sonno ma an-

che dalla condizione del dolore, accentuano la

tensione della materia che si divincola dentro

forme essenziali ma inquiete. L’artista infat-

ti racconta da dentro le tensioni del legno, del

marmo, del bronzo e i suoi soggetti, prima scol-

piti e indagati sulla carta, sono la personifica-

zione di un mondo interiore che attinge all’i-

nesauribile creatività della natura per cercare

la propria identità umana. Dietro la realtà che

Turra restituisce in morbide linee, dove la ma-

teria si configura come un giacimento di forme

perdute, si percepisce la voce del silenzio, il toc-

co sospeso del mistero. Attraverso le armoniche

soluzioni plastiche l’artista permette al fascino

dell’antichità di emergere e nel contempo si fa

portavoce di una quotidianità percepita come

viaggio nel mondo delle emozioni, le uniche

in grado di sfrondare, attraverso il linguaggio

dell’arte, le intemperie del tempo.

Mon doux pays, où êtes-vous? È il titolo della

tavola XLIV del Miserere e di questa mostra. Una

domanda che racchiude tutto il senso di perdi-

ta di chi assiste impotente alla distruzione dei

luoghi che racchiudono la storia e l’identità di

ciascuno, di chi è costretto ad andarsene af-

frontando viaggi indicibili, per terra e per mare.

Ma Domani sarà bello, diceva il naufrago (tavola

XI) "Domani sarà bello... / pensa egli piangendo /

tenendo il suo cuore / nelle sue mani tremanti e

ghiacciate / il naufrago"8.

Una speranza che attraversa tutto il Miserere

e che Rouault ripone cristianamente nel sacri-

ficio di Cristo in croce e nella Madonna di Fini-

sterre, collocate alla fine del ciclo. Come la Ver-

gine, anche la donna con l’abito rosso ritratta

da Panella tiene in braccio il suo bambino: dalla

finestra di un minareto guarda fiduciosa verso

la città che le sta davanti. Perché "Capita che tal-

volta il cammino sia bello" (tavola IX).

8 — Georges Rouault. Opere

grafiche. Catalogo icono-

grafico, schede a cura di

P. Bellini, C. Colzani, Ch.

Cremona, C. Morganti, B.

Spadaccini, Milano 2015,

p. 70.7 — Georges Rouault. Opere

grafiche. Catalogo icono-

grafico, schede a cura di

P. Bellini, C. Colzani, Ch.

Cremona, C. Morganti, B.

Spadaccini, Milano 2015,

p. 134.

1918

Simone Turra

Torso

2004

bronzo, lunghezza 126

Simone Turra

Sonno Francesco

2012

bronzo, 160x60x50 cm

2120

Georges Rouault

(Parigi 1871 - 1958)

MISERERE

23

22

Motivi e fig

ure n

el Miserere d

i Georg

es Rou

ault

Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt

Virgilio, AEn., I, 462

La violenza espressiva dell’arte di Georges Rouault affonda le proprie

radici in un profondissimo senso morale, e si nutre di figurazioni ico-

niche e crude che sembrano appartenere a un immaginario primitivo. I

suoi personaggi ci parlano dell’universalità del dolore e del degrado della

condizione umana attraverso un vocabolario scarnificato, che li racchiu-

de entro energiche e scurissime linee di contorno, quasi un cloisonné, e

hanno sempre fatto ricordare il tirocinio dell’artista nella bottega di un

restauratore di vetrate. Ai sogni e alle visioni dell’arte simbolista si so-

stituisce qui una rappresentazione del mondo dai toni arcaici e voluta-

mente ‘brutali’, in grado di dar forma alla desolazione dei derelitti, come

accusa, emozione e compassione insieme. È una scelta radicale, intrisa

di "liquido corrosivo, un liquido amaro che ci trasuda in cuore"1, che vuole

sottolineare "le trait de la violence du message, de la colère, de la pitié, de

la démonstration excessive du banal et du cruel dans l’unique dessein de

faire de la médiocrité une horreur écoeurante"2.

Nella sensibilità dell’artista, questa predisposizione a sentire e dar

voce alla debolezza e alla conseguente miseria morale dell’uomo, acco-

gliendola però nella propria visione di credente, acquisirà inevitabilmente

un senso speciale con l’esperienza della guerra, che incarna il culmine

di questa tragica devastazione, il momento in cui l’insensata efferatezza

della condizione umana si manifesta in tutta la sua violenza. L’esito cen-

trale dell’opera di Rouault, che prenderà la forma delle cinquantotto tavo-

le del Miserere, benché concepito già prima dello scatenarsi del conflitto,

prenderà così un significato molto più totalizzante, tanto da invadere la

produzione di un’intera vita. Lo si coglie già nelle parole premesse dall’ar-

1 — G.L. Verzellesi, 1954,

come citato da Paolo

Bellini: "In Italia merita

ricordare una riflessione

contenuta in un articolo

redatto anteriormente alla

mostra tenuta a Milano nel

1954 da G.L. Verzellesi, che

osserva come nelle opere

di questo artista ci sia

una quantità formidabile

di liquido corrosivo, un

liquido amaro che ci

trasuda in cuore, mentre lo

sguardo penetra le forme.

Il grido delle immagini

cade in noi, ripetendo

certe oscure verità che i

farisei vorrebbero ancora

dissimulare dietro un

sorriso"; P. Bellini, La storia

e il senso dell’opera grafica di

Rouault, in Georges Rouault.

Opere grafiche. Catalogo

iconografico, schede a cura

di P. Bellini, C. Colzani, Ch.

Cremona, C. Morganti, B.

Spadaccini, Milano 2015,

p. 12.

«MA COLÈRE N’EST QUE L’EFFERVESCENCE DE MA PITIÉ» Motivi e figure nel Miserere di Georges Rouault

Flavia Pesci

2524

2 — M. Restellini, Georges

Rouault. Les chefs-d’oeuvre

de la collection Idemitsu,

catalogo della mostra,

Paris 2008, p. 18.

3 — Prefazione di Rouault

al Miserere, pubblicato in

George Rouault. Miserere,

catalogo della mostra

a cura di F. Arensi, D.

Catana Vallemani, E. Feggi,

Cinisello Balsamo, Milano

2007, pp. 48 ss.

4 — Lettera a Georges

Chabot, riportata in

F. Chapon, I. Rouault,

Rouault, catalogue raisonné

de l’oeuvre gravé, 2 voll.,

Montecarlo 1978, I, p. 33.

5 — P. Bellini, Il senso del

Miserere, in Georges Rouault,

catalogo della mostra

a cura di R. Chiappini,

Milano 1997, p. 150.

6 — P. Bellini, Miserere. Intro-

duzione alla serie, in Bellini

2015 cit., pp. 47-48.

7 — Per la storia detta-

gliata della genesi e della

realizzazione della serie si

veda Bellini 2015 cit., pp.

47-48.

8 — Bellini 2015 cit., p. 12.

9 — Prefazione di Rouault

al Miserere, come riportato

in George Rouault. Miserere

2007 cit., p. 49.

10 — Idem, p. 17 nota 25.

tista alla serie stessa, in cui afferma che "la pace sembra di rado regna-

re su questo mondo angosciato da ombre e parvenze"3. Se per l’artista,

nato nel 1871, può restare psicologicamente sullo sfondo la conoscenza

del realismo e della critica sociale di Honoré Daumier — senza tuttavia

mai riprenderne le valenze caricaturali — rimane senz’altro fondamentale

l’alunnato formativo presso Gustave Moreau, il visionario precursore del

simbolismo, anche se diversamente religioso e ‘profetico’, al quale del re-

sto lo stesso Miserere verrà significativamente dedicato.

Opera dalla lunga e travagliata gestazione, ma che va considerata tra

i più grandi capolavori dell’incisione novecentesca, la serie conobbe in-

fatti vicende complesse che si protrassero fino all’esito finale della sua

pubblicazione, nel 1948 (e persino oltre). Il Miserere rappresenta di fatto il

testamento spirituale dell’artista, in cui egli stesso credeva di aver messo

il meglio di sé, una sorta di "confession à la fois, je l’espère plastique et

spiritualiste"4 cui attribuì sempre un’importanza essenziale, l’espressio-

ne più eloquente della sua cospicua e peculiare produzione grafica. Si è

giustamente rilevato come anche la critica coeva abbia "sottolineato l’ec-

cezionalità di un’opera così inconsueta: Roger-Marx la definì ‘il grande te-

stamento del pittore’ e Chabot, quasi a fargli eco, aggiunse: ‘Quest’opera è

impressionante, mette persino paura’"5.

