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Parole e violenza politica. L'Italia negli anni Settanta

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studi storici carocci / 211

I lettori che desiderano informazioni sui volumi

pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a:

Carocci editoreCorso Vittorio Emanuele ii, 229

00186 Roma telefono 06 42 81 84 17

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Parole e violenza politicaGli anni Settanta nel Novecento italiano

A cura di Giuseppe Battelli e Anna Maria Vinci

CCarocci editore

1a edizione, dicembre 2013 © copyright 2013 by Carocci editore S.p.A., Roma

Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari

Finito di stampare nel dicembre 2013 da ???

isbn 978-88-430-6920-0

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume

anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno

o didattico.

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Indice

Prefazione. Lo studio storico della “lotta armata”: una pun-tualizzazione di metodo 00di Giuseppe Battelli

Introduzione 00di Anna Maria Vinci

Una nuova stagione

I lunghi anni Settanta. Genealogie dell’Italia attuale 00di Luca Baldissara

Le strade interrotte degli anni Settanta 00di Marco Almagisti

Le parole della lotta armata

Le parole e le cose. Sul nesso sinistra rivoluzionaria, violenza politica e sociale, lotta armata 00di Eros Francescangeli

L’uso della violenza: alla ricerca di una legittimazione 00di Gabriele Donato

indice

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Verso la militarizzazione della lotta politica nell’estrema sini-stra 00di Guido Panvini

Le vicende della lotta armata: interpretare, raccontare, comparare

La memoria storica e la violenza 00di Luisa Accati

Tre tensioni del cinema del “terrorismo” 00di Massimiliano Spanu

“Pretty Violence”: terrorismo e letteratura in Italia e in Irlan-da del Nord 00di Laura Pelaschiar

Lotta armata in Germania 00di Marica Tolomelli

Esperienze di memoria

Esperienze nelle scuole 00di Cinzia Venturoli

Per una storia del terrorismo: fonti e memoria negli archivi privati 00di Marcella Filippa

Quale distacco?

Il rifiuto della violenza e la fine del movimento? Una riflessio-ne agli inizi degli anni Ottanta 00di Bojan Mitrović

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Questo libro intende offrire un contributo collettivo allo studio del fenomeno della cosiddetta “lotta armata” sviluppatosi in Italia tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del Novecento. Come viene opportunamente ricordato nella bella e intensa Introduzione di Anna Vinci, i percorsi tematici seguendo i quali si potrebbe sviluppare l’analisi risultano potenzialmente sterminati; mentre per altro verso i materiali che si stanno via via rendendo disponibili arricchiscono un bagaglio di fonti che in parte era noto e utilizzato1 ma che riguardava per lo più l’autorappresentazione, ora teorico-politica ora concreta-mente progettuale, delle organizzazioni attrici del fenomeno.

Un più ampio accesso sia agli archivi pubblici contenenti la do-cumentazione che attesta l’approccio al problema da parte delle isti-tuzioni dello Stato, sia a carte private (di partito, sindacato, singole figure di protagonisti di quella stagione) che consentano di entrare in profondità in quella che fu la riflessione politica maturata nei ceti di-rigenti nazionali – quella effettiva, non quella destinata all’opinione pubblica in una fase e di fronte a un fenomeno di oggettiva estrema delicatezza –, darà e sta già dando ulteriore e necessario slancio a un campo di ricerca la cui frequentazione è destinata comunque a rima-nere difficile2.

Prefazione Lo studio storico della “lotta armata”:

una puntualizzazione di metododi Giuseppe Battelli

1. Su questo si basarono tra l’altro vari dei contributi pubblicati da A. Ventura già a fine anni Settanta e ora in parte riproposti in A. Ventura, Per una storia del terrori-smo italiano, prefazione di C. Fumian, Donzelli, Roma 2010.

2. Tra i migliori contributi degli ultimi anni cfr. M. Tolomelli, Terrorismo e socie-tà. Il pubblico dibattito in Italia e in Germania negli anni Settanta, il Mulino, Bologna 2006, e il recente G. Donato, “La lotta è armata”. Estrema sinistra e violenza: gli anni dell’apprendistato 1969-1972, Istituto regionale per la storia del movimento di libera-zione nel Friuli Venezia Giulia, Trieste 2012.

giuseppe battelli

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Difficile innanzitutto perché la drammaticità degli eventi impli-cati rende comprensibilmente arduo il distacco critico che il mestie-re dello studioso di Storia sempre e comunque dovrebbe richiedere. Difficile perché il carattere pur specificamente nazionale del feno-meno – che non va affatto diluito, nella individuazione di quadri sociologici semplificanti – non può prescindere dal suo costante riferirsi a dinamiche internazionali, ovviamente non solo da pre-supporre bensì da documentare nel nesso diretto con quanto stava accadendo in Italia, dinamiche che suggeriscono analisi di spettro molto ampio e di lungo periodo3. Ma difficile anche per un aspetto sul quale vorrei richiamare una più spiccata attenzione: il rischio, cioè, che lo studioso assuma più o meno consapevolmente una pro-spettiva di analisi che discende dal sedimentarsi nel tempo e nella nostra mentalità degli esiti del plurisecolare cammino che ha portato in Occidente alla elaborazione e concreta attuazione prima dell’idea di Stato (moderno), poi di quella di Stato costituzionale e infine di Stato democratico.

Nel suddetto cammino un elemento originario e qualitativamente fondativo ha accompagnato in modo costante le diverse fasi del pro-cesso politico e giuridico: il problema del cosiddetto “uso legittimo della violenza”.

Com’è noto, tale categoria viene considerata nelle diverse fasi di quel percorso storico come discriminante per giustificare di fronte ai sudditi prima e ai cittadini poi la superiorità dello Stato – e di chi vi detiene la sovranità – sugli individui componenti la comunità “nazionale”. Sovranità legittima: dunque, possibilità legittima ed esclusiva (intra moenia, diversamente da quanto previsto in merito alla guerra tra Stati nelle relazioni internazionali) di agire anche con la forza. Ma se quella sovranità non viene più riconosciuta, se lo Stato (o meglio: non tanto l’astrazione istituzionale ma la specifica, concreta classe politica che lo governa) perde la sua “legittimità” agli occhi dei cittadini perché tradisce la sua funzione chiave – ga-rantire quel bene comune che il patto sociale con i propri sudditi/

3. Sono stati elaborati a tale proposito utili strumenti di lavoro. Tra i vari riferi-menti possibili cfr. la Chronologie établie par la revue Questions Internationales pour le dossier “Terrorisme” de juillet-août 2004, http://thucydide.com/realisations/com-prendre/terrorisme/terrorisme-chrono.htm

prefazione

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cittadini prevede come contropartita alla rinuncia alla piena liber-tà/sovranità individuale di ciascuno – e persegue interessi di parte, su cosa si fonderebbe il diritto all’uso “legittimo” ed “esclusivo” del-la violenza?4

Il problema può apparire ideologico: nel senso di uno schierarsi contro o a favore dello Stato o viceversa dei suoi antagonisti, a secon-da dei propri orientamenti. Vorrei invece indicare che esso richiama anche, perlomeno in sede di analisi storiografica, un profilo metodo-logico: occorre cioè evitare, credo, di studiare il fenomeno del terro-rismo assumendo come chiave di lettura implicita e pregiudiziale una prospettiva di analisi che discenda né più né meno che dall’affermarsi in Occidente di un dato modello politico-giuridico, e dunque neces-sariamente valoriale. Nel dire questo non intendo affatto entrare nel merito, ancora in via pregiudiziale, del valore e della rilevanza storica di quel modello: quanto piuttosto richiamarne la provenienza spe-cifica e l’altrettanto specifica appartenenza culturale, dunque il suo carattere particolare e non assoluto-assiomatico. Soprattutto nella consapevolezza che il pensiero moderno e contemporaneo occidenta-le ha preteso spesso di darne una interpretazione estensiva e al limite “universalistica”.

Quanto sopra detto non vuole beninteso giustificare in alcun modo fenomeni, come quello considerato nel presente libro, che sot-to il profilo morale non hanno a mio modo di vedere alcuna possibi-lità di giustificazione. Ma trattandosi qui di questione storiografica e non etico-politica, si vuole semplicemente richiamare il principio che fondamento basilare nello studio della Storia – poi l’esito del concreto lavoro degli studiosi è naturalmente soggetto a molte va-riabili – è quello di mettersi nella condizione di considerare ogni oggetto di indagine sotto le diverse prospettive che possono averlo originato. In tal senso, è ancora lunga la strada che potrà condurre a una equilibrata e convincente ricostruzione nelle sue svariate im-plicazioni della “lotta armata” sviluppatasi in Italia attorno agli anni Settanta del Novecento.

4. Il problema, in un’accezione più generale ma connessa a quanto stiamo di-cendo, attraversa il dibattito pluriennale sullo Stato-nazione, per il quale cfr. indi-cativamente É. Balibar, Nous citoyens d’Europe? Les frontières, l’État, le peuple, La Découverte, Paris 2001 (ed. it. 2004).

giuseppe battelli

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L’impegno profuso da chi, in larga prevalenza giovani, ha parteci-pato all’iniziativa che ha prodotto questo libro merita di considerare la stessa come un tassello importante di un’impresa storiografica che sta doverosamente portando il fenomeno studiato fuori da una doppia possibile “non conoscenza”: quella dell’approccio pregiudizialmente ideologico e quella della rimozione.

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Nessuno sarà innocente. Nel dicembre del 1946, Piero Calamandrei pubblica, con questo titolo, una breve nota. Lucida e tremenda1. L’Eu-ropa e il mondo, appena usciti dall’“immenso incendio” del conflitto, si trovano di fronte alla minaccia di una nuova guerra mondiale. Lo sconcerto, secondo la riflessione di Calamandrei, non sta tanto nel pe-ricolo che si profila di nuovo all’orizzonte, quanto piuttosto nel mani-festarsi di un altro ordine di questioni:

Ma chi è che semina le guerre? [...] Nell’ultima guerra la identificazione parve facile: bastò il gesto di due folli [...] per decretare il sacrificio dei popoli inno-centi. Ma oggi le dittature sono cadute: oggi le sorti della guerra e della pace sono rimesse al popolo. Questo vuol dire, infatti, democrazia [...]. Questa è oggi la terribile verità. La salvezza è solo nelle nostre mani: ma ognuno di noi, se la nuova guerra verrà, sarà colpevole per non averla impedita [...]. Se doma-ni la guerra verrà, ciascuno di noi l’avrà preparata. Non potremo nascondere la nostra innocenza dietro l’ombra dei dittatori; quando c’è la libertà, tutti sono responsabili: nessuno è innocente.

La democrazia comporta rischi e responsabilità che la sudditanza im-posta dai regimi totalitari non prevede. Continuano ad interrogarci le parole di Calamandrei, che spese le sue forze per la rifondazione etica di un’Italia nuova.

E sentiamo risuonare le stesse parole anche quando cerchiamo di capire e di interpretare altre fasi della nostra storia, come, ad esempio, gli stessi “anni di piombo”. Quella non è stata, infatti, una “parentesi”, isolata o isolabile: sono stati, al contrario, anni che si sono alimentati

Introduzionedi Anna Maria Vinci

1. P. Calamandrei, Nessuno sarà innocente, in “ Il Ponte”, dicembre 1946.

anna maria vinci

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delle debolezze della democrazia italiana e che hanno scavato un solco profondo dentro la stessa.

Nessuno è innocente: il tentativo (e la tentazione) di spingere ai mar-gini della società e della storia italiana le vicende degli anni Settanta ha assecondato, in qualche modo, un desiderio di rimozione, puntando a favorire l’elaborazione del lutto. Troppo cupo ed angosciante era sta-to quel passaggio per non imporre alla memoria collettiva una pietosa pausa d’oblio.

Altri motivi impedirono, tuttavia, una riflessione critica che potes-se mettere a frutto le molte immagini, i ricordi, le testimonianze che intanto emergevano dal groviglio di quegli anni feroci2. Di certo non si trattò della stretta vicinanza degli eventi, poiché una serie importante di fonti (dalla stampa agli atti giudiziari) furono rese presto disponibi-li, pur nella loro incompletezza.

È allora necessario capire ed interpretare in altro modo il senso di tante rimozioni: ed è qui che le parole di Calamandrei ci vengono in soccorso. Non è innocente un’intera generazione che non ha voluto ragionare su se stessa; non è innocente la generazione che ha visto ed ha lasciato annegare nello sgangherato carnevale della società dei consumi ferite troppo profonde per una fragile democrazia3. Insieme all’innocenza, si sono smarrite anche le strade della conoscenza critica, che – nel nostro tempo – può crescere rigogliosa solo intrecciando la responsabilità e la consapevolezza della cittadinanza democratica con gli strumenti della scienza (sociologica, storica e politica).

E noi oggi siamo ancora qui a voler capire quegli anni. Ma, questa vol-ta, a guidarci con determinazione lungo il percorso sono soprattutto gli studiosi delle generazioni più giovani, che, da poco più di un decennio,

2. B. Armani, La produzione storiografica, giornalistica e memoriale sugli anni di piombo, in M. Lazar, M.-A. Matard Bonucci (a cura di), Il libro degli anni di piombo. Storia e memoria del terrorismo italiano, Rizzoli, Milano 2010, pp. 207-26; ma sull’ar-gomento cfr. il lavoro di G. Donato, “La lotta è armata”. Estrema sinistra e violenza: gli anni dell’apprendistato 1969-1972, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Trieste 2012. Le indicazioni bibliografiche della mia introduzione sono di necessità molto scarne. Per una panoramica più ampia ri-mando sia ai diversi saggi di questo volume sia ai molti lavori di ricerca già pubblicati dagli stessi autori.

3. Soprattutto G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ot-tanta, Donzelli, Roma 2003; Id., Il paese reale. Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi, Donzelli, Roma 2012.

introduzione

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stanno rileggendo e reinterpretando le pagine di quella storia. Vengono così riportate alla luce riflessioni importanti che già allora, nell’imme-diatezza degli eventi, molti giornalisti, scrittori e storici furono in grado di esprimere4. Nel contempo, stanno maturando nuove ipotesi di ricer-ca, nel contesto più ampio di una comparazione internazionale.

In tale ambito si colloca anche questo volume, che raccoglie gli Atti del Convegno tenutosi a Trieste nel marzo del 2012 su Parole e violenza politica. Gli anni Settanta nel Novecento italiano. Il seminario, organiz-zato dall’Università degli Studi di Trieste e dal Dipartimento di Studi umanistici, è venuto subito dopo altri importanti incontri che, nel giro di pochissimo tempo, si sono svolti sul territorio nazionale (a Firen-ze, a Reggio Emilia, a Forlì)5. E si è dedicato, soprattutto, all’indagine sulle posizioni e le scelte dell’estrema sinistra italiana. Non avremmo potuto, in ogni caso, aprire alcun dibattito nella sede triestina senza il contributo generoso e la visione lungimirante della signora Giorgieri, che ha deciso di onorare la memoria di suo marito, ucciso in un atten-tato terroristico nel marzo del 1987 dall’Unione comunisti combat-tenti, promuovendo lo studio di quel periodo della storia d’Italia.

Nel presentare i saggi, frutto del Convegno, è necessario capire – a mio parere – gli snodi di un confronto che si è sviluppato intorno ad alcune ipotesi interpretative.

Innanzitutto: perché Parole e violenza politica? Perché la scelta di questo tema come filo conduttore prima del Convegno e poi di que-sto volume? Le parole sono pietre, scriveva Carlo Levi a metà degli anni Cinquanta. Le parole restano, danno corpo al dolore; eludono, nascondono, mistificano; si portano dietro le tradizioni profonde e tradizioni reinventate, ma soprattutto creano realtà e suggestioni, possono costruire persuasioni di odio e retoriche di violenza. Deli-mitano nuovi spazi pubblici, nuovi orizzonti del pensiero politico. Ci

4. Rimando brevemente alla prolusione pronunciata da A. Ventura, l’8 febbraio 1980, in occasione dell’inaugurazione dell’a.a. 1979-80 dell’Università di Padova, ora in A. Ventura, Per una storia del terrorismo italiano, prefazione di C. Fumian, Don-zelli, Roma 2010, pp. 3-30; ancora, le belle pagine su Walter Tobagi di Crainz, Il paese, cit., pp. 16-8 e passim.

5. Per indicazioni più precise, cfr. il capitolo di E. Francescangeli, in questo stesso volume. Sui lavori del Convegno di Firenze del 2010 si basa il volume S. Neri Serneri (a cura di), Verso la lotta armata. La politica della violenza nella sinistra degli anni Settanta, il Mulino, Bologna 2012.

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siamo allora chiesti quali parole siano state usate, in quella stagione, per descrivere, legittimare e rivendicare atti che hanno una valenza simbolica nuova e una carica inusitata di ferocia pur collocandosi, in-dubbiamente, all’interno della lunga scia dei multiformi percorsi di violenza che contraddistinguono la storia dell’Italia unita. E abbiamo poi cercato di capire come quella stessa stagione sia stata narrata, nella letteratura, con il cinema, dentro le scuole, nell’analisi storiografica. Un progetto ambizioso cui il nostro lavoro può contribuire solo con un piccolo tassello6.

Gli anni Settanta, dunque: anni di crisi, di frattura epocale, anni di rivolta e, insieme, di speranza. È, di certo, difficile tenere insieme dati così discordanti.

Luca Baldissara ci porta al centro di una crisi che riguarda l’intero mondo occidentale (e, per riflesso, tutta l’Europa orientale e l’urss) e lo stesso modello capitalistico così come si era forgiato nel corso del Novecento: è la fine dell’età dell’oro, per dirla con Hobsbawm, ed è la fine di un sistema che non ha più possibilità di recupero. Nemmeno la frattura degli anni Trenta, pur così tremenda, aveva provocato simili effetti. Ne vengono inevitabilmente coinvolte le istituzioni, i modi di fare politica, il complesso meccanismo della rappresentanza democra-tica e della coesione sociale dei singoli paesi.

Lo stravolgimento dell’oggi ha le sue radici in quegli anni. Il volto devastato dell’Italia di oggi si profila allora, proprio perché negli anni Settanta, l’Italia, che esce definitivamente dalla sua fase di prepotente sviluppo, va a sbattere contro l’ostacolo della sua fragile modernità e della sua precaria democrazia.

Il tema della “democrazia difficile”, come tratto peculiare dell’Ita-lia repubblicana, trova largo spazio nelle relazioni di Baldissara e di Almagisti. Se la violenza politica e la lotta armata e poi ancora il ter-rorismo trovarono terreno fecondo in Italia, balza immediatamente all’attenzione l’ipotesi di una consequenzialità tra i due insiemi. Un’i-potesi di certo possibile sul piano interpretativo, ma non tale da poter individuare percorsi di inevitabile necessità, se non a costo di drastiche semplificazioni, come con grande acutezza ci spiega Angelo Ventura,

6. Su tali questioni, cfr. il bel saggio di Barbara Armani e la bibliografia ivi indi-cata: B. Armani, La retorica della violenza nella stampa della sinistra radicale, 1967-1977, in Neri Serneri (a cura di), Verso la lotta armata, cit., pp. 231-64.

introduzione

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testimone e studioso italiano tra i più sensibili degli anni in questione7. Il raffronto con la situazione tedesca, come vedremo, può essere d’aiu-to per tentare di capire.

L’esclusione delle masse popolari dalla vita dello Stato, fin dai tem-pi dell’Unità nazionale, la costante delegittimazione delle rappresen-tanze politiche e sindacali del movimento operaio che nel “conflitto” individuano l’unica via per accedere a forme di cittadinanza sociale e democratica: sono questi i nodi problematici che Baldissara propone per una lettura di quegli anni secondo la prospettiva del lungo periodo.

Una “cultura del conflitto”, accanto e, molto spesso, contro una “cultura delle riforme”, mai pienamente dispiegata: forse qui si annida una delle possibili radici di tanto disastro. Sono altrettanto importanti, tuttavia, le considerazioni di Baldissara e Almagisti sulla natura e sul ruolo dei ceti dirigenti italiani, valutati ben al di là della sfera mera-mente politica.

Il “privatismo” e il “corporatismo”, quali tratti costanti dell’universo culturale di larga parte della borghesia italiana, si confrontano con la mancanza di “responsabilizzazione” del ceto dirigente politico rispetto agli elettori. Accountability è la parola – difficilmente traducibile in ita-liano – che le scienze politiche ci propongono, per definire il criterio di credibilità degli eletti rispetto agli elettori, nel rapporto che si instaura nelle democrazie rappresentative, pur legate a sistemi elettorali diversi per ogni paese.

Perché in Italia il meccanismo della “responsabilità/responsabiliz-zazione”, rispetto alle promesse fatte in occasione del voto, ha funzio-nato poco e male? Marco Almagisti spiega la specificità nazionale ri-spetto a tale questione, individuando forme diverse dall’accountability misurabile sul piano più strettamente elettorale: fino agli anni Novanta del secolo scorso, la vitalità dei soggetti sociali, culturali e politici pre-senti nella democrazia italiana, ignara dei meccanismi dell’alternanza, rappresentarono, infatti, un’autentica risorsa per il nostro claudicante sistema. Una possibile uscita di sicurezza.

È alla figura di Aldo Moro che Almagisti fa ricorso per far capire come il suo assassinio corrispose all’interruzione di un processo volu-to con determinazione dallo statista, insieme ad altre forze politiche (il pci di Berlinguer), per giungere ad una democrazia compiuta, li-

7. Ventura, Per una storia del terrorismo italiano, cit., pp. 4 ss.

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bera dai pesanti condizionamenti internazionali, aperta alle voci e ai fermenti innovativi della società, nel tentativo di circoscrivere la netta preponderanza dei partiti in ogni angolo dello spazio pubblico. Con la sua condanna a morte, dopo la lunga prigionia incisa nelle molte pa-gine dei suoi scritti, restò senza sbocco una stagione importante della storia italiana: una perdita enorme che ebbe la forza di deviare un per-corso riformista assolutamente inedito per l’Italia repubblicana.

È molto viva l’immagine di Moro che Marco Almagisti ci consegna alla fine del suo saggio: un uomo sconfitto dagli eventi, ma ancora ca-pace di ribellione e di rivolta morale, fino alle soglie della morte.

Anni intensi di perdite, di mancanze, di confusione, di conflitti e di violenze.

Violenza/violenze: sono le parole chiave di quel lungo decennio, quelle che oscurano tutto il resto, anche le molte conquiste sul piano dei diritti civili e sociali8.

Sui molti modi di declinare tale termine riflettono gli autori dei di-versi contributi. Quale profondità dare, innanzitutto, ad un concetto che trae con sé un bagaglio pesantissimo di storia, tradizioni e memorie? Luisa Accati legge il tema della violenza all’interno dell’immaginario religioso cristiano, nella correlazione tra sacro e profano, tra violenza e giustizia, tra violenza ed elaborazione del lutto. Nella realtà culturale italiana, il significato simbolico della vittima passa attraverso l’emozione estetica che le moltissime opere d’arte esaltano in ogni angolo del paese: nella vittima – dice l’autrice – ci si identifica attraverso un sentimento di “bellezza coinvolgente”. Nella “dimensione sacra-estetica” è tuttavia difficile compiere il passaggio che va dall’identificazione pietosa alla re-sponsabilità della giustizia. Sono dati e riflessioni che parlano alla nostra contemporaneità, perché scrutano nelle sedimentazioni temporali più remote della nostra “comunità” che entro quei valori si delimita.

Eros Francescangeli, a sua volta, con Le parole e le cose, ci porta a ragionare molto attentamente sulle “categorie analitiche” e sul signifi-cato delle parole che non solo nascono dalle “cose”, ma vivono piutto-sto per sé, in un rapporto complesso tra la soggettività ed una ipotetica oggettività, reinventando spesso “le cose” stesse.

8. G. Moro, Anni Settanta, Einaudi, Torino 2007; ma cfr. A. Bravo, A colpi di cuore. Storie del sessantotto, Laterza, Roma-Bari 2008; G. De Luna, Le ragioni di un decennio 1969-1978. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Feltrinelli, Milano 2009.

introduzione

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Che dire, ad esempio, della violenza politica? È una definizione che può includere quella di violenza sociale? Qual è stato l’uso che se ne è fatto ai più diversi livelli della divulgazione e della riflessione critica? Si è trattato e si tratta senza dubbio – suggerisce Francescangeli – di un “ombrello troppo ampio”, che alla fine diventa inservibile. Il termine “terrorismo”, volendo fare un altro esempio, conosce molte enunciazio-ni differenti (più di cento, quelle ben documentate), su scala mondiale; dopo l’attentato alla Torri gemelle del 2001, la locuzione “terrorismo” ha, poi, conosciuto il proliferare di nuove declinazioni9. Un simile eser-cizio sulle parole non è “mera retorica”, secondo Francescangeli, poiché è proprio questa puntigliosa attenzione a scavare dentro le interpreta-zioni relative agli anni Settanta (l’autore rifugge dalla voce “anni di piombo”), vuoi per cogliere la forte complessità di quegli eventi vuoi per diradare l’opacità in cui sono stati avvolti dall’uso strumentale e disinvolto del discorso pubblico. Non solo: «La necessità ossessiva di prendere le distanze – scrive l’autore – dal fenomeno della lotta armata e di condannarne premesse, vicende ed esiti prevaleva sull’analisi sine ira et studio». Le valutazioni morali, assolutamente legittime, rischia-no di sovrastare la piena comprensione di quello che deve diventare un oggetto di studio pur essendo destinato a conservare dentro di sé, an-cora per molto tempo, tutto il dolore di una ferita aperta. Non ci sono altre vie per uscire da una strettoia così carica di sofferenze e di “segni” che alla storia d’Italia si legano strettamente.

Molte pagine sono state già scritte e molte polemiche si sono accese su quella sorta di primogenitura della violenza politica attribuita agli schieramenti di estrema destra o, al contrario, di estrema sinistra, senza trascurare il ruolo decisivo di settori importanti dello Stato nello scate-namento della strategia della tensione.

Guido Panvini adotta per la strage di piazza Fontana del 12 dicem-bre 1969 il termine di “spartiacque”, perché è da lì che clamorosamente si dipartono reazioni e controreazioni devastanti per il paese. Secondo lo studioso, tuttavia, è necessario ricostruire i termini della questio-ne con un percorso d’indagine più lungo, che rimetta in gioco tanto le lotte studentesche ed operaie del Sessantotto e del 1969, quanto il nodo problematico della “democrazia difficile”. Conflittualità genera-

9. Cfr. in particolare C. Fumian, prefazione a Ventura, Per una storia del terrori-smo italiano, cit., p. 6.

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zionale, conflittualità sociale e violenza (declinata secondo diverse ca-tegorie) rappresentano, infatti, per molti ricercatori, elementi cruciali di riflessione, nel tentativo di capire se e in che modo siano chiaramen-te individuabili processi di continuità tra la stagione del Sessantotto e la fase successiva.

Quali sono, dunque, le genealogie della violenza? Da quali linguaggi trae origine la radicalizzazione “totalitaria” del lessico terrorista? Fon-damentale – per Panvini – il problema della periodizzazione che com-porta l’intreccio tra una dimensione di lungo periodo e una attenzione concentrata sul breve periodo e sulla frattura epocale che, negli anni Ses-santa del Novecento, si verificò in tutto il mondo occidentale (e oltre). Per il lungo periodo, lo studioso propone, ad esempio, una rilettura della tradizione culturale e della memoria antifascista e di quella resistenzia-le italiana, seguendo tanto le elaborazioni della sinistra storica quanto quelle della sinistra extraparlamentare. Non mancano di certo gli studi10, ma su quei laboratori di ideologie e di linguaggi, di modelli di compor-tamento e di vita, con particolare riferimento alle reinterpretazioni della sinistra rivoluzionaria, c’è ancora da ragionare: vi trovano posto, nelle commistioni spesso singolari che la complessa costruzione memoria può produrre, utopie e speranze di cambiamento, senso di sconfitta e giusti-ficazione/accettazione della violenza nelle sue diverse declinazioni.

L’impegno che i giovani ricercatori stanno mettendo nella consul-tazione delle fonti e, nello specifico, di tutto l’opuscolame, della stam-pa, dei libri diffusi largamente negli anni Sessanta e Settanta, mette a frutto una considerazione molto importante che Angelo Ventura fece a caldo nel 1979, mentre interveniva nei quotidiani nazionali sui temi del terrorismo:

La questione è seria – ha scritto Angelo Ventura, riportando un suo brano pubblicato sul “Corriere della Sera” –, ed è quindi il caso di andare alle fonti, come richiede il buon metodo, tanto più che leggendo quanto si scrive in queste settimane, si scopre un fatto a prima vista sorprendente: nessuno, o quasi, all’infuori della stretta cerchia degli adepti, sembra essersi preso la bri-ga in questi anni di leggere attentamente gli scritti di Toni Negri, il più noto dei leaders di Autonomia, e di esaminare i giornali del movimento11.

10. F. Focardi, La guerra della memoria. La resistenza nel dibattito politico italia-no dal 1945 a oggi, Laterza, Roma-Bari 2005.

11. Ventura, Per una storia del terrorismo italiano, cit., p. xxviii.

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Non pratica dunque alcuna forma di “soggettivismo brigatista” chi accede alla contorta e oscura prosa di quei movimenti eversivi: è un passaggio necessario che richiede, tra l’altro, uno sforzo critico (e di pazienza) di rilievo. Le elucubrazioni illeggibili di molte delle fonti accennate meritano, appunto, una valutazione non distratta relativa al lessico di una generazione, nella commistione e/o nel conflitto tra privato e pubblico, tra “lessico familiare” e discorso politico.

Gabriele Donato riprende il discorso a partire dall’autunno caldo individuando proprio nel successo dei sindacati sul piano della con-trattazione aziendale e dei diritti dei lavoratori la molla che fa scattare la scelta della lotta armata all’interno di un nucleo di gruppi dell’e-strema sinistra. La “militarizzazione” dello scontro sociale contro il riformismo della sinistra storica: tale ipotesi interpretativa mette in discussione quella più in voga in quegli anni e più ripetuta nel tempo relativa alla rivoluzione come necessità difensiva contro la reazione e repressione dello Stato e contro la violenza dell’estrema destra. Le con-quiste sindacali e politiche a vantaggio del mondo del lavoro avevano infatti ridotto drasticamente lo spazio dei gruppi e dei movimenti che ipotizzavano una palingenesi radicale e il crollo “del sistema capitali-sta”: obiettivi intravisti nel fuoco del conflitto sociale e generazionale in atto e obiettivi sostenuti dai fermenti rivoluzionari internazionali e dall’ideologia terzomondista. “Frustrazione” è la parola che Dona-to usa per indicare, sulla base di una lettura attenta delle fonti, il sen-timento di isolamento e di sfiducia che in larga parte condizionò la scelta di tramutare la conflittualità dilagante e le violenze di piazza in “lotta armata”. Il passaggio tra l’una e l’altra fase nasce dentro un ter-reno di coltura condiviso da molte formazioni, movimenti e soggetti, ma il balzo verso quella scelta radicale e senza ritorno è compiuto da alcuni. Il nodo sta, appunto, nel capire come essa si sia legittimata (e come sia stata legittimata) in una incredibile rincorsa attraverso i gesti, le parole e i silenzi. Né si può pensare che la “pedagogia della violenza” allora proposta in forme nuove per la storia nazionale italiana si sia poi inabissata senza lasciare traccia.

Marica Tolomelli e Laura Pelaschiar si muovono sul versante della comparazione con altre realtà europee: la prima, con quella tedesca; la seconda, con quella irlandese. Si tratta di considerazioni e di sug-gerimenti metodologici preziosi che andrebbero senz’altro raccolti e

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rilanciati su scala più ampia, in riferimento alle molte declinazioni che il fenomeno “terrorista” ebbe allora a livello mondiale12.

Marica Tolomelli riprende la discussione intorno al lemma “terro-rismo” e concorda sulla necessità di riconoscere la multiforme varietà dei fenomeni che sotto tale parola chiave rivelano «strategie d’azione, obiettivi e immaginari tra loro più divergenti che non assimilabili». L’importanza della comparazione nasce dalla consapevolezza critica delle diversità e delle distinzioni. Com’è noto, la società tedesca viene investita, a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, dalle proteste studentesche e, subito dopo, dall’irrompere sulla scena dai protagonisti della “lotta armata”: la più conosciuta è la banda Baa-der-Meinhof (Rote Armee Fraktion o raf), ma esistevano formazioni collaterali come i Tupamaros bavaresi e il gruppo Bewegung 2.juni, tra Berlino e Amburgo. Il resoconto, di necessità breve intorno alle azioni condotte dai movimenti in questione13, si sofferma piuttosto sui colle-gamenti internazionali dei terroristi tedeschi, sulle loro elaborazioni ideologiche terzomondiste (o, meglio, “tricontinentaliste”), per giun-gere alla definizione della questione del raccordo tra “lotta armata” e “simpatizzanti”, sottolineando l’isolamento dei gruppi eversivi te-deschi, secondo modalità non conosciute in Italia. Marica Tolomelli porta l’attenzione del lettore sul rapporto fra “terrorismo” e sistemi democratici: non è, infatti, contro «i poteri e le formazioni sociali di ancien régime» che “il terrorismo” si esprime, bensì all’interno delle stesse democrazie, mettendo in discussione la loro impronta “plurali-stica di mediazione di interessi e di conflitti”. Nessuno è innocente, di-cevo all’inizio di questa Introduzione, avendo presente proprio questo passaggio. La questione non è di piccola portata e meriterebbe – giu-stamente nota l’autrice – ulteriori approfondimenti e indagini.

Ma c’è dell’altro: Tolomelli richiama un groviglio di problemati-che, cui l’Italia non è affatto estranea. Il vincolo irrisolto con il proprio passato nazista pose la costruzione della democrazia tedesca su basi molto fragili: dentro la ben nota formula del “passato che non passa”,

12. Cfr. I. Sommier, La violenza rivoluzionaria. Le esperienze di lotta armata in Francia, Germania, Giappone, Italia e Stati Uniti, DeriveApprodi, Roma 2009.

13. Tra le molte pubblicazioni dell’autrice, cfr. M. Tolomelli, Terrorismo e società. Il pubblico dibattito in Italia e in Germania negli anni Settanta, il Mulino, Bologna 2006.

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metafora dell’“ossessione della colpa” e, nello stesso tempo, del biso-gno di rimozione si annida l’angoscia che la Germania vive per lungo tempo in tutte le pieghe della sua realtà politica, sociale e culturale.

Anche il “terrorismo” diviene, allora, secondo Tolomelli, una “sorta di banco di prova” per l’assetto democratico tedesco: la violenza dei gruppi e l’emanazione delle leggi speciali poteva rappresentare (e di fatto rappresentò) un elemento di forte frattura dentro la società te-desca non ancora libera, per un verso, da tentazioni autoritarie e, per l’altro, percorsa, invece, dalla paura per una possibile riproposizione di quel tragico passato.

Le istituzioni trovano riparo nelle parole di Willy Brandt sulla democrazia come “dono prezioso”, da tutelare ad ogni costo, e poi in quelle pronunciate, sulla stessa lunghezza d’onda, dal cancelliere Hel-mut Schimdt, nella fase più drammatica del deutscher Herbst. Pochi anni dopo, nel 1985, il presidente federale, Richard von Weizsäcker, in-troduce pubblicamente il concetto di “responsabilità collettiva” rispet-to al disastro tedesco della guerra e della Shoah: la storia e la memoria delle tragiche scelte del popolo tedesco diventano allora l’antidoto contro il pericolo di derive antidemocratiche. Una conoscenza storica senza negazioni o elusioni non può che intrecciarsi, infatti, con la vo-lontà politica di crescita democratica: si tratta di un insegnamento che in Italia stenta ancora a farsi strada.

Laura Pelaschiar, a sua volta, mette a confronto le rappresentazio-ni che il lessico letterario ha saputo mettere in campo sui temi della lotta armata vuoi per la realtà italiana vuoi per quella nord-irlandese. La letteratura non “insegna”, secondo i canoni dell’indagine storica o sociologica, ma è ben capace di conoscenza, poiché pone il lettore (e/o lo spettatore) nelle condizioni di compiere un esperimento di «fami-liarizzazione con quell’alterità traumatica» rappresentata appunto da quel fenomeno. La letteratura nord-irlandese conosce una prolifera-zione di testi sulla lotta armata (la Trumble literature), nella versione dei romanzi noir e thriller. Gli autori rifuggono da ogni forma di ri-mozione sulle tragedie di quella terra, ma tale scelta lascia intravedere non poche ambiguità e molti rischi. Se la fascinazione della violenza (politica e terrorista) e la sua spettacolarizzazione sono pienamente legittimate dal codice estetico, pongono tuttavia problemi di ordine etico che difficilmente si possono eludere con una guerra civile in corso o da poco sopita. Nella letteratura italiana, al contrario, si riflette quel-

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la oscura scelta della “tragedia negata” che a lungo è rimasta a custodia della memoria collettiva italiana sugli “anni di piombo”: solo a partire dal 2003 è emersa un’inversione di tendenza.

Laura Pelaschiar sottolinea ancora con attenzione l’assenza delle vittime sulla scena narrativa tanto in Italia quanto – salvo poche ec-cezioni – nell’Irlanda del Nord: tutto ciò rimanda di certo al tema già evocato della fascinazione della violenza (esaltata dalle figure dei car-nefici); la tradizione cattolica di entrambi i paesi sollecita tuttavia il lettore ad altre considerazioni, secondo quanto scrive Luisa Accati nel suo capitolo.

L’incapacità dei linguaggi che non attingano alla storia e alla socio-logia di narrare quegli anni, di elaborarli nelle forme proprie dell’inven-zione e della reinvenzione della realtà, ricompare come filo conduttore nel lavoro di Sergia adamo su e soprattutto nel capitolo di Massimi-liano Spanu dedicato al cinema di fronte (e dentro) il fenomeno del terrorismo e della violenza politica. L’eccessiva vicinanza degli eventi non può – nemmeno in questo caso – rappresentare un alibi rispetto al tema dell’“incapacità”, mentre questa stessa definizione va spiegata e decostruita. La ricerca delle motivazioni di tale grave lacuna del cine-ma italiano si confronta, nelle argomentazioni di Massimiliano Spanu, con una molteplicità di percorsi interpretativi che rimettono in circolo vuoi tutte le fragilità di una narrazione storica, solo da poco in grado di «governare un fenomeno caotico e fratto del passato prossimo», vuoi la grande trasformazione relativa ai linguaggi dell’immagine filmica e cinematografica.

Per il cinema italiano, sottrarsi a facili schematismi, dare corpo alla forte suggestione del richiamo pasoliniano (“io so”) rappresentava un orizzonte possibile, sulla scia dell’esaltante stagione degli inizi degli anni Settanta, quando autori come Liliana Cavani, Elio Petri, Miche-langelo Antonioni e lo stesso Pasolini (in un panorama europeo assai ricco di stimoli e suggestioni) erano stati in grado di interpretare (de-formare/rileggere/irridere) lo spirito del tempo.

Il silenzio, l’afasia e i lievi sussurri vanno allora ricondotti ad un altro ordine di ragioni che di nuovo ci riportano a considerare il nodo dell’ambiguità che ha stretto insieme un’intera generazione chiaman-do prepotentemente in causa, come sempre è accaduto (e accade) per i momenti più bui della storia del nostro paese, il ruolo degli intellet-tuali. Argomento scottante e fin troppo dibattuto, quest’ultimo, forse

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anche perché nei confronti del “mondo” degli intellettuali scatta un comodo e abusato principio di delega che nega più generali e più diffu-se responsabilità. Rispetto al “consenso” verso il primo anelito di cam-biamento radicale e rivoluzionario, che si articola in forme diverse nel Sessantotto italiano, suscitando passioni, speranze, fermenti culturali insieme a forme diversificate di accettazione della violenza politica14, appare distinto l’atteggiamento di quanti, negli anni contrassegnati dalla lotta armata, dilatano in vario modo il perimetro della rivolta contro uno Stato percepito come antagonista prima ancora che autori-tario. Nella sinistra (e non solo estrema), militanti politici, indifferenti spettatori o simpatizzanti si insediano in una zona grigia, luogo di una separatezza e di inganno che non si trasforma nella costruzione di una opposizione, almeno secondo i canoni noti della democrazia occiden-tale15. Quella zona grigia permane come alibi, come forma di autocom-piacimento e autoassoluzione. Né, del resto, la categoria di “zona gri-gia” è sufficiente a spiegare le forme di indulgenza, di ammiccamento e di sostegno che crescono in vasti settori dell’intellettualità italiana verso la violenza politica anche quando assume le vesti cangianti della lotta armata16. Anche in questo caso, il confronto con il saggio di Ma-rica Tolomelli, laddove cita la posizione di alcuni intellettuali tedeschi, si rivela proficuo, per stabilire similitudini e diversità.

Nel suo capitolo l’autore affronta, con la competenza che gli è pro-pria, il tema dell’estetica della sovversione terrorista: un passaggio im-portante perché mette in campo tanto il motivo, già accennato, della “fascinazione della violenza”, quanto quello della ridefinizione della realtà per immagini, suggestioni e “forme parossistiche di comunica-zione visiva” che sono capaci di creare un “mondo a parte”, in cui si dissolve e si corrompe tutta la complessità di un’epoca.

14. Cfr. S. Neri Serneri, Contesti e strategie della violenza e della militarizzazione nella sinistra radicale, in Id. (a cura di), Verso la lotta armata, cit., pp. 28-9, ma in realtà tutto il saggio.

15. Tra gli esempi di discussione più recenti, cfr. J. W. Müller, L’enigma demo-crazia, Einaudi, Torino 2013; cfr. anche M. Almagisti, La qualità della democrazia in Italia. Capitale sociale e politica, Carocci, Roma 2008 (i ed.).

16. Molto stringente la presa di posizione di A. Ventura, La responsabilità degli in-tellettuali e le radici culturali del terrorismo di sinistra, in Id., Per una storia del terrorismo italiano, cit., pp. 93-114; cfr. F. Attal, Gli intellettuali italiani e il terrorismo: 1977-1978, in Lazar, Matard-Bonucci (a cura di), Il libro degli anni di piombo, cit., pp. 121-36.

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Storia e memoria, oblio, rimozione e perdono: una riflessione sul tema della lotta armata e del terrorismo chiama in causa molte cate-gorie storiografiche ed etiche, da affinare di continuo. Cosa significa, ad esempio, ragionare sulla “memoria” di ferite aperte, di drammi ir-risolti, di vicende ancora oscure? La memoria individuale e privata si sovrappone a quella pubblica e istituzionalizzata (il 9 maggio, giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo); le memorie delle vittime collidono inevitabilmente con quelle dei carnefici in un feroce torneo senza fine, in cui conta essenzialmente l’emotività che spesso degrada la storia al rango di sorella minore, vanificando l’esigenza di “verità e giustizia”17. Che fare? Se una delle strettoie della storia d’I-talia è rappresentata dal paradigma della “divisività”, le vie di scampo non sono poi molte18. Tra esse, vi è senza dubbio quella segnata dalla curiosità intellettuale che, come poco sopra ci diceva, spinge giovani studiosi alla ricerca, superando rimozioni e ambiguità; la passione civi-le accomuna, a sua volta, molte associazioni e molte persone che negli anni sono riuscite a costruire, ad esempio, una rete nazionale degli ar-chivi della memoria sui temi della violenza politica in Italia. Dal 2005 esiste infatti la Rete degli archivi per non dimenticare19, che custodisce e mette in collegamento numerosi centri di documentazione e archivi privati, arricchendo di anno in anno la documentazione intorno a tali tematiche, a garanzia della fruizione pubblica.

Si tratta di iniziative, come quella della Fondazione Vera Nocentini descritta in questo volume da Marcella Filippa, che sollecitano inter-rogativi cruciali: centro di valorizzazione della storia sindacale (e della cisl, in particolare), la Fondazione si apre ad una riflessione sui rap-porti tra mondo operaio, sindacati e terrorismo. Opuscoli, manifesti, questionari, resoconti di assemblee di fabbrica ecc. svelano l’esistenza di un patrimonio documentale assai importante. Si tratta quindi di un osservatorio di primo piano per capire se e in che modo, in quali cir-costanze e per quali realtà di fabbrica si sia verificata la concatenazione

17. G. De Luna, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltri-nelli, Milano 2012.

18. Cfr., per esempio, L. Di Nucci, E. Galli della Loggia (a cura di), Due nazio-ni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 2003.

19. Il sito, citato nel capitolo di Marcella Filippa, è: www.memoria.san.beniculturali.it

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tra conflittualità sociale, accettazione della violenza come “strumento di azione politica”, adesione al radicalismo più estremo e, infine, alla lotta armata. Sarebbe possibile, attraverso queste carte, una mappatura dei luoghi, una biografia collettiva dei protagonisti; del resto è neces-sario percorrere anche l’altra ipotesi, per capire con quali strategie e con quali forme di persuasione (politiche/personali) sia stato, invece, rifiutato quel percorso, non necessario né inevitabile.

Si tratta di argomenti delicati, ben noti alla letteratura storiografi-ca20, che tuttavia richiedono ancora approfondimenti di ricerca, pro-prio perché quelli sono anni di trasformazione profonda per le culture operaie e sindacali cresciute nel solco della ricostruzione postbellica e del boom economico.

Mentre il capitolo di Bojan Mitrovic introduce il tema delle inusi-tate modalità con cui, agli inizi degli anni Ottanta, uno dei gruppi più importanti dell’estrema sinistra, Lotta Continua, mette a fuoco il netto distacco dal terrorismo brigatista, i ricercatori della Fondazione Vera Nocentini richiamano l’attenzione su un’altra questione di non poco peso: che fare di una generazione “perduta”, quella degli ex brigatisti, o ex appartenenti a Prima Linea rinchiusi nelle carceri, dissociati, pentiti o no? Come pensare ad un loro reinserimento nella società, al momento del “fine pena”? Le storie di vita di ex detenuti rappresentano una parte cospicua della documentazione della Fondazione stessa, mentre le scel-te di “accoglienza” rispetto a chi usciva da quella tragica esperienza da parte di molti sindacalisti della cisl torinese o del Gruppo Abele sono proprie di un percorso umano e di fede che merita rispetto. Perdono e giustizia, colpa e riparazione, elaborazione del lutto, trasmissione della memoria: su questi nodi ci interroghiamo quotidianamente, cercando soluzioni difficili da trovare. L’esempio delle Commissioni per la verità e la riconciliazione che, partendo dal Sud Africa, si è riprodotto a livel-lo mondiale, raccogliendo esperienze senz’altro diverse, sta ad indicare un’esigenza profondamente radicata nelle società che hanno attraver-sato il tragico Novecento21: al di là dei risultati raggiunti o di quelli au-

20. Per la riflessione complessiva e indicazioni bibliografiche aggiornate, cfr. D. Serafino, Genova. La lotta armata in una città operaia e di sinistra, in Neri Serneri (a cura di), Verso la lotta armata, cit., pp. 367-90.

21. Ad esempio, cfr. M. Flores (a cura di), Storia, verità e giustizia. I crimini del xx secolo, Bruno Mondadori, Milano 2001.

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spicabili, il bisogno di ritrovare una bussola d’orientamento dopo tante lacerazioni rappresenta, a mio parere, la necessità di costruire il futuro con quello che resta dopo tanto disastro. Non c’è alternativa, credo, se non in una visione religiosa – inaccessibile a molti – della realtà umana.

Come sempre accade, nell’esperienza della storia e della democrazia italiana, esistono poi degli spazi che le comunità e le istituzioni riesco-no a costruire per discutere, per capire, per fermarsi a riflettere, contro ogni deriva autodistruttiva. Di certo si tratta di realtà puntiformi, “vo-lontà buone” che non sempre riescono a diventare discorso politico nazionale. Non per questo sono meno importanti, tanto più se viene messa in campo la scuola che si impegna a sperimentare, con gli allievi protagonisti (cfr. il capitolo di Cinzia Venturoli), il “disvelamento” dei luoghi, delle persone e degli eventi dei tumultuosi anni Settanta. Uno sforzo non da poco che va messo nel conto di quella passione civile che permane ancora come trama sottile della nostra vicenda nazionale.

A conclusione, si può ben dire, che l’ipotesi di lavoro imperniata sui linguaggi, quelli della storia e quelli della narrazione, che attin-ge a metodologie disciplinari diversificate, può aprire prospettive di comparazione molto feconde per cogliere lo spirito di quegli anni. Le parole della memoria, qui lasciate sullo sfondo, stanno a loro volta diventando oggetto di studi importanti22: l’auspicio è che tale rete di conoscenze diventi patrimonio di molti e linguaggio comune per i ri-cercatori e per il pubblico.

22. Ad esempio, cfr. B. Armani, Italia anni Settanta. Movimenti, violenza poli-tica e lotta armata tra memoria e rappresentazione storiografica, in “Storica”, 32, 2005, pp. 41-82.

Una nuova stagione

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Post-everything era: è questa la definizione impiegata da Tony Judt per descrivere l’orizzonte culturale e intellettuale degli anni Settanta, a suo dire il più deprimente decennio del xx secolo1. E se tale formula si adatta a descrivere un “periodo di cinismo, illusioni perdute e limitate aspettati-ve”, essa è nondimeno efficace nel cogliere e descrivere la natura epocale dei Seventies nel quadro dell’età contemporanea. In effetti, su di un piano generale, oltre la dimensione della storia delle idee, l’accento sul carattere di epoca del “post-tutto” restituisce incisivamente il senso di una rottura profonda con il passato e dell’apertura di una fase di incertezze sul futuro: quando cioè il sistema politico-istituzionale e quello economico-sociale non paiono più in grado di garantire risposte adeguate alle sollecitazioni dei processi di mutamento in corso e quando i paradigmi politico-cultu-rali su cui avevano poggiato le soluzioni sino ad allora offerte si rivelano incapaci di leggere e interpretare adeguatamente la realtà.

In questa prospettiva di faglia periodizzante, gli anni Settanta sono stati ormai canonizzati come gli anni della crisi: di una crisi simultanea nei diversi ambiti della vita organizzata, dentro e fuori i confini degli Stati nazionali, tale dunque da configurarsi come una vera e propria crisi di sistema. È certo il successo editoriale del Secolo breve di Hobsbawm a fare sì che l’opinione ormai diffusa tra gli studiosi circa il rilievo di svolta storica dei Settanta si trasformi in una percezione generale, in un vero e proprio senso comune storiografico circa la “fine dell’età dell’oro”2. E

I lunghi anni Settanta. Genealogie dell’Italia attuale

di Luca Baldissara

1. T. Judt, Postwar: A History of Europe since 1945, The Penguin Press, New York 2005, p. 478.

2. E. J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano 1995 (ed or. Age of Extremes: The Short Twentieh Century 1914-1991, Michael Joseph-Viking Penguin, London-New York 1994).

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non sarà del tutto inutile notare come alla fine del xx secolo la sco-perta storiografica della cesura dei Settanta muova i suoi primi passi in stretta connessione con la presa d’atto di un’altra soluzione di conti-nuità: l’Ottantanove, che avrebbe non solo chiuso l’epoca della guerra fredda, ma il Novecento stesso, l’Age of Extremes, per dirla appunto con l’evocativa definizione di Hobsbawm. Peraltro, il secolo che anda-va a chiudersi non lasciava eccessivi margini al sollievo per l’esaurirsi della contrapposizione tra i due blocchi, giacché simultaneamente tor-nava a presentarsi l’incubo della guerra nella sue forme più tragiche e crudeli, la guerra civile nel cuore d’Europa, la guerra etnica in Africa, la guerra di civiltà – con tratti neocoloniali – in Medio Oriente. Cosic-ché, il disordine internazionale e i tanti focolai di tensione, non meno dell’appannarsi del ruolo egemone degli usa, sollecitavano a cogliere i fattori storici dell’instabilità, a rintracciare le radici della crisi. Ed ecco che l’attenzione degli studiosi inizia a concentrarsi sugli anni Settanta, a suggerire che la crisi manifestatasi in quegli anni incubasse – e quindi rendesse possibile comprenderlo – il dissesto del sistema delle relazioni internazionali seguito all’implosione dell’urss e all’indebolirsi degli usa3. Quasi che una frattura politica di superficie, consumata nell’arco temporale breve, celasse la vista di una faglia di profondità, fosse un epifenomeno di un mutamento di lungo periodo, da tempo in corso e ancora non concluso.

Il decennio Settanta diviene dunque un luogo privilegiato d’eserci-zio del canone storiografico della crisi4. Si fa strada la convinzione che sia quello il momento storico in cui viene a maturazione la crisi del mo-dello capitalistico definitosi nel corso del Novecento all’ombra dell’e-gemonia statunitense e consolidatosi nel trentennio 1945-75. In altri termini, giungerebbe allora a conclusione la golden age postbellica5,

3. A. Colombo, La disunità del mondo. Dopo il secolo globale, Feltrinelli, Milano 2010. Dello stesso autore cfr. anche La guerra ineguale. Pace e violenza nel tramonto della società internazionale, il Mulino, Bologna 2006.

4. Che la categoria di “crisi” sollevi l’interesse degli studiosi coevi e ne orienti gli interrogativi da rivolgere al passato lo dimostra G. E. Rusconi, La crisi di Weimar. Crisi di sistema e sconfitta operaia, Einaudi, Torino 1977; lo stesso Rusconi avrebbe successivamente sistemato la sua riflessione concettuale nella voce Crisi sociale e poli-tica, in N. Tranfaglia (dir.), Il mondo contemporaneo, vol. i, Politica e società, a cura di P. Farneti, La Nuova Italia, Firenze 1979, pp. 322-32.

5. Insieme ad altri autori, sono Stephen Marglin e Juliet Schor che hanno posto all’attenzione la straordinaria espansione capitalistica del periodo compreso tra il 1950

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caratterizzata dal consolidamento di un circolo virtuoso tra sviluppo economico, redistribuzione della ricchezza e ampliamento dell’inter-vento dello Stato, tale da garantire al mondo occidentale la più intensa fase di crescita economica e di trasformazione degli assetti sociali nel-la storia del capitalismo6. Il tratto distintivo di quella fase terminale è individuato nella grave e cupa crisi, per molti versi irreversibile, che a partire dai Settanta attanaglia il modello produttivo fordista-taylo-rista, poggiante sulla separazione tra progettazione ed esecuzione del lavoro, e sulla sua massificazione, gerarchizzazione e meccanizzazione. Ciò provoca il rapido e netto ritrarsi del capitale monetario dalle atti-vità produttive e mercantili, conducendo ad una sempre più vorticosa – e da allora ininterrotta – espansione finanziaria, che già alla fine del decennio oltrepassa di gran lunga il valore complessivo del commercio mondiale. Cosicché, per descrivere tale estensione dei flussi di capitale, secondo diversi studiosi non appare inappropriato il ricorso alla cate-goria di “rivoluzione”7; altri, invece, vi colgono la traccia di un ciclo sistemico, consistente nel fatto che il succedersi dei regimi di accumu-lazione su scala mondiale – e dunque dell’egemonia internazionale di una potenza – passerebbe attraverso fasi di intensa finanziarizzazione dell’economia8, che comportano la “deterritorializzazione” dell’im-

(guerra di Corea) e il 1973 (fine della guerra del Vietnam) rispetto ad altre fasi, definen-do questi ventitré anni come l’età d’oro del capitalismo: cfr. S. A. Marglin, J. B. Schor (eds.), The Golden Age of Capitalism: Reinterpreting the Postwar Experience, Clarendon Press, Oxford 1991. La definizione di “età dell’oro” è entrata in un uso comune oltre la cerchia degli specialisti soprattutto grazie all’Hobsbawm del Secolo breve.

6. Per una ricostruzione critica di questo impianto interpretativo cfr. R. Bello-fiore, I lunghi anni Settanta. Crisi sociale e integrazione economica internazionale, in L. Baldissara (a cura di), Le radici della crisi. L’Italia tra gli anni Sessanta e Settanta, Carocci, Roma 2001, pp. 57-102. Nello stesso volume cfr. D. Preti, La cesura degli anni Settanta, pp. 103-33.

7. R. Gilpin, Politica ed economia nelle relazioni internazionali, il Mulino, Bo-logna 1990; A. Walter, World Power and World Money: The Role of Hegemony and International Monetary Order, St. Martin’s Press, New York 1991 (che scrive esplicita-mente di una “rivoluzione finanziaria globale”).

8. Il più lucido e coerente interprete di questa posizione è certo Giovanni Arri-ghi, la cui più articolata e documentata esposizione di tale asse interpretativo è in Il lungo xx secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, Milano 1996; lo stesso autore ammette che questo volume, ingiustamente trascurato nel dibattito italiano, ha preso le mosse proprio dallo studio della crisi economica mondiale degli anni Settanta.

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presa9 e il mutamento in profondità degli assetti spaziali del mondo10, una profonda riorganizzazione della struttura sociale11, una progressiva disarticolazione del lavoro12.

Si realizza in tal modo una globalizzazione di mercati, capitali e produzioni che, in una sorta di effetto domino, finisce con il porre in crisi a sua volta il modello “keynesiano-socialdemocratico” di Stato: il Welfare State, il gestore privilegiato della mediazione del conflitto tra capitale e lavoro, definitosi a partire dagli anni Trenta in risposta alla “grande crisi” e le cui fortune maturano soprattutto nel primo tren-tennio postbellico. La mondializzazione dell’economia13 finisce quindi con il mettere in discussione anche le forme dell’azione politica e del conflitto sociale praticate dal movimento operaio nel corso del secolo, modellatesi nel contesto della dimensione nazionale e sulla base di un compromesso politico-istituzionale che ne offriva l’integrazione poli-tica (l’accettazione della via parlamentare alla democrazia) in cambio di strumenti e interventi di sicurezza sociale (servizi, previdenza, sa-nità, istruzione, assistenza). La globalizzazione finanziaria si accom-pagna inoltre ad un’intensa ristrutturazione tecnologico-produttiva, i cui esiti sono la sempre più intensa riduzione di lavoro vivo – ali-mentando dunque una “disoccupazione tecnologica di massa” conge-nita al sistema e non più riassumibile entro il tradizionale e virtuoso intreccio causale tra innovazione, crescita dei profitti, aumento degli investimenti, aumento dell’occupazione – e un sempre maggiore costo sociale, sia in termini di disoccupazione che di rinnovata e crescente

9. M. Revelli, Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo, in P. Ingrao, R. Rossanda (a cura di), Appuntamenti di fine secolo, manifestolibri, Roma 1995, pp. 161-224.

