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Mon doux pays, où êtes-vous?
Identità perdute da Rouault
ai contemporanei
A cura di
Domenica Primerano
Riccarda Turrina
MIO DOLCE PAESE, DOVE SEI?
54
Mostra e catalogo a cura di
Domenica Primerano
Riccarda Turrina
Testi di
Flavia Pesci
Domenica Primerano
Riccarda Turrina
Progetto espositivo e coordinamento
Domenica Primerano
Progetto e realizzazione video
Stefano Benedetti
Computer Grafica, Trento
Trasporti
Liguigli Fine Arts service, Milano
Assicurazioni
Lloyd’s, Milano
Axa Art, Torino
Direttore
Domenica Primerano
Curatorium
Giuseppe Bernardi
Cesare Chierzi
Giovanni Cristoforetti
Marco Giuliani
Paolo Holzhauser
Johann Kronbichler
Conservatore
Domizio Cattoi
Responsabile dei Servizi educativi
Chiara Leveghi
Lorenza Liandru
Promozione e rapporti con la stampa,
segreteria e sito internet
Lorenza Liandru
Sara Meneghini
Progetto grafico e impaginazione
Nicola Acler - enigmy.com
Cecilia Negri - cecilianegri.com
Copertina a cura di
Nicola Acler - enigmy.com
Crediti fotografici
Archivio Fotografico
del Museo Diocesano Tridentino
Guido Bertero
(Robert Capa, Tino Petrelli)
Ezio Colanzi, Milano
Ugo Panella
Roberto Mascaroni/ Saporetti
Immagini d’Arte, Milano
(Georges Rouault)
Schellmann Art, Munich
and the artist, New York
(Alfredo Jaar)
Galleria Weber & Weber, Torino
(Jean Revillard)
MIO DOLCE PAESE, DOVE SEI?
Si ringraziano i prestatori
Elisabetta Alberti
e Roberto Degasperi
Guido Bertero
Ugo Panella
Simone Turra
Luigi Tavola
Alberto Weber
E inoltre
Mauro Alberti
Giovanna Mori
Bettina Mittler
L’iniziativa è stata realizzata
con il contributo di
Museo Diocesano Tridentino
Palazzo Pretorio,
Piazza Duomo 18 38122 Trento
tel. +39 0461 234419
fax +39 0461 260133
www.museodiocesanotridentino.it
©Tipografia Editrice Temi s.a.s.
Tutti i diritti riservati
È vietata la riproduzione
anche parziale dei testi
e delle immagini
ISBN 978-88-97372-93-6
©Georges Rouault
by SIAE 2015
Mon doux pays, où êtes-vous?
Identità perdute da Rouault
ai contemporanei
19 settembre - 11 gennaio 2016
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Il salmo 51, il più noto dei sette salmi penitenziali, vie-
ne spesso chiamato il "Miserere" perché qui il peccatore
esprime il suo pentimento ed invoca la misericordia divina.
Ad esso si è ispirato Georges Rouault, il massimo artista
religioso del Novecento, nelle cinquantotto tavole che ora il
nostro Museo Diocesano presenta, offrendo una ‘prima’ al
pubblico trentino.
In questo straordinario ciclo, concepito negli anni della
Grande Guerra, l’artista affronta il tema del dolore: un dolore
universale che attraversa il tempo e la storia e parla di
miseria, sopraffazione, ingiustizia, ipocrisia, violenza. Ma
proprio in mezzo alla sofferenza, che segna inevitabilmen-
te la vita dell’uomo, Rouault indica in Cristo, crocifisso e
redentore, una prospettiva di speranza e di riscatto.
Nella mostra del Diocesano, ideata per celebrare il cen-
tenario della Grande Guerra, il Miserere di Rouault è messo
in dialogo con immagini fotografiche scattate al termine
del quel conflitto; esse documentano i danni arrecati ai
luoghi di culto della nostra regione e raccontano la grande
desolazione di questi amati territori profondamente feriti
dalla guerra. Vi si riflettono la tristezza e il dolore anzitutto
di quanti fecero ritorno nei loro paesi dopo esser stati sfolla-
ti nel maggio 1915. Si comprende anche il loro coraggio nel
ricostruire case e luoghi della comunità.
Nella mostra si accosta un terzo elemento: fotografie
sui drammi odierni delle guerre in atto o sull’impossibilità
dei profughi di oggi di ritornare nei paesi di origine, perché
sono luoghi di guerra persistenti, di discriminazione e di
violenza. Anch’essi sognano la loro patria, sì bella e perduta
e s’interrogano: "Mio dolce paese, dove sei?" E’ il titolo tratto
dalla tavola XLIV dell’esposizione del Miserere.
Siamo grati al Museo Diocesano Tridentino per proporci
una tale mostra e per aver voluto estendere la riflessione
dal grande conflitto mondiale alle troppe contraddizioni del
presente, affrontando temi ardui, ma inevitabili, come quel-
lo del dolore e della perdita di identità che ogni guerra porta
con sé; infatti, si parla oggi di una terza guerra mondiale
diffusa. La mostra non è soltanto una grande testimonianza
artistica, un riflettere sul passato, ma anche un messaggio
attuale. Attraverso la sua opera, infatti, Rouault individua
nella misericordia il mezzo con il quale l’umanità può ri-
scattarsi dalle proprie colpe: la misericordia non è debolez-
za, ma la forza di chi sa redimersi e redimere. La mostra in
tal senso ci aiuta a comprendere meglio e a vivere il senso
del giubileo straordinario indetto da papa Francesco con la
bolla Misericordiae Vultus, che si aprirà il giorno 8 dicembre
p.v.
† + Luigi Bressan
Arcivescovo di Trento
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Indice
Identità perdute da Rouault ai contemporanei
Domenica Primerano e Riccarda Turrina
Il Miserere di Georges Rouault
(Parigi 1871 - 1958)
«Ma colère n’est que l’effervescence de ma pitié»Motivi e figure nel Miserere di Georges Rouault
Flavia Pesci
Mio dolce paese, dove sei?
Mon doux pays, où êtes-vous?
La vita come sottrazione:
incontro con Ugo Panella
Riccarda Turrina
Biografie
La Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto,
nell’ambito dei propri interventi volti a favorire la crescita
della comunità, stimola la produzione, la promozione e la va-
lorizzazione di attività culturali.
Investire nell’arricchimento dell’offerta culturale ed incenti-
vare il pluralismo delle espressioni artistiche, dei linguaggi,
delle modalità di comunicazione nei confronti di diverse ti-
pologie di fruitori rappresenta un aspetto particolarmente
rilevante per la crescita culturale e sociale della comunità e
a tal fine è opportuno facilitare l’incontro tra diverse realtà
incoraggiandone la collaborazione secondo logiche di rete.
Questo progetto promosso dal Museo Diocesano Tridentino
rientra tra le iniziative sostenute dalla Fondazione nel con-
testo dei bandi annuali per progetti culturali di rilievo in
ambito espositivo, programmati e realizzati in rete con altre
realtà. Come per altre iniziative ad opera del museo, si evi-
denziano la serietà, l’originalità e la capacità di approfondire,
valorizzare e divulgare la conoscenza di importanti temati-
che e artisti.
1110
"Sui luoghi colpiti regna una grigia solitudine di
rovine, ogni giorno che scorre leva come un nuo-
vo lembo sull’estensione dei danni e scopre, in
tanti angoli fuori di mano, le tracce della violen-
za, tanto più gravi quanto per lo innanzi meno
avvertite. Sono un centinaio le chiese del Trenti-
no che portano incisi a lettere di fuoco gli effetti
terribili della guerra, e che giacciono diroccate o
in uno straziante abbandono, spogliate di tutto
l’arredo e di tutti i ricordi che intere generazioni,
nel corso dei secoli, vi avevano raccolto a testi-
monianza della loro fede e della loro pietà"1.
Si apre con queste parole l’appello che la
sezione trentina dell’"Opera di soccorso per le
chiese rovinate dalla guerra", costituita nel 1919
e diretta da don Vincenzo Casagrande, rivolse
"a tutti i cuori gentili che hanno il coraggio di
sacrificare qualcosa" per chiedere un contributo
alla ricostruzione.
Tetti distrutti dalle fiamme, avvolti caduti,
pavimenti in marmo divelti, lapidi frantumate,
tombe scoperchiate e violate, selvagge devasta-
zioni di altari, statue decapitate, arredi rubati
o dispersi: questo lo scenario che emerge dal-
le relazioni redatte nell’immediato dopoguerra
e dalle immagini fotografiche commissionate
da Casagrande, oggi conservate presso il Museo
Diocesano Tridentino. Un quadro che inevitabil-
Iden
tità perd
ute d
a Rou
ault ai con
temp
oranei
mente richiama l’assurda distruzione di luo-
ghi identitari alla quale assistiamo, impotenti,
sempre più spesso.
"Le famiglie tornavano a cercare il devastato
focolare e lentamente le rovine si ripopolavano",
si legge ancora nelle carte d’archivio. Ad atten-
derle, un territorio ferito, oltraggiato. Furono cir-
ca 70.000 gli sfollati trentini — i Flüchtlinge, come
li chiamavano con disprezzo le popolazioni au-
striache — rientrati nei loro paesi d’origine dopo
il forzato esodo, iniziato nel maggio del 1915.
Nasce praticamente in questi anni, con il primo
conflitto mondiale, il fenomeno dei profughi e
dei campi in cui concentrarli. Un’esperienza che
segnò tragicamente le generazioni passate, e
che oggi si ripete, assumendo dimensioni epo-
cali. Nonostante ciò, osserviamo con distacco le
masse di migranti che fuggono dai loro paesi
d’origine, come se la cosa non ci riguardasse.
O meglio, li guardiamo con crescente fastidio
e diffidenza; la loro presenza sconvolge i nostri
equilibri, mette a rischio le nostre fragili certez-
ze. Di fronte a tale tragedia, siamo incapaci di
esprimere quel sentimento al quale, molto pro-
babilmente, anche gli sfollati della Grande Guer-
ra fecero appello: la compassione.
Ed è proprio il richiamo ad un senso di soli-
dale pietà il filo conduttore che raccorda i molti
1 — Appello, Opera di
Soccorso per le chiese
rovinate dalla guerra nel
Trentino, Trento 1919, p. 3.
IDENTITÀ PERDUTE DA ROUAULT AI CONTEMPORANEIDomenica Primerano e Riccarda Turrina
1312
tasselli di questa mostra, un’iniziativa nata per
ricordare il primo conflitto mondiale ma che,
volutamente, intende allargare lo sguardo alle
contraddizioni del nostro tempo, alla dimen-
sione del dolore connessa ad altre situazioni di
guerra, di discriminazione e violenza, che sfiora-
no appena il nostro quotidiano, ben protetto da
rassicuranti abitudini.
Il percorso prende avvio da un video che,
utilizzando una selezione delle oltre quattro-
cento foto d’archivio scattate per documentare
i danni arrecati ai luoghi di culto del Trentino,
evoca le conseguenze, nella nostra regione, del
primo conflitto mondiale. Il visitatore è invitato
ad entrare in uno spazio che lo isola dal resto
dell’esposizione, così da stabilire una relazione
più intima con luoghi forse familiari, resi quasi
spettrali dagli effetti devastanti dei bombarda-
menti. Le chiese, le case, il paesaggio sono av-
volti in un silenzio sospeso e pesante; le stra-
de sono deserte e tutto è immobile. Sono paesi
svuotati dalla presenza dell’uomo; a volte tutta-
via si intravedono le loro sagome che, come om-
bre, si aggirano tra le rovine di una vita che non
potrà più essere uguale a prima. Il loro muoversi
con incredulo stupore in mezzo a tanta devasta-
zione sottende una domanda inespressa: quale
follia ha prodotto tutto questo?
Quella stessa follia che Georges Rouault
descrive con estrema durezza e austera essen-
zialità nelle cinquantotto tavole del Miserere, la
testimonianza più intensa della sua produzio-
ne artistica, alla quale egli affida una sofferta
meditazione sulla condizione del dolore che non
solo la guerra, ma la vita stessa, può generare.
Abbiamo scelto di affrontare il tema della
Grande Guerra attraverso le immagini severe,
forse sconcertanti e talvolta sgradevoli, di colui
che Raïssa Maritain ha definito "il più grande
pittore religioso del suo tempo". Ci pare infatti
che questo ciclo, concepito negli anni del primo
conflitto mondiale ma sviluppato tra il 1922 e
il 1927, mentre si ergevano monumenti enfati-
camente retorici alla guerra da poco conclusa,
proponga invece una riflessione intensa ma
asciutta, e perciò estremamente coinvolgente,
sulle molte devastazioni che hanno attraversa-
to e attraverseranno la storia.