Il progetto fu ideato nelle sue linee generali già dal 1912, sull’impulso

del trauma emotivo causatogli dalla morte del padre, inizialmente come

raccolta d’incisioni suddivise in quattro parti (di cui una recava fin da

questo momento il titolo Miserere) da riunire poi in un unico album. Sa-

ranno però gli avvenimenti drammatici del primo conflitto mondiale, con

la crescente efferatezza letale delle nuove armi, a determinarne il nucleo

forte e distintivo, con l’inserimento di una parte espressamente dedicata

alla guerra, in una sorta di lamento spirituale intimo e al tempo stesso

universale, intensamente religioso ed evangelico, che si leva da un’uma-

nità immersa nella solitudine e nel dolore, la cui unica speranza è il con-

forto e il perdono divino.

Sempre, a proposito di questi soggetti, si è rimandato alle grandi

esperienze del passato, soprattutto grafiche, fissate visivamente da Cal-

lot e Goya, i cui Desastres condensavano in un potente universo d’immagi-

ni tutto l’orrore, l’insensatezza e la crudeltà della guerra. Ma di certo nello

sviluppo di questa sequenza di figurazioni, rigidamente stabilita e scan-

dita dallo stesso Rouault, dovettero essere anche più importanti le decli-

nazioni diverse e personali che dell’esperienza devastante del conflitto

mondiale diedero tanti artisti a lui contemporanei, cui inevitabilmente

dovette guardare: dall’inconsolabile disperazione delle commoventi

stampe di Käthe Kollwitz, in particolare le sette xilografie del 1922-23, che

esprimono il dolore per la morte del figlio caduto in battaglia nel 1914, alla

denuncia sociale di George Grosz e alla satira politica di Otto Dix, che nel

1924 esegue la serie in cinquanta tavole intitolata appunto Krieg (Guerra),

fino all’emblematica Guernica di Picasso, del 1937. Verrebbe quasi da af-

fermare, viste le date della sua pubblicazione, che il Miserere sia l’ideale

opera di raccordo nella ricezione figurativa della guerra fra i due conflitti

mondiali e anche oltre, proiettandosi fino alle tragedie del nostro tempo.

Scaturita dallo stesso clima storico cui avevano dato forma le immagini

di quegli artisti, il Miserere è però il frutto unico e particolare nato dalla

speciale miscela di religiosità e umanesimo al cuore di Rouault, che lo tie-

ne sempre al di qua del limite, mai oltrepassato, dell’angoscia devastante

e sconsolata o della ribellione politica e sociale. Se il titolo di una tavola

esplicitamente rimanda a quella sorta di ‘pessimismo cosmico’ virgiliano

del sunt lacrimae rerum ("la storia è lacrime, e l’umano soffrire commuove

la mente", cfr. tav. XXVII), la sua particolare religiosità si sintetizza nella

supplica biblica del Miserere mei, il grido alzato a Dio da Davide peccatore,

posto nella tavola d’esordio della raccolta, che lascia sempre aperta una

possibilità di redenzione.

Ai primi soggetti della serie, cui mette mano, per sua stessa affer-

mazione, già nel 1914-18, in pieno conflitto bellico, seguono all’aprirsi del

nuovo decennio l’esecuzione di disegni a inchiostro di china e delle pri-

me tavole, dopo aver preso accordi col mercante d’arte, editore e scrittore

Ambroise Vollard per la realizzazione delle illustrazioni alle Réincarnations

du Père Ubu in cambio della pubblicazione della raccolta di opere che già

considerava il Miserere6. Dal primitivo progetto di un’opera suddivisa in

quattro sezioni, con un corredo iconografico relativamente limitato, si

giunse presto a una sua riformulazione focalizzata sui temi del Misere-

re e della guerra, su cui l’artista andò progressivamente concentrandosi,

fino a elaborare un centinaio d’immagini7. Quando Vollard, alla disponi-

bilità dei disegni di Rouault, decise di farne eseguire una trasposizione

fotomeccanica, apparentemente all’insaputa dell’artista, questi fu allora

incalzato a dedicarvisi di fatto, tra 1922 e 1927, con un impegno assiduo,

lavorando ogni sera fino a tarda notte per almeno sei anni, in solitudine e

concentrazione assoluta. Non ancora organizzate in un’autentica edizio-

ne, alcune tirature circolarono prima di quella ufficiale, come sappiamo

da un’esposizione del 1926 ai Quatre-Chemins, meritando gli elogi di un

anonimo commentatore sul "Journal des Débats", che ne raccomandava

la visione perché "è tutto un dramma e una preghiera"8. Entro il 1938 le

lastre furono tirate in 500 esemplari dallo stampatore Jacquemin per poi

essere per sempre biffate; l’anno seguente un contratto ne fissava i ter-

mini della pubblicazione, da eseguirsi in due volumi con un testo iniziale

di André Suarès, col titolo Miserere et Guerre. Pochi giorni dopo, tuttavia,

l’improvvisa morte di Vollard nel luglio del 1939 e lo scoppio della Seconda

Guerra Mondiale, il primo settembre, dovevano bloccarne ancora a lun-

go il cammino verso l’edizione definitiva. Ma quanto questo lavoro fosse

fondamentale per Rouault emerge dalla tenacia con cui ha voluto e dovu-

to inseguire le sue stampe per anni, facendo causa agli eredi Vollard dai

quali solo nel 1947 otterrà la restituzione, con vicende e ritardi infiniti che

lo porteranno persino a dichiarare nella presentazione dell’opera, affidata

2726

11 — Ora citato in Bellini,

1997 cit., p. 153. Sul rappor-

to tra Moreau e Rouault si

veda inoltre C. Scassellati

Cooke, The ideal of history

painting. Georges Rouault

and other students of Gusta-

ve Moreau at the Ecole des

Beaux Arts, Paris, 1892-98, in

"The Burlington magazine",

CXLVIII, 2006, 1238, pp.

332-339.

12 — "Vous êtes attirés

par le laid exclusivement,

vous avez le vertige de la

hideur": Léon Bloy, L’inven-

dable, in Journal, vol. I, Paris,

1999, p. 584, ora citato in G.

de Beaupte, George Rouault,

le Léon Bloy de la peinture,

in "Revue Catholique In-

ternationale. Communio",

XXXIX/4, Paris 2014, pp. 1-5.

13 — Cfr. de Beaupte 2014

cit., p. 4 nota 22.

14 — Come citato da G.

Galeazzi, Umanesimo e

umanità di Georges Rouault,

in George Rouault 2007 cit.,

pp. 18-26 (p. 18).

15 — Si veda Rouault. Il circo,

la guerra, la speranza. Opere

grafiche dalle collezioni mila-

nesi, catalogo della mostra

a cura di E. Pontiggia,

Milano 2002, pp. 22-23

(cit. in Bellini 2015 cit., p. 17

nota 27).

16 — M. Bona Castellotti, Il

Miserere di Georges, in "Trac-

ce.it. Rivista internazionale

di Comunione e Liberazio-

ne", n. 5, maggio 1997.

17 — Ibidem.

18 — Cfr. L. Carrier, La Ro-

chelle. Musée des Beaux-Arts.

Le Miserere de Georges

Rouault, in "La Revue du

Louvre", 5/6, 1980, a. XXX,

pp. 373-374 (p. 374)

19 — Prefazione di Rouault

al Miserere cit.

20 — B. Doering, Lacrimae

Rerum-Tears at the Heart of

Things: Jacques Maritain and

Georges Rouault, in "Essays

in Honor of Jacques Mari-

tain", a cura di J.G. Trapaci

jr., Washington 2004, pp.

204-223 (pp. 213-223).

infine alla società d’edizioni "Étoile filante": "Malgrado un certo ottimismo

di fondo, ho passato ore difficili e ho dubitato di poter vedere la pubblica-

zione di questo lavoro concluso già da molto tempo e al quale ho sempre

attribuito un’importanza essenziale"9. Né la storia si ferma qui: nel 1951

un’edizione del Miserere "riproduce fotomeccanicamente e in formato ri-

dotto le tavole della serie, sotto alle quali si trova la riproduzione del titolo

scritto a mano dall’artista, anch’esso riprodotto fotomeccanicamente"10.

In rapporto a una lettura stilistica di questa ‘imagerie del dolore’ può es-

sere utile tornare a ciò che è stato detto dell’arte di Rouault da chi, vicino

a lui, poteva meglio coglierne la particolare religiosità. Pur nelle diversis-

sime accezioni misticheggianti di cui è intrisa la visione estetica del suo

maestro Moreau, questi seppe già cogliere lucidamente la natura più pro-

fonda dell’opera del proprio discepolo: "Voi amate un’arte grave e sobria

e, nella sua essenza, religiosa"11. Affascinato dalla corrosiva personalità di

Léon Bloy, che dopo una breve amicizia lo accuserà invece, nella sua criti-

ca feroce, di essere attirato sul piano artistico esclusivamente dal brutto,

e di avere una morbosa attrazione per l’orribile12, Rouault resta comunque

talmente suggestionato dal personaggio, che si potrebbero attribuire a lui

stesso le parole dello scrittore e polemista francese "ma colère n’est que

l’effervescence de ma pitié"13. Ancora più vicino è lo sguardo di Jacques

Maritain che gli fu invece amico fino all’ultimo, e che ne apprezzava "que-

sta sua arte, dalla violenza così sfrenata, così presa dai contorni atroci del

peccato e della ferocia umana, ma al contempo e sempre maggiormen-

te imbevuta di indicibile pietà"14. Risvolto di questo messaggio brutale

è un’aperta ‘sgradevolezza’ stilistica di Rouault, le cui immagini hanno

dei toni arcaizzanti volutamente maldestri, che rifuggono da ciò che egli

stesso chiamava "il bello fisso"15. Nell’arte di Rouault si è, non a caso, evi-

denziata una certa "severità neomedioevale: nei volti di Cristo è facile ri-

trovare archetipi bizantineggianti o i primitivi italiani anteriori a Giotto o

la scultura lignea"16, ma "è presumibile che alla piacevolezza abbia rinun-

ciato per ragioni oltre che di istinto, di protesta"17 e che in definitiva le sue

immagini assumano, proprio in virtù di questa severità e semplificazione,

una particolare forza iconica ed evidenza comunicativa.