10. D. Harvey, La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente, il Sag-giatore, Milano 1993.

11. Che la finanziarizzazione dell’economia fosse destinata a gravare pesantemen-te sui ceti medi, «poiché solo un piccolo gruppo scelto di ciascuna popolazione nazio-nale può ripartirsi i profitti della borsa e dell’intermediazione finanziaria» era quanto osservava, in riferimento agli usa, K. Phillips, Boiling Point: Republicans, Democrats and the Decline of Middle-class Prosperity, Random House, New York 1993, p. 197.

12. La letteratura disponibile intorno alla rimessa in discussione della categoria di “lavoro” è ormai vastissima: per una riflessione connessa ai mutamenti degli assetti del capitalismo contemporaneo si rinvia a L. Boltanski, E. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris 1999.

13. F. Chesnais, La mondialisation du capital, Syros, Paris 1991.

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subalternità dei lavoratori al comando d’impresa, nonché di espunzio-ne del conflitto dalla fabbrica e in genere dai luoghi di lavoro.

Lo sgretolarsi e il decomporsi della compagine sociale, frutto avve-lenato di questa complessa e sfaccettata crisi del capitalismo, condur-rebbe inoltre alla contestuale e conclamata crisi della politica. La varie-gata gamma di domande di modernizzazione democratica del sistema politico-istituzionale di cui si compone la stagione che si inaugura con il Sessantotto – un fenomeno mondiale, da Ovest a Est, da Nord a Sud del mondo, che in molti contesti è accompagnato e seguito da una fitta stagione di conflitti sociali e redistributivi – non sembra infatti trova-re adeguato accoglimento, mettendo a nudo, di contesto in contesto, la manifesta incapacità delle classi dirigenti e dei regimi politici di ga-rantire soluzioni adeguate alle richieste di partecipazione ed estensione della cittadinanza provenienti dalle lotte studentesche e operaie. Di qui, l’oscillazione degli studi tra l’enfatizzazione ora dei limiti strutturali dei sistemi politici e istituzionali, ora dell’emergere del fenomeno della violenza politica. Riguardo al caso italiano, ad esempio, è ampiamente diffusa l’applicazione di un paradigma politologico dell’interpretazio-ne, fondato su di una logica del tipo domanda (politica e sociale)/rispo-sta (istituzionale), per il quale il “secondo biennio rosso”, 1968-69 (e la sua coda nei primi Settanta), al pari del primo (1919-20), anche se meno drammaticamente, rivelerebbe un esito negativo nella chiusura del siste-ma politico-istituzionale alle istanze della società14. E in tale assenza di sbocchi andrebbero individuate le ragioni, allora, sia dell’opzione per la violenza15 (lotta armata/terrorismo), sia della smobilitazione collettiva nella seconda parte del decennio (“riflusso”), e, dopo, dagli anni Novanta ad oggi, quasi si trattasse di effetti in differita, dell’implosione del sistema dei partiti, delle pulsioni dell’antipolitica, del rifiuto della militanza16.

14. D. della Porta, Movimenti collettivi e sistema politico in Italia 1960-1995, La-terza, Roma-Bari 1996; per una declinazione storiografica cfr. A. De Bernardi, M. Flores, Il sessantotto, il Mulino, Bologna 1998.

15. S. Tarrow, Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e politica in Italia, 1965-1975, Laterza, Roma-Bari 1990; interessanti considerazioni in M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. ii, Le trasformazioni dell’I-talia: sviluppo e squilibri, tomo 2, Istituzioni, movimenti, culture, Einaudi, Torino 1995.

16. M. Revelli, Le due destre. Le derive politiche del postfordismo, Bollati Borin-ghieri, Torino 1996; A. Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia. Nuove destre, populismo, antipolitica, Bollati Boringhieri, Torino 2005.

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Chi ha più di altri condotto sistematicamente una riflessione sto-rica su questi aspetti, tentando di coniugare la storicità dei processi di mutamento con l’individuazione di tratti sistemici, quindi generaliz-zabili, è Charles Maier, secondo il quale la crisi dei Settanta – una crisi del sistema – è un punto focale per l’interpretazione del xx secolo, simmetrico a quella dei Trenta – una crisi nel sistema – giacché en-trambe sono:

fasi storiche fondamentali che prima formarono e poi cambiarono le basi della politica. Entrambe alterarono radicalmente le relazioni tra governi e sistemi economici, interrompendo modi di produzione e reti di scambio. Entrambe colpirono la società, mandando in frantumi alcune istituzioni e sostituen-do alcune élites tradizionali con la creazione al contempo di nuove élites, ma anche con la formazione di nuove classi subalterne. Entrambe condussero le società a contestare e ridefinire lo status quo politico: in alcuni casi con l’ab-bandono dei sistemi democratici, in altri con l’ampliamento del loro ruolo17.

La crisi dei Settanta, dunque, non è solo riconducibile al superamento e all’eclissi del keynesismo, che anzi in tal senso sembra esserne più che altro un epifenomeno. Ciò che distingue le due crisi è semmai il fat-to che la prima si profila come un collasso all’interno del sistema, che quindi può essere rivitalizzato con una nuova combinazione degli stes-si elementi che lo costituiscono: la gestione della domanda attraverso le politiche economiche pubbliche, l’ampliamento delle funzioni sta-tali, la produzione e il consumo di massa, l’ideologia della produttività e della crescita illimitata, riassunte nel modello di “prosperità” di marca statunitense che impronterà la ricostruzione europea dopo il 1945. La seconda si presenta invece come una vera e propria crisi di sistema, che impone una radicale trasformazione delle sue fondamenta, un passag-gio a nuove tecnologie (la rivoluzione informatica), una ridefinizione dello spazio della politica e dell’economia entro una nuova concezione della territorialità18. Ed è proprio perché sono le fondamenta dei siste-

17. C. S. Maier, Due grandi crisi del xx secolo. Alcuni cenni su anni Trenta e Settan-ta, in Baldissara (a cura di), Le radici della crisi, cit., p. 40; Id., I fondamenti politici del dopoguerra, in Storia d’Europa, vol. i, L’Europa oggi, Einaudi, Torino 1993.

18. Id., Secolo corto o epoca lunga? L’unità storica dell’età industriale e le trasforma-zioni della territorialità, in C. Pavone (a cura di), Il secolo ambiguo, Donzelli, Roma 1997.

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mi produttivi e degli strumenti istituzionali di intervento in ambito economico-sociale ad essere scossi che la crisi dei Settanta riguarderà tanto l’Ovest capitalistico che l’Est del fordismo di Stato. Il 1989 sa-rebbe dunque inscritto nella crisi degli anni Settanta, laddove il diffe-rente esito – l’implosione del sistema socialista vs la trasformazione degli assetti capitalistici – è resa possibile dalla flessibilità del mercato, che permette ad Ovest di riorientare le priorità economiche e abban-donare l’orizzonte della piena occupazione, e dalla diversa legittima-zione democratica dei governi, che ad Occidente possono imporre a partire negli anni Ottanta provvedimenti di tale radicale portata da apparire impraticabili ad Est (dove difatti diverranno attuabili dopo l’Ottantanove, quando l’ideologia del libero mercato supplirà alla gra-cilità democratica):

Sia a est che a ovest – scrive Maier – le crisi degli anni Settanta ebbero ori-gini politiche ed economiche allo stesso tempo. Le scosse politiche dei tardi anni Sessanta – la primavera di Praga in Europa orientale, le rivolte studen-tesche e l’ascesa della militanza sindacale in occidente – portarono una sfida radicale alle traiettorie “modernizzatrici” o riformiste degli anni Sessanta. In Europa orientale i partiti comunisti reagirono tendenzialmente, benché non nell’immediato, cancellando gli esperimenti di decentramento dei processi decisionali. Ma a parte la politica, fecero marcia indietro sulle riforme dopo aver scoperto che una liberalizzazione portava a colli di bottiglia e carenze di beni. [...] Assediati dal conflitto sociale e dalla confusione a livello di scelte strategiche, i leader occidentali alla fine optarono però per la disciplina del mercato mondiale. Mentre l’occidente si adeguava, l’oriente cercava vana-mente di resistere19.

Dopo i Settanta occorre insomma rigettare le fondamenta stesse dell’e-dificio, non è sufficiente un restauro come quello avviato nei Trenta. La differenza non è di poco conto. Non foss’altro perché ciò significa inventarsi una nuova strumentazione politica e istituzionale, riorganiz-zare l’economia e intervenire sugli assetti sociali esistenti, rielaborare culture e ideologie per innescare e al contempo legittimare processi di mutamento spesso traumatici e comunque sempre potenzialmente eversivi della coesione sociale. Tra Ottocento e Novecento si sarebbe

19. Id., Il crollo. La crisi del comunismo e la fine della Germania Est, il Mulino, Bologna 1999, pp. 147-9 (ed. or. 1997).

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detto che si trattava di sostituire un ordine della società con un altro, o forse, in una prospettiva politicamente conservatrice, semplicemen-te di restaurarlo. L’odierno linguaggio delle scienze umane impiega il termine di “stabilità”, che restituisce una natura dinamica alla definizio-ne, giacché, come osserva Maier, «implica una capacità cibernetica di autocorrezione, una tendenza omeostatica a ritornare all’equilibrio». Intesa come condizione politica, la stabilità intrattiene un dialettico rapporto con le strategie di stabilizzazione: l’una non si intende senza le altre, ma se la prima ammette la dimensione democratica di un con-flitto di potere ritenuto legittimo, le seconde si volgono a concluderlo, tendono alla spoliticizzazione, a frenare l’inclusione, dunque a fissare dei limiti all’estensione della cittadinanza politica e sociale, quindi a limitare la democrazia, a ributtare in balìa del mercato i gruppi sociali economicamente svantaggiati. «La stabilizzazione – conclude Maier – comporta quindi l’esclusione politica di determinati gruppi e insieme il rifiuto di soddisfarne le rivendicazioni»20.

Può essere questa una chiave di lettura e interpretazione anche per i lunghi anni Settanta d’Italia? La risposta è tendenzialmente posi-tiva, qualora si intenda che per comprenderli appieno e calarli nella storia dell’Italia contemporanea non si può che affrontarne lo studio in una prospettiva di lungo periodo, collocandoli tra un prima (gli effetti della “grande trasformazione” del paese tra anni Cinquanta e Sessanta, con i profondi disequilibri che essa rivelò e accentuò) e un dopo (l’orizzonte neoliberista e di drastica contrazione dell’intervento pubblico degli anni Ottanta, con i portati della deindustrializzazione e della ridefinizione dei meccanismi di rappresentanza degli interes-si). In questo senso si accolgono le considerazioni di Guido Crainz, secondo il quale:

La radice dei processi e dei conflitti successivi (e forse anche del loro esito) sta insomma in larga misura nell’interazione di quegli elementi che appaio-no chiaramente nello snodo del 1963-4: processi contraddittori ma potenti di modernizzazione; squilibri persistenti della società italiana; permanere di arretratezze culturali che improntano largamente le istituzioni del paese; fal-limento di una politica riformatrice21.

20. Id., Alla ricerca della stabilità, il Mulino, Bologna 2003 (ed. or. 1987).21. G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Don-

zelli, Roma 2003, p. 30.

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È in questa prospettiva che si fa ricorso alla formula “lunghi anni Set-tanta”22. Con essa non solo si tende alla storicizzazione di quel periodo, depurandolo dai topoi sul panconflittualismo e dalle fosche rappresen-tazioni nei termini di “anni di piombo”, ma lo si valorizza storiografica-mente, assumendolo quale prisma prospettico per guardare tanto alle caratteristiche del processo di “modernizzazione senza sviluppo” del dopoguerra, quanto alla ridefinizione del rapporto politica/mercato dell’ultimo trentennio. Quel decennio, infatti, pare presentarsi come una sorta di big bang, in cui confluiscono tutti i fattori del mutamento e al contempo tutti i nodi storici del xx secolo sembrano venire a com-pimento, plasmando nella loro collisione un nuovo legame sociale, un nuovo modello di produzione, un nuovo tipo di relazioni industriali, un nuovo nesso tra nazionale/internazionale, un nuovo rapporto tra pubblico/privato, una nuova rappresentazione del lavoro, una nuova dipendenza tra identità sociale e identità individuale, una nuova visio-ne della società, una nuova relazione tra democrazia e capitalismo.

La ricostruzione dei processi di trasformazione innescati dal mira-colo economico, e dei tentativi allora esperiti di governarli, sono de-terminanti nella comprensione delle vicende degli anni Settanta. Lo spostamento di popolazione dalle campagne alle città, la proliferazio-ne di attività artigianali e industriali, la formazione di una nuova classe operaia, la crescita dei redditi e la nuova distribuzione della ricchezza, l’entrata in scena della prima generazione nata alla fine della guerra, l’americanizzazione culturale: insomma, tutto ciò che concerne la re-pentina e concentrata fase di modernizzazione del paese muta radical-mente l’orizzonte in cui si calano i processi di riproduzione sociale. Sono gli anni di un «impressionante processo di disgregazione e disag-gregazione, di differenziazione sociale e di secolarizzazione culturale e politica»23, «di una prima parziale rottura nell’equilibrio dei bassi salari e dei bassi consumi» che avvia «un circuito virtuoso tra accu-

22. La definizione di “lunghi anni Settanta” è già stata impiegata da Bellofio-re (cfr. supra, nota 6) in riferimento ad un periodo che corre dalla metà degli anni Sessanta al 1982, data suggerita da Fitoussi come momento di ratifica della tirannia finanziaria cui ancora saremmo sottoposti. In questa sede si applica la definizione in senso estensivo, non solo ad individuare quel periodo, ma in generale a collocare il decennio nell’arco lungo della storia nazionale.

23. A. Mastropaolo, La Repubblica dei destini incrociati. Saggio su cinquant’anni di democrazia in Italia, La Nuova Italia, Firenze 1996.

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mulazione e consenso, che segna la vera discontinuità nel dopoguerra rispetto alla precedente storia italiana»24. Sono gli anni in cui le for-me di integrazione tipiche della società dei consumi (scolarizzazione, nuovi modelli di vita e valori di comportamento), sommate ai fenome-ni indotti dal processo di industrializzazione e di crescita economica (migrazioni di massa, crescita dei consumi privati, terziarizzazione), ridefiniscono ed erodono i contorni degli aggregati di classe, mutano i caratteri del rapporto tra politica e mercato.

L’Italia esce dal suo primo secolo di vita unitaria con un bagaglio di esperienze che comprendono l’esclusione delle masse popolari dalla vita dello Stato e il loro mantenimento in una condizione di vita al limite della sussistenza, la mancata o debole legittimazione degli orga-nismi di rappresentanza politica e sindacale del movimento operaio, l’ingresso nella dimensione di massa della vita sociale e politica no-vecentesca filtrato dal partito fascista e dall’azione di governo di un “regime reazionario di massa”, la fragilità della democrazia postfascista, sulla quale gravano non solo i vincoli della guerra fredda, ma anche una visione gerarchica e autoritaria, più esclusiva che inclusiva, del ruolo delle istituzioni e dei partiti, della rappresentanza degli interessi e del conflitto sociale in una società pluralista. L’entrata d’un colpo nella modernità non può non aprire repentinamente nuovi scenari, suscitare aspettative crescenti, e rapidamente volgerle in delusioni e frustrazio-ni per gli squilibri che ha contribuito ad accentuare piuttosto che a risolvere, per l’inconcludenza di una politica tanto ricca di propositi riformatori quanto povera di realizzazioni concrete.

Di qui sgorga anche uno dei tratti salienti dei lunghi anni Settanta: il conflitto sociale, con le sue forme peculiari e i suoi nuovi protagonisti25. È un conflitto che si presenta con un profilo diverso dal passato. A cavallo tra i Sessanta e i Settanta il conflitto si accende in una fase espansiva, di crescita. E si sviluppa al termine di un decennio di intense trasformazio-ni, non solo sociali, ma anche culturali, che hanno profondamente inciso sulle aspettative, sui bisogni, sulle autorappresentazioni, sul rapporto tra

24. F. De Felice, Nazione e sviluppo: un nodo non sciolto, in Storia dell’Italia re-pubblicana, vol. ii, cit., tomo 1, Politica, economia, società, Einaudi, Torino 1995.

25. Un caso di studio in L. Baldissara (a cura di), Tempi di conflitti, tempi di crisi. Contesti e pratiche del conflitto sociale a Reggio Emilia nei “lunghi anni settanta”, l’an-cora del mediterraneo, Napoli 2008.

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vita e lavoro, fabbrica e società. Ora il conflitto sociale – meglio: il con-flitto di fabbrica – diviene la forma in cui si esprimono e si condensano la messa in discussione del potere del “padrone”, la solidarietà con i compa-gni sui luoghi di lavoro e la socialità nell’ambiente circostante, la richiesta di migliori condizioni di lavoro dentro la fabbrica e di provvedimenti di integrazione del salario fuori la fabbrica. Non si tratta più solo di vertenze salariali, per quanto aspre ed estese. Ma di un vero e proprio confronto sul terreno dei rapporti di forza, di una saldatura tra le lotte in fabbrica e nel territorio, di un modo di elevare la condizione operaia e salariata a metro di misura dei rapporti sociali e politici tout court.

Non se ne colgono sino in fondo i risvolti se non si pone mente alla tormentata vicenda della mancata legittimazione del movimento operaio nella storia italiana. Il che ci riporta a un problema storico ge-nerale: la rilevanza del conflitto sociale nella storia italiana costituisce la spia dei pesanti limiti d’egemonia delle classi dirigenti, tradottisi nel loro patologico orientarsi verso soluzioni autoritarie (il 1898 e il 1922), o comunque di “democrazia protetta” (il centrismo di De Gasperi e Scelba, sino al tentativo tambroniano e alle torbide trame della “strate-gia della tensione”), ogni qualvolta i lavoratori organizzati riportano in primo piano la questione della storica esclusione delle masse popolari dalla vita dello Stato. Certo, si potrebbe anche aggiungere che il sur-plus (di lotte, di sacrifici, di costi umani) richiesto ad esse per accedere alla democrazia (come anche, non senza paradosso, per difenderla) ha contribuito all’elaborazione di una cultura del conflitto che a sua volta ha ridotto i margini d’azione della cultura riformista e al contempo enfatizzato l’immagine della “funzione nazionale” della classe opera-ia. Forse, potremmo concludere, la marcata ma inevitabile dimensione politica dell’azione sindacale e la costrizione del riformismo in spazi angusti sono i due volti con cui storicamente non può che presentarsi la dialettica sociale in Italia. E l’ostilità verso la legittimità della rappre-sentanza sindacale e politica degli interessi dei lavoratori – che perio-dicamente e sistematicamente si rinnova nella storia del paese, sino ad oggi – è l’elemento che consente il perdurare di questo doppio profilo.

È dunque la questione della democrazia a costituire lo sfondo di questa storia. Perché l’inclusione delle masse nella vita dello Stato, dunque la conquista di una loro piena cittadinanza sociale, si trova co-stretta a passare in ogni fase di svolta della storia nazionale per la via del conflitto; e perché il diritto di cittadinanza non appare mai conquista-

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to una volta per tutte, anzi, viene periodicamente rimesso in discussio-ne, a riprova della ridotta legittimazione di questo diritto nella cultura politica delle classi dirigenti. Nella storia italiana – e particolarmente in quella dei lunghi anni Settanta – il conflitto appare come l’unico mezzo per sollecitare e conquistare sul campo le riforme ventilate o promesse, tanto attese e mai realizzate. Non sarà un caso che proprio in quel decennio si svolga il più importante e significativo ciclo riforma-tore della storia italiana: dall’approvazione dello Statuto dei lavoratori all’avvio dell’esperienza regionale, dal varo della legge sul referendum a quella sul divorzio, dall’entrata in vigore della riforma fiscale al ricono-scimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare, dalla legge sul finanziamento pubblico dei partiti alla dichiarazione di costituziona-lità dello sciopero politico, dalla riforma della rai al nuovo diritto di famiglia, dalla legge sulle droghe a quella sull’aborto, dalla riforma dei servizi segreti all’abolizione dei manicomi, dalla legge sull’equo cano-ne alla riforma sanitaria. Nel paese, insomma, le riforme si possono solo strappare sul terreno dei rapporti di forza, e non già vararle sulla base di confronti e programmi politici. Con la controindicazione, quindi, che quel ciclo riformatore si snoderà al di fuori di qualsiasi programma riformista, privo dunque di un disegno complessivo di trasformazione e riequilibrio della società. Gli interventi legislativi saranno tradotti in pratiche concrete attraverso il filtro di partiti che, nelle pieghe del frammentato sistema istituzionale italiano, occupano spazi di esercizio del potere, applicano forme di scambio politico, consolidano il loro consenso ricorrendo a forme di lottizzazione e clientelismo che negli anni Ottanta degenereranno nell’illegalità e nella corruzione diffusa.

Oltre la richiesta specifica di misure di intervento su determinate questioni, il conflitto è anche il modo di rivendicare più ampi spazi di partecipazione al processo di democratizzazione. Proprio gli anni Settanta ne costituiscono una riprova nei tentativi di partecipazione diretta e di rinnovo delle forme della rappresentanza, nell’elaborazio-ne di piattaforme di richieste che fuoriescono dai tradizionali confini delle vertenze sindacali e chiedono la redistribuzione della ricchezza in forma di salario sociale. La rimessa in discussione dei rapporti di potere dentro gli stabilimenti è saldata alla richiesta di riconoscimento della funzione sociale del lavoro; il miglioramento delle condizioni di lavo-ro è indissolubilmente intrecciato al miglioramento delle condizioni di vita. Vita e lavoro, fabbrica e territorio sono i termini di un discorso

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che salda il diritto al lavoro con i diritti sociali nel disegnare un nuovo modello di cittadinanza sociale26. Anzi, è forse questo l’esito parados-sale del ciclo di “conflittualità permanente” dei lunghi anni Settanta: alimentato senza dubbio da aspirazioni al rovesciamento dei rapporti di potere, impastato di fraseologia rivoluzionaria, ispirato anche ad una critica serrata ai modelli di rappresentanza della sinistra politica e sindacale, nutrito da una rabbia sociale accumulata nel corso dei Ses-santa, il conflitto – inteso come luogo di selezione di gruppi dirigenti, di acculturazione politica, di acquisizione di consapevolezza attraverso l’esperienza e la condivisione della lotta – finirà in realtà con il distilla-re un progetto di cittadinanza sociale all’altezza delle più consolidate esperienze riformistiche europee. Ma non troverà alcun interlocutore pronto a misurarsi con esso, e sarà ben presto abbandonato persino dal sindacato stesso, travolto dalla “crisi” e incapace di risolvere l’am-bivalente convivenza in se stesso del ruolo istituzionale di rappresen-tanza e tutela degli interessi dei lavoratori e della funzione di soggetto politico-sociale gestore dell’antagonismo di classe.

Viceversa, della ostilità dei ceti dirigenti a questo disegno politico-sociale vi sono ampie tracce. Emerge ad esempio come un dato incon-trovertibile dalle ricerche e dagli studi su quegli anni che gli sciope-ri sono vissuti e rappresentati tra prefetti e questori del tempo come attentati alla legalità, come pericoli per le istituzioni, come forme di strapotere dei sindacati, come avvenimenti associati sic et simpliciter ai fenomeni di violenza nelle strade e nelle piazze. «Sono responsa-bili morali [...] quanti hanno inteso mortificare lo Stato democratico, lasciando che la piazza si sostituisse alla legge», scrive il prefetto di Caltanissetta nel 197027. E alla fine del decennio gli operai verranno descritti da Luigi Arisio tra i principali promotori della “marcia dei quarantamila” nella Torino del 1980, come una «massa di attacco e di manovra [...] in balia dei più egoistici sentimenti e avvezza all’ammu-tinamento continuo»28. Se il profilo delle masse operaie è quello di un

26. S. Gallo, Operai e sindacato tra autonomia negoziale e rappresentanza degli in-teressi, in L. Baldissara, A. Pepe (a cura di), Operai e sindacato a Bologna. L’esperienza di Claudio Sabattini (1968-1974), Ediesse, Roma 2010.

27. La citazione è tratta da Crainz, Il paese mancato, cit., p. 370.28. La citazione di Luigi Arisio è tratta da A. Sangiovanni, Il nemico in fabbrica,

in A. Ventrone (a cura di), L’ossessione del nemico. Memorie divise nella storia della Repubblica, Donzelli, Roma 2006, p. 104.

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esercito manovrato a fini eversivi dell’ordine sociale, le lotte sindacali sono strette di conseguenza in una relazione causa/effetto con stragi e violenze, invocando l’autorità e l’intervento dello Stato. Esemplare è il cosiddetto “rapporto Mazza”, la relazione sull’ordine pubblico a Mila-no che il prefetto firma nel dicembre 1970, annotando criticamente la malintesa libertà, la sua degenerazione in arbitrio e sopraffazione, i pe-ricoli connessi di anarchia e disordine, la preoccupazione della “gente” per l’odio forsennato contro ogni legittima autorità, sino ad invocare la revoca dell’art. 49 della Costituzione nella parte relativa alla libertà d’associazione29.

Non sono esempi isolati, anzi. Richiamarli serve non solo a ricordare la non neutralità di settori consistenti degli apparati, la loro prossimità e disponibilità a risposte autoritarie, ma soprattutto a sollevare interro-gativi circa il deficit di culture e pratiche della democrazia che rivelano la lunga durata di aspetti ormai consolidati dell’ideologia delle classi dominanti, e mettono in luce la condivisione di una rappresentazione della società, dei rapporti tra capitale e lavoro, di un preciso ordine del-la gerarchia sociale, dove il rifiuto del conflitto sociale è da intendersi come ostilità, se non rigetto, per l’azione sindacale di rappresentanza e tutela degli interessi dei lavoratori e per l’intervento dello Stato in ambito sociale. Tale aggregazione ideologica di segmenti degli apparati, della classe politica e della borghesia economica si fissa in una sorta di integralismo politico connotato da una visione statica dei rapporti tra le classi e dal richiamo al principio del blocco d’ordine, ed

è assicurata da un privatismo intransigente ed esasperato [...] se si guarda al corso precedente della storia unitaria, è facile individuare nel modello pri-vatista l’unico diffuso ed omogeneo terreno di cultura della grande maggio-ranza della borghesia italiana. Le stesse funzioni attribuite allo Stato, anche se si allargano, anche se acquistano la latitudine di una radicale ristruttura-zione dall’alto (come con il fascismo), sono pur sempre intese come misu-re di eccezione, strumenti volti a restaurare più che ad innovare. La cultura istituzionale e sociale dei ceti borghesi si inceppa e recalcitra quando viene sospinta a travalicare questo confine. [...] Il privatismo [...] raccoglie voci diverse, dall’antistatalismo della tradizione cattolica (coniugato a nostalgie di “capitalismo popolare”) all’autonomismo di larghe zone della piccola e media borghesia democratica, pronta ad individuare – con ottica ancor più

29. Crainz, Il paese mancato, cit., p. 374.

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“ottocentesca” – nella figura del produttore indipendente l’antidoto ideale al processo di concentrazione e cartellizzazione accelerato dal fascismo30.

Se il ragionamento sin qui svolto ha qualche sensatezza, si offre una possibilità di riallacciare i fili che legano gli anni Settanta alla storia nazionale, e per questa via di ragionare sul periodico intrecciarsi della politica alla violenza. In quel decennio, infatti, come già in occasione della crisi di rappresentanza tra Otto e Novecento, e poi della turbo-lenza politico-sociale del primo dopoguerra, alle pressanti domande poste dai processi di (contrastata) legittimazione del lavoro, di riar-ticolazione delle forme della rappresentanza degli interessi, di acqui-sizione di una piena cittadinanza sociale e politica del movimento operaio, è corrisposto un atteggiamento delle classi dirigenti inscritto entro un orizzonte che ha visto l’alternanza e l’intreccio tra le risposte in senso corporativo/corporatista e le pulsioni verso la riconduzione di queste istanze sociali e di democratizzazione dell’ordinamento del lavoro al brutale rapporto di forza, allo scontro totale31. Sino a sfocia-re in manifestazioni di “sovversivismo dall’alto” – cioè al compiaciuto e rivendicato sottrarsi di gruppi di potere al dominio della legge, per parafrasare il Gramsci del Quaderno 3/1930 – che talora si sono incon-trate con un “sovversivismo dal basso” favorito dalla scarsa legittima-zione dello Stato e della legge in conseguenza del loro schierarsi con uno dei soggetti del conflitto. Questo latente sovversivismo sarebbe rivelato dalla tendenza a rispondere alle fasi di alta conflittualità con una stabilizzazione conservatrice, ovvero con una normalizzazione apertamente reazionaria, quando non con i vari “tintinnar di sciabo-la”, come accade proprio tra i Sessanta e i Settanta. Come interpretare quello che altrimenti parrebbe un riflesso condizionato di Umberto Terracini, che, nella direzione del pci del 27 gennaio 1971, evocando

30. M. Legnani, “L’utopia grande-borghese”. L’associazionismo padronale tra rico-struzione e repubblica, in Gli anni della Costituente. Strategie dei governi e delle classi sociali, Feltrinelli, Milano 1983, pp. 132 e 134 (il saggio è ripubblicato in M. Legnani, L’Italia dal fascismo alla Repubblica. Sistema di potere e alleanze sociali, a cura di L. Baldissara, S. Battilossi, P. Ferrari, introduzione di E. Collotti, Carocci, Roma 2000).

31. L. Cerasi, Corporatismo/corporativismo e storia d’Italia, in “Contemporanea”, 2, 2001; Ead., Corporatismo e contrattazione collettiva. Intorno a culture e ideologie del-le relazioni industriali nella storia d’Italia, in L. Baldissara (a cura di), Democrazia e conflitto. Il sindacato e il consolidamento della democrazia negli anni Cinquanta, Fran-coAngeli, Milano 2006.

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non a caso il 1920-22, auspica si arrivi ad una giornata di battaglia in cui le masse popolari diano un “grande colpo di scopa”? Come spiegarlo se non con la consapevolezza delle culture che allignano negli appara-ti, con la memoria dello squadrismo, con il ricordo dell’inanità della sinistra nel primo dopoguerra e con la preoccupazione per il possibile rinnovarsi di situazioni del passato?

Entro questo contesto andrebbe tematizzato anche il problema del-la violenza: nei termini cioè di una questione connessa al costante ri-prodursi nella storia di lungo periodo del paese di una violenza arcaica, le cui origini vanno rintracciate nella complessa e intricata trama di fat-tori che vanno dalla tarda unificazione nazionale alle resistenze della Chiesa alla modernizzazione, dal conformismo culturale agli squilibri economici, sociali e territoriali, entro cui

la violenza vi occupa infatti una dimensione pervasiva [...] trattandosi di una violenza da molti secoli connaturata alla lotta per il potere e all’esercizio del potere, ma anche largamente diffusa come inclinazione a ignorare le norme giuridiche e commettere atti criminali32.

Questa violenza arcaica sarebbe dunque la sommatoria di una violenza propriamente politica, finalizzata alla conquista e poi al mantenimen-to del potere, e di una violenza – ora manifesta ora latente – nelle rela-zioni sociali, espressa dalla diffusa inclinazione a violare le regole della convivenza civile e dalla estesa disponibilità a compiere atti criminosi. E spesso queste tipologie di violenza sono intrecciate tra loro in un circuito di reciprocità:

Il ritardo con il quale l’Italia è giunta all’appuntamento con la modernità – prosegue Allegra – ha infatti comportato un ulteriore aggravio, rappresen-tato dal pesante bagaglio di una violenza diffusa e di un uso volterriano della violenza da parte del potere, un potere che “utilizza la violenza e la predazione come armi vincenti da mettere in campo nella competizione socio-politica per le risorse”33.

32. L. Allegra, Gli aguzzini di Mimo. Storie di ordinario collaborazionismo (1943-45), Zamorani, Torino 2010, p. 317.

33. Ivi, p 318, che a sua volta cita S. Lodato, R. Scarpinato, Il ritorno del Princi-pe. La criminalità dei potenti, Chiarelettere, Milano 2008. Spunti in tal senso anche in P. Pezzino, Risorgimento e guerra civile. Alcune considerazioni preliminari, in G. Ranzato (a cura di), Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Bollati

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Giunti a questo punto, si possono forse accumulare le tessere di un mosaico di elementi che, nell’arco della complessiva vita unitaria del paese, continuamente operano e variamente si compongono tra loro, di volta in volta dando vita a scenari differenti, non privi però di ana-logie che fungono da spie dei fattori di continuità nella storia d’Italia. Privatismo e corporatismo, ma anche sovversivismo e violenza arcaica, si miscelano tra loro ogni qualvolta le istanze di mutamento sociale si fanno più pressanti, il conflitto più aspro. Il risultato non si ripete mai eguale, l’autoritarismo liberale non è assimilabile a quello fascista, né la violenza dei due regimi è comparabile; tanto meno la “democradura” degli anni Cinquanta si riflette identica negli anni della “strategia della tensione”. Eppure, vi sono delle costanti, la cui osservazione e analisi certo consente di isolare e interpretare nodi e questioni basilari della vicenda dell’Italia contemporanea, in molte occasioni apparsa con il volto di una “democrazia senza democratici”, cioè di un

regime democratico [che] s’era in tal modo affermato e costituito per opera di uomini pei quali la democrazia era un accorgimento politico più che una forma di reggimento statale, e che giustificavano la partecipazione delle mas-se popolari al potere in quanto consentiva il permanere di istituti per addietro fortemente avversati dalle correnti politiche più avanzate34.

Boringhieri, Torino 1994. Non a caso l’incrocio tra le due tipologie di violenza si ren-de particolarmente evidente in momenti di particolare tensione interna, palesando le forme concrete della lotta e dell’esercizio del potere e il loro intreccio con comporta-menti di natura criminale.

34. F. L. Ferrari, Scritti dall’esilio, vol. ii, Una democrazia senza democratici, a cura di G. Ignesti, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1998, p. 10.

1 Il lungo dopoguerra.

Le caratteristiche dell’Italia repubblicana

In Italia una Repubblica democratica ha potuto essere edificata, e poi consolidata, grazie alla presenza di partiti integrativi di massa, radicati in modo capillare nei molteplici meandri di una società con forti disu-guaglianze e dalle mille sfaccettature. La scienza politica contempora-nea utilizza la metafora dell’ancoraggio per descrivere processi cosiffatti, all’interno dei quali le élites politiche agiscono sulle masse allo scopo di traghettare nella democrazia un’ampia porzione della società (almeno quella porzione che consenta alla democrazia di radicarsi e prosperare)1. Tale metafora richiama i processi di “aggancio” e di “legame” che le élites indirizzano ai soggetti di una società civile nella quale la legittimità go-duta dal regime democratico non è subito ampia e approfondita, bensì limitata e relativa. Attraverso l’ancoraggio dei partiti di massa (non solo la Democrazia cristiana, il partito di maggioranza relativa, ma anche il Partito comunista, considerato “antisistema”) l’Italia ha potuto costru-ire nei decenni il proprio sviluppo politico ed economico, malgrado il civic divide che, sin dalle prime ricerche svolte attraverso il metodo com-parato, la separava dalle altre democrazie consolidate2. Infatti, nono-

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Le strade interrotte degli anni Settanta*di Marco Almagisti

* Il presente capitolo è stato in parte già pubblicato in “451. Via della letteratura, della scienza, dell’arte”, i, 9. Ringraziamo la direzione della rivista per averci concesso la possibilità di utilizzare quello scritto.

1. L. Morlino, Democracy between Consolidation and Crisis: Parties, Groups, and Citizens in Southern Europe, Oxford University Press, Oxford 1998.

2. G. A. Almond, S. Verba, The Civic Culture: Political Attitudes and Democracy in Five Nations, Princeton University Press, Princeton 1963.

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stante la presenza del più rilevante partito comunista dell’Occidente rendesse impossibile l’alternanza di governo, condannando la dc ad essere il perno insostituibile di ogni maggioranza, la presenza di partiti di massa fortemente radicati garantiva l’accesso delle principali perife-rie al centro del sistema politico con benefici effetti per lo sviluppo di tali aree e per il paese nel suo complesso3.

Per comprendere appieno le dinamiche affioranti nella politica ita-liana degli ultimi decenni risulta necessario richiamare le caratteristiche specifiche dell’assetto istituzionale della nostra democrazia quale si è venuta configurando dopo la transizione dal fascismo. All’interno del modello di democrazia parlamentare, i costituenti hanno cercato di per-seguire l’obiettivo cruciale di responsabilizzare il potere politico, ossia quanto oggi definiamo accountability4, attraverso differenti meccani-smi. La nostra Costituzione prevede forme di bilanciamento dei poteri da perseguire mediante la predisposizione delle istituzioni di garanzia. Al contempo, essa conferisce risalto al protagonismo dei corpi interme-di e, fra essi, dei partiti5, e prevede il loro coinvolgimento nelle diverse fasi del processo decisionale (per effetto del ruolo centrale di entrambe le Camere e per l’importanza delle commissioni parlamentari). In altri termini, la responsabilizzazione del potere politico è stata perseguita attraverso il coinvolgimento dei partiti, cui è stata riconosciuta grande centralità nella dialettica fra parlamento e governo, anche per effetto delle legacies dell’esperienza di cooperazione fra i partiti antifascisti nel-la Resistenza e dei Comitati di Liberazione nazionale (cln).

Tuttavia, negli anni Quaranta (e sino al termine degli anni Ottanta), i rapporti fra i partiti sono stati pesantemente condizionati dalle vicen-de internazionali: la spaccatura fra le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale è riverberata nella crescente divisione fra i partiti anti-fascisti e nella polarizzazione del sistema politico attorno alle due forze principali, la Democrazia cristiana e il Partito comunista. Ne è discesa una legittimazione esclusiva a danno dei comunisti che ha determina-to a lungo l’impossibilità dell’alternanza al governo fra i due principali partiti. Il partito “condannato” a governare (la dc) non doveva rendere

3. M. Almagisti, La qualità della democrazia in Italia. Capitale sociale e politica. Nuova edizione, Carocci, Roma 2011.

4. M. Almagisti, G. Iazzetta, Accountability, in M. Almagisti, D. Piana (a cura di), Le parole chiave della politica italiana, Carocci, Roma 2011, pp. 55-78.

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conto del proprio operato, mentre il principale partito d’opposizione (il pci) non doveva rispondere di ciò che aveva promesso, considerata l’impossibilità di assumere responsabilità di governo. Di conseguenza, l’accountability elettorale, che coincide con la scelta concretamente esperibile al momento del voto da parte del cittadino-elettore, è sempre risultata molto bassa, se non nulla, almeno fino all’inizio degli anni No-vanta, quando la divisione della dc in cinque “tronconi” ha introdotto una reale possibilità di alternanza. Pertanto, per almeno quattro decen-ni della storia repubblicana, il controllo dei governanti e le opportunità di irrobustire la qualità della democrazia tramite il confronto fra rap-presentanti e rappresentati hanno riguardato le forme di accountability non elettorali, ossia le forme istituzionali e sociali, entrambe imperniate sul riconoscimento della centralità del ruolo dei partiti.

Un sistema politico basato su tali caratteristiche può limitare la diffusione dei rischi degenerativi scaturenti dall’assenza di alternan-za (e dalla conseguente assenza di accountability elettorale)6, soltanto se i partiti sono in grado di posizionarsi lungo le linee di frattura che attraversano la società, dando rappresentanza al “centro” alla moltepli-cità dei “mondi vitali” disseminati nel segmentato territorio nazionale. Se negli anni Cinquanta l’Italia è risultato l’unico paese dell’Europa mediterranea a realizzare un consolidamento democratico e conse-guentemente a non conoscere una dittatura militare di destra è anche perché la vitalità di quei “mondi” non si è dispersa in mille rivoli o, peggio, non ha trovato traduzione in modalità politiche antagonisti-che rispetto al sistema politico democratico7. I molteplici detrattori della democrazia “Italian style” dovrebbero riconoscere l’importanza e la difficoltà di realizzazione del consolidamento democratico realiz-zato nel lungo dopoguerra e distinguere il giudizio su di esso da quello relativo al mancato adattamento sistemico nei decenni successivi.

5. Come accade in molte costituzioni della “seconda ondata” di democratizza-zione (cfr. S. P. Huntington, The Third Wave: Democratization in the Late Twentieth Century, University of Oklaoma Press, Norman-London 1991), la Costituzione della Repubblica italiana menziona esplicitamente i partiti all’art. 49, evidenziandone la funzione essenziale di integrare i cittadini nel sistema politico.

6. Sul tema, cfr. G. Pasquino, M. Valbruzzi (a cura di), Il potere dell’alternanza. Teorie e ricerche sui cambi di governo, Bononia University Press, Bologna 2011.

7. M. Almagisti, M. Agnolin, Linee di frattura e partiti in Italia, in “Democrazia e diritto”, xlix, 2012, 1-2, pp. 125-54.

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2 L’assassinio di Aldo Moro e la “notte della Repubblica”

La configurazione del sistema politico delineato negli anni Quaranta ha mantenuto la propria fecondità sino alla metà degli anni Sessanta. In seguito, i rapidi processi di modernizzazione attraversati dal nostro paese e la comparsa sulla ribalta politica di una coorte generazionale che non aveva conosciuto le ristrettezze del fascismo e gli stenti della guerra modificarono significativamente lo scenario politico. Fra quanti compresero l’importanza dei processi allora in corso e la necessità con-seguente di adeguamento della politica (e dei partiti) alla mutata realtà sociale spicca la figura di Aldo Moro, le cui ultime riflessioni consento-no di interpretare da una prospettiva di lungo periodo alcune questioni basilari della storia politica italiana. A tal riguardo, risultano preziose le ricognizioni effettuate da Miguel Gotor prima sulle lettere scritte da Moro mentre era prigioniero delle Brigate Rosse e, più recentemente, sul memoriale che lo statista democristiano scrisse durante quei cin-quantacinque drammatici giorni8. Esperto di santi, eretici e inquisitori della prima età moderna, Gotor ci restituisce con maestria un’esperien-za decisiva della nostra storia recente e molto complicata da ricomporre. Infatti, tale ricostruzione ha dovuto affrontare una duplice sfida.

In primo luogo, le vicende del sequestro e le relative conseguenze han-no reso il materiale frammentario, oltre che mutilato. In quei cinquan-tacinque giorni Moro scrisse almeno novantasette messaggi fra lettere, testamenti e biglietti. Questi testi sono stati resi pubblici in tre differenti momenti nell’arco di dodici anni. a) A Roma durante il sequestro (dal 29 marzo al 5 maggio 1978); b) a Milano, nel covo brigatista di via Monte Nevoso, il 1° ottobre 1978, in cui vennero ritrovate alcune lettere non re-capitate dai brigatisti e una parte del memoriale; c) sempre in via Monte Nevoso, il 9 ottobre 1990, dietro un pannello di gesso casualmente sco-perto da un operaio nel corso di alcuni lavori di ristrutturazione. In tale occasione vennero ritrovate le fotocopie di gran parte dei manoscritti delle lettere e del memoriale. In particolare, il memoriale risulta compo-sto da un insieme di note redatte da Moro nelle quali confluirono le ri-sposte all’interrogatorio a cui fu sottoposto dai brigatisti, assieme ad una

8. M. Gotor (a cura di), Lettere dalla prigionia, Einaudi, Torino 2008; Id., Il Memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano, Einaudi, Torino 2011.

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serie di approfondite riflessioni dedicate al primo trentennio di storia re-pubblicana. Gli unici originali degli scritti di Moro dalla prigionia sono quelli divulgati durante i cinquantacinque giorni del sequestro; gli altri due rinvenimenti riguardano copie dattiloscritte e fotocopie dei mano-scritti. Gli originali sono scomparsi. Le mutilazioni subite dal memoriale hanno innescato nel corso degli anni scontri politici furibondi, riguardo a quanto Moro avrebbe potuto rivelare sui principali casi politico-giudi-ziari italiani. In proposito, il lettore può apprezzare l’accuratezza con cui Gotor ricostruisce le drammatiche vicende dei ritrovamenti delle carte di Moro, riconducendole alla scia di sangue che comprende anche gli omicidi del giornalista Mino Pecorelli e del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, con la convinzione che tale imponente base documentale potrà contribuire a nuove, auspicabili, ricerche.

Vi è un ulteriore piano di lettura della ricognizione di Gotor su cui intendiamo soffermarci in questa sede e che rappresenta un’altra difficile sfida per ricostruire gli ultimi pensieri di Moro. Infatti, gli scritti della prigionia vennero concepiti da Moro in una condizione improvvisa di cattività, entro un cubicolo lungo tre metri e largo meno di uno: in que-sta situazione Moro era in primo luogo un prigioniero che scriveva per difendersi e per provare ad avere salva la vita. Pertanto, ha dovuto “scrive-re fra le righe”, oltrepassando la censura dei propri carcerieri, cercando di condizionarli e di condizionare il dibattito politico in corso in Parlamen-to e nella società civile (di cui Moro poteva conoscere solo alcuni riflessi filtrati). Non a caso, il saggio di Gotor che accompagna le Lettere dalla prigionia si intitola Le possibilità dell’uso del discorso nel cuore del terrore: della scrittura come agonia. In quei giorni Moro vide solo due persone incappucciate: Prospero Gallinari e soprattutto Mario Moretti, che con-duceva gli interrogatori per il “tribunale del popolo”. Tutta la scrittura di Moro riflette la mobilità psicologica e situazionale derivante dalla dipen-denza dalle informazioni sulla realtà esterna dai propri carcerieri.

Rivisitando le lettere, opportunamente ordinate mediante il criterio cronologico secondo il quale sono state presumibilmente scritte, si in-trecciano diversi piani di lettura: dai commoventi messaggi indirizzati ai familiari e agli amici alle invettive sferzanti sovente rivolte ai colleghi di partito. Merito del curatore è il far comprendere appieno l’intreccio di tali piani di lettura, lasciando emergere come anche i messaggi più privati po-tessero comportare tentativi di comunicazione più complessa, contenenti implicite indicazioni politiche e, talvolta, persino embrionali segnalazio-ni logistiche relative a quanto il prigioniero aveva potuto intuire circa il

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luogo della sua detenzione. Più spesso le lettere riprendono il senso della missione, assieme politica e culturale, che ha segnato fino alla fine la vita del proprio autore e di cui Moro ha voluto con tutte le proprie forze ren-dere una testimonianza che restasse anche dopo la sua morte, secondo una propensione incoercibile che dalle comunicazioni contingenti tracima nelle cartelle del memoriale. Oltre all’avvolgente ragnatela con cui il lea-der democristiano ha cercato di irretire i suoi interlocutori dentro e fuori il covo, conseguenza dell’inalienabile diritto di provare ad avere salva la vita in condizioni estreme, emerge intatto nella duplice ricostruzione di Gotor il motore immobile del pensiero politico e filosofico di Aldo Moro, in continuità con le sue più significative prese di posizione, sin dai primi scritti giovanili. Come già Alcide De Gasperi prima di lui, Moro non si era mai rassegnato all’idea che la democrazia parlamentare dovesse essere un privilegio dei paesi nordici e protestanti e che l’Italia dovesse condividere la sorte di paesi mediterranei quali Spagna, Portogallo e Grecia, per i quali, negli anni Cinquanta, l’unico regime possibile sembrava essere l’autorita-rismo. Sotto questo profilo si può notare tutta l’asimmetria nella contesa fra il prigioniero e i suoi carcerieri, che non era l’asimmetria evidente deri-vante dalla riduzione in cattività del primo ad opera dei secondi, bensì dal-la profondità della prospettiva cui il raffinato intellettuale – prima ancora che il leader politico di razza – poteva attingere, anche quando repentina-mente sottratto alla normalità della vita civile per mano (armata) di ragaz-zi aventi l’età dei suoi figli o dei suoi studenti, e che restava invece preclusa ai suoi interlocutori accecati da un’ideologia totalizzante. Per i brigatisti Moro era un agente della controrivoluzione, poco più di un funzionario al servizio dello Stato imperialista delle multinazionali, ossia di un sistema di potere esogeno in grado di determinare nella sua interezza la politica italiana. Per Aldo Moro si confermava obiettivo fondamentale nei dram-matici giorni della prigionia ancor più di quanto non lo fosse stato nelle precedenti stagioni vissute da uomo libero rendere giustizia alla difficile, relativa, ma costantemente ricercata autonomia della democrazia italiana e della sua classe dirigente rispetto ai condizionamenti internazionali. Per-tanto, la scrittura diventava lo strumento tramite il quale provare ancora a spiegare l’impegno che aveva permeato la sua vita e per il quale veniva condannato a morte. Scrivere significava continuare a fare politica fino in fondo argomentando le proprie ragioni.

Utilizzando i termini della scienza politica contemporanea, si può affermare che l’autentica posta in palio della strategia politica di Moro consistesse nel tentativo di migliorare la qualità della democrazia italia-

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na estendendo il potenziale accesso alle responsabilità di governo a tutte le forze politiche significativamente presenti in Parlamento. Infatti, se-condo il leader democristiano soltanto in questo modo si sarebbe potuta ottenere una democrazia dell’alternanza in grado di responsabilizzare tanto il governo quanto l’opposizione. Le possibilità di successo di tale strategia non erano legate all’ingegneria costituzionale, ossia alla riforma delle istituzioni (tema che caratterizzerà il dibattito politico nei decenni successivi), bensì dipendevano dalla piena conversione alle regole demo-cratiche di tutte le principali forze partitiche, ossia dalla maturazione dei partiti di sinistra quali interlocutori affidabili. Va interpretato in questo senso il dialogo avviato da Moro negli anni Sessanta con i socialisti, con cui il leader democristiano ha formato i primi governi di centro-sinistra. E deve essere interpretato in questa prospettiva anche il rapporto intes-suto da Moro con i comunisti negli anni Settanta, dal leader cattolico concepito quale “terza fase” – dopo il centrismo degasperiano e dopo il centro-sinistra aperto ai socialisti – anziché quale “compromesso storico”.

L’analisi compiuta da Gotor sull’ultima parte del memoriale, intera-mente incentrata sulla “democrazia difficile” del nostro paese e sulla crisi dei partiti, consente di comprendere la differenza intercorrente fra la stra-tegie di Moro e la proposta di “compromesso storico” avanzata da Enrico Berlinguer già nel 1973. Pur condividendo con il segretario comunista la convinzione che il mutamento degli assetti del sistema politico italiano dovesse essere guidato dai partiti principali, Moro concepiva tale conver-genza in un’ottica più circoscritta rispetto ai suoi interlocutori comunisti. Non un incontro “epocale” fra due “mondi”, destinato a inglobare a tem-po indeterminato nell’area di governo tutte le correnti antifasciste presen-ti nel paese (una strategia che, nuovamente, avrebbe rimosso la questione dell’accountability di maggioranza e opposizione, per il fatto che quest’ul-tima avrebbe rischiato di venire meno9), bensì un compromesso politico

9. In un simile quadro politico, la funzione di opposizione, fondamentale in una de-mocrazia liberale, sarebbe lasciata all’area gravitante attorno al Movimento sociale italia-no (msi), che non a caso sarà efficacemente definito il “polo escluso”; cfr. P. Ignazi, Il polo escluso. Profilo del Movimento Sociale Italiano, il Mulino, Bologna 1989. In tale scenario, l’accountability parlamentare nei confronti del governo verrebbe ridotta al minimo. Non è casuale che proprio in quegli anni sia la Corte costituzionale a sottolineare quanto l’esi-guità dell’opposizione parlamentare possa costituire un problema per il corretto funzio-namento delle istituzioni, decretando che sia la Corte dei conti a vigilare sulla legittimità dei provvedimenti del governo di solidarietà nazionale; cfr. S. Rodotà, La costituzione materiale ai tempi dell’unità nazionale, in “Laboratorio politico”, 2-3, 1982, pp. 63-92.

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temporaneo fra due partiti di massa per gestire assieme una congiuntura considerata molto critica e aprire una delicata fase di transizione finaliz-zata a superare la pregiudiziale anticomunista e a garantire la possibilità di alternanza al governo fra tutte le forze politiche più significative. Per Moro, comunque, la “terza fase” non significava la fine o il ridimensio-namento della dc, bensì un rinnovamento da perseguire soprattutto tra-mite lo sviluppo delle capacità di adattamento dei partiti ad uno scenario che si annunciava molto più dinamico rispetto al passato. Quegli stessi partiti che negli anni Quaranta e Cinquanta avevano saputo ancorare una società italiana appena uscita dal fascismo e dalla guerra civile alle nuove istituzioni democratiche, in quegli anni Settanta avrebbero dovuto farsi vettori di una fase nuova, interpretando e integrando i molteplici fermen-ti innovativi presenti nelle professioni, nella scuola e nell’università.

Rispetto ai movimenti di quegli anni l’atteggiamento di Aldo Moro costituisce un esempio di curiosità e di apertura intellettuale davvero rare nella classe politica dell’epoca10, molto restia a guardare con favore soggetti che negavano la pretesa dei partiti al monopolio della sfera pub-blica. A tal proposito, nel memoriale torna una questione cruciale: per quale ragione l’Italia fosse l’unico paese al mondo in cui il movimento studentesco del 1968, esploso nei principali Stati industriali dell’Occi-dente, avesse originato una spirale di violenze fra minoranze armate di destra e di sinistra, accompagnate – altra specificità nazionale – da una serie di stragi di cittadini inermi. La risposta articolata da Moro nel me-moriale appare molto limpida e investe il sistema politico italiano in due direzioni. In primo luogo, Moro aveva la netta consapevolezza dell’e-sistenza di una parte conservatrice della società italiana non ostile agli effetti destabilizzanti della “strategia della tensione”. Tale porzione della società aveva subito la Costituzione repubblicana senza averla accolta in-timamente; la sua consistenza era ben maggiore dell’area che gravitava attorno al msi, potendo trovare accoglienza presso settori dei partiti di governo (fra cui la stessa dc, che aveva avuto l’indubbio merito storico di contenere tali pulsioni entro l’alveo della democrazia) e soprattutto nelle diverse articolazioni del potere reale italiano, fra i vertici militari, i servizi segreti, gli imprenditori, la magistratura e il clero. Simmetrica-mente, vi era una consistente porzione di società che sfuggiva alla piena

10. Cfr. A. Moro, Ad un anno dal Congresso di Roma, discorso al Consiglio na-zionale dc, Roma, 19 luglio 1974, ora in Id., Scritti e discorsi, a cura di G. Rossini, vol. vi, Cinque Lune, Roma 1990, pp. 3151-64.

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conversione del Partito comunista alle regole della democrazia parla-mentare, considerando un tradimento la politica di Togliatti e Longo prima e di Berlinguer poi. Moro sembrava essere consapevole di quanto la sua strategia si trovasse esposta all’azione di una doppia tenaglia: l’una rivoluzionaria agita da gruppi che si erano abbeverati alle originarie sor-genti ideologiche del comunismo e ora rinfacciavano al partito di Berlin-guer la sua ambiguità (l’essere per la democrazia parlamentare ma non ri-nunciare all’armamentario ideologico rivoluzionario), l’altra reazionaria non confinabile nel solo mondo neofascista. A tal proposito, non appare fuori luogo il paragone che Gotor riprende da Salvadori11 fra le riflessioni di Moro e le difficoltà a suo tempo esperite da Giolitti.

Stretto entro tale tenaglia, Moro era consapevole che non si poteva aspirare ad un miglioramento del sistema politico senza intercettare le nuove manifestazioni di soggettività diffusa che, ben oltre le evidenze costituite dalle minoranze armate, stavano ridisegnando la fisionomia della società italiana. Dalla prigionia poteva solo assistere ad un incon-tro mancato, al delinearsi di strade interrotte che avrebbero reso più difficili i rapporti fra società e politica negli anni a venire, delineando una «democrazia in condominio fra partiti senza fiducia e cittadini senza rilevanza»12. Aldo Moro poteva solo percepire la lunga “notte della Repubblica” che sarebbe seguita al suo assassinio13.

3 Oltre i sentieri interrotti

Effetto derivato della violenza politica e della conseguente repressio-ne è la minor ricettività dei partiti di fronte all’incalzare di movimen-ti sociali che sfidano la loro pretesa al «monopolio delle interazioni politicamente significative»14. In un contesto reso impervio da insor-

11. M. L. Salvadori, Storia d’Italia e crisi di regime. Saggio sulla politica italiana, il Mulino, Bologna 1996.

12. G. Moro, Anni Settanta, Einaudi, Torino 2007, p. 79.13. Il riferimento è alla preziosa inchiesta televisiva condotta per la rai da Sergio

Zavoli, disponibile anche in versione cartacea; cfr. S. Zavoli, La notte della Repubbli-ca, Nuova eri-Mondadori, Milano 1992.