Rouault esprime con forza, e spesso urla, la
sua accusa per l’uomo calpestato, offeso, discri-
minato; condanna la miseria, la sofferenza, la
guerra, che mostrano l’essere umano in tutta la
sua fragilità e impotenza. Ma sia le colpe che la
miseria umana sono abbracciate da un’infinita
pietà, sono illuminate dalla Croce e dalla resur-
rezione di Cristo. In mezzo a tanta disperazione
l’artista riesce a portare una nota di speranza,
che permetterà all’uomo di raggiungere una
sorta di riscatto da un’esistenza fatta di dolo-
re. In un mondo che allontana la sofferenza, un
sentimento con cui non si è più abituati a con-
vivere, o a condividere, Rouault ci ricorda che
l’unico varco aperto al dolore è la misericordia. È
questa la risposta di speranza che l’artista indi-
vidua nel Miserere.
A ispirarlo è il salmo 51, un testo che Gian-
franco Ravasi indica come "la segreta biografia
di anime sensibili, lo specchio della coscienza
vivissima e lacerata di uomini come Dostoe-
vskij, l’atto di accusa contro ogni forma di fari-
seismo ipocrita"2. "Riportami la gioia della tua
salvezza, sostieni in me uno spirito generoso"
recita il Salmo di Davide. Per Rouault la salvezza
può giungere solo ricomponendo quella relazio-
ne, con Dio e con gli uomini, che violenza, so-
praffazione, ingiustizia, ipocrisia hanno infran-
to. L’artista auspica che l’uomo possa compiere
un’autentica rinascita, evocata infatti dalle due
immagini, il Mattutino e il Battesimo di Cristo, "po-
ste non a caso nel punto esatto che separa le
ventotto tavole iniziali dalle ventotto tavole fi-
nali"3, più strettamente connesse al tema del-
la guerra. Il sole annuncia il nuovo giorno, così
come "la luce vera che illumina ogni uomo" (Gv
1,9) segna per il battezzato l’inizio di una nuova
vita.
L’iter del Miserere giunse faticosamente a
conclusione solo nel 1948, con la sua pubblica-
zione; come osserva Flavia Pesci, al cui saggio
in catalogo si rimanda per l’analisi del ciclo,
esso costituisce "l’ideale opera di raccordo nella
ricezione figurativa della guerra fra i due conflit-
ti mondiali e anche oltre, proiettandosi fino alle
tragedie del nostro tempo". E proprio l’atempo-
ralità di queste cinquantotto tavole ci ha indot-
to a metterle in dialogo con immagini fotogra-
fiche che richiamano altre guerre, più o meno
lontane da noi, anche solo geograficamente.
Vicine al nostro vissuto e quasi familiari
sono le immagini della Seconda Guerra Mondia-
le, che fungono da raccordo tra la Grande Guerra
e i conflitti del nostro tempo. Si è scelto di inse-
rire in mostra una ristretta selezione di scatti
realizzati nel 1943 da Robert Capa quando, al se-
guito dell’esercito americano, fu chiamato a do-
cumentare l’avanzata delle truppe alleate. Nelle
sue immagini, come attraverso le sue parole,
Capa racconta la povertà e la paura che accom-
pagnano ogni guerra, ma anche l’accoglienza,
l’emozione e la speranza.
Ritrae i soldati nelle vie di Napoli, mesco-
lati alla gente mentre condividono momenti di
spensieratezza; blocca l’istante in cui il carro
armato, di cui si percepisce il lento movimento
e la straniante dimensione di sorpresa, incontra
sulla sua strada uno scorcio dell’Italia del sud
dove un uomo sistema il basto al suo asinello;
guarda con trasporto al contadino di Troina che,
puntando il suo bastone, indica ai soldati ame-
ricani la direzione presa da un convoglio tede-
sco; racconta di una fragile bambina dall’aspet-
to sgualcito che si aggira incredula fra le ombre
della guerra: lascia penzolare il piccolo fiasco di
vetro e si guarda attorno cercando di capire. Fo-
tografie in bianco e nero, che mostrano come la
cecità della guerra colpisca sempre le persone
più indifese, immagini di una bellezza inarriva-
bile, dove una nuova dimensione umana, a poco
a poco, riprende forma tra le macerie.
Avvicinarsi il più possibile al soggetto, en-
trare nel suo sguardo, respirare la paura e la
polvere, ma anche sentire le stesse emozioni,
vivere la speranza e la bellezza di piccoli fram-
menti di umana e quotidiana normalità, è ciò
che Robert Capa intende comunicare attraver-
so i suoi reportage di guerra. Così scriveva di lui
John Steinbeck:"Capa sapeva che cosa cercare
e che cosa farne dopo averlo trovato. Sapeva, ad
esempio, che non si può ritrarre la guerra, per-
ché è soprattutto un’emozione. Ma lui è riuscito
a fotografare quell’emozione conoscendola da
vicino. Poteva mostrare l’orrore di un intero po-
polo attraverso il viso di un bambino"4.
Una figura di fotoreporter, dunque, che ha
vissuto la propria professione con impegno,
con il desiderio di restituire una visone il più
possibile vicina alla realtà. Ciò ha significato
per Capa affrontare situazioni rischiose, cam-
minare accanto ai soldati, guardare in faccia
la morte, entrare nel vivo della battaglia ma an-
che cogliere gli aspetti più nascosti, quelli lon-
tani dalle azioni di guerra e proprio per questo
in grado di testimoniare la complessità degli
eventi bellici dove anche ogni vittoria, inevita-
bilmente, porta con sé l’eco di luoghi devastati e
di identità calpestate.
La sua avventura fotografica muove dal de-
siderio di stabilire un’intesa empatica con i pro-
pri soggetti, quell’intesa in grado di accorciare
ogni distanza, di cancellare ogni timore perché,
com’era solito affermare, l’importante era ama-
re la gente e farglielo capire. Capa utilizzava la
fotografia come strumento di indagine; il suo
intento era quello di catturare ‘il momento de-
cisivo’, l’istante che avrebbe dato vita a tutto
il racconto, quale testimonianza indelebile nel
percorso della storia.
In mostra viene esposta anche una fotogra-
fia di Tino Petrelli: l’immagine ferma l’intensità
di un insperato abbraccio fra un soldato e, pro-
babilmente, la madre. Il taglio e l’inquadratura
tanto ravvicinata fanno di questa fotografia il
simbolico incontro con l’umanità liberata dal
dolore, dall’incertezza, dalle intollerabili priva-
zioni che ogni guerra porta con sé. La donna ha il
viso seminascosto, avvolto dal morbido affetto
che forse credeva perduto per sempre, nel silen-
zio della storia, fra le molteplici domande sen-
za risposta. Per i reduci della guerra di Russia,
infatti, il rientro a casa non fu sempre così im-
2 — G. Ravasi, "Miserere mei,
Deus". Teologia del peccato e
del perdono nel Salmo 51 (50),
in Georges Rouault Miserere,
a cura di F. Arensi, D. Ca-
tana Vallemani, E. Feggi,
Milano 2007, p. 35.
3 — E. Pontiggia, Meditatio
mortis, in Oltre il buio. Medi-
tazioni sulla morte. Georges
Rouault, Damien Hirst e Mim-
mo Paladino, a cura di A.
Dall’Asta S.I. e E. Pontiggia,
Milano 2011, p. 6.
4 — R. Capa, Leggermente
fuori fuoco (Slightly out of
focus), Aosta 2014, p. 9.
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mediato e qualcuno dovette attendere la morte
di Stalin prima di poter ricominciare una nuova
vita. La travolgente bellezza di questa immagine
sta in quel grido di gioia soffocato dall’emozio-
ne, in quel dolore intenso che si sfalda al calore
di un abbraccio, cancellando ogni angoscia del
passato.
Le prime tavole della seconda parte del Mise-
rere, quella più direttamente connessa al tema
della guerra, vengono messe in relazione con le
immagini scattate da Ugo Panella in Sierra Leo-
ne, un paese dell’Africa Occidentale segnato dal
marzo 1991 al gennaio 2002 da una lunga e san-
guinosa guerra civile. Furono decine di migliaia
le vittime di questo conflitto e circa due milioni
i profughi. Uno degli esiti più aberranti di questa
guerra fu l’impiego in azioni militari di ragazzi-
ni tra i 10 e i 15 anni, drogati e costretti con la
forza dai ribelli del Revolutionary United Front a
diventare protagonisti di episodi estremamen-
te cruenti. I ragazzini che camminano tra edifici
bombardati nella regione di Kono, ritratti da Pa-
nella, forse sono quegli stessi bambini soldato,
marchiati sulla fronte come bestie con la sigla
RUF, carnefici e vittime al tempo stesso di una
guerra che ne ha devastato l’adolescenza.
L’uomo può essere un animale spietato,
ci ricorda Rouault. Homo homini lupus è il titolo
della tavola XXXVII del Miserere, nella quale uno
scheletro dal ghigno beffardo e un berretto mi-
litare sulla testa avanza in un silenzio surreale
su un campo desolatamente vuoto cosparso di
teschi. Anche nella tavola precedente Rouault
raffigura uno scheletro mentre osserva, gelido
presagio di morte, l’abbraccio di due commili-
toni in partenza per il fronte. Quello che sembra
un ragazzino posa un bacio sulla guancia del
più anziano, cercando protezione o almeno con-
solazione per quanto lo attende. Un abbraccio
consolatorio che certo i bambini soldato della
Sierra Leone non poterono chiedere né ottenere...
"È invece la metafora della guerra – racconta
Ugo Panella nell’intervista che chiude il cata-
logo, alla quale si rimanda — la fotografia che
ritrae quattro ragazzi dietro al filo spinato. È vo-
lutamente un bianco e nero in controluce, non
si dovevano vedere i volti ma solo intuire le sa-
gome, figure di giovani che a causa dei conflitti
perdono la loro identità".
E di perdita parla anche Walking, la fotogra-
fia scattata nel 1994 da Alfredo Jaar, prodotta
nella versione in mostra nel 2002: "Sono stato
testimone di questa scena in Zaire, oggi chia-
mato Congo, nel 1994. — racconta — Un rifugiato
sta camminando. Il suo aspetto è simile a quello
di molti rifugiati, con i piedi nudi e un bastone.
Egli porta con sé solo un sacchetto riempito con
vecchi indumenti; ha perso tutto. Quest’uomo
era solo uno tra i quattro milioni di profughi
ruandesi alla ricerca di un rifugio al di fuori del
Ruanda o sfollati all’interno del Ruanda. Io non
ero in grado di offrire assistenza a quest’uomo
nel suo viaggio disperato. Mi ricordo di lui che
cammina".
I diritti violati, l’emarginazione sociale,
l’oppressione politica, l’emergenza umanitaria
sono i temi che il cileno Alfredo Jaar affronta uti-
lizzando diversi mezzi espressivi: fotografia, vi-
deo, installazioni multimediali. Per lui l’arte è in-
nanzitutto denuncia; deve scuotere le coscienze
e aprire un confronto con realtà che altrimenti
sarebbero ignorate. La correlazione fra etica ed
estetica è dunque l’elemento portante del suo
modo di operare; servendosi di un linguaggio
non convenzionale fa sì che l’opera d’arte inte-
ragisca con la realtà più scomoda. Ogni lavoro
nasce dalla realtà, non solo studiata ma incon-
trata, quotidianamente vissuta. Jaar infatti, pri-
ma di realizzare le sue opere, entra in contatto
con i luoghi, con le persone, con quelle situazio-
ni che poi diventano l’oggetto della sua indagi-
ne critica. Dice di aver imparato questo modo di
procedere dall’architettura e proprio per questo
si definisce un architetto che fa arte e non un
artista da studio. Un’arte critica spesso scomo-
da e senza compromessi che grida con tutti i
linguaggi possibili come la libertà sia un diritto
inviolabile. Protagonisti delle sue opere, infatti,
sono coloro che subiscono gli effetti delle disu-
guaglianza: le vittime del genocidio in Ruanda,
gli schiavi della miniere d’oro in Brasile, i mi-
granti che tentano di attraversare il confine tra
Messico e Stati Uniti, gli abitanti contaminati
dalle discariche di rifiuti tossici in Nigeria. È l’e-
sperienza personale a conferire a queste opere
l’autentico valore di testimonianza ma anche di
monito contro ogni forma di odio, di ignoranza,
di disimpegno sociale e politico.
Al centro del suo interesse sta il rapporto tra
l’occidente e terzo mondo; per questo ha docu-
mentato in numerosi progetti l’approccio irre-
sponsabile dei media occidentali nei confronti
del continente africano, mettendo più volte in
evidenza le mancanze della comunità interna-
zionale nei confronti dei paesi più poveri.
Alfredo Jaar nell’agosto del 1994 si è recato
in Ruanda per conoscere e quindi documentare
la triste storia di un paese deturpato dalla vio-
lenza. Tra il 1994 e il 2000 ha parlato con i so-
pravvissuti, ha registrato le loro voci, scattato
moltissime fotografie, nelle quali l’artista rac-
conta il genocidio del 1994, quando, in soli cento
giorni, un milione di persone vennero massa-
crate dalle milizie Hutu, mentre la comunità in-
ternazionale rimaneva indifferente.