Al fondo di tutti questi aspetti stilistici s’innerva il paradosso della

straordinaria pittoricità delle sue stampe, in cui non prevale mai il carat-

tere grafico e lineare. In questo Rouault si distacca da molti artisti del suo

tempo, soprattutto dai suoi contemporanei espressionisti, che cercavano

effetti intrinsecamente basati sul segno, ed evidentemente in funzione

dei materiali e dei processi con cui erano stati realizzati. Semmai, sem-

bra condividere con gli espressionisti una matrice di rigore medievalista,

certo in rapporto alla sua fede ardente, che non può non emergere nel

suo stile, segnato anche dall’eredità del gotico francese, con le antiche

vetrate delle cattedrali già tanto ammirate in gioventù presso il suo pri-

mo maestro. A partire dall’anomalo processo di trasferimento dei disegni

originali del Miserere su altrettante lastre riprodotte fotomeccanicamente,

l’evoluzione tecnica della serie vede Rouault adottare i metodi d’incisione

più vari. Si mescolano e sovrappongono così, su una base all’acquafor-

te, all’acquatinta o alla cera molle, l’uso del bulino, puntasecca e rotella,

ma anche di strumenti meno convenzionali come raschietti, lime, bruni-

toi e carte vetrate, in sperimentazioni certamente non ortodosse, ma che

lo portano a risultati diversi rispetto a ogni altro incisore18. Il risultato

furono le grandi e potenti stampe che uniscono la vigorosa semplicità

della pennellata tipica dell’artista a effetti prossimi a quelli del monotipo,

tecnica che pure egli praticò, con neri intensi e una ricca gamma di grigi

densi e ‘fangosi’, linee diversificate, abrasioni e graffi. L’assenza di colore

e la monumentalità delle forme di Rouault imprimono a queste immagini

un’imponente gravità che ne viene ulteriormente aumentata se si guarda

alla serie nel suo insieme, come lo stesso artista raccomandava. Un lavo-

rio incessante protrattosi, come si è detto, per almeno sei anni, che lo vide

rilavorare a lungo le matrici — mai pienamente soddisfatto nel corso del

lavoro — fino a creare dodici o persino quindici stati successivi19. Insom-

ma: piegando ogni tecnica calcografica alla resa pittorica delle sue opere

su tela, l’approccio sperimentale di Rouault nell’incisione resta assoluta-

mente fuori da ogni regola.

Come tutto questo prenda forma nelle tavole del Miserere lo si intra-

vede seguendo l’esito di un processo ideativo complesso quasi quanto

quello tecnico, che nella sequenza fissata dall’artista sembra ancora in

rapporto con un linguaggio didascalico e primordiale, una sorta di Biblia

pauperum al pari dei cicli di affreschi o delle grandi vetrate colorate delle

chiese medievali. Al centro resta sempre la raffigurazione dell’uomo: fe-

rito, franto, deformato, come ‘Uomo dei dolori’ a cui non resta che offrire

la propria solitudine a chi lo percuote. Persino il continuo ricorrere dei

personaggi del circo e dei volti di Cristo, sintetici come immagini popolari

con Crocefissi e Volti santi, ci fa vedere quanto la maschera del clown non

sia in fondo dissimile dalla maschera di sangue della Vittima sfigurata

e rifiutata dagli uomini, ferita e derisa dell’Ecce Homo. Il titolo, lo si è det-

to, riecheggia il salmo penitenziale di Davide che invoca la misericordia

di Dio. Ma se la vicinanza continua della guerra è una fonte evidente per

l’artista nello sviluppo concettuale della serie, il tema del dolore assume

una valenza più universale: ecco che il titolo iniziale Miserere et Guerre si

ridurrà a Miserere, anche solo per una scelta di evidenza grafica e di inci-

sività, senza per questo rinunciare in alcun modo alla centralità del tema

e del dramma bellico.

Sono state proposte alcune chiavi di lettura interpretativa rispetto alle

tante immagini che Rouault avrebbe selezionato per la pubblicazione fi-

nale, tra le cento inizialmente previste, per guidare l’osservatore — verreb-

be quasi da dire il ‘lettore’ — nel percorso visivo, che può presentare salti

e ritorni non immediatamente comprensibili. Così, ad esempio, rispetto

a una mera elencazione tematica prevalente negli studi critici, Bernard

Doering tenta un approfondimento che unisce al puro motivo iconogra-

29

28

fico un contenuto etico, morale o religioso, riunendo in poche ma signifi-

cative categorie i soggetti dei poveri coi loro oppressori, con le ingiustizie

perpetrate dalle leggi umane; la tristezza estraniante dei clown; il degra-

do del peccato nelle prostitute; lo spaesamento dei rifugiati dalla guerra

e dalla miseria; l’universo simbolico del Cristo come uomo-che-soffre20.

Nell’ultima, recentissima occasione espositiva, Paolo Bellini ne suggeri-

sce piuttosto una suddivisione logica in dieci momenti progressivi, che

riuniscono le tavole col Cristo sofferente, l’angoscia dell’uomo, i pur pre-

senti momenti di speranza, le diverse immagini della donna, l’identifica-

zione dei perseguitati impotenti e dimenticati, le ricorrenti situazioni ne-

gative, la speranza della salvazione, le numerose raffigurazioni incentrate

sulla guerra, fino all’epilogo in cui Cristo è il solo esempio di fiducia da

seguire in una vita di sofferenze21.

Sebbene nella quasi totalità delle tavole il messaggio sia affidato,

nell’efficacia della loro espressività, alla rappresentazione di grandi figu-

re in primo piano che occupano tutto lo spazio dell’immagine, altre vol-

te il tema della miseria umana è declinato mediante la raffigurazione di

paesaggi, più o meno popolati. Se la Rue des Solitaires (1922, tav. XXIII) è

un luogo desolato ma reale dell’allora periferia parigina, che diventa per

traslato il palcoscenico buio e vuoto di tante solitudini urbane, in Au pays

de la soif et de la peur (1923, tav. XXVI), che suona come il luogo di una bi-

blica condanna divina, si arriva già al sentore della guerra, in un esilio

infernale che è quello degli sfollati. Ma certo il lamento per le devastazio-

ni belliche è ancora più esplicito in un’immagine come Mon doux pays où

etes-vous? (1927, tav. XLIV), che esprime nella lingua ora familiare del pae-

saggio urbano bombardato l’estraniante condizione dei sopravvissuti. La

guerra rappresentata nelle gerarchie militari, negli ordini disumani, nella

banalità opprimente del male, riemerge però in molte altre tavole: dal di-

stacco del giovane dal padre al momento della chiamata alle armi, quasi

una partenza del Figliol prodigo, presago della morte che già lo aspetta

(Ce sera la dernière petit père!, 1927, tav. XXXVI), all’atroce condizionamento

sui rapporti tra gli uomini sviliti dalla guerra (Homo homini lupus, 1926 tav.

XXXVII), alla tronfia vanità degli ufficiali, descritti con un graffiante sarca-

smo prossimo alle analoghe figure di Otto Dix (Plus le coeur est noble moins

le col est roide, 1926, tav. XLIX). Ma quando all’orrore della guerra si fa argine

il mondo femminile (Bella matribus detestata, 1927, tav. XLII), ecco che su-

bito riemerge l’immaginario religioso che rievoca le Madonne medievali.

Il "duro mestiere di vivere" (1922, tav. XII) è rappresentato però, con

cosciente paradosso, anche tramite l’immagine ricorrente dei pagliacci,

a cui dedica dipinti e interi cicli d’incisioni. Qui ne se grime pas? (1923, tav.

VIII, con un’interessante variante non finita in collezione privata22) pone

la sua domanda nei semplici termini di un clown triste che ci guarda;

ma ogni banalità scompare nell’ambiguità della bocca e degli occhi, che

assumono contemporaneamente un’espressione di tristezza, rassegna-

zione e accusa. Nella poetica di derivazione simbolista, l’artista è visto

21 — Bellini 2015 cit., p. 15.