14. M. Revelli, Le due destre. Le derive politiche del postfordismo, Bollati Borin-ghieri, Torino 1996, p. 21.

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genze eversive, i partiti tendono a massimizzare la propria autonomia nei confronti di soggetti sociali considerati portatori di una domanda troppo radicale15, riducendo al contempo la disponibilità a “rendere conto” delle proprie scelte agli elettori16. Tale irrigidimento non è pri-vo di conseguenze: una vasta porzione di società si è mobilitata e ha nutrito aspettative di cambiamento, riscontrando, quale risultato più tangibile, un sensibile avvicinamento fra le ancore partitiche. Proprio l’ampiezza del sostegno partitico ai governi di solidarietà nazionale scongela dal lessico accademico il termine “classe politica” per intro-durlo, connotandolo negativamente, nel dibattito giornalistico e nella contesa politica, allo scopo di denunciare quei tratti collusivi emergen-ti nei rapporti fra i partiti che saranno poi enfatizzati da quel modello che la scienza politica ha definito come cartel party17.

Alcuni osservatori rilevano che proprio il tragico epilogo del seque-stro Moro agisce quale detonatore nel processo di scollamento fra le isti-tuzioni politiche e ampi settori della società18, costituendo una drastica cesura nelle narrazioni della storia repubblicana19. Dopo il 1978, infat-ti, si accentua la divaricazione fra istituzioni rappresentative e parte del capitale sociale, che si sviluppa sotto forma di nuovo associazionismo e volontariato, spesso su base locale, rendendosi parzialmente autonomo dalla politica. Se tale processo contiene elementi positivi, contribuendo all’incremento del pluralismo nella società, rivela anche aspetti proble-matici, poiché se il nuovo capitale sociale evita regolarmente di tradursi in risorsa politica rischia di bloccarsi la funzione di «circolazione delle

15. Ivi, pp. 25-7.16. D. della Porta, Movimenti collettivi e sistema politico in Italia. 1960-1995, La-

terza, Roma-Bari 1996, pp. 77-90.17. R. S. Katz, P. Mair, Changing Models of Party Organization and Party Demo-

cracy, in “Party Politics”, i, 1995, 1, pp. 5-28. Secondo gli autori, il cartel party scaturi-sce dalla trasformazione del partito in un’organizzazione sorretta dal finanziamento pubblico e legata collusivamente agli altri partiti, piuttosto che essere in competizio-ne con essi; ivi, pp. 16 ss.

18. G. Cotturri, Potere sussidiario. Sussidiarietà e federalismo in Italia e in Europa, Carocci, Roma 2001, pp. 115 ss.; P. Scoppola, La coscienza e il potere, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. vii-xvi.

19. M. Belpoliti, Settanta, Einaudi, Torino 2001; Id., Da quella prigione. Moro, Warhol e le Brigate Rosse, Guanda, Parma 2012; S. Luzzatto, Un racconto a chiave, in “La Stampa”, 5 dicembre 2001, poi in Id., Sangue d’Italia. Interventi sulla storia del Novecento, manifestolibri, Roma 2008, pp. 196-8.

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élites»20 e di ricambio della classe politica: non è casuale che il cospicuo rinnovamento del ceto politico negli anni Novanta avvenga in modo traumatico, a seguito delle inchieste della magistratura (la cosiddetta “Tangentopoli”) e dell’implosione dei partiti di governo21. Inoltre, dalla sconnessione fra istituzioni e capitale sociale scaturiscono effetti – nega-tivi – di lungo periodo che mortificano sia le possibilità di rinnovamento del sistema sia le opportunità di migliorarne la qualità democratica me-diante l’irrobustimento dell’accountability sociale, con il risultato che, in questo scorcio iniziale di nuovo millennio, il termine “classe politica” è stato sostituito da quello, ancor più connotato negativamente, di “casta”.

Infatti, la prospettiva di accordi non transitori fra i partiti maggio-ri, che sopravvive spuria alla drammatica conclusione dello slancio ri-formista moroteo, induce gli altri protagonisti del sistema partitico a cercare di modificare la situazione ricorrendo sia alla continua retorica delle “riforme istituzionali”, sia a pratiche e linguaggi eterodossi rispetto a quelli ritenuti ufficiali. Infatti, un’efficace risorsa retorica dell’ultimo trentennio si rivelerà la riproposizione della critica alla “partitocrazia”, che accompagnerà ogni tentativo di alterare gli equilibri della cosiddet-ta “Repubblica dei partiti” edificata negli anni Quaranta22. Dalla fine degli anni Settanta, la critica dei partiti non avviene più solo ad opera di correnti minoritarie a destra o dei movimenti sociali a sinistra, ma ormai anche da parte di protagonisti della stessa “classe politica” che restano in una collocazione percepita come penalizzante rispetto agli equilibri imposti dai partiti maggiori. Anche dopo gli anni Settanta, la chiusura oligopolistica dell’offerta politica induce gli attori emergenti e il “navi-gato” personale politico di “seconda fila” a guadagnare spazi di manovra attraverso l’appello alla società contro i partiti, magari puntellando la propria azione tramite il ricorso allo strumento referendario. Negli anni Novanta si conclude il lungo e scosceso cammino che conduce la critica antipartitica dalla periferia al centro stesso del sistema partitico e che favorirà l’affermazione di nuove formazioni populistiche23.

20. V. Pareto, Trattato di Sociologia generale, Barbera, Firenze 1916.21. L. Verzichelli, Vivere di politica. Come (non) cambiano le carriere politiche in

Italia, il Mulino, Bologna 2010. 22. P. Scoppola, La Repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia italia-

na, 1945-1990, il Mulino, Bologna 1991.23. M. Tarchi, L’Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi, il Mulino, Bo-

logna 2003; S. Lupo, Partito e antipartito. Una storia politica della Prima Repubblica,

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Soltanto i prossimi anni ci potranno chiarire quali saranno gli scenari per la qualità della democrazia nel nostro paese. L’involuzione del siste-ma politico negli ultimi anni potrebbe suggerire la prevalenza di chiusure oligopolistiche nei partiti, accompagnata dalla solitudine dei movimenti, i quali, se non trovano connessioni con il sistema politico, rischiano sem-pre di disperdere il proprio potenziale di mobilitazione e avvitarsi in un circolo vizioso di riflusso e riemersione radicale, vistosa sotto il profilo espressivo, ma sterile dal punto di vista politico24. Tuttavia, non si può escludere a priori una prospettiva meno pessimistica. Ossia, fra i partiti, ancora forti nel condizionare l’accesso alla sfera istituzionale, ma più de-boli rispetto alle molteplici realtà che attraversano la società, e i movimen-ti, l’associazionismo e le forme di azione politica da esse prodotte, si pos-sono produrre nuove “divisioni del lavoro” e utili fecondazioni incrociate.

Tale prospettiva era già presente in potenza nelle trasformazioni in corso negli anni Sessanta e Settanta, nei quali si intrecciavano trame di violenza, ma anche molte speranze, e durante i quali affioravano forme innovative di cittadinanza e soggettività politiche originali, spesso sof-focate o comunque sospinte in coni d’ombra dalle forme di conflitto più muscolari ed estremistiche25. Possiamo prendere a prestito le pa-role di uno dei maggiori scrittori contemporanei e sostenere che: «a quell’epoca nessuno sapeva ciò che sarebbe accaduto»26, quale memen-to della caducità dei progetti umani e, al contempo, quale richiamo alla libertà e responsabilità che sempre dovrebbe sottendervi. Dobbiamo però richiamare nella nostra conclusione la profondità delle riflessioni di chi aveva compreso la reale posta in gioco dei conflitti di quei tempi e avvertito più degli altri la necessità di non interrompere i sentieri di confronto e di riforma e questa lucidità ha pagato con la vita.

Miguel Gotor conclude il denso saggio che accompagna e conte-stualizza le lettere di Moro dalla prigionia soffermandosi su un elemen-to singolare, apparentemente secondario: la barba lunga del prigionie-

1946-78, Donzelli, Roma 2004; A. Mastropaolo, La “mucca pazza” della democrazia. Nuove destre, populismo, antipolitica, Bollati Boringhieri, Torino 2006.

24. È lo scenario lucidamente delineato da R. Rossanda, Il punto cruciale resta il lavoro, in “il manifesto”, 11 luglio 2000.

25. Moro, Anni Settanta, cit.26. M. Haruki, 1Q84. Libri i-ii, Einaudi, Torino 2011, p. 5 (ed. or. 2009); cfr.

P. Rossi, Un breve viaggio e altre storie. Le guerre, gli uomini, la memoria, Cortina, Milano 2012.

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ro. È stato ricordato, infatti, che il cadavere di Moro venne ritrovato con il viso emaciato coperto da una lunga barba incolta, segno che, da un certo momento in poi, il prigioniero aveva smesso di radersi. Ad un’osservazione superficiale si potrebbe attribuire tale elemento al progressivo scoramento dell’ostaggio derivante dall’inaridirsi dei diversi tentativi di liberarlo. Tuttavia, le risultanze dell’autopsia han-no affermato che la pulizia personale è sempre continuata metodica e minuziosa e inoltre, fino almeno al 3-4 maggio, al prigioniero fu fatta credere la concreta eventualità della sua liberazione, tanto da indurlo a scrivere numerose pagine del memoriale e una bellicosa lettera al se-gretario della dc, Benigno Zaccagnini, in cui annunciava il suo immi-nente ritorno alla politica attiva (al di fuori del suo partito). Pertanto, altri devono essere stati i percorsi che hanno indotto il leader cattolico a interrompere la rasatura, che Agnese Moro ricorda quale autentico rito quotidiano27. Gotor ricorda che, nei mesi precedenti il rapimento, Aldo Moro stava leggendo Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez, sottolineando alcuni passi con la matita28. L’ultima frase sot-tolineata da Moro così recitava: «aveva la barba lunga ed era afflitto più dal dolore dei favi, che dall’immenso fallimento dei suoi sogni, perché era arrivato alla fine della speranza». Essa induce a pensare alla sovrapposizione, nella mente dello statista prigioniero, fra l’Italia di quei giorni e l’immaginaria Macondo del romanzo di Márquez dila-niata dalle lotte intestine. Ma l’immagine sfuggente di Moro con la barba suggerisce anche la possibilità di un atto individuale di rivolta rispetto alla tenaglia in cui si è trovato costretto, di una possibile nuova fase dell’esistenza di un intellettuale e politico fra i più significativi del Novecento italiano, a cui una raffica di mitra ha posto termine in una mattina di maggio del 1978, ma il cui riflesso arriva fino ai nostri giorni.

In una missiva a Zaccagnini del 24 aprile 1978 Moro aveva scritto: «perché io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa». Infatti, l’ombra lunga e severa di Aldo Moro continua ad accompagnare le riflessioni degli italiani sui propri destini politici.

27. A. Moro, Un uomo così, Rizzoli, Milano 2003, p. 32.28. G. García Márquez, Cent’anni di solitudine, Feltrinelli, Milano 1968 (ed. or.

1967). I brani sottolineati da Moro sono riportati in A. Moro, La democrazia in-compiuta. Attori e questioni della politica italiana 1943-1978, a cura di A. Ambrogetti, introduzione di G. Moro, Editori Riuniti, Roma 1999.

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Il presente contributo – che non ha alcuna pretesa di completezza – si muove lungo un doppio binario: quello del lessico utilizzato e utilizza-bile dagli studiosi e dalle studiose per definire i fenomeni considerati e quello della riflessione sui legami tra la sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta (altrimenti detta sinistra extraparlamentare, estrema o nuova, definizioni, queste, a mio avviso inappropriate)1, la violenza politica in generale, e quella armata in particolare. Come suggerisce il richiamo foucaultiano del titolo dovrò dunque muovermi tra le classificazioni.

Sulle relazioni tra l’insieme di repertori d’azione che definiamo vio-lenza politica – o, se si preferisce, violenza politicamente motivata – e l’attivismo riconducibile alla sinistra rivoluzionaria degli anni Settan-ta sono stati pubblicati, recentemente, studi significativi2. Negli ultimi

Le parole e le cose. Sul nesso sinistra rivoluzionaria,

violenza politica e sociale, lotta armatadi Eros Francescangeli

1. Preferisco utilizzare la definizione di “sinistra rivoluzionaria” invece di “nuova sinistra” poiché, in Italia, l’area in questione comprendeva correnti culturali certamen-te non “nuove” quali gli anarchici, i bordighisti, i trockisti, gli operaisti e gli stalino-maoisti. Sulla cosiddetta “nuova sinistra” cfr. la specifica voce, redatta da M. Morbidelli, in A. Agosti (diretta da), Enciclopedia della sinistra europea nel xx secolo, con la collabo-razione di L. Marrocu, C. Natoli, L. Rapone, Editori Riuniti, Roma 2000, pp. 504-9.

2. Cfr. B. Armani, Italia anni Settanta. Movimenti, violenza politica e lotta ar-mata tra memoria e rappresentazione storiografica, in “Storica”, 32, 2005, pp. 41-82; L. Bosi, M. S. Piretti, Introduzione. Violenza politica e terrorismo: diversi approcci di analisi e nuove prospettive di ricerca, in “Ricerche di storia politica”, 3, 2008, pp. 265-72 (numero intitolato Violenza politica e terrorismo); M. Tolomelli, Militanza e violenza politicamente motivata negli anni Settanta, in A. De Bernardi, V. Romitelli, C. Cretella (a cura di), Gli anni Settanta. Tra crisi mondiale e movimenti collettivi, Archetipolibri-gedit, Bologna 2009, pp. 192-210; G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa. La violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta (1966-1975), Einau-di, Torino 2009; A. Ventrone (a cura di), I dannati della rivoluzione, eum, Macerata 2010; V. Vidotto, Violenza politica e rituali della violenza, in Ventrone (a cura di), I

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anni, inoltre, ci sono state alcune occasioni di confronto assai stimolan-ti: dalle Giornate di studio seminariali su Violenza politica e lotta armata di Firenze e Reggio Emilia al panel all’interno della sesta edizione dei “Cantieri di storia” della sissco (Forlì 22-24 settembre 2011) intitolato Stati d’emergenza. Strategie di difesa e offesa tra sinistra rivoluzionaria e Stato negli anni dell’azione collettiva. Infine, nel 2012 si è tenuto – oltre al convegno i cui atti sono raccolti in questo volume – il dialogo A fer-ro e fuoco: violenza politica, per un’analisi di una categoria controversa, nell’ambito dell’ottava edizione del Simposio estivo di storia della con-flittualità sociale (Monte del Lago, 26-29 luglio 2012). Ciò nonostante, la riflessione sulle categorie analitiche e sul lessico adoperabile è ancora agli albori. Ragionare sulle parole – oltre che sulle cose – non credo sia un mero esercizio retorico. Penso, infatti, che sia proficuo affrontare la questione delle interpretazioni/declinazioni del concetto di “violenza politica” anche per ragioni legate al presente. In un momento storico ca-ratterizzato da crisi che appaiono come di lungo periodo e da scenari in cui la piazza torna a essere protagonista, il rischio è quello di una giorna-listicizzazione dell’analisi delle dinamiche conflittuali, ossia di appiattire la lettura dei contesti attraverso le lenti della comunicazione di massa, della politica o, peggio, dell’ideologia, le quali, mentre individuano bene chi siano i “buoni” e chi siano i “cattivi”, non tengono conto, diacroni-camente, della diversità tra la realtà di una quarantina di anni fa e l’oggi e, a livello sincronico, delle differenze – non solo tecniche, ma anche e soprattutto culturali – tra i possibili e numerosi repertori d’azione.

Se è tollerabile che un quotidiano, una rivista divulgativa, un docu-mentario per il grande pubblico o, più di ogni altro, partiti, sindacati e istituzioni utilizzino schemi interpretativi e repertori discorsivi dico-tomici e/o compartimentati (efficaci per orientare la pubblica opinio-ne verso un senso comune più o meno condiviso), non è comprensibile che coloro che si definiscono scienziati/e sociali ricorrano – anche se in modo meno manicheo e con una serie di distinguo – agli stessi dispo-

dannati della rivoluzione, cit., pp. 41-59; C. Fumian, Alle armi, in P. Calogero, C. Fu-mian, M. Sartori, Terrore rosso. Dall’Autonomia al partito armato, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 167-218; W. Gambetta, Democrazia proletaria. La nuova sinistra tra piazze e palazzi, Punto Rosso, Milano 2010; E. Francescangeli, Stato e insurrezione. La vio-lenza rivoluzionaria e gli scontri di piazza: definizioni, periodizzazioni e genealogie, in “Zapruder”, 27, 2012, pp. 144-53; S. Neri Serneri (a cura di), Verso la lotta armata. La violenza politica nella sinistra radicale degli anni Settanta, il Mulino, Bologna 2012.

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sitivi, spesso introiettati inconsapevolmente, rispondendo al richiamo dell’uso pubblico della storia e al fascino discreto del senso comune.

Ad esempio, pur sapendo che categorie interpretative, definizioni e vocaboli non sono neutrali, capita di leggere frequentemente, sia per de-finire gli scontri tra polizia e manifestanti che si verificano in Occidente nei nostri giorni (studenti, operai, indignados, ragazzi delle banlieue, no-tav ecc.) sia le numerose manifestazioni degli anni Settanta in cui l’aspetto militare oscurava quello politico, espressioni quali «degenera-zione violenta delle manifestazioni di piazza»3 (per citare Guido Panvi-ni, il quale so che non se ne ha a male). Ma un evento o un processo che “degenera” presuppone che esso possegga una valenza positiva o comun-que neutra già in partenza e che questa valenza si trasformi da positiva a negativa. Va da sé che se consideriamo già negativamente il fenomeno o se, viceversa, non ne consideriamo uno snaturamento l’atto violento (ma piuttosto una sua “evoluzione”) il termine svela la sua parzialità. Ciò salta subito agli occhi dei più – e non solo a quelli delle minoranze attive riconducibili alle “ali estreme” (altra costruzione teorico-lessicale assai labile) dello schieramento politico – se pensiamo, non già alle tur-bative d’ordine dei nostri sabato pomeriggio o di quelli di quarant’anni fa, ma a qualcosa che il senso comune ritiene decisamente negativo o positivo. Così come nessuno (o quasi) definirebbe la “notte dei lunghi coltelli” una “degenerazione del nazismo” (poiché, comunemente, il nazismo viene giudicato negativamente in sé), difficilmente potremmo trovare scritto, in un libro di storia (specie se italiano), che lo sciopero del fumo del 18 marzo 1848 a Milano “degenerò” in violenti scontri du-rati cinque giornate oppure che a Parigi il 14 luglio 1789 la protesta po-polare “degenerò” nell’assalto alla Bastiglia (anzi, in questo caso, spesso, il bellicoso lemma “assalto” è sostituito dal più tenue “presa”). È dunque lecito supporre che l’uso del verbo “degenerare” (come anche altri verbi, per non parlare poi degli aggettivi) più che la condanna della violenza in sé esprima la repulsione per certa violenza, quella compiuta dall’altro da sé o da soggetti che con il loro modus operandi potrebbero allontana-re il raggiungimento di determinati fini ritenuti auspicabili e che l’uso della forza – anche armata – è culturalmente accettato e legittimato se attuato per fini ritenuti giusti (l’unificazione nazionale, la lotta alla ti-

3. G. Panvini, La pianificazione della violenza (1969-1972), in Ventrone (a cura di), I dannati della rivoluzione, cit., pp. 61-77 (cit. a p. 65).

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rannide ecc.). In altre parole, riferendoci a Per la critica della violenza di Benjamin, l’atteggiamento proprio del diritto positivo (attraverso la legittimità dei mezzi il diritto positivo tende a “garantire” la giustizia dei fini) si stempera nell’equivoco giusnaturalista (attraverso la giustizia dei fini il diritto naturale tende a “giustificare” i mezzi)4. Credo che gli studiosi e le studiose di scienze sociali – anche quando intervengono a livello pubblico – non abbiano il dovere di trasformarsi in propagandi-sti del principio di giustizia o di quello di legalità.

Sarebbe dunque auspicabile l’utilizzo di un lessico più asciutto an-che quando si parla di anni Settanta, evitando il ricorso a espressioni cariche di valenze etico-politiche. Il che non vuol dire, ovviamente, so-spendere il proprio giudizio su quanto è accaduto.

Ormai quasi un decennio fa, con Laura Schettini ci chiedevamo perché quando si affrontava la questione degli anni Settanta e della lot-ta armata si utilizzassero espressioni cariche di valutazioni morali che andavano oltre la legittima presa di posizione soggettiva nei confronti dell’oggetto di studio5. Prendendo a titolo esemplificativo l’espressio-ne «drammatica e criminale scelta della lotta armata», adoperata da Marco Grispigni in un suo intervento6 (peraltro condivisibile), nello stesso articolo ci domandavamo come mai non si riuscisse a scindere il giudizio politico del fenomeno dalla sua narrazione e, soprattutto, dal-le categorie analitiche utili a rappresentarlo. La necessità ossessiva di prendere le distanze dal fenomeno della lotta armata e di condannarne premesse, vicende ed esiti prevaleva sull’analisi sine ira et studio.

Se uno storico o una storica utilizzasse l’espressione “drammatica e criminale scelta americana di sganciare la bomba atomica su Hiroshi-ma” c’è da credere che la sua narrazione sarebbe giudicata, dalla comu-nità scientifica, come “ideologica”. Il fatto che il soggetto/oggetto di studio sia stato sconfitto può essere allora una spiegazione sufficiente? Evidentemente no, a giudicare dalle rappresentazioni di altri “perdenti”.

4. Cfr. W. Benjamin, Per la critica della violenza, a cura di M. Tomba, Alegre, Roma 2010.

5. Cfr. E. Francescangeli, L. Schettini, Le parole per dirlo. Considerazioni sull’uso ideologico di alcune categorie nello studio degli anni Settanta, in “Zapruder”, 4, 2004, pp. 142-6.

6. Cfr. M. Grispigni, L’eskimo che conoscevi tu. Lo spettro degli anni settanta nel dibattito pubblico, ivi, pp. 136-41. Per la controreplica di Grispigni cfr. Id., Terrorismo: uso, abuso e non uso di un termine, in “Zapruder”, 6, 2005, pp. 140-4.

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Mentre nei confronti dei “vinti” della rsi si assume un atteggiamento scientifico (nessuno o quasi, in sede di ricostruzione storica, definirebbe i combattenti della rsi come “criminali al soldo dell’invasore tedesco”, mentre potrebbe appellarli in tal modo in un comizio di piazza), verso i “vinti” della militanza armata non si usa il distacco che la disciplina im-porrebbe7. Come mai? La risposta che abbozzavamo con Laura Schetti-ni era forse ovvia: per le generazioni che hanno vissuto quegli anni non doveva essere «facile trattare l’argomento senza rammentare il clima di quei giorni, le discussioni roventi, le ansie, i drammi personali e po-litici, gli amici e i colleghi uccisi o feriti dal piombo dei/delle militanti armati/e o, di converso, arrestati perché scelsero quella strada o qualche viottolo a essa parallelo». Forse, concludevamo, «il “sangue dei vinti” (e, soprattutto, quello dei “vincitori”) [era] ancora troppo fresco»8.

Nove anni dopo ritengo ancora valida quella risposta. Il sangue è ancora troppo fresco e probabilmente, come è stato per il Risorgimento, per giungere a una narrazione pubblica non dominata dalla passione dovranno uscire di scena i/le discendenti diretti dei “protagonisti”. Tut-tavia, a livello scientifico una nuova generazione di storici e storiche si sta cimentando con questi temi, ponendosi la questione di quali paro-le utilizzare per definire quella stagione, i soggetti protagonisti, l’aspra conflittualità che non di rado si connotò come scontro fisico, la milita-rizzazione delle piazze, la lotta armata, la pratica delle stragi. Nonostan-te ciò, definizioni e categorie analitiche continuano a essere utilizzate con una certa superficialità. Prendiamo, per esempio, la definizione del periodo. Per definire i lunghi anni Settanta, gli anni che vanno dalla prima metà degli anni Sessanta ai primissimi anni Ottanta, ritengo de-cisamente incongrua l’espressione “anni di piombo” (che, purtroppo, ha dato vita a un vero e proprio filone metaforico, per cui si parla di “in-tellettuali di piombo”, “schermi di piombo”, “aule di piombo”), poiché la parte oscura il tutto. Un tutto che – sia osservando i soli processi con-flittuali che le dinamiche dell’intera società italiana nel suo complesso – non fu, evidentemente, solo plumbeo9. Per ragioni analoghe ritengo

7. Cfr. Francescangeli, Schettini, Le parole per dirlo, cit., p. 145.8. Ivi, p. 146.9. La formula s’impose a livello pubblico dopo l’uscita del lungometraggio di

Margarethe von Trotta Die bleierne Zeit (1981), ispirato alla storia delle sorelle Gu-drun e Christiane Esslin. Tuttavia, l’“età del piombo” del titolo del film non era tanto

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tale espressione inappropriata – al pari di “anni del terrorismo”, “anni insanguinati” e via dicendo – anche per definire il solo arco tempora-le 1976-82, ossia il periodo in cui si manifestò in tutta la sua asprezza il fenomeno della lotta armata con finalità omicide. Anche in questo caso il problema consiste nella pressoché esclusiva lettura di quegli anni attraverso il prisma della violenza politica a mano armata. Quegli anni furono anche altro: non solo via Fani, il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, le azioni delle Brigate Rosse e le stragi di Ustica e Bologna.

Tuttavia, non trovo altrettanto adeguata la definizione – solitamen-te utilizzata da chi preferisce la locuzione “nuova sinistra” a “sinistra rivoluzionaria” o “extraparlamentare” – di “stagione dei movimenti”, poiché sovrastima il ruolo dei movimenti (spesso rappresentati come “spontanei” e sovente dipinti in modo idilliaco), sottostimando quello delle organizzazioni, che, qui in Italia, svolsero un ruolo fondamentale di incubatrici e galvanizzatrici del ciclo di protesta. Inoltre, in tale defi-nizione l’ingombrante presenza della violenza viene messa in secondo piano, se non espunta, assieme alla carica insorgente, antiautoritaria e disarticolante del protagonismo politico-sociale di quel quindicen-nio. Personalmente, per definire gli anni che vanno dal 1965 al 1980, osservati attraverso il prisma della conflittualità pubblica, utilizzerei la formula “anni della contestazione e dell’insubordinazione diffuse”.

Più problematico è il discorso attorno al concetto di violenza po-litica. La categoria analitica di violenza “politica” o “politicamente motivata” – come quella, ancora più evanescente, di “terrorismo”, che ne è una sottocategoria (quando la matrice è, ovviamente, di natura politica) – è ancora materia di dibattito e alcune debolezze – principal-mente dovute all’uso strumentale o spettacolare che se ne fa – le sono proprie. Violenza politica è, infatti, un’espressione con un ombrello semantico assai vasto: dagli spintoni per impedire un volantinaggio di chi viene percepito come concorrente, avversario o nemico alla pub-blica “gogna”; dal danneggiamento “spontaneo” di beni (automobili,

riferita al metallo delle munizioni dei/delle militanti delle formazioni rivoluzionarie armate, quanto – utilizzando un’espressione del poeta Friedrich Hölderlin contenuta nella lirica Der Gang aufs Land – alla deprimente realtà del secondo dopoguerra. Mentre in Italia (ma anche in Francia e in Portogallo/Brasile) venne tradotto in Anni di piombo non fu così altrove: nel Regno Unito, ad esempio, il film è uscito con il titolo Two German Sisters (e così anche in Spagna e Catalogna) mentre negli usa è stato distribuito come Marianne and Juliane.

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sedi di partito, redazioni di giornali) all’attentato premeditato a cose mediante esplosivi o incendio; dal sequestro di persona al ferimento tramite agguato mirato; dall’omicidio premeditato alla strage. Tutta-via, stranamente, non sembrano rientrare nella tipologia in questione pratiche “consolidate” di lotta politica quali – cito volutamente due esempi limite e tra loro agli antipodi – il duello individuale (quello, per capirci, otto-novecentesco) o le stragi “legittime” commesse da Stati belligeranti (bombardamenti, rastrellamenti, punizioni e vessazioni di civili ecc.)10. Come notato da Isabelle Sommier, la violenza non costi-tuisce un repertorio d’azione collettivo in senso stretto:

Anche la sua definizione più classica è troppo ampia per indicare senza equi-voci forme d’azione in grado di sfuggire alle rappresentazioni necessariamente soggettive elaborate dagli altri, anzitutto dalle vittime. Per questo, ascrivere alla medesima categoria attentati con esplosivo in luoghi pubblici, omicidi mirati, vetrine infrante durante le manifestazioni e, perché no, i “sequestri” rappresentati degli scioperi dei servizi pubblici non ha alcun senso scientifico11.

È necessario, dunque, cercare di individuare quali siano i contorni dell’oggetto, a meno che non si voglia rigettare la categoria nel suo complesso. Volendo assumere la definizione di Max Kaase, «è consi-derata violenza qualsiasi forma di danno fisico diretto o indiretto in-tenzionalmente inflitto da parte di alcuni individui ad altri individui o alle cose. Sono quindi definiti violenza politica tutti gli atti di dan-neggiamento fisico volontario»12. Ovviamente a contenuto politico. Ma cosa consideriamo “politico”? Come classifichiamo, ad esempio, un picchetto operaio durante uno sciopero, una rivolta spontanea di braccianti agricoli o un “corteo militante” all’interno di uno stabili-

10. A testimonianza della labilità della categoria cfr. il volume dal taglio divul-gativo (scritto da un ex ufficiale dei bersaglieri) di E. Cecchini, Storia della violenza politica, Mursia, Milano 1992. Entro la cornice indicata pretenziosamente dal titolo vi sono ambiti ed eventi assai disparati: dall’antico regno di Israele alla “guerra santa” dell’Islam in epoca contemporanea, passando – per non fare torto a nessuno – per i processi di Verona e di Norimberga e per l’esecuzione dei coniugi Rosenberg. Insom-ma, di tutto e di più.

11. Cfr. I. Sommier, La violenza rivoluzionaria. Le esperienze di lotta armata in Francia, Germania, Giappone, Italia e Stati Uniti, DeriveApprodi, Roma 2009.

12. M. Kaase, Partecipazione, valori e violenza politica, in R. Catanzaro (a cura di), La politica della violenza, il Mulino, Bologna 1990, pp. 11-2.

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mento industriale? Trattasi di violenza politica o di violenza sociale? Se vogliamo leggere il fenomeno in senso stretto, gli esempi appena riportati sono ascrivibili tra le forme di violenza sociale, non politi-ca. E per continuare, restando ovviamente nella dimensione pubblica, le violenze a sfondo religioso (tra credenti di fedi o confessioni diffe-renti o tra fazioni della stessa fede o confessione), sportivo (si pensi al fenomeno ultras e alle sue commistioni con istanze riconducibili al politico o al prepolitico) o cultural-spettacolare (le scaramucce punk contro skin degli anni Ottanta), come le focalizziamo? Insomma, tutto ciò per dire che i contorni dell’oggetto di analisi sono difficilmente individuabili e se una classificazione di tipo scolastico appare ardua, se non impossibile, ciò non significa che si debba rinunciare a riflettere su ampiezza, contorni, tipologie, significati e significanti delle forme più “dure” di violenza collettiva a contenuto politico.

Una conflittualità pubblica che – dovrebbe essere ovvio – ha avuto e ha tra i suoi attori principali lo Stato. Ma come considerare le for-me di coercizione basate sull’utilizzo della forza poste in essere dallo Stato? Ossia, la violenza istituzionale delle forze preposte al mante-nimento dell’ordine pubblico contro le organizzazioni e i movimenti anti-istituzionali o antigovernativi (e in alcuni casi non necessariamen-te tali) è considerabile una particolare forma di violenza politica? Per-sonalmente, ritengo di sì. In relazione alla violenza delle istituzioni, la definizione fornita da Kaase può essere accettabile: «la violenza politi-ca può anche essere esercitata, e lo è di frequente, dallo stato; in questo caso si parla solitamente di repressione»13.

Anche Vittorio Vidotto include, a tal proposito, alcuni interventi delle forze dell’ordine nella categoria – condivisibilmente assunta come «contenitore am-pio» – di violenza politica: in particolare quelli che travalicano la «corretta difesa dell’ordine pubblico» ponendosi «al di fuori dei canoni di una democrazia equi-libratamente conflittuale»14. Considerazioni valide, anche se non evidenziano a sufficienza come nel discorso sulla violenza politica l’aggettivo – il “movente” – sia forse più rilevante del sostantivo. Pestare brutalmente un gruppo di supporter di una squadra di calcio dopo un fermo di polizia è chiara-mente un episodio che si pone al di fuori del lecito ma non è classifica-bile come violenza politica. Viceversa, intervenire contro un picchetto

13. Ivi, p. 12.14. Vidotto, Violenza politica e rituali della violenza, cit., pp. 49-50.

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organizzato da un gruppo di lavoratori durante una lotta di fronte ai cancelli di una fabbrica è un atto riconducibile alla sfera socio-politica, anche se i tutori dell’ordine si muovessero nel rigoroso rispetto della legge. A mio avviso, dunque, l’attività repressiva della forza pubblica indirizzata contro repertori e ambiti di natura politica, deve essere in-clusa – con i distinguo del caso e tenendo presente che non è generica-mente lo Stato ma il governo a indirizzare la macchina operativa dell’or-dine pubblico – nella categoria di violenza politica, a prescindere dalla legittimità e/o correttezza degli interventi.

Quanto appena esposto rinvia alla relazione antagonistica e specu-lare esistente tra lo Stato (inteso come Stato-sistema e non come idea di Stato quale complesso di istituzioni apparati e funzioni) e la sinistra rivoluzionaria. Analogamente allo Stato liberalcapitalista, per la sini-stra rivoluzionaria italiana – come ha osservato Luigi Manconi – porsi la “questione dello Stato” ha significato «porsi la questione del potere e, prima ancora, della prospettiva-vittoria/sconfitta nel rapporto con il proprio fondamentale antagonista»15. La “partita” con lo Stato giocò un ruolo centrale e se la strage di piazza Fontana non rappresentò certo “la perdita dell’innocenza”, essa venne percepita dalla maggior parte delle formazioni della sinistra rivoluzionaria come il passaggio a una fase superiore, più avanzata, dello scontro per il potere. Instabilità po-litica e sociale e “strategia della tensione” spinsero, nel giro di qualche anno (tra il 1972 e il 1974), alcuni settori della sinistra rivoluzionaria (in particolare nuclei operai delle grandi fabbriche, militanti dei servi-zi d’ordine, soggettività marginali) a scelte “forti” che si tradussero, pur in forme differenti, nell’autonomizzazione del militare dal politico16.

15. L. Manconi, Il nemico assoluto. Antifascismo e contropotere nella fase aurorale del terrorismo di sinistra, in Catanzaro (a cura di), La politica della violenza, cit., p. 47.

16. Chi scrive è d’accordo con Augusto Illuminati nel ritenere che l’approccio alla questione dell’uso della forza mutò all’incirca nel 1973-74 (non si dimentichi che il 1974 fu l’anno di altre due stragi – Brescia e treno Italicus – che acutizzarono un livello di tensione già elevato, a causa del quadro politico e della recessione del 1973-74): «La violenza, da funzionale a specifiche iniziative, diventa mezzo prevalente di sovversione e vuol dire armi da fuoco. Non solo non si rompe il difficile equilibrio fra illegalità e confronto con le istituzioni che aveva contraddistinto, con alterni risultati, il periodo 1968-1973, ma viene meno il senso delle proporzioni, la consapevolezza dei limiti di un movimento che poteva affermarsi solo senza dare un assalto frontale allo Stato. Le differenze, pur notevoli, tra i fautori di una guerriglia da avanguardia e quelli dell’insurrezione come scienza di massa risultarono irrilevanti rispetto al co-

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Del resto, lo Stato non era restato con le mani in mano. Si dimostrò un soggetto che percepiva come proprio nemico giurato non solamente la sinistra rivoluzionaria ma anche quella riferibile al Partito comunista e, in parte, al Partito socialista e che, a tal proposito, si era anch’esso at-trezzato a livello paramilitare. Sia legalmente, mediante la rete atlanti-sta di stay-behind (cioè, in Italia, la cosiddetta “Gladio”, nome in realtà dell’operazione), struttura che, costitutivamente, prevedeva peraltro di rendersi operativa anche in caso di non meglio precisati “sovvertimenti interni”, oltre che in caso di invasione del territorio nazionale da parte di truppe del patto di Varsavia. Sia illegalmente, attraverso una serie di strutture parallele, più o meno segrete, che ricorsero anche alla pratica dell’attentato finalizzato alla strage. Anche tutto ciò, evidentemente, è riconducibile alla categoria di violenza motivata politicamente. Per gli amanti della pratica di voler connotare – magari cromaticamente – la violenza politica dei soggetti considerati (“violenza rossa”, “piombo nero” ecc.), si pone il problema di come aggettivare la violenza politica pianificata e messa in atto da vari segmenti dello Stato. A rigor di logi-ca, dovrebbe essere definita “violenza centrista”, “controinsorgente” o “atlantista”, oppure – volendo calcare ancor più la mano, magari anche in rima baciata – “terrore tricolore”... Personalmente, anche in questo caso, mi atterrei a narrazioni il più possibili asciutte e lascerei a giorna-listi o dietrologi d’assalto tale incombenza.

Infine, per avviarmi alla conclusione, la questione dell’uso del termine “terrorismo”. Ovviamente, non è una questione meramente terminolo-gica. Tuttavia, come già osservato, «le vicende di questa parola posso-no dirci qualcosa. A partire dalla Rivoluzione francese e fino ai giorni nostri, “terrorismo” è stato usato per rappresentare, ma anche auto-rappresentare, una così vasta gamma di fenomeni, esperienze, azioni, organizzazioni, che provare a darne una definizione oggi non sembra cosa facile»17.

Proprio a fronte della genericità della locuzione, nel 1996 “The Economist” pubblicò un articolo nel quale erano tracciate alcune di-stinzioni: «in primo luogo il terrorismo riguarda soprattutto il terrore.

mune fallimento strategico» (A. Illuminati, Percorsi del ’68. Il lato oscuro della forza, DeriveApprodi, Roma 2007, pp. 91-2).

17. Francescangeli, Schettini, Le parole per dirlo, cit., p. 144.

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Non si tratta solo di violenza, il suo scopo specifico è il terrore. In se-condo luogo la violenza è rivolta specificamente contro i civili»18. Il ci-tato articolo operava una distinzione tra l’assassinio di una personalità politica e una strage in una stazione ferroviaria, tra un colpo di artiglie-ria contro una base militare e una bomba in un mercato frequentato da civili. Il tentativo era quello di dotarsi di strumenti concettuali che permettessero di muoversi tra realtà assai differenti tra loro ma che era-no (e sono) indebitamente assimilate. Come notato da Carlo Fumian, i

tentativi di approdare a una definizione condivisa e soddisfacente del terro-rismo sono innumerevoli quanto frustranti. Alexander Spencer ricorda che alcuni studiosi sono giunti a raccogliere 212 definizioni differenti [...]. Tra i tentativi ritenuti più seri e documentati vi è il lavoro di Alex P. Schmid e Albert J. Jongman, che esaminano 109 differenti definizioni, identificando 22 elementi fondamentali e tentando infine un incorporamento19.

Gli attentati alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 hanno impresso un’ulteriore accelerazione a questa tendenza, tanto che, al giorno d’og-gi, si impiega il termine “terrorismo” per indicare qualsiasi azione ostile alle truppe regolari in zone d’occupazione o sotto protettorato. Dalla lettura del saggio di Fumian è possibile apprendere come, in epoca più recente (nel 2004), alcuni studiosi, basandosi sulla letteratura scien-tifica, abbiano analizzato 73 definizioni riuscendo poi a sintetizzarle in una formula secondo la quale il terrorismo è una tattica (politica-mente motivata) che fa ricorso alla forza e alla violenza (o la minaccia) e in cui l’effetto propagandistico gioca un ruolo cruciale20. Ad ogni buon conto, anche questa definizione mostra alcune fragilità: i fattori dell’intensità della violenza e della sua efficacia in termini di paura se-minata nelle file avversarie sono assenti, a tutto vantaggio degli aspetti (pur centrali) propagandistico-spettacolari. Prendendo per buona tale formula, la differenza tra “violenza diffusa” e “violenza d’avanguardia” (per usare le definizioni autorappresentative dei militanti degli anni Settanta) non sussiste. Di fatto, ciò significa uniformarsi, anche in que-sto caso, alle ragioni della propaganda (comprensibilmente necessarie,

18. What is terrorism?, in “The Economist”, 2 marzo 1996 (trad. it. Cos’è il terro-rismo?, in “Internazionale”, 8 marzo 1996).

19. Fumian, Alle armi, cit., p. 170.20. Cfr. ibid.

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specie quando si è “in trincea”) e, come si dice, “fare di tutta l’erba un fascio”. Come notato nei primi anni Ottanta da Gianni Statera (pub-blicando i risultati di ricerca sulla violenza sociale e la violenza politica in base agli articoli della stampa quotidiana):

si ipotizzava che il magmatico erompere di episodi di violenza diffusa (inti-midazioni, espropri proletari, pestaggi, attentati alle auto di dirigenti, docenti universitari, capireparto, ecc.) potesse configurarsi, nell’immagine offertane dalla stampa, con connotazioni diverse da quelle del terrorismo sofisticata-mente tecnologico praticato dalle br; [...]. In realtà, questa ipotizzata dif-ferenziazione non ha potuto essere rilevata; e ciò non solo nella stampa, ma neppure in sostanza, nelle analisi della letteratura giuridica. [...] L’illegalità di massa si stempera nel terrorismo, visto come fenomeno tendenzialmente onnicomprensivo21.

Ma l’attuale onnicomprensività del significante non è il solo proble-ma. In realtà, se il termine “terrorismo” – in luogo di “lotta armata” o “pratica dell’attentato” o finanche “guerra di guerriglia” intesa come tecnica del “mordi e fuggi” – non fosse prevalentemente utilizzato at-tribuendogli un valore etico, in chiave ovviamente negativa, il termine potrebbe essere tranquillamente impiegato. Ma sia a livello pubblico sia negli studi specialistici, tolta qualche eccezione, l’espressione non viene impiegata declinandola dal punto di vista tecnico. Al contrario, vi è un uso politico del termine. Ad esempio, credo sia estremamente difficile trovare un testo – a meno che non sia pubblicistica fascista o neofascista (e ciò non fa altro che rafforzare questo ragionamento) – che definisca le gesta dei Gruppi di azione patriottica della Resistenza come “attività terroristica”; anche se, all’epoca, tale era l’autorappre-sentazione22. Come quasi nessuno – anche in questo caso a meno che non sia un suo antagonista a livello politico – definirebbe un “terrori-sta” Guglielmo Oberdan (ma il discorso può estendersi anche ad altri “patrioti” quali Felice Orsini o la coppia Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti). Viceversa, il termine viene impiegato con disinvoltura per

21. G. Statera (a cura di), Violenza sociale e violenza politica nell’Italia degli anni ’70. Analisi e interpretazioni sociopolitiche, giuridiche, della stampa quotidiana, Fran-coAngeli, Milano 1983, pp. 9-10.

22. Ringrazio, a riguardo, Santo Peli per avermi segnalato alcuni documenti che sta utilizzando per un lavoro specifico sui Gruppi di azione patriottica.

le parole e le cose

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definire i/le militanti dei gruppi della lotta armata degli anni Settanta, nonostante lo stesso Francesco Cossiga, intervistato dall’ex br France-sco Piccioni, abbia riconosciuto che tale «grande operazione semanti-ca» («quella di chiamarvi “terroristi”») non avesse agevolato la com-prensione del fenomeno brigatista23.

Quindi, per concludere, a meno che il termine non torni ad essere utilizzato nella sua accezione “neutra”, cioè tecnica (e francamente non penso che ciò possa accadere), personalmente consiglierei di utilizzare, per definire aggregazioni e fenomeni che impiegano le tecniche pro-prie dei cospiratori o dei guerriglieri (cioè organizzandosi clandesti-namente e ponendo in essere gli attacchi, come direbbero i militari, “in modo proditorio”) altri lemmi: “guerriglia”, “guerriglia urbana”, “pratiche dinamitarde” e infine, riferendomi a organizzazioni quali le Brigate Rosse o Prima Linea, “lotta armata”.

23. Cfr. l’intervista a F. Cossiga in Una sparatoria tranquilla. Per una storia orale del ’77, Odradek, Roma 2005, p. 92 (i ed. 1997).

Nel vissuto di quanti animarono il ciclo di proteste apertosi fra il 1967 e il 1968, l’irruzione del tema della violenza fu brusco: repressione delle proteste e strategia della tensione costrinsero i movimenti che erano venuti sviluppandosi in quei mesi a fare i conti con le modalità con le quali il sistema aveva deciso di difendere se stesso dalle contestazioni. Per i contestatori, pertanto, la violenza, fu inizialmente quella del “si-stema”: in quale modo iniziò ad apparire come una valida risorsa cui attingere da quanti a quello stesso sistema vollero contrapporsi?

Per anni il ricorso a una violenza politica di tipo aggressivo era sta-ta addebitato esclusivamente all’iniziativa della destra più estrema: fu nella primavera del 1972 (le settimane del sequestro Macchiarini ad opera delle Brigate Rosse e dell’omicidio di Calabresi) che essa apparve nitidamente come uno dei prodotti possibili dell’iniziativa dei settori più estremi della sinistra extraparlamentare. L’opinione che qui viene proposta si fonda sulla convinzione che la scelta della violenza fu ef-fettivamente tale, e come tale fu vagliata e dibattuta: una scelta per la quale alcuni optarono (e che tanti rifiutarono), non la conseguenza necessaria di determinati orientamenti ideologici, né il portato inevi-tabile dell’inasprimento delle tensioni sociali1.

Tale scelta apparve come la risposta apparentemente più efficace ai problemi posti da una realtà che non si stava trasformando con la radicalità e la rapidità auspicate da quanti si mobilitavano. Le pratiche della violenza, pertanto, furono presentate come le uniche modalità di azione in grado di “sbloccare” una situazione che la spontaneità delle

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L’uso della violenza: alla ricerca di una legittimazione

di Gabriele Donato

1. Per un approfondimento di questa e di altre riflessioni sui primi anni Settanta cfr. G. Donato, “La lotta è armata”. Estrema sinistra e violenza: gli anni dell’apprendi-stato 1969-1972, irsml-fvg, Trieste 2012.

l’uso della violenza: alla ricerca di una legittimazione

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proteste sociali non era riuscita a mutare: ma quali furono le argomen-tazioni ricorrenti che alimentarono quell’illusione? Quali gli esempi concreti che vennero privilegiati?

Questi interrogativi meritano attenzione, ed è per questa ragione che risulta utile descrivere alcuni passaggi del confronto in seno al qua-le si diffuse la convinzione che non ci sarebbe stata trasformazione ef-fettiva senza violenza. Se è vero, infatti, quel che ha scritto Anna Bravo – «la violenza non ha bisogno di propagandisti, cammina in relativa autonomia»2 – è anche vero che nello schieramento della sinistra più oltranzista il ricorso alla violenza fu, per tutti gli anni Settanta, oggetto di discussioni animatissime: il percorso che portò alcune migliaia di militanti verso l’approdo del terrorismo non fu affatto lineare.

Come potremmo capire, altrimenti, le ragioni che spinsero le br a procedere con la pianificazione e la realizzazione del loro primo omicidio solo nel 1976? Il gruppo esisteva da sei anni, ed era collocato in clande-stinità da quattro: certo, nel 1974 durante un’azione a Padova erano stati assassinati due militanti missini, ma la loro morte non era fra gli obiettivi previsti, così come non lo era stata quella del carabiniere ucciso alcuni mesi più tardi. Negli anni successivi l’escalation fu molto più rapida, ma l’opzione del terrorismo3 non maturò in modo né rapido né univoco, nemmeno per i brigatisti, e rimase comunque una scelta minoritaria.

La scelta stessa delle armi non risultò prevalente fra coloro che al-lora concepirono il proprio impegno come rivoluzionario, e pertanto – mi riferisco criticamente alle tesi di Alessandro Orsini4 – non può essere affatto spiegata come una semplice e logica deduzione desunta da determinate premesse ideologiche. Non ci si può accontentare di “incasellare” ideologicamente i militanti sedotti da tale prospettiva; le

2. A. Bravo, A colpi di cuore. Storie del sessantotto, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 244. 3. Quest’ultimo termine è stato utilizzato con un significato specifico, che è

quello esplicitato nella definizione proposta nella ricerca che Donatella della Porta ha dedicato, appunto, al terrorismo di sinistra: «l’attività di quelle organizzazioni clandestine di dimensioni ridotte che, attraverso un uso continuato e quasi esclusi-vo di forme d’azione violenta, mirano a raggiungere scopi di tipo prevalentemente politico»; D. della Porta, Il terrorismo di sinistra, il Mulino, Bologna 1990, p. 19. Per un’analisi attenta delle complicazioni che presenta l’utilizzo del termine in questione cfr. S. Casilio, Il peso delle parole. La violenza politica e il dibattito sugli anni settanta, in “Storia e problemi contemporanei”, 55, 2010, pp. 11-28.

4. Cfr. A. Orsini, Anatomia delle Brigate rosse. Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009.

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loro decisioni vanno bensì analizzate in rapporto al merito dei proble-mi politici e delle difficoltà con cui si misurarono.

1 Dopo l’“autunno caldo”

Si è fatto cenno al 1969: il riferimento non va semplicemente alla stra-tegia della tensione e alla strage di piazza Fontana; in pochi ormai si accontentano della spiegazione in base alla quale fu quella l’occasione in cui una generazione di attivisti “perse l’innocenza”. Il riferimento è più esteso, e si indirizza a tutti i fatti di violenza che colpirono in quei mesi l’immaginario collettivo dei giovani che avevano scelto di essere protagonisti delle mobilitazioni allora in corso.

Quell’anno era iniziato senza che si fosse ancora spenta l’eco dei fatti di Avola; proseguì – per citare alcuni episodi particolarmente rile-vanti – con i due morti e i duecento feriti provocati ad aprile dalle forze dell’ordine a Battipaglia; si sviluppò in agosto con gli otto attentati ferroviari che avevano provocato feriti in più parti del paese; si avviò a concludersi, a novembre, con la morte a Milano di un agente di pubbli-ca sicurezza (Antonio Annarumma) nel corso di una manifestazione. La strage di piazza Fontana, pertanto, non fu un fulmine a ciel sereno: fu la sanzione di un grave inquinamento della lotta politica ormai irre-versibilmente avvenuto.

Il 1969 fu l’anno in cui le tensioni dello scontro politico s’inaspri-rono contestualmente all’estensione rapida e sempre più diffusa delle attese di cambiamento: nel corso dell’autunno caldo di quell’anno la possibilità di una trasformazione complessiva del paese sembrò ai con-testatori, forti nelle università e nelle fabbriche più importanti, a por-tata di mano, ma essi si stavano anche rendendo conto che il conflitto sarebbe stato durissimo.

Se su queste valutazioni e sull’importanza di questi elementi i pareri della storiografia sono fondamentalmente convergenti, un’attenzione minore è stata dedicata all’impatto che sui movimenti di contestazione ebbe la chiusura del cosiddetto “autunno caldo”: l’intesa contrattuale, infatti, con la quale si risolse la vertenza dei metalmeccanici esercitò un potente effetto di spiazzamento sui militanti della sinistra più radicale. Assieme alle preoccupazioni per la repressione, si materializzava il ti-

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more relativo alla rinnovata capacità delle organizzazioni tradizionali di ispirazione riformista di riprendere in mano una situazione che era sembrata sfuggir loro di mano.

I sindacati, in modo particolare, stavano dimostrando non solo di non essere scomparsi nel corso delle agitazioni, ma di avere l’inten-zione di “cavalcarle” – come si diceva allora – in un contesto in cui la loro crescente forza sembrava in grado di incidere significativamente sui processi decisionali: apparve prossimo a milioni di lavoratrici e di lavoratori l’avvio di una stagione riformatrice capace di risolvere tante delle contraddizioni che avevano innescato l’asprezza dello scontro so-ciale; il delinearsi di uno scenario del genere determinò la frustrazione crescente di quanti avevano immaginato come imminente il crollo de-finitivo dell’ordine esistente.

Ritengo, in particolare, che fu il confronto sulle riforme che si aprì nel 1970 a spiazzare i gruppi che si dicevano rivoluzionari: le oppor-tunità di cambiamento che sembrarono profilarsi smentirono le pre-visioni catastrofistiche sulle quali quelle formazioni avevano fondato le proprie prospettive. Per riprendere i termini utilizzati allora da un gruppo come Potere Operaio (po), il sindacato era inaspettatamente riuscito a riprendere il controllo delle fabbriche siglando un «buon contratto»5, e il rischio che correvano, di conseguenza, i gruppi rivolu-zionari era quello di rimanere isolati.

Quel che emergeva, nella valutazione di ciò che era successo, era un elemento nuovo di consapevolezza; l’ordine capitalistico non sareb-be stato travolto dall’avanzata, tanto spontanea quanto inarrestabile, dell’“autonomia operaia”: se questa era stata l’illusione che si era dif-fusa nel movimento fra il 1968 e il 1969, secondo po essa andava messa radicalmente in discussione. Dopo la chiusura dei contratti, infatti, «i punti più alti dell’autonomia operaia»6 si trovavano isolati, e tale isolamento aveva provocato un contraccolpo negativo negli ambienti della sinistra rivoluzionaria.

In seno a po, pertanto, la fiducia relativa all’inevitabilità di una radicalizzazione dei conflitti sociali determinata dall’oggettività delle

5. Per questa e per le citazioni successive cfr. “Linea di massa. Documenti della lotta di classe”, 4, numero monografico intitolato Potere Operaio. Convegno nazionale di organizzazione Firenze 9-10-11 gennaio 1970, pubblicato dal gruppo nel 1970.

6. Ibid.

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contraddizioni aperte iniziava a essere messa in dubbio; fu la relazione svolta al convegno di Firenze del 1970 da Toni Negri a esplicitare i ter-mini dell’esigenza nuova che si poneva:

Dobbiamo muoverci con la consapevolezza che un processo spontaneo di massificazione come quello che abbiamo visto non ci sarà più, e che solo l’or-ganizzazione, solo la conquista di [...] una occasione di scontro generale, po-trà portare il tentativo di ristrutturazione capitalistica ad esiti ben diversi da quelli che il capitale si aspetta7.

I temi dell’organizzazione e dell’azione rivoluzionaria, appunto, ini-ziavano a essere posti come la “conquista” di un’iniziativa soggettiva, non più solo come il risultato del corso oggettivo degli avvenimenti. Si trattò di una novità rilevante, perché in questo modo anche il tema della rivoluzione avrebbe iniziato a essere argomentato diversamente: non più esito inevitabile di un accumulo inarrestabile di contraddizio-ni oggettive, ma vero e proprio “salto politico” da determinare sogget-tivamente. Nei mesi successivi proprio la violenza sarebbe stata indi-viduata, in quel senso, come lo strumento più incisivo per provocare tale “salto”, e il ricorso ad essa sarebbe stato presentato come legittimo proprio in relazione a tale funzione.

Nell’analisi del professore padovano era chiara la percezione del ri-schio che correvano tutti i gruppi extraparlamentari: quello di subire la strategia negoziale dei sindacati che a dicembre aveva dimostrato di sa-persi imporre, e di non trovare quindi il modo di metterla apertamente in crisi agli occhi dei lavoratori che con tanta energia si erano mobilita-ti. Se la logica con la quale si muovevano i vertici delle organizzazioni sindacali si fondava sull’esigenza di perseguire accordi progressivamente più vantaggiosi, la logica che avrebbe dovuto ispirare l’azione rivoluzio-naria di un’organizzazione come po doveva essere quella dello scontro: doveva essere provocata, pertanto, «un’occasione generale di scontro ravvicinata (una occasione generale che si darà solo se costruita)»8.

Occasioni del genere andavano “costruite”, non attese: dovevano essere attentamente preparate, non solo evocate. Il senso della proposta avanzata viene accompagnato da un’enfasi particolare sulla capacità,

7. Ibid. 8. Ibid.

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che i gruppi organizzati avrebbero dovuto dimostrare, di «dramma-tizzare politicamente» la conflittualità sociale: di «provocare arti-ficialmente – ha scritto Angelo Ventrone – quella polarizzazione tra oppressi e oppressori»9 che rischiava altrimenti di non verificarsi. Il presupposto di questi ragionamenti è stato ben sintetizzato dalle pa-role utilizzate dall’ex militante di po e delle br Valerio Morucci, in relazione agli esordi della sua militanza politica: «Loro sapevano [i militanti più esperti], o credevano di sapere, che la lotta cresce sullo scontro. Quello fisico, diretto, non solo a parole»10.

2 Come “riprendere l’offensiva”?

All’orizzonte – questo era il problema di fondo – non sembrava esserci più solamente lo scontro frontale fra due schieramenti contrapposti, quello della rivoluzione e quello della reazione, intenzionati a battersi senza esclusione di colpi, ma si profilava anche la possibilità di solu-zioni negoziate dei conflitti. A mio modo di vedere, fu questa novi-tà imprevista a provocare il disorientamento in seno al quale iniziò a prendere corpo seriamente l’ipotesi della violenza organizzata come strategia principale.

Pertanto, se è vero che i primi ragionamenti sulla lotta armata (quelli di Giangiacomo Feltrinelli, per esempio) vennero coniugati in relazione alla percezione dei rischi di un’involuzione autoritaria del sistema politico, ritengo che la loro successiva articolazione, e la loro ampia diffusione, si siano determinate in ragione della frustrazione provocata dalla battuta d’arresto subita – nel campo esteso della sini-stra politica e sindacale – dall’opzione rivoluzionaria.

Questa iniziale divaricazione di posizioni si riverberò sui ragio-namenti che venivano sviluppati sulla legittimità del ricorso alla vio-lenza: tale ricorso appariva necessario in ragione di esigenze diverse, difensive per gli uni e offensive per gli altri. Le diverse argomentazioni

9. A. Ventrone, Vogliamo tutto. Perché due generazioni hanno creduto nella rivolu-zione 1960-1988, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 18.