Walking può essere accostata alla tavola
XXIV del Miserere, nella quale una figura cam-
mina con il capo reclinato, portando sulle spalle
un pesante fardello. Il titolo, Inverno lebbra della
terra, collega questa scena alla stagione "odiata
dalla povera gente"5. Ma lo sguardo di Rouault
volge nella direzione della speranza. Nella ta-
vola V, Si rifugia nel tuo cuore, infelice vagabondo,
un poveraccio, con un pesante sacco in spalla,
sembra voler guidare o solamente accompa-
gnare il cammino di un bambino. Tende la sua
mano, con un gesto carico di dolcezza, e la posa
sulla spalla del piccolo. Aiutano a comprendere
meglio questa immagine i versi dei Soliloques di
Rouault: "La strada è lunga / Scende e poi risale
/ E scende ancora / Fino alla fine dei Tempi. /
Fuggitivi! / La primavera ritornerà / Torna sem-
pre"6.
Nella loro fuga, anche i disperati di Calais
rincorrono una speranza: quella di un’esistenza
migliore, al di là della Manica. Qui nel 2007 Jean
Revillard ha realizzato Jungles, un lavoro fotogra-
fico ancora, nonostante il passare del tempo, di
scottante attualità.
La cittadina francese, da sempre punto di
transito per i migranti verso il Regno Unito, è
diventata un luogo di frontiera interna all’Unio-
ne Europea. I migranti, attualmente circa tremi-
la persone, che non hanno trovano ospitalità e
condizioni di vita decenti nei paesi europei at-
traversati durante il loro difficile percorso, cer-
cano proprio qui un passaggio. La maggioranza
di loro sono afghani, iracheni, iraniani, somali,
eritrei, sudanesi, siriani; provengono quindi da
zone di conflitto o da paesi con dittature. Un
problema di immensa portata che sta causan-
do numerose vittime fra coloro che, per scap-
pare dalla guerra, compiono viaggi estenuanti:
uomini, donne e bambini che spesso trovano la
morte in mare o nei camion abbandonati lungo
la strada.
Quando giungono a Calais stazionano in pe-
riferia in accampamenti occasionali, senza ser-
vizi, senza assistenza e sono spesso vittime di
sgomberi improvvisi e violazioni dei diritti uma-
ni da parte della polizia e del governo francese.
In seguito alla chiusura del campo di Sangat-
te avvenuta nel 2002, sono spuntati in tutta la
zona una serie di campi informali, dove le con-
dizioni di vita sono estremamente precarie. Pic-
coli ripari, sgangherati e colorati si intrecciano
a un sottobosco disordinato, fatto di ramaglie
pungenti che accentuano la desolante situazio-
ne umana, più volte denunciata da associazioni
umanitarie quali Médecins du Monde e France Ter-
re d’Asile. E da anni i migranti protestano, anche
attraverso occupazioni e azioni dirette, affinché
venga riconosciuta la loro condizione di rifugia-
ti.
Le Jungles di Calais, che Revillard racconta
nelle sue fotografie, sono dunque dei ripari di
fortuna situati ai margini della città, lontani da
ogni sguardo compassionevole. I migranti oc-
cupano abusivamente pezzi di terreno incolto
e boscoso, accanto a una fabbrica, nei pressi
6 — Ibidem, p. 196.
5 — G. Rouault, Soliloques,
Neuchâtel 1944, p. 182.
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dell’autostrada, in riva al mare; sono angoli ab-
bandonati dove l’umanità in cammino, travolta
dalle guerre e dalla violenza, si ritrova e chiede
aiuto, ammassata in tuguri che nulla possono
contro il freddo inverno dell’egoismo. "Sono un
medico", dice all’intervistatore un ragazzo si-
riano, quasi a giustificare la sua presenza e ha
nello sguardo l’incertezza del futuro e l’impon-
derabile paura della guerra.
Ma a Calais non ci vogliono rimanere per
sempre, anche se spesso sono costretti a sta-
zionare per mesi fino a quando trovano un
camion che attraversa l’eurotunnel. Allora si
nascondono all’interno del veicolo, ma anche
all’esterno aggrappati sotto, sperando di sfuggi-
re ai controlli della polizia francese e inglese che
negli anni si sono fatti sempre più severi. Anche
le donne cercano questo genere di passaggio,
magari mentre i tir sono fermi alle stazioni di
servizio o lungo le aree di sosta in autostrada.
L’attesa dunque è lunga; devono poi pagare i tra-
ghettatori che controllano i parcheggi, schivare
le retate della polizia e la distruzione periodica
delle giungle, effettuata con mezzi cingolati.
Mentre i sostenitori dell’ondata antimigrato-
ria mettono in sicurezza il porto con barriere e
reticolati e un numero sempre più consistente
di poliziotti cerca di impedire gli imbarchi clan-
destini, qualcuno riesce a raggiungere l’altra
costa.
Nelle sue immagini Revillard ha fotografato
solo le capanne, cancellando la presenza uma-
na e accentuando, attraverso l’assenza, il vento
gelido della solitudine, della sofferenza. Sono
dunque i cartoni, i teloni, le coperte a parlare:
dimore sghembe e traballanti, dalle pareti in-
stabili, appoggiate a ramaglie intricate dove i
migranti si riparano dalle intemperie, condivi-
dendo un sogno o forse un’illusione.
Sono le dimore provvisorie di chi ha dovuto
lasciare paesaggi come quello afgano, ritratto
da Ugo Panella, quasi al confine con il Pakistan,
verso il Khyber Pass. Di chi è fuggito dalla pro-
pria terra, dalla propria casa, sapendo che non
vi avrebbe più fatto ritorno. La malinconica don-
na afghana, coperta dal burka e rivolta verso il
lago, esprime forse il presagio di futuri, inevita-
bili abbandoni.
C’è una forte assonanza tra questa imma-
gine e la tavola XLIII, Dobbiamo morire, noi e tutto
ciò che è nostro del Miserere: il titolo è tratto da un
verso dell’Ars poetica di Orazio che "paragona la
vita dell’uomo a quella delle parole che passa-
no e delle foglie che hanno una vita breve e si
seccano"7. Al centro dell’immagine Rouault raf-
figura una giovane donna dallo sguardo malin-
conico; il corpo sottile e sinuoso, la lunga mano
affusolata posata sul mento, i grandi occhi ab-
bassati con grazia, sembra accettare con paca-
ta rassegnazione il destino che la attende. Ana-
loga consapevolezza e composta accettazione
si coglie nella donna ritratta da Panella.
In mostra sono presenti inoltre due scultu-
re di Simone Turra, artista trentino che dà vita
a figure arcaiche, quasi mitiche, che sembrano
ancora fuse alla natura; in dialogo con quelle di
Rouault, raccontano la dimensione tragica del
dolore, i silenzi e gli abbandoni che accompa-
gnano il vivere umano.
La scultura per Simone Turra, prima di di-
ventare interazione fra spazio e figura, è mani-
festazione di un modo di essere e di vivere, è il
racconto tangibile del proprio pensiero esisten-
ziale, è pura bellezza connessa alla semplicità
di un gesto, ma anche alla teatralità della sua
rappresentazione. I corpi colti nel momento
di abbandono, con il capo reclinato, le braccia
che toccano il vuoto, avvolti dal sonno ma an-
che dalla condizione del dolore, accentuano la
tensione della materia che si divincola dentro
forme essenziali ma inquiete. L’artista infat-
ti racconta da dentro le tensioni del legno, del
marmo, del bronzo e i suoi soggetti, prima scol-
piti e indagati sulla carta, sono la personifica-
zione di un mondo interiore che attinge all’i-
nesauribile creatività della natura per cercare
la propria identità umana. Dietro la realtà che
Turra restituisce in morbide linee, dove la ma-
teria si configura come un giacimento di forme
perdute, si percepisce la voce del silenzio, il toc-
co sospeso del mistero. Attraverso le armoniche
soluzioni plastiche l’artista permette al fascino
dell’antichità di emergere e nel contempo si fa
portavoce di una quotidianità percepita come
viaggio nel mondo delle emozioni, le uniche
in grado di sfrondare, attraverso il linguaggio
dell’arte, le intemperie del tempo.
Mon doux pays, où êtes-vous? È il titolo della
tavola XLIV del Miserere e di questa mostra. Una
domanda che racchiude tutto il senso di perdi-
ta di chi assiste impotente alla distruzione dei
luoghi che racchiudono la storia e l’identità di
ciascuno, di chi è costretto ad andarsene af-
frontando viaggi indicibili, per terra e per mare.
Ma Domani sarà bello, diceva il naufrago (tavola
XI) "Domani sarà bello... / pensa egli piangendo /
tenendo il suo cuore / nelle sue mani tremanti e
ghiacciate / il naufrago"8.
Una speranza che attraversa tutto il Miserere
e che Rouault ripone cristianamente nel sacri-
ficio di Cristo in croce e nella Madonna di Fini-
sterre, collocate alla fine del ciclo. Come la Ver-
gine, anche la donna con l’abito rosso ritratta
da Panella tiene in braccio il suo bambino: dalla
finestra di un minareto guarda fiduciosa verso
la città che le sta davanti. Perché "Capita che tal-
volta il cammino sia bello" (tavola IX).
8 — Georges Rouault. Opere
grafiche. Catalogo icono-
grafico, schede a cura di
P. Bellini, C. Colzani, Ch.
Cremona, C. Morganti, B.
Spadaccini, Milano 2015,
p. 70.7 — Georges Rouault. Opere
grafiche. Catalogo icono-
grafico, schede a cura di
P. Bellini, C. Colzani, Ch.
Cremona, C. Morganti, B.
Spadaccini, Milano 2015,
p. 134.
1918
Simone Turra
Torso
2004
bronzo, lunghezza 126
Simone Turra
Sonno Francesco
2012
bronzo, 160x60x50 cm
23
22
Motivi e fig
ure n
el Miserere d
i Georg
es Rou
ault
Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt
Virgilio, AEn., I, 462
La violenza espressiva dell’arte di Georges Rouault affonda le proprie
radici in un profondissimo senso morale, e si nutre di figurazioni ico-
niche e crude che sembrano appartenere a un immaginario primitivo. I
suoi personaggi ci parlano dell’universalità del dolore e del degrado della
condizione umana attraverso un vocabolario scarnificato, che li racchiu-
de entro energiche e scurissime linee di contorno, quasi un cloisonné, e
hanno sempre fatto ricordare il tirocinio dell’artista nella bottega di un
restauratore di vetrate. Ai sogni e alle visioni dell’arte simbolista si so-
stituisce qui una rappresentazione del mondo dai toni arcaici e voluta-
mente ‘brutali’, in grado di dar forma alla desolazione dei derelitti, come
accusa, emozione e compassione insieme. È una scelta radicale, intrisa
di "liquido corrosivo, un liquido amaro che ci trasuda in cuore"1, che vuole
sottolineare "le trait de la violence du message, de la colère, de la pitié, de
la démonstration excessive du banal et du cruel dans l’unique dessein de
faire de la médiocrité une horreur écoeurante"2.
Nella sensibilità dell’artista, questa predisposizione a sentire e dar
voce alla debolezza e alla conseguente miseria morale dell’uomo, acco-
gliendola però nella propria visione di credente, acquisirà inevitabilmente
un senso speciale con l’esperienza della guerra, che incarna il culmine
di questa tragica devastazione, il momento in cui l’insensata efferatezza
della condizione umana si manifesta in tutta la sua violenza. L’esito cen-
trale dell’opera di Rouault, che prenderà la forma delle cinquantotto tavo-
le del Miserere, benché concepito già prima dello scatenarsi del conflitto,
prenderà così un significato molto più totalizzante, tanto da invadere la
produzione di un’intera vita. Lo si coglie già nelle parole premesse dall’ar-
1 — G.L. Verzellesi, 1954,
come citato da Paolo
Bellini: "In Italia merita
ricordare una riflessione
contenuta in un articolo
redatto anteriormente alla
mostra tenuta a Milano nel
1954 da G.L. Verzellesi, che
osserva come nelle opere
di questo artista ci sia
una quantità formidabile
di liquido corrosivo, un
liquido amaro che ci
trasuda in cuore, mentre lo
sguardo penetra le forme.
Il grido delle immagini
cade in noi, ripetendo
certe oscure verità che i
farisei vorrebbero ancora
dissimulare dietro un
sorriso"; P. Bellini, La storia
e il senso dell’opera grafica di
Rouault, in Georges Rouault.
Opere grafiche. Catalogo
iconografico, schede a cura
di P. Bellini, C. Colzani, Ch.
Cremona, C. Morganti, B.
Spadaccini, Milano 2015,
p. 12.