22 — L. Tavola, Inediti di

Georges Rouault, in "Grafica

d’arte", a. XIV, 54, apri-

le-giugno 2003, pp. 16-21

(p. 19 n. 4).

23 — G. Rouault, lettera

al critico d’arte Edouard

Schuré nel 1909, citata da

F. Hergott, Rouault, Paris

1991, p. 15.

come profeta e martire, guidato da una visione più penetrante nell’accusa

verso la società e la denuncia della sofferenza. Si potrebbe persino andare

oltre, nel paradosso che vede Dio stesso farsi ‘risibile’ come un pagliaccio,

subire gli oltraggi e gli scherni, fino alla morte in croce. È il ‘mondo alla ro-

vescia’ delle Beatitudini ("Beati voi che ora piangete, perché riderete" [Luca

6, 21]); ma l’artista riesce a sorprenderci ancora nella sua più intima ed

estrema rivelazione, dicendoci quanto in quei tanti clown egli abbia in re-

altà rappresentato se stesso: "Ho visto chiaramente che il ‘pagliaccio’ ero

io, eravamo noi, quasi tutti noi... Quest’abito bello e coperto di lustrini ce

lo dà la vita. Siamo tutti pagliacci, in misura maggiore o minore, portiamo

tutti un abito coi lustrini, ma se ci sorprendono come io ho sorpreso il vec-

chio pagliaccio, oh! Allora chi oserà dire di non essere colto fino al fondo

delle viscere da un’incommensurabile pietà?"23.

3130

Georges Rouault

(Parigi 1871-1958)

Miserere

tav. I

"Miserere mei Deus,

secundum magnam

misericordiam tuam"

"Pietà di me, o Dio,

secondo la tua

misericordia"

(Salmo 50-51)

1923

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

33

32

tav. II

Jésus honni...

Gesù deriso...

1921

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. III

Toujours flagellé

Sempre flagellato

1922

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

3534

tav. IV

Se réfugie en ton coeur,

va-nu-pieds de malheur

Si rifugia nel tuo cuore,

infelice vagabondo

1922

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. V

Solitaire, en cette vie

d’embûches et de malices

Solo, in questa vita fatta

di insidie e di malizie

1922

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

3736

tav. VI

Ne sommes-nous

pas forcats?

Non siamo forse

degli schiavi?

1926

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. VII

Nous croyant rois

Noi che ci crediamo dei re

1923

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. VIII

Qui ne se grime pas?

Chi non si mette

una maschera?

1923

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

39

38

tav. IX

Il arrive parfois que

la route soit belle...

Qualche volta

il cammino è bello...

1922

acquatinta e puntasecca

rotella su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

4140

tav. X

Au vieux faubourg des

Longues Peines

Nella vecchia periferia

Lunghe Pene

1923

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. XI

Demain sera beau,

disait le naufragé

Domani sarà bello,

diceva il naufrago

1922

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

4342

tav. XII

Le dur métier de vivre...

Il duro mestiere di vivere...

1922

acquatinta, puntasecca

e rotella su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. XIII

Il serait si doux d’aimer

Sarebbe così dolce amare

1923

acquatinta e lavori

di brunitoio su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

4544

tav. XVI

Dame du Haut-Quartier croit

prendre pour le Ciel place

réservée

Signora dei quartieri alti

pensa di avere un posto

riservato in Paradiso

1922

acquatinta, puntasecca

e rotella su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. XVII

Femme affranchie, à quatorze

heures, chante midi

La donna emancipata

ha perso il controllo

1923

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. XIV

Fille dite de joie

Donna di piacere

1922

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. XV

En bouche qui fut fraîche

goût de fiel

Nella bocca che fu dolce,

il gusto del fiele

1922

acquatinta, puntasecca

e rotella su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

4746

tav. XVIII

Le condamné s’en est allé...

Il condannato se n’è

andato...

1922

acquatinta, rotella

e puntasecca su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. XIX

Son avocat en phrases

creuses clame sa totale

inconscience

Il suo avvocato, con

frasi vuote e imponenti,

proclama la sua totale

incoscienza

1922

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

4948

tav. XX

Sous un Jésus en

croix oublié là

Sotto un Gesù in

croce lì dimenticato

1926

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. XXI

"Il a été maltraité et opprimé

et il n’a pas ouvert la bouche"

"È stato maltrattato e

oppresso e non ha aperto

bocca" (Isaia 53,7)

1923

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

5150

tav. XXII

En tant d’ordres divers le

beau métier d’ensemencer

une terre hostile

Tra i tanti lavori diversi, la

nobile fatica di inseminare

una terra ostile

1926

acquatinta su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. XXIII

Rue des Solitaires

Via dei solitari

1922

acquatinta, puntasecca

e rotella su eliografia

505 x 655 mm (foglio)

53

52

tav. XXIV

Hiver lèpre de la terre

Inverno lebbra della terra

1922

acquatinta, puntasecca

e rotella su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. XXV

Jean-Francois jamais

ne chante alleluia...

Jean-Francois non canta

mai l’alleluia...

1923

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

5554

tav. XXVI

Au pays de la soif

et de la peur

Nel paese della sete

e della paura

1923

acquatinta e rotella

su eliografia

505 x 655 mm (foglio)

5756

tav. XXVII

"Sunt lacrymae rerum..."

"Sono lacrime delle cose..."

(Virgilio, Eneide, I)

1926

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. XXVIII

"Celui qui croit en moi fût-il

mort vivra"

"Chi crede in me, anche

dopo la morte vivrà in

eterno" (Giovanni 11,25)

1923

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. XXIX

Chantez Matines le jour renaît

Cantate il mattutino,

il giorno rinasce

1922

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

59

58

tav. XXX

"Nous... c’est en sa mort que

nous avons été baptisés"

"Noi... è nella sua morte

che siamo stati battezzati"

(Paolo, Lettera ai Romani,

6,3)

1922 (?)

acquatinta su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. XXXI

"Aimez-vous les uns les

autres"

"Amatevi gli uni gli altri"

(Giovanni 13,34)

1923

acquatinta e bulino

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

6160

tav. XXXII

Seigneur c’est vous je vous

reconnais

Signore, sei tu, ti riconosco

1927

acquatinta, rotella e

puntasecca su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. XXXIII

Et Véronique au tendre lin

passe encore sur le chemin...

E la Veronica dal tenero

lino passa ancora sul

cammino...

1922

acquatinta, rotella e

puntasecca su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

63

62

tav. XXXIV

"Les ruines elles-mêmes

ont péri"

"Sono state distrutte

perfino le rovine"

(Lucano, Pharsalia, IX, 969)

1926

acquatinta, rotella

e puntasecca su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. XXXV

"Jésus sera en agonie jusqu’à

la fin du monde"

"Gesù sarà in agonia fino

alla fine del mondo"

(Pascal, Pensieri, 553)

1922

acquatinta, rotella

e puntasecca su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

6564

tav. XXXVI

Ce sera la dernière

petit père!

Questa sarà l’ultima

caro padre!

1927

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. XXXVII

"Homo homini lupus"

"L’uomo è un lupo"

per l’uomo

(Plauto, Asinaria, II, 4, 88)

1926

acquatinta, puntasecca

e brunitoio su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. XXXVIII

Chinois inventa, dit-on,

la poudre à canon,

nous en fit don

Un cinese inventò

la polvere da sparo,

si dice, e ce ne fece dono

1926

acquatinta e puntasecca

655 x 505 mm (foglio)

6766

tav. XXXIX

Nous sommes fous...

Siamo pazzi...

1922

acquatinta, rotella

e puntasecca su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. XL

Face à face

Faccia a faccia

1926

acquatinta e puntasecca

655 x 505 mm (foglio)

tav. XLI

Augures

Auguri

1923

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

69

68

tav. XLII

Bella matribus detestata

Guerra detestata dalle

madre

(Orazio, Odi, I, 24-25)

1927

acquatinta, rotella e pun-

tasecca su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. XLIII

"Nous devons mourir,

nous et tout ce qui est nôtre"

"Noi dobbiamo morire,

noi e tutto quello che è

nostro"

(Orazio, Ars poetica, 63)

1922

acquatinta e puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

7170

tav. XLIV

Mon doux pays, où êtes-vous?

Mio dolce paese dove sei?

1927

acquatinta, puntasecca

e rotella su eliografia

505 x 655 mm (foglio)

7372

tav. XLV

La Mort l’a pris comme il

sortait du lit d’orties

La morte l’ha colto mentre

lasciava il letto d’ortiche

1922

acquatinta, puntasecca

e rotella su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. XLVI

"Le juste, comme le bois de

santal, parfume la hache qui

le frappe"

"Il giusto, come legno di

sandalo, profuma la scure

che lo colpisce"

(Proverbio indiano)

1926

acquatinta, puntasecca

e rotella su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. XLVII

"De profundis..."

"Dal profondo..."