10. V. Morucci, La peggio gioventù. Una vita nella lotta armata, Rizzoli, Milano 2004, pp. 65-6.

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che fondavano la legittimità di tali orientamenti condizionavano an-che le pratiche sulle quali i vari gruppi iniziavano a cimentarsi. Men-tre i Gruppi di azione partigiana di Feltrinelli nacquero nel 1969 sulla base dell’intenzione di creare le condizioni per la guerriglia – con basi insediate nelle montagne e nelle isole – contro il regime autoritario che di lì poco ritenevano sarebbe stato instaurato, gruppi come po e Lotta Continua (lc) rifiutarono di tramutarsi in vere e proprie orga-nizzazioni armate: dal loro punto di vista, la violenza avrebbe potuto essere largamente praticata da settori significativi della classe operaia, intenzionati a portare fino in fondo l’attacco ai capitalisti “sferrato” nell’autunno caldo.

Tale processo di radicalizzazione del conflitto – inteso in termini d’attacco, e non di difesa – andava tuttavia accelerato, e po avrebbe discusso a lungo sulle modalità organizzative più efficaci per favori-re tale dinamica di “militarizzazione” vera e propria dello scontro so-ciale. Una discussione molto simile sarebbe stata affrontata da lc, in termini condizionati, almeno all’inizio, dalla fiducia che un processo del genere si sarebbe inevitabilmente sviluppato sulla base delle spinte spontanee espresse dal rivendicazionismo operaio. In questo quadro, la riflessione ritenuta prioritaria riguardava gli strumenti grazie ai quali gli animatori della conflittualità sociale avrebbero potuto rilanciare il proprio protagonismo. Negri si esprimeva in questi termini: «Il pro-blema è quello di riprendere l’offensiva sulla base di un programma comunista di appropriazione e di lotta armata»11.

Se il 1968 e il 1969 erano stati vissuti da quella generazione di giova-ni attivisti nell’attesa febbricitante del grande evento palingenetico che avrebbe dovuto sconvolgere l’intero ordine esistente, la fase che si aprì alla fine del 1969, invece, mise all’ordine del giorno la discussione sulle grandi riforme di cui si riteneva che il paese avesse bisogno, non l’orga-nizzazione della rivoluzione. Non tutti nello schieramento rivoluziona-rio furono disponibili a fare lucidamente i conti con questo sviluppo imprevisto: risultavano smentite, infatti, tante delle previsioni catastro-fistiche sulle quali i gruppi avevano fondato le proprie strategie.

L’attesa di un evento paragonabile al maggio francese del 1968, ma immaginato con caratteristiche ancora più sconvolgenti, era risultata

11. A. Negri, Potere operaio contro il lavoro (1972), in S. Bologna, P. Carpignano, A. Negri, Crisi e organizzazione operaia, Feltrinelli, Milano 1974, p. 99.

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vana12; i gruppi, di conseguenza, furono costretti a rivedere rapidamen-te le proprie prospettive: fu allora che poté diffondersi l’illusione che la cosiddetta “critica delle armi” avrebbe potuto provocare quel preci-pitare delle contraddizioni che la spontaneità del conflitto sociale non aveva determinato. Se la realtà non si era fatta «trasformare nel senso auspicato»13, prese corpo la convinzione che l’esercizio della violenza avrebbe potuto imporre al corso degli avvenimenti quella direzione che l’influenza delle organizzazioni tradizionali era riuscita a deviare.

Nell’estrema sinistra, pertanto, si aprì un confronto nel corso del quale il problema principale smise di essere quello di preparare il mo-vimento rivoluzionario in vista di un’esplosione insurrezionale consi-derata imminente, e diventò un altro: la guerra civile non doveva essere attesa, ma doveva essere scatenata. Le condizioni per la sua auspicata esplosione non sarebbero maturate spontaneamente: i “veri rivolu-zionari” avrebbero dovuto iniziare a combatterla, non avrebbero più potuto limitarsi a evocarla. Solo in questo modo – grazie a una «siste-matica ed “estremistica” ricerca della rottura fra movimenti di classe e movimento operaio ufficiale»14 – avrebbero potuto essere adeguata-mente contrastate le organizzazioni riformiste.

Il mancato innesco di una vera e propria «rivolta operaia»15, al cul-mine dell’autunno caldo, diffuse la convinzione che non fosse più con-cepibile un impegno tutto proiettato verso un unico momento insurre-zionale, analogo per certi aspetti a quella che era stata, per i bolscevichi, la “presa del Palazzo d’inverno”; questo non poteva e non doveva signifi-care, naturalmente, l’abbandono delle ragioni della militanza rivoluzio-naria. Le esperienze delle guerriglie vittoriose nel secondo dopoguerra (dalla Cina a Cuba) e di quelle ancora combattenti (in Irlanda, per citare una delle esperienze più dibattute) lo avevano dimostrato ampiamente,

12. Come ha scritto Anna Bravo, la prospettiva complessiva in cui si posero i gruppi all’inizio di quel decennio fu proprio quella dell’«attesa dello “scontro gene-rale”»; A. Bravo, Noi e la violenza, trent’anni per pensarci, in “Genesis. Rivista della Società Italiana delle Storiche”, 1, 2004, p. 15 (www.societadellestoriche.it).

13. R. Massari, Il terrorismo. Storia concetti metodi, Massari, Bolsena (vt) 1998, p. 292.

14. M. Scavino, La piazza e la forza. I percorsi verso la lotta armata dal Sessan-totto alla metà degli anni Settanta, in S. Neri Serneri (a cura di), Verso la lotta armata. La politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta, il Mulino, Bologna 2012, p. 141.

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secondo la lettura che se ne faceva in gruppi come lc o come il Colletti-vo Politico Metropolitano (cpm) di Curcio e Franceschini.

Si trattava di analisi evidentemente debitrici nei confronti di ra-gionamenti che erano stati sviluppati nel periodo precedente in seno al movimento studentesco, e che erano stati condivisi dalla maggio-ranza degli attivisti che avevano animato le proteste all’università. In un’intervista rilasciata nel settembre del 1968, Marco Boato (studente a Trento e poi esponente autorevole di lc) aveva citato un dirigente dell’organizzazione statunitense Black Power per spiegare che il pro-cesso rivoluzionario avrebbe potuto durare una quindicina d’anni, e aveva aggiunto:

è ovvio per tutti – eccetto che per gli affezionati teorizzatori di mitologie politiche miracolosamente centrate sulla prospettiva dello scoccare di un’ora X della rivoluzione – che tale “sbocco politico” si presenta non come ipotesi di un unico scontro frontale [...] ma come un lungo processo16.

La tematica del “lungo processo”, pertanto, aveva avuto modo di se-dimentarsi fra tanti giovani nel corso delle lotte studentesche, ed era stata mutuata come categoria dall’esperienza dei comunisti cinesi, pro-tagonisti della lunga guerra di Liberazione grazie alla quale avevano conquistato nel 1949 il potere: essa era sembrata adeguata a spiegare la persistenza della conflittualità studentesca che si era manifestata a par-tire dal 1967, e gli attivisti che ne erano stati protagonisti pensarono di poterla applicare alle dinamiche più complessive del conflitto di classe nelle società occidentali.

Per sconfiggere i capitalisti, anche gli operai e gli studenti avrebbero dovuto rimanere a lungo sulle barricate, come i contadini cinesi gui-dati da Mao, senza illudersi di poter preparare e combattere un unico scontro decisivo. In questo modo poteva essere spiegato il fatto che non si fossero create, nel corso dell’autunno del 1969, le condizioni per sostenere il conflitto finale con la “classe dominante” che tanto era sta-

15. Si tratta dell’espressione che Mario Tronti aveva utilizzato in un articolo del 1964, 1905 in Italia, che venne inserito all’interno di Operai e capitale, uno dei libri più letti nell’estrema sinistra di quegli anni; cfr. M. Tronti, Operai e capitale, Deri-veApprodi, Roma 2006, p. 107 (i ed. 1966).

16. Intervista riportata in M. Boato, Il ’68 è morto: viva il ’68!, Bertani, Verona 1979, p. 389.

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to atteso17; esso non era esploso, ma ciò non negava la prospettiva della rivoluzione che doveva essere semplicemente ridefinita.

3 La funzione pedagogica della violenza

Dopo l’autunno del 1969, l’idea di una lotta “di lunga durata” servì a spiegare le ragioni per cui, dopo quella “battaglia”, la “guerra” fra operai e capitalisti non avrebbe potuto che continuare. Nonostante la definizio-ne di un accordo sindacale, secondo le analisi prevalenti nell’estrema si-nistra la conflittualità non si sarebbe placata: la persistenza delle tensioni sociali avrebbe continuato a generare le condizioni per la moltiplicazione e la radicalizzazione delle proteste, in una prospettiva di lungo periodo segnata – uso le parole di Barbara Armani – da «una sorta di universo binario» nel quale c’è spazio solo per «due forze contrapposte»18.

Questa appariva la lettura prevalente nei gruppi più radicali di allo-ra, in ragione della sua valenza rassicurante rispetto ai tempi – che ten-devano in questo modo ad allungarsi – dell’auspicata precipitazione rivoluzionaria; tale effetto rassicurante veniva ottenuto insistendo sul fatto che nei paesi occidentali erano ritenute riproducibili esperienze analoghe a quelle che erano state concretizzate in contesti molto diver-si. È significativo, a questo proposito, il modo in cui Hannah Arendt si è riferita alle elaborazioni che si vennero costruendo in relazione a queste tematiche nei movimenti studenteschi: «Il Terzo Mondo non è [per questi movimenti] una realtà ma un’ideologia»19.

17. Per capire come veniva inteso il conflitto in questione, può essere utile citare ancora una volta una delle letture predilette dell’epoca, Operai e capitale: «spezzare lo Stato borghese significa veramente distruggere il potere dei capitalisti, e d’altra parte distruggere questo potere non si può se non spezzando la macchina dello Sta-to»; M. Tronti, Operai e capitale, cit., p. 241.

18. B. Armani, Le parole del conflitto. Informazione, controinformazione e propa-ganda dal caso Pinelli all’omicidio Calabresi, in “Storia e problemi contemporanei”, 55, 2010, p. 38.

19. H. Arendt, Sulla violenza, Guanda, Parma 1996, p. 26 (i ed. 1970); l’autrice aggiungeva: «I loro [degli studenti] appelli a Mao, a Castro, a Che Guevara e a Ho Chi Minh sono come degli incantesimi pseudoreligiosi per un salvatore proveniente da un altro mondo; invocherebbero anche Tito se la Jugoslavia fosse un po’ più lon-tana e meno avvicinabile»; ivi, p. 101.

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Appare piuttosto evidente che le deformazioni prodotte da tale tipo di letture della realtà si fondavano sulla sottovalutazione degli aspetti specifici che avevano caratterizzato lo scontro politico nei paesi colonia-li e postcoloniali: se debitamente valutati, essi avrebbero dovuto impe-dire la tracciatura di semplicistiche analogie; nondimeno esse potevano apparire persuasive a quel «personale rivoluzionario»20 – l’espressione è di Bocca – che era stato selezionato nei due anni di mobilitazioni pre-cedenti e che non intendeva rinunciare a pensarsi, appunto, come “avan-guardia” di un esercito che avrebbe combattuto ancora a lungo:

Ma questa avanguardia – ha scritto il fondatore delle br Franceschini – deve saper unire la “politica” con la “guerra” perché lo Stato moderno, per afferma-re il suo potere, usa contemporaneamente la “politica” e la “guerra”. Diventa quindi inattuale e non proponibile la strategia leninista dell’insurrezione che presuppone una fase politica di agitazione e propaganda sostanzialmente pa-cifica, seguita poi dalla “spallata finale”, dall’“ora x”, cioè dalla fase propria-mente militare. Occorre invece preparare la “guerra civile di lunga durata” in cui il “politico” è, da subito, strettamente unito al “militare”21.

L’impazienza creava le condizioni per l’elaborazione di ragionamenti che dovevano convincere i militanti del fatto che né la durezza della repressione né i successi del riformismo potevano mettere in discussio-ne la prospettiva rivoluzionaria. Mesi e mesi di mobilitazioni rilevanti, infatti, avevano prodotto un grande accumulo di attese di cambiamen-to: esse si erano alimentate dell’«immagine di un sistema ansimante», che aveva suscitato «una illusoria sensazione di forza, l’impressione di vivere un’“occasione storica”», per usare le parole di De Luna22.

Tale sensazione generò un’impazienza diffusa: la voglia di affron-tare le battaglie decisive per la trasformazione della società, tuttavia, si scontrava con le dinamiche incerte di un mutamento che procedeva per negoziati e compromessi, in un’alternanza di scontri e accordi che non corrispondeva affatto all’ampiezza delle aspettative di quanti si

20. G. Bocca, Noi terroristi. 12 anni di lotta armata ricostruiti e discussi con i pro-tagonisti, Garzanti, Milano 1985, p. 13.

21. A. Franceschini, Mara Renato e io. Storia dei fondatori delle br, Mondadori, Milano 1988, p. 24.

22. G. De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfit-ta, memoria, Feltrinelli, Milano 2009, p. 59.

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erano immaginati ben altri sconvolgimenti. Fra il 1969 e il 1971, di con-seguenza, si diffuse presso la sinistra più oltranzista la convinzione che una gestione violenta degli scontri di piazza potesse spezzare i mecca-nismi di quella deludente alternanza.

In questo senso, i successi nella “gestione violenta della piazza” otte-nuti dai gruppi potevano essere tramutati, nella propaganda dei volan-tini e dei giornali, nella dimostrazione dell’«incapacità dei sindacati di assicurare la pace in fabbrica e nella società»: essi non potevano che determinare «la crisi del controllo e della stabilità capitalistica»23. Era il terreno dell’iniziativa violenta, pertanto, quello che doveva essere battuto, e i termini dell’impegno politico tendevano inesorabilmente a confondersi con quelli dell’accumulo dell’indispensabile forza mili-tare, come chiariscono alcune parole usate da Negri nell’autunno del 1972: «La pratica rivoluzionaria, l’esercizio forzoso di una generalità armata dentro le strutture del dominio capitalistico: questa è oggi la forma (superiore) della coscienza rivoluzionaria»24.

Tali ragionamenti, rafforzati dalle dimostrazioni di forza che i ser-vizi d’ordine avevano iniziato a dare nel corso del 1970, chiarivano che la polemica con il riformismo doveva essere perseguita innanzitutto sul terreno della forza: «Violenza contro violenza per rompere la media-zione riformista»25. Ancora una volta emergeva nitidamente l’intenzio-ne principale di un gruppo come po: usare la violenza per cercare di mettere in difficoltà il progetto complessivo della sinistra riformista, per evitare il ripristino della pace sociale, per togliere ogni spazio alle media-zioni possibili. In un documento proposto all’attenzione dei militanti alla fine del 1970, questa finalità venne esposta con estrema schiettezza:

L’organizzazione operaia si caratterizza dunque nella sua capacità di rompere fin dall’inizio ogni filo di continuità e gradualismo [...] L’estrema radicalizza-zione di questo aspetto di rottura, l’apologia sistematica della violenza come motivo di educazione e chiave di comprensione del carattere di questa rottu-ra, sono elementi essenziali dell’organizzazione comunista26.

23. Potere Operaio, Alle avanguardie per il partito, Edizioni Politiche, Milano 1970, p. 60.

24. A. Negri, La fabbrica della strategia. 33 lezioni su Lenin, cleup, Padova 1976, p. 14.

25. Potere Operaio, Alle avanguardie per il partito, cit., p. 61. 26. Ivi, p. 70.

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Il passaggio appare particolarmente rilevante: in esso compare una valorizzazione della funzione pedagogica della violenza che mette in evidenza il carattere di scelta, non di costrizione subita, che tale op-zione assunse per l’organizzazione in questione; prediligere forme di lotta violente diventava indispensabile nel momento in cui appariva prioritaria la lotta contro gli equilibri sociali che i principali partiti parlamentari intendevano riqualificare grazie alle riforme. Fu in virtù di tali considerazioni che si crearono le condizioni per quel «profon-do guasto che stava producendosi sul terreno della violenza» di cui ha parlato Aldo Giannuli27.

In altri termini, un gruppo come po appariva interamente proietta-to verso l’esigenza di dimostrare ai settori più agguerriti dei movimenti la possibilità di andare fino in fondo, di sviluppare le proteste fino alle estreme conseguenze, fino alla rottura aperta della legalità costituita: se l’impegno per la rivoluzione presupponeva la disponibilità nei con-fronti della violenza, la violenza presupponeva militanti disposti a pra-ticarla, e se quanti manifestavano esitavano, bisognava dimostrare loro che gli atti di forza erano praticabili, e che nelle prove di forza lo Stato poteva apparire vulnerabile.

In questo senso, l’uso della violenza veniva presentato dai dirigenti di quell’organizzazione come l’unica modalità rimasta a disposizione dei “proletari” per soddisfare i propri bisogni e le proprie aspirazioni in un contesto in cui anche la semplice rivendicazione di un’esigenza, a loro dire, veniva repressa dal “potere”. La violenza praticata da gruppi organiz-zati a tal fine, pertanto, si configurava come sovversiva in quanto dimo-strava la violabilità dei divieti su cui si fondava il “dominio capitalista”; il «registro di legittimazione»28 di tale violenza, quindi, era ben diverso da quello della tradizione comunista, nella quale il ricorso alla forza veniva presentato come una necessità «ineluttabile, imposta dal nemico», dalla sua intenzione di non lasciarsi «sconfiggere senza reagire»29.

La violenza poteva apparire efficace in quanto sembrava in grado di far saltare i meccanismi del controllo che il “sistema” esercitava sui

27. A. Giannuli, Bombe a inchiostro, bur, Milano 2008, p. 260. 28. I. Sommier, La violenza rivoluzionaria. Le esperienze di lotta armata in Fran-

cia, Germania, Giappone, Italia e Stati Uniti, DeriveApprodi, Roma 2009, p. 23(i ed. franc. 2008).

29. Ibid.

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comportamenti di coloro che opprimeva. Quanti si ritenevano rivolu-zionari dovevano usarla, secondo po, per scardinare i dispositivi coer-citivi che impedivano ai “proletari” di “liberare” le proprie aspirazioni, e di soddisfare in tal modo i propri desideri di liberazione: essa, pertan-to, doveva essere scatenata per consentire alle masse di collocarsi, in un processo “a lunga scadenza”, sul terreno – per forza di cose illegale – del rifiuto totale del sistema. La mia opinione è che fu proprio grazie a ragionamenti di questo genere che la tentazione della violenza iniziò a condizionare significativamente il confronto che si svolgeva negli am-bienti della sinistra più estrema.

4 «Le armi cominciano ad essere la soluzione»

Non si tratta affatto di sostenere che lo scatenamento della strategia della tensione, la durezza della repressione praticata a danno dei mo-vimenti sociali e l’aggressività dimostrata dal neofascismo abbiano condizionato solo marginalmente tale confronto. S’intende, tuttavia, sottolineare che esso fu segnato nitidamente – in tutti i primi anni Set-tanta – da un elemento di frustrazione, che affiora nelle parole estre-mamente significative dell’ex brigatista Antonio Savasta: «Le armi cominciano ad essere la soluzione, c’è questa immagine dell’arma che ti dà più forza, più possibilità, che può rompere questa realtà di ac-cerchiamento, di oppressione e di reazione»30. Proprio nelle pubblica-zioni del gruppo da cui aveva preso avvio il percorso delle br, Sinistra Proletaria, l’enfasi sulla necessità e sulla centralità strategica dell’arma-mento appariva martellante già nel 1970:

Compagni, gli anni di lotte autonome non sono passati invano: noi oggi sap-piamo che incontro al padrone armato con la polizia, con i carabinieri, con l’esercito, ecc. non si va disarmati. E sappiamo anche che il padrone è disposto a cambiare i governi, ma non a cedere il suo potere. Noi oggi siamo più forti, ma siamo sempre disarmati. Questo per dire che noi oggi siamo forti, ma siamo ancora senza organizzazione rivoluzionaria31.

30. R. Catanzaro, L. Manconi (a cura di), Storie di lotta armata, il Mulino, Bo-logna 1995, p. 441.

31. La svolta a destra del potere, in “Sinistra Proletaria. Foglio di lotta”, luglio 1970.

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Non si era materializzato quel «rivolgimento radicale»32 che era sem-brato imminente: il potere era rimasto nelle mani di chi lo deteneva da sempre, mentre le organizzazioni tradizionali della sinistra (quelle sindacali innanzitutto, ma anche quelle politiche) si erano dimostrate capaci di “riconquistare la scena” grazie all’estensione dei cambiamenti per i quali si battevano e che – in quella fase – sembrarono possibili. La violenza, pertanto, iniziò ad apparire e a essere presentata come uno strumento efficace per riportare lo scontro politico a quell’intensità e a quella radicalità che il dibattito sulle riforme rischiava di ridimensionare.

L’impegno per ottenere cambiamenti graduali e progressivi messo in campo da forze politiche importanti era temuto e avversato – in una parte significativa degli ambienti che si richiamavano alle varie tradi-zioni rivoluzionarie – tanto quanto l’ostinazione reazionaria che carat-terizzava i partiti conservatori; la lotta armata poté sembrare una stra-tegia efficace non solo per evitare che la conflittualità venisse repressa, ma anche – se non soprattutto – per evitare che venisse disinnescata. Fu grazie all’apparente efficacia di questa proposta che le organizzazio-ni armate riuscirono a costruirsi e a rafforzarsi.

D’altro canto, la convinzione che potesse essere proprio la violen-za a sbloccare quel processo rivoluzionario che dal 1968 sembrava sul punto di esplodere impedì ai dirigenti di un’organizzazione importan-te come lc di analizzare lucidamente tanti degli episodi sanguinosi che allora segnarono la lotta politica, e non consentì ai sostenitori di quel gruppo di tenersi lontani da pratiche che sarebbero sfociate, negli anni successivi, nel terrorismo praticato su vasta scala. Le riflessioni sviluppate da lc risultarono condizionate innanzitutto dall’esigenza di non condannare, in termini di principio, l’utilizzo «dell’azione di-retta illegale»33, ritenuta propria di tutti i movimenti rivoluzionari.

Da tale esigenza, tuttavia, dovette scaturire anche la convinzione che, in nome della legittimità astratta di azioni del genere, non potes-se essere criticata alcuna azione terroristica che concretamente venisse realizzata in quella fase e che apparisse ispirata a finalità rivoluzionarie. Era maturata, d’altro canto, la convinzione che si dovesse fare di tutto per provocare l’esplosione degli scontri decisivi, e per evitare in questo

32. Bravo, A colpi di cuore, cit., p. 230. 33. Sull’omicidio politico. Riflessioni “popolari” sulle dotte riflessioni del Manifesto,

in “Lotta Continua”, 23 maggio 1972.

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modo che la sinistra rivoluzionaria fosse costretta ad arretrare signifi-cativamente rispetto ai propri obiettivi. D’altronde, nell’immaginario di tanti giovani cos’altro erano quei tempi se non «tempi di legitti-mazione della violenza come levatrice della storia»?34 Di quei tempi, pertanto, si trattava di approfittare, prima che la trasformazione rivo-luzionaria si potesse dimostrare «impossibile»35.

Se la priorità era evitare che l’ondata di proteste rifluisse, la que-stione decisiva rispetto alla quale dovevano essere accantonati i ten-tennamenti era proprio «il problema della violenza rivoluzionaria»36 intesa in una chiave offensiva: le masse, in questo senso, dovevano es-sere sollecitate a fare i conti con l’utilizzo necessario di tale violenza; per questa ragione, anche un gruppo come lc considerò a lungo indi-spensabile «piegare» ogni azione armata che veniva realizzata dai vari nuclei armati «a un uso politico positivo», a prescindere dal fatto che le azioni in questione avessero un carattere terroristico.

L’esigenza era quella di “abituare le masse” al fatto che lo scontro politico dovesse essere affrontato armi alla mano; per questa ragione lc spiegava che anche iniziative non completamente condivise pote-vano risultare utili, soprattutto nei casi in cui esse suscitavano reazioni positive fra i lavoratori con i quali il gruppo era collegato. Ha riferito Luciano Pero, uno dei dirigenti di lc che già allora chiarì il suo dissenso nei confronti della linea insurrezionalista: «magari si riconosceva – che l’azione era sbagliata, ma non la si stroncava per non danneggiare l’Idea della rivoluzione»37.

In virtù di queste valutazioni, un’uccisione clamorosa come quella di Calabresi non solo non venne condannata da lc, ma venne esal-tata, perché non doveva essere considerata condannabile, in termini generali, l’“epurazione” di avversari considerati “pericolosi”. La pratica dell’epurazione, al contrario, poteva essere utilizzata dai rivoluzionari impossibilitati a «proporsi immediatamente la presa del potere», in quanto essa consentiva di «indebolirne gli ingranaggi» prima dello

34. B. Balzerani, Compagna luna, Feltrinelli, Milano 1998, p. 51. 35. Ibid. 36. Questa citazione e le successive sono tratte da Dalla discussione su Calabresi a

quella sulla lotta rivoluzionaria oggi, in “Lotta Continua”, 28 maggio 1972. 37. A. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978. Storia critica

di Lotta continua, Sperling & Kupfer, Milano 1998, p. 211.

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scontro decisivo, ma soprattutto in quanto consentiva di rifiutare «il richiamo e frustrante all’ora X, in cui, perché è stato scritto nei sacri testi, ci sarà “la lotta armata”».

Ancora una volta si ripresentava, pertanto, un’argomentazione già richiamata in altri testi già citati: le azioni violente, anche quelle terro-ristiche, potevano sembrare una risposta di una qualche efficacia alla delusione che rischiava di diffondersi a causa di una rivoluzione meno imminente di quanto parecchi avevano immaginati. Se la semplice at-tesa dell’“ora X” appariva smobilitante, la scelta di praticare la lotta armata senza rinviarla poteva sembrare in determinati ambienti un an-tidoto efficace al logoramento delle motivazioni. Sono emblematiche, a questo proposito, le parole di un ex militante fiorentino di po, Ste-fano Lepri, riferite al confronto politico in corso nel gruppo nel 1972: «intuivo che la voglia di “lotta armata” tra i compagni nasceva dalla stanchezza di un lavoro politico senza frutti»38.

Per queste ragioni, la diffusione del terrorismo che avrebbe carat-terizzato la seconda metà del decennio non può essere compresa sen-za una riflessione capace di mettere in connessione le forme di quella violenza con le frustrazioni determinate da un’evoluzione della lotta politica che non era stata prevista. L’area di consensi della sinistra ri-voluzionaria non era cresciuta con la rapidità e l’ampiezza che pure erano state irrealisticamente immaginate, e a un certo punto aveva ini-ziato a ridimensionarsi; tanti dei desideri di trasformazione che al suo interno si erano moltiplicati rimasero insoddisfatti: l’impossibilità di concretizzare il fortissimo desiderio di affermazione che si era diffu-so in quegli ambienti alimentò quell’esasperazione dei ragionamenti e quell’«indurimento militare»39 che resero possibile la confusione fra l’impegno rivoluzionario e la pratica terroristica.

Dopo il 1977 questa dinamica si sarebbe delineata con la massima chiarezza. Furono in modo particolare le br a dimostrarsi in grado di convincere e di reclutare quanti stavano perdendo rapidamente la fidu-cia nella possibilità di modalità d’azione che non fossero cospirative,

38. Intervista a Stefano Lepri, in A. Grandi, Insurrezione armata, bur, Milano 2005, p. 196.

39. L’espressione è di Giairo Daghini ed è presente in G. Borio, F. Pozzi, G. Rog-gero (a cura di), Gli operaisti. Autobiografie di cattivi maestri, DeriveApprodi, Roma 2005, p. 119.

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militari: quanti, in altri termini, si stavano convincendo che l’unica al-ternativa che restava alla lotta armata era «assistere alla lenta agonia di quel risveglio di protagonismo sociale»40 che aveva sconvolto gli anni precedenti e animato il loro immaginario.

La proposta che i brigatisti fecero circolare nell’area dell’estrema si-nistra, quella di concentrare tutte le forze disponibili nella costruzione di un vero e proprio partito combattente, riuscì ad apparire tanto più convincente quanto più si moltiplicavano in quella stessa area i motivi di disillusione generati dai fallimenti dei gruppi principali dell’estrema sinistra (po, lc ecc.). Ha scritto Bocca: «La lotta armata come ulti-ma scommessa: “L’ora o mai più” di Franceschini»41; per proseguire nell’impegno rivoluzionario, a quei militanti non sembrarono esserci più altre strade oltre a quella dell’«estremizzazione terroristica»42.

Il sempre più chiaro profilarsi, nella seconda parte degli anni Set-tanta, di una vera e propria sconfitta complessiva provocò la dissolu-zione di tanti dei gruppi della sinistra rivoluzionaria che sull’enfatiz-zazione della forza della classe operaia avevano costruito le proprie prospettive: le br, invece, dimostrarono una capacità di resistenza maggiore, perché avevano costruito il loro progetto sulla forza militare determinata dalle armi, forza in grado di esprimersi anche in contesti di conflittualità sociale declinante43. Naturalmente si sarebbero esau-rite – all’inizio degli anni Ottanta – anche le energie sulle quali le br potevano contare, ma la loro specializzazione terroristica aveva avuto il tempo di produrre l’illusione che l’auspicata esplosione della guerra civile fosse una questione che si sarebbe risolta su un terreno militare, non su quello sociale.

40. Balzerani, Compagna luna, cit., p. 51. 41. Bocca, Noi terroristi, cit., p. 27. 42. M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, il Mulino, Bologna 1998, p. 253. 43. Ha scritto con grande chiarezza Alberto Melucci: «La pratica sistematica

della violenza fino all’esito disperato del terrorismo è il risultato di un processo di decomposizione dei movimenti»; A. Melucci, L’invenzione del presente. Movimenti sociali nelle società complesse, il Mulino, Bologna 1991, p. 167 (i ed. 1982).

In un articolo pubblicato da “Lotta continua”, nel novembre del 1969, era scritto:

Che cosa significa questo frenetico attivismo fascista? A chi serve? Contro chi è diretto? Bisogna fare molta attenzione nel rispondere a queste doman-de. Anzitutto togliamoci dalla testa che la situazione di oggi assomigli a quel-la degli anni venti. [...] I padroni per questo hanno bisogno dei fascisti, per esorcizzare in qualche modo lo spettro delle dure lotte di massa che li colpi-scono, per far credere a questa categoria artificiale delle minoranze violente e dei gruppi teppistici nella quale devono rientrare sì i fascisti, ma soprattut-to le avanguardie proletarie, la sinistra operaia. [...] Il ricorso sporadico allo squadrismo fascista e la grande risonanza che gli viene data hanno appunto lo scopo di liquidare le punte più avanzate della lotta operaia e di spianare la strada al pci, tradizionale difensore dell’antifascismo e della democrazia, nella sua marcia di avvicinamento al potere1.

L’intervento cadeva in un momento particolarmente infuocato del dibattito politico: il 19 novembre, infatti, in occasione dello sciopero generale per la casa, si erano verificati duri incidenti durante una ma-nifestazione sindacale a Milano, che aveva visto l’adesione dei grup-pi extraparlamentari. Nel corso degli tafferugli perse la vita Antonio Annarumma, giovanissimo agente di polizia. Presto il paese precipitò in un’atmosfera plumbea e carica di timori. Si verificarono addirittura

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Parole come pietre. Verso la militarizzazione

della lotta politica nell’estrema sinistra*di Guido Panvini

* Riprendo, sintetizzo e approfondisco alcune riflessioni presenti nel mio studio Ordine nero, guerriglia rossa. La violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Set-tanta (1966-1975), Einaudi, Torino 2009.

1. Se il nemico ci attacca è un bene, non un male, in “Lotta Continua”, 2, i, 29 novembre 1969.

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clamorosi gesti di insubordinazione tra le forze dell’ordine. A Roma e a Milano, ad esempio, in alcune caserme di polizia, gli ufficiali tratten-nero a fatica alcuni agenti che avevano deciso di recarsi alle università occupate per compiere una spedizione punitiva2.

Il funerale di Annarumma fu l’occasione in cui tali tensioni s’ina-sprirono. A Milano una folla numerosa intervenne alle esequie. Il Mo-vimento sociale e diversi militanti neofascisti vi parteciparono dando vita a vari episodi d’intolleranza politica, che talvolta sconfinarono in veri e propri tentativi di linciaggio di alcuni appartenenti al movimen-to studentesco (tra cui Mario Capanna, salvato a stento dai poliziotti in borghese), che avevano deciso di partecipare ai funerali dell’agente ucciso per dissociarsi dagli scontri dei giorni precedenti3.

Si trattò del culmine della contromobilitazione dell’estrema destra, iniziata nel marzo del 1968 con gli assalti alle facoltà occupate dagli studenti, proseguita poi nei primi mesi del 1969 con uno stillicidio di azioni, condotte da singoli individui o da bande, in cui la violenza di piazza e di strada s’intrecciò con i piani di destabilizzazione dei grup-pi oltranzisti. Piani che trovarono una loro prima realizzazione tra la primavera e l’estate del 1969, con gli attentati del 25 aprile alla stazione centrale e alla Fiera di Milano, e con le bombe fatte scoppiare, nella notte fra l’8 e il 9 agosto, su otto treni in diverse località del Nord, del Centro e del Sud d’Italia.

Il bilancio era stato grave: centinaia d’incidenti, decine di sedi di partiti di sinistra assalite e danneggiate, l’inasprimento delle tensio-ni nelle scuole e nelle università sempre più frequentemente teatro di scontri violenti. Il 27 febbraio 1969 perse la vita Domenico Congedo, un giovane che precipitò da un cornicione da dove stava scappando, durante un attacco dei neofascisti alla facoltà di Magistero occupata, dopo due giorni di aspri scontri che si verificarono a Roma in occasio-ne della visita del presidente statunitense Richard Nixon4. Il 27 ottobre era stata la volta di Cesare Pardini, colpito a morte da un candelot-to sparato dalla polizia nel corso di una manifestazione antifascista

2. G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzel-li, Roma 2003, pp. 356-62.

3. Per la testimonianza di Mario Capanna cfr. Formidabili quegli anni, Rizzoli, Milano 1988, pp. 81-3.

4. F. Socrate, Una morte dimenticata e la fine del Sessantotto, in “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 1, 2007, pp. 157 ss.

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svoltasi a Pisa in risposta ad alcune violenze perpetrate da estremisti di destra. La tensione si era aggiunta a tensione: da tempo ormai, so-prattutto in ambito studentesco, i neofascisti si erano resi responsabi-li di gravissimi episodi di violenza, come in occasione della morte di Paolo Rossi, il 27 aprile 1966, uno studente socialista, precipitato da un muretto dalla facoltà di Lettere di Roma, dove si era appoggiato sentendosi male dopo essere stato colpito da un picchiatore nero5. A questo si aggiunse l’impatto emotivo suscitato dalla recrudescenza de-gli interventi brutali da parte delle forze dell’ordine in occasione delle manifestazioni studentesche e del mondo del lavoro, con la morte, il 2 dicembre 1968, di due braccianti ad Avola: era la prima volta dopo sei anni, quando a Milano, durante una manifestazione per la crisi missili-stica di Cuba, il 27 ottobre 1962, i mezzi della polizia avevano travolto e ucciso lo studente comunista Giovanni Ardizzone6.

L’eccidio di Avola mise in luce le contraddizioni che avevano ca-ratterizzato i governi di centro-sinistra nella gestione dell’ordine pub-blico. Si erano raggiunti risultati importanti, se si pensa alla moria di manifestanti e di lavoratori degli anni Cinquanta e dei primi anni Ses-santa. Tuttavia l’ordine pubblico costituiva ancora un nodo inestrica-bile a causa della struttura del sistema politico italiano, condizionato dalle logiche della guerra fredda e dalla presenza, nelle istituzioni e in alcune componenti degli apparati di sicurezza, di un personale forma-tosi sotto il regime fascista e ostile alle regole del gioco democratico7.

Tali tensioni s’intrecciavano ad un conflitto sociale di vaste propor-zioni, emerso in tutta la sua portata nell’“autunno caldo” del 1969 nelle fabbriche delle città industriali del Centro e del Nord della penisola. Si esasperarono, così, i timori e le paure di una società in continua trasfor-mazione, già provata dalla protesta studentesca del 1967-68. Il conflit-to sociale andò ad infrangersi su un sistema politico fragile, reso ancora più vulnerabile dalla crisi degli esecutivi di centro-sinistra. Sembrava-no non esserci, infatti, alternative né verso destra, dopo l’esperimento

5. P. Bernasconi, Alle radici del ’68, in M. De Nicolò (a cura di), Dalla trincea alla piazza. L’irruzione dei giovani nel Novecento, Viella, Roma 2011, pp. 375-90.

6. In un passaggio di Ordine nero, guerriglia rossa (cit., p. 15) ho scritto, invece, che Ardizzone era stato ucciso dal fuoco delle forze dell’ordine. Si è trattato di una svista: ringrazio Vittorio Vidotto per la segnalazione.

7. D. della Porta, H. Reiter, Polizia e protesta. L’ordine pubblico dalla Liberazione ai «no global», il Mulino, Bologna 2003, pp. 145-98.

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del governo Tambroni fallito in seguito alla mobilitazione antifascista del luglio 1960, né verso sinistra, tanto più che il Partito comunista, con le elezioni politiche del 19 maggio 1968, aveva incrementato il suo peso elettorale, suscitando una reazione di timore e d’inquietudine nella parte di popolazione più moderata e che guardava con preoccu-pazione alle difficoltà che attanagliavano il paese.

Questo il quadro d’insieme in cui s’inseriva la riflessione di “Lotta Continua”. Colpisce, tuttavia, a uno sguardo attento, la gerarchia delle priorità indicate nell’articolo. Evitare, innanzitutto, d’ingigantire il pe-ricolo proveniente dall’estrema destra, in un momento in cui, invece, nei partiti della sinistra storica, pci e psi in primo luogo, e in alcuni segmenti della nascente sinistra extraparlamentare, in particolar modo nell’area vicina all’editore Giangiacomo Feltrinelli, la paura nei con-fronti di un possibile colpo di Stato era molto diffusa. Dopo il golpe dei colonnelli in Grecia nel 1967 e le rivelazioni sul “caso sifar” dello stes-so anno – in relazione al quale una commissione parlamentare d’inchie-sta indagava proprio nel 1969 – questi timori si erano via via ingigantiti. “Lotta Continua”, in sintonia con l’ala operaista della sinistra rivoluzio-naria, accordava scarso credito a questa ipotesi, ritenendola poco proba-bile. L’attenzione, infatti, doveva concentrarsi sul conflitto di fabbrica e sul rischio che la campagna sugli “opposti estremismi” potesse andare a discapito delle avanguardie operaie, facilitando, addirittura, la compat-tazione del fronte riformista e favorendo un possibile ingresso nell’area di governo del Partito comunista. L’importanza dell’antifascismo non veniva negata – il periodico “Lotta Continua” uscì a ridosso della morte di Cesare Pardini – tuttavia non si voleva cedere al «ricatto» dei «pa-droni» che secondo Lotta continua lasciavano mano libera all’estrema destra per indurre la «sinistra ufficiale» a normalizzare il conflitto so-ciale, impedendone uno sbocco rivoluzionario8.

Tale linea fu ribadita all’indomani della strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. In un intervento pubblicato a ridosso degli at-tentati si leggeva infatti:

Gli stessi padroni sono divisi tra loro. Alcuni, quelli più deboli, non vedono altra via d’uscita se non la vendetta contro gli operai, la repressione, il governo

8. L’unità del proletariato prima di tutto, in “Lotta Continua”, 2, i, 29 novembre 1969.

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duro. Per questi anche i sindacati e il pci restano nemici giurati. [...] Un’altra ala capitalista, quella più forte, punta al contrario senza incertezze all’alle-anza di governo col pci, e al riconoscimento pieno del sindacato. La “nuova maggioranza”, che è da sempre l’obiettivo strategico del pci – la comparteci-pazione piena al potere borghese – è oggi un’arma importante e necessaria nell’arsenale capitalista. Essa deve rispondere contemporaneamente a due fini. Il primo è quello di frenare e disorientare la lotta di massa, facendo appa-rire ai lavoratori una loro vittoria l’ingresso del pci al governo. Il secondo è quello di accelerare un processo di rinnovamento capitalistico9.

Questi documenti mi sembrano significativi poiché aprono una serie di questioni inerenti la genealogia e il processo di radicalizzazione del-la violenza politica nell’estrema sinistra.

È opportuno specificare, tuttavia, come tali problemi siano stati il risultato della somma di molteplici fattori. Basti pensare all’influenza del contesto internazionale sulla nascente sinistra extraparlamentare nell’elaborazione di un’originale teorizzazione dell’uso della violenza. Dopo il proliferare di guerre e crisi che dalla seconda metà degli anni Cinquanta avevano coinvolto l’Asia, l’Africa, il Medio Oriente e l’A-merica Latina, si consolidò infatti l’idea, filtrata attraverso la traduzio-ne dei testi della rivoluzione algerina e cubana e della guerriglia vie-tnamita, che la superiorità schiacciante delle superpotenze, in termini di tecnologia e capacità militari, non fosse un deterrente sufficiente per arginare i movimenti rivoluzionari. Questi avrebbero dovuto co-ordinarsi, dando vita ad un nuovo internazionalismo proletario, così da incrinare la coesistenza pacifica tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovie-tica, e nel contempo promuovere un’unica strategia insurrezionale su scala globale. Un convincimento che crebbe in seguito alla soluzione della crisi missilistica di Cuba nell’ottobre del 1962 che aveva dimo-strato come l’antagonismo dei due blocchi non dovesse risolversi ne-cessariamente in un conflitto nucleare. Così, nella seconda metà degli anni Sessanta, l’esplodere della contestazione studentesca in Europa e in Nord America si accompagnò al convincimento che la rivoluzione fosse realizzabile anche nel cuore dell’Occidente.

Occorre, dunque, una riflessione sulle periodizzazioni impiegate per spiegare e ricostruire la scelta della violenza nell’estrema sinistra,

9. È il momento di fare i conti, in “Lotta Continua”, 1, ii, 17 gennaio 1970; cfr. anche Bombe, governo e pace sociale, ivi, 4, ii, 14 febbraio 1970.

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fatta ricadere principalmente ai primi anni Settanta come reazione alla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Questo evento, inten-diamoci, fu un vero e proprio spartiacque, senza la comprensione del quale è impossibile comprendere il processo di militarizzazione della lotta politica nella sinistra extraparlamentare e la nascita dei gruppi ar-mati. Le radici di questo processo, tuttavia, affondavano indietro negli anni. Assumendo questa prospettiva non si vuole ridimensionare l’im-portanza delle bombe del 12 dicembre10. Al contrario, solo partendo dal presupposto che gli attentati di Milano e Roma furono il culmine di un piano di destabilizzazione, che trovò diversi interpreti ed ese-cutori, principalmente in gruppi terroristici neofascisti supportati da cordate interne all’intelligence italiana e statunitense, e non un evento improvviso, saremo in grado di cogliere il salto di qualità introdotto nella lotta politica dalla strage di piazza Fontana. Chi organizzò gli attentati, infatti, tenne in conto la molteplicità di reazioni che essi po-tevano suscitare nella società italiana. Tra queste l’accelerazione verso l’adozione di repertori radicali nei gruppi e nei movimenti che erano già predisposti alla violenza o avevano già annunciato il loro impiego.

Bisogna ripartire, innanzitutto, dagli anni Sessanta, che furono un vero e proprio laboratorio di idee e di pratiche poi dispiegatesi nel de-cennio successivo. Su questo punto, ormai, convergono diverse rifles-sioni e ricerche in ambito storiografico che si aggiungono al dibattito da lungo tempo in corso nelle scienze sociali11. Si dovrebbe tentare, tut-tavia, di costruire una periodizzazione interna agli stessi anni Sessanta per stabilire un punto d’intersezione tra i processi di lunga e media du-rata alle radici della scelta della violenza nella sinistra radicale. A partire dall’influenza della guerra totale e della guerra civile sulle modalità del-

10. La problematizzazione di questo nodo suscita spesso, anche in sede storio-grafica, reazioni di tipo identitario incentrate sull’accusa di voler minimizzare o ad-dirittura negare la portata degli attentati del 12 dicembre 1969, quando in realtà il confronto tra memoria e la molteplicità di fonti oggi a disposizione per lo studio della strategia della tensione non può che non essere d’aiuto per evidenziare la centralità di quegli eventi nella storia repubblicana. Per una critica a questa impostazione cfr. M. Grispigni, La strage è di stato. Gli anni Settanta, la violenza politica e il caso italiano, in S. Neri Serneri (a cura di), Verso la lotta armata. La politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta, il Mulino, Bologna 2012, p. 114.

11. Sulla dimensione di lunga durata da ultimo cfr. A. Ventrone, Vogliamo tutto. Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione 1960-1988, Laterza, Roma-Bari 2012.

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la lotta politica nel secondo dopoguerra, il peso dell’anticomunismo, il mito della Resistenza tradita e della rivoluzione incompiuta nell’o-rizzonte culturale dei partiti e dei movimenti di sinistra, le logiche del-la guerra fredda e la loro ricaduta nella percezione e nella gestione del conflitto sociale, il problema della continuità o meno, infine, con le isti-tuzioni del regime fascista. A questi nodi vanno aggiunti i cambiamenti che incominciarono a delinearsi a inizio decennio: la fine del centri-smo, la nascita del centrosinistra, l’avvento della società dei consumi, l’allargamento dei diritti sociali e civili, le mutazioni del capitalismo italiano, la ristrutturazione interna del mercato del lavoro, l’emergere di inedite forme di conflitto sociale, l’ingresso sulla scena pubblica delle nuove generazioni12. In questa prospettiva, il rapporto dei movimenti e della sinistra extraparlamentare con la tradizione antifascista diviene un tema dirimente13. Il luglio 1960, com’è noto, portò all’incontro tra la generazione della Resistenza con quelle successive che non avevano avuto esperienza diretta di quegli anni o non ne conservavano memo-ria14. Ne conseguì una riscoperta dell’antifascismo, in parziale sintonia, tra l’altro, con quanto stava avvenendo in parte della società italiana per iniziativa della classe politica. Si trattò di un confronto complesso non solo per la molteplicità di tradizioni che si confrontavano – la comu-nista, la cattolica, l’azionista, la laico-socialista ecc. – ma anche per la difficoltà del dialogo intergenerazionale rispetto all’eredità della tradi-zione antifascista15. I funerali di Paolo Rossi, cui partecipò l’intero arco dei partiti costituzionali, furono un’imponente cerimonia civile volta a ribadire l’unità delle forze antifasciste e a sancire quella tra le vecchie e le nuove generazioni, ma rappresentarono al contempo una delle ultime occasioni d’incontro fra la politica istituzionale e i giovani, ormai pros-simi alla rivolta. Già nel maggio del 1966, ad esempio, si poteva leggere su “Mondo nuovo”, l’organo del Partito socialista di unità proletaria che da poco si era scisso dal psi, in quel frangente cassa di risonanza della

12. Sull’ambivalenza di questa stagione dell’Italia repubblicana cfr. M. Almagisti, La qualità della democrazia in Italia. Capitale sociale e politica, Carocci, Roma 2011.

13. A. Rapini, Antifascismo e cittadinanza. Giovani, identità e memorie nell’Italia repubblicana, Bononia University Press, Bologna 2005.

14. C. Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotte di classe in Italia (1943-1976), Odradek, Roma 2003, pp. 141-264.

15. F. Focardi, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italia-no dal 1945 a oggi, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 41-55.

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nascente sinistra extraparlamentare: «molti di coloro che sono stati ac-canto a noi in questi giorni e ai quali noi siamo stati vicini possono rive-larsi nemici o infidi compagni di strada»16. Si spiega, in questo modo, il rapporto difficile degli studenti del Sessantotto con la tradizione re-sistenziale, rimasta sottotraccia nella cultura dei movimenti giovanili17.

Questa posizione rifletteva il timore che la memoria della lotta anti-fascista venisse egemonizzata dalle forze politiche moderate. Si sottoli-neava, per reazione, il carattere rivoluzionario di quell’esperienza, rifa-cendosi al mito della Resistenza tradita, già diffuso in parte della base dei partiti di sinistra. Credo, tuttavia, che questa spiegazione non sia sufficiente per spiegare la repentinità con la quale, in ambito extraparla-mentare, ci si smarcò dalla lettura dell’antifascismo come valore condi-viso e punto di raccordo tra le forze politiche dell’arco costituzionale. A spingere in questa direzione contribuì, a mio avviso, una riflessione con-divisa tra le diverse correnti della nuova sinistra. Negli anni Sessanta, infatti, era molto diffuso il timore che il centrosinistra, il mondo del la-voro e quello dell’industria potessero raggiungere un compromesso che permettesse di modernizzare il paese attraverso la normalizzazione del conflitto sociale e la stabilizzazione del quadro politico. Se ciò fosse ac-caduto il Partito comunista e la classe operaia sarebbero stati inevitabil-mente, con linguaggio dell’epoca, “integrati nel sistema”. Ciò che stava accadendo in Italia, secondo la nuova sinistra, era conseguenza delle po-litiche del “neocapitalismo”. Con tale termine s’intendeva la tendenza del capitalismo nel secondo dopoguerra – in realtà già dispiegatasi negli anni Trenta, prima del conflitto mondiale – a eliminare l’ineguaglian-za sociale e la povertà, grazie a politiche di distribuzione del reddito e della ricchezza. La domanda che allora si poneva era lacerante: quale via bisognava seguire nei paesi a capitalismo avanzato per edificare il socia-lismo, quando in essi l’accesso di massa ai consumi e la prosperità mate-riale sembravano interessare tutta la popolazione, rendendo obsoleto il conflitto di classe? Questo angoscioso quesito, posto per la prima volta dalla new left anglosassone e in Italia dall’operaismo, sorgeva, tuttavia, a ridosso del boom economico quando ancora non v’era consapevolezza

16. Si chiude nel teppismo il capitolo neofascista, in “Mondo nuovo”, 19, viii, 8 maggio 1966.

17. Cfr. P. Ghione, Il ’68 e la Resistenza, in N. Gallerano (a cura di), La Resistenza tra storia e memoria, Mursia, Milano 1999, p. 134.

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degli squilibri economici e sociali che, nonostante la grande crescita, si stavano verificando in Italia e nel resto delle democrazie occidentali18.

In questa prospettiva, la battaglia antifascista, ripresa fin dalla se-conda metà degli anni Sessanta dai partiti di sinistra e dalle associa-zioni partigiane di fronte alla recrudescenza delle violenze perpetrate dall’estrema destra, fu avvertita come una trappola per disinnescare la tensione rivoluzionaria tra gli operai e gli studenti. Significativamente le teorizzazioni più esplicite sull’utilizzo della violenza avvennero nelle correnti terzomondiste e nell’operaismo19. In quest’ultimo filone, ad esempio, era prevalente l’idea che la violenza avrebbe dovuto rivolgersi contro il riformismo, ritenuto il principale nemico da abbattere. Come scrisse Mario Tronti, uno dei più importanti esponenti dell’operaismo, in un articolo teorico del 1964, un’«epoca nuova della lotta di classe» stava «per aprirsi».

Gli operai – proseguiva – l’hanno imposta ai capitalisti con la violenza og-gettiva della loro forza di fabbrica organizzata. L’equilibrio del potere sembra solido; il rapporto di forze è sfavorevole. [...] là dove più potente è il dominio del capitale, più profonda si insinua la minaccia operaia. [...] L’operazione storica del capitalismo italiano, l’accordo politico organico tra cattolici e so-cialisti, può addirittura riaprire un modello classico di processo rivoluziona-rio, se verrà a restituire agli operai italiani un partito operaio, ormai costretto ad opporsi direttamente al sistema capitalistico, nella fase di sviluppo demo-cratico della sua dittatura di classe20.

Queste tesi furono sostenute per lungo tempo. Nel marzo del 1969, ad esempio, sul periodico “Operai e studenti”, in un articolo significativa-mente intitolato Contro il riformismo, si leggeva:

Il tentativo di recupero dei movimenti di classe in un nuovo equilibrio di potere passa per la capacità che il capitale ha di istituzionalizzare a tal punto le organizzazioni del movimento operaio, da farne uno strumento formale di integrazione della forza-lavoro sociale nel processo di socializzazione del

18. G. Panvini, La nuova sinistra, in M. Gervasoni (a cura di), Storia delle sinistre nell’Italia repubblicana, Costantino Marco Editore, Lungro di Cosenza 2011, pp. 213-40.

19. Sui diversi filoni culturali presenti nell’elaborazione della violenza cfr. l’an-tologia di testi curata da R. Massari, Adriano Sofri, il ’68 e il Potere operaio pisano, Massari, Bolsena (vt) 1998.

20. M. Tronti, Lenin in Inghilterra, in “La Classe”, 1, i, gennaio 1964.

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capitale. [...] Bisogna che la trappola riformista non scatti; il compito che ci aspetta in questa fase, non è tentare di evitare la nuova maggioranza, tirare i comunisti per la giacca tentando di prevaricare una situazione che è ormai tutta decisa; il compito del momento, è fare in modo che questa nuova mag-gioranza sia solo un affare di vertice privo di significato21.

Ne conseguiva l’idea che la violenza andasse utilizzata in senso offen-sivo22. Non solo bisognava rispondere agli interventi repressivi delle forze dell’ordine rilanciando la violenza operaia, ma bisognava con-centrare gli attacchi lì dove la tensione sociale era al culmine, a partire dalle fabbriche23.

Lo scoppio della contestazione studentesca del 1968 giocò un ruolo nel processo di radicalizzazione della violenza? Per molti aspetti credo si possa rispondere affermativamente a tale domanda. Forme di violen-za organizzata – servizi d’ordine rigidamente inquadrati, l’impiego di molotov, l’uso delle sassaiole ecc. – erano comparse già durante i pri-mi mesi della protesta24. D’altronde, il Sessantotto era stato preceduto da numerosi episodi di conflittualità politica e sociale, come i moti di piazza del luglio 1960 o la rivolta di piazza Statuto del 7 luglio 1962. Né erano mancate le teorizzazioni esplicite della violenza prima dell’esplo-dere della protesta. Il tema della violenza rivoluzionaria era presente, inoltre, come espressione di contraddizioni insanabili nel linguaggio e nella retorica dei partiti storici della sinistra e dei sindacati25. Nel dicembre del 1968, ad esempio, Mauro Rostagno e Renato Curcio, in quegli anni esponenti di spicco del movimento studentesco di Trento, scrissero che la violenza doveva assumere la funzione di «innesco deto-

21. Contro il riformismo, in “Operai e studenti”, 2, i, 25 marzo 1969.22. Fra i tanti interventi pubblicati in quei mesi cfr. Sì alla violenza operaia, in

“Potere Operaio”, 7, i, 5 settembre-29 ottobre 1969; fiat. La violenza operaia come strumento di lotta, ivi, 8, i, 13-20 novembre 1969 e I soli assassini sono i padroni, ivi, 10, i, 27 novembre-3 dicembre 1969.

23. Contro i ghetti della giustizia italiana. Una violenza focalizzata, in “La Classe. Operai e studenti nella lotta”, 1, i, 1° maggio 1969, e La scadenza della violenza, ivi, 3, 16 maggio 1969.

24. Contro la violenza, violenza, in “La Sinistra”, 10, iii, 16 marzo 1968, e Le armi per l’autodifesa, ibid.

25. V. Vidotto, Violenza politica e rituali della violenza, in A. Ventrone (a cura di), I dannati della rivoluzione. Violenza politica e storia d’Italia negli anni Sessanta e Settanta, eum, Macerata 2010, pp. 41-59.

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natore. Cioè un’esaltazione dei momenti di conflitto [...] gli scontri di barricate, gli scontri di piazza, possono allora veramente esercitare una funzione di detonatore dentro le lotte sociali e aprire dentro le pieghe del tessuto sociale degli squarci veri e propri»26.

Risulta problematico affermare, dunque, come di recente ha soste-nuto lo storico Giovanni De Luna, che gli studenti abbiano incontrato la violenza senza averla teorizzata. Per poi proseguire: «A conferma-re questa sorta di naturale “spontaneità” c’è un elemento significati-vo: l’assoluta mancanza di forze politiche organizzate che potessero far confluire nel movimento, dall’esterno, una teoria della violenza (operaisti e marxisti-leninisti, oltre al pci ovviamente, bollavano come piccolo borghese ogni accenno alla radicalizzazione delle forme di lotta)»27. I confini tra il movimento studentesco e la nascente sinistra extraparlamentare erano, in realtà, assai labili, sebbene fossero soggetti politici non sovrapponibili. Nella conflittualità di piazza e negli scon-tri con gli avversari politici questi confini divennero sottili perfino con i comunisti. Non si dimentichi che il Partito comunista italiano instau-rò con il movimento un rapporto complesso, non sempre dialogante, ma che costituì un unicum a livello europeo, se si pensa, ad esempio, alle chiusure dei comunisti francesi nei confronti della contestazio-ne. In occasione della “battaglia” di Valle Giulia del 1° marzo 1968, ad esempio, il pci si era schierato dalla parte degli studenti, proprio quan-do questi avevano adottato repertori violenti.