«MA COLÈRE N’EST QUE L’EFFERVESCENCE DE MA PITIÉ» Motivi e figure nel Miserere di Georges Rouault
Flavia Pesci
2524
2 — M. Restellini, Georges
Rouault. Les chefs-d’oeuvre
de la collection Idemitsu,
catalogo della mostra,
Paris 2008, p. 18.
3 — Prefazione di Rouault
al Miserere, pubblicato in
George Rouault. Miserere,
catalogo della mostra
a cura di F. Arensi, D.
Catana Vallemani, E. Feggi,
Cinisello Balsamo, Milano
2007, pp. 48 ss.
4 — Lettera a Georges
Chabot, riportata in
F. Chapon, I. Rouault,
Rouault, catalogue raisonné
de l’oeuvre gravé, 2 voll.,
Montecarlo 1978, I, p. 33.
5 — P. Bellini, Il senso del
Miserere, in Georges Rouault,
catalogo della mostra
a cura di R. Chiappini,
Milano 1997, p. 150.
6 — P. Bellini, Miserere. Intro-
duzione alla serie, in Bellini
2015 cit., pp. 47-48.
7 — Per la storia detta-
gliata della genesi e della
realizzazione della serie si
veda Bellini 2015 cit., pp.
47-48.
8 — Bellini 2015 cit., p. 12.
9 — Prefazione di Rouault
al Miserere, come riportato
in George Rouault. Miserere
2007 cit., p. 49.
10 — Idem, p. 17 nota 25.
tista alla serie stessa, in cui afferma che "la pace sembra di rado regna-
re su questo mondo angosciato da ombre e parvenze"3. Se per l’artista,
nato nel 1871, può restare psicologicamente sullo sfondo la conoscenza
del realismo e della critica sociale di Honoré Daumier — senza tuttavia
mai riprenderne le valenze caricaturali — rimane senz’altro fondamentale
l’alunnato formativo presso Gustave Moreau, il visionario precursore del
simbolismo, anche se diversamente religioso e ‘profetico’, al quale del re-
sto lo stesso Miserere verrà significativamente dedicato.
Opera dalla lunga e travagliata gestazione, ma che va considerata tra
i più grandi capolavori dell’incisione novecentesca, la serie conobbe in-
fatti vicende complesse che si protrassero fino all’esito finale della sua
pubblicazione, nel 1948 (e persino oltre). Il Miserere rappresenta di fatto il
testamento spirituale dell’artista, in cui egli stesso credeva di aver messo
il meglio di sé, una sorta di "confession à la fois, je l’espère plastique et
spiritualiste"4 cui attribuì sempre un’importanza essenziale, l’espressio-
ne più eloquente della sua cospicua e peculiare produzione grafica. Si è
giustamente rilevato come anche la critica coeva abbia "sottolineato l’ec-
cezionalità di un’opera così inconsueta: Roger-Marx la definì ‘il grande te-
stamento del pittore’ e Chabot, quasi a fargli eco, aggiunse: ‘Quest’opera è
impressionante, mette persino paura’"5.
Il progetto fu ideato nelle sue linee generali già dal 1912, sull’impulso
del trauma emotivo causatogli dalla morte del padre, inizialmente come
raccolta d’incisioni suddivise in quattro parti (di cui una recava fin da
questo momento il titolo Miserere) da riunire poi in un unico album. Sa-
ranno però gli avvenimenti drammatici del primo conflitto mondiale, con
la crescente efferatezza letale delle nuove armi, a determinarne il nucleo
forte e distintivo, con l’inserimento di una parte espressamente dedicata
alla guerra, in una sorta di lamento spirituale intimo e al tempo stesso
universale, intensamente religioso ed evangelico, che si leva da un’uma-
nità immersa nella solitudine e nel dolore, la cui unica speranza è il con-
forto e il perdono divino.
Sempre, a proposito di questi soggetti, si è rimandato alle grandi
esperienze del passato, soprattutto grafiche, fissate visivamente da Cal-
lot e Goya, i cui Desastres condensavano in un potente universo d’immagi-
ni tutto l’orrore, l’insensatezza e la crudeltà della guerra. Ma di certo nello
sviluppo di questa sequenza di figurazioni, rigidamente stabilita e scan-
dita dallo stesso Rouault, dovettero essere anche più importanti le decli-
nazioni diverse e personali che dell’esperienza devastante del conflitto
mondiale diedero tanti artisti a lui contemporanei, cui inevitabilmente
dovette guardare: dall’inconsolabile disperazione delle commoventi
stampe di Käthe Kollwitz, in particolare le sette xilografie del 1922-23, che
esprimono il dolore per la morte del figlio caduto in battaglia nel 1914, alla
denuncia sociale di George Grosz e alla satira politica di Otto Dix, che nel
1924 esegue la serie in cinquanta tavole intitolata appunto Krieg (Guerra),
fino all’emblematica Guernica di Picasso, del 1937. Verrebbe quasi da af-
fermare, viste le date della sua pubblicazione, che il Miserere sia l’ideale
opera di raccordo nella ricezione figurativa della guerra fra i due conflitti
mondiali e anche oltre, proiettandosi fino alle tragedie del nostro tempo.
Scaturita dallo stesso clima storico cui avevano dato forma le immagini
di quegli artisti, il Miserere è però il frutto unico e particolare nato dalla
speciale miscela di religiosità e umanesimo al cuore di Rouault, che lo tie-
ne sempre al di qua del limite, mai oltrepassato, dell’angoscia devastante
e sconsolata o della ribellione politica e sociale. Se il titolo di una tavola
esplicitamente rimanda a quella sorta di ‘pessimismo cosmico’ virgiliano
del sunt lacrimae rerum ("la storia è lacrime, e l’umano soffrire commuove
la mente", cfr. tav. XXVII), la sua particolare religiosità si sintetizza nella
supplica biblica del Miserere mei, il grido alzato a Dio da Davide peccatore,
posto nella tavola d’esordio della raccolta, che lascia sempre aperta una
possibilità di redenzione.
Ai primi soggetti della serie, cui mette mano, per sua stessa affer-
mazione, già nel 1914-18, in pieno conflitto bellico, seguono all’aprirsi del
nuovo decennio l’esecuzione di disegni a inchiostro di china e delle pri-
me tavole, dopo aver preso accordi col mercante d’arte, editore e scrittore
Ambroise Vollard per la realizzazione delle illustrazioni alle Réincarnations
du Père Ubu in cambio della pubblicazione della raccolta di opere che già
considerava il Miserere6. Dal primitivo progetto di un’opera suddivisa in
quattro sezioni, con un corredo iconografico relativamente limitato, si
giunse presto a una sua riformulazione focalizzata sui temi del Misere-
re e della guerra, su cui l’artista andò progressivamente concentrandosi,
fino a elaborare un centinaio d’immagini7. Quando Vollard, alla disponi-
bilità dei disegni di Rouault, decise di farne eseguire una trasposizione
fotomeccanica, apparentemente all’insaputa dell’artista, questi fu allora
incalzato a dedicarvisi di fatto, tra 1922 e 1927, con un impegno assiduo,
lavorando ogni sera fino a tarda notte per almeno sei anni, in solitudine e
concentrazione assoluta. Non ancora organizzate in un’autentica edizio-
ne, alcune tirature circolarono prima di quella ufficiale, come sappiamo
da un’esposizione del 1926 ai Quatre-Chemins, meritando gli elogi di un
anonimo commentatore sul "Journal des Débats", che ne raccomandava
la visione perché "è tutto un dramma e una preghiera"8. Entro il 1938 le
lastre furono tirate in 500 esemplari dallo stampatore Jacquemin per poi
essere per sempre biffate; l’anno seguente un contratto ne fissava i ter-
mini della pubblicazione, da eseguirsi in due volumi con un testo iniziale
di André Suarès, col titolo Miserere et Guerre. Pochi giorni dopo, tuttavia,
l’improvvisa morte di Vollard nel luglio del 1939 e lo scoppio della Seconda
Guerra Mondiale, il primo settembre, dovevano bloccarne ancora a lun-
go il cammino verso l’edizione definitiva. Ma quanto questo lavoro fosse
fondamentale per Rouault emerge dalla tenacia con cui ha voluto e dovu-
to inseguire le sue stampe per anni, facendo causa agli eredi Vollard dai
quali solo nel 1947 otterrà la restituzione, con vicende e ritardi infiniti che
lo porteranno persino a dichiarare nella presentazione dell’opera, affidata
2726
11 — Ora citato in Bellini,
1997 cit., p. 153. Sul rappor-
to tra Moreau e Rouault si
veda inoltre C. Scassellati
Cooke, The ideal of history
painting. Georges Rouault
and other students of Gusta-
ve Moreau at the Ecole des
Beaux Arts, Paris, 1892-98, in
"The Burlington magazine",
CXLVIII, 2006, 1238, pp.
332-339.
12 — "Vous êtes attirés
par le laid exclusivement,
vous avez le vertige de la
hideur": Léon Bloy, L’inven-
dable, in Journal, vol. I, Paris,
1999, p. 584, ora citato in G.
de Beaupte, George Rouault,
le Léon Bloy de la peinture,
in "Revue Catholique In-
ternationale. Communio",
XXXIX/4, Paris 2014, pp. 1-5.
13 — Cfr. de Beaupte 2014
cit., p. 4 nota 22.
14 — Come citato da G.
Galeazzi, Umanesimo e
umanità di Georges Rouault,
in George Rouault 2007 cit.,
pp. 18-26 (p. 18).
15 — Si veda Rouault. Il circo,
la guerra, la speranza. Opere
grafiche dalle collezioni mila-
nesi, catalogo della mostra
a cura di E. Pontiggia,
Milano 2002, pp. 22-23
(cit. in Bellini 2015 cit., p. 17
nota 27).
16 — M. Bona Castellotti, Il
Miserere di Georges, in "Trac-
ce.it. Rivista internazionale
di Comunione e Liberazio-
ne", n. 5, maggio 1997.
17 — Ibidem.
18 — Cfr. L. Carrier, La Ro-
chelle. Musée des Beaux-Arts.
Le Miserere de Georges
Rouault, in "La Revue du
Louvre", 5/6, 1980, a. XXX,
pp. 373-374 (p. 374)
19 — Prefazione di Rouault
al Miserere cit.
20 — B. Doering, Lacrimae
Rerum-Tears at the Heart of
Things: Jacques Maritain and
Georges Rouault, in "Essays
in Honor of Jacques Mari-
tain", a cura di J.G. Trapaci
jr., Washington 2004, pp.
204-223 (pp. 213-223).
infine alla società d’edizioni "Étoile filante": "Malgrado un certo ottimismo
di fondo, ho passato ore difficili e ho dubitato di poter vedere la pubblica-
zione di questo lavoro concluso già da molto tempo e al quale ho sempre
attribuito un’importanza essenziale"9. Né la storia si ferma qui: nel 1951
un’edizione del Miserere "riproduce fotomeccanicamente e in formato ri-
dotto le tavole della serie, sotto alle quali si trova la riproduzione del titolo
scritto a mano dall’artista, anch’esso riprodotto fotomeccanicamente"10.
In rapporto a una lettura stilistica di questa ‘imagerie del dolore’ può es-
sere utile tornare a ciò che è stato detto dell’arte di Rouault da chi, vicino
a lui, poteva meglio coglierne la particolare religiosità. Pur nelle diversis-
sime accezioni misticheggianti di cui è intrisa la visione estetica del suo
maestro Moreau, questi seppe già cogliere lucidamente la natura più pro-
fonda dell’opera del proprio discepolo: "Voi amate un’arte grave e sobria
e, nella sua essenza, religiosa"11. Affascinato dalla corrosiva personalità di
Léon Bloy, che dopo una breve amicizia lo accuserà invece, nella sua criti-
ca feroce, di essere attirato sul piano artistico esclusivamente dal brutto,
e di avere una morbosa attrazione per l’orribile12, Rouault resta comunque
talmente suggestionato dal personaggio, che si potrebbero attribuire a lui
stesso le parole dello scrittore e polemista francese "ma colère n’est que
l’effervescence de ma pitié"13. Ancora più vicino è lo sguardo di Jacques
Maritain che gli fu invece amico fino all’ultimo, e che ne apprezzava "que-
sta sua arte, dalla violenza così sfrenata, così presa dai contorni atroci del
peccato e della ferocia umana, ma al contempo e sempre maggiormen-
te imbevuta di indicibile pietà"14. Risvolto di questo messaggio brutale
è un’aperta ‘sgradevolezza’ stilistica di Rouault, le cui immagini hanno
dei toni arcaizzanti volutamente maldestri, che rifuggono da ciò che egli
stesso chiamava "il bello fisso"15. Nell’arte di Rouault si è, non a caso, evi-
denziata una certa "severità neomedioevale: nei volti di Cristo è facile ri-
trovare archetipi bizantineggianti o i primitivi italiani anteriori a Giotto o
la scultura lignea"16, ma "è presumibile che alla piacevolezza abbia rinun-
ciato per ragioni oltre che di istinto, di protesta"17 e che in definitiva le sue
immagini assumano, proprio in virtù di questa severità e semplificazione,
una particolare forza iconica ed evidenza comunicativa.