(Salmo 129-130)

1927

acquatinta, puntasecca

e rotella su eliografia

505 x 655 mm (foglio)

7574

tav. XLVIII

Au pressoir le raisin fut foulé

Col torchio fu pigiata l’uva

1922

acquatinta, puntasecca

e rotella su eliografia

505 x 655 mm (foglio)

tav. XLIX

"Plus le coeur est noble,

moins le col est roide"

"Più il cuore è nobile, meno

il collo è rigido"

1926

acquatinta, puntasecca

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. L

"Des ongles et du bec"

"Con le unghie e con

il becco"

(Guillaume de Salluste,

Prima settimana della

creazione)

1926

acquatinta, puntasecca

e rotella su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

7776

tav. LI

Loin du sourire de Reims

Lontano dal sorriso di

Reims

1922

acquatinta, puntasecca

e rotella su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. LII

Dura lex sed lex

Legge dura ma legge

1926

acquatinta, puntasecca

e rotella su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. LIII

Vierge aux sept glaives

Vergine dalle sette spade

1926

acquatinta, puntasecca

e rotella su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. LIV

"Debout les morts!"

"Si levino i morti"

1927

acquatinta, puntasecca

e rotella su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

7978

tav. LV

L’aveugle parfois

a consolé le voyant

A volte il cieco

consola il vedente

1926

acquatinta, puntasecca

e rotella su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. LVI

En ce temps noir de jactance

et d’incroyance, Notre-Dame

de la Fin des Terres vigilante

In tempi neri di vanità e

incredulità, la Madonna di

Fin des Terres vigila

1927

acquatinta, puntasecca

e rotella su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

8180

tav. LVII

"Obéissant jusqu’à la mort

et la mort de la croix"

"Obbediente fino alla

morte, e alla morte

sulla croce"

(Paolo, Lettera ai filippesi,

2,8)

1926

acquatinta, e rotella

su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

tav. LVIII

"C’est par ses meurtrissures

que nous sommes guéris"

"È per le sue sofferenze

che siamo stati liberati"

(Isaia 53,5)

1922

acquatinta su eliografia

655 x 505 mm (foglio)

83

82

MIO DOLCE PAESE, DOVE SEI?

8584

Mio d

olce Paese dove sei?

Castello Tesino

Rovine della chiesa

di Santa Maria

delle Grazie

1918-1919

Marco (Rovereto)

Rovine della chiesa

di San Marco

1919

8786

Albaredo (Vallarsa)

Le rovine del paese con

la chiesa del Patrocinio

di San Giuseppe

1918-1919

Aste (Vallarsa)

Le rovine del paese

con la chiesa della

Sacra Famiglia

1918-1919

89

88

Loppio (Mori)

Rovine della chiesa

del Nome di Maria

1918-1919

Pizzano (Vermiglio)

Le rovine del paese

1918-1919

9190

Robert Capa

(Budapest 1913 -

Indocina 1954)

Venditori di frutta

Napoli

1943

Robert Capa

(Budapest 1913 -

Indocina 1954)

Ritorno tra le rovine

Napoli

1943

93

92

Robert Capa

(Budapest 1913 -

Indocina 1954)

La strada per Palermo

1943

Robert Capa

(Budapest 1913 -

Indocina 1954)

Asinello e carro armato

1943

9594

Tino Petrelli

(Fontanafredda (PN)

1922 - Piacenza 2001)

Ritorno dei reduci

dalla Russia

1954

Robert Capa

(Budapest 1913 -

Indocina 1954)

Child getting water

Napoli

1943

9796

MON DOUX PAYS,

OÙ ÊTES-VOUS?

99

98

Mon

dou

x pays, où

êtes-vous?

Alfredo Jaar

Walking

2002

Courtesy of

Schellmann Art, Munich

and the artist, New York

101100

Jean Revillard

Jungle des Pauvres,

campement Azara

2008

Jean Revillard

Jungle des Dunes

2008

103

102

Jean Revillard

Jungle des Dunes

janvier 2007

Jean Revillard

Jungle des Dunes

janvier 2007

105104

Ugo Panella

Villaggio di Bathur lungo la

strada verso il Kyber Pass

2001

Ugo Panella

Lago di Sochan, regione

di Kabul

2012

107106

Ugo Panella

Sierra Leone

2001

Ugo Panella

Sierra Leone

2001

109

108

Ugo Panella

Sierra Leone

2001

Ugo Panella

Egitto - Il Cairo

Città dei Morti

2002

111110

La v

ita

com

e so

ttra

zion

e: in

con

tro

con

Ug

o Pa

nel

la

In quegli anni la collaborazione fra fotografo

e giornalista era l’elemento portante dei giorna-

li nazionali e ciò mi ha permesso di condividere

il mio lavoro anche con altri giornalisti. Assie-

me a Luca Rastello, collaboratore del quotidia-

no "La Repubblica", abbiamo realizzato diversi

reportage dal Somaliland, alla guerra maoista

in Nepal, fino alle testimonianze legate alla si-

tuazione in Afghanistan ".

Quali sono state le motivazioni che l’hanno

avvicinata al fotoreportage?

La curiosità di guardare la realtà del mondo da

vicino e con l’ambizione di raccontare le vite

lontane dalle nostre latitudini e dalle tante si-

curezze quotidiane che siamo abituati a vivere.

Com’è cambiata nel corso del tempo la figu-

ra del reporter?

Non è cambiata nelle intenzioni e nella passione

di chi vuole testimoniare. È cambiata, e molto,

nel rapporto con i media, perchè non vogliono

più raccontare storie di sofferenza e di emar-

ginazione. Quei racconti, che una volta erano

l’informazione primaria dei giornali, hanno ce-

duto il posto al disimpegno, ai temi leggeri e al

gossip. Per questo ho deciso di non seguire più

i conflitti: l’informazione è spesso pilotata, non

ci si può più muovere liberamente. La guerra del

Vietnam è stata l’ultima guerra dove i fotografi

hanno potuto dire quello che vedevano, contri-

buendo a far conoscere gli orrori che si stavano

consumando in quelle terre e quindi a far cre-

scere un’opinione pubblica fortemente motiva-

ta alla pace. Al giorno d’oggi questo non è più

possibile, perché è diventato molto più impor-

tante formare che informare; solo con il consen-

so dell’opinione pubblica le guerre vanno avanti

e quindi bisogna costruire un consenso: che poi

sia la verità o siano bugie, quello non ha nessu-

na importanza.

È su questo allora che vive il potere?

Certo, e non sapremo mai quello che sta real-

Ug

o Pa

nel

la —

Kab

ul 2

013

/20

14

LA VITA COME SOTTRAZIONE: INCONTRO CON UGO PANELLA

Le fotografie di Ugo Panella, nel raccontare e denunciare una realtà spes-

so scandita dalla violenza, quella che ruba all’uomo la propria dignità,

comunicano la grande forza della vita e scuotono gli animi degli indiffe-

renti. Il fotografo, "unico tramite fra ciò che sta succedendo e chi vedrà",

è dunque colui che, senza speculare sul dolore e nel rispetto delle perso-

ne, dà voce alle ombre, graffia il muro del silenzio, fa tremare i pensieri.

"Ho iniziato a fare questa professione — spiega — alla fine degli anni Set-

tanta documentando prima le guerre civili in Nicaragua, Salvador, Gua-

temala e poi la dittatura in Argentina.

Successivamente, però, mi sonao dedicato soprattutto ai racconti socia-

li. Nel 1999, ad esempio, ho realizzato per "D" di Repubblica, in collabora-

zione con la giornalista Renata Pisu, allora inviata esteri del quotidiano, il

reportage sulle ragazze sfigurate dall’acido solforico in Bangladesh.

Le mie fotografie e i suoi testi, poi ripresi da molte riviste internazionali

tra le quali "TIME", hanno fatto conoscere per la prima volta una situazio-

ne allora completamente ignorata e hanno contribuito a cambiare la vita

di tante ragazze, che in quel paese venivano offese dall’ignoranza degli

uomini.

Ci siamo poi recati in India per documentare il problema dell’Aids e nuo-

vamente in Bangladesh per far conoscere le terribili storie delle prosti-

tute bambine.

Riccarda Turrina

11311

2

mente succedendo, perché lo scacchiere è tal-

mente complicato, e gli interessi economici

degli Stati così forti, che sarà quasi impossibile

prevedere o prevenire le mosse. Anche la distin-

zione un po’ manichea fra buoni e cattivi non

ha più senso: il buono di oggi è chi non ha pote-

re. Quindi il politicamente corretto è l’ipocrisia

buonista dei benpensanti, che vorrebbero che

tutti fossimo uguali, ma le differenze ci sono

sempre state e continueranno ad esserci.

Il fotogiornalismo in quanto scelta di testi-

monianza può influenzare le sorti del mon-

do?