Ha ragione De Luna, tuttavia, a sostenere che l’importanza del Ses-santotto va ben oltre la sola dimensione della violenza28. Una consi-derazione che andrebbe tenuta in conto per la storia dei movimenti e della sinistra extraparlamentare per tutto il corso degli anni Settanta. Il Sessantotto, infatti, la cui ampiezza e portata era difficile prefigurare, sorprese e mise in crisi gli stessi gruppi estremisti per la carica liberta-ria, antidogmatica e radicale che aveva caratterizzato la protesta degli studenti. Bisognerebbe, quindi, “sciogliere” l’anno 1968, ripercorren-done le diverse scansioni per accorgersi che l’esito violento di quella

26. Cfr. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa, cit., p. 37. 27. Cfr. G. De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza,

sconfitta, memoria, Feltrinelli, Milano 2009, p. 71.28. In sintonia con le considerazioni di De Luna è il giudizio di G. Moro in Anni

Settanta, Einaudi, Torino 2007, p. 6.

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stagione non era affatto scontato o almeno non lo era nelle forme e nelle proporzioni che lo avrebbero caratterizzato negli anni seguenti.

Il 1969 fu da questo punto di vista un vero e proprio spartiacque29. Il conflitto nelle fabbriche raggiunse livelli assai preoccupanti, per poi espandersi ad altri contesti sociali. Ne conseguì una polarizzazione del-la società italiana. Incominciò allora a manifestarsi la tendenza di una parte della popolazione, tradizionalmente orientata verso la Demo-crazia cristiana e le altre forze moderate, a rendersi disponibile verso un’opzione politica più estrema. Quest’erosione era stata la conseguen-za dell’abile strategia impressa al Movimento sociale dal nuovo segreta-rio Giorgio Almirante. In poco tempo il msi era divenuto il principale punto di riferimento dell’arcipelago neofascista, scendendo sul terreno della lotta violenta, ma allo stesso tempo proponendosi come bastione dell’anticomunismo e difensore dell’ordine pubblico, puntando ad in-tercettare in questo modo i ceti medi spaventati dalla crisi.

La conflittualità sociale e di fabbrica divenne, d’altra prospettiva, il naturale approdo dei movimenti che tra l’estate e l’autunno del 1968 avevano manifestato le prime serie difficoltà a mantenere alto il livello di mobilitazione collettiva e di partecipazione alle proprie battaglie. Le principali formazioni della sinistra extraparlamentare nacquero proprio a cavallo di questo passaggio, quando gli studenti tentarono l’incontro con gli operai di fabbrica, sebbene il processo di formazione della sinistra rivoluzionaria, come abbiamo visto, aveva avuto una ge-stazione più lunga. Le difficoltà incontrate dalle organizzazioni sinda-cali tradizionali nella gestione del conflitto di fabbrica permisero che si creasse uno spazio marginale ma significativo di agibilità politica per i nuovi gruppi. In questo frangente, quando la mobilitazione operaia raggiunse il culmine con l’autunno caldo del 1969, si verificarono due importanti cambiamenti nell’estrema sinistra. Innanzitutto, la con-vinzione che si potesse competere con la dirigenza dei sindacati per la guida del movimento operaio e al contempo che fosse possibile con-tendere ai partiti storici della sinistra la loro base militante. In secondo luogo, vi era la convinzione diffusa che la conflittualità sociale potesse trovare uno sbocco rivoluzionario. Sui tempi di questo processo iniziò

29. N. Balestrini, P. Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977. La grande ondata rivoluzio-naria e creativa, politica ed esistenziale, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 278-348.

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allora un lungo dibattito che avrebbe accompagnato la sinistra extra-parlamentare per tutto il corso del decennio.

Si trattava di convincimenti non del tutto privi di fondamento, ma che non avevano alle spalle un’approfondita analisi sociale, se si pensa alla composizione del sistema industriale italiano, dove la grande indu-stria era affiancata da innumerevoli imprese a carattere familiare che per quanto attraversate da fenomeni conflittuali si stavano espandendo, proponendosi come futuro modello produttivo del paese30. Gli operai e la base dei partiti di sinistra, però, si erano mostrati sensibili alle istanze provenienti dai movimenti e dai gruppi. Il dibattito nelle sezioni comu-niste sulla radiazione dei promotori della rivista “il manifesto”, nel no-vembre del 1969, era stato emblematico a questo proposito, così come la diffusione delle idee maoiste in alcune federazioni del pci, come a Padova, aveva suscitato molta preoccupazione nella dirigenza del parti-to. Tuttavia questi fenomeni si rivelarono transitori o per lo meno non in grado di incidere sulla struttura e sulla strategia dei partiti. Tanto più che il 29 dicembre 1969 veniva firmato il contratto dei metalmeccanici. I sindacati ottennero molto, riguadagnando la gestione della conflittua-lità operaia attraverso l’adozione della linea dell’“anticipo strategico”, in altre parole un avamposto di istanze da estendere agli operai e alle altre categorie di lavoratori. Di fronte a questa decisione, come vedremo, i gruppi extraparlamentari persero rapidamente influenza e si arroccaro-no nella denuncia della firma degli accordi31.

Fu un vero e proprio spiazzamento strategico che metteva in di-scussione molti dei postulati su cui si era costruita l’estrema sinistra. L’impatto di questo cambiamento provocò molteplici reazioni, che an-drebbero ricostruite in merito alla traiettoria compiuta da ogni singolo gruppo. Tuttavia, si possono riscontrare, nonostante l’eterogeneità del-le posizioni che si confrontavano, alcune tendenze comuni. La necessità di allargare il conflitto dalle fabbriche ad altri teatri di scontro sociale, ad esempio, la scelta della violenza come risorsa strategica per mantene-

30. Su questo tema cfr. le considerazioni di P. Terhoeven, Germania e Italia nel «decennio rosso»: per un’introduzione, in C. Cornelißen, B. Mantelli, P. Terhoeven (a cura di), Il decennio rosso. Contesto sociale e conflitto politico in Germania e in Italia negli anni Sessanta e Settanta, il Mulino, Bologna 2010, p. 26.

31. G. Panvini, «Lotta continua» e i terrorismi di sinistra in Italia (novembre 1969-marzo 1978), in M. Dondi (a cura di), I neri e i rossi. Terrorismo, violenza e infor-mazione negli anni Settanta, Edizioni Controluce, Nardò (le) 2007, pp. 132-3.

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re alto il tasso di mobilitazione dei movimenti ed infine il corto circuito teorico nel giustificare l’inevitabilità dello sbocco rivoluzionario della conflittualità sociale, i cui tempi di realizzazione, tuttavia, rimanevano un’incognita32. Quest’ultimo punto rappresentò una contraddizione carica di conseguenze, giocando un ruolo importante nel processo di militarizzazione della lotta politica che maturò negli anni successivi.

La strage di piazza Fontana, la morte di Giuseppe Pinelli, l’arresto di Pietro Valpreda e l’ondata repressiva che si abbatté sui movimen-ti introdussero una sostanziale modificazione negli indirizzi politici dell’estrema sinistra. A mio avviso, tuttavia, le conseguenze di questi eventi non furono da subito visibili. Vi è, infatti, un significativo slitta-mento temporale, riconducibile alle campagne elettorali per le elezioni regionali del 1970 (le prime nella storia dell’Italia repubblicana) e per le elezioni amministrative del 1971, quando i cambiamenti intercorsi nelle retoriche della violenza e nei repertori d’azione dei principali gruppi extraparlamentari divennero evidenti.

Entrambe le tornate elettorali furono occasioni di incidenti, princi-palmente come risultato della strategia adottata dal msi di trasformare i comizi e le manifestazioni di piazza in occasione di scontro, innescando la reazione dei partiti di sinistra e delle associazioni antifasciste. I gruppi extraparlamentari si presentarono divisi all’appuntamento elettorale: al centro delle polemiche era la questione se partecipare o meno al voto, e se questo fosse da considerarsi un cedimento alla “democrazia borghese” o, invece, componente della strategia rivoluzionaria. La prospettiva di fondo rimaneva, tuttavia, l’opposizione senza sosta al centrosinistra, all’i-potesi di allargamento del governo al pci e a quella d’integrazione della classe operaia nel sistema capitalistico. Scrisse, ad esempio, “Lotta Conti-nua”: «una più avanzata democrazia non vuol dire altro che una maggior corresponsabilizzazione del movimento operaio ufficiale – dai sindacati al pci/psiup – nella repressione dell’autonomia operaia [...] mai come oggi, di fronte al rafforzamento dell’autonomia proletaria, l’identità tra democrazia borghese e repressione autoritaria è stata chiara»33. I neofa-scisti non erano ancora riconosciuti, dunque, come il nemico principale, ma la campagna elettorale rappresentò comunque l’occasione per attivare

32. Organizzazione di fabbrica e organizzazione generale, in “Lotta Continua”, 2, ii, 31 gennaio 1970.

33. Governi e lotta di classe, in “Lotta Continua”, 8, ii, 24 marzo 1970.

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momenti di scontro in tutto il paese. Lo scontro con l’estrema destra, in-fatti, avrebbe preparato le masse alla prospettiva della lotta armata contro lo Stato, anche se questa possibilità era giudicata non imminente e, co-munque, tale da dover essere rimandata a un indeterminato futuro.

Fu nel corso di queste campagne elettorali che i gruppi della sini-stra extraparlamentare organizzarono su larga scala i primi servizi d’or-dine, comparsi sporadicamente negli anni precedenti. Quantunque ancora su un terreno di scontro di piazza, l’estrema sinistra riuscì in breve tempo a mettere in piedi una possente macchina organizzativa, diversa, nelle forme e nei repertori, dalle tradizionali espressioni della mobilitazione di piazza dei partiti di sinistra, del movimento operaio e persino degli studenti del 1968. Questa sterzata ideologica e organiz-zativa fu, tuttavia, il riflesso della prima grande sconfitta subita dalla sinistra radicale dopo la conclusione dell’autunno caldo. Proprio nel-le fabbriche l’influenza dei piccoli gruppi aveva iniziato rapidamente a declinare, dopo l’accordo sul contratto dei metalmeccanici firmato a fine dicembre 1969 e con l’adozione dello statuto dei lavoratori nel maggio del 1970, espressione del rinnovato slancio riformatore del go-verno di centrosinistra. Pur mantenendo una presenza costante fra gli operai, i gruppi furono per tal via costretti a individuare nuovi settori d’intervento nella società. L’antifascismo cominciò così a declinarsi come il terreno più adatto per proseguire una politica rivoluzionaria.

Gli incidenti durante i comizi del msi, la radicalizzazione dei re-pertori impiegati nello scontro con l’estrema destra – le aggressioni ai singoli, le devastazioni delle sedi avversarie, l’uso della gogna ecc. –, lo spostamento delle indagini giudiziarie per la strage di piazza Fontana sulla “pista nera”, i primi lavori di controinformazione sugli attentati condotti assieme ai giornalisti democratici – nel giugno del 1970 fu pubblicato il libro La strage di Stato, divenuto un caso editoriale, con migliaia di copie vendute34 – spinsero gran parte dell’estrema sinistra a puntare sull’antifascismo come il terreno più adatto per rilanciare la lotta rivoluzionaria. Questo passaggio, tuttavia, fu graduale, anche perché alcune realtà della sinistra extraparlamentare, come Potere Operaio, guardarono con scetticismo alla lotta antifascista35.

34. A. Giannuli, Bombe ad inchiostro, Rizzoli, Milano 2008.35. Strategia rivoluzionaria degli obiettivi. Per ricostruire il partito della rivoluzio-

ne comunista, in “Potere Operaio”, 27, giugno-luglio 1970.

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La scelta di dar vita ad un “antifascismo militante”, tuttavia, subì un’improvvisa accelerazione. Il 12 novembre 1970, sulle colonne di “Lotta Continua”, comparve un manifesto programmatico dell’antifa-scismo militante, intitolato significativamente Liquidare i fascisti, chi li manda, li paga, li protegge. Basta con l’opportunismo, pacifismo, legalita-rismo. Seguì una lettera indirizzata “ai partigiani e ai compagni”, nella quale si specificavano i compiti della nuova lotta antifascista:

Non si tratta di fare dell’«antifascismo» o di rievocare e commemorare un qualcosa del passato. Non si tratta di denunciare quanto di fascista è rimasto nelle strutture, nelle istituzioni, nei gruppi di potere capitalista, finanziario, militare, giudiziario, governativo e clericale [...] Si tratta invece di ben altro. Senza passato, senza patria, senza niente se non la loro vita e la voglia di vi-verla liberi dall’oppressione e dallo sfruttamento [...] È un popolo intero che impara a scrivere la sua storia, confrontandola – con durezza – con quella dei loro padri e madri, con l’esperienza di massa dell’antifascismo, della resisten-za armata, della lotta illegale e clandestina. Ai partigiani noi diciamo: c’è oggi la possibilità concreta di un antifascismo militante, di una presenza militare contro lo squadrismo, che rifiuti l’imbalsamazione di quei valori per cui 25 anni fa si è sparato e si è ucciso36.

Lotta Continua, dunque, propose un’interpretazione della battaglia antifascista contrapposta a quella del pci, secondo la quale veniva in-dicata la violenza, anche armata, come metodo principale della lotta all’estrema destra. Venne esaltata, per tal via, l’esemplarità delle azioni, sebbene si specificasse che queste dovessero suscitare il potenziare rivo-luzionario nella collettività, invitandola a ribellarsi, anche se l’utilizzo della violenza doveva essere comune espressione di una mobilitazione più vasta e mai iniziativa di singole avanguardie.

Lungi dal voler denunciare il substrato fascista annidato nel cuo-re della democrazia italiana, che aveva permesso la “continuità dello Stato” nel passaggio dal regime fascista alla Repubblica, la proposta di Lotta Continua, in questa prima fase, si caratterizzò come una vera e propria strategia rivoluzionaria37. Era specificato infatti:

36. Lettera ai partigiani e ai compagni, in “Lotta Continua”, 20, ii, 12 novembre 1970.

37. Sulla denuncia della “continuità dello Stato” alla base della nascita dell’antifa-scismo militante cfr. De Luna, Le ragioni di un decennio, cit., pp. 86-8.

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Dieci anni fa nel luglio ’60 le masse giovanili – i ragazzi con le magliette a strisce – scendevano in piazza per la prima volta, si scontravano con la polizia, picchiavano e avevano i loro morti. [...] non si trattava di una battaglia costi-tuzionale e antifascista... Ma di qualcosa di molti di più, che è maturato e oggi è riesploso in forma molto più aperta e matura: è la volontà – confusa ma in-timamente comunista – di impedire al governo borghese di governare, la pre-cisa coscienza del carattere illegittimo e violento di ogni governo borghese38.

L’antifascismo militante, dunque, come componente essenziale del processo di militarizzazione della lotta politica nell’estrema sinistra. Nello scontro con i neofascisti, infatti, i repertori d’azione vennero via via specializzandosi e la violenza fu sistematicamente organizzata. Ne seguì anche un cambiamento dell’analisi del quadro politico generale. Nei primi anni Settanta, infatti, fece breccia anche nella sinistra ex-traparlamentare l’idea di un possibile sbocco autoritario della crisi in corso nel paese, un timore che crebbe all’indomani della pubblicazio-ne delle notizie sul tentato golpe Borghese del dicembre 1970 e che raggiunse il suo apice con il colpo di Stato in Cile di Augusto Pinochet nel 1973 e con la stagione delle stragi neofasciste del 1974.

In quale maniera, tuttavia, l’antifascismo militante contribuì alla nascita della lotta armata? Il ricorso di simili repertori d’azione – l’uso della schedatura, ad esempio – tra le formazioni extraparlamentari e i primi gruppi armati ha posto il problema dei rapporti di continuità e discontinuità tra questi diversi soggetti politici39. D’altronde gran par-te delle prime organizzazioni clandestine – i gap, le Brigate Rosse, i Nuclei Armati Proletari ecc. – conferirono alla contrapposizione con l’estrema destra un ruolo centrale. Ciò non significò, tuttavia, un rap-porto di consequenzialità automatica tra queste esperienza di violen-za40. Del resto furono le stesse Brigate Rosse ad indicare lo Stato, nella seconda metà degli anni Settanta, come il principale nemico da abbat-tere, sebbene i primi omicidi riconducibili all’organizzazione furono,

38. Ibid.39. G. Panvini, Alle origini del terrorismo diffuso. La schedatura degli avversari po-

litici negli anni della conflittualità (1969-1980), in “Mondo contemporaneo”, 3, 2006, pp. 141-64.

40. Sul nesso problematico tra militarizzazione della lotta politica e lotta armata cfr. le considerazioni di S. Neri Serneri, Contesti e strategie della violenza e della mili-tarizzazione nella sinistra radicale, in Id. (a cura di), Verso la lotta armata, cit., p. 21.

verso la militarizzazione della lotta politica

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significativamente, due militanti del Movimento sociale di Padova, assassinati il 16 giugno 197441. Né l’organizzazione di servizi d’ordi-ne, militarmente inquadrati e predisposti per gli scontri di piazza e di strada sfociò necessariamente nella costituzione di gruppi armati42. Su questo punto, le scienze sociali hanno dimostrato come fossero stati molteplici i percorsi, individuali e di gruppo, che condussero alla scelta delle armi. Eppure credo non si possa sottovalutare come sul terreno della lotta ai neofascisti si consolidò il processo di specializzazione e di organizzazione della violenza. L’antifascismo militante fornì, infatti, l’occasione per creare le prime strutture clandestine, in parte confluite, negli anni successivi, nei gruppi armati di sinistra. Sebbene fossero pre-senti importanti divergenze ideologiche tra le formazioni della sinistra extraparlamentare e i gruppi armati, di fronte a strategie e a scelte poli-tiche diverse corrispose, tuttavia, una somiglianza nella strutturazione e nella configurazione dei repertori d’azione che la ricerca storica do-vrà tenere in conto per lo studio della lotta armata nella seconda metà degli anni Settanta.

41. Come specificato in Ordine nero, guerriglia rossa, cit., pp. 285-6, contraria-mente da quanto attribuitomi da M. Scavino, La piazza e la forza. I percorsi verso la lotta armata dal Sessantotto alla metà degli anni Settanta, in Neri Serneri (a cura di), Verso la lotta armata, cit., p. 136.

42. Cfr. le considerazioni di E. Francescangeli, Stato e insurrezione. La violenza rivoluzionaria e gli scontri di piazza: definizioni, periodizzazioni e genealogie, in “Za-pruder”, 27, gennaio-maggio 2012, pp. 144-53.

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Le vicende della lotta armata: interpretare, raccontare, comparare

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1. L’Italia dopo vent’anni di fascismo ha avuto vent’anni di democra-zia cristiana. La ricostruzione dopo il trauma del nazifascismo e della Seconda guerra mondiale si è fatta sulla base dell’appartenenza religio-sa. Il ricorso all’immaginario cristiano poteva contare su una tradizio-ne antica e su una memoria consolidata. L’amministrazione democri-stiana aveva l’appoggio degli Stati Uniti e dell’intelligence, della cia e dei servizi segreti italiani, non era in gioco il solo sentimento religioso, anche se il sentimento religioso era indispensabile. Il ricorso alla fede si rivela utile là dove la sovranità deve essere sorvegliata e limitata dall’e-sterno, come nel caso dell’Italia e della Germania postbelliche. Gli as-setti nazionali sono collegati alla più vasta sfera del cristianesimo, in un certo senso il richiamo all’appartenenza comune a tutta l’Europa pre-nazionale, un passato che rassicura gli alleati circa la possibilità di inte-se. Abbiamo imparato dall’antropologia che la religione non definisce l’organizzazione politica1, ma piuttosto fa in modo che sia accettata, così un potere politico religioso contiene in sé la dipendenza da un po-tere politico esterno, nel caso specifico la dipendenza definita a Yalta dal potere anglo-americano. Infine il cristianesimo ha come simbolo dominante la croce, che è uno strumento di violenza, al centro della religione cristiana è la vittima e di vittime fascisti e nazisti ne avevano

La memoria storica e la violenza*di Luisa Accati

* Questo capitolo elabora alcuni concetti estrapolandoli dal saggio Opfer und Täter zwischen Gerechtigkeit und Straflosigkeit, apparso nel volume L. Accati, R. Co-goy (Hrsg.), Das Unheimliche in der Geschichte. Die Foibe. Beiträge zur Psychopatho-logie historischer Rezeption, Trafo Verlag, Berlin 2007, pp. 213-50.

1. Cfr. C. Geertz, Interpretazione di culture, trad. it. il Mulino, Bologna 1998, pp. 158 ss. (i ed. 1973); C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, trad. it. il Saggiatore, Milano 1967, pp. 189-229.

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fatte tante. C’era senz’altro da amministrare un problema di elabora-zione del lutto e del senso di colpa.

Tuttavia la scelta di poggiare la ricostruzione sulla religiosità pre-senta non pochi problemi. In primo luogo si crea una contraddizione fra appartenenza religiosa e cittadinanza, nasce un’evidente incon-gruenza fra laicità e neutralità dello Stato e appartenenza religiosa. In-fatti i cittadini di fede cristiana, indipendentemente dalle convinzioni politiche, si differenziano e assumono un rilievo che altri cittadini di altre fedi religiose o atei non hanno; in sostanza si crea una discrimi-nazione positiva per i cristiani. Ma non è la sola difficoltà. Le religioni costruiscono un mondo perfetto, parallelo a quello reale allo scopo di rendere accettabili le tensioni sociali, il dolore, la sofferenza e la morte in questo mondo; si accetta la vita umana con le sue sofferenze in vista di una vita immortale e senza dolori2. La religione tiene separati i due mondi dell’aldiquà e dell’aldilà, invece l’uso politico della religione li mette in contatto e li confonde pericolosamente.

Infatti, da una parte si suscitano attese messianiche: un mondo perfetto si può costruire qui in terra a condizione di radere al suolo il mondo infetto che l’ha preceduto, pieno di ingiustizie e imperfezioni3. Dall’altra, con il passare degli anni, cresce il timore che il ricorso alla religione possa cancellare le responsabilità politiche della tragedia bel-lica e finisca per riammettere all’amministrazione e gestione del paese i responsabili della guerra e del fascismo, solo temporaneamente allon-tanati, ma non esclusi una volta per tutte dall’amministrazione della cosa pubblica. Con il senno di poi sappiamo che questo timore era fon-dato e il sospetto ha alimentato la violenza: l’idea di fare giustizia da sé, di punire una buona volta i colpevoli di tanto scempio che stavano per farla franca. Per altro verso la violenza è stata fomentata dall’impazien-za degli eredi del fascismo che volevano essere di nuovo protagonisti e sapevano di poter contare su forze esterne potenti.

Quelli che avevano speranze messianiche facevano appello all’im-maginario religioso, infatti proponevano un mondo perfetto in terra,

2. Geertz, Interpretazione di culture, cit., pp. 141-2.3. Sulla natura narcisistica delle fantasie relative a una situazione di perfezione

paradisiaca cfr. B. Grünberger, Il narcisismo, Einaudi, Torino 1998; sullo specifico narcisismo dell’immaginario cristiano cfr. B. Grünberger, P. Dessuant, Narcissisme, Christianisme, Antisémitisme, Actes Sud, Arles 1997.

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scavalcando la mediazione della gerarchia ecclesiastica. Entravano così in conflitto con il clero, perché ne compromettevano la funzione auto-rizzante nei confronti del potere politico. Il fragile potere politico, so-stenuto dalla gerarchia, diventava ulteriormente dipendente da essa, per timore di perdere autorità presso i cittadini di cui sollecitava la fiducia nella mediazione religiosa. In sostanza la presenza di un’istanza religio-sa nel quadro politico si rivela contraddittoria rispetto alla maturazione di una democrazia compiuta. Di fatto, attraverso l’appartenenza reli-giosa si crea una appartenenza privilegiata rappresentata nel governo, così i cittadini non sono tutti sullo stesso piano. Per altro verso, l’appar-tenenza alla fede cristiana gioca un ruolo anche rispetto alla dimensio-ne economica. Le transazioni non possono essere veramente concor-renziali e libere se esistono banche cattoliche nella loro intestazione e contemporaneamente i cattolici sono al governo: di fatto appartenere o non appartenere alla fede cristiana diventa una facilitazione nel credito.

Al contrario, i postfascisti non erano coinvolti emotivamente nell’immaginario religioso, non cercavano alcuna autonomia di inter-pretazione, si limitavano a riconoscere la mediazione della gerarchia ecclesiastica alle sue condizioni, in attesa di poterne utilizzare le capa-cità di protezione; si comportavano da fedeli di antica tradizione, mai effettivamente smentiti dalle autorità religiose.

Se vogliamo andare più a fondo su queste ipotesi dobbiamo interro-garci sul significato che hanno i simboli religiosi in gioco, a partire dal principale, il simbolo per definizione del cristianesimo: il crocifisso4.

2. Il corpo di Cristo esposto sullo strumento del supplizio è di per sé un’immagine violenta, ma ci risulta ancor più violenta se pensiamo che quel mezzo di tortura dà inizio a una religione nuova, tuttavia derivante dalla religione del suppliziato. La vittima è morta come appartenente alla cultura ebraica, vive in eterno come appartenente alla nuova cultura cristiana e romana. Il crocifisso mostra dunque la sofferenza di chi appar-tiene alla cultura sconfitta, al tempo stesso mette in evidenza minaccio-samente quel che tocca a chi non faccia parte della nuova cultura cristia-na e romana. Proprio per il fatto che l’immaginario religioso riflette il

4. Cfr. tra gli altri A. Grillmeier, Jesus der Cristus im Glauben der Kirche, vol. i, Herder, Fribourg-Brisgau 1990; A. Vacant, E. Mangenot (éds.), Dictionnaire de The-ologie Catholique, Letouzey et Ané, Paris 1951, vol. iii, 3, cc. 2339-2363.

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potere politico, al suo interno gioca un ruolo fondamentale l’ambiguità fra protezione e minaccia, fra impunità e giustizia. Il crocifisso celebra la vittima fino a divinizzarla e, per altro verso, minaccia di rendere vittime tutti coloro che, come gli ebrei, non appartengano alla nuova religione del potere ma rimangano legati a quella delle loro origini. Nella lettura religiosa cristiana Cristo conta non come ebreo, sebbene lo sia, ma come vittima, vittima pura, vita spezzata, priva di connotati identitari altri che la pura appartenenza a Dio come ogni vita umana. La vittima, non im-porta chi sia, appartiene a Dio. Il simbolo non condanna gli uccisori, tuttavia mette in guardia circa la capacità della vittima di suscitare sensi di colpa e timori della punizione. Infatti il corpo suppliziato che rimane insepolto nei secoli, sotto gli occhi di tutti, mostra come la separazione non può avvenire quando la morte sia violenta e non sia stata resa giusti-zia. La vittima innocente, uccisa per impadronirsi della sua cultura, del suo libro della Bibbia, apre una comunicazione pericolosa fra mondo dei vivi e mondo dei morti. L’esposizione del corpo morto mette in scena l’arbitrio che la società cristiana si arroga sulla vita, che appartiene a Dio, uccidendo per assoggettare le altre culture, per fare della religione del suppliziato la propria religione. L’immortalità della vittima segnala un timore della punizione tanto grande da conferire, proiettivamente, una forza sovrumana all’ucciso: l’idea appunto che la vittima-Cristo sia Dio. Per altro verso, l’immortalità è anche il segno di una divisione impossi-bile, in assenza di giustizia, fra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Il corpo della vittima diventa così una sorta di luogo in terra appartenente a Dio e alla sua ira, un’area di pericolo. Le accuse mosse agli ebrei nel corso del tempo e il sospetto del nazifascismo di un complotto giudaico capace di distruggere gli Stati nazionali, colpiscono per la sproporzione evidente fra la piccola minoranza d’israeliti e l’enorme potenza a loro attribuita: vien fatto di pensare a un senso di colpa irrisolto e a un timore di punizione rimasto aperto.

E se Dio significa semplicemente «l’ignoto»5 come significa nella modernità, la paura di Dio è la paura della violenza non controllata dalla giustizia, è il timore fondato che la tolleranza del sopruso finisca di distruggere tutto, lasciando senza argini la violenza.

L’identificazione empatica, la con-Passione, contrariamente a quanto dice la Chiesa, non è in grado di risolvere la violenza avvenuta,

5. M. Douglas, Purezza e pericolo, il Mulino, Bologna 1975, pp. 75-96.

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né quella possibile in futuro, infatti non restituisce la giustizia neces-saria a chiudere il contenzioso con Dio per i credenti e a frenare la vio-lenza nel tessuto sociale per i non credenti.

Non per caso, dunque, le opere d’arte in Italia hanno un’impor-tanza e una presenza maggiore che in qualsiasi altro paese della cultura occidentale; Roma non è soltanto la capitale del cristianesimo antico, è anche la capitale dell’estetica sacra. In questo ruolo l’Italia è meta di costanti e continui pellegrinaggi turistici, anche i non credenti o i credenti di altre religioni sono confrontati con temi e rappresentazioni dell’immaginario sacro cristiano antico.

La bellezza coinvolgente delle opere d’arte provoca quella identi-ficazione proiettiva con la vittima che prende il posto del senso di re-sponsabilità verso di lei. La commozione per la sua sorte, l’offerta di denaro in nome di tutti i sofferenti, ci forniscono l’illusione di aver arginato la violenza, che non può, invece, essere fermata se non dalla giustizia, cioè dalla punizione inflitta ai responsabili. L’emozione este-tica è, per l’appunto, quel che resta del sentimento morale, è quel che resta della responsabilità etica alienata negli ecclesiastici. Come tutte le cose estetiche, l’identificazione proiettiva con il crocefisso è una fin-zione. Ovviamente questa identificazione non provoca nessuna morte dei fedeli, né la con-Passione implica sofferenza fisica ma solo emo-zione partecipe. La rinuncia del clero al matrimonio e ad avere figli è certamente una rinuncia alla vita possibile della propria discendenza, dunque si presenta come un sacrificio della vita analogo a quello di Cristo, tuttavia non equivale alla morte per giunta violenta. D’altro canto anche i pittori, i critici, gli storici e, infine, i turisti alla ricerca della bellezza, per quanto grande possa essere la loro emozione estetica, rimangono spettatori e non attori delle sorti della vittima reale.

Nell’area protetta della simulazione creativa, dove non si corre il ri-schio della punizione, tutte queste componenti sospese possono venir elaborate almeno in parte. Ma l’espediente, seppur importante e signifi-cativo, non risolve il problema della giustizia e della violenza. L’estetica sacra ha svolto per secoli una funzione fondamentale di elaborazione della colpa connessa con l’uccisione, ma al tempo stesso la rappresen-tazione sacra testimonia il limite che mina le possibilità della giustizia e quindi le possibilità di controllare la violenza all’interno del tessuto sociale. Nella dimensione sacra-estetica non sono in vigore i criteri della realtà storica, ma solo forme fittizie di identificazione pietosa con la vit-

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tima. Queste emozioni per quanto possano essere forti e dunque educa-tive, in proporzione della bellezza dell’opera, non forniscono strumenti operativi capaci di intervenire sul tessuto sociale perturbato dal crimine e dunque non riescono se non temporaneamente e a posteriori a con-trollare la violenza. È chiaro altresì come sia possibile che, di fronte al crocifisso, non tutti necessariamente s’identifichino con la vittima. Possono esserci persone che, anziché mettersi dalla parte del supplizia-to, vivono il simbolo soprattutto come uno strumento di tortura con cui minacciare coloro che non appartengono alla religione dominante. In altri termini non è sicuro che il crocifisso funzioni sempre come un mezzo di catarsi; ci può essere chi, più o meno consapevolmente, sta con il carnefice. L’ambiguità della scelta nell’identificazione è implicita in un simbolo di resurrezione che figurativamente è messo in scena da un morto sullo strumento della sua esecuzione. Certe argomentazio-ni di gruppi xenofobi in difesa del crocifisso nelle aule scolastiche non hanno nulla a che vedere con il rispetto della religione, ma assumono proprio i tratti di una minaccia strumentale verso gli stranieri infedeli.

D’altro canto gli intensi contenuti emozionali prodotti dall’ar-te come educazione non solo estetica ma anche morale tramutano la colpa reale dei responsabili dei crimini nella colpa simbolica di tutti quelli che s’identificano con le immagini sacre. È l’estetica a convertire la responsabilità dei colpevoli materiali in una colpa emozionale im-precisata di tutti quelli che appartengono all’area culturale cristiana.

3. Nel dopoguerra l’esclusione dei nazifascisti dalla vita politica dell’I-talia e della Germania è stata innanzitutto la conseguenza della scon-fitta bellica, si trattava di liberare l’Europa e il mondo dalla violenza razzista e dominatrice della loro cultura. Sul piano interno nazionale dei due paesi è stato un modo blando di punire coloro che si erano resi responsabili della guerra e degli stermini, l’esclusione non è stata né rigorosa, né definitiva. In Italia in particolare uno spiraglio è stato la-sciato alla presenza fascista con l’esistenza del msi (Movimento sociale italiano, guidato da Giorgio Almirante).

Nel 2000 in occasione del giubileo il papa polacco Giovanni Paolo ii nella Incarnationis misterium e nella lettera apostolica Tertio Millennio invitava i fedeli a riconoscere le colpe del passato, le colpe dei cristiani e dei cattolici. Queste pubblicazioni e il viaggio in Israele con l’omaggio al memoriale dello sterminio degli ebrei hanno dato ai giornalisti e a non

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pochi credenti e non credenti l’occasione per pensare e dire che il papa “chiedeva perdono agli ebrei”. Quest’ipotesi non smentita si è diffusa fra la gente, in realtà il papa non ha chiesto perdono agli ebrei, ma a Dio. Del resto la Commissione teologica internazionale presieduta dal cardi-nale Ratzinger, poi papa Benedetto xvi, nello studio Memoria e ricon-ciliazione: la Chiesa e le colpe del passato spiega che cosa significa questa richiesta di perdono. «La Chiesa si riconosce santa nei suoi santi [...], si confessa non di meno peccatrice, non in quanto soggetto del peccato, ma in quanto assume con solidarietà materna6 il peso delle colpe dei suoi figli»7. In altri termini, in quanto istituzione la Chiesa è santa nei suoi santi, senza peccato, senza macchia dunque in rapporto con Dio e anzi ha credito presso Dio e può chiedere perdono, per i santi, per i martiri, per il celibato offerto a Lui dagli ecclesiastici. Sono peccatori solo i suoi figli e l’istituzione, appunto come una madre, ottiene clemenza per loro. Dio li perdona, senza troppe indagini, senza punirli, senza aspettare o verificare il loro pentimento, ma soprattutto senza distinzione fra i veri colpevoli e i semplici cattolici più o meno praticanti. Come viene distri-buita su tutti la colpa, così il perdono, a garanzia di complicità.

La Chiesa, spiega sempre il cardinale Ratzinger, «assume realmen-te su di sé il peccato di coloro che essa stessa ha generato nel batte-simo, analogamente a come il Cristo Gesù ha assunto il peccato del mondo»8. In sostanza, per essere perdonati di qualsiasi crimine basta appartenere al popolo dei fedeli cristiani, basta essere figli della Chiesa, basta farsi in qualche modo accettare da questa madre pietosa e poten-te presso Dio. Tutta l’operazione che si presentava come un’ammissio-ne di responsabilità si rivela invece un’operazione di assoluzione dei

6. Per l’identificazione fra Chiesa e figura materna nella modernità cfr. X. Le Ba-chelet, M. Jugie, in A. Vacant, E. Mangenot (éds.), Dictionnaire de Théologie Catho-lique, Letouzey et Ané, Paris 1927, vol. vii, t. ii, coll. 2-1218; M. Levi D’Ancona, The Iconography of the Immaculate Conception in the Middle Ages and Early Renaissance, The College Art Association of America, New York 1957; F. Suarez, Tractatus Theo-logicus De Immaculata Conceptione B. Mariae Virginis, in J. J. Bourassé (éd.), Summa aurea de laudibus Beatissimae Virginis Mariae Dei Genitricis sine labe conceptae, J. P. Migne, Paris 1862, pp. 458-82. Per ulteriori indicazioni su questo tema cfr. L. Accati, Il mostro e la bella. Padre e madre nell’educazione cattolica dei sentimenti, Cortina, Milano 1998, p. 77, pp. 57-80.

7. B. Forte (a cura di), Studio, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000, p. 39.

8. Ivi, p. 31.

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responsabili9. In verità il pentimento giubilare non riguardava gli ebrei, bensì il ritorno sulla scena politica dei postfascisti (compresi non pochi repubblichini di Salò); si trattava di rilegittimarli come consoni a eserci-tare di nuovo il potere. Questo era l’obiettivo della richiesta di perdono a Dio da parte della Chiesa. In Italia (a differenza che in Germania) la funzione sacralizzante del perdono giubilare ha restituito autorità alla destra postfascista che l’aveva perduta. Di fatto si è creata una gerarchia fra coloro che disponevano del perdono papale, cioè i postfascisti e colo-ro che non disponevano del perdono papale, cioè i postcomunisti. Una simile disparità di autorità ha provocato una corsa incontrollata di tutte le forze politiche non postfasciste all’autorità del papa, in cerca di in-vestiture carismatiche e assoluzioni da errori passati, presenti o futuri. Si è verificato in sostanza uno spostamento fondamentalista nel sacro dell’intero quadro politico. In Italia questo esito, come dicevo inizial-mente, facendo parte di una ben consolidata tradizione politica, era im-plicito nel contesto fin dall’immediato dopoguerra e ha alimentato la violenza degli anni Settanta. Impotenza e frustrazione di fronte all’im-punità dei colpevoli sono state cause profonde di condotte criminali che, peraltro, non hanno arrestato il progressivo riaffacciarsi dei post-fascisti sulla scena politica. D’altra parte come evitare che la lezione dei padri fascisti, rimasti impuniti, non costituisse un modello per i figli, sia pure talvolta rovesciato di segno e di colore? Anche la storia, in assenza di un’elaborazione adeguata, conosce le sue costrizioni a ripetere.

È proprio dal secondo dopoguerra che esponenti politici delle de-mocrazie occidentali che hanno nella Costituzione al primo punto la laicità10 dello Stato nel loro paese e/o il rispetto della religione in cui credono, non si fanno scrupolo di usare le religioni altrui con il massi-mo cinismo, come strumenti di dominio. Il ricorso alla religione come a un’agenzia di potere permette di perseguire forme di controllo delle popolazioni, moralmente inammissibili da parte di uno Stato laico e democratico, ma questa scelta lascia la porta aperta alla violenza.

9. S. Levi della Torre, Errare e perseverare. Ambiguità di un giubileo, Donzelli, Roma 2000, pp. 66-75.

10. Sulla crisi della laicità cfr., fra gli altri, G. Boniolo (a cura di), Una geografia delle nostre radici, Einaudi, Torino 2006; E. Lecaldano, Un’etica senza Dio, Laterza, Roma-Bari 2006; C. A. Viano, Laici in ginocchio, Laterza, Roma-Bari 2006; cfr. an-che L. Accati, L. Passerini (a cura di), La laicità delle donne, epap, Firenze 2008.

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La modernità – dice Bauman11 – è alla base della tragedia del nazi-smo. In questa ipotesi il pensiero razionale (la ragione pura) viene reso responsabile, mentre a me pare che la responsabilità della inaudita vio-lenza del nazifascismo e il riaprirsi della violenza nuovamente negli anni Settanta sia piuttosto da ricercare nel divario fra pensiero razionale indi-pendente e autonomo (la ragione pura) e un’affettività (la ragione prati-ca) incapace di elaborazione, dunque dipendente, alienata e manipolata.

La conoscenza razionale, tecnicamente avanzata, impartita su larga scala in tutte le scuole della cultura occidentale e in costante diffusione anche negli altri paesi, diventa pericolosa nelle mani di persone emo-tivamente mantenute in condizioni di immaturità e di mancanza di autonomia, allo scopo di controllarle. Il divario fra conoscenza e af-fettività si biforca in modo perturbante12. Ciò che ci appare familiare e rassicurante sul piano razionale si scontra con emozioni immature che non lo accettano; così, proprio perché l’abbiamo mentalmente fat-to nostro, si converte in qualcosa che sembra aggredirci dall’interno, dunque in modo particolarmente sconvolgente.

Se, ancora oggi, si può parlare di un’istituzione capace di ottene-re il perdono per i delitti dei suoi membri è perché non è stato fatto adeguatamente il lavoro di responsabilizzare i cittadini. L’abuso della religione ha come conseguenza inevitabile la violenza che deriva dalla confusione. Infatti siamo di fronte a una regressione rispetto all’etica laica della responsabilità individuale che è necessariamente correlata al pensiero critico. Ci viene nuovamente proposta, in luogo della giusti-zia, una forma di identificazione compassionevole con le vittime pro-pria della religione cristiana, anziché un esame razionale e critico dei meccanismi sociali che hanno prodotto la violenza. La pietà non è né preceduta né seguita dalla giustizia, è messa al posto della giustizia, e la pietà non è in grado di evacuare la violenza dal tessuto sociale, non lo è mai stata, ma lo sviluppo della modernità ha reso drammaticamente più grave la sua inadeguatezza e ha finito di fare della pietà uno stru-mento di moltiplicazione della violenza e dunque anche uno strumen-to di moltiplicazione delle vittime. È proprio l’inadeguatezza della pie-tà a giocare un ruolo decisivo nell’incapacità di accedere alla giustizia.

11. Cfr. Z. Bauman, Modernità e Olocausto, il Mulino, Bologna 1992.12. S. Freud, Il Perturbante (1919), in Id., Opere, vol. ix, Boringhieri, Torino 1977,

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Dicevamo come abbia giocato un ruolo non secondario nel produr-re le violenze degli anni Settanta la sensazione che i fascisti e quanti li avevano appoggiati l’avrebbero fatta franca e non avrebbero pagato il prezzo dell’esclusione dalla vita pubblica, ma sarebbero stati solo tem-poraneamente fuori gioco. Tuttavia, il quadro simbolico che abbiamo esaminato non ci dà solo un’indicazione retrospettiva, ci può suggerire delle indicazioni utili per la ricerca, per riuscire a capire il terrorismo e per poterlo così disinnescare. Come risulta fra l’altro dagli studi presenti in questo volume, le vittime del terrorismo sono state molto numerose. Si è giustamente pianto sulla loro sorte, ma di nuovo non si sono fatte adeguate indagini, né su chi erano le vittime, né su chi erano i carnefici e su quali complicità avevano potuto contare. Non sfugge a nessuno che le indagini, per quegli anni, sono rimaste lacunose e i misteri italia-ni restano tali. Il termine “terrorismo” abbandona le vittime alla pietà, senza venire a capo di perché quelle persone sono state scelte. C’era una coerenza fra loro, erano accomunati da un filo conduttore che spieghi le scelte e i legami degli aggressori? Il generico termine “terrorismo” si pre-sta ad abbandonare i carnefici all’irrazionalità di impulsi incomprensi-bili, diventando figure del “male”. Le vittime restano ugualmente poco definite, sono figure del “bene”, entrano nel sacro delle commemorazio-ni e della pietà, sono martiri. I mandanti restano oscuri e continuano a godere dell’impunità. Il “male” che ha armato i rossi è messo sullo stesso piano del “male” che ha armato i neri, la barbarie degli uni giustifica la barbarie degli altri: tutta la violenza viene assunta dentro la debolezza della natura umana. Le indagini restano da fare e la pietà per le vittime e per la debolezza della natura umana continua a sostituire la giustizia.

La religione cristiana, come tutte le religioni, rappresenta il quadro di riferimento simbolico di una società, pertanto riflette le linee rela-zionali e le tensioni sociali che la percorrono. La lettura dell’immagi-nario religioso come dato storico e bagaglio culturale è fondamentale per capire il retaggio antropologico da cui siamo ancora coinvolti emo-tivamente. La lettura storicizzata dei simboli è un decisivo strumento di consapevolezza e di elaborazione se solo questi simboli non fossero, contemporaneamente, strumenti di potere politico gerarchico e auto-ritario, se cioè non continuassero a funzionare per creare il privilegio dell’impunità come nell’Antico Regime.

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Io lo dico sempre, caro commissario, sempre: il mo-vente, bisogna trovare, il movente...

Leonardo Sciascia

Se avete occhio giusto per questo genere di cose, note-rete che gli accusati sono spesso uomini attraenti.

Franz Kafka

Nel momento stesso in cui qualcuno ci ascolta dal video ha verso di noi un rapporto da inferiore a supe-riore, che è un rapporto spaventosamente antidemo-cratico.

Pier Paolo Pasolini

Il cinema italiano degli anni Settanta sembra rivelare un’incapacità evi-dente: quella di un racconto efficace del fenomeno allora in atto che, piuttosto genericamente, tendiamo oggi a conchiudere, semplificando-lo, nel lemma “terrorismo”. Una parola con cui rappresentiamo ideal-mente le buie res gesta (nelle loro molteplici forme di flessione culturale, storica, politica) della lotta armata, dello stragismo, del movimentismo antagonista e di scontro, della destra e sinistra extraparlamentare in Ita-lia1, ma anche della criminalità organizzata (ad esempio, quella che face-va capo a Vallanzasca; o alla banda Cavallero). Tutto assieme, indiscri-minatamente, nello stesso paiolo narrativo, nella «relazione essenziale fra morte e linguaggio»2 intesi come elementi attestanti – per quanto in negativo – l’esistenza stessa e una sua qualche rappresentazione. Ciò

Tre tensioni del cinema del “terrorismo” di Massimiliano Spanu

1. A proposito degli opposti schieramenti politici al cinema, cfr. C. Uva, M. Pic-chi, Destra e Sinistra nel cinema italiano. Film e immaginario politico dagli anni ’60 al nuovo millennio, Edizioni Interculturali, Roma 2006.

2. Nel suo Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Giulio Einaudi, Torino 1982 e 2008, ove riprende Heidegger, i concetti di essere-per-la-morte e l’analisi della temporalità dell’essere che si fonda su un’indagine linguistica, sull’e-poché, “sospensione”.

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che s’intende ipotizzare qui è che sussista un’estetica della sovversione terroristica; che la sovversione, anche nei suoi moti peristaltici più oscu-ri, abbia posto in essere – più o meno consapevolmente – una propria comunicazione “estetizzata”; che, infine, in essa si sia totalmente tra-sformata e dissolta, fallendo gli obiettivi ideologici dell’agire, evaporati d’un tratto, risolti in quelli del fare sotto il peso delle trasformazioni epocali di segno storico ed estetico3. Si trattò di sommovimenti econo-mici, politico-culturali e “linguistici” epocali nelle società euro-asiati-che di quegli anni. Attraverso l’audiovisivo (qui, soprattutto, di marca cinematografica o video) è possibile “registrare” l’evidente mutazione linguistica che accompagna, talvolta determina almeno parzialmente, alcuni mutamenti in atto4. Di fatto, all’audiovisivo è oggi delegato il compito di rappresentare tutto ciò che sta accadendo. Spesso è stato os-servato come il cinema (medium analogico che fa in qualche modo e misura da ponte tra mondo della scrittura pre- e post- digitale, nonché luogo espressivo di mediazione d’istanze socio-culturali contingenti) segnali costantemente queste mutazioni, e rechi nei propri “testi” il se-gno dell’urgenza di tali istanze e trasformazioni. Nondimeno, mi sem-bra, valga per la televisione, capace sempre più spesso, addirittura, d’im-

3. Renato Curcio, Mario Moretti e altri, con lettera aperta, dichiarano conclu-sa l’esperienza terroristica “perché inattuale” nel 1987, appena due anni prima che il Muro di Berlino, l’antifaschistischer Schutzwall, la cosiddetta “Barriera di protezione antifascista” della ddr, inizi ad essere demolito a picconate dalla gente.

4. In questo atteggiamento estetologico ed epistemologico, sulle eventuali cor-rispondenze tra politica e audiovisivo, faccio riferimento – a vario titolo – alla ri-flessione e produzione di filosofi, storici e teorici della comunicazione e del cinema, come M. Foucault (Le parole e le cose; L’archeologia del sapere), P. Virilio (Lo schermo e l’oblio; La procedura silenzio; La strategia dell’inganno), S. Kracauer (Da Caligari a Hitler. Storia psicologica del cinema tedesco), R. Barthes (L’ovvio e l’ottuso), J. Baudril-lard (Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?; Illusione, disillusione, esteti-che; Il complotto dell’arte; L’illusione della fine o Lo sciopero degli eventi; Power Infer-no), Th. Elsaesser, M. Hagener (Teoria del film. Un’introduzione), M. McLuhan (Gli strumenti del comunicare. Mass media e società moderna), I. Ramonet (Propagande silenziose; La tirannia della comunicazione), S. Sontag (Davanti al dolore degli altri), O. Breibach, F. Vercellone (Pensare per immagini. Tra scienza e arte), R. Debray (Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente), F. Casetti (L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità), P. Bertetto (Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola), V. Codeluppi (La vetrinizzazione sociale. Il pro-cesso di spettacolarizzazione degli individui e della società). Oltre, naturalmente, a tutta la esaustiva e recente produzione sul tema “terroristico” di Christian Uva.

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pregnare di sé “fini” e “obiettivi” di queste; cioè, infine, l’agire politico e culturale stesso del Tempo, anche solo rilanciando e rifugiandosi nelle rassicurazioni del già detto o esperito, imponendo alle cose dei veri e propri modi di rappresentazione istituzionalizzata5.

Molto si è dibattuto, ad esempio, sui primi tre episodi della prima stagione della miniserie televisiva Black Mirror6 – in Italia passata sotto silenzio – nel primo dei quali, addirittura, si teorizza il nuovo grottesco “terrorismo” del futuro: ipervisivo, panottico, pornografico e voyeuri-stico, immediatamente disponibile, interpolabile, che ci accompagna e condiziona drammaticamente la Politica del contemporaneo; nel secon-do, si deduce la conseguente disumanizzazione (huxleyana) nel nuovo mondo dell’ipervisione, dell’interattività ludica di cui sopra, sempre più spettacolarizzata, annichilente, legata a doppio filo allo star system. Nel terzo, si riflette sulla memoria, sulla gestione digitale del ricordo e delle sue immagini intese come pericolose: della “minaccia” rappresentata dal non disporre più della traccia concreta e personalissima della scrittura dei propri eventi, della Storia che ci riguarda e comprende (e sembra d’in-travvedere ciò che si prepara coi dispositivi digitali tipo Google Glass). Se ne discute a ribadire, qualora ce ne fosse ancora bisogno, la suddi-tanza, la dipendenza, infine la riduzione del Potere alla Comunicazione – per questo pare del tutto aberrante la notizia della liquidazione per decreto della tv di Stato in Grecia, dell’incendio di quella dei Fratelli musulmani in Egitto – in un mondo, per contro, d’infinita, galoppante proliferazione linguistica e segnica che ovunque si cerca di controllare7.

5. È l’ipotesi, ad esempio, di S. Kracauer nel suo Da Caligari a Hitler. Storia psi-cologica del cinema tedesco, in qualche modo fatta propria dai cultural studies di ultima generazione.

6. Black Mirror è una “television drama series” creata da Charlie Brooker, pro-dotta da Zeppotron per Endemol, meritatamente Emmy Award 2012 come miglior miniserie televisiva al mondo.

7. Mi sembrano importanti i dati – a conferma di quanto sta alla base di ogni sistema d’intelligence che si rispetti – inerentemente la necessità, nell’epoca della con-vergenza digitale e della comunicazione integrata, del controllo verticale e assoluto di ogni flusso di dati. A questo proposito ricorro, fra i tanti, al post di Christian Rocca, Scandalo usa: fbi e nsa spiano i server di 9 colossi web (titolo, peraltro, improprio), su “Il Sole 24 Ore” – http://24o.it/AelOn, 6 giugno 2013: «Negli Stati Uniti la Natio-nal Security Agency e l’fbi hanno diretto accesso ai server di nove giganti della Rete: Microsoft, Yahoo, Google, Facebook, PalTalk, Aol, Skype, YouTube, Apple, dai qua-li prelevano audio e video, fotografie, e-mail, documenti e contatti. Questo quanto

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Non molto diversamente, mi sembra, è avvenuto in Italia nella re-lazione tra spettacolo, politica ed eversione, nella mutazione degli im-maginari e nelle conseguenti modalità comunicative di tipo “politico”-terroristico, legate evidentemente, e “necessariamente” a forme nuove di spettacolarizzazione dei propri misfatti8. Azioni che tengono conto di modalità di rappresentazione complessive del proprio tempo, quelle degli anni Settanta/Ottanta, e che ne sono in qualche misura, qui ri-tenuta sostanziale, logica conseguenza. Probabilmente, il cinema del decennio del terrorismo (che fissiamo negli anni 1968-78) inaugura e consuma nel proprio spettatore la materializzazione visiva del sogno utopico del terrorista (e del terrorismo) inteso come “eroe” solitario e rivoluzionario: le ampie testimonianze raccolte presso i protagoni-sti di quella sanguinaria stagione – uomini e donne ricorrentemente “appassionati”, se non artefici, addirittura, di cinema e televisione – lo testimoniano. Non solo, il cinema definisce l’“idea” media, la vulgata del concetto: cioè il terrorismo da tramandare ai più. Nella parven-za di realtà simulacrale apparecchiata che gli è connaturata in quanto medium che simula realtà, il cinema tramanda immagini di repertorio e ricostruzioni in fiction. Di fatto appronta il “docufiction”, le ricostru-zioni spettacolarizzate e finzionalizzate, in qualche misura “documen-tanti”, di cui è figlio tutto il percepire del nostro tempo.

Nel tramandare frammenti di “realtà” bruta, accadimenti resi im-provvisamente visibili ai più e sottratti all’immediato della loro fattua-lità, oltre che alle logiche del tempo cui appartengono, implicitamente, ne falsifica l’essenza. Soprattutto: nella mutazione dei linguaggi visivi e cinematografico-audiovisivi in cammino verso l’esperienza elettronica e televisiva di massa (appunto, in Italia negli anni Settanta), l’immagine è investita (e dichiara) la propria trasformazione. Con essa, mutano le

rivela oggi il Washington Post (qui il grafico pubblicato sul sito del quotidiano) che cita documenti riservati, scoop che va oltre le prime rivelazioni del Guardian di ieri. Le nove aziende, sottolinea il Washington Post, hanno fornito accesso alle autorità federali “consapevolmente”. Insomma tutto il gotha del web e dei sistemi di tlc usa e dunque mondiali collaborava con il governo degli Stati Uniti».

8. Negli Stati Uniti il rapporto è continuo, da Abramo Lincoln ucciso da John Wilkes Booth, un attore teatrale che gli sparò alla nuca durante uno spettacolo te-atrale, alla mittente delle recenti lettere alla ricina ad Obama: tale Shannon Guess Richardson, che avrebbe avuto ruoli minori in produzioni recenti come Vampire Diaries e Walking Dead, o The Blind Side.

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pratiche “comunicative” che proprio sull’immagine si basano. L’imma-gine le sussume in sé, accogliendole e deformandole, inaugurando una stagione di nuova, “adeguata”, drammatica comunicazione “terroristi-ca”: dalle bombe, dalle strategie di tipo “algerino”, e dagli agguati della lotta armata, si passa all’ostaggio ripreso in video nella sua detenzione sino poco prima, o addirittura durante la sua esecuzione. Insomma, si giunge a forme parossistiche e psicologiche di comunicazione politica risolte in video, atte all’identificazione empatica dello spettatore nella sua fruizione, a conseguire effetti emotivi – anche politici – del tutto inediti. La parabola del modus operandi è traiettoria che porta dalla guerra alla guerriglia alla psy-war: negli effetti, le conclusioni paiono davvero molto vicine a certe presaghe riflessioni videoartistiche, e anti-bio-capitalistiche di quegli stessi anni: ad esempio alla distruzione sim-bolica del corpo in video, tipo “Aktionismus” di Günter Brus, Rudolf Schwarzkogler o Chris Burden, come bersaglio al muro del proiettile appena esploso, in Shoot, del 1971: appunto, come capiterà a certi ostag-gi, condannati forse proprio perché in video.

L’audiovisivo (e nella fattispecie, quello cinematografico e televisi-vo) condiziona non solo i protagonisti della Storia, segnandone modi e comportamenti dell’apparire, ma definisce anche gli atteggiamenti linguistici che li comprendono e producono, recando con sé, nel suo primo risvolto metalinguistico, il segno stesso della trasformazione iconica complessiva in atto (in Colpire al cuore di Gianni Amelio, 1983, l’indagine conoscitiva del figlio sul padre ex partigiano avviene tra-mite strumento fotografico, quindi attraverso la sua presa di distanza complessiva dagli eventi, nella sua apparente “indifferenza” tecnica, impersonalità o oggettività che la si voglia definire). Attraverso l’im-magine audiovisiva, o semplicemente fotografica, è senz’altro possibile cogliere l’evidente mutazione linguistica che accompagna i fenomeni storici nel loro divenire, che li permea di sé, influenzandone, se non stravolgendone propositi e mete. In quegli anni, gli “anni di piombo” in Italia, poi, il cinema inaugura il tipo di “nuovo terrorista” e di “nuo-vo terrorismo”, alla fine del periodo risolto – a parere di chi scrive – in una “scrittura della violenza” quasi Zengakuren, quella di cui parlava Roland Barthes in L’Impero dei segni9: cioè, fatta violenza in comuni-

9. L’empire des signes, Éditions d’Art Albert Skira s.a., Genève 1970 (trad. it. di M. Vallora, Giulio Einaudi Editore, Torino 1984, pp. 123-7).

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cazione, esentata completamente di senso, isolata, capace però di esse-re ancora, e tragicamente, «immediatamente segno. Non esprimendo nulla (né odio, né indignazione, né un’idea morale)» che si «abolisce tanto più chiaramente in un fine transitivo». Vedremo come.