Al fondo di tutti questi aspetti stilistici s’innerva il paradosso della
straordinaria pittoricità delle sue stampe, in cui non prevale mai il carat-
tere grafico e lineare. In questo Rouault si distacca da molti artisti del suo
tempo, soprattutto dai suoi contemporanei espressionisti, che cercavano
effetti intrinsecamente basati sul segno, ed evidentemente in funzione
dei materiali e dei processi con cui erano stati realizzati. Semmai, sem-
bra condividere con gli espressionisti una matrice di rigore medievalista,
certo in rapporto alla sua fede ardente, che non può non emergere nel
suo stile, segnato anche dall’eredità del gotico francese, con le antiche
vetrate delle cattedrali già tanto ammirate in gioventù presso il suo pri-
mo maestro. A partire dall’anomalo processo di trasferimento dei disegni
originali del Miserere su altrettante lastre riprodotte fotomeccanicamente,
l’evoluzione tecnica della serie vede Rouault adottare i metodi d’incisione
più vari. Si mescolano e sovrappongono così, su una base all’acquafor-
te, all’acquatinta o alla cera molle, l’uso del bulino, puntasecca e rotella,
ma anche di strumenti meno convenzionali come raschietti, lime, bruni-
toi e carte vetrate, in sperimentazioni certamente non ortodosse, ma che
lo portano a risultati diversi rispetto a ogni altro incisore18. Il risultato
furono le grandi e potenti stampe che uniscono la vigorosa semplicità
della pennellata tipica dell’artista a effetti prossimi a quelli del monotipo,
tecnica che pure egli praticò, con neri intensi e una ricca gamma di grigi
densi e ‘fangosi’, linee diversificate, abrasioni e graffi. L’assenza di colore
e la monumentalità delle forme di Rouault imprimono a queste immagini
un’imponente gravità che ne viene ulteriormente aumentata se si guarda
alla serie nel suo insieme, come lo stesso artista raccomandava. Un lavo-
rio incessante protrattosi, come si è detto, per almeno sei anni, che lo vide
rilavorare a lungo le matrici — mai pienamente soddisfatto nel corso del
lavoro — fino a creare dodici o persino quindici stati successivi19. Insom-
ma: piegando ogni tecnica calcografica alla resa pittorica delle sue opere
su tela, l’approccio sperimentale di Rouault nell’incisione resta assoluta-
mente fuori da ogni regola.
Come tutto questo prenda forma nelle tavole del Miserere lo si intra-
vede seguendo l’esito di un processo ideativo complesso quasi quanto
quello tecnico, che nella sequenza fissata dall’artista sembra ancora in
rapporto con un linguaggio didascalico e primordiale, una sorta di Biblia
pauperum al pari dei cicli di affreschi o delle grandi vetrate colorate delle
chiese medievali. Al centro resta sempre la raffigurazione dell’uomo: fe-
rito, franto, deformato, come ‘Uomo dei dolori’ a cui non resta che offrire
la propria solitudine a chi lo percuote. Persino il continuo ricorrere dei
personaggi del circo e dei volti di Cristo, sintetici come immagini popolari
con Crocefissi e Volti santi, ci fa vedere quanto la maschera del clown non
sia in fondo dissimile dalla maschera di sangue della Vittima sfigurata
e rifiutata dagli uomini, ferita e derisa dell’Ecce Homo. Il titolo, lo si è det-
to, riecheggia il salmo penitenziale di Davide che invoca la misericordia
di Dio. Ma se la vicinanza continua della guerra è una fonte evidente per
l’artista nello sviluppo concettuale della serie, il tema del dolore assume
una valenza più universale: ecco che il titolo iniziale Miserere et Guerre si
ridurrà a Miserere, anche solo per una scelta di evidenza grafica e di inci-
sività, senza per questo rinunciare in alcun modo alla centralità del tema
e del dramma bellico.
Sono state proposte alcune chiavi di lettura interpretativa rispetto alle
tante immagini che Rouault avrebbe selezionato per la pubblicazione fi-
nale, tra le cento inizialmente previste, per guidare l’osservatore — verreb-
be quasi da dire il ‘lettore’ — nel percorso visivo, che può presentare salti
e ritorni non immediatamente comprensibili. Così, ad esempio, rispetto
a una mera elencazione tematica prevalente negli studi critici, Bernard
Doering tenta un approfondimento che unisce al puro motivo iconogra-
29
28
fico un contenuto etico, morale o religioso, riunendo in poche ma signifi-
cative categorie i soggetti dei poveri coi loro oppressori, con le ingiustizie
perpetrate dalle leggi umane; la tristezza estraniante dei clown; il degra-
do del peccato nelle prostitute; lo spaesamento dei rifugiati dalla guerra
e dalla miseria; l’universo simbolico del Cristo come uomo-che-soffre20.
Nell’ultima, recentissima occasione espositiva, Paolo Bellini ne suggeri-
sce piuttosto una suddivisione logica in dieci momenti progressivi, che
riuniscono le tavole col Cristo sofferente, l’angoscia dell’uomo, i pur pre-
senti momenti di speranza, le diverse immagini della donna, l’identifica-
zione dei perseguitati impotenti e dimenticati, le ricorrenti situazioni ne-
gative, la speranza della salvazione, le numerose raffigurazioni incentrate
sulla guerra, fino all’epilogo in cui Cristo è il solo esempio di fiducia da
seguire in una vita di sofferenze21.
Sebbene nella quasi totalità delle tavole il messaggio sia affidato,
nell’efficacia della loro espressività, alla rappresentazione di grandi figu-
re in primo piano che occupano tutto lo spazio dell’immagine, altre vol-
te il tema della miseria umana è declinato mediante la raffigurazione di
paesaggi, più o meno popolati. Se la Rue des Solitaires (1922, tav. XXIII) è
un luogo desolato ma reale dell’allora periferia parigina, che diventa per
traslato il palcoscenico buio e vuoto di tante solitudini urbane, in Au pays
de la soif et de la peur (1923, tav. XXVI), che suona come il luogo di una bi-
blica condanna divina, si arriva già al sentore della guerra, in un esilio
infernale che è quello degli sfollati. Ma certo il lamento per le devastazio-
ni belliche è ancora più esplicito in un’immagine come Mon doux pays où
etes-vous? (1927, tav. XLIV), che esprime nella lingua ora familiare del pae-
saggio urbano bombardato l’estraniante condizione dei sopravvissuti. La
guerra rappresentata nelle gerarchie militari, negli ordini disumani, nella
banalità opprimente del male, riemerge però in molte altre tavole: dal di-
stacco del giovane dal padre al momento della chiamata alle armi, quasi
una partenza del Figliol prodigo, presago della morte che già lo aspetta
(Ce sera la dernière petit père!, 1927, tav. XXXVI), all’atroce condizionamento
sui rapporti tra gli uomini sviliti dalla guerra (Homo homini lupus, 1926 tav.
XXXVII), alla tronfia vanità degli ufficiali, descritti con un graffiante sarca-
smo prossimo alle analoghe figure di Otto Dix (Plus le coeur est noble moins
le col est roide, 1926, tav. XLIX). Ma quando all’orrore della guerra si fa argine
il mondo femminile (Bella matribus detestata, 1927, tav. XLII), ecco che su-
bito riemerge l’immaginario religioso che rievoca le Madonne medievali.
Il "duro mestiere di vivere" (1922, tav. XII) è rappresentato però, con
cosciente paradosso, anche tramite l’immagine ricorrente dei pagliacci,
a cui dedica dipinti e interi cicli d’incisioni. Qui ne se grime pas? (1923, tav.
VIII, con un’interessante variante non finita in collezione privata22) pone
la sua domanda nei semplici termini di un clown triste che ci guarda;
ma ogni banalità scompare nell’ambiguità della bocca e degli occhi, che
assumono contemporaneamente un’espressione di tristezza, rassegna-
zione e accusa. Nella poetica di derivazione simbolista, l’artista è visto
21 — Bellini 2015 cit., p. 15.
22 — L. Tavola, Inediti di
Georges Rouault, in "Grafica
d’arte", a. XIV, 54, apri-
le-giugno 2003, pp. 16-21
(p. 19 n. 4).
23 — G. Rouault, lettera
al critico d’arte Edouard
Schuré nel 1909, citata da
F. Hergott, Rouault, Paris
1991, p. 15.
come profeta e martire, guidato da una visione più penetrante nell’accusa
verso la società e la denuncia della sofferenza. Si potrebbe persino andare
oltre, nel paradosso che vede Dio stesso farsi ‘risibile’ come un pagliaccio,
subire gli oltraggi e gli scherni, fino alla morte in croce. È il ‘mondo alla ro-
vescia’ delle Beatitudini ("Beati voi che ora piangete, perché riderete" [Luca
6, 21]); ma l’artista riesce a sorprenderci ancora nella sua più intima ed
estrema rivelazione, dicendoci quanto in quei tanti clown egli abbia in re-
altà rappresentato se stesso: "Ho visto chiaramente che il ‘pagliaccio’ ero
io, eravamo noi, quasi tutti noi... Quest’abito bello e coperto di lustrini ce
lo dà la vita. Siamo tutti pagliacci, in misura maggiore o minore, portiamo
tutti un abito coi lustrini, ma se ci sorprendono come io ho sorpreso il vec-
chio pagliaccio, oh! Allora chi oserà dire di non essere colto fino al fondo
delle viscere da un’incommensurabile pietà?"23.
3130
Georges Rouault
(Parigi 1871-1958)
Miserere
tav. I
"Miserere mei Deus,
secundum magnam
misericordiam tuam"
"Pietà di me, o Dio,
secondo la tua
misericordia"
(Salmo 50-51)
1923
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
33
32
tav. II
Jésus honni...
Gesù deriso...
1921
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. III
Toujours flagellé
Sempre flagellato
1922
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
3534
tav. IV
Se réfugie en ton coeur,
va-nu-pieds de malheur
Si rifugia nel tuo cuore,
infelice vagabondo
1922
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. V
Solitaire, en cette vie
d’embûches et de malices
Solo, in questa vita fatta
di insidie e di malizie
1922
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
3736
tav. VI
Ne sommes-nous
pas forcats?
Non siamo forse
degli schiavi?
1926
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. VII
Nous croyant rois
Noi che ci crediamo dei re
1923
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. VIII
Qui ne se grime pas?
Chi non si mette
una maschera?
1923
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
39
38
tav. IX
Il arrive parfois que
la route soit belle...
Qualche volta
il cammino è bello...
1922
acquatinta e puntasecca
rotella su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
4140
tav. X
Au vieux faubourg des
Longues Peines
Nella vecchia periferia
Lunghe Pene
1923
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. XI
Demain sera beau,
disait le naufragé
Domani sarà bello,
diceva il naufrago
1922
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
4342
tav. XII
Le dur métier de vivre...
Il duro mestiere di vivere...
1922
acquatinta, puntasecca
e rotella su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. XIII
Il serait si doux d’aimer
Sarebbe così dolce amare
1923
acquatinta e lavori
di brunitoio su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
4544
tav. XVI
Dame du Haut-Quartier croit
prendre pour le Ciel place
réservée
Signora dei quartieri alti
pensa di avere un posto
riservato in Paradiso
1922
acquatinta, puntasecca
e rotella su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. XVII
Femme affranchie, à quatorze
heures, chante midi
La donna emancipata
ha perso il controllo
1923
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. XIV
Fille dite de joie
Donna di piacere
1922
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. XV
En bouche qui fut fraîche
goût de fiel
Nella bocca che fu dolce,
il gusto del fiele
1922
acquatinta, puntasecca
e rotella su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
4746
tav. XVIII
Le condamné s’en est allé...
Il condannato se n’è
andato...
1922
acquatinta, rotella
e puntasecca su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. XIX
Son avocat en phrases
creuses clame sa totale
inconscience
Il suo avvocato, con
frasi vuote e imponenti,
proclama la sua totale
incoscienza
1922
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
4948
tav. XX
Sous un Jésus en
croix oublié là
Sotto un Gesù in
croce lì dimenticato
1926
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. XXI
"Il a été maltraité et opprimé
et il n’a pas ouvert la bouche"
"È stato maltrattato e
oppresso e non ha aperto
bocca" (Isaia 53,7)
1923
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
5150
tav. XXII
En tant d’ordres divers le
beau métier d’ensemencer
une terre hostile
Tra i tanti lavori diversi, la
nobile fatica di inseminare
una terra ostile
1926
acquatinta su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. XXIII
Rue des Solitaires
Via dei solitari
1922
acquatinta, puntasecca
e rotella su eliografia
505 x 655 mm (foglio)
53
52
tav. XXIV
Hiver lèpre de la terre
Inverno lebbra della terra
1922
acquatinta, puntasecca
e rotella su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. XXV
Jean-Francois jamais
ne chante alleluia...