Certo, il fotogiornalismo è stato sempre testi-

monianza e lo è anche oggi, nonostante le dif-

ficoltà di cui parlavo. Che queste testimonianze

siano efficaci al punto di cambiare il mondo...

beh, questo è un pensiero utopico. È già tanto

se riescono ad aprire finestre di curiosità in chi

vede le immagini e a restituire un pensiero, una

riflessione. Ognuno poi potrà modificare il pro-

prio punto di vista per guardare al mondo con

maggiore consapevolezza. La nostra intenzione

è almeno quella, altrimenti sarebbe un lavoro

frustrante ed inutile.

Ci sono fotografie che hanno cambiato il

mondo?

Mi viene in mente la fotografia, scattata nel 1972

a pochi chilometri da Saigon, della bambina

vietnamita nuda, che fugge terrorizzata colpita

da una bomba al napalm; quell’immagine fece

indignare l’opinione pubblica americana al pun-

to tale che il Congresso decise di non investire

più in quel conflitto. Anche le fotografie di Don

Mc Cullin, sulla fame in Biafra, fecero il giro del

mondo tanto che vennero attivati aiuti interna-

zionali per arginare quella carestia. A volte acca-

de... per fortuna.

Perché ha deciso di passare dal reportage di

guerra a quello civile?

Non è stato un passaggio programmato. Il re-

portage di guerra è molto cambiato negli anni.

Oggi è impossibile per un fotografo seguire un

conflitto in piena autonomia. Tutto è blindato

e gli eserciti hanno capito che l’informazione è

un ulteriore soggetto attivo del conflitto. Quindi

bisogna controllarlo e pilotarlo. Preferisco im-

pegnarmi nei progetti di pace, anche nei paesi

dove esistono le guerre, per esplorare un punto

di vista diverso e per far conoscere quali diffi-

coltà sono costrette ad affrontare le persone che

vivono un quotidiano fatto di violenza e morte.

La sua professione quanto, nel corso degli

anni, ha cambiato la visione che lei ha del

mondo?

La mia visione del mondo è cambiata azzerando

giudizi e moralismi. La mia intenzione è quella

di testimoniare cercando, per quanto possibile,

una coerenza nel racconto. La guerra ha scritto

la storia del mondo e seguiterà a segnarla, per-

ché è necessaria a tante voci dell’economia, alle

strategie geopolitiche, a mille interessi di chi

manovra il potere. Non illudiamoci che un do-

mani tutto questo finisca e si trasformi in una

pace universale. Non accadrà mai perché l’istin-

to dell’uomo è conquistare, non è certo quello

di abbracciare e tollerare il diverso. Inoltre tutte

queste esperienze mi hanno fatto capire che la

vita è sottrazione e non addizione. Nella nostra

cultura la felicità deriva dall’accumulo, dal pos-

sesso indiscriminato di valori materiali. Chi ha

è soddisfatto e le persone soddisfatte non pen-

sano. Ci hanno trasformato in felici consumato-

ri, ma questa non è libertà.

La guerra raccontata da Robert Capa, le cui

fotografie sono in mostra accanto alle sue, è

la stessa che racconta lei?

Non voglio neppure avvicinarmi a Capa. Lui ha

fatto la storia della fotografia di guerra, io ho ap-

pena scritto le aste † neppure dritte. In quanto

al racconto, quello è un fatto personale. Ognuno

ha la visione della realtà e di ciò che vede attra-

verso esperienze, letture, coinvolgimenti emo-

Ug

o Pa

nel

la —

Kab

ul 2

013

/20

14

Ug

o Pa

nel

la —

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tivi che non possono essere omologati ma che

appartengono alla personalità di ciascuno.

Pensando alle fotografie di Jean Revillard,

autore presente in mostra con alcune im-

magini che documentano la situazione di

estrema difficoltà dei migranti sbarcati a

Calais nel 2007, si può constatare come nul-

la sia cambiato nel corso di questi anni. Per-

ché secondo lei?

Al potere non interessa il degrado umano, se

non per pura propaganda politica. La povertà e

le situazioni di emarginazione nel mondo sono

spesso leve formidabili per business di ogni

tipo. Il potere risponde a logiche del tutto diver-

se e non può tenere conto della sofferenza uma-

na. A volte è proprio quella sofferenza la benzina

per il suo motore.

Il nome di qualche maestro?

Uno dei miei riferimenti è William Eugene Smi-

th, per il tipo di fotografia ma soprattutto per

l’approccio narrativo. Sicuramente Salgado

che ci ha insegnato la differenza tra povertà,

miseria e patologia senza mostrarci un mondo

di vinti: la sua fotografia va oltre ogni tempo e

diventa speranza. Poi James Natchwey e Donald

Mc Cullin. Sono tutti uomini della ‘mia genera-

zione’ e abbiamo condiviso l’esperienza in Cen-

tro America.

Il digitale in fotografia ha cambiato il modo

di guardare al mondo?

Ho lavorato in Albania, un luogo chiuso al mon-

do per trent’anni. Oggi non sarebbe più possibi-

le perché la tecnologia permette di comunicare

in tempo reale. Le stesse dittature non possono

più avere il controllo totale, quindi si può tran-

quillamente affermare che le rivoluzioni che

un tempo si facevano con le ideologie oggi si

fanno con la tecnologia. Le stesse popolazioni

oppresse vengono a contatto con informazioni

che riguardano il resto del mondo, magari in-

formazioni filtrate, ma comunque non tutto è

sconosciuto.

Per quanto riguarda l’approccio tecnico ritengo

che la modalità digitale abbia annullato la fase

di preparazione, di selezione visiva e mentale

di quello che si intende fotografare: una sorta

di accelerazione frenetica nell’acquisizione dei

dati di realtà che va di pari passo con la superfi-

cialità. Il lavoro del fotografo, testimone di quelli

che ho definito "I sotterranei dell’umanità", non

può prescindere dai tempi lenti della riflessione.

L’elemento estetico ha dunque un valore se-

condario?

L’elemento estetizzante nelle mie fotografie

passa in secondo piano perché quello che a me

interessa è far sì che l’immagine arrivi con forza

agli occhi e che scuota la sensibilità del lettore.

Una bella fotografia per me non è una fotografia

bella da vedere, rassicurante: il lato estetico sta

nella sua capacità di raccontare la realtà.

Lei conosce a fondo la situazione dell’Afga-

nistan perché da anni frequenta questi ter-

ritori.

In Afghanistan collaboro con la Fondazione

Pangea Onlus che si occupa da tredici anni di

microcredito alle donne. Il presidente, Luca Lo

Presti, e il suo staff si stanno impegnando per

migliorare le condizioni di vita di migliaia di

donne, che grazie alla presenza di Pangea rie-

scono a vivere un presente dignitoso.

L’Afghanistan è un luogo fuori dal tempo, in

guerra continua: dal 1979, con l’invasione dell’Ar-

mata Rossa, ad oggi la popolazione non ha mai

visto la pace. La sua posizione geografica, stra-

tegica per il controllo dei confini di Cina, Rus-

sia e India, unita alle potenzialità economiche

— l’Afghanistan è uno dei maggiori produttori di

cobalto, oltre che di petrolio — hanno trasforma-

to questi luoghi in una terra di conquista. Una

guerra, si diceva, iniziata per estirpare le colti-

vazioni del papavero da oppio e che invece nel

tempo ha portato all’incremento della produ-

zione attribuendo sempre più potere ai signori

della guerra, della armi, della droga.

Come descriverebbe la città di Kabul?

Kabul è un’immensa periferia, l’unica città al

mondo dove il centro è già periferia. Una città

a quasi 2000 metri di altitudine, senza alberi

attorno, perché situata al centro di grandi colli-

ne che la contornano. Quando scendono i venti

dall’Himalaya si scatenano tempeste di polvere

che offuscano l’aria e quando piove qualsiasi

strada si trasforma in un rigagnolo melmoso.

Qui i bambini e le bambine diventano presto

adulti: quelli più grandi si occupano di quelli più

piccoli e di certo non possono sottrarsi ai lavori

che vengono loro assegnati.

Quale testimonianza vuole trasmettere at-

traverso il suo lavoro sull’Afghanistan?

Il mio lavoro vuole testimoniare la forza umana

di queste famiglie, la loro dignità, l’armonia di

donne che tengono insieme la società civile. Vo-

glio raccontare una realtà poco conosciuta e to-

gliere dagli occhi della gente lo stereotipo di un

paese raccontato solo per i bombardamenti, per

le violenze o per i kamikaze che si fanno saltare

in aria. Certo, anche quella è realtà presente ma

il silenzio su tutto il resto, sulla resistenza di un

popolo che cerca la pace e un equilibrio quoti-

diano, merita di avere una voce diversa.

Come entra in contatto con i suoi soggetti?

La mia prima posizione è quella del rispetto per

non superare mai i confini della dignità. Cerco

una chiave d’accesso attraverso l’empatia e

quindi intrecciando racconti fatti di sguardi, di

silenzi. Poi anche di parole.

Le sue fotografie, dunque, sono racconti.