Certo, con i nostri giorni sono venute le divulgazioni, i racconti ge-nerazionali del “terrorismo” cinematografico (La mia generazione, Col-pire al cuore, Romanzo criminale, La Prima Linea, La meglio gioventù): si tratta d’una visione spesso semplificata, para-documentata e di gene-re, a tentare di governare un fenomeno caotico e fratto del passato pros-simo, poliprismatico, estremamente contrapposto e su certi argomenti contaminato, manipolato storicamente, il cui cinema, sempre in tensio-ne tra il racconto “documentale” e quello “testimoniale”, pare poco in-cisivo e reso innocuo, in tensione tra il non essere abbastanza realistico, o il diventarlo “troppo”, tra il “campo” e il “fuoricampo” diegetico, tra il documentario e il film10. Tanto, insomma, da far sembrare all’indu-stria cinematografica il periodo e il fenomeno quasi “irrappresentabili”, scomodi proprio per l’inevitabile carico di discussione e polemiche che ancora oggi suscitano. Irraccontabili, se non simbolicamente, con lo scaturente spessore di piacere estetico e di distanza catartica adottati nel tenersi cautamente lontani dalla narrazione degli eventi più dolorosi e traumatici dello scontro tra Stato e gruppi extraparlamentari-eversivi in Italia. Insomma, si trattò, allora, di fare i conti con il periodo; oggi di farli con la memoria collettiva del periodo.

In quanto industria, il cinema sceglie, nella stagione ultima della rappresentazione cinematografica degli eventi criminali degli “anni di piombo”, immagini e linguaggi che paiono stilisticamente spetta-colarizzanti, ben lontani da quelli razionalistici e d’impegno di allora (nelle forme del pamphlet, del saggio ecc.): anzi, ben consolidati nel-le configurazioni retoriche del cinema hollywoodiano di genere (à la Romanzo criminale, ad esempio, che pure film sul terrorismo, almeno direttamente, non sarebbe). Si tratta d’immagini organizzate in micro-storie, avvincenti, vive, ma laterali, vane ai fini complessivi d’una qual-che comprensione non “didascalica” del fenomeno, delle sue ragioni,

10. Come in Matti da slegare, storico esperimento della stagione dell’antipsichia-tria di Marco Bellocchio, Silvano Agosti, Stefano Rulli, Sandro Petraglia (1974), non lontano dalle sperimentazioni di Frederick Wiseman sulla rappresentazione dei più marginali e deboli.

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dei suoi architetti politici e morali. Esemplari, visceralmente emotive ed indiscutibili per potenza e riscontro nella memoria collettiva, le immagini del cinema attestano però l’appartenenza ad una Modernità esaurita, contrapposta alla nostra epoca Postmoderna, quella dell’elet-tronico. Cioè, rimangono, loro malgrado, obsolete e obsolescenti, di moda perché depotenziate e ripotenziate, riconnotate, modellizzanti, e pure “vintage” (spesso fotograficamente virate, appositamente livide), incapaci, cioè, di rileggere gli accaduti proprio nel tentativo di riviverli contemporaneizzati, o almeno in sembianza.

L’operazione è tipica del linguaggio pubblicitario, ovviamente. Gli anni Settanta sono decade di grandi campagne e indimenticabili slogan. La televisione è il loro medium, non solo la stampa. Lo zeitgeist italiano s’intuisce sui rotocalchi nazionali (che lavorano sulla traccia di quel-li americani, in piena espansione: “Ebony”, “Seventeen”, “Newsweek”, “Bazaar”, “Esquire”, “Glamour”, “Architectural Digest”, “People” ecc.), ma soprattutto in Carosello, in onda sino al 1° gennaio 1977. Attraver-so la pubblicità in video muta l’immaginario collettivo nazionale, e le fluttuazioni politiche nazionali sono ricondotte nell’alveo perenne di un sostanziale bipolarismo ideologico e di contrapposizione che è mortifero anche solo pensare d’aggirare. Se il terrorismo, per certi ver-si, fu il frutto di un clima politico frastagliato e postresistenziale11, per

11. Per rimanere nella fattispecie squisitamente cinematografica (senza voler en-trare nei giudizi storici, e per ciò che può valere in quanto testimonianza, voce singola cui, comunque, attribuiamo qui una certa forza), è l’ipotesi di Corrado Corghi, amico di Fanfani, Forlani, Moro, Paolo vi. «Partigiano cattolico a Reggio Emilia e membro dei servizi di informazione della Resistenza, poi dirigente democristiano nel dopo-guerra, è stato ambasciatore del Vaticano in diversi paesi latino-americani. Ha avuto un ruolo da mediatore in tre storici sequestri politici», come specificato in didascalia, a presentazione del personaggio, in Il sol dell’avvenire. Intervista a Corrado Corghi, di Giovanni Fasanella e Gianfranco Pannone. Corghi fu presente – a portoni delle Chie-se sprangate, con Togliatti – ai funerali dei cinque operai di Reggio, dopo la durissima repressione militare del 7 luglio 1960 a firma del governo Tambroni che, a soli quindici anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, vedeva al potere gli ex fascisti msi con la dc. Dimostrò ampia esperienza di mediazione col mondo terrorista: tentò per conto del Vaticano la liberazione di Régis Debray, intellettuale francese (autore di Lo Stato seduttore, di Lettera ai comunisti, e vicesindaco di Parigi) catturato dalle forze armate boliviane mentre cercava di raggiungere le truppe cheguevariste, in America Latina, dove rimase imprigionato dal 1967 al 1971. Cercò poi la mediazione sul sequestro Sossi con Franceschini e Curcio. Sul sequestro Moro, invece, racconta di aver cozzato con-tro la netta impossibilità ad avviare qualsiasi dialogo fertile tra gli ambienti politici

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altri fu espressione evidente della guerra fredda. Sotterraneo (e talvolta miserabile), ideologicamente irriducibile ma mai realmente radicato, è ancora oggi fenomeno tanto tragico quanto sfuggente nella sua enor-mità, soprattutto se messo in relazione a personaggi ed eventi che, a quarant’anni da certe disgrazie, rimangono irrisolti, torbidamente mi-steriosi. Le sue storie di sangue, non molto frequentemente convocate e ridotte dal cinema, assumono spesso la dimensione di doppi tanto cre-dibili e “storicamente” accurati quanto scarichi, fantasmatici, esangui, come opere consuete e non bastevoli, nella consueta simulacralizza-zione e simulazione cinematografica, come ovvie «copie differenziali di copie differenziali senza originale», per dirla con Paolo Bertetto12. Manchevoli di qualcosa, o più, insomma. Oltre a ciò, i film sul terro-rismo incontrano ancora troppo spesso sia la censura grossolana (pure di chi il film non lo vede) sia l’autocensura politica ed autoriale, o pro-duttiva, economica prima che etica o morale. A mo’ di sasso in bocca.

O peggio: se nel Sessantotto, mentre i banchi volano dalle finestre a Villa Giulia, sugli schermi italiani si dormono sonni tranquilli, dal 1970-72 in poi i cosiddetti attori d’impegno politico vengono addirittura iscritti ad una fantomatica “lista rossa”, e non lavorano proprio più. Esem-plare, in tal senso, il caso di Lou Castel, protagonista epocale di I pugni in tasca di Marco Bellocchio, lungamente impegnato nella militanza con il gruppo maoista “Servire il Popolo”. Castel, è noto, devolveva al “so-gno rivoluzionario” i propri contratti e incassi cinematografici. «Attore simbolo del cinema italiano della contestazione», come ricorda Roberto Curti, «nella primavera del 1972 [...] viene persino “invitato” a lasciare il Paese dopo essersi visto negare il rinnovo del permesso di soggiorno»13.

romani dc e i vecchi esponenti brigatisti, già in carcere. Corghi, del “secondo tempo” delle br, quello di Moro, dice: «Se nel primo c’era un senso di umanità a cui si poteva in qualche modo parlare – e (sul quale) si poteva in qualche modo intervenire – qui mi pare che non ci fosse proprio. Qui c’era rigidità». Ipotizza, cioè, una mutazione linguistica, culturale, strategica. Una rigidità comunicativa e d’immagine delle br che avrebbero, al di là del successo politico già conseguito con Moro, “deciso la sua morte” sin dall’inizio. Stessa rigidità riconosciuta in quelli che volevano la fine della politica del Compromesso storico, che dalla morte di Moro ebbero eclatante “convenienza” (per riprendere il pensiero e le parole di Sciascia sulla questione, ovviamente).

12. P. Bertetto, Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Studi Bompiani, Milano 2007.

13. Nel suo bel A pugni chiusi. Lou Castel, il volto simbolo del cinema italiano della contestazione, compie 70 anni, in “Blow Up” # 181 (giugno 2013), pp. 138-9, dedicato ai

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Il “terrorismo” al cinema di quegli stessi anni sembra insomma un argomento tabu; salvo le debite eccezioni, è l’oggetto d’una chiusura ideologica netta, drammatica, frutto d’una complessiva indisponibilità al dialogo, che emerge dallo scontro linguistico, dall’estetica e dalla po-litica di quegli anni. Un oggetto/riflesso abnorme, non risolvibile dram-maturgicamente se non attraverso il ricorso al cinema stesso, ai suoi più consueti, spesso impotenti schematismi, ai suoi affreschi che si reggono sulla cifra stilistica del ricordo, pieni di risvolti generazionali (ed edipici), di personaggi simbolici appena del decennio successivo (si pensi a Ma-ledetti vi amerò di Marco Tullio Giordana, 1980). Non risolvibile, cioè, come ricostruzione storica documentante, attendibile, ma solo come messa in entertainment. Ma si è trattato, anche a ripensarla con gli occhi dello storico del cinema, d’una fallita rappresentazione: troppo tenue la figurazione, troppo multiforme e differente la materia, sia dal punto di vista linguistico-narrativo, sia da quello documentale e di testimonian-za, cui è affidato troppo spesso l’onere, greve, della Verità14 (talvolta ef-ficace, palese, nei suoi testi più semplici, come nel piccolo, recente Per Mano Ignota. Peteano: una strage dimenticata, di Cristian Natoli).

Come perfetto luogo di mitologemi, il terrorismo italiano al cine-ma prevede vaghezze costanti e, sintomaticamente, «che le parti in commedia [siano] già assegnate. Gli slittamenti di linguaggio avvengo-no senza che neanche più nessuno se ne accorga o li faccia notare. E i messaggi passano attraverso questi slittamenti»15. Si tratta, infatti, di un periodo, e d’una serie di fatti concreti che, tendenzialmente, sono resi drammaturgicamente, allora e oggi, in eterno equilibrio tra presente e passato, attraverso “serie di flashback” documentanti ciò che è stato. In

settant’anni della stella cosmopolita – Castel è nato in Colombia da padre svedese e madre irlandese, cresciuto tra Jamaica, New York, Francia, Stoccolma.

14. Che cos’è la Verità è il titolo dell’illuminante “tavola rotonda” a cura di Eduar-do Bruno, Alessandro Cappabianca, Daniele Dottorini, Lorenzo Esposito, Andrea Pastor, Bruno Roberti, Francesco Salina, Daniela Turco di cui in “filmcritica”, 600, lix, dicembre 2009, pp. 501-14. Ove si discetta della Verità, appunto, non come no-zione, ma – à la Derrida – come fattore, che è “creata”, à la Arendt; che va di pari passo con la menzogna, à la Borges, e sorpresa, come i Lumière di L’uscita degli operai dalla fabbrica, o di L’innaffiatore innaffiato: quindi “dissimulata”. Ove «Bacon non è la verità, ma è una verità e i suoi autoritratti sono più veri di qualunque fotografia» (Edoardo Bruno).

15. C. Gelato, C. Uva (a cura di), Conversazioni, in C. Uva, Schermi di piombo. Il terrorismo nel cinema italiano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, pp. 223 ss.

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fondo, il modo giusto per “raccontare” il terrorismo ha sempre potuto essere poco più di questo, un ovvio ricorso al dato concreto, alle im-magini di repertorio, ai film-collage, ai cut-up film, cioè l’assemblato montato, ricostruito, fatto proprio in relazione a ricostruzioni storico-giornalistiche. Perché quel dato è sempre stato necessario “raccontarlo”, ricorrendo certo al found footage, all’archivio storico, alla cine-videoteca del già accaduto, o ai filmati televisivi dell’epoca, “parassiti” dei testi fil-mici che li accolgono16. Una narrazione che è sempre stata un fare (in differente misura) riferimento agli atti processuali, magari nel ricostru-ire fantasmaticamente le realtà da quelli descritte, fornendo contempo-raneamente il senso d’un certo distacco da quegli avvenimenti, la loro lontananza e il ripensamento, il ripiegamento critico su quelle ferite, come materia almeno in parte, ma solo in parte, assimilata, definitiva e quindi, come cronotopo parzialmente mitico, fatta oggetto di enter-tainment: penso a Piazza delle Cinque Lune (2003), di Renzo Martinelli (film che racconta Moro attraverso un film in Super8, il coinvolgimento casuale di servizi segreti americani e P2, sismi, Cossiga, il tutto condito con gas tossici, per non indicare infine alcun colpevole, o tutti17).

16. Il termine assai evocativo di “parassita” riferito a questo tipo d’immagini è attribuibile, credo, al videoartista italiano Paolo Gioli.

17. Ricorro a Wikipedia per la sinossi: «Al giudice Rosario Saracini, procuratore capo di Siena che sta per andare in pensione, viene recapitata una vecchia pellicola in formato Super 8, girata diversi anni prima. Sono le immagini del rapimento di Aldo Moro avvenuto in via Fani, a Roma, nel 1978. Il giudice rivela il suo segreto alla collega Fernanda e alla sua guardia del corpo Branco. I tre, appassionatamente, ricostruiscono le fasi del rapimento. Branco nota nel filmato della strage un signore che indossa un impermeabile. A Milano il giudice fa ingrandire le immagini e così si riesce a vederne il viso. Nell’immagine si riconosce Camillo Guglielmi, un colonnello del sismi, che apparteneva alla struttura clandestina Gladio. Vengono svolte nuove indagini da Fernanda sul covo delle Brigate Rosse di via Gradoli. Emergono altre anomalie: i tre comitati costituiti da Cossiga, con i membri tutti affiliati alla P2 e il collegamento con i servizi segreti americani. Durante le indagini i figli di Fernan-da scompaiono, ma Branco li riporta a casa. Altri strani eventi accadono. Sempre Fernanda perde il marito in un incidente in cui sono coinvolti anche i figli. Dopo il funerale Rosario è in auto con Branco ed un velivolo sparge sull’automobile un gas tossico. I due scampano all’attentato. Il giudice, dopo una telefonata del procuratore capo della Repubblica, va a Roma per un appuntamento in Piazza delle Cinque Lune. Sale le scale e arriva davanti ad una porta dove c’è scritto: Immobiliare Domino. Nel-la stanza Rosario trova Branco e altre persone. Il film si conclude con una ripresa, che partendo da Piazza delle Cinque Lune allarga dall’alto fino ad inquadrare tutta

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Come ha detto Francesco Piccioni, ex br napoletano coinvolto nel ripensamento di quegli anni «con una operazione tutta sul passato c’era il rischio che venisse fuori l’apologia, mentre con un racconto al presente non era possibile stabilire la giusta lontananza»18. Ovvia-mente, la vexata questio del “distacco” storico, della presa di “buona distanza” dal fenomeno analizzato dal cinema, suona di falsa coscienza e d’irrisolti, di sospesi: non è solo il movimento rivoluzionario a essere d’ardua trattazione, quasi irrappresentabile nella sua frammentazione, nella sua alterità culturale, ma anche le responsabilità di un sistema politico-istituzionale quasi inane (fatta eccezione nei suoi avamposti di Giustizia, gli uomini delle forze dell’ordine e della magistratura, spesso colpiti a morte, sequestrati, gambizzati) a fronte d’una fiuma-na di vittime di attentati che equità, giustizia, imparzialità, in Italia, non hanno mai visto né avuto, anzi. Questa incapacità complessiva si è fatta anche narrativa: una specie di paralisi, un’incapacità assoluta del cinema italiano a metter bocca su questioni di morti e sofferenza, risolta, da un lato, in un’estrema rimozione attraverso l’invenzione clas-sica; dall’altro, sublimata in una serie assai moderna di simbolizzazioni e spostamenti psicoanalitici (ad esempio, Moro che si alza e se ne va dalla prigione delle br, libero, la mattina fatale, nell’onirico e potente Buongiorno, notte di Marco Bellocchio). Insomma, un’estetica fram-mentata e storicamente dislocata, di ripensamento attraverso gli occhi degli altri, quasi una stanza del figlio (per citare il titolo del film di Moretti riguardo l’elaborazione del lutto e la sua verità), in un cinema di conflitti con padri e madri da amare e uccidere, cioè una “camera verde”, tra uno sparuto manipolo di opere più o meno coraggiose, più o meno originali, talvolta addirittura bizzarre (si pensi, ad esempio, ad un film di immagini eidetiche19, provocatorie, come Se sarà luce sarà

Roma. Il dedalo di strade e vicoli della capitale viene evidenziato in bianco, formando quasi una enorme ragnatela che ha per centro l’edificio di partenza mentre compare sovraimpresso un famoso aforisma di Solone: “La giustizia è come una tela di ragno: trattiene gli insetti piccoli, mentre i grandi trafiggono la tela e restano liberi”. I titoli di coda sono accompagnati dall’immagine di Luca Moro – nipote di Aldo Moro – che suona alla chitarra la canzone “Maledetti Voi (Signori del Potere)” mentre sullo sfondo corrono le immagini del nonno Aldo che giocava con Luca bambino».

18. Ivi, p. 234. 19. «L’immagine eidetica è un’immagine che realizza una fusione di configu-

razione visiva e di idea, di forma, di visione e di concetto. È un’immagine-idea, una

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bellissimo. Moro un’altra storia, di Aurelio Grimaldi) ed una pletora di film convenzionali, commerciali, talvolta del tutto fuorvianti (se da un film sul “terrorismo” ci aspettiamo, almeno, un certo contatto con lo spirito del tempo e con la Storia, al cinema intesa – come si diceva – come invenzione in ogni caso collocata necessariamente tra ápate e ale-theia, tra inganno e verità, tra racconto e dato, téchne e psyché, eppure straordinariamente disponibile all’indagine e alla denuncia, alla luce, appunto). Tale impossibilità complessiva è addirittura rivendicata, ad estrema giustificazione dell’incapacità voluta o presunta su quella textura storica, inabilità a «districarne le forze e capirne le dinamiche ideologiche»20. Motivo per il quale, poi, ancora oggi, in film come Ro-manzo di una strage si avverte la necessità non solo della ricostruzione storica, ma anche del gioco con personaggi del tutto inventati, così che è possibile equilibrarvi adeguatamente story e history senza approdare alla denuncia che ci si aspetterebbe e di cui avremmo bisogno, che il ci-nema e la televisione, forse, non possono darci – a ragion veduta – co-stretti a glissare; così che, meglio, non osano proprio perché per molti motivi non si può ancora21, soprattutto in considerazione della natura

struttura visiva, impregnata di un contenuto intellettuale particolare», Bertetto, Lo specchio e il simulacro, cit., p. 159.

20. G. P. Brunetta, ??????????????????, 2003, p. 220.21. Uva, Schermi di piombo, cit., p. 212. A proposito di rappresentazione del ter-

rorismo, Giusva Fioravanti parla di “autocensura” della classe intellettuale italiana nella rappresentazione dei mandanti politici. L’ex terrorista dei nar, riconosciuto colpevole d’innumerevoli reati e dell’omicidio di 93 persone, condannato a 8 erga-stoli e più, dopo 26 anni scontati dietro le sbarre, nel 2009 è tornato ad essere un uomo libero. Egli dichiara: «L’America produce una quantità infinita di film con al centro dell’intreccio il presidente degli Stati Uniti, la cia o l’fbi. Loro riescono a giocare su questi temi, mentre noi abbiamo solo scimmiottato questo meccanismo con alcuni film sul terrorismo, dando sempre l’idea del complotto. Noi siamo stati molto meno coraggiosi, arrivando ad ipotizzare – un po’ come avviene in Romanzo criminale – che ci siano i servizi segreti deviati, una stupidaggine solo italiana. Gli altri ti mostrano le nefandezze della cia, facendoti anche capire che la politica ne è a conoscenza. Da noi, invece, ci si ferma a questi felloni pazzi dei servizi segreti deviati e manca il resto del ragionamento» (il corsivo su “film sul terrorismo” non è di Uva ma mio). D’altra parte lo sosteneva Pier Paolo Pasolini in una ben nota intervista televisiva con Enzo Biagi, poco prima di morire: «La televisione è un medium di massa. E il medium di massa non può che mortificarci e alienarci». Biagi replica: «Ma noi stiamo discutendo tutti con grande libertà, senza alcuna inibizione». E Pasolini, con pacatezza: «No. Non è vero». Biagi: «Sì, è vero. Lei non può dire tut-

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dei media dell’immagine, in parte industria, in parte commercio e di-stribuzione, in parte – ma solo eventualmente – arte, comunque in continua sinergia con Capitale e Potere.

La tragedia degli “anni di piombo” non è rappresentata generica-mente con l’approdo al tragico – con lo scontro di due “ragioni”, più o meno irragionevoli – ma come conflitto comunicativo e valoriale (Se-greti, segreti di Giuseppe Bertolucci, 1984) dello Stato e degli uomini del Sistema (anche produttivo, non solo istituzionale: si pensi all’in-dustriale Tognazzi in La tragedia di un uomo ridicolo, di Bernardo Ber-tolucci, 1981) con un nemico rappresentato in modo bipolare, bello e schizoide, affascinante (la terrorista Laura Morante dello stesso film). Si tratta di criminali al limite del “fanatismo”, spesso rappresentati ap-punto come gelidi, calcolatori, violenti e sanguinari perché privi di sen-timenti umani, o pietà22. Lo Stato stesso, al di là dei suoi eroi, messi in scena sempre da soli, vi è entità astrattamente cieca, immobile, talvolta volgare e colpevole, spesso non meno dei suoi avversari.

Il diniego dello slancio alla verità, l’incapacità rappresentativa, allo-ra, suona delittuosa quasi quanto i fatti delle sue narrazioni, se non ne comprendessimo, almeno per sommi capi, il movente fondamentale: il disconoscimento politico dell’altro e l’impossibilità di giudicarlo, negazione che fu movente proprio all’assassinio politico, alla paura, e motivo dell’incomprensione, della negazione... In sintesi, ciò che risul-ta quasi rimossa dal cinema italiano “del terrorismo” è la rabbia irragio-nevolmente esercitata d’una intera generazione, costretta quasi forzo-samente dalla logica della contrapposizione ideologica, della “strategia della tensione” (quella, ad esempio, messa in scena dall’ottimo Cadave-ri eccellenti di Francesco Rosi, del 1976). Al cinema italiano è sembrato sempre difficile l’agire conseguente ad un complessivo “io so” paso-liniano, pur talvolta abbozzato, che si sottraesse a facili schematismi: così è stato sulla Mafia (a parte i film dei Rosi, dei Petri o, per citarne solo alcuni, cari a chi scrive, dei ben più recenti Scimeca, Labate, De Robilant), così è stato sulla “lotta armata” e le sue tragedie. Segno di un

to quello che vuole?». «No, non posso dire tutto quello che voglio». «Lo dica!». «No, non potrei, perché sarei accusato di vilipendio. In realtà non posso dire tutto. E poi, di fronte all’ingenuità o alla sprovvedutezza di certi spettatori, io stesso non vorrei dire certe cose».

22. Ivi, p. 235.

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non poter vedere, conseguenza noncurante, altre volte, d’una parziale vicinanza ideologica, d’una contiguità e di apparentamenti generici, militanze ambite, insomma da “simpatie”23 per il progetto “utopico” sino al suo limite finale (anche auspicato), dello scontro armato o del suo “soccorso”. Una simpatia sfumata per la “lotta” che aveva come fine il non celato intento, dichiarato, del dissolvimento dello Stato demo-cratico (“colpire il cuore dello Stato”); magari anche nella glorificazio-ne del gesto bombarolo, letto come estremo, disperato, talvolta d’amo-re. Eppure vitalistico e rivoluzionario, tradotto in narrazione western, da Peckinpah e il suo Mucchio selvaggio, dallo “spaghetti italiano”, con l’apice di Giù la testa!, capolavoro “rivoluzionario” di Sergio Leone24. Fatta salva qualche eccezione, in questi film quasi mai si azzardò la deduzione veridittiva, o il collegamento deduttivo, ficcante e l’accusa netta: penso, per contro, al rapporto quasi amicale (segnato da un ab-braccio, addirittura) coraggiosamente imposto da Giuseppe Ferrara25

23. Maoisti, trotzkisti, stalinisti, anarchici di sinistra, bordigheristi, lottaconti-nua, e più generalmente, molto frequentemente, studenti, operai, movimentisti va-ghi, costituivano l’arcipelago dei duecentomila tra simpatizzanti e militanti della sola sinistra extraparlamentare in Italia. Il dato ci proviene da una ben nota velina del ministero degli Interni circolata nel 1975 cui accennano Steve Della Casa e Paolo Ma-nera nella Postfazione al loro Sbatti Bellocchio in sesta pagina. Il cinema della sinistra extraparlamentare 1968-76, Donzelli, Roma 2012, p. 210.

24. Si tratta della ben nota pellicola che ha per protagonista il disilluso ma mai domo John “Sean” Mallory, interpretato da James Coburn: un motociclista irlandese dell’ira che risuona non poco dei “canonici” Che Guevara e Alberto Granado, ri-voluzionari su Norton in viaggio in Sud America. Mallory rinuncia a tutto, ma non a portare la morte tra i soldati con il proprio esplosivo: questo in un film dove, tutti assieme, sono citati Francisco Indalecio Madero, Pancho Villa, Emiliano Zapata e Victoriano Huerta.

25. Oggi, non a caso, «L’anac – Associazione Nazionale Autori Cinematografici – chiede che sia concesso il vitalizio previsto della legge Bacchelli per il socio Giuseppe Ferrara, regista e sceneggiatore che si trova a vivere in una situazione di grave precarietà di salute, appesantita da un contesto di scarsa consistenza economica (percepisce una modesta pensione ed è colpito da sfratto esecutivo), condizioni che non gli permetto-no più di svolgere decorosamente la propria vita quotidiana. Ferrara è autore di prege-voli film che hanno sempre trattato temi di rilevante interesse sociale». A scriverlo è il presidente Ugo Gregoretti, in una lettera indirizzata al presidente del Consiglio dei ministri. Tra le opere più note si ricordano Cento giorni a Palermo (1984), Il caso Moro, premiato a Berlino con l’Orso d’argento (1986), Giovanni Falcone (1993), Segreto di Stato (1995), I banchieri di Dio – Il caso Calvi (2002), Guido che sfidò le Brigate Rosse (2005), che hanno riscosso un vasto consenso di pubblico e di critica. Ha realizzato

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– forse perché già provocatoriamente suggerito da I giorni dell’ira di Robert Katz – ai personaggi del governo dc e di Carlo Alberto Dalla Chiesa con Licio Gelli, quest’ultimo infine malevolmente trionfante sullo Stato. Dove la sovradeterminante figura del “consulente” ameri-cano, assieme al personaggio del Gran Maestro P2, imponeva al gover-no di quei 55 fatidici giorni le scelte tragiche che poi avrebbero portato alle conseguenze che sappiamo. (Per inciso, la figura di Moro, nel film di Ferrara, è esemplare per ciò che qui si tenta di affermare, sostituendo addirittura la Realtà, il dato storico-fotografico: interpretato magica-mente da Gian Maria Volontè, al meglio della sua arte attoriale, quello è Moro che nella memoria di chi scrive perfettamente si sovrappone, e si sostituisce all’immagine dello stesso statista. Tanto Moro quanto Moro stesso; anzi, più Moro di Moro.)

Negli anni Settanta, il cinema di cassetta si contrappone a quello ri-voluzionario26, ben delimitato e identificato, invece, da Goffredo Fofi nella definizione di «cinema militante»: cioè esterno alla logica in-dustriale cinematografica, di collettivo, che finisca «nelle scuole e nel-le fabbriche». Un cinema di «superamento del cinema spettacolo», anti-industriale, di lotta e «politica fattiva», che rinunciava al «sui-cidio autoriale» (com’era letto, appunto, il “consegnarsi” all’industria cinematografica). Che scopriva la valenza rivoluzionaria della “verità”, dello smascheramento, della denuncia, tra l’apocalittico velleitarismo figlio di La société du spectacle di Guy Debord, lo sfavillio razionalista del cinema marxista-maoista-leninista di Godard. Si pratica il coope-rativismo underground e il documentarismo assoluto, attraverso le

inoltre programmi radiofonici sulla cinematografia, pubblicato saggi sui registi Luchi-no Visconti e Francesco Rosi. È stato anche docente di regia presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Perugia, per il corso di Scienze e tecnologie della produzione artistica. Confidiamo, signor Presidente, che lei accolga la nostra richiesta per dare a un validissimo autore la possibilità di sopravvivere in condizioni di decoro e di tranquillità tali da permettergli almeno di continuare la sua attività di narratore». A ribadire, forse, che il coraggio su certi temi, in Italia, non paga.

26. «In mancanza di un cinema rivoluzionario quello democratico registra una notevole rinascita in questi ultimi tempi. Si tratta, per definizione, di un cinema pie-no di limiti e condizionamenti, mai realmente eversivo, utilizzabile con molta caute-la, spesso di cattivo gusto, con molti difetti e rari pregi. Il suo indiscusso vantaggio, rispetto ad altri tipi di cinema, è quello di raggiungere un vasto pubblico. In fin dei conti è questa la ragione per cui se ne parla» (Il massacro degli indiani in due film democratici, in “il manifesto”, 20 maggio 1971).

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avanguardie movimentiste che sognavano un cinema collettivo e l’u-tilizzo delle tecnologie “leggere”. A questo proposito è bello ricordare il manuale d’introduzione agli apparecchi audiovisivi Senza chiedere permesso di Roberto Faenza. In copertina, un “videoteppista” capellone con videocamera brandita e kalashnikov a tracolla e, sotto, l’incorag-giamento scritto: «I mezzi di comunicazione, abbiamo detto, esisto-no. Prendiamoli e usiamoli»27. Slogan e pensiero efficace, humus ferti-lissimo, allora. Un maelstrom comunicativo-politico, polisemantico e concettuale, con due caratteristiche principali: 1. Negli anni del sangue e nei decenni successivi è evidente quale “ri-morso” attanagli certi intellettuali del cinema nell’avvertire la comunan-za, la condivisione della provenienza culturale e ideologica coi carnefici di allora. Di qui le analisi generazionali, gli “io ricordo”, il proiettile non asportato nella testa di Alberto Sajevo (Nanni Moretti), professore uni-versitario, cui Lisa la terrorista ha sparato un colpo a bruciapelo dodici anni prima, simbolo d’una ossessione della memoria del terrorismo in La seconda volta, 1995, di Mimmo Calopresti28. Da cui, tuttavia, anche certe chiusure, incomprensioni, preclusioni, talvolta assolute, che condi-zionano le rimozioni di autori e registi di grande sensibilità e impegno: si veda, ad esempio, Caro papà di Dino Risi, con Gassman, film di di-stanza siderale dagli standard del suo autore; o la crisi di tutt’altra valen-za estetica, e il ricorso ad altra e più seria psicoanalisi, quella fagioliana, nel capolavoro di Bellocchio, Buongiorno, notte, del 2003. E ben prima, quella di Fellini nel suo decennale doppio dialogo, con lo psicoterapeu-ta di fiducia, Ernst Bernhard, o, sul versante magico, con il mago Rol, a riaffermare comunque l’accurata distanza del Maestro dall’impegno politico militante, cui pure fu più volte sollecitato, inutilmente.

L’atteggiamento di presa di distanze sottolineò anche le cecità di certa “stampa democratica” che dettava, paterna, il bavaglio degli intel-lettuali richiamati all’ordine. Roba tale da meritare le stigmatizzazioni violente sulle riviste di vicinanza assoluta ai collettivi, come “Rosso” che, ad esempio, scriveva:

27. Lo ricorda G. Pescatore, La cultura mediale tra consumo e partecipazione, in “Bianco e Nero”, lxxiii, 572, gennaio-aprile 2012, pp. 10, 16-7.

28. Come lucidamente sottolinea V. Zagarrio nel suo saggio Staccare la spina alla memoria. Riflessioni su cinema italiano e terrorismo, in “Bianco e Nero”, lxxiii, 574, settembre-dicembre 2012, pp. 93-105.

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Parte Asor Rosa con la teoria delle due società, l’una produttiva, l’altra degli emarginati; segue la spiega fondata sull’analogia con la situazione che portò al fascismo nel ’19-’20 detta «diciannovismo» o dell’«irrazionalismo»; la più fantasiosa resta la «teoria del complotto» lanciata subito dopo i fatti di Bologna da Zangheri e autorevolmente confermata e fatta propria poi dal giudice Catalanotti per scatenare la campagna repressiva contro case editrici, librerie, giornali dell’«area autonoma»29.

In sintesi, l’unanimità di sguardo, la conformità e consonanza, nella critica di sinistra, qui è già persa del tutto, in un arcipelago di distin-guo, sfumature, eccezioni.2. Smessi i film iniziali della crisi, e dei rivoluzionari nelle intenzioni, con il palesarsi del fenomeno del “terrorismo” come galassia non anco-ra delimitabile, emerge però una prima dimensione cinematografica da verificare, tutta linguistica. Che il “terrorismo” fosse anche, ed essen-zialmente, un linguaggio, è oggi evidente. Linguaggio survoltato, sur-reale eppure burocratizzato, meta-, e autoreferenziale: cioè tutto ripie-gato sulle proprie pieghe (più esecrabili e tecniciste, vuote, ciniche); soprattutto, audiovisivamente mutabile, in mutazione e adeguamento, che inizia a comprendere ma non a risolvere il problema della propria comunicazione, rappresentazione o narrazione pubblica. Un linguag-gio in un’evidente, vertiginosa strozzatura della Storia, a esprimere sempre più se stesso e sempre meno un senso. Quand’anche, proprio il cinema denunci, nella trasformazione delle proprie pratiche enunciati-ve, rivoluzionariamente, il passaggio epocale dai linguaggi logocentrici a quelli iconocentrici.

Negli anni Settanta il cinema celebra la valenza dell’apparire in un mondo dove la televisione inizia ad acquisire concretamente peso poli-tico, economico, culturale e sociale. Gli anni Ottanta produrranno Re-agan, un mestierante hollywoodiano d’una certa popolarità, e relativa capacità attoriale30. Negli stessi anni si seminò il germe del poi venten-

29. C’era una volta la «stampa democratica», in “Rosso”, 19/20, giugno 1977.30. In La société du spectacle (1973), di G. Debord, le star dello spettacolo e i po-

litici (Mao, Brežnev, Marchais) sono due facce della stessa medaglia: «Là è il potere governativo che si personalizza in pseudo-vedette, qui è la vedette del consumo che si fa applaudire plebiscitariamente quale pseudo-potere sul vissuto», come recita la voi-ce over nel film. Lo ricorda, ad esempio, B. Di Marino, Pose in movimento. Fotografia e cinema, Bollati Boringhieri, Torino, p. 76.

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nale berlusconismo, per il quale un certo tipo di cultura macroeconomi-ca (neoliberista se non, addirittura, turbo-capitalista) si affermava non come causa, ma come inevitabile soluzione, stile di vita, modo d’essere. Si tratta, insomma, d’uno scenario evidentemente ampio, abbracciato, almeno in intuizione e sintomatologia, dal succitato Caro papà. Nel quale è in essere – nei costumi, modi, nelle parole d’ordine del paese – la sensiblerie ipocrita di ciò che sarà a breve: ed ecco, allora, il ricco indu-striale con il figlio brigatista, il party in villa assediato da un certo tipo di fascino femminile (a bordo piscina già sgambetta una giovanissima Lory Del Santo, non accreditata), coi trinariciuti amici, tutti cummenda del capitale lombardo-veneto, assieme al gruppetto silente di bruttoni, sfi-gati, adolescenti irrisolti e hippies, terroristi e amici del figlio che, in sua compagnia, progettano l’attentato totemico (insomma, siamo sempre lì: schematismi politico-freudiani, e l’assalto psicoanalitico al Padre).

Non dissimilmente, la critica cinematografica della sinistra extra-parlamentare di questo paese ha saputo essere egualmente crudele, ossessionata dai corpi, e involontariamente tragicomica; verbalmente violenta, capace di certi proclami o volantini e ciclostilati “terroristici”. Il tono era questo:

Cinema politico per eccellenza, specchio di ciò che l’Italia democristiana e fa-scista è, la produzione poliziesca italiana (insieme ai cazzi parlanti dell’osceno Buzzanca31) sposa il più becero culto della violenza (P38, bicipiti potenti, denti rotti e il santo manganello per l’ordine e la legalità) con la più miserabile vol-garità fascista (maschi virili e femmine in calore, mani sul culo e seno in primo piano). È un tipo di cinema che ci è profondamente estraneo e totalmente nemico. Sarebbe ben triste scoprire che abbiamo venduto la nostra capacità di ridere o di piangere, di partecipare o di riflettere in cambio di un peto e di un seno, di un questurino felice e di una bella fotografia di un mitra che spara.

Così si scriveva su “Vedo rosso” del novembre 197332, stroncando come “nemico” e “fascista” non un film ma addirittura uno o più generi, il

31. Si fa riferimento, probabilmente, a film innocui e tutto sommato divertenti come Il merlo maschio, La Calandria, Quando le donne persero la coda, Jus primae noctis, di Pasquale Festa Campanile; Homo Eroticus, di Marco Vicario; Il vichingo venuto dal sud, di Steno; Io e lui, di Luciano Salce; Nonostante le apparenze... e purché la nazione non lo sappia... All’onorevole piacciono le donne, di Lucio Fulci.

32. Anno 1, 5, p. 00.

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cosiddetto “erotico”, e soprattutto il “poliziottesco” nazionale, oggi pur esaltato dagli studiosi e dal pubblico di mezzo mondo. Non ci si rende-va conto che, proprio da quel genere, anche dai suoi film più poveri e inammissibili, ci giungeva una prima chiave interpretativa nell’ipotesi di uno stragismo politico “di Stato” che ancora investe le ipotesi inve-stigative sulle bombe successive, quelle di via dei Georgofili, via d’Ame-lio, di Capaci ecc. Il che oggi emerge come nucleo pulsante di verità in molte analisi storiche e giornalistiche: a questo proposito mi paiono esemplari il libro-inchiesta su piazza Fontana di Fabrizio Calvi e Frede-ric Laurent, Piazza Fontana. La verità su una strage, certo datato, ove però un paragrafo intitolato L’inchiesta impossibile (cap. xi) ribadisce l’impossibilità del raggiungimento della verità in questo paese; o l’inte-ressante e coinvolgente Il segreto di Piazza Fontana di Paolo Cucchia-relli, da cui il film di Marco Tullio Giordana, Romanzo di una strage, che avanza la lettura “complottista” per la quale le bombe alla Banca dell’Agricoltura di Milano furono addirittura due, con l’intreccio di nato, Pinelli, anarchici e nazisti padovani, Calabresi, Feltrinelli, nel tra-gico pasticcio conclusivo che ha deturpato il futuro socio-politico ita-liano33. In quel clima, “Vedo rosso” non rinunciava a definire la produ-zione tutta del compianto e appena scomparso Damiano Damiani (Il giorno della civetta, Confessioni di un commissario di polizia, L’istruttoria è chiusa: dimentichi, Girolimoni) come frutto di «riformismo spiccio-lo», dell’«incapacità di analisi del contesto sociale»: a parte i toni e il bersaglio polemico (!), i recensori di “Vedo rosso” non avevano tutti i torti. Torto marcio, invece, avevano nel definire La proprietà non è più un furto di Petri «un’assurda porcheria, [...] un ignobile pasticcio», in un pensiero e con un linguaggio tagliato con l’accetta, esibizionistica-mente violento. Steve Della Casa e Paolo Manera ci ricordano che il punto 18 del programma di “governo rivoluzionario” apparso sul foglio

33. Due bombe, un dubbio: che aveva già – va ricordato – Emilio Alessandrini, il giudice ucciso da Prima Linea nel 1979. Piazza Fontana, per Cucchiarelli – sup-portato nelle sue convinzioni dalle notizie “certe” fornitegli da Silvano Russomanno, uomo dei servizi che intervenne già la sera della strage a Milano – sarebbe stata un’o-perazione d’intelligence che mirava ad innescare un golpe attraverso la predisposizio-ne di un colpevole in carne e ossa, Valpreda, e di uno politico, la sinistra. Sulla cui ipotesi, quella legata alle deviazioni delle indagini volute da elementi identificati e afferenti alle strutture italiane e straniere di intelligence, a vario titolo coinvolte nella cosiddetta “strategia della tensione”, sembra lavorasse anche Calabresi.

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marxista-leninista “Servire il popolo”, il 27 settembre 1969, addirittu-ra asseriva la necessità di un recupero per mezzo del cinema della rivo-luzione: «tutti gli intellettuali ed artisti schierati sinceramente con il popolo saranno rieducati»34. Parole ovviamente imperdonabili: eppure quel tipo di linguaggio, quel tipo d’editoria, d’intorno culturale, furono espressione anche di vera passione e competenza, di frequentazione del cinema come mezzo intellettuale d’eccellenza. Di comprensione alme-no parziale della trasformazione in atto. La critica militante degli anni Settanta, non a caso, vedeva l’anonimato dei suoi recensori. Poi dalle nebbie dell’impegno senza un nome emersero le firme di Vincenzo Vita e Silvano Piccardi (“Quotidiano”), Valentino Parlato, Umberto Eco, Roberto Silvestri, Mariuccia Ciotta (“il manifesto”), Gianfranco Man-fredi (“Re Nudo”), Giame Alonge e Paolo Bertetto (“La vecchia talpa”), Pio Baldelli, Goffredo Fofi, Peppino Ortoleva, Adriano Sofri (“Lotta Continua”)35. Tale ricchezza e diversità intellettuale, però, rimaneva an-cora imbrigliata in stereotipizzazioni ideologiche, in meccanismi for-mali e storici: il fenomeno terroristico era sublimato e rimosso. Ci si allineava, ci si schierava, ricorrendo a clamorosi siluramenti (ed errori di giudizio grossolani) laddove si ritenesse necessario annichilire il nemico ideologico, cosicché tra le passioni avverse, si colpiva indifferentemen-te l’Allonsanfan dei Taviani come la rieducazione criminale attraverso l’immagine di Arancia meccanica di Kubrick (su “Vedo nudo”: cosa che ancora oggi pare incredibile a chi scrive). Riprendendo la frase di chiu-sura di Todo Modo, il romanzo di Sciascia (da cui il film più censurato in Italia, il Todo Modo di Elio Petri) bisognava invece rinunciare alla guerra per bande, e risalire ai “moventi”, alle ragioni complessive. Guar-dare a quelle per capire quali fossero le tensioni complessive che strazia-vano lo sguardo della cultura e della società, quindi del cinema italiano di quegli anni, così equidistante, «né con lo Stato né con le br». In un momento che, nell’avvento televisivo, fissava la fine della Storia.

Qualche tempo fa, lo spunto ai “moventi” mi era consegnato da un in-contro casuale: un collega, un critico “militante”. Uno “impegnato”, in-telligente, in maglietta rossa. Contro, di nuova generazione, molto lon-

34. Postfazione a Sbatti Bellocchio in sesta pagina, cit., pp. 221-2.35. Osservazione che proviene ancora da Della Casa, Manera, Sbatti Bellocchio

in sesta pagina, cit.

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tano dai “cattivi maestri” della critica cinematografica italiana (eppure tutto compreso nei loro simboli, nelle pose, con tanto di eskimo, baffo e basettoni). Nulla di strano, in quel rosso di t-shirt, se non l’attestazione di uno slancio – che poi torna nella sua scrittura, nella sua analisi filmica (assai acuta, sempre di nicchia, liminale, talvolta ai limiti). Invece riman-go lì, a bocca aperta, perché sulla sua maglietta campeggia il simbolo del-la Rote Armee Fraktion – capisco, à la Joe Strummer del Concert Against Racism36 del 1978. Mi chiedo però se quella maglietta segnali qualcosa di più rispetto all’emersione potente, ormai abbastanza quotidiana, d’una certa “raf-Welle”, d’un certo fashion di cui scrive ampiamente Christian Uva nel suo Estetiche del terrorismo: Germania-Italia andata e ritorno37. Se ci sia qualcosa di più anche della recente presa d’atto del Padiglione Venezuelano della 55° Esposizione internazionale d’arte, La Biennale di Venezia, dedicata alla Urban Art. The Aesthetic of Subversion e a certe, rivendicate immagini di “terroristi” come eroi del popolo.

Da quella situazione derivano una serie di domande, alcune oziose, alcune un po’ più strutturate, semiologicamente delimitate e motivate: 1. sarebbe possibile, oggi, in Italia, ai margini della “terza Repubblica” (?), nel calderone dei linguaggi e dei pensieri più o meno omologati dall’informazione più falsificante e falsificata del mondo38, altrimenti sganciati dalla scrittura e vidimati nella pratica audiovisiva e interat-tiva del web, una t-shirt simile, con logo equivalente – che so, “br” o

36. Occasione in cui il leader dei Clash indossò la t-shirt con scritta “Brigade Rosse raf”.

37. In B. Tobagi (a cura di), Lo spettacolo della violenza. Terrorismo tedesco e cine-ma, Feltrinelli, Milano 2009.

38. Fonte significativa è la Classifica della Libertà di Stampa 2013 di Reporter Sans Frontières, che «rappresenta una più attenta riflessione degli atteggiamenti e delle intenzioni dei governi nei confronti della libertà degli organi di informazione a medio e lungo termine», come si legge nella nota pubblicata da rsf Italia. Nono-stante siano stati considerati molti criteri, che vanno dalle legislazioni in materia degli Stati alla violenza contro i giornalisti, i paesi democratici occupano la testa della clas-sifica, mentre quelli dittatoriali occupano le ultime tre posizioni. La maglia nera per la libertà di stampa va nuovamente agli stessi tre paesi del 2012: Turkmenistan, Corea del Nord ed Eritrea. Ma l’Italia non è da meno attestandosi al 57° posto. Secondo la classifica di Freedom House 2013, invece, il posto dell’Italia è il 69°, preceduta da Ghana, Nauru, Papua New Guinea, São Tomé e Principe, Isole Solomon, Samoa, Tonga, Namibia e Guyana. La televisione influenza ancora massivamente i cittadini, in assenza pressoché totale di libertà d’informazione. Le conseguenze evidenti della situazione sono sotto gli occhi di tutti.

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“Prima Linea”, “nar” ecc. – a descrivere come orpello rivendicativo e antisistemico (in fondo, ormai, si tratterebbe solo di un claim, di un logo, in un’operazione forse banalizzante ma ready made39, roboante perché controculturale, ma non più intrisa di sangue...), cioè un modo d’essere, di pensare, d’apparire diversi? I fatti terribili di quarant’an-

39. Riguardo la maglietta in questione (e, in senso lato, riguardo i meccanismi di trasformazione di senso nell’icona, ovvero riguardo la società capitalista post-iconic turn): una t-shirt è normalmente il supporto a testi, slogan, immagini frutto di bana-lizzazione, ma anche latrici di prorompenti verità – si sono viste magliette inneggian-ti a sandinisti, guerriglieri, narcotrafficanti (il claim di un ben noto liquore italiano fa riferimento a certi ambienti criminali che fanno ancora oggi decine di migliaia di vittime). Sono state messe in commercio indecifrabili magliette punk-acide con Adolf Hitler stile weird, quasi Vivienne Westwood, o Andy Warhol, se si preferisce. T-shirt che richiamano, nelle loro immagini, le trasfigurazioni di senso del dittato-re coi baffetti cui Grosz, o Chaplin, ricorsero da subito per le loro opere. Magliette e icone che ormai fanno riferimento ad un disvalore rinnovato (solo iconografico e ovviamente caustico) dell’immagine remediata: non certo alla sua semantica origina-ria. Certamente, e purtroppo, si sono viste t-shirt che inneggiano al Terzo Reich, alla banda della Magliana, alla Mafia, o a Breivik. Oppure, bottiglie di vinaccio italiano con l’etichetta con Hitler, Mussolini, o Stalin, o Castro. E poi, busti e bustini di ogni genere, salvaschermi e suonerie (noto quello del cellulare di Lele Mora, coi simboli nazifascisti, rappresentato da Erik Gandini nel suo Videocracy). Pare cioè evidente, da un lato, la risemantizzazione (non etica ma estetica, estetizzante e anche irresponsa-bile, privata di spessore referenziale) delle immagini-simbolo del Novecento. La tra-sformazione è continua e si definisce in una remediazione complessiva dei significati, motivo per il quale la regina d’Inghilterra diviene il simbolo del movimento punk che ne nega l’istituzione, e, per fare solo un altro esempio, il nome di Carlos Brigante (protagonista di Carlito’s Way, e di chissà quale eco storica) finisce sulle magliette ipercolorate per adolescenti della “De Puta Madre”. Il Dizionario della censura nel cinema (Mimesis, Milano-Udine 2010) di Jean-Luc Douin fa appena cenno alle que-stioni di tagli operati su film politici che trattino il tema terroristico. Non si tratta di dimenticanza, Douin ha ragione: è conseguenza ovvia del fatto che i film che osano qualcosa (che si discosti almeno minimamente dalle versioni ufficiali) sono pochissi-mi, e quindi pochissimi i tagli costretti ai fini della censura. Il fatto che non succeda, nel rispetto dell’ortodossia politica e storico-processuale (che però a chi scrive pare tradire l’esigenza di verità sui fatti di quella stagione cui le stesse Associazioni dei pa-renti delle vittime delle stragi si appellano di continuo), sta proprio negli irrisolti del-lo Stato: quando Mario Calabresi (cfr. note 37 e 38) accetta, o sembrerebbe accettare come risolta la questione così come posta dai e nei processi, perché si sono definite le “responsabilità” (?) in un paese dove, a dirla tutta, per le stragi di bombe in galera ci sono finiti pochi esecutori e nessun mandante, si rimane certo sconcertati. Ben più che per un’eventuale maglietta “scandalosa”: piuttosto, si è agghiacciati, ancora una volta, per l’evidente endocolonizzazione culturale cui siamo ancora costretti.

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ni fa, del “terrorismo” rosso e nero, sono sufficientemente acquisiti e metabolizzati, cioè adeguatamente storicizzati, per essere dichiarati risolti in un semplice oggetto quotidiano? Sarebbe lecito? E, soprat-tutto, fu “terrorismo”, quello, almeno nell’accezione attuale del ter-mine? Fu “terrorismo” quello della raf o delle Brigate Rosse?40 E se non nell’accezione attuale, in che modo? E al cinema cosa è successo realmente? Quelle sigle terrifiche potrebbero oggi, nel détournement e nella re-mediazione ovvia della merce contemporanea, consentire in-vece il ripensamento culturale di un’epoca, in un dibattito finalmente non settario che inauguri uno sguardo inedito di verità sugli aspetti più reconditi di una stagione? Sarebbe possibile, finalmente, uno sguar-do completo, onesto, non appiattito sulle politiche degli immaginari artefatti, manipolati dall’informazione e dalla comunicazione di regi-me, proprio in quegli anni di tensione, di blocchi, di psy-war41, viste le recenti rivelazioni sui fatti esiziali del terrorismo internazionale in Italia? (E non si dovrebbero ripescare, allora, le parole del terrorista Carlos, o di Cossiga, su Bologna; di Gallinari su Moro; o anche la

40. Che non lo fosse affatto è, ancora oggi, convinzione di Tonino Loris Paroli. Si tratta di esempio che proviene dal già citato Il Sol dell’Avvenire, film dove l’ex espo-nente della colonna torinese delle br, nel momento più sconvolgente e toccante del documento – una testimonianza e narrazione dei motivi sotterranei della trasforma-zione dei ragazzi dell’esperienza dell’Appartamento nelle Brigate Rosse di Franceschi-ni – afferma (1:08:19): «So perfettamente quante cose vanno criticate, vanno superate [...] ma noi non siamo mai stati terroristi. Ma parliamoci chiaro, una volta per tutte! Se noi avessimo applicato il “terrorismo” avremmo paralizzato l’Italia, eh! Perché il terro-rismo significava far saltar dei ponti, tirare alle forze dell’ordine i tranelli, che era faci-lissimo [...] che non abbiamo mai fatto, perché, infatti, in un tranello ben organizzato poi li accoppavi tutti; usar bombe: noi non abbiamo mai usate [...] e te [parlando con Franceschini e Ognibene], lo sai che noi non abbiamo mai usato l’arma bianca perché la ritenevamo fascista; noi non siamo stati “terroristi”! Io non accetto quest’etichetta organizzata da loro, non l’accetto! Il terrorismo era il terrorismo di Piazza Fontana. Io non sono [...] io ho fatto lotta armata, è stato commesso il delitto politico, e abbiamo fatto delle grandi cazzate, dei crimini, soprattutto in carcere, quando ammazzavamo i pentiti». E prosegue ricordando, tra le lacrime, la tortura e l’uccisione in carcere del Prima Linea Giorgio Soldati, a Cuneo, la cui vita si conclude con le parole di supplica rivolta ai suoi carnefici: «Compagni, fate presto, non fatemi male».

41. Ancora Della Casa e Manera ricordano come il cinema fosse anche il modo per discutere di altro: così il cinema diventava, su “Re Nudo”, 26, motivo per scrivere di controllo delle coscienze, in una facile sociologia-psicologia sociale che sembra spo-sarsi con le teorie dell’uso politico di Hollywood, da anni definitivamente acquisite.

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clamorosa sentenza, trentatré anni dopo, su Ustica? O le rivelazioni sul “papello”, inerenti le stragi di via dei Georgofili...?). La risposta alla domanda di cui sopra, da subito, è semplice: non sembra ancora pen-sabile. Una maglietta come quella non vuole esser prodotta, dovendo-si ancora metabolizzare quella stagione. Ancora oggi da noi s’invita, strumentalmente, alla “moderazione dei toni”, alla “collaborazione dei media” di marca quasi-andreottiana42, a omologare ogni dissenso nel racconto enfatico e irrisolto, figurarsi! L’innesco alla discussione po-litica ulteriore, approfondita – che risalga alla prima, più alta scintilla della violenza – non c’è stato nemmeno con il già citato Romanzo di una strage, film che pure ha mosso Adriano Sofri43 o, per contro, Mario Calabresi44 – in un modo o in un altro, direttamente coinvolti nei fatti

42. Faccio riferimento, ovviamente, ad una delle più note critiche ideologiche di sempre, quella ai contenuti di Umberto D, che Giulio Andreotti stigmatizzò ri-chiamando Vittorio De Sica dalle pagine di “Libertas” ad opere di «ottimismo sano e costruttivo».

43. Scrive Sofri (in polemica durissima con Paolo Cucchiarelli, autore del libro da cui il film di Giordana) sul “Post” (31 marzo 2012): «Dunque l’altra ragione, quel-la più immediata e forte, per cui ho scritto è di difendere la memoria di Pinelli e, allo stato degli atti, di Valpreda. Non perché siano “simboli” e intoccabili e sacri. Ma per-ché tutto ciò che ne sappiamo depone a favore della loro estraneità alla strage. Tutto ciò che ne sappiamo, a condizione che ci impegniamo a saperlo – ciò che Cucchiarelli si è guardato dal fare, millantando credito come uno scolaro che imbroglia. Cucchia-relli ha fatto entrare Valpreda in una banca con una valigia di esplosivo: le ragioni che ha addotto sono infondate. Ha fatto precipitare Pinelli con una spinta dalla finestra dell’ufficio di Calabresi, dopo averlo dichiarato a parte del piano esplosivo. Non si fa». Quindi non si fanno ipotesi, né si tentano ricostruzioni, secondo Sofri. A parte il fatto che non mi sembra affatto corrispondere a realtà ciò che Sofri attribuisce a Cucchiarelli riguardo Pinelli e Valpreda, anche qui ci si accontenta delle ricostru-zioni processuali, ovviamente, senza mandanti, con il solito depositario di verità cui Cucchiarelli ha risposto con un documento intitolato Le falsità di Adriano Sofri su «Il segreto di Piazza Fontana» (http://www.cadoinpiedi.it/img/Cuc_SOf.pdf ). Sul cosa debba esser fatto per capire quali siano state le responsabilità reali e, per Sofri, intangibili, quelle che Cucchiarelli ipotizza e talvolta stabilisce, forse anche azzardan-dole ma certo supportandole coi dati, ci dirà un giorno, invece, lo stesso Sofri.

44. Mario Calabresi, a proposito del film di Giordana, ha dichiarato ad Aldo Cazzullo (che riporta in virgolettato) sul “Corriere” (del 25 marzo 2012): «Sappiamo che è stata la destra neofascista veneta, conosciamo complicità e depistaggi dei servizi deviati e dell’Ufficio Affari Riservati, sappiamo che nel Paese esistevano forze favore-voli a una svolta autoritaria. È pericoloso dare l’idea che non si sappia niente. Sappiamo quanto affermano le sentenze che, se non hanno più potuto condannare, nelle loro moti-vazioni hanno chiarito le responsabilità». Attorno al film si è aperto un certo dibattito:

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aurorali del terrorismo italiano – ad esprimersi sull’opera, e a muovere congiuntamente aspre critiche alla ricostruzione di alcuni fatti, di na-tura ovviamente opposta, comunque “ideologica”.