Jean-Francois non canta
mai l’alleluia...
1923
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
5554
tav. XXVI
Au pays de la soif
et de la peur
Nel paese della sete
e della paura
1923
acquatinta e rotella
su eliografia
505 x 655 mm (foglio)
5756
tav. XXVII
"Sunt lacrymae rerum..."
"Sono lacrime delle cose..."
(Virgilio, Eneide, I)
1926
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. XXVIII
"Celui qui croit en moi fût-il
mort vivra"
"Chi crede in me, anche
dopo la morte vivrà in
eterno" (Giovanni 11,25)
1923
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. XXIX
Chantez Matines le jour renaît
Cantate il mattutino,
il giorno rinasce
1922
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
59
58
tav. XXX
"Nous... c’est en sa mort que
nous avons été baptisés"
"Noi... è nella sua morte
che siamo stati battezzati"
(Paolo, Lettera ai Romani,
6,3)
1922 (?)
acquatinta su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. XXXI
"Aimez-vous les uns les
autres"
"Amatevi gli uni gli altri"
(Giovanni 13,34)
1923
acquatinta e bulino
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
6160
tav. XXXII
Seigneur c’est vous je vous
reconnais
Signore, sei tu, ti riconosco
1927
acquatinta, rotella e
puntasecca su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. XXXIII
Et Véronique au tendre lin
passe encore sur le chemin...
E la Veronica dal tenero
lino passa ancora sul
cammino...
1922
acquatinta, rotella e
puntasecca su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
63
62
tav. XXXIV
"Les ruines elles-mêmes
ont péri"
"Sono state distrutte
perfino le rovine"
(Lucano, Pharsalia, IX, 969)
1926
acquatinta, rotella
e puntasecca su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. XXXV
"Jésus sera en agonie jusqu’à
la fin du monde"
"Gesù sarà in agonia fino
alla fine del mondo"
(Pascal, Pensieri, 553)
1922
acquatinta, rotella
e puntasecca su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
6564
tav. XXXVI
Ce sera la dernière
petit père!
Questa sarà l’ultima
caro padre!
1927
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. XXXVII
"Homo homini lupus"
"L’uomo è un lupo"
per l’uomo
(Plauto, Asinaria, II, 4, 88)
1926
acquatinta, puntasecca
e brunitoio su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. XXXVIII
Chinois inventa, dit-on,
la poudre à canon,
nous en fit don
Un cinese inventò
la polvere da sparo,
si dice, e ce ne fece dono
1926
acquatinta e puntasecca
655 x 505 mm (foglio)
6766
tav. XXXIX
Nous sommes fous...
Siamo pazzi...
1922
acquatinta, rotella
e puntasecca su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. XL
Face à face
Faccia a faccia
1926
acquatinta e puntasecca
655 x 505 mm (foglio)
tav. XLI
Augures
Auguri
1923
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
69
68
tav. XLII
Bella matribus detestata
Guerra detestata dalle
madre
(Orazio, Odi, I, 24-25)
1927
acquatinta, rotella e pun-
tasecca su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. XLIII
"Nous devons mourir,
nous et tout ce qui est nôtre"
"Noi dobbiamo morire,
noi e tutto quello che è
nostro"
(Orazio, Ars poetica, 63)
1922
acquatinta e puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
7170
tav. XLIV
Mon doux pays, où êtes-vous?
Mio dolce paese dove sei?
1927
acquatinta, puntasecca
e rotella su eliografia
505 x 655 mm (foglio)
7372
tav. XLV
La Mort l’a pris comme il
sortait du lit d’orties
La morte l’ha colto mentre
lasciava il letto d’ortiche
1922
acquatinta, puntasecca
e rotella su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. XLVI
"Le juste, comme le bois de
santal, parfume la hache qui
le frappe"
"Il giusto, come legno di
sandalo, profuma la scure
che lo colpisce"
(Proverbio indiano)
1926
acquatinta, puntasecca
e rotella su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. XLVII
"De profundis..."
"Dal profondo..."
(Salmo 129-130)
1927
acquatinta, puntasecca
e rotella su eliografia
505 x 655 mm (foglio)
7574
tav. XLVIII
Au pressoir le raisin fut foulé
Col torchio fu pigiata l’uva
1922
acquatinta, puntasecca
e rotella su eliografia
505 x 655 mm (foglio)
tav. XLIX
"Plus le coeur est noble,
moins le col est roide"
"Più il cuore è nobile, meno
il collo è rigido"
1926
acquatinta, puntasecca
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. L
"Des ongles et du bec"
"Con le unghie e con
il becco"
(Guillaume de Salluste,
Prima settimana della
creazione)
1926
acquatinta, puntasecca
e rotella su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
7776
tav. LI
Loin du sourire de Reims
Lontano dal sorriso di
Reims
1922
acquatinta, puntasecca
e rotella su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. LII
Dura lex sed lex
Legge dura ma legge
1926
acquatinta, puntasecca
e rotella su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. LIII
Vierge aux sept glaives
Vergine dalle sette spade
1926
acquatinta, puntasecca
e rotella su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. LIV
"Debout les morts!"
"Si levino i morti"
1927
acquatinta, puntasecca
e rotella su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
7978
tav. LV
L’aveugle parfois
a consolé le voyant
A volte il cieco
consola il vedente
1926
acquatinta, puntasecca
e rotella su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. LVI
En ce temps noir de jactance
et d’incroyance, Notre-Dame
de la Fin des Terres vigilante
In tempi neri di vanità e
incredulità, la Madonna di
Fin des Terres vigila
1927
acquatinta, puntasecca
e rotella su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
8180
tav. LVII
"Obéissant jusqu’à la mort
et la mort de la croix"
"Obbediente fino alla
morte, e alla morte
sulla croce"
(Paolo, Lettera ai filippesi,
2,8)
1926
acquatinta, e rotella
su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
tav. LVIII
"C’est par ses meurtrissures
que nous sommes guéris"
"È per le sue sofferenze
che siamo stati liberati"
(Isaia 53,5)
1922
acquatinta su eliografia
655 x 505 mm (foglio)
8584
Mio d
olce Paese dove sei?
Castello Tesino
Rovine della chiesa
di Santa Maria
delle Grazie
1918-1919
Marco (Rovereto)
Rovine della chiesa
di San Marco
1919
8786
Albaredo (Vallarsa)
Le rovine del paese con
la chiesa del Patrocinio
di San Giuseppe
1918-1919
Aste (Vallarsa)
Le rovine del paese
con la chiesa della
Sacra Famiglia
1918-1919
89
88
Loppio (Mori)
Rovine della chiesa
del Nome di Maria
1918-1919
Pizzano (Vermiglio)
Le rovine del paese
1918-1919
9190
Robert Capa
(Budapest 1913 -
Indocina 1954)
Venditori di frutta
Napoli
1943
Robert Capa
(Budapest 1913 -
Indocina 1954)
Ritorno tra le rovine
Napoli
1943
93
92
Robert Capa
(Budapest 1913 -
Indocina 1954)
La strada per Palermo
1943
Robert Capa
(Budapest 1913 -
Indocina 1954)
Asinello e carro armato
1943
9594
Tino Petrelli
(Fontanafredda (PN)
1922 - Piacenza 2001)
Ritorno dei reduci
dalla Russia
1954
Robert Capa
(Budapest 1913 -
Indocina 1954)
Child getting water
Napoli
1943
99
98
Mon
dou
x pays, où
êtes-vous?
Alfredo Jaar
Walking
2002
Courtesy of
Schellmann Art, Munich
and the artist, New York
105104
Ugo Panella
Villaggio di Bathur lungo la
strada verso il Kyber Pass
2001
Ugo Panella
Lago di Sochan, regione
di Kabul
2012
111110
La v
ita
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zion
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con
tro
con
Ug
o Pa
nel
la
In quegli anni la collaborazione fra fotografo
e giornalista era l’elemento portante dei giorna-
li nazionali e ciò mi ha permesso di condividere
il mio lavoro anche con altri giornalisti. Assie-
me a Luca Rastello, collaboratore del quotidia-
no "La Repubblica", abbiamo realizzato diversi
reportage dal Somaliland, alla guerra maoista
in Nepal, fino alle testimonianze legate alla si-
tuazione in Afghanistan ".
Quali sono state le motivazioni che l’hanno
avvicinata al fotoreportage?
La curiosità di guardare la realtà del mondo da
vicino e con l’ambizione di raccontare le vite
lontane dalle nostre latitudini e dalle tante si-
curezze quotidiane che siamo abituati a vivere.
Com’è cambiata nel corso del tempo la figu-
ra del reporter?
Non è cambiata nelle intenzioni e nella passione
di chi vuole testimoniare. È cambiata, e molto,
nel rapporto con i media, perchè non vogliono
più raccontare storie di sofferenza e di emar-
ginazione. Quei racconti, che una volta erano
l’informazione primaria dei giornali, hanno ce-
duto il posto al disimpegno, ai temi leggeri e al
gossip. Per questo ho deciso di non seguire più
i conflitti: l’informazione è spesso pilotata, non
ci si può più muovere liberamente. La guerra del
Vietnam è stata l’ultima guerra dove i fotografi
hanno potuto dire quello che vedevano, contri-
buendo a far conoscere gli orrori che si stavano
consumando in quelle terre e quindi a far cre-
scere un’opinione pubblica fortemente motiva-
ta alla pace. Al giorno d’oggi questo non è più
possibile, perché è diventato molto più impor-
tante formare che informare; solo con il consen-
so dell’opinione pubblica le guerre vanno avanti
e quindi bisogna costruire un consenso: che poi
sia la verità o siano bugie, quello non ha nessu-
na importanza.
È su questo allora che vive il potere?
Certo, e non sapremo mai quello che sta real-
Ug
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nel
la —
Kab
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013
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14
LA VITA COME SOTTRAZIONE: INCONTRO CON UGO PANELLA
Le fotografie di Ugo Panella, nel raccontare e denunciare una realtà spes-
so scandita dalla violenza, quella che ruba all’uomo la propria dignità,
comunicano la grande forza della vita e scuotono gli animi degli indiffe-
renti. Il fotografo, "unico tramite fra ciò che sta succedendo e chi vedrà",
è dunque colui che, senza speculare sul dolore e nel rispetto delle perso-
ne, dà voce alle ombre, graffia il muro del silenzio, fa tremare i pensieri.
"Ho iniziato a fare questa professione — spiega — alla fine degli anni Set-
tanta documentando prima le guerre civili in Nicaragua, Salvador, Gua-
temala e poi la dittatura in Argentina.
Successivamente, però, mi sonao dedicato soprattutto ai racconti socia-
li. Nel 1999, ad esempio, ho realizzato per "D" di Repubblica, in collabora-
zione con la giornalista Renata Pisu, allora inviata esteri del quotidiano, il
reportage sulle ragazze sfigurate dall’acido solforico in Bangladesh.
Le mie fotografie e i suoi testi, poi ripresi da molte riviste internazionali
tra le quali "TIME", hanno fatto conoscere per la prima volta una situazio-
ne allora completamente ignorata e hanno contribuito a cambiare la vita
di tante ragazze, che in quel paese venivano offese dall’ignoranza degli
uomini.
Ci siamo poi recati in India per documentare il problema dell’Aids e nuo-
vamente in Bangladesh per far conoscere le terribili storie delle prosti-
tute bambine.
Riccarda Turrina
11311
2
mente succedendo, perché lo scacchiere è tal-
mente complicato, e gli interessi economici
degli Stati così forti, che sarà quasi impossibile
prevedere o prevenire le mosse. Anche la distin-
zione un po’ manichea fra buoni e cattivi non
ha più senso: il buono di oggi è chi non ha pote-
re. Quindi il politicamente corretto è l’ipocrisia
buonista dei benpensanti, che vorrebbero che
tutti fossimo uguali, ma le differenze ci sono
sempre state e continueranno ad esserci.
Il fotogiornalismo in quanto scelta di testi-
monianza può influenzare le sorti del mon-
do?
Certo, il fotogiornalismo è stato sempre testi-
monianza e lo è anche oggi, nonostante le dif-
ficoltà di cui parlavo. Che queste testimonianze
siano efficaci al punto di cambiare il mondo...
beh, questo è un pensiero utopico. È già tanto
se riescono ad aprire finestre di curiosità in chi
vede le immagini e a restituire un pensiero, una
riflessione. Ognuno poi potrà modificare il pro-
prio punto di vista per guardare al mondo con
maggiore consapevolezza. La nostra intenzione
è almeno quella, altrimenti sarebbe un lavoro
frustrante ed inutile.
Ci sono fotografie che hanno cambiato il
mondo?