Sfogliamo ad una ad una le immagini in

mostra. Partiamo da quelle scattate in Sier-

ra Leone.

Ho cercato di tradurre in immagini una realtà

difficilissima, quella dei bambini soldato che

venivano drogati e marchiati dai guerrieri del

RUF (Revolutionary United Front) come fossero loro

proprietà. Le bambine, invece, venivano violen-

tate e poi sottoposte ad una ulteriore inumana Ug

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Kab

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violenza: venivano costrette ad andare nei vil-

laggi ad uccidere o mutilare i loro parenti.

L’ultimo anno di guerra (2001) e quello succes-

sivo sono andato in un ospedale a Lungi, nella

baia di Freetown, dove opera un chirurgo ita-

liano, Enzo D’Onofrio, che cerca di cancellare le

tre lettere della vergogna (RUF) incise sulla loro

pelle, spesso in fronte, e quindi per permettere a

questi bambini di avere una possibilità di inse-

rimento nella società.

In quest’occasione ho scattato anche la foto-

grafia del padre mutilato che abbraccia la fi-

glia. È una storia commovente la loro. Ho visto

quest’uomo che stava da solo fuori dalla tenda

dell’alto commissariato per i rifugiati UNHCR e

gli ho chiesto se potevo fargli delle foto. Ha su-

bito acconsentito aggiungendo "Tu conosci la

mia storia?" Ha chiamato la sua bambina, l’ha

abbracciata e mentre scattavo mi ha raccontato

che sei mesi prima si trovavano nella regione di

Kono, al nord nella zona dei diamanti. Nel loro

villaggio erano entrati i guerrieri del RUF, ave-

vano catturato la figlia e l’avevano costretta

a tagliargli le braccia con un machete. Se non

avesse fatto quello che le ordinavano avrebbe-

ro ucciso sia lei che il padre. "Però vedi — mi ha

detto, con una calma olimpica — posso ancora

abbracciarla e vederla crescere". Questa foto-

grafia racconta dieci anni di guerra in Sierra

Leone, durata fino al gennaio del 2002, e non

servono parole. La seconda immagine, sempre

in bianco e nero, scattata nella regione di Kono

dopo i bombardamenti, mostra alcuni bambini

che passano mentre io li riprendo attraverso le

finestre di una casa distrutta. È invece la meta-

fora della guerra la fotografia che ritrae quattro

ragazzi dietro al filo spinato, collocato dall’Onu

lungo la spiaggia della zona militarizzata di

Lungi, per impedire gli sbarchi. È volutamente

un bianco e nero in controluce, non si dovevano

vedere i volti ma solo intuire le sagome, figure

di giovani che a causa dei conflitti perdono la

loro identità. Ogni guerra è la negazione dell’in-

dividuo; in ogni guerra esiste solo la massa, dei

soldati e dei civili, nessuno è un essere umano.

Nelle due fotografie scattate in Afghanistan

c’è la sintesi estrema di uno sguardo capace

di trasmettere il messaggio più nascosto.

L’immagine che ritrae la donna afghana avvolta

dal burka, rivolta verso il lago è la personifica-

zione della malinconia. Sulle sponde di questo

lago le famiglie solitamente si recano di vener-

dì, giorno di festa. Probabilmente lei vedeva il

lago per la prima volta. Mi ha colpito perché era

lì immobile avvolta da quell’acqua cristallina

dalle tonalità vicine al suo ingombrante abito.

Libertà e costrizione in un solo istante. Le mie

fotografie che ritraggono le donne afghane, que-

sta come molte altre, intendono testimoniare

tanti piccoli progressi e tante sfide coraggiose

di donne che vivono una realtà molto diversa

dalle donne occidentali. Che lottano per la loro

dignità contro leggi secolari che le vorrebbero

ridotte al silenzio e all’obbedienza.

Il paesaggio in mostra si trova quasi al confine

con il Pakistan, verso il famoso Khyber Pass,

passaggio dell’antica via della seta e in passa-

to importante punto di collegamento tra l’Asia

centrale e l’Asia Meridionale attraversato anche

da Alessandro Magno quando andò alla con-

quista dell’Afghanistan. È dunque il passo sulle

montagne che mette in comunicazione l’Afgha-

nistan con Pekhawar, la prima città del Pakistan

che si incontra. Lungo le gole a un certo punto

si apre questo paesaggio con in fondo questo

villaggio con i campi di grano. Un giallo inten-

so che ha sullo sfondo la catena Karakorum con

vette di oltre 7000 metri.

È un’immagine a sé quella scattata nella Città

dei Morti al Cairo, un immenso cimitero della

periferia della capitale egiziana, dove migliaia

di persone vivono fra le tombe. Sono scappate

dalla guerra e qui vivono pacificamente, lontano

dall’aggressività e in un clima di solidarietà. La

donna con l’abito rosso ha un volto sorridente,

tiene in braccio il suo bambino e guarda verso lo

scorcio di città che le sta davanti. Sicuramente

fiduciosa in un futuro migliore.

Biografie

Robert Capa — Endre Ernö Friedman (questo il

vero nome di Robert Capa) nasce a Budapest il

22 ottobre 1913. Esiliato dall’Ungheria nel 1931

per aver partecipato ad attività studentesche di

sinistra, si trasferisce a Berlino dove si iscrive al

corso di giornalismo della Deutsche Hochschule

für Politik. Trovandosi in difficoltà economiche,

entra come fattorino presso Dephot, un’impor-

tante agenzia fotografica di Berlino. Il direttore,

Simon Guttam, scopre ben presto il suo talen-

to e comincia ad affidargli servizi fotografici,

anche di un certo peso. Nel 1933, al momento

dell’ascesa al potere di Hitler, fugge da Berlino e

rientra a Budapest, sua città natale, dove lavora

come fotografo; quindi parte alla volta di Parigi

Qui incontra Gerda Taro, una profuga tedesca

che diventerà la sua compagna. In quel periodo,

viene inviato in Spagna per una serie di servi-

zi fotogiornalistici. Nel 1936 Greta vende le sue

fotografie, spacciandole come opera di un foto-

grafo americano di successo. Ben presto però il

trucco viene scoperto; a quel punto Endre cam-

bia il proprio nome con quello di Robert Capa.

Nel 1937 Gerda, diventata nel frattempo una

fotogiornalista indipendente, muore in Spagna

schiacciata da un carro armato. Capa non si ri-

solleverà mai da questo dolore.

La carriera di Capa, uno dei massimi rap-

presentanti della fotografia di reportage, passa

attraverso i principali conflitti del Novecento,

soprattutto cinque: la Guerra civile spagnola

(1936-1939), la Seconda guerra sino-giapponese

(che seguì nel 1938), la Seconda guerra mondia-

le (1941-1945), la Guerra arabo-israeliana (1948)

e la Prima guerra d’Indocina (1954).

Terminato il secondo conflitto mondiale,

diventa cittadino americano. Negli anni del

maccartismo, a causa di false accuse di co-

munismo, il governo degli Stati Uniti gli ritira

il passaporto per alcuni mesi impedendogli di

viaggiare per lavorare. Nel 1947, insieme con gli

amici Henry Cartier-Bresson, David Seymour

(detto "Chim"), George Rodger e William Van-

divert fonda l’agenzia fotografica cooperativa

"Magnum", di cui diventerà presidente. Si tratta

di una delle più prestigiose agenzie fotografi-

che al mondo. Sono gli anni in cui il genere del

reportage conosce il suo momento di massima

espressione.

Nel 1954 trascorre alcuni mesi in Giappone.

Giunge ad Hanoi in veste di inviato di "Life" per

fotografare la guerra dei francesi in Indocina. Il

25 maggio accompagna una missione militare

francese da Namdinh al delta del Fiume Rosso.

Durante una sosta del convoglio, Capa si allon-

tana con un drappello di militari. Calpesta una

mina anti-uomo, rimanendo ucciso.

Alfredo Jaar — Alfredo Jaar nasce a Santiago del

Cile, dove studia architettura e cinema. Duran-

te i suoi studi conosce l’opera di Pasolini, che

apprezza sia come regista che come scrittore,

poeta, giornalista, storico; per Jaar Pasolini, un

intellettuale capace di prendere parte alla vita

culturale e politica del proprio paese, rappre-

senta il modello a cui ispirarsi Nella sua attività

artistica Jaar unirà sempre arte e impegno, po-

esia e militanza: per lui infatti l’arte è politica.

Avendo vissuto gli anni della dittatura in Cile,

impara ben presto quella che egli definisce

Biog

rafie

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8

"l’arte della resistenza" che consiste nel "parlare

poeticamente tra le righe, parlare senza parlare"

per non incorrere nella censura.