I testi filmici d’ultima generazione cercano di operare, nel limite della loro distribuzione, la rilettura del fenomeno storico. Le grandi democrazie europee, è evidente, non hanno favorito il dischiudersi del-le verità all’opinione pubblica. Assoluta, e vergognosa, è l’assenza pres-soché totale di mandanti politici nelle principali stragi della recente storia di questo paese. Le responsabilità, i legami di apparati deviati ed elementi del sistema (tra loro, in qualche modo, sempre interconnessi, e si pensi ad Aginter Presse, a cia, a sid o più banalmente a Centro Studi Ordine Nuovo, a organismi neofascisti vari le cui responsabilità sono state ampiamente evocate in più occasioni e verificate ben oltre le dicerie e testimonianze45) al cinema si sono fatti liquidi, confusi, se non impalpabili. Talvolta puro bozzettismo. Se il professore sociologo di Mordi e fuggi (1973) di Risi rimandava ad un Renato Curcio pres-soché animalesco, il Delfo Zorzi – che è storia, finisce a Tokyo a fare il top manager alla corte del miliardario fascista giapponese Ryoichi Sasakawa con passaporto diplomatico, nel recente film di Marco Tul-lio Giordana è poco più d’uno psicopatico. Troppi, dunque, mi sem-brano ancora i lati oscuri; troppe le bombe nelle banche, sui treni (fa impressione pensare che prima del 12 dicembre 1969, giorno di piazza Fontana, il 9 agosto dello stesso anno furono ben otto gli ordigni che esplosero nello stesso giorno, per dieci bombe complessive e dodici feriti). Troppe, allora, rimangono le morti misteriose di cui il cinema non parla, o sussurra, e le verità a tempo, le coincidenze e le menzogne sui fatti principali dello stragismo italiano. Il terrorismo al cinema, o il cinema nel terrorismo, allora, è in primis un problema linguistico, di

certo è che ciò che ho ritenuto di riportare in corsivo, per sottolinearne l’importanza, sembra esprimere, rispetto a quanto affermato in partenza («conosciamo complicità e depistaggi dei servizi deviati e dell’Ufficio Affari Riservati, sappiamo che nel Paese esistevano forze favorevoli a una svolta autoritaria») l’adesione finale alla verità storica e processuale come sancito dalle infinite indagini e dagli atti depositati – in un giudizio fondato su un’accettazione necessaria e sufficiente d’una verità di mezzo, che anche Ca-labresi afferma essere minata proprio nelle basi, infine contraddicendo proprio se stesso.

45. Si veda, ad esempio, l’accertato coinvolgimento nei depistaggi nei fatti della strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura dei vari Maletti, Labruna, Giannettini; o anche i rapporti d’innumerevoli ordinovisti con cia.

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strategia enunciativa, e di rappresentazione veridittiva; filosoficamen-te, di epoché in senso husserliano, o bressoniano prima che di Realtà46; ove cioè i soggetti pensanti, qui gli uomini del cinema, devono mettere tra parentesi la contingenza singolativa per riuscire a cogliere la pura essenza dei fenomeni. I moventi, i mandanti.

Ma in un certo senso, quella del cinema è sempre un’immagine so-spesa, media che reclama implicitamente la riflessione sulla natura ul-tima delle vicende che narra. Le sue immagini, però, sono costrette a derive di vario genere. L’immagine fotografica è continuamente messa a distanza catartica, oggetto continuo di re-framing, cropping, zooming. Subisce manipolazioni semantiche e capovolgimenti di senso, così come da tradizione dell’immagine politica del Novecento, spesso mo-dificata, quindi tradimento, censura (si pensi alla tradizione sovietica di damnatio memoriae di membri di partito caduti in disgrazia, e letteral-mente rimossi dalle immagini ufficiali). Se la rivolta extraparlamentare al cinema è simbolizzata nel ribellismo nichilista e giovanile di I pugni in tasca (1965), sugli schermi nazionali si proietta essenzialmente roba – come dice Roberto Curti – alla Grazie, zia di Salvatore Samperi47. Al problema politico si somma, cioè, quello culturale ed estetico, della molteplicità e catarifrangenza delle tipologie di sguardo, dei supporti visivi e dei formati nuovi, ove «il linguaggio è ormai destinato a proli-ferare senza origine né termine né promessa»48. Mi pare esemplare, in tal senso, il destino dell’immagine fotogiornalistica divenuta simbolo e tòpos narrativo dell’intera stagione, e per questo, vista dappertutto49:

46. Ringrazio, a questo riguardo, le acute osservazioni sul tema di Luciano De Giusti.

47. Cfr. A pugni chiusi, cit., pp. 138-9. Sono gli anni della “protopornografia”, di subordinazione dell’hard alla (s)exploitation, prima che il porno si affermi concla-matamente e invada le sale nazionali nell’esplosione delle versioni insertate, da L’Hy-sterique aux cheveux d’or, titolo francese per Ingrid sulla strada di Brunello Rondi (1973), ai film di Rizzo, Bergonzelli, Rossati, Batzella, Albertini, Civirani, Fidani, Massaccesi, Caiano, Cavallone, sino al centinaio di film erotici distribuiti nel 1976 (su un complessivo di 237, dati siae). A questo proposito, invece, cfr. G. Maina, F. Zecca, Le grandi manovre. Gli anni Settanta preparano il porno, in “Bianco e Nero”, lxxiii, 572, gennaio-aprile 2012, pp. 58-69.

48. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 1994, p. 59.

49. L’immagine – lo ricorda Raffaela Perna in L’immagine fotografica tra conte-sto e ricontestualizzazione – fu utilizzata dai radicali, per la promozione di campagna

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quella scattata da Paolo Pedrizzetti, di Giuseppe Memeo che spara in corteo, in primo momento – si pensa – per uccidere a Milano il vicebri-gadiere delle guardie di Pubblica Sicurezza Antonio Custra, il 14 mag-gio 197750. Delle trasformazioni subite da quell’immagine ci informa il brillante saggio di Paolo Fabbri e Tiziana Migliore, 14 maggio 1977. La sovversione nel mirino51, che riprende il capitolo di Umberto Eco, Una foto, estratto da Sette anni di desiderio (Bompiani, Milano 1983). Fabbri e Migliore scrivono:

L’immagine assurta alla condizione di simbolo slitta dalla sua occorrenza concreta, che implicava densità, per la sopravvivenza delle cose nel segno, all’astratto che le dirada. Si diffonde così tanto, ed è talmente riprodotta, che il consumo ha la meglio sul senso: ne sigilla i contenuti, determina un pas-saggio, dalla «specie» al «genere», che la rende «vaga», e provoca l’usura. L’immagine in questione prende una consistenza difficile da articolare e ap-pare dunque indecifrabile, «misteriosa», aperta a tutte le letture possibili52.

Così, certamente, fu per l’immagine del terrorismo. Ne è prova la fio-ritura di film sugli anni di piombo dell’ultimo decennio, spesso coinci-denti nella rivisitazione in flashback di un «passato che non passa»53

attraverso la ripresentazione di eventi di cui si è detto, la cui natura è però già pienamente mediatizzata, o, almeno, ri-mediatizzata. L’im-magine pubblicata dal “Corriere d’Informazione” e citata, quella di Memeo che spara “solitario” con la calibro 22 in mezzo a via De Amicis (isolato dall’originario contesto urbano della foto in totale, circonda-

referendaria; da Mimmo Rotella, per un’opera, Scontro armato (1980), che riprende-va, nei suoi décollages, un articolo di giornale con la foto di Pedrizzetti e una didasca-lia errata; da Gianni Bertini, in un quadro intitolato Lui piange (1977); da Roberto Costantino, in Sid Autonomo, 1996.

50. Si scoprirà che il proiettile che ha ucciso Custra venne esploso da Mario Fer-randi, altro componente dei pac (Proletari Armati per il Comunismo). Memeo uc-ciderà comunque, successivamente, il gioielliere Pierluigi Torregiani. Il giudice Pietro Forno lo ha considerato, non casualmente, «una personalità estroversa e con una certa dose di esibizionismo».

51. S. Bianchi (a cura di), Storia di una foto. Milano, via De Amicis, 14 maggio 1977. La costruzione dell’immagine-icona degli «anni di piombo». Contesti e retrosce-na, DeriveApprodi, Roma 2011, pp. 136-41.

52. Cfr. pp. 136 ss.53. Cfr. S. Segio, Miccia corta: una storia di Prima Linea, DeriveApprodi, Roma

2009, p. 44.

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to da altri manifestanti sullo sfondo: quel giorno, armati, erano anche Barbone, De Silvestri, Pasini Gatti, Colombo, e Ferrandi, l’assassino di Custra) ci privava in realtà dell’immagine dei fotografi anch’essi in-scritti negli scatti originali, nella foto pre-cropping. Quel fuoricampo, e quelle presenze, risuonano a monito ed epitome d’una condizione tipica di oscuramento conoscitivo, d’una certa caratteristica peculia-re dell’immagine moderna: quella del “mostrarsi” esibitivo tipico del cinema senza farsi “vedere” davvero, palesandosi solo come figura drammatica, mitica. Del “guardarsi guardati”, come soggetti/oggetti della scena, comunque del porsi, volutamente o meno, all’occhio fo-tografico, inevitabilmente del citarsi, e del citare. L’immagine di via De Amicis, così, è la risultante d’una azione sospesa tra due versanti scopici: a) la necessità del non apparire, del vile anonimato, motivo per il quale alla fotografa Paola Saracini, vicina a Memeo, fu strappata la borsa a tracolla e fu intimato, con la minaccia d’una P38 spianata, di distruggere immediatamente il rullino di scatti dando loro luce; b) l’esibizione noncurante delle conseguenze e, forse, allo stesso tempo consapevole delle proprie potenzialità comunicative, esaltate di fronte ai molti fotografi (a Pedrizzetti, almeno). Tanto che la situazione pare congelarsi in un frammento già visto, rinviando alla memoria di un film di qualche anno prima, Imputazione di omicidio per uno studente (1972), di Mauro Bolognini: qui un giovane uccide un poliziotto du-rante una manifestazione di Lotta Continua per vendicare la morte di un collega – così come, ricordiamolo, c’era stata a Roma, il 12 maggio 1977, quindi due giorni prima di via De Amicis, la morte di Giorgiana Masi54. Quindi, non solo del citare, ma anche dell’eccitarsi, nel mettersi in scena. Infine, anche dell’“autofagocitarsi”: tipico dell’Autonomia – del movimento politico, che si diceva – proprio tra i suoi protagonisti – esser prossima all’esser cannibalizzata dalla sinistra istituzionale55 –e,

54. Che si ritenne uccisa da “provocatori” durante un vero e proprio “atto di strategia della tensione”. Le parole a riguardo di Giovanni Pellegrino, ex presidente della Commissione stragi, furono: «Un omicidio deliberato per far precipitare la situazione».

55. Prima di via De Amicis, Oreste Scalzone avrebbe dichiarato ad Andrea Bel-lini che «aveva sentito suo cugino e dirigente del pci Petruccioli il quale gli ave-va pronunciato una specie di sentenza: “Stiamo preparando i lager di massa per voi dell’Autonomia”», M. Philopat, Niente molotov, né spranghe, né fionde e neanche sas-si... niente di niente, in Bianchi (a cura di), Storia di una foto, cit., p. 123.

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ovviamente, molto più congruamente, dell’immagine contemporanea. In una specie di blow up immortalante che coglie sul fatto l’antieroe solitario, l’attore della Rivoluzione (quando piuttosto, abbiamo visto, si trattava d’azioni di collettivo, di gruppi, talvolta violenti e casuali), l’uomo assurgeva alla dimensione di “simbolo” criminale che affronta lo Stato di fronte all’occhio della Storia (circondavano Memeo incap-pucciato, quel giorno, oltre a Paolo Pedrizzetti e Paola Saracini, i foto-grafi Dino Fracchia, Marco Bini, Antonio Conti – sul marciapiede op-posto, dietro i tigli – e il giornalista Salvador Liderno di Radio Canale 96. Per terra, dettaglio surreale, delle trombette).

Allo stesso modo, un terrorismo come quello allestito dal cinema italiano, attraverso quelli che Burgoyne definisce «lieux de mémoire» elettronici, di fatto si risolve concretamente nella «violenza dell’archi-vio»56. In questi testi filmici non si assiste mai alla Storia, ma alla per-petuazione del senso assegnato a quei fatti dalle immagini di repertorio (quindi alla perpetuazione di un modello di rappresentazione pensato come unico e istituzionale). Gli immaginari si fanno memoria, vissuto, già accaduto, dato, e temporalità, sulla base del visivo ed emotivo per-sonale (appunto, il Moro di Volontè che è più Moro di Moro...). Così è stato, a suo tempo, per le immagini di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, in particolare quelle di Sciopero! (1924), di La corazzata Potemkin (1925), o di Ottobre – I dieci giorni che sconvolsero il mondo (1927); o per quelle di Vertov (come i Tre canti di Lenin, che per la terrorista Chiara di Buongiorno, notte sono di riferimento immaginifico ed onirico): immagini-tempo che hanno costituito formalmente la “realtà” sovieti-ca della Rivoluzione d’Ottobre, divenendone il “sublimato” in quin-tessenza. Che la parabola del terrorismo italiano si concluda proprio con la polaroid di Roberto Peci ripreso in campo medio, con un cap-puccio in testa, e una scritta (“Morte ai traditori”) sul muro cui si ap-poggia in un rudere di via Appia Nuova (pochi attimi prima di essere ammazzato per mezzo d’una pistola silenziata, che vediamo in quadro alla maniera della pistola di Franceschini alla tempia dell’industriale sit-Siemens, Idalgo Macchiarini), è fuori di dubbio. In quella polaroid di Peci è inscritto tutto il fallimento linguistico (si torna all’immagine fotografica più semplice) ed enunciativo dell’operazione voluta dal

56. Cfr. C. O’Rawe, «Un passato che non passa»: «La prima linea» e il ritorno agli anni Settanta, in “Bianco e Nero”, lxxiii, 572, gennaio-aprile 2012, pp. 97-102.

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brigatista Giovanni Senzani, ex docente di Criminologia alla Sapienza, consulente per più di un decennio del ministero di Grazia e Giustizia, oggi in libertà. Le immagini del processo all’operaio elettrotecnico Peci, colpevole solo d’essere fratello di Patrizio (primo pentito delle Brigate Rosse), e filmato per 54 giorni con una telecamera Telefunken (periodo conclusosi con la sua condanna a morte in diretta, quasi il tema del film di Bertrand Tavernier), non vengono mandate in onda grazie alla presa di posizione del presidente della rai, Sergio Zavoli57. La Guerrilla Tele-vision, la rivoluzione dei “portapack”, degli strumenti elettronici, danno il via alla complessiva “derealizzazione” del tutto, nell’ipervisione osce-na del fuori scena58, cioè di un tutto portato paradossalmente in scena. Il “delitto televisivo” che si fa “perfetto” à la Baudrillard, si riduce dav-vero all’immagine della morte, all’assassinio come estrema, ultima zona scopica: uccidere è la fallimentare estetica della più conclusa delle sov-versioni. La televisione è derealizzante anche gli stessi intenti “rivoluzio-nari”, i loro possibili effetti politici: non diversamente dal cinema, anche qui “parla il Capitale” (direbbe il Pino Bertelli di Cinema e anarchia. Nell’età della falsificazione e del conformismo sociale 1981-1992). Il video di Senzani (pur visibile in rete) costituisce l’exemplum per il domani (l’essere oggi, fors’anche, già, l’essere stato ieri) della comunicazione jihadista. Ma è vero anche che lo stesso Senzani, probabilmente, adot-tando il canone simil-snuff nella registrazione di morte dell’ostaggio, comunicando allo stesso Peci (fuoricampo) la sua condanna a morte (accompagnando lo zoom sadico della videocamera sugli occhi dell’o-staggio), fissa in tal modo: a) la consueta sclerotizzazione ed asfissia dell’immagine terroristica con ostaggio, cui, ormai, siamo abituati. Che è normalmente fatta dell’annichilimento motorio dei suoi viventi (lega-ti, bendati, silenti, immobili nell’atemporalità della costrizione e deten-zione), prima che esistenziale e politico. Che sottrae ogni residuale spa-zialità ai propri universi diegetici, costringendo i prigionieri a “set” limitatissimi e scarnificati, buchi, anfratti, che sono “prigioni del popo-

57. Si rimanda, e si è debitori, all’intelligente volume di C. Uva, Il terrore corre sul video. Estetica della violenza dalle br ad Al Qaeda, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008. In particolare sono di riferimento per questo saggio i capitoli In principio erano le Brigate Rosse e Prigioni del popolo, polaroid e videotape, pp. 25-39.

58. Osceno, da obscenus, fuori dalla scena, ovvero “ciò che dovrebbe stare na-scosto”.

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lo”, di “Dio”, ecc.59. Da allora, in una miriade di drammatici video d’ostag-gi, videodecapitazioni, proclami, gli spettatori apprendono l’evidenza della barbarie, certo: ma, dopo lo shock iniziale, l’accettano inevitabil-mente, nutrendo nei confronti del misfatto un sentimento di fervida condanna assieme ad una parziale, beata indifferenza fruitiva (da cui il fallimento del messaggio, e la necessità – così come sta capitando – della ricerca di nuovi modi della comunicazione nei messaggi più recenti). Non solo: b) le modalità di comunicazione sopraindicate costringono i carcerieri stessi a (di)mostrarci la loro stessa esistenza (vista la prevedibile o perduta sopravvivenza dell’ostaggio). L’ascrizione complessiva del loro universo narrativo, insomma, è all’oblio assoluto, nella logica già rivelata delle parole lucidissime di Paul Virilio in Lo schermo e l’oblio: «La perdi-ta, o più esattamente, il declino dello spazio reale di ogni estensione (fisi-ca o geofisica) a beneficio esclusivo dell’assenza di dilazione delle tecno-logie del tempo reale porta inevitabilmente all’intrusione intra-organica della tecnica e delle sue micro-macchine in seno al vivente»60. Così è stato, d’altra parte, per la cattura e la morte, il seppellimento in mare di Osama bin Laden (la sua una narrazione sospesa, una morte che suona incompiuta, alla Sandokan di Sollima, col corpo dell’emiro del terrore – elettronico? Vero? Così come l’abbiamo visto sempre, per anni, in video-messaggi tra l’esistenza e la virtualità – infine abbandonato ai flutti, ro-manzescamente, senza testimoni, e indisponibile alla registrazione visiva conclusiva). Cosicché oggi, a ben pensarci, sembra che bin Laden non

59. Motivo per il quale nei recentissimi video di prigionieri, a quest’ultimi è re-stituita spesso la condizione minima e sufficiente d’esistenza, la possibilità di muo-versi, comunicare, esprimere. Che tali messaggi subiscano comunque una fallimenta-re propensione al videomessaggio canonico – consegnato al web, ad Al Arabiya o Al Jazeera – nella consapevolezza della necessità politica di sperimentare nuove modalità comunicative, risulta da quanto registrato dal solito Christian Uva in Il terrore corre sul filo. Estetica della violenza dalle br ad Al Qaeda (nota 1, p. 14), ove scrive: «Il movi-mento Ansa al-Sunna, attivo in Iraq dal settembre 2003, è arrivato persino ad indire un concorso mirato ad individuare on-line il miglior video di azioni di guerriglia irachena in una rosa di venti filmati relativi ad attentati realizzati contro le forze della Coalizio-ne. I video tra i quali scegliere quello cui conferire la “Palma d’Oro del terrore” sono stati classificati secondo la sensibilità degli obiettivi da colpire, la posizione di sicurez-za nella quale si è collocato l’operatore per riprendere la scena, la qualità del filmato stesso, la precisione nel colpire l’obiettivo, la qualità dell’esplosione e quella delle scene riprese dopo l’attacco». In sintesi, soprattutto, preoccupazioni estetico-formali.

60. P. Virilio, Lo schermo e l’oblio, Anabasi, Milano 1994, p. 108.

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abbia avuto mai un “corpo”, e in tal senso, nemmeno occasione di fuga dai nostri immaginari. Ed è questo che serviva, forse. La sparizione dei corpi del terrorismo e delle loro ideologie, nell’epoca dell’elettronica, av-viene dopo l’invisibilità “reale” dettata dalla “sovravisibilità” mediatica: non diversamente da quanto toccò al progetto comunicativo e massme-diatico di Senzani, il murder à la mod (per dirla con un titolo sessantotti-no di Brian De Palma) è del tutto inutile, se non addirittura contropro-ducente. Ma se questa immagine, che chiamerei DELL’IMMAGINE tout court, immagine per l’immagine, oggi declinata in una fase ulteriore di trasformazione del Reale in digitale, è il punto di arrivo degli anni Set-tanta che si fanno Ottanta, e del terrorismo con essi, possiamo supporre che sia stata preceduta da altre fasi storico-estetiche specifiche (due, al-meno) caratterizzate e surdeterminate dalle tecnologie estetiche domi-nanti, dai loro linguaggi. Se l’immagine in evento mediale (si pensi al caso Ciro Cirillo61), qualsiasi sia il connotato che porta con e in sé, è già un qualche “effetto comunicativo” (motivo per il quale – non a caso – sarebbe sparito il filmato delle riprese televisive a circuito chiuso di

61. Il 27 aprile 1981, l’assessore regionale all’urbanistica Ciro Cirillo – responsa-bile amministrativo dc della ricostruzione del dopo terremoto in Campania – viene rapito dalla colonna napoletana delle Brigate Rosse, il cosiddetto Fronte Carceri – a Torre del Greco, nel suo garage. Nell’agguato perdono la vita il poliziotto Luigi Car-bone, l’autista Mario Cancelli, e resta ferito Ciro Fiorillo, segretario dell’assessore. Al-cuni esponenti della dc (Giuliano Granata, sindaco di Giugliano, Silvio Gava, Fran-cesco Pazienza, Flaminio Piccoli, Francesco Patriarca, Vincenzo Scotti ed Antonio Gava) e dei servizi segreti italiani (già dopo sole ventiquattro ore, Giorgio Criscuolo del sisde) chiedono la collaborazione di Raffaele Cutolo, boss camorrista detenuto ad Ascoli Piceno. Attraverso le informazioni dei brigatisti Luigi Bosso e Sante No-tarnicola, Cutolo riesce a conoscere i nomi dei carcerieri di Cirillo: Pasquale Aprea e Rosario Perna. Le br, in quella primavera del 1981, gestiscono i rapimenti di Renzo Sandrucci, Giuseppe Taliercio, e dello stesso Roberto Peci, in mano a Giovanni Sen-zani. Cutolo riesce a stabilire una cifra per la liberazione dell’assessore napoletano, che avviene il 24 luglio 1981 (contrariamente a quanto annunciato dal governo nel rispetto della “linea dura” scelta per Moro). Tutto si risolve in un reciproco scambio di favori tra uomini della dc, servizi segreti, Nuova Camorra Organizzata e Brigate Rosse. Tra i “favori” delle br a Cutolo sarà possibile, successivamente, annoverare il delitto Am-maturo. Il 15 luglio 1982, il vicequestore Antonio Ammaturo, da sempre impegnato nella lotta alla camorra, viene ucciso dalle Brigate Rosse. Della detenzione e del “pro-cesso popolare” delle br a Cirillo esistono i video e le registrazioni. Se complete, non è dato a sapersi. Ciò che si sa, ed è dato per acquisito dalle carte processuali, è che i servizi, pur a conoscenza del fatto che Senzani trattiene anche Peci, di quest’ultimo si disinteressano, concentrandosi solo sulla liberazione dell’assessore dc.

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Moro), la destra neofascista guidata da Pierluigi Concutelli – lo ricorda ancora Christian Uva, riprendendo il saggio di M. Fiasco, La simbiosi ambigua. Il neofascismo, i movimenti e la strategia delle stragi – progettò l’attentato al capo dell’Antiterrorismo Santillo con bazooka, armi corte e cinepresa: «la ripresa cinematografica della scena doveva servire a dimo-strazione della potenza del [...] gruppo»62. Sappiamo63 che Baader&Meinhof pensarono l’azione performativa e attoriale sulla scena dei loro crimini come fondamentale dirompenza comunicativa, attraver-so espedienti sempre più sfrontati e spettacolarizzanti, forse anche a “combattere” il consumismo capitalista sul suo stesso terreno, identifica-to nel “Konsumterror” dei grandi magazzini tedeschi (di Francoforte, ad esempio) presi di mira dalle prime azioni con attentati, incendiati ecc.: grandi magazzini, secondo la nota definizione di Marc Augé, “non-luo-ghi”, ovvero set per eccellenza (con gli aeroporti, altro luogo terroristico-spettacolare) che oggi, come già ieri, sono veri e propri templi dell’estetiz-zazione giovanile, della vetrinizzazione e della socialità, d’una propria adesione culturale al sistema (talvolta, al suo cinismo ideologico asservito al profitto), del desiderio. Quello slancio che si caratterizzava per una nuova consapevolezza, e che pure sembrava scomposto e furente, in un’attitudine per certi versi “ingenua”64 e feroce all’immagine (cinemato-grafica o televisiva, non importa) come si fosse Pierrot le fou, in più di un’occasione fu, e fece il terrorismo al cinema. Allo stesso modo, nel rapi-re Hanns-Martin Schleyer (per annichilire la sua scorta e prelevarlo), raf bloccava la sua macchina con la più cinematografica ed ėjzenštejniana delle carrozzine da bambino, poi lasciata in mezzo alla strada, segnalando un referente, il cinema rivoluzionario (di Ėjzenštejn, ma in altre situazioni anche di Godard, Malle, Leone, Peckinpah) affermato come serbatoio di immaginario politico e di resistenza politico-culturale consumata nel

62. R. Catanzaro (a cura di), Ideologie, movimenti, terrorismi, il Mulino, Bologna 1990, p. 183.

63. Le stesse riflessioni e parole di qui in avanti, abbozzate appena, sono conte-nute in M. Spanu, Tre tensioni estetiche per i cosiddetti anni di piombo, in “Blow Up” # 168 (maggio 2012), pp. 140-1.

64. A questo proposito, sull’ingenuità della rappresentazione e della lettura dell’immagine e della violenza (nello specifico, della guerra: ma l’analisi bene s’attaglia anche sulle questioni inerenti il terrorismo e la lotta armata), cfr. S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003, che scrive: «Non si dovrebbe mai dare un “noi” per scontato quando si tratta di guardare il dolore degli altri» (ivi, p. 10).

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sangue: esperienze pensate come spettatori, col distacco di chi assiste alla morte simbolica dell’altro, del “nemico” da distruggere nell’operazione di guerra, opaca, affascinante, banale. Uva, che al cinema della violenza terroristica ha dedicato brillantemente molta parte della sua ricerca, ri-corda nelle sue opere come Baader e Meinhof abbiano “giocato” spesso ai tedeschi Bonnie & Clyde (e il film di Uli Edel, La Banda Baader Meinhof, 2008, ce lo conferma appieno: tematicamente, e attraverso i propri risvol-ti metanarrativi). Il già citato Giuseppe Valerio Fioravanti fu, è noto, at-tore televisivo e cinematografico, e ha più volte dichiarato la vasta atten-zione e frequentazione, con Francesca Mambro, del cinema e di certe sue specifiche mitologie: dal Kurtz di Apocalypse Now a Flash Gordon; da Il mucchio selvaggio a Kagemusha. Vamos a matar, compañeros (1970) di Ser-gio Corbucci, oltre ad aver interessato la nasa (perché vi sarebbe regi-strato il volo di un ufo, fissato in pellicola, quindi con definizione foto-grafica...), divenne letteralmente il film di culto di Potere Operaio e atto ad infiammare i suoi slanci contro i celerini. Holger Meins fu allievo di Peter Lilienthal. Horst Sohlein e lo stesso Andreas Baader ruotarono at-torno al clan Fassbinder. È esistita, nel terrorismo tedesco e in quello ita-liano, un’estetica della e alla violenza, una tensione dall’immagine all’im-magine, fattasi espressione, modalità comunicativa sovversiva. Il cinema, “occhio del Novecento” (titolo di un celebre saggio di Francesco Casetti per Bompiani), si nutre delle istanze generazionali, culturali, politiche, sociali di un’epoca, e media tra esse portandone in emersione l’aspetto più evidente (o superficiale). Pensare a tre fasi diverse, di diverso voltag-gio, rimanda ad una parabola della violenza degli “anni di piombo” già nota nella “tripartizione”65 di R. W. Fassbinder che, leggendo la contesta-zione tedesca, parlò d’una prima fase idealistica e sessantottina, d’una seconda fase, pratica, di lotta armata, e d’una terza e ultima, di mera di-struzione insensata, quello che qui si pensa della sola immagine autorife-rita, nel pieno del “regime visivo”, secondo la definizione di Debray in Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente66.

65. Ancora C. Uva, in Tobagi (a cura di), Lo spettacolo della violenza, cit., nota 2, p. 18.

66. Vie et mort de l’image, Gallimard, Paris 1992, pubblicato in Italia da Castoro, Milano 1999. Al “regime visivo” di cui sopra si fa riferimento nel suo capitolo Indice, icona, simbolo, p. 177.

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Quando, cioè, “l’immagine diviene il proprio referente”, e “tutta la gloria è per essa”.

Definirei allora la prima fase come quella dell’“immagine della rivoluzione”. Immagine cinematografica ma, inizialmente, più ge-nericamente visiva, fumettistica e pubblicitaria, solo successivamente invasiva e diffusa: cioè, di provenienza optical o pop, intellettuale, in-novatrice e fors’anche elitaria, frutto di sperimentazione, di ricerca ar-tistico-concettuale assai dotta, evoluta, che si fa poi, subito, massificata in virtù del suo successo. Suo momento d’apice, seminale, è il “maggio francese”, prima represso duramente dalle forze di governo gaullista, poi riconosciuto nell’ampio ventaglio di riforme che in Italia non ci saranno mai. Il periodo è aureo: il 1969 è l’anno di La via Lattea, di Luis Buñuel, film nel quale gli anarchici “fucilano” il papa, ben prima del Giovanni Paolo ii colpito dal meteorite di Cattelan di La Nona Ora (2001). Nel 1969, Liliana Cavani cosparge di “cadaveri” le vie di Milano dopo l’azione repressiva della polizia politica, nel bellissimo I Cannibali. In Z, l’orgia del Potere, ancora del 1969, Costa-Gavras ad-dita simbolicamente la destra greca rievocando l’aggressione di Salo-nicco a Lambrakis nella figura del suo deputato greco che si schiera contro le basi nucleari straniere. La cultura visiva moderna vive una sperimentazione poderosa che va raramente a braccetto con il Potere, quasi mai solidarmente, se non con funzione critica. Così, nel 1970, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri sembra rappresentare perfettamente il sentimento dominante per il quale la società italiana è luogo perfetto d’impunità e violenza istituzionale, delle sue colpe evidenti e della repressione postfascista, del sadismo e della morte nell’esercizio del Potere; e, attraverso di esso, dell’anarchia più assoluta, sadiana (di cui il Salò di Pasolini). Sono anni formidabili, da un certo punto di vista: Cohen-Bendit, leader della contestazione francese, compare in Vento dell’Est (1969) e Lotte in Italia (1970) di Godard. Pasolini firma Porcile (1969). Antonioni dissolve la sua visio-ne della ribellione studentesca attraverso il sogno e l’esplosione visiva di Zabriskie Point (1970). Negli Stati Uniti George Romero consegna il mondo agli zombies nel film più apocalittico e pessimista di sem-pre, La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968), opera – consapevolmente o inconsapevolmente, poco importa – tra le più politiche (e forse terroristiche) mai realizzate. Se La decima vittima di Elio Petri disegnava auroralmente (1965) il futuro istituzionale e

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ludico-terrorizzante, catodico e reality, della nostra contemporaneità politica e sociale, tra i film esemplari ed inauguranti il periodo in que-stione (tra 1967-68 e 1973-74, circa) penserei invece a La Cinese (1967, La Chinoise), capolavoro di svolta, di lucido sviluppo linguistico, di preveggenza autoriale, a firma di Jean-Luc Godard. In La Cinese si formalizza esteticamente, in nuce, una sorta di sublimato estetico della “violenza” scritturale presente e futura. Il film “racconta” (ma è un anti-raccontare, meta-raccontare) di un gruppo, di un collettivo di attivisti marxisti-leninisti, potremmo dire pre-terroristi (quasi l’esperienza ita-liana dell’Appartamento) riuniti in un’abitazione parigina. Studiano, si istruiscono, declamano dal Libretto Rosso, si formano alla teoriz-zazione e alla pratica rivoluzionaria. In apertura la scritta: “Un film in fieri” (in blu, bianco e rosso, colori nazionali, primari, vibrazione e tensione pop artistica). Uno dei personaggi recita testualmente:

Non si prevedono crisi drammatiche del capitalismo europeo tali per cui la massa dei lavoratori, per difendere i propri interessi, opti per lo sciopero rivo-luzionario o per l’insurrezione armata. D’altronde, la borghesia, non cederà mai il potere senza combattere e senza essere costretta all’azione rivoluzionaria.

L’azione rivoluzionaria, qui, è prefigurata come necessità. Se ne dedu-ce, ovviamente, che bisogna «creare le condizioni oggettive e sogget-tive che rendano possibile l’azione rivoluzionaria delle masse, nonché l’attuazione e la vittoria della lotta con la borghesia». Concetti che sono esplicitati essenzialmente, si noti bene, attraverso la parola scritta e il parlato (anche acusmaticamente67). Non solo: si veda, ad esempio, l’episodio introdotto dalla voce dello speaker di Radio Pechino nella scena durante la quale la ragazza ascolta e prende appunti, tra i bianchi e i neri, i gialli, gli azzurri, i rossi (libretti maoisti), in una parcellizza-zione bidimensionale, una campitura primaria e geometrica dello spa-zio di sfondo, quasi si fosse in un quadro di Mondrian. Ecco, dunque,

67. Acousmatique è aggettivo di origine greca (da ákūsma, audizione), e indica «tutti i suoni uditi di cui non si vede la fonte poiché mascherata» ( J. Aumont, M. Marie, Dictionnaire théorique et critique du cinéma). Lo si rintraccia per la prima volta in P. Schaeffer, Traitè des objets musicaux, Seuil, Paris 1966; poi in M. Chion, La voix au cinéma, Cahiers du cinéma, Paris 1982. Implicitamente “acusmatica” sarebbe tutta la parola cinematografica: nello specifico, lo è, doppiamente, quella che proviene da-gli elettrodomestici messi in quadro (ad esempio, la radio delle trasmissioni maoiste).

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la prima e potente significazione che Godard assegna alla rivoluzione: il film è da un lato in fieri, in divenire, lotta di classe che non si ferma neppure alla fase di affermazione del proletariato. La Rivoluzione, si sa, “non è un pranzo di gala”, è ancora bidimensionale, logocentrica, pop, anzi pol-pop (come diceva Petri dei suoi film tragico-grotteschi, come La classe operaia va in Paradiso, o La proprietà non è più un fur-to). Soprattutto, da questione squisitamente inerente la parola, gioiosa, scritta o recitata che sia, la Rivoluzione si prepara a divenire materia squisitamente d’immagine.

A definire quasi un cortocircuito fruitivo, i corpi nei film di Godard sono allora cristallizzati nel loro solo esercizio di parola, surdominan-te e raggelato. Un immobilismo splendidamente anticinematografico, non diversamente dalla rigidità cui, quattordici anni dopo, Margare-the von Trotta costringerà le due protagoniste femminili, Marianne e Julianne (due sorelle tedesche nate alla fine della Seconda guerra mondiale): una redattrice d’una rivista femminista, e una terrorista, sono ingabbiate prima nella propria rabbia, redente e liberate poi (non più obbligate a ideologie opposte, nell’amorevole, reciproco ricono-scimento tra donne) nello straordinario Anni di piombo (Die Bleierne Zeit, 1981). Lo stile di La Cinese è segnicamente violento, organizzato per quadri statici, come immagini di un cine-fotoromanzo à la Chris Marker, per tableaux. Alla dinamicità, alla violenza si fa riferimento nell’episodio del coinquilino bastonato dalla “Sezione Sorbona” degli studenti marxisti-leninisti, quindi dagli stessi compagni, in una frat-tura segnica e politica che pare, già allora, irrespingibile. L’estetica e la logica complessiva è però lo scontro nella sua “bellezza”, nella rappre-sentazione dell’eroismo rivoluzionario come soffio di Vento dell’Est, quindi suprematista, costruttivista, iperrazionalista, o pop-art.

Il film di Godard anticipa anche la seconda fase della mutazione estetica della violenza al cinema, quella che intitolerei, capovolgendo la dichiarazione della prima fase, come “la rivoluzione è imma-gine”. Con la Rivoluzione, immagino, il “terrorismo”. Per spiegarne il senso ricorro al già citato, e molto successivo Buongiorno, notte di Bellocchio, film molto discusso (e amato visceralmente da chi scrive), ove i terroristi sono rappresentati spesso davanti alla televisione68. Da

68. Sulla cosa concorda anche Zagarrio in Staccare la spina alla memoria. Rifles-sioni su cinema italiano e terrorismo.

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questa, infatti, i terroristi sembrano dipendere, sia nell’analisi politica della situazione sia nelle decisioni da prendersi di volta in volta. Chiara sogna, come già detto, attraverso le immagini di Dziga Vertov. Sola-mente nel ricordo della parola scritta (letta, declamata) delle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, confrontata con quella delle ultime lettere di Moro, che all’improvviso rimbomba nella sua mente risvegliata sul finire del film dall’ipnosi ideologica, Chiara, la carceriera sino a quel momento irriducibile, sembra comprendere l’or-rore di cui è prima artefice.

La Rivoluzione, dunque, si fa immagine: all’una e all’altra è diffi-cile sfuggire. E lo è anche nell’idea che di essa ci restituisce il cinema poliziottesco e popolare colonizzante il decennio in considerazione. Si diceva come il poliziottesco intuisca da subito la natura più intima del “terrorismo” nazionale, la sua traiettoria, sia nel suo spengimento gra-duale, ai fini di un mero esercizio di violenza per la violenza, sia nella sua natura stragista, da cui evidentemente scaturisce il resto. Si pensi ad esempio a La polizia ha le mani legate, di Luciano Ercoli, del 1975: il film sottolinea – non come ipotesi, come dato di fatto – le responsabi-lità politiche in un attentato evidentemente simile a quello della Banca dell’Agricoltura. Dello stesso anno, La polizia accusa: il servizio segreto uccide di Sergio Martino, approntava con coraggio il tema del tentato golpe con la collaborazione dei servizi segreti (deviati?). Temi simili attraversarono La polizia ringrazia (1972) di Stefano Vanzina, e costi-tuirono la trama di due pellicole fondamentali: Vogliamo i colonnelli di Mario Monicelli (1973), ma prima ancora l’ante litteram Colpo di stato (1968) di Luciano Salce, che ipotizzava una vittoria alle elezioni del pci, con fuggi fuggi del capitale, e successiva, grottesca dichiarazione degli stessi vertici comunisti sulla falsità dei dati elettorali – per non compromettere gli equilibri internazionali (!). Evidenti paiono alcuni riferimenti al generale De Lorenzo, e al tentato colpo di Stato del 1964. Vogliamo i colonnelli, invece, sceneggiato da Age e Scarpelli, si costrui-va attorno al personaggio dell’onorevole missino Tritoni (interpretato da Ugo Tognazzi) un epigono di Valerio Junio Borghese che con i suoi “forestali”, qui “guardiani della foresta”, arriva ad un passo dalla sede della rai (così come fu durante il tentato golpe della notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970). L’azione politica necessita, attraverso l’immagine televisiva, di un riconoscimento mediatico e di massa ormai altrimen-ti impossibile: Jean-Pierre Léaud, che interpreta uno degli studenti

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dell’appartamento parigino in La Cinese, racconta (inquadrato in pri-mo piano) la storia di uno studente che si fascia il capo e urla ai giorna-listi: «Guardate cosa mi hanno fatto!», per poi svestirsi della garza e apparire sano, intatto. Tutto ciò tra l’ammiccamento metalinguistico, l’interpellazione spettatoriale, l’identificazione speculare, e lo sguardo in macchina. A significare, infine, la “necessità” della violenza – anche formale e creativa – dell’immagine in quanto “costruzione del mondo”, in quanto rappresentazione funzionale alla logica d’innovazione rivo-luzionaria. Egli (Léaud/Godard) non gioca soltanto alla comunicazio-ne politica, ma lancia anche il messaggio di rivolta.

Della terza fase, abbiamo detto a sufficienza. In quanto tale sufficien-te, autoconclusa, sterile. Talvolta del tutto comica, con Tognazzi che per “Il Male” «rivendica il diritto alla cazzata», apparendo sulle false prime pagine di tre quotidiani, “Paese Sera”, “Il Giorno” e “La Stampa”, ammanettato e scortato dai carabinieri perché «È il capo delle br».

Si diceva che il video di Senzani, l’interrogatorio-inganno a mezzo videocamera, descrive il punto di arrivo della parabola e dell’umanità rivoluzionaria dell’eversione marxista-leninista in Italia69. Quel finale di traiettoria è registrabile in modi meno violenti nello scarto tra due film assai simili, di differente conclusione: in Apollon, una fabbrica occupata (1969) di Ugo Gregoretti, con Gian Maria Volontè, si narra d’una tipografia romana occupata per un anno dove le manifestazio-ni di sciopero e protesta si concludono con il salvataggio dei posti di lavoro. Solamente tre anni dopo, nel 1972, l’occupazione di Crepa pa-drone, tutto va bene (Tout va bien) è invece adirata. Gli operai che han-no sequestrato il proprietario d’una azienda di salumi e, in fabbrica, la giornalista e il regista (innamorati ma in crisi) che sono lì a filmarli, disprezzano il mondo dell’informazione pur necessitati di essa. Qual-cosa è cambiato. La tensione dell’immagine è diversa: in Occupazioni occasionali di una schiava, di Alexander Kluge, l’esistenza di una casa-linga, Roswitha, è disagio ed alienazione definitiva, senza remissione, tra aborti clandestini e solitudine urbana. Si tratta, insomma, della nuova emergenza, la malattia che domina il nuovo mondo, indifferen-te alle più ovvie istanze di lavoratori e giovani. I film che si affermano,

69. È, ancora, l’assenza d’umanità di cui parlava Corghi, la mercificazione de-finitiva del corpo dell’ostaggio, ma anche del sequestratore, dell’eroe e dell’antago-nista. Soprattutto, della persona ripresa al fine d’una sua reificazione ad immagine.

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allora, sono quelli con Merli e Milian. Roberto Curti, in Italia odia. Il cinema poliziesco italiano70, li chiama “cani arrabbiati”: ad esempio, il Giulio Sacchi (Tomas Milian) di Milano odia: la polizia non può spara-re (1975) di Umberto Lenzi. Giulio Sacchi, l’antieroe per eccellenza, è

l’impersonificazione di un furore ancestrale e assoluto, un outsider destabi-lizzante che calpesta le regole del vivere civile. È per questo che Giulio Sacchi fa paura e ribrezzo: non (solo) perché uccide senza distinzione vecchi e gio-vani, donne e bambini, ma per l’impudenza con cui si fa beffe delle vittime, anche dopo la morte, come se fosse l’insulto, e non il piombo, a dar loro il colpo di grazia71.

Della Rivoluzione, della caoticità riformatrice di qualche anno prima è rimasta la violenza, o l’attonito senso di spaesamento dettato dal mas-sacro del Circeo, dalla sua brutalità insensata, cieca (nella forma di San Babila ore 20: un delitto inutile, di Carlo Lizzani, 1976, basato sul mas-sacro di un giovane militante di sinistra per mano di cinque neofasci-sti). Censo, habitus, cultura, appartenenza non fanno i bravi ragazzi di buona famiglia: Paolo, il figlio del decano della critica cinematografica italiana, Morando Morandini, partecipa al commando – con Marco Barbone – della “Brigata 28 marzo”, quello che uccide Walter Tobagi. Lo stesso commando aveva gambizzato Guido Passalacqua, giornalista di “Repubblica”, che Paolo Morandini aveva incontrato nel salotto di casa: il figlio del critico cinematografico sarà arrestato mentre incontra la madre, per un cambio di biancheria. L’ideologia è evanescente, ri-mane l’esibizione dei ventenni e il sangue degli innocenti. O quello dei colpevoli: nonostante la morte della bella donna sia soggetto poetico per eccellenza, sulla figura e la fine di Mara Cagol, uccisa nello scontro a fuoco con i Carabinieri, nessuno ha mai pensato un film.

70. Lindau, Torino 2006.71. Ivi, p. 197.

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In questo capitolo tenterò di articolare e proporre alcune riflessioni sul nesso tra violenza e parola come esso si realizza in letteratura, e più specificamente nella narrativa che rappresenta il tema della violenza politica e del terrorismo. Il tutto in chiave comparatistico-contrasti-va, proponendo un confronto tra due storie e due tradizioni distinte e lontane geograficamente e politicamente, anche se coeve dal punto di vista degli avvenimenti implicati: la lotta armata e il terrorismo de-gli “anni di piombo” in Italia e quelli dei Troubles nord-irlandesi (The Troubles è l’eufemismo con cui da sempre si denota la guerra civile in Irlanda del Nord).

In apertura, una breve citazione tratta dal bel saggio di Daniele Gi-glioli All’Ordine del giorno è il terrore:

Sul terrorismo la letteratura non ha nulla da insegnare, se si intende con que-sto la trasmissione di una qualche forma di conoscenza. Com’erano i giaco-bini, cosa pensavano i nichilisti, cos’hanno fatto i rivoluzionari degli anni Settanta: per questo meglio un libro di sociologia o di storia o di filosofia, che cento romanzi anche bellissimi. La sua virtù è tutt’altra. Se la letteratura ha da insegnarci qualcosa, è piuttosto un atteggiamento, una postura esistenziale, un esperimento di familiarizzazione con quell’alterità traumatica1.

Si tratta di una dichiarazione del tutto condivisibile e sottoscrivibile, e tuttavia da un certo punto di vista incompleta. La letteratura – va bene – non “insegna” né vuole “insegnare” nulla nel senso in cui gli studi sto-rici o sociologici possono farlo. Ma essa apre a una forma di conoscenza, sebbene non dell’ordine di quella del libro di «sociologia o di storia o

“Pretty Violence”: terrorismo e letteratura

in Italia e in Irlanda del Norddi Laura Pelaschiar

1. D. Giglioli, All’Ordine del giorno è il terrore, Bompiani, Milano 2007, p. 18.

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di filosofia», oltre ad insegnarci un atteggiamento e una familiarizza-zione con un’“alterità”, traumatica o meno che sia. O meglio, proprio di questo si tratta: la letteratura – l’arte in generale – sempre si muove, e soprattutto muove i propri utenti, nella direzione della familiarizza-zione dell’altro, o – per dirla con le parole di un filosofo – verso quella «imaginative activity of exploring another inner life»2 che innesca e da cui è innescata. Questa, però, è una forma di conoscenza: una forma di conoscenza che si dà all’interno di contesti e che passa attraverso ele-menti e processi immaginifici ed emozionali diversi dal logos della ricer-ca storica, politica, sociologica, filosofica e critica, ma che proprio per questo non è attingibile per altre vie. Per tale ragione, sul nesso parole-violenza, sul potere ambiguo che assumono i significanti in politica, e ancora più all’interno della violenza di matrice politica e della lotta ar-mata, la letteratura può diventare utile e forse unico strumento di inda-gine. A questa idea, tuttavia, cercherò di tornare in chiusura d’articolo.

In Irlanda del Nord il nesso tra parola e violenza – e per violenza qui intendo quella terminale, quella ultimativa, insomma quella che uccide – è sempre stato molto chiaro. Non è un caso che il verso più noto del più celebre poeta nord-irlandese, il premio Nobel Seamus Heaney, tracci nell’incipit della sua famosa poesia (“Digging”), che apre la pri-ma raccolta del 19663, un nesso tra parola e violenza tanto più suggesti-vo quanto più scioccante per la semplicità sintattica e lessicale di cui si compone: «Between my finger and my thumb/The squat pen rests; snug as a gun» (“Tra indice e pollice/rannicchiata sta la penna; comoda come una pistola”).

Nel teso contesto politico e sociale nord-irlandese, la connessione tra le parole e le cose è cruciale più che altrove, e la questione del “che nome dare – quale parola usare – a quali cose” è particolarmente insi-diosa giacché a seconda del significante scelto il significato, la “cosa” che si denota, cambia radicalmente. Dietro al significante, alle sue spal-le, si celano elementi identitari, storici, politici, culturali che lo puntel-lano e ne puntellano la scelta.

Un esempio altamente significativo in tal senso è il nome dell’en-tità geografico-politica in questione. La denominazione ufficiale della

2. M. Nussbaum, Not for Profit: Why Democracy Needs the Humanities, Prince-ton University Press, Princeton 2009, p. 90.

3. S. Heaney, Death of a Naturalist, Faber and Faber, London 1966.

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regione è “Northern Ireland”, termine neutro usato da politici e giorna-listi. Un unionista, però, parlerà di “Ulster”, evocando così l’unità stori-co-geografica originaria del luogo – l’Ulster appunto, una delle quattro regioni dell’isola, i famosi quattro “green fields of Ireland” (le altre sono Munster, Connaught e Fermangh). Malgrado l’Ulster sia formato da nove contee, di cui solo sei formano l’Irlanda del Nord mentre le altre tre fanno parte dell’Eire, l’impiego del suo nome è funzionale a comu-nicare un’idea di separatezza e diversità necessarie ai protestanti per giustificare il diritto ad avere destini distinti da quelli del resto dell’iso-la: non è quindi un caso che le organizzazioni politiche e terroristiche loyalist portino tutte il termine “Ulster” nei loro nomi: Ulster Unio-nist Party, Ulster Volunteer Force, Ulster Defence Association, Ulster Freedom Fighters, Ulster Protestant Volunteers e così via, mentre to-talmente assente sarà qualsiasi riferimento all’Irlanda, laddove invece i paramilitari repubblicani vorranno sempre dichiararsi “irlandesi” (da cui Irish Republican Army, Irish Republican Brotherhood e così via). Un cattolico irlandese non parlerà mai di Ulster, bensì userà natural-mente il termine “the North”, manifestando in tal modo un sentire che identifica in quell’area geografica la parte settentrionale di una totalità, quella dell’isola d’Irlanda, cui quel Nord naturalmente appartiene; con tutte le ovvie conseguenze politiche che ne derivano.

Esiste un mito, in Irlanda del Nord, secondo il quale è possibile iden-tificare un soggetto come protestante o cattolico a seconda del modo in cui pronuncia la lettera “h”: “haitch” tradisce una fonesi cattolica, “aitch” invece quella protestante. Una delle short stories più potenti del nord-irlandese Bernard McLaverty si intitola Walking the Dog4 e narra di un abitante di Belfast, John, che mentre una sera porta a spasso il cane viene rapito da un gruppo di terroristi i quali lo costringono a recitare l’alfabeto, con – presume il lettore – l’intento di identificarne l’appar-tenenza per poi deciderne la sorte. La potenza della novella – che narra un evento che dura al massimo una decina di minuti, si conclude con la liberazione dell’ostaggio e non è priva di una vena comica – sta nel fatto che il lettore non riuscirà mai a capire di che religione siano i rapitori (che sostengono di essere dell’ira, ma forse fingono) e l’ostaggio. Chi legge condivide il disorientamento e la paura del protagonista, che a

4. B. MacLaverty, Walking the Dog and Other Stories, Cape/Blackstaff Press, London 1994.

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sua volta cerca di intuire, nello spazio di pochi secondi, a quale gruppo appartenga la gang; nella tensione del momento, quando gli chiedono di recitare l’alfabeto, John non ricorda più quale sia la fonesi dell’una e dell’altra etnia. Nel dubbio, le pronuncia entrambe una dietro l’altra.

“Let’s hear you saying the alphabet.” “Are you serious?”“Yeah – say your abc’s for us,” said the gunman.“This is fuckin ridiculous,” said John. He steeled himself for another blow.“Say it – or I’ll kill you.” The gunman’s voice was very matter-of-fact now.

John knew the myth that Protestants and Roman Catholics, be cause of sepa-rate schooling, pronounced the eighth letter of the alphabet differently. But he couldn’t remember who said which.

“Eh ...bee...cee, dee, ee...eff.” He said it very slowly, hoping the right pro-nunciation would come to him. He stopped.

“Keep going.”“Gee...” John dropped his voice, “...aitch, haitch...aye jay kay”“We have a real smart Alec here,” said the gunman. The driver spoke

again5.

In un contesto così carico di tensione identitaria, altrettanto connotati sono i lemmi che denotano la violenza politica contro persone – civili, meno spesso personalità politiche e militari – e più raramente loca-tions di valenza simbolica o anche strategica: in Irlanda la dicotomia binaria terrorist/freedom fighter è presente da sempre, e da sempre l’uso del termine “terrorism” implica una condanna dei metodi impiegati per raggiungere uno scopo politico (che può essere condiviso o meno), laddove invece parlare di “freedom fighters” o “physical force policy” dice invece non solo di una condivisione della causa, ma anche di una liceità del metodo in quanto ritenuto l’unico possibile per il raggiungi-mento dello scopo (tema della necessità della violenza).

Parole e violenza, significato e significante, fonesi e appartenenza... In Irlanda del Nord il peso che le parole rilasciano è intensissimo, e lo slittamento dei significanti su significati instabili e cangianti è costante e pericoloso. Quando il rapporto tra linguaggio, identità e realtà è così carico e il potere della parola è così forte, la parola scritta e la letteratura

5. Ivi, p. 13.

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che di questa è espressione primaria non possono non giocare un ruolo basilare. Come infatti accade da quelle parti.

Ma per capire meglio la questione, può risultare utile introdurre una prospettiva comparatistica tra letteratura e terrorismo in Italia e letteratura e terrorismo in Irlanda. Il primo elemento significativo, e da cui forse prendere le mosse, è che mentre in Italia la produzione di ope-re letterarie sugli anni Settanta è molto modesta, in Irlanda del Nord il terrorismo ha invece conosciuto un destino opposto di, possiamo dire, iper-rappresentazione. Qui, nel periodo che va dal 1971 al 2000, sono stati pubblicati almeno 600 romanzi sui Troubles; e, considerando an-che che l’Irlanda del Nord conta un milione e mezzo di abitanti, la sproporzione tra i due fenomeni è impressionante6. Per la situazione italiana, faccio riferimento all’interessante libro di Demetrio Paolin, Una tragedia negata. Il racconto degli anni di piombo nella narrativa italiana, in cui l’autore analizza gli anni di piombo da una prospettiva inedita, quelli dei romanzi e delle opere autobiografiche scritti su di essi. Questa la situazione ritratta da Paolin:

I conti con gli anni di piombo, per la narrativa, rimangono in sospeso almeno fino al maggio 2003. Da questa data si assiste a una vera proliferazione di libri sul terrorismo rosso e nero. La maggior parte è costituita da romanzi, opere di fantasia, che tentano di dire la verità sul periodo7.

Paolin ritiene anche interessante il fatto che i libri sul terrorismo sia-no pubblicati «nel giro di pochi mesi» dai maggiori editori italiani: «Mondadori, Einaudi, Fazi, Marsilio, Garzanti, Feltrinelli, Rizzoli pub-blicano una serie di libri che hanno come tema centrale il terrorismo»8.

Il libro in questione si occupa di una ventina di romanzi, usciti tra il 2003 e il 2004, tra cui Corpo di Stato. Il delitto Moro di Andrea Baliani,

6. Il 2000 viene qui assunto come termine cronologico ultimo perché il Good Friday Agreement del 10 aprile 1998 e il successivo avvio al disarmo delle formazioni terroristiche sia cattoliche che protestanti possono essere considerati fatti che hanno chiuso il capitolo della lotta armata nella pur tuttora conflittuale e problematica realtà nord-irlandese.

7. D. Paolin, Una tragedia negata. Il racconto degli anni di piombo nella narrativa italiana, Vibrisselibri, 2006, p. 21 (http://vibrisselibri.wordpress.com/catalogo/una-tragedia-negata/).

8. Ivi, p. 22.

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Il contrario di uno di Erri De Luca, Tuo figlio di Gian Mario Villata, Tornavamo dal mare di Luca Doninelli, Il paese delle meraviglie di Giu-seppe Culicchia, Avene selvatiche di Alessandro Perisier, Amici e nemici di Giampaolo Spinato, La guerra di Nora di Antonella Tavassi La Gre-ca, Tre uomini paradossali di Gerolamo Di Michele, Il corpo dell’ingle-se di Giampaolo Simi, Terroristi brava gente di Sergio Lambiase (2006) e l’ancora più recente Aceto, arcobaleno di Erri De Luca.

Certo, per una cultura che non aveva prodotto nulla per un tren-tennio l’improvvisa comparsa di un certo numero di testi sugli anni di piombo rappresenta un evento notevole, anche perché Paolin individua egli stesso una sfera specifica di competenza della letteratura che l’ana-lisi storica non copre. «Esistono, quindi, delle zone in cui la storia e i suoi strumenti», scrive, «devono lasciare spazio a un tentativo diverso di comprensione, che obbedisca alle leggi della scrittura e della narra-zione, volte a completare e a incunearsi nelle parti memoriali»9. Il fatto che Paolin parli di «proliferazione» di romanzi dedicati all’argomen-to rivela quanto sia cospicuo dal punto di vista quantitativo il gap che separa la narrazione del terrorismo italiano rispetto ai più di seicento titoli nord-irlandesi. L’impressione è quella di trovarsi di fronte da un lato a una cultura che soffre di afasia narrativa e a una violenza politica riluttante a farsi rappresentare, dall’altro a una cultura che manifesta sintomi di bulimia rappresentativa e a un terrorismo sovra-narrato.

Un altro dato importante è che a questo gap quantitativo si accompa-gna un forse ancora più interessante gap stilistico. Una tragedia negata, infatti non solo analizza il fenomeno della narrativa degli anni di piom-bo, ma ne tratteggia criticamente una morfologia. A detta dell’autore, la narrativa italiana degli anni Duemila sul terrorismo soffre di una sindro-me per così dire da silenziatore, sì che la lotta armata, le vicende e i perso-naggi interni ad essa subiscono una borghesizzazione la quale finisce con l’edulcolare e anestetizzare una violenza devastante, che spesso e non a caso sceglie la bomba come arma e simbolo della propria lotta:

L’ambientazione borghese è lo sfondo costante nei libri esaminati in questa sede, quasi che gli squassi macroscopici del terrorismo nella società possano essere me-glio descritti nelle sue microscopiche declinazioni interne al nucleo familiare10.