Mi viene in mente la fotografia, scattata nel 1972
a pochi chilometri da Saigon, della bambina
vietnamita nuda, che fugge terrorizzata colpita
da una bomba al napalm; quell’immagine fece
indignare l’opinione pubblica americana al pun-
to tale che il Congresso decise di non investire
più in quel conflitto. Anche le fotografie di Don
Mc Cullin, sulla fame in Biafra, fecero il giro del
mondo tanto che vennero attivati aiuti interna-
zionali per arginare quella carestia. A volte acca-
de... per fortuna.
Perché ha deciso di passare dal reportage di
guerra a quello civile?
Non è stato un passaggio programmato. Il re-
portage di guerra è molto cambiato negli anni.
Oggi è impossibile per un fotografo seguire un
conflitto in piena autonomia. Tutto è blindato
e gli eserciti hanno capito che l’informazione è
un ulteriore soggetto attivo del conflitto. Quindi
bisogna controllarlo e pilotarlo. Preferisco im-
pegnarmi nei progetti di pace, anche nei paesi
dove esistono le guerre, per esplorare un punto
di vista diverso e per far conoscere quali diffi-
coltà sono costrette ad affrontare le persone che
vivono un quotidiano fatto di violenza e morte.
La sua professione quanto, nel corso degli
anni, ha cambiato la visione che lei ha del
mondo?
La mia visione del mondo è cambiata azzerando
giudizi e moralismi. La mia intenzione è quella
di testimoniare cercando, per quanto possibile,
una coerenza nel racconto. La guerra ha scritto
la storia del mondo e seguiterà a segnarla, per-
ché è necessaria a tante voci dell’economia, alle
strategie geopolitiche, a mille interessi di chi
manovra il potere. Non illudiamoci che un do-
mani tutto questo finisca e si trasformi in una
pace universale. Non accadrà mai perché l’istin-
to dell’uomo è conquistare, non è certo quello
di abbracciare e tollerare il diverso. Inoltre tutte
queste esperienze mi hanno fatto capire che la
vita è sottrazione e non addizione. Nella nostra
cultura la felicità deriva dall’accumulo, dal pos-
sesso indiscriminato di valori materiali. Chi ha
è soddisfatto e le persone soddisfatte non pen-
sano. Ci hanno trasformato in felici consumato-
ri, ma questa non è libertà.
La guerra raccontata da Robert Capa, le cui
fotografie sono in mostra accanto alle sue, è
la stessa che racconta lei?
Non voglio neppure avvicinarmi a Capa. Lui ha
fatto la storia della fotografia di guerra, io ho ap-
pena scritto le aste † neppure dritte. In quanto
al racconto, quello è un fatto personale. Ognuno
ha la visione della realtà e di ciò che vede attra-
verso esperienze, letture, coinvolgimenti emo-
Ug
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14
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tivi che non possono essere omologati ma che
appartengono alla personalità di ciascuno.
Pensando alle fotografie di Jean Revillard,
autore presente in mostra con alcune im-
magini che documentano la situazione di
estrema difficoltà dei migranti sbarcati a
Calais nel 2007, si può constatare come nul-
la sia cambiato nel corso di questi anni. Per-
ché secondo lei?
Al potere non interessa il degrado umano, se
non per pura propaganda politica. La povertà e
le situazioni di emarginazione nel mondo sono
spesso leve formidabili per business di ogni
tipo. Il potere risponde a logiche del tutto diver-
se e non può tenere conto della sofferenza uma-
na. A volte è proprio quella sofferenza la benzina
per il suo motore.
Il nome di qualche maestro?
Uno dei miei riferimenti è William Eugene Smi-
th, per il tipo di fotografia ma soprattutto per
l’approccio narrativo. Sicuramente Salgado
che ci ha insegnato la differenza tra povertà,
miseria e patologia senza mostrarci un mondo
di vinti: la sua fotografia va oltre ogni tempo e
diventa speranza. Poi James Natchwey e Donald
Mc Cullin. Sono tutti uomini della ‘mia genera-
zione’ e abbiamo condiviso l’esperienza in Cen-
tro America.
Il digitale in fotografia ha cambiato il modo
di guardare al mondo?
Ho lavorato in Albania, un luogo chiuso al mon-
do per trent’anni. Oggi non sarebbe più possibi-
le perché la tecnologia permette di comunicare
in tempo reale. Le stesse dittature non possono
più avere il controllo totale, quindi si può tran-
quillamente affermare che le rivoluzioni che
un tempo si facevano con le ideologie oggi si
fanno con la tecnologia. Le stesse popolazioni
oppresse vengono a contatto con informazioni
che riguardano il resto del mondo, magari in-
formazioni filtrate, ma comunque non tutto è
sconosciuto.
Per quanto riguarda l’approccio tecnico ritengo
che la modalità digitale abbia annullato la fase
di preparazione, di selezione visiva e mentale
di quello che si intende fotografare: una sorta
di accelerazione frenetica nell’acquisizione dei
dati di realtà che va di pari passo con la superfi-
cialità. Il lavoro del fotografo, testimone di quelli
che ho definito "I sotterranei dell’umanità", non
può prescindere dai tempi lenti della riflessione.
L’elemento estetico ha dunque un valore se-
condario?
L’elemento estetizzante nelle mie fotografie
passa in secondo piano perché quello che a me
interessa è far sì che l’immagine arrivi con forza
agli occhi e che scuota la sensibilità del lettore.
Una bella fotografia per me non è una fotografia
bella da vedere, rassicurante: il lato estetico sta
nella sua capacità di raccontare la realtà.
Lei conosce a fondo la situazione dell’Afga-
nistan perché da anni frequenta questi ter-
ritori.
In Afghanistan collaboro con la Fondazione
Pangea Onlus che si occupa da tredici anni di
microcredito alle donne. Il presidente, Luca Lo
Presti, e il suo staff si stanno impegnando per
migliorare le condizioni di vita di migliaia di
donne, che grazie alla presenza di Pangea rie-
scono a vivere un presente dignitoso.
L’Afghanistan è un luogo fuori dal tempo, in
guerra continua: dal 1979, con l’invasione dell’Ar-
mata Rossa, ad oggi la popolazione non ha mai
visto la pace. La sua posizione geografica, stra-
tegica per il controllo dei confini di Cina, Rus-
sia e India, unita alle potenzialità economiche
— l’Afghanistan è uno dei maggiori produttori di
cobalto, oltre che di petrolio — hanno trasforma-
to questi luoghi in una terra di conquista. Una
guerra, si diceva, iniziata per estirpare le colti-
vazioni del papavero da oppio e che invece nel
tempo ha portato all’incremento della produ-
zione attribuendo sempre più potere ai signori
della guerra, della armi, della droga.
Come descriverebbe la città di Kabul?
Kabul è un’immensa periferia, l’unica città al
mondo dove il centro è già periferia. Una città
a quasi 2000 metri di altitudine, senza alberi
attorno, perché situata al centro di grandi colli-
ne che la contornano. Quando scendono i venti
dall’Himalaya si scatenano tempeste di polvere
che offuscano l’aria e quando piove qualsiasi
strada si trasforma in un rigagnolo melmoso.
Qui i bambini e le bambine diventano presto
adulti: quelli più grandi si occupano di quelli più
piccoli e di certo non possono sottrarsi ai lavori
che vengono loro assegnati.
Quale testimonianza vuole trasmettere at-
traverso il suo lavoro sull’Afghanistan?
Il mio lavoro vuole testimoniare la forza umana
di queste famiglie, la loro dignità, l’armonia di
donne che tengono insieme la società civile. Vo-
glio raccontare una realtà poco conosciuta e to-
gliere dagli occhi della gente lo stereotipo di un
paese raccontato solo per i bombardamenti, per
le violenze o per i kamikaze che si fanno saltare
in aria. Certo, anche quella è realtà presente ma
il silenzio su tutto il resto, sulla resistenza di un
popolo che cerca la pace e un equilibrio quoti-
diano, merita di avere una voce diversa.
Come entra in contatto con i suoi soggetti?
La mia prima posizione è quella del rispetto per
non superare mai i confini della dignità. Cerco
una chiave d’accesso attraverso l’empatia e
quindi intrecciando racconti fatti di sguardi, di
silenzi. Poi anche di parole.
Le sue fotografie, dunque, sono racconti.
Sfogliamo ad una ad una le immagini in
mostra. Partiamo da quelle scattate in Sier-
ra Leone.
Ho cercato di tradurre in immagini una realtà
difficilissima, quella dei bambini soldato che
venivano drogati e marchiati dai guerrieri del
RUF (Revolutionary United Front) come fossero loro
proprietà. Le bambine, invece, venivano violen-
tate e poi sottoposte ad una ulteriore inumana Ug
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violenza: venivano costrette ad andare nei vil-
laggi ad uccidere o mutilare i loro parenti.
L’ultimo anno di guerra (2001) e quello succes-
sivo sono andato in un ospedale a Lungi, nella
baia di Freetown, dove opera un chirurgo ita-
liano, Enzo D’Onofrio, che cerca di cancellare le
tre lettere della vergogna (RUF) incise sulla loro
pelle, spesso in fronte, e quindi per permettere a
questi bambini di avere una possibilità di inse-
rimento nella società.
In quest’occasione ho scattato anche la foto-
grafia del padre mutilato che abbraccia la fi-
glia. È una storia commovente la loro. Ho visto
quest’uomo che stava da solo fuori dalla tenda
dell’alto commissariato per i rifugiati UNHCR e
gli ho chiesto se potevo fargli delle foto. Ha su-
bito acconsentito aggiungendo "Tu conosci la
mia storia?" Ha chiamato la sua bambina, l’ha
abbracciata e mentre scattavo mi ha raccontato
che sei mesi prima si trovavano nella regione di
Kono, al nord nella zona dei diamanti. Nel loro
villaggio erano entrati i guerrieri del RUF, ave-
vano catturato la figlia e l’avevano costretta
a tagliargli le braccia con un machete. Se non
avesse fatto quello che le ordinavano avrebbe-
ro ucciso sia lei che il padre. "Però vedi — mi ha
detto, con una calma olimpica — posso ancora
abbracciarla e vederla crescere". Questa foto-
grafia racconta dieci anni di guerra in Sierra
Leone, durata fino al gennaio del 2002, e non
servono parole. La seconda immagine, sempre
in bianco e nero, scattata nella regione di Kono
dopo i bombardamenti, mostra alcuni bambini
che passano mentre io li riprendo attraverso le
finestre di una casa distrutta. È invece la meta-
fora della guerra la fotografia che ritrae quattro
ragazzi dietro al filo spinato, collocato dall’Onu
lungo la spiaggia della zona militarizzata di
Lungi, per impedire gli sbarchi. È volutamente
un bianco e nero in controluce, non si dovevano
vedere i volti ma solo intuire le sagome, figure
di giovani che a causa dei conflitti perdono la
loro identità. Ogni guerra è la negazione dell’in-
dividuo; in ogni guerra esiste solo la massa, dei
soldati e dei civili, nessuno è un essere umano.
Nelle due fotografie scattate in Afghanistan
c’è la sintesi estrema di uno sguardo capace
di trasmettere il messaggio più nascosto.
L’immagine che ritrae la donna afghana avvolta
dal burka, rivolta verso il lago è la personifica-
zione della malinconia. Sulle sponde di questo
lago le famiglie solitamente si recano di vener-
dì, giorno di festa. Probabilmente lei vedeva il
lago per la prima volta. Mi ha colpito perché era
lì immobile avvolta da quell’acqua cristallina
dalle tonalità vicine al suo ingombrante abito.
Libertà e costrizione in un solo istante. Le mie
fotografie che ritraggono le donne afghane, que-
sta come molte altre, intendono testimoniare
tanti piccoli progressi e tante sfide coraggiose
di donne che vivono una realtà molto diversa
dalle donne occidentali. Che lottano per la loro
dignità contro leggi secolari che le vorrebbero
ridotte al silenzio e all’obbedienza.
Il paesaggio in mostra si trova quasi al confine
con il Pakistan, verso il famoso Khyber Pass,
passaggio dell’antica via della seta e in passa-
to importante punto di collegamento tra l’Asia
centrale e l’Asia Meridionale attraversato anche
da Alessandro Magno quando andò alla con-
quista dell’Afghanistan. È dunque il passo sulle
montagne che mette in comunicazione l’Afgha-
nistan con Pekhawar, la prima città del Pakistan
che si incontra. Lungo le gole a un certo punto
si apre questo paesaggio con in fondo questo
villaggio con i campi di grano. Un giallo inten-
so che ha sullo sfondo la catena Karakorum con
vette di oltre 7000 metri.
È un’immagine a sé quella scattata nella Città
dei Morti al Cairo, un immenso cimitero della
periferia della capitale egiziana, dove migliaia
di persone vivono fra le tombe. Sono scappate
dalla guerra e qui vivono pacificamente, lontano
dall’aggressività e in un clima di solidarietà. La
donna con l’abito rosso ha un volto sorridente,
tiene in braccio il suo bambino e guarda verso lo
scorcio di città che le sta davanti. Sicuramente
fiduciosa in un futuro migliore.