Le sue opere sono state esposte nei più

grandi musei di tutto il mondo. Ha partecipa-

to alle Biennali di Venezia (1986, 2007, 2009,

2013) e di San Paolo (1985, 1987, 2010), oltre che

a Documenta, Kassel (1987, 2002). Tra le perso-

nali più importanti si annoverano quelle al New

Museum of Contemporary Art di New York, alla

Whitechapel Gallery di Londra, al Museum of

Contemporary Art di Chicago, al MACRO Museo

di Arte Contemporanea di Roma e al Moderna

Museet di Stoccolma. Una grande retrospettiva

della sua opera è stata ospitata nel 2012 in tre

diverse istituzioni culturali di Berlino: la Berli-

nische Galerie, il Neue Gesellschaft für Bildende

Kunst e la Alte Nationalgalerie.

Sono state pubblicate più di cinquanta mo-

nografie dedicate al suo lavoro. Nel 1985 Alfredo

Jaar ha ricevuto il Guggenheim Fellowship nel

1985 e nel 2000 il Mac Arthur Fellowship. Nel

2006 è stato premiato in Spagna con il Premio

Extremadura a la Creación. Attualmente vive e

lavvora a New York.

Ugo Panella — Inizia la carriera di fotogiornalista

documentando i conflitti in Centro America alla

fine degli anni Settanta: in particolare, la guerra

civile in Nicaragua e più tardi, quella in Salva-

dor. In questo Paese alla fine degli anni Ottanta

realizza un reportage in collaborazione con UN-

CHR (Alto Commissariato per i Rifugiati) sugli

accordi di pace da parte del gruppo guerrigliero

"Farabundo Martì", che ponevano fine ad un de-

cennio di massacri.

La passione per la fotografia di denuncia e

di impegno civile lo ha portato in vari luoghi del

mondo dove la vita quotidiana è fatta di violen-

za e dove la dignità umana non ha valore.

In Bangladesh ha documentato la fatica di

migliaia di uomini che nel porto di Chittagong

smantellano navi cargo a due dollari al giorno,

in condizioni di lavoro estremamente difficili.

In Egitto, al Cairo, ritrae la vita in un cimitero

abitato da un milione di senzatetto che han-

no fatto delle tombe la loro dimora. Sempre in

Bangladesh, in collaborazione con l’inviata di

"La Repubblica", Renata Pisu, ha realizzato un

lungo reportage sulla condizione di migliaia di

ragazze sfigurate dall’acido solforico perché ri-

fiutavano le avances di uomini violenti. Questo

lavoro è stato pubblicato dalle maggiori testate

internazionali ed ha costretto il governo di quel-

la nazione a cambiare le leggi, introducendo la

pena dei morte per chi si rende responsabile di

un simile delitto.

Il suo lavoro lo ha portato in Albania, centro

e sud America, India, Sri Lanka, Filippine, Oman,

Cipro, Palestina, Somalia, Etiopia, Sud Africa,

Iraq, Afghanistan, Ucraina, Sierra Leone.

In Italia ha realizzato un lungo lavoro nell’I-

stituto Papa Giovanni XXIII di Serra d’Aiello (Ca-

labria), un istituto psichiatrico dove centinaia

di persone vivevano in condizioni di abbandono.

Questo reportage è diventato un progetto tra-

dotto in un libro fotografico, In direzione ostinata

e contraria, e in una mostra itinerante. Nel 2009

ha vinto il premio Eugenio Montale per il foto-

giornalismo.

Tino Petrelli — Nasce a Fontanafredda (Porde-

none) il 6 agosto 1922; a dodici anni si trasfe-

risce a Milano con la famiglia e nel 1937 inizia

a lavorare con l’agenzia fotografica Publifoto di

Vincenzo Carrese, da principio con mansioni di

garzone di bottega, quindi di sviluppo e stampa

in camera oscura. Nel 1938 Petrelli viene messo

alla prova e inviato a fotografare il Gran Premio

delle Nazioni a Milano. "Il Corriere della Sera"

pubblica una sua foto a tre colonne: da quel

momento diventa il più stretto collaboratore di

Carrese alla Publifoto, con cui lavorerà ininter-

rottamente fino al 1981. È un fotografo eclettico,

sia per i temi rappresentati, sia per in suo inte-

resse a ritrarre situazioni politiche e sociali. Si

occupa di cronaca milanese, fotografa il fasci-

smo, la lotta partigiana, Piazzale Loreto, lo sport.

Effettua inchieste in Calabria, nel Polesine allu-

vionato (1951); si occupa del fenomeno dell’emi-

grazione a Napoli; fotografa case di riposo e ri-

formatori, orfanotrofi, barboni, ma anche l’Italia

della ricostruzione: mondine, lavandaie, minie-

re, autostrade, centrali elettriche e stabilimenti

siderurgici.

Nel 1984 si trasferisce a Piacenza, dove muo-

re il 9 settembre 2001 pochi giorni prima dell’i-

naugurazione di una mostra a lui dedicata.

Jean Revillard — Nato a Ginevra nel 1967, si for-

ma alla scuola di fotografia a Yverdon, dove se-

gue l’insegnamento di Luc Chessex, Jesus More-

no e Christian Caujolle. Revillard è al contempo

fotografo, gallerista e giornalista. Nel 1988 apre

la Galleria Europa a Ginevra, dove espone le foto

dalla Germania orientale, e in seguito quelle del-

la caduta del Muro di Berlino. Nel 1990, lascia la

Svizzera per l’Irlanda: vive per due anni a Dubli-

no, dove lavora ad un progetto sui paesaggi ur-

bani, che esporrà in tutta Europa. Dopo il rientro

in Svizzera, collabora con il "Nouveau Quotidien"

e "L’Hebdo", così come per "Presse Suisse". Allo

stesso tempo, dirige la Galerie Focale a Nyon,

dove presenta progetti fotografici di impegno

sociale. Nel 2001 fonda "Rezo.ch", la prima agen-

zia di foto online della Svizzera.

Nel 2003, durante un viaggio sull’Atlantico,

nei porti Revillard viene a contatto con l’immi-

grazione clandestina. Nel nord della Francia, a

Calais, fotografa per due anni la "giungla" dove

centinaia di migranti si nascondono in capanne

autocostruite, nella speranza di poter attraver-

sare il tunnel sotto la Manica per chiedere asilo

in Gran Bretagna. Molti sono fuggiti dai conflitti

dell’Iraq, dell’Afghanistan e del Darfur. Il ciclo ha

vinto il primo premio Contemporary Issues: sto-

rie al World Press Photo 2008.

Georges Rouault — Figlio di un artigiano ebani-

sta, Georges Henry Rouault nasce a Parigi il 27

maggio 1871. Ancora molto giovane compie un

apprendistato presso un restauratore di vetrate

(1885-1890) e segue i corsi serali dell’École Na-

tionale Supérieure des Arts Decoratifs. Succes-

sivamente, fra il 1890 e il 1895, studia all’École

des Beaux Arts dove frequenta l’atelier del pit-

tore simbolista Gustave Moreau. Qui conosce

Henri Matisse, Albert Marquet e altri con i quali

partecipa, nel 1905, all’Esposizione dei Fauves

al Salon d’Automne di Parigi. Rouault mostra da

subito un carattere libero da ogni definizione; la

sua pittura, che si ispira in un primo tempo a

ideali sociali, si volge successivamente a temi

religiosi. Determinante per la sua formazione è

infatti il rapporto con l’esistenzialismo cattoli-

co e l’amicizia con il filosofo Jacques Maritain,

o con scrittori come André Suarès, Léon Bloy

autore di libri che esprimono una forte critica

antiborghese, o ancora Joris-Karl Huysmans

incontrato presso l’Abbazia benedettina di

Saint-Martin de Ligugé. Alle tematiche morali e

sociali dei primi anni si affiancano così i sog-

getti religiosi, ora drammatici e sofferti, ora

rasserenati da un sentimento di pace interiore.

A partire dalla metà degli anni Trenta si susse-

guono importanti mostre personali: da Parigi a

New York, da Washington a San Francisco, da

Londra ad Amsterdam, da Tokyo a Milano a Ge-

rusalemme. Oltre alla pittura, Rouault si dedica

con passione all’incisione e nel 1948 pubblica la

sua opera grafica più impegnativa: il Miserere,

una serie di 58 incisioni eseguite tra il 1917 e il

1927, che la critica considera la testimonianza

più intensa e significativa del grande maestro.

Georges Rouault muore a Parigi il 13 febbraio

1958 e riceve da parte del governo francese l’o-

nore delle esequie di Stato.

Simone Turra — Simone Turra nasce a Transac-

qua (Trento) il 6 agosto 1969. Frequenta l’Istituto

d’Arte di Pozza di Fassa (Trento) dal 1983 al 1988,

successivamente si iscrive al corso di scultura

all’Accademia di Belle Arti di Brera (Milano),

dove si diploma nel 1992 con il professor Gian-

carlo Marchese.

Lavora come scultore a Tonadico di Primiero

(Trento), dove vive con la moglie Michela Zimol

e i tre figli: Francesco, Agata, Elia. Espone le sue

opere in Italia e all’estero.

120

Finito di stampare nel mese di settembre 2015


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