Biografie
Robert Capa — Endre Ernö Friedman (questo il
vero nome di Robert Capa) nasce a Budapest il
22 ottobre 1913. Esiliato dall’Ungheria nel 1931
per aver partecipato ad attività studentesche di
sinistra, si trasferisce a Berlino dove si iscrive al
corso di giornalismo della Deutsche Hochschule
für Politik. Trovandosi in difficoltà economiche,
entra come fattorino presso Dephot, un’impor-
tante agenzia fotografica di Berlino. Il direttore,
Simon Guttam, scopre ben presto il suo talen-
to e comincia ad affidargli servizi fotografici,
anche di un certo peso. Nel 1933, al momento
dell’ascesa al potere di Hitler, fugge da Berlino e
rientra a Budapest, sua città natale, dove lavora
come fotografo; quindi parte alla volta di Parigi
Qui incontra Gerda Taro, una profuga tedesca
che diventerà la sua compagna. In quel periodo,
viene inviato in Spagna per una serie di servi-
zi fotogiornalistici. Nel 1936 Greta vende le sue
fotografie, spacciandole come opera di un foto-
grafo americano di successo. Ben presto però il
trucco viene scoperto; a quel punto Endre cam-
bia il proprio nome con quello di Robert Capa.
Nel 1937 Gerda, diventata nel frattempo una
fotogiornalista indipendente, muore in Spagna
schiacciata da un carro armato. Capa non si ri-
solleverà mai da questo dolore.
La carriera di Capa, uno dei massimi rap-
presentanti della fotografia di reportage, passa
attraverso i principali conflitti del Novecento,
soprattutto cinque: la Guerra civile spagnola
(1936-1939), la Seconda guerra sino-giapponese
(che seguì nel 1938), la Seconda guerra mondia-
le (1941-1945), la Guerra arabo-israeliana (1948)
e la Prima guerra d’Indocina (1954).
Terminato il secondo conflitto mondiale,
diventa cittadino americano. Negli anni del
maccartismo, a causa di false accuse di co-
munismo, il governo degli Stati Uniti gli ritira
il passaporto per alcuni mesi impedendogli di
viaggiare per lavorare. Nel 1947, insieme con gli
amici Henry Cartier-Bresson, David Seymour
(detto "Chim"), George Rodger e William Van-
divert fonda l’agenzia fotografica cooperativa
"Magnum", di cui diventerà presidente. Si tratta
di una delle più prestigiose agenzie fotografi-
che al mondo. Sono gli anni in cui il genere del
reportage conosce il suo momento di massima
espressione.
Nel 1954 trascorre alcuni mesi in Giappone.
Giunge ad Hanoi in veste di inviato di "Life" per
fotografare la guerra dei francesi in Indocina. Il
25 maggio accompagna una missione militare
francese da Namdinh al delta del Fiume Rosso.
Durante una sosta del convoglio, Capa si allon-
tana con un drappello di militari. Calpesta una
mina anti-uomo, rimanendo ucciso.
Alfredo Jaar — Alfredo Jaar nasce a Santiago del
Cile, dove studia architettura e cinema. Duran-
te i suoi studi conosce l’opera di Pasolini, che
apprezza sia come regista che come scrittore,
poeta, giornalista, storico; per Jaar Pasolini, un
intellettuale capace di prendere parte alla vita
culturale e politica del proprio paese, rappre-
senta il modello a cui ispirarsi Nella sua attività
artistica Jaar unirà sempre arte e impegno, po-
esia e militanza: per lui infatti l’arte è politica.
Avendo vissuto gli anni della dittatura in Cile,
impara ben presto quella che egli definisce
Biog
rafie
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"l’arte della resistenza" che consiste nel "parlare
poeticamente tra le righe, parlare senza parlare"
per non incorrere nella censura.
Le sue opere sono state esposte nei più
grandi musei di tutto il mondo. Ha partecipa-
to alle Biennali di Venezia (1986, 2007, 2009,
2013) e di San Paolo (1985, 1987, 2010), oltre che
a Documenta, Kassel (1987, 2002). Tra le perso-
nali più importanti si annoverano quelle al New
Museum of Contemporary Art di New York, alla
Whitechapel Gallery di Londra, al Museum of
Contemporary Art di Chicago, al MACRO Museo
di Arte Contemporanea di Roma e al Moderna
Museet di Stoccolma. Una grande retrospettiva
della sua opera è stata ospitata nel 2012 in tre
diverse istituzioni culturali di Berlino: la Berli-
nische Galerie, il Neue Gesellschaft für Bildende
Kunst e la Alte Nationalgalerie.
Sono state pubblicate più di cinquanta mo-
nografie dedicate al suo lavoro. Nel 1985 Alfredo
Jaar ha ricevuto il Guggenheim Fellowship nel
1985 e nel 2000 il Mac Arthur Fellowship. Nel
2006 è stato premiato in Spagna con il Premio
Extremadura a la Creación. Attualmente vive e
lavvora a New York.
Ugo Panella — Inizia la carriera di fotogiornalista
documentando i conflitti in Centro America alla
fine degli anni Settanta: in particolare, la guerra
civile in Nicaragua e più tardi, quella in Salva-
dor. In questo Paese alla fine degli anni Ottanta
realizza un reportage in collaborazione con UN-
CHR (Alto Commissariato per i Rifugiati) sugli
accordi di pace da parte del gruppo guerrigliero
"Farabundo Martì", che ponevano fine ad un de-
cennio di massacri.
La passione per la fotografia di denuncia e
di impegno civile lo ha portato in vari luoghi del
mondo dove la vita quotidiana è fatta di violen-
za e dove la dignità umana non ha valore.
In Bangladesh ha documentato la fatica di
migliaia di uomini che nel porto di Chittagong
smantellano navi cargo a due dollari al giorno,
in condizioni di lavoro estremamente difficili.
In Egitto, al Cairo, ritrae la vita in un cimitero
abitato da un milione di senzatetto che han-
no fatto delle tombe la loro dimora. Sempre in
Bangladesh, in collaborazione con l’inviata di
"La Repubblica", Renata Pisu, ha realizzato un
lungo reportage sulla condizione di migliaia di
ragazze sfigurate dall’acido solforico perché ri-
fiutavano le avances di uomini violenti. Questo
lavoro è stato pubblicato dalle maggiori testate
internazionali ed ha costretto il governo di quel-
la nazione a cambiare le leggi, introducendo la
pena dei morte per chi si rende responsabile di
un simile delitto.
Il suo lavoro lo ha portato in Albania, centro
e sud America, India, Sri Lanka, Filippine, Oman,
Cipro, Palestina, Somalia, Etiopia, Sud Africa,
Iraq, Afghanistan, Ucraina, Sierra Leone.
In Italia ha realizzato un lungo lavoro nell’I-
stituto Papa Giovanni XXIII di Serra d’Aiello (Ca-
labria), un istituto psichiatrico dove centinaia
di persone vivevano in condizioni di abbandono.
Questo reportage è diventato un progetto tra-
dotto in un libro fotografico, In direzione ostinata
e contraria, e in una mostra itinerante. Nel 2009
ha vinto il premio Eugenio Montale per il foto-
giornalismo.
Tino Petrelli — Nasce a Fontanafredda (Porde-
none) il 6 agosto 1922; a dodici anni si trasfe-
risce a Milano con la famiglia e nel 1937 inizia
a lavorare con l’agenzia fotografica Publifoto di
Vincenzo Carrese, da principio con mansioni di
garzone di bottega, quindi di sviluppo e stampa
in camera oscura. Nel 1938 Petrelli viene messo
alla prova e inviato a fotografare il Gran Premio
delle Nazioni a Milano. "Il Corriere della Sera"
pubblica una sua foto a tre colonne: da quel
momento diventa il più stretto collaboratore di
Carrese alla Publifoto, con cui lavorerà ininter-
rottamente fino al 1981. È un fotografo eclettico,
sia per i temi rappresentati, sia per in suo inte-
resse a ritrarre situazioni politiche e sociali. Si
occupa di cronaca milanese, fotografa il fasci-
smo, la lotta partigiana, Piazzale Loreto, lo sport.
Effettua inchieste in Calabria, nel Polesine allu-
vionato (1951); si occupa del fenomeno dell’emi-
grazione a Napoli; fotografa case di riposo e ri-
formatori, orfanotrofi, barboni, ma anche l’Italia
della ricostruzione: mondine, lavandaie, minie-
re, autostrade, centrali elettriche e stabilimenti
siderurgici.
Nel 1984 si trasferisce a Piacenza, dove muo-
re il 9 settembre 2001 pochi giorni prima dell’i-
naugurazione di una mostra a lui dedicata.
Jean Revillard — Nato a Ginevra nel 1967, si for-
ma alla scuola di fotografia a Yverdon, dove se-
gue l’insegnamento di Luc Chessex, Jesus More-
no e Christian Caujolle. Revillard è al contempo
fotografo, gallerista e giornalista. Nel 1988 apre
la Galleria Europa a Ginevra, dove espone le foto
dalla Germania orientale, e in seguito quelle del-
la caduta del Muro di Berlino. Nel 1990, lascia la
Svizzera per l’Irlanda: vive per due anni a Dubli-
no, dove lavora ad un progetto sui paesaggi ur-
bani, che esporrà in tutta Europa. Dopo il rientro
in Svizzera, collabora con il "Nouveau Quotidien"
e "L’Hebdo", così come per "Presse Suisse". Allo
stesso tempo, dirige la Galerie Focale a Nyon,
dove presenta progetti fotografici di impegno
sociale. Nel 2001 fonda "Rezo.ch", la prima agen-
zia di foto online della Svizzera.
Nel 2003, durante un viaggio sull’Atlantico,
nei porti Revillard viene a contatto con l’immi-
grazione clandestina. Nel nord della Francia, a
Calais, fotografa per due anni la "giungla" dove
centinaia di migranti si nascondono in capanne
autocostruite, nella speranza di poter attraver-
sare il tunnel sotto la Manica per chiedere asilo
in Gran Bretagna. Molti sono fuggiti dai conflitti
dell’Iraq, dell’Afghanistan e del Darfur. Il ciclo ha
vinto il primo premio Contemporary Issues: sto-
rie al World Press Photo 2008.
Georges Rouault — Figlio di un artigiano ebani-
sta, Georges Henry Rouault nasce a Parigi il 27
maggio 1871. Ancora molto giovane compie un
apprendistato presso un restauratore di vetrate
(1885-1890) e segue i corsi serali dell’École Na-
tionale Supérieure des Arts Decoratifs. Succes-
sivamente, fra il 1890 e il 1895, studia all’École
des Beaux Arts dove frequenta l’atelier del pit-
tore simbolista Gustave Moreau. Qui conosce
Henri Matisse, Albert Marquet e altri con i quali
partecipa, nel 1905, all’Esposizione dei Fauves
al Salon d’Automne di Parigi. Rouault mostra da
subito un carattere libero da ogni definizione; la
sua pittura, che si ispira in un primo tempo a
ideali sociali, si volge successivamente a temi
religiosi. Determinante per la sua formazione è
infatti il rapporto con l’esistenzialismo cattoli-
co e l’amicizia con il filosofo Jacques Maritain,
o con scrittori come André Suarès, Léon Bloy
autore di libri che esprimono una forte critica
antiborghese, o ancora Joris-Karl Huysmans
incontrato presso l’Abbazia benedettina di
Saint-Martin de Ligugé. Alle tematiche morali e
sociali dei primi anni si affiancano così i sog-
getti religiosi, ora drammatici e sofferti, ora
rasserenati da un sentimento di pace interiore.
A partire dalla metà degli anni Trenta si susse-
guono importanti mostre personali: da Parigi a
New York, da Washington a San Francisco, da
Londra ad Amsterdam, da Tokyo a Milano a Ge-
rusalemme. Oltre alla pittura, Rouault si dedica
con passione all’incisione e nel 1948 pubblica la
sua opera grafica più impegnativa: il Miserere,
una serie di 58 incisioni eseguite tra il 1917 e il
1927, che la critica considera la testimonianza
più intensa e significativa del grande maestro.
Georges Rouault muore a Parigi il 13 febbraio
1958 e riceve da parte del governo francese l’o-
nore delle esequie di Stato.
Simone Turra — Simone Turra nasce a Transac-
qua (Trento) il 6 agosto 1969. Frequenta l’Istituto
d’Arte di Pozza di Fassa (Trento) dal 1983 al 1988,
successivamente si iscrive al corso di scultura
all’Accademia di Belle Arti di Brera (Milano),
dove si diploma nel 1992 con il professor Gian-
carlo Marchese.
Lavora come scultore a Tonadico di Primiero
(Trento), dove vive con la moglie Michela Zimol
e i tre figli: Francesco, Agata, Elia. Espone le sue
opere in Italia e all’estero.