9. Ivi, p. 24.10. Ivi, p. 30.

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E qualcosa di utile aggiunge Luca Telese nella sua recensione al libro di Paolin:

Le pagine dei nostri narratori e soprattutto le testimonianze degli ex prota-gonisti (in particolar modo gli ex terroristi) appaiono all’esame del critico letterario come una scena del delitto «ripulita» dalle prove all’ispettore di polizia [...]. È davvero curioso che un critico letterario debba scoprire ciò che il nostro Paese ancora non riesce a capire. E cioè che quei dettagli scomparsi dalla scena del delitto sono esattamente la sostanza della nostra rimozione collettiva. Mancano le pistole, manca la polvere da sparo, manca il sangue, le morti sono sempre velate, le vittime trasfigurate, i cadaveri cancellati dalle dissolvenze e gli spari, le coltellate, l’armamentario dell’assassinio e dell’omi-cidio, eclissati nelle paroline di scorta11.

Nell’individuare questa tendenza comune della narrativa italiana sugli anni di piombo, Paolin lamenta anche una propensione a mitigare la cifra più cruenta della lotta armata, quella della violenza vera e propria, del sangue, delle uccisioni, del corpo violato... della morte, insomma, con la catena di vittime che questa poi comporta e porta, tra i morti e tra i vivi. Da cui il titolo del saggio “la tragedia negata”. Manca in queste narrazioni la figura del “nemico”, ovvero della vittima dell’atto di violenza, che non esiste, non agisce, non è parte del racconto, non compare con capitoli e squarci narrativi a essa dedicati, ma è piuttosto un “fantasma”, non personaggio-persona bensì semplice funzione nar-rativa vuota, elemento che esiste e serve solo al fatto che deve venire eliminato. Telese non è l’unico recensore del libro che vede in tale “ete-rizzazione” una riprova, semmai ce ne fosse stato bisogno, della rimo-zione collettiva che gli anni Settanta hanno conosciuto in Italia.

Il saggio di Demetrio Paolin, quindi, da un lato constata in incipit un’assenza di narrativa sugli anni di piombo fino al 2003, che ancor più colpisce quando si considerano altre storie e culture caratterizzate anch’esse da fatti importanti di lotta armata; dall’altro evidenzia come i testi che ci sono manifestino una tendenza a tacere, o un’incapacità a dire e rappresentare la violenza politica in maniera completa.

Malgrado lo faccia en passant, anche Gabriele Vitello, in una re-cente tesi di dottorato, parla di rimozione e afferma che nella narrativa italiana sugli anni di piombo è evidente una generale indifferenza nei

11. http://www.lucatelese.it/?p=110.

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confronti delle vittime12. Il lavoro di Vitello conferma anche la borghe-sizzazione lamentata da Paolin nel suo saggio, dal momento che i ro-manzi analizzati, afferma Vitello, raccontano «la violenza politica e il terrorismo come storia familiare»13. Ma c’è una divario fondamentale tra i due critici, poiché a differenza dell’autore di Una tragedia negata, che parla di debolezza («La debolezza di molti tra questi romanzi sta nell’orizzonte angusto da dramma familiare e borghese che sembra es-sere l’unica ambientazione possibile»14), Vitello non giudica negativa-mente tale impostazione narrativa in quanto a sua avviso essa è segno di una apprezzabile re-normalizzazione della figura del terrorista, che da “mostro” perverso e psicopatico quale veniva ritratto in alcuni testi de-gli anni Novanta torna ad essere considerato un membro della famiglia.

Vitello a tal proposito chiama in causa Zavoli:

Durante le sue diciotto puntate andate in onda dal 12 dicembre 1989 all’a-prile dell’anno successivo, il programma di Zavoli ha mostrato per la prima volta i terroristi non più come dei mostri ma come persone normali, inno-cue e addirittura fragili. Nella fiction, le ripercussioni di questo mutamento nell’immaginario collettivo giungono però solo alla fine degli anni Novanta per manifestarsi più compiutamente dopo il duemila15.

La dissertazione di Vitello, validissima sotto molti punti di vista, sem-bra soffrire del limite della narrativa che essa analizza: una indifferenza – che prende la forma dell’assenza – nei confronti della vittima, e una corrispondente concentrazione analitica e teorica sul terrorista; un me-todo, questo, che finisce col confezionare un’idea di terrorismo come fenomeno che, anche narrativamente, si origina e si esaurisce nelle figu-re dei suoi registi. Ciò spiega anche l’approccio psicanalitico che Vitello sceglie per la propria indagine e che il titolo della tesi testimonia.

Sull’assenza dal panorama narrativo italiano di opere significative – e soprattutto di un’opera significativa, una qualsiasi, ma una che come romanzo avesse la forza di imporsi come il testo sul terrorismo degli

12. G. Vitello, Terrorismo e conflitto generazionale nel romanzo italiano, tesi di dottorato di ricerca in Studi letterari, linguistici e filologici, Università degli Studi di Trento, a.a. 2010-11, p. 17.

13. Ivi, p. 17.14. Paolin, Una tragedia negata, cit, p. 35.15. Vitello, Terrorismo e conflitto generazionale nel romanzo italiano, cit., pp. 20-1.

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anni Settanta – riflette anche Giacomo Sartori, il quale prova ad avan-zare ipotesi e motivazioni. Sartori parla degli anni di piombo come di una “realtà difficilmente romanzabile” e aggiunge:

Nessuno scrittore ha saputo, a caldo, parlare in modo efficace di quegli anni. Nessuno scrittore è stato in grado di trasformare quella materia intrinsecamen-te romanzesca – il primissimo esempio che mi viene in mente, ma le fonti di ispirazione potrebbero essere centinaia e centinaia: la vicenda di Mara Cagol – in buon romanzo. Perché? Probabilmente perché nessuno aveva la distanza ne-cessaria. Detto altrimenti: le rappresentazioni che dominavano non lasciavano spazio a nessuna visione visceralmente “nuova”, “altra”, “epifanica”, a nessuna di quelle diverse e non univoche visioni che inevitabilmente soggiacciono a un qualsiasi riuscito romanzo, si voglia esso più o meno mimetico nei confronti della realtà. Rovesciando la cosa: nessun narratore è riuscito a forare la con-venzionalità delle interpretazioni – di tipo non narrativo – che andavano per la maggiore, dei silenzi e delle omertà che le avvolgevano e le completavano. I narratori del periodo immediatamente successivo – gli anni ’80 – hanno par-lato d’altro: di intimità, di trasgressione giovanile, di viaggi. Il loro orizzonte era la narrativa anglosassone. Come non vedere una rimozione?16

E ancora:

Gli anni di piombo sono solo un esempio – forse uno dei più rivelatori, ma non certo l’unico – di un tema specificatamente italiano che a rigore di logica si presterebbe a essere romanzato, e che invece dal punto di vista letterario non ha prodotto quasi nulla.

Per quanto riguarda la questione della “distanza”, legata per Sartori alla possibilità di narrare gli eventi, di nuovo il caso irlandese insegna che questa, assieme alla novità di visione, non è conditio sine qua non per produrre letteratura: tutta la Troubles fiction, infatti, è contemporanea e contestuale agli eventi terroristici che essa narra. Molto interessante è invece l’affermazione di partenza di Sartori relativamente a un tema che “a rigor di logica” (anche se non viene specificata quale) bene si presta a essere rappresentato – “materia intrinsecamente romanzesca”, la chiama – e che però in Italia non produce narrativa se non tardi-

16. G. Sartori, Gli anni di piombo, Berlusconi, la lingua, in “Nazione Indiana”, 30 marzo 2006 (https://www.nazioneindiana.com/2006/03/30/gli-anni-di-piombo-berlusconi-la-lingua/).

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vamente e secondo stilemi narrativi occlusivi o evitanti: il fatto che il terrorismo e la lotta armata siano in teoria temi seducenti rende il so-spetto di rimozione ancora più legittimo. Anche in Irlanda del Nord il terrorismo e le oscure trame che attorno ad esso si muovono (agenti segreti, spionaggio, criminalità, doppio gioco...) sono state considerate materiale allettante dal punto di vista della narrazione, ma ciò ha crea-to un problema di natura esattamente opposta rispetto al caso italiano.

La questione del terrorismo come tema che bene si presta a essere rappresentato è in realtà non solo molto importante, ma anche estre-mamente complessa e niente affatto univoca, e immediatamente si con-catena a delicatissime istanze di ordine morale. D’altra parte di natura morale, e non strettamente letteraria, è la critica che Paolin muove alla resa monca e attenuata della violenza nei romanzi sugli anni di piombo.

Ma se in Italia i critici riflettono su e lamentano i silenzi della lette-ratura, in Irlanda gli intellettuali denunciano il fenomeno esattamente opposto: la proliferazione di testi sul terrorismo, infatti, è sempre stata una sorta di spina nel fianco per l’intelligencija nord-irlandese, un im-barazzo culturale da condannare, almeno fino a pochi anni fa, senza possibilità di appello. Ciò per più di un motivo, il primo dei quali è che la stragrande maggioranza – anche se non la totalità (dettaglio impor-tante, come vedremo) – della Troubles literature consiste di romanzi noir e thriller, tanto che la terminologia Troubles thrillers o addirittura Troubles trash è entrata a far parte dell’uso comune. Si tratta, quindi, di un problema di pulp fiction, perché il pulp e il thriller da cassetta non vengono ritenuti – a torto o a ragione – generi letterariamente, politi-camente e culturalmente “accettabili”.

In Irlanda del Nord, quindi, il fatto che la lotta armata e tutto ciò che la circonda costituiscano un tema narrativamente appetitoso ha creato un effetto sì opposto, ma altrettanto deludente rispetto al “piombo” italiano: nessuna rimozione, al contrario uno sfruttamento ambiguo di fatti tragici, dolorosi e – dettaglio importantissimo – storicamente avvenuti. Ecco una breve sintesi del classico chaier de doléances: Jospeh McMinn accusa il Troubles thriller di essere pericolosamente asociale, astorico, in linea di massima conservatore se non direttamente propa-gandistico, sia nella forma che nell’ideologia17. Eamonn Hughes gli

17. J. McMinn, Contemporary Novels on The “Trouble”, in “Etudes Irlandaises”, 3, 1980, 5, pp. 113-21.

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imputa di divulgare un messaggio conservatore in cui prevale in primo luogo un’idea ciclica di storia in cui l’eterno ritorno si manifesta sotto forma di guerra civile perennemente in atto18. Rob Rolston attribuisce al genere la responsabilità politico-morale di far circolare un’imma-gine dell’Irlanda come quella di una terra popolata da gente congeni-tamente violenta19, mentre John Bowyer Bell sostiene che, con la sua affollatissima galleria di terroristi sadici e violenti, il Troubles thriller, ben lungi dall’essere una forma neutra di intrattenimento, finisce per partecipare a discorsi culturali insidiosi di origine coloniale20; per Ger-ry Smyth il Troubles trash non è che un’occasione per offrire al lettore storie di lotte archetipiche tra buoni e cattivi, presentate in toni pensati per far presa sugli istinti più luridi e voyeristici dei lettori21. Insomma, una vera e propria bestia nera della tradizione irlandese, anche se più di recente i toni di condanna hanno cominciato a lasciare spazio a bilanci più moderati e elaborati, e molti critici ormai riconoscono che nelle sue manifestazioni più riuscite la Troubles fiction è scrittura in grado di trattare questioni molto complesse e delicate con scelte narrative, sia di plot che di stile, che riescono a negoziare felicemente con le ansie narrative del genere (il possibile eccesso di violenza, la rappresentazio-ne manichea di una realtà politica e storica in realtà molto complessa e articolata, la stereotipizzazione dei protagonisti e così via) e possono così dribblare la glamourization della violenza, in questo caso politica, una glamorizzazione che rimane sempre insidiosamente in agguato per chi decide di narrare e rappresentare vicende di questo tipo.

Da questo breve excursus in terra nord-irlandese, dunque, è facile capire come scrivere di violenza politica e lotta armata sia un’operazio-ne assai complicata e complessa, e che i testi sul terrorismo pongono allo studioso che se ne occupa e, prima, al lettore che la affronta, e, prima ancora, allo scrittore che li produce problemi e dilemmi che non fanno che confermare le complessità e le multivalenze tragiche, palesi e meno, dell’atto terroristico in sé.

18. E. Hughes (ed.), Culture and Politics in Northern Ireland, Open University Press, Philadelphia 1991, p. 6.

19. R. Rolton, intervista in The Late Show – Telling the “Troubles”, un program-ma della bbc del 21 settembre 1993, in cui la giornalista Sarah Dunant analizza il modo in cui i Troubles sono stati rappresentati.

20. J. Bowyer Bell, The “Troubles” as Trash, in “Hibernia”, January 22, 1978, p. 22.21. G. Smyth, The Novel and the Nation, Pluto, London 1997, pp. 113 ss.

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Riprendiamo ora il punto di vista di Gerry Smyth, per il quale come si è visto il Troubles thriller altro non è che un’occasione per offrire al lettore storie in realtà semplici (malgrado le trame dei testi siano spesso molto complicate) esposte in toni che in un modo o nell’altro mirano a risvegliare il voyeur che è in noi. Si tratta di una condanna che echeggia in qualche modo l’idea su cui Jean Baudrillard articola in L’esprit du terrorism22, articolo del 2001 ispirato dall’attentato alle Torri gemelle, e quindi a un evento molto diverso da quelli delle lotte armate degli anni Settanta. Tuttavia la riflessione di Baudrillard rileva la presenza di un elemento fondante che caratterizza qualsiasi atto ter-roristico, la spettacolarità:

Le spectacle du terrorisme impose le terrorisme du spectacle. Et contre cette fascination immorale (même si elle déclenche une réaction morale universel-le) l’ordre politique ne peut rien.

La fascinazione ambigua e l’attrazione “immorale” cui fa cenno Bau-drillard, «contro cui nessun ordine politico può fare niente», investe la sfera emozionale e non quella scientifico-razionale, cui pure appar-tengono le utopie politiche verso le quali solitamente i terroristi ten-dono. Le azioni terroristiche non sono azioni di guerra vere e proprie, non si presentano sotto forma di battaglia e nemmeno di guerriglia di gruppi che a poco a poco avanzano e conquistano territori o si im-possessano di locations chiave. Sono invece violenze a alto contenuto simbolico, atti singoli e isolati che, indipendentemente dal target che si prefiggono di raggiungere, per avere l’effetto cui mirano devono essere conosciuti da, e quindi raggiungere, un pubblico il più ampio possibile.

Di nuovo Baudrillard:

Cette violence terroriste n’est donc pas un retour de flamme de la réalité, pas plus que celui de l’histoire. Cette violence terroriste n’est pas “réelle”. Elle est pire, dans un sens: elle est symbolique. La violence en soi peut être par-faitement banale et inoffensive. Seule la violence symbolique est génératrice de singularité. Et dans cet événement singulier, dans ce film catastrophe de Manhattan se conjuguent au plus haut point les deux éléments de fascina-tion de masse du xxe siècle: la magie blanche du cinéma, et la magie noire du terrorisme. La lumière blanche de l’image, et la lumière noire du terrorisme.

22. J. Baudrillard, L’esprit du terrorism, in “Le Monde”, Paris, 2 novembre 2001.

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Con il primato della cultura dei media e dell’immagine, la spettacola-rità dell’atto terroristico è vertiginosamente aumentata e gli attentati sono diventati in maniera ancora più evidente gesti che chiedono di esser visti e rivisti:. Ma la spettacolarità del terrorismo in quanto atto simbolico è una sua componente di base irrinunciabile. L’immagine del corpo di Aldo Moro ritrovato nel bagagliaio della Renault 4 in via Caetani (come l’impatto degli aerei kamikaze sulle Torri gemelle per il 9/11) è passata centinaia di volte sui media e si è depositata nella me-moria collettiva come scena simbolo degli anni di piombo più di tutti i comunicati ufficiali delle br o degli scritti e delle analisi storiche. Il terrorismo si appella a un elemento di comunicazione emotiva, come anche dice il vocabolo madre che ne è alla radice, “terrore”, ovvero quel tipo di paura che esso mira a creare e che poi diventa una forma di con-trollo e di pressione su un’intera società (“colpirne uno per educarne cento”). Il Troubles trash nord-irlandese gioca anch’esso con la “fasci-nazione immorale” di cui scrive Baudrillard, e questa è un’altra delle ragioni per cui la riflessione sulla narrativa di terrorismo finisce sempre con l’aprire anche a questioni di ordine morale.

Molti sono quindi i rischi interni a questa specifica letteratura: da un lato essa rischia di elidere nella sua rappresentazione una delle com-ponenti dell’atto stesso, con la colpa morale – nel caso si tratti della vittima – di cancellare l’elemento tragico e sanguinario del terrorismo, come il caso italiano aiuta a capire; dall’altro essa rischia di entrare in quel medesimo meccanismo di spettacolarizzazione della violenza e del-la morte di cui l’atto terroristico si serve quando irrompe nell’ordinarietà del quotidiano per sconvolgerlo, come si evince dal caso nord-irlandese. Ma esiste un altro e forse ancora più insidioso pericolo, quello che il criti-co Declan Kiberd, in realtà riferendosi a una raccolta di poesie di Séamus Heaney, con felice e intraducibile espressione chiama «the prettification of violence»23: l’estetizzazione della violenza stessa, la rappresentazione stilisticamente e retoricamente accattivante del gesto violento che, grazie a un uso sofisticato del mezzo linguistico, diventa in qualche modo sedu-cente esso stesso, proprio come la lingua che lo descrive e lo rappresenta.

Un esempio interessante in tal senso è il caso dall’irlandese Eoin McNamee, scrittore appartenente alla generazione post-Troubles e au-

23. D. Kiberd, Inventing Ireland: The Literature of the Modern Nation, Vintage, London 1996, p. 594.

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tore di un romanzo entrato nel canone della narrativa classica nord-irlandese: Ressurection Man. Pubblicato nel 199424, è forse il romanzo più inquietante, e certo uno dei più famosi, sui Troubles.

Come ha fatto anche per altri suoi testi, McNamee non racconta una storia di fiction ma finzionalizza una vicenda realmente accaduta. In un testo molto sofisticato dal punto di vista stilistico, tipicamente postmoderno nell’alternanza e nel pastiche di stili, viene narrato a tratti con dovizia di dettagli insistiti e grande prevalenza di immagini di tagli e scissioni uno degli episodi più cruenti della lotta armata del Nord, ovvero le azioni compiute dal più feroce gruppo terroristico loyalist di Belfast, i Shankill Butchers, definiti da uno storico «the greatest mass murderers in British criminal history»25. Il protagonista Victor Kelly è modellato sul leader del gruppo, il cui vero nome era Lenny Murphy, uno psicopatico che aveva raccolto attorno a sé un gruppo di disadattati e criminali ferocemente anticattolici. Il gruppo era stato de-nominato i “macellai di Shankill” (Shankill Road è la strada principale che percorre il quartiere loyalist di Belfast) perché, prima di uccidere Murphy e i suoi, torturavano la vittima con strumenti da macellaio, sospendendo i corpi agonizzanti dal soffitto, come appunto si fa con le carcasse per far colare il sangue e ammorbidirne la carne. Finito in prigione più volte, Murphy verrà assassinato da due membri dell’ira che però, come le indagini dimostrarono, agirono con l’aiuto dei para-militari Loyalist, desiderosi di liberarsi del loro pericoloso compagno.

È evidente che la scelta stessa del soggetto – le imprese del grup-po più sanguinario e patologicamente deviato della tragica storia dei Troubles – è un’ammissione non negoziata del potere di attrazione che l’aspetto più sinistro della cosiddetta “physical force policy” può esercitare. In una ormai famosa presa di posizione molto critica nei confronti di certa narrativa del suo paese, un altro acclamato autore nord-irlandese, Glenn Patterson, contestò a McNamee la tendenza a flirtare con l’ambigua bellezza («The horror and strange beauty of violence») della violenza26. Un altro critico, Richard Haslam, accu-

24. E. McNamee, Resurrection Man, Picador, London 1994. Il romanzo è stato tradotto in italiano da Anna Nadotti e Fausto Galuzzi per Einaudi nel 1997.

25. M. Dillon, God and the Gun: The Church and Irish Terrorism, Routledge, London 1998, p. 19.

26. In S. Alcobia Murphy, Governing the Tongue in Northern Ireland: The Place of Art/The Art of Place, Cambridge Scholar Press, Newcastle 2005, p. 52.

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sò lo scrittore, il cui romanzo non analizza temi politici, di indulgere nell’estetica del gesto omicida, e di elidere del tutto l’etica che in casi come questi è sempre iscritta nell’estetica:

Resurrection Man is undeniably an innovative and technically accomplished work. However, by refracting the actions and beliefs of the Shankill Butchers through the lens of “a dark and thrilling beauty”, the novel does further vio-lence to the Butchers’ real-life victims27.

Glenn Patterson e Richard Haslam concordano nell’identificare come l’elemento più insidioso in un testo come quello di McNamee l’allure dell’unanimemente riconosciuto talento narrativo dell’autore, prosa-tore barocco e sensuale che riesce con facilità e ripetutamente a descri-vere omicidi e torture, tra l’altro realmente avvenuti, in un modo che inevitabilmente rischia di passare per celebrativo.

Il nesso tra letteratura e terrorismo, quindi, è molto complesso e at-torno a esso si muovono ed agiscono elementi difficili da manovrare. La rappresentazione della violenza politica, della lotta armata, del terrori-smo pone a chi la pratica una serie di ansie narrative che si originano da dilemmi estetici, politici, etici, letterari. Ovunque il terrorismo è sempre stato percepito come un atto che sfida e sconfigge il regno del discorso civile, e in parte le cose stanno davvero così: non c’è quindi da stupirsi se la lingua nel suo ruolo tradizionale si scopre in difficoltà, se non addi-rittura incapace di catturare la materialità travolgente dell’evento stesso nell’immediato aftermath dell’atrocità terroristica. Da questo punto di vista, ogni oltraggio terroristico diventa indicibile, unspeakable. Come appena visto, la critica di Richard Haslam a Resurrection Man – che la si condivida o meno – è di ordine etico, ma si tratta di un’imputazio-ne che diventa tale proprio perché esiste un effetto estetico che il testo garantisce; è importante notare che nel passaggio dall’una all’altra ca-tegoria, dall’estetica all’etica, Haslam introduce la figura della vittima («the novel does further violence to the Butchers’ real-life victims»). Questo perché uno dei dilemmi etici, politici, estetici e narrativi della letteratura di terrorismo è proprio quello delle vittime.

27. R. Haslam, “The Pose Arranged and Lingered Over”: Visualizing the “Trou-bles”, in L. Harte, M. Parker (eds.), Contemporary Irish Fiction: Themes, Tropes, The-ories, St. Martin’s Press, New York 2000, p. 208.

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Gli elementi compositivi indispensabili dell’atto terroristico, in-dipendentemente dal target politico finale, sono tre: il terrorista, la vittima e lo spettatore. O meglio ancora, i terroristi, le vittime e gli spettatori. L’assenza di una di queste tre componenti rende impossibi-le l’evento stesso. A considerare il caso italiano e quello nord-irlandese, la narrativa sembra aver privilegiato come motore della narrazione il terrorista e il mondo che a questo gira intorno, anche se con cifre e modalità diverse e in linea di massima opposte.

Le vittime sono un problema. Dei terroristi e dei processi storici, culturali e politici che ne hanno armato la mano molto c’è e molto ri-mane da scrivere e da indagare; delle vittime anonime e sconosciute che muoiono in un attentato l’unica cosa da dire è che sono morte. Certo per un Aldo Moro o per un Lord Mountbatten il caso è molto diverso, ma il terrorismo ha ucciso molto di più in maniera indiscriminata che esemplare (e anche nel rapimento del presidente Moro e nell’attenta-to a Lord Mountbatten morirono degli innocenti); la vittima possiede un’esistenza storicamente e narrativamente molto meno interessante di quella dei suoi carnefici, la cui scelta di “physical force policy”, in quanto appartenente al campo dell’eccezione, è narrativamente più interessante e scientificamente più rilevante della loro. Eppure esse sono fondamen-tali, sono l’elemento indispensabile del terrorismo, e tanto più “utili” al messaggio spettacolare del gesto – gesto profondamente autoreferenzia-le, come ogni flettere di muscoli, malgrado tenti di “attirare” l’attenzione della società sulla propria causa – quanto meno direttamente coinvolte e responsabili del “male” contro cui il terrorista (in tutta onestà) combatte.

La letteratura immagina; ma immaginare le vittime è un’operazio-ne difficile, poco seducente, in buona parte aleatoria. Tuttavia i tenta-tivi ci sono. E nella tradizione nord-irlandese accade che alcune delle pagine più potenti della Troubles fiction siano quelle in cui la violenza del gesto terroristico – quella violenza obliata dalla tradizione italiana e manipolata da quella irlandese – viene rappresentata dalla prospetti-va della vittima. Si è suggerito che le vittime, in quanto appartenenti al mondo della normalcy, risultino narrativamente meno interessanti. C’è chi di questo elemento è riuscito a fare un punto di forza.

Eureka Street (1996) di Robert McLiam Wilson28 segna un mo-mento di svolta nella tradizione narrativa del Nord, di cui forse può

28. R. McLiam Wilson, Eureka Street, Secker & Warburg, London 1996. Il ro-manzo è stato tradotto in italiano da L. Olivieri per Fazi Editore nel 1999.

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essere considerato il testo più rilevante degli ultimi quindici anni. Gli eventi narrati hanno luogo nel periodo immediatamente successivo al cessate-il-fuoco congiunto di ira e uvf del 1994, ma la politica è argo-mento del tutto secondario. Il romanzo racconta le vicende amorose di due amici di Belfast, uno protestante e l’altro (il narratore) cattolico, si conclude con un matrimonio e una nascita, ed è perciò una commedia nel senso classico del termine. Non vi sono trame terroristiche o eventi luttuosi; di tanto in tanto una bomba esplode in lontananza, benché nessuno sembri farvi caso, tanto meno il lettore. Ma proprio nel cuore della narrazione, al centro del libro, lettore e personaggi vengono ri-portati a un principio di realtà quasi smarrito.

Il cap. x consiste di sei pagine di poesia in prosa (effetto rinforzato dalla mancanza di giustificazione tipografica dei margini a destra), un intenso e commovente canto d’amore per Belfast che dorme e per la sua incantevole quiete urbana. Il cap. xi ci presenta la città il mattino dopo; è una bella giornata di sole, il lettore si ritrova in compagnia di una certa Rosemary Daye, personaggio mai comparso in precedenza. Assieme a lei ci si avvia lungo le strade soleggiate del centro, la si vede arrossire al ricordo della notte d’amore passata con Sean, comprare una camicetta di seta verde, la si vede controllare la piega dei capelli nella vetrina del negozio, emergere da Arcade Street e entrare in un bar per mangiare un panino, la si sente ringraziare con un sorriso civettuolo un giovane che le teneva galantemente la porta aperta e un attimo dopo la si vede, come racconta l’autore, “smettere di esistere”. Dopo di che McLiam Wilson procede a descrivere la scena dell’esplosione e gli effetti della bomba sul corpo di Rosemary, del giovane che le teneva la porta e dei passanti con l’asettica precisione di un medico forense. Nelle parole di chiusura del capitolo, si propone la metafora della città come romanzo.

What had happened? A simple event. The traffic of history and politics had bottlenecked. And individual or individuals had decided that reaction was necessary. Some stories had been shortened. Some stories had been ended. A confident editorial decision had been made.

It had been easy.The pages that follow are light with their loss. The text is less dense, the

city is smaller29.

29. Ivi, p. 231.

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Nessun’altra bomba era mai esplosa tra le pagine della Troubles fiction con effetti altrettanto devastanti, anche se nessuno dei protagonisti rimane coinvolto nell’attentato. È proprio in questa scelta minimali-stica che risiede la riuscita dell’episodio. La storia riparte con Jake e Chuckie, i due amici, la cui vicenda riprende da dove prima l’avevamo lasciata, ma lo shock è profondo. Il momento più misterioso dell’atto terroristico è stato in qualche modo rappresentato. Per riuscirci, l’auto-re fa assumere alla propria scrittura l’imprevedibilità e la sorpresa della bomba, che esplode senza logica e senza preavviso; la narrazione devia dai binari previsti (la storia principale viene sospesa, i protagonisti mo-mentaneamente abbandonati) e si concentra su personaggi sconosciuti e anonimi, con cui il lettore familiarizza soltanto per un paragrafo o due, ma senza comprendere inizialmente il perché.

Poi la bomba: istantanea, imprevedibile, fulminea, narrativamen-te composta di tre banalissimi e rapidi elementi sintattici, soggetto-verbo-complemento, che anche foneticamente riproducono il suono dell’esplosione: «and then she stopped existing».

Il lettore è colto di sorpresa, spiazzato, disorientato, ferma la lettu-ra, per un attimo non capisce. È il testo che mima lo stile della bomba, la narrazione che imita il ritmo dell’esplosione, la storia che si serve della tecnica del terrorista: Rosemary davvero non è di nessuna rile-vanza nel plot di Eureka Street, non conta nulla, e tanto meno il suo fidanzato Sean, che manco compare sulla scena, e di cui tuttavia la mente del lettore non si libera più. È l’attimo in cui la parola diventa capace di catturare la materialità travolgente dell’evento, il momento testuale in cui il terrorismo diventa da unspeakable, speakable, il punto in cui l’esperimento di familiarizzazione con l’alterità traumatica – per una volta non quella del terrorista, bensì quella delle vittime e dello spettatore – ha effettivamente luogo.

Si tratta, a ben guardare, di quella forma di conoscenza che Daniele Giglioli sembrava non voler riconoscere alla letteratura se non come atteggiamento, e anch’esso più rivolto (forse) alla figura del terrori-sta, che certo è un’alterità traumatica da riconoscere, ma non la sola implicata nel campo di battaglia della lotta armata. Di queste terribili trappole conoscitive – quelle che Robert McLiam Wilson è riuscito a infilare quasi en passant nel suo straordinario e comico romanzo – solo la letteratura è capace, e forse proprio per questo essa deve, anche in Italia, farsene carico e sfidare a sua volta l’impenetrabilità del terro-rismo. La sua magie noire. La sua randomness. La sua un-speakability.

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1 Premessa

Il presente capitolo si sviluppa a partire da alcuni presupposti che è op-portuno precisare. Innanzitutto la condizione di non eccezionalità della violenza politica, inclusa la lotta armata, nell’ambito delle democrazie occidentali. In un intervento ormai classico, lo storico tedesco Wolf-gang Mommsen1 osservava che il fenomeno della violenza politicamente motivata ha accompagnato le pratiche politiche delle società occiden-tali che a seguito della rivoluzione francese si erano incamminate sulla via della democrazia. All’interno dell’opera curata da Werner Conze e Reinhardt Koselleck sui concetti storici dell’età moderna, il termine terrorismo viene ripercorso nelle varie connotazioni conosciute tra fine Settecento e xx secolo. Dalla trattazione emerge in maniera chiara lo slittamento semantico che nel corso di due secoli il concetto ha subito: se è nato in stretta relazione con le trasformazioni rivoluzionarie contro i poteri e le formazioni sociali di ancien régime, nel corso del xx secolo è divenuto sinonimo di minaccia alla democrazia e a regimi politici re-pubblicani, di rischio di involuzioni politiche in senso autoritario2. Tra il

Lotta armata in Germania di Marica Tolomelli

1. W. J. Mommsen, Nichtlegale Gewalt und Terrorismus in den westlichen Indu-striegesellschaften, in W. J. Mommsen, G. Hirschfeld (hrsg.), Sozialprotest, Gewalt, Terror. Gewaltanwendung durch politische und gesellschaftliche Randgruppen im 19. und 20. Jahrhundert, Klett-Kotta, Stuttgart 1982, pp. 441-63.

2. R. Walther, Terror, Terrorismus, in O. Brunner, W. Conze, R. Koselleck (hrsg.), Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Spra-che in Deutschland, Klett-Cotta, Stuttgart 1975-97, vol. vi, 1990, pp. 323-443, in part. pp. 323-89.

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fenomeno di la terreur giacobina, l’emersione del decabrismo russo fino al terrore imposto nella Russia rivoluzionaria all’inizio del xx secolo un filo rosso veniva tuttavia rinvenuto: in una prima fase storica la conno-tazione del termine terrorismo era circoscritta a pratiche volte a imporre nuovi rapporti di dominio, incentrati su ordini sociali e gerarchie “ever-sive” rispetto a quelle dominanti. La connotazione è cambiata profon-damente nel corso del xx secolo, allorché il ricorso alla violenza politica-mente motivata ha iniziato a diffondersi in misura crescente all’interno di ordini politici democratici, fondati su assetti politici improntati alla organizzazione di interessi di grandi gruppi sociali e alla mediazione dei conflitti. Come a dire che violenza politica, lotta armata, strategia del terrore si sono progressivamente insinuate all’interno di quelle stesse società, per la realizzazione delle quali tali forme di azione erano state adottate. Come se sostanzialmente si fossero progressivamente allonta-nate dalla cifra politica su cui si erano sviluppate per prestarsi a qualsiasi forma di impiego e divenire quasi un fattore imprescindibile degli ordini democratici contemporanei.

Dissoltasi l’originaria cifra politica, ciò che accomuna le più recen-ti manifestazioni di terreur riguarda principalmente aspetti formali, l’accettazione della violenza e, se lo si ritiene necessario, il ricorso alle armi. Formazioni quali la Irish Republican Army in Irlanda, l’Euska-di Ta Askatasuna in Spagna soprattutto nella fase della transizione postfranchista, le Brigate Rosse o Ordine Nuovo in Italia, la Rote Ar-mee Fraktion in Germania federale, le Black Panthers negli Stati Uniti rivelano in effetti indubbi elementi accomunanti le società occiden-tali del xx secolo sotto il profilo delle forme di azione, in particola-re rispetto al ricorso alle armi nel perseguimento dei loro divergenti obiettivi. Nello scenario politico e sociale europeo degli anni Settanta fenomeni apparentemente analoghi o tra loro connessi dalla parola chiave terrorismo rispondono tuttavia a strategie d’azione, obiettivi e immaginari tra loro più divergenti che non assimilabili. Obiettivi ri-conducibili a nodi irrisolti di questioni nazionali complesse nel caso dell’eta o dell’ira, a questioni razziali nel caso delle Black Panthers; obiettivi legati al perseguimento di un sogno rivoluzionario vetero-comunista, anticapitalista e antisistema nel caso delle Brigate Rosse o di un’involuzione politica in senso autoritario nel caso di gruppi ne-ofascisti quali Ordine Nuovo; o, ancora, obiettivi riconducibili a un progetto terzomondista e anti-imperialista nel caso della prima fase

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delle offensive armate condotte dalla raf in Germania. Si tratta in-somma di organizzazioni direttamente coinvolte in pratiche politiche fondate sul ricorso alla violenza; ma al contempo abbiamo a che fare con dispiegamenti di conflitti estremamente eterogenei sotto il profilo del progetto politico perseguito.

Tali brevi rilievi sono sufficienti a stimolare la storiografia a riflet-tere criticamente sull’uso della terminologia impiegata nel denomi-nare e definire fenomeni tra loro eterogenei ma spesso rubricati sotto un’accezione fortemente generalizzante di terrorismo. Quest’ultimo è infatti un termine impiegato spesso come contenitore entro cui far rientrare fenomeni di segno politico, rilevanza, e obiettivi affatto assi-milabili. Basti pensare che dall’inizio del xxi secolo – lo spartiacque furono gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti – l’acce-zione dominante ha finito per coincidere sostanzialmente con la rete internazionale ultrafondamentalista islamica di Al-Qaeda, mentre fino alla fine del xx secolo il termine terrorismo era associato a for-me di volontarismo politico di matrice antisistemica, anticapitalistica o antidemocratica3. Risulta pertanto necessario non accontentarsi di concettualizzazioni generalizzanti basate su caratteri formali, e porta-re l’attenzione sui contesti di formazione dei molteplici protagonisti della lotta armata, nonché sul bagaglio ideologico da questi adottato per legittimare il proprio disegno politico. Questa ci pare una appro-priata via percorribile per riuscire a distinguere e riconoscere le speci-ficità di fenomeni complessi e di realtà altrimenti appiattite dagli ef-fetti omologanti di un uso generico del concetto di terrorismo. Sotto questo profilo l’assunzione di una prospettiva comparata può inoltre rivelarsi utile a mettere in rilievo le peculiarità di ogni singolo contesto attraversato da manifestazioni di violenza politicamente motivata. La proficuità della prospettiva comparata può emergere ad esempio assu-mendo come sfondo il contesto italiano tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta ma focalizzando l’attenzione sul contesto tedesco occidentale nello stesso periodo.

3. M. Schulze-Wessel, Terrorismusstudien. Bemerkungen zur Entwicklung eines Forschungsfeldes, in “Geschichte und Gesellschaft”, 35, 2009, pp. 357-67; S. Reichardt, Nuove prospettive sul terrorismo europeo degli anni Settanta e Ottanta, in “Ricerche di Storia politica”, 3, 2010, pp. 343-66.

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2 Alle origini della lotta armata

nella Repubblica Federale Tedesca: isolamento e frustrazione

In Germania occidentale nel decennio Sessanta la conflittualità sociale si era dispiegata prevalentemente in ambito studentesco e in parte in ambito politico-sindacale. Da un canto, tra il 1965 e il 1968, gruppi studenteschi avevano con successo perseguito una strategia di mobi-litazione che procedendo da questioni interne alla vita accademica si aprì a questioni di rilevanza politica generale. Tra il 1967 e il 1968 il movimento studentesco – estesosi da Berlino Ovest al resto della Ger-mania – assurse ad attore collettivo di rilevante spessore politico, in grado cioè di suscitare l’attenzione dell’opinione pubblica e di incidere sull’agenda politica delle forze di governo.

Nello stesso periodo attorno al dibattito parlamentare sulle leggi ec-cezionali – un pacchetto di provvedimenti restrittivi delle libertà fonda-mentali da attuare in caso di proclamazione dello stato d’emergenza – si sviluppò una protesta sociale in difesa sia dei diritti fondamentali sanciti dalla carta costituzionale sia dei principi della democrazia. In uno sce-nario in cui le principali forze politiche si trovavano in rapporti di col-laborazione in un governo di “grande coalizione” (1966-69) la protesta contro le leggi di emergenza fu condotta in primo luogo dal movimento operaio organizzato e dalle composite forze sociali che nel frattempo erano confluite nel movimento della Opposizione extraparlamentare o apo4. Le grandi strutture sindacali delle più forti categorie lavoratrici – tra cui in primo luogo la ig Metall e la ig Chemie – furono in questo periodo in prima linea nel dare voce alla protesta ed esercitare pressione sul partito socialdemocratico al governo nella grande coalizione5.

4. La Außerparlamentarische Opposition non era un vero movimento politico or-ganizzato, essa rappresentava piuttosto un’area di coagulazione di orientamenti poli-tici eterogenei, ma accomunati da un atteggiamento critico nei confronti del governo di coalizione tra cdu e spd. All’origine della apo si trovava il movimento pacifista e contro le armi nucleari costituitosi in Germania sul finire degli anni Cinquanta. Cfr. P. Richter, L’opposizione extraparlamentare nella Repubblica Federale tedesca dal 1966 al 1968, in “Annali della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna”, 2-3, 1998-99, pp. 39-58.

5. M. Schneider, Demokratie in Gefahr? Der Konflikt um die Notstandsgesetze, Verlag Neue Gesellschaft, Bonn 1986.

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Fino all’aprile 1968 movimento studentesco e sindacati avevano re-alizzato iniziative coordinate o comuni contro le leggi di emergenza. Soprattutto a Francoforte, dove l’attivismo studentesco dell’importan-te sede universitaria aveva maggiori possibilità di incontrarsi con i ver-tici delle strutture sindacali, tra il 1965 e il 1968 erano state organizzate diverse iniziative comuni volte a sensibilizzare l’opinione pubblica te-desca sui caratteri antidemocratici delle leggi di emergenza. Dall’apri-le 1968 la situazione cambiò invece repentinamente: l’attentato a uno degli esponenti più noti del movimento studentesco, Rudi Dutschke, l’11 aprile, suscitò l’indignazione generale degli studenti, i quali diede-ro vita a proteste spontanee che in numerose città assunsero caratteri di rivolta violenta. L’inaspettata radicalizzazione delle manifestazioni studentesche suscitò reazioni negative nei sindacati, i quali progressiva-mente si distanziarono dalle istanze del movimento, condannando re-cisamente le forme più violente della protesta. Alla rottura dei rapporti di interazione stabilitisi tra i due attori collettivi si giunse in maniera definitiva un mese più tardi, in maggio, in occasione di un’ennesima iniziativa contro le leggi di emergenza, la cui definitiva approvazione in Parlamento era prevista per la fine del mese. Contro le leggi di emergen-za le organizzazioni della Opposizione extraparlamentare, sindacati e movimento studentesco avevano indetto una “marcia stellare” su Bonn che si sarebbe dovuta svolgere l’11 maggio. Ciò che di fatto avvenne, ma senza la presenza sindacale. Mentre sulle strade e piazze di Bonn convergevano delegazioni studentesche provenienti da tutto il paese, i sindacati avevano infatti deciso di dare voce separata alla loro protesta, raccogliendosi in uno spazio chiuso e in un’altra città, a Düsseldorf. Gli eventi dell’11 maggio segnarono pertanto l’inizio di un processo di divaricazione che avrebbe condotto il movimento studentesco in una frustrante condizione di isolamento sociale. Isolamento che nel torno di pochi mesi ne avrebbe comportato il definitivo declino innescando dinamiche di radicalizzazione in alcune delle sue frange più estreme.

Negli stessi giorni dell’attentato a Dutschke a Francoforte veniva-no arrestati gli artefici di un attentato incendiario presso un grande magazzino avvenuto il 4 aprile. I quattro responsabili, tra cui i giova-ni Andreas Baader e Gudrun Ensslin, furono rapidamente identificati e sottoposti a procedimento penale. L’azione, così come spiegato nel corso del processo che si tenne nell’ottobre 1968, intendeva richiamare l’attenzione sui crimini in corso in Vietnam, crimini rispetto ai quali

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l’opinione pubblica tedesca era accusata di indifferenza se non addirit-tura di complicità. L’azione non suscitò enorme clamore, non produs-se vittime e rimase priva di conseguenze. Nell’estate 1969 gli imputati, nel frattempo condannati e sottoposti ad arresti domiciliari, colsero l’occasione per fuggire, vennero poi individuati, catturati e di conse-guenza incarcerati. Nel maggio del 1970 un’azione ben organizzata co-glieva di sorpresa le “repressive” istituzioni dello Stato tedesco: mentre il detenuto Baader si trovava nella biblioteca di un istituto di ricerca di Berlino Ovest, la libera cittadina e giornalista Ulrike Meinhof – la quale aveva seguito da vicino le vicende dell’attentato incendiario di Francoforte e aveva nel frattempo stretto rapporti con gli artefici6 –, entrava nell’istituto minacciando con arma da fuoco il sorvegliante di Baader e consentendo a questi di fuggire.

Iniziava così la fase di clandestinità di quella che la stampa additò immediatamente come la “banda Baader-Meinhof ”, denominazione ben accolta dal gruppo che si vedeva catapultato sulle prime pagine della stampa nazionale e caricato di forza simbolica dagli stessi media. A seguito di una dinamica innescata su un processo di progressiva ra-dicalizzazione dei fronti, in tempi rapidissimi si era così compiuto qua-si involontariamente il passaggio alla clandestinità di questo piccolo gruppo. A questo punto la “banda” si autoproclamò frazione di una fantomatica armata rossa (Rote Armee Fraktion o raf) che fece della lotta armata clandestina la propria ragione d’essere. Il gruppo proce-dette al consolidamento della sua struttura paramilitare con esercita-zioni in campi di addestramento giordani7.

Nello stesso periodo di isolamento e declino del movimento stu-dentesco, autunno 1968-primavera 1969, si consumava inoltre la bre-ve esperienza dei Tupamaros bavaresi, a Monaco8, mentre tra Berlino e Amburgo si costituiva il gruppo Bewegung 2. Juni, una formazione molto vicina alla raf ma decisamente più debole sul piano organiz-

6. U. M. Meinhof, Warenhausbrandstiftung, in “Konkret”, 14, 1968. 7. A. Grieco, Anatomia di una rivolta. Andreas Baader, Gudrun Ensslin, Ulrike

Meinhof: un racconto a più voci, il Saggiatore, Milano 2010.8. A. Schubert, Stadtguerilla. Tupamaros in Uruguay – Rote Armee Fraktion in

der Bundesrepublik, Wagenbach, Berlin 1971; M. Sturm, Tupamaros München: “Be-waffneter Kampf ”, Subkultur und Polizei 1969-1971, in K. Weinhauer, J. Requate, H.-G. Haupt (hrsg.), Terrorismus in der Bundesrepublik Deutschland. Medien, Staat und Subkulturen in den 1970er Jahren, Campus, Frankfurt am Main 2006, pp. 99-133.

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zativo. Infine, in un centro psichiatrico di Heidelberg, in cui le allora circolanti idee dell’antipsichiatria furono portate ai massimi estremi, si insisteva sul concetto della “propaganda delle armi”, incoraggiando piccoli gruppi di militanti politici ad optare per la lotta armata.

Dallo scenario brevemente tratteggiato si ricava l’impressione che la lotta armata fosse in qualche modo entrata a far parte dello “spirito dei tempi” anche in un contesto dove la conflittualità sociale si dispie-gava prevalentemente in un articolato sistema basato sui principi di disaggregazione e mediazione delle materie di conflitto attraverso col-laudati canali istituzionali. Si pongono pertanto alcuni quesiti su cui è bene sviluppare alcune considerazioni:a) Come legittimarono i detrattori della lotta armata il passaggio ad organizzazioni clandestine nel contesto rappresentato dalla Repub-blica Federale Tedesca? Quale senso politico attribuirono ai propri progetti armati? Se si considerano gli scritti della giornalista Ulrike Meinhof9, una delle menti più raffinate della raf, il gruppo meglio strutturato e di maggior durata, è difficile non riconoscere l’orienta-mento terzomondista in declinazione tricontinentalista del gruppo. Si trattava di un orientamento emerso in occasione dell’incontro tricon-tinentale, tenutosi a Cuba nel gennaio del 1966, in occasione del quale fu lanciata la parola d’ordine del collegamento fra le lotte antimperia-liste in atto nei tre continenti del “terzo mondo” – Asia, Africa, Ame-rica Latina – e le lotte anti-imperialiste nelle metropoli del mondo occidentale. Il messaggio aveva trovato sintesi e massima divulgazione attraverso la lettera che lo stesso Che Guevara aveva fatto pervenire ai convenuti della Tricontinentale, lettera in cui auspicava la necessità di creare “uno, due, molti Vietnam” nel mondo. Messaggio che indubbia-mente era giunto anche in Germania, da un canto tramite i reportage di esponenti dell’opposizione tedesca che, come Peter Weiss10 e Hans

9. Si noti che Ulrike Meinhof non era un’esponente del movimento studente-sco: nata nel 1934, apparteneva ad una generazione precedente, aveva conosciuto da vicino, seppur da bambina, il regime nazista e la guerra e si trovava in una situazione biografica di mezzo tra la generazione dei “carnefici” (Täter) e quella cresciuta nel dopoguerra. Cfr. A. Prinz, Disoccupate le strade dai sogni. La vita di Ulrike Meinhof, Arcana, Roma 2007; M. Krebs, Vita e morte di Ulrike Meinhof, Kaos, Milano 1991.

10. Il drammaturgo Peter Weiss ebbe un ruolo di grande rilievo nella divulgazio-ne del pensiero terzomondista in ambito artistico-culturale. Cfr. P. Weiss, Discorso sulla preistoria e lo svolgimento della interminabile guerra di liberazione nel Viet Nam

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Magnus Enzensberger, avevano seguito da vicino l’iniziativa, dall’altro tramite la traduzione del testo stesso di Che Guevara a cura di Rudi Dutschke e del compagno cileno Gaston Salvatore11. In Germania la parola d’ordine del collegamento tra lotte nel “terzo mondo” e lotte anti-imperialiste nelle metropoli aveva avuto notevole influenza già all’interno del movimento studentesco – in particolare grazie alle ini-ziative intraprese dalla lega studentesca sds12. Una delle iniziative di maggior respiro tricontinentalista era stata per esempio organizzata dalla sds di Berlino Ovest sul tema della guerra in Vietnam. In occa-sione del Vietnam-Kongress, tenutosi a Berlino Ovest il 17-18 febbraio 1968, si era in effetti discusso della necessità di moltiplicare le situazio-ni di lotta anti-imperialista in diverse aree del mondo. Nella risoluzio-ne finale fu sostenuto che la lotta contro l’aggressione statunitense in Vietnam doveva divenire una «lotta contro la politica imperialista dei paesi capitalistici dell’Europa occidentale». E si concludeva:

appelliamo tutti i movimenti di resistenza anti-imperialista ad operare contro l’imperialismo statunitense e tutte le sue basi di appoggio in Europa occiden-tale. Nel corso di questa lotta comune [corsivo mio] la cooperazione politica e organizzativa tra i movimenti rivoluzionari di liberazione nel Terzo Mondo e i movimenti di resistenza negli usa e nei paesi europei occidentali deve essere intensificata e sviluppata in un fronte unitario13.

L’orientamento tricontinentalista del movimento assunse poi ulteriore risonanza sul finire degli anni Sessanta, allorché la rottura coi sindacati e la definitiva approvazione delle leggi di emergenza (seppur ampia-

quale esempio della necessità della lotta armata degli oppressi contro i loro oppressori come sui tentativi degli Stati Uniti d’America di annullare i fondamenti della rivoluzio-ne, Einaudi, Torino 1967.

11. Lo scritto di Che Guevara, Brief an das Exekutivsekretariat von ospaal: Schaffen wir zwei, drei, viele Vietnam! Das Wesen des Partisanenkampfes, fu intro-dotto da R. Dutschke e G. Salvatore e pubblicato nella collana della Kleine Revolu-tionäre Bibliothek, Oberbaumpresse, Berlin 1967.

12. Sozialistischer Deutscher Studentenbund o Lega studentesca socialista tedesca. 13. “Berliner Extra-Dienst”, 15, 21 febbraio 1968. Testo riprodotto in Der Kampf

des vietnamesischen Volkes und die Globalstrategie des Imperialismus – Internationa-ler Vietnam-Kongreß-Westberlin, hrsg. von sds Westberlin und Internationales Na-chrichten- und Forschungs-Institut (infi), Westberlin 1968; cfr. anche l’url http://www.infopartisan.net/archive/1967/266763.html

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mente emendate) marcarono il progressivo isolamento del movimento studentesco dal resto della società tedesca. La ricerca di collegamenti con lotte al di fuori dei confini nazionali divenne in misura crescente anche una via attraverso cui uscire dalla situazione di declino e isola-mento cui il movimento pareva essere ormai condannato.

Senza voler sottendere rapporti causali tra lotta armata e movimen-to del Sessantotto – questione alquanto complessa e controversa14 – è tuttavia riscontrabile una continuità ideologica tra l’orientamento terzomondista del movimento studentesco e il profilo marcatamente anti-imperialista delle organizzazioni armate sorte nella Germania federale dei primi anni Settanta. A partire dagli scritti di riferimento essenziali nella pubblicistica in favore della lotta armata – scritti quali Il concetto della guerriglia urbana (Ulrike Meinhof, 1971), uno dei testi più noti dell’esponente intellettuale della raf; Sulla lotta armata in Europa occidentale (Meinhof, 1971); Distruggete le isole del benessere del Terzo Mondo15; il Piccolo manuale del guerrigliero urbano (Carlos Ma-righela) – spicca una marcata adesione alle ragioni della lotta armata in corso al di fuori dell’ambito europeo al punto da farne la base di legittimazione essenziale per giustificare il passaggio alla clandestinità armata anche nel cuore dell’Europa. Ciò che in Germania occidentale avvenne con la costituzione, tra il 1970 e il 1972, di gruppi quali la raf, la Bewegung 2. Juni e le Revolutionäre Zellen16.

14. La questione rappresenta una ferita ancora aperta nella generazione maggior-mente coinvolta nel movimento del Sessantotto oltre ad essere estremamente con-troversa. Tra i sostenitori di una continuità quasi lineare tra Sessantotto e raf van-no annoverati G. Langguth, Mythos ’68. Die Gewaltphilosophie von Rudi Dutschke. Ursachen und Folgen der Studentenbewegung, Olzog, München 2001; W. Kraushaar et al., Rudi Dutschke, Andreas Baader und die raf, Hamburger Edition, Hamburg 2005. Recentemente ha suscitato grandi polemiche la rivisitazione critica (che per certi versi riprende l’accusa di Linksfaschismus che Habermas rivolse al movimen-to studentesco) operata dall’ex sessantottino e ora affermato storico G. Aly, Unserer Kampf. 1968 – ein irritierter Blick zurück, Fischer, Frankfurt am Main 2008.

15. In italiano i principali scritti sono stati raccolti nei volumi: raf, La guerriglia nella metropoli, Bertani, Verona 1979-80: vol. i, Testi della Frazione armata rossa e ultime lettere di Ulrike Meinhof, 1979; vol. ii, Ideologia e organizzazione della lotta armata, 1980.

16. S. Scheerer, Deutschland: die ausgebürgerte Linke, in H. Hess et al., Angriff auf das Herz des Staates. Soziale Entwicklung und Terrorismus, 2 voll., Suhrkamp, Frankfurt am Main, vol. i, pp. 193-429.

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La raf in particolare cercò di costruire la sua esigua base di legittima-zione politica principalmente sulla particolare declinazione triconti-nentalista del paradigma terzomondista, così come simbolicamente si illustra in una rappresentazione riportata da un giornale movimentista di Berlino Ovest, nel numero in cui si dichiara la necessità di costituire una “armata rossa”.

Dopo aver conseguito un buon livello di addestramento e una solida struttura organizzativa, nella primavera del 1972 la raf lanciò una prima vasta offensiva armata fortemente indirizzata contro i cen-tri dell’imperialismo usa in territorio tedesco: il quartier generale del v corpo di armata statunitense a Francoforte; la centrale informatica del quartier generale europeo dell’esercito statunitense ad Heidelberg. Con tali attentati la raf intendeva segnalare che la Germania non po-teva più essere considerata una sicura base di appoggio dell’imperia-lismo statunitense e che «non vi era più alcun luogo al mondo in cui

figura 1 “Agit 883”, 61, 22 maggio 1970

Fonte: http://plakat.nadir.org/883/ausgaben/agit883_61_22_05_1970.pdf

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gli Stati Uniti si sarebbero potuti sentire al riparo dagli attacchi delle unità rivoluzionarie della guerriglia»17. Nelle rivendicazioni rilasciate dal gruppo spiccava la volontà di porsi in relazione con un presunto fronte anti-imperialista internazionale operante in diversi ambiti.

Tali presunti collegamenti sembrarono in effetti trovare conferma pochi mesi più tardi. Nel settembre 1972, mentre a Monaco di Baviera erano in corso le Olimpiadi, il paese fu teatro di un’azione armata che poneva al centro dell’attenzione la questione palestinese e, indiretta-mente, le responsabilità storiche della Germania nell’irrisolto conflit-to medio-orientale. L’assalto del gruppo palestinese “Settembre nero” al villaggio olimpico di Monaco mise in luce l’esistenza di collegamenti fra il gruppo tedesco e quello palestinese. Nella richiesta da quest’ul-timo avanzata in cambio della liberazione degli atleti israeliani presi in ostaggio, oltre alla liberazione di compagni palestinesi detenuti in carceri israeliane, si chiedeva anche la liberazione di Andreas Baa-der e Ulrike Meinhof, arrestati dopo gli attentati del mese di maggio. Dall’interno del carcere Ossendorf di Colonia quest’ultima esprimeva piena solidarietà ai compagni arabi di “Settembre nero” e annunciava la volontà di intraprendere il suo primo sciopero della fame. Un paio di mesi più tardi la pubblicista di Amburgo espresse il suo positivo giu-dizio in un pamphlet dedicato all’azione18.

I rapporti in ambito internazionale si sarebbero tuttavia progressi-vamente allentati nella misura in cui anche il progetto politico tricon-tinentalista sarebbe entrato in secondo piano rispetto a più immediati obiettivi di sopravvivenza della raf. Alla offensiva armata del maggio 1972 era seguita una dura ondata repressiva che aveva portato all’incar-cerazione del nucleo fondatore della raf. Gli obiettivi più immediati divennero da un canto la liberazione dei detenuti, dall’altro il recluta-mento di una nuova generazione di seguaci in grado di garantire dura-ta e forza del gruppo. Ciò comportò il progressivo scivolamento della

17. M. Tolomelli, Terrorismo e società. Il pubblico dibattito in Italia e in Germania negli anni Settanta, il Mulino, Bologna 2006, p. 88.

18. U. Meinhof, Die Aktion des Schwarzen September in München. Zur Strategie des antiimperialistischen Kampfes, novembre 1972. Nel testo si dichiarava: «L’azione di “Settembre nero” ha reso trasparente e riconoscibile l’essenza del dominio impe-rialista e della lotta antimperialista come ancora nessuna azione rivoluzionaria era riuscita in Germania occidentale o a Berlino ovest. Essa fu al contempo antimpe-rialista, antifascista e internazionalista» (http://www.nadir.org/nadir/archiv/Poli-tischeStroemungen/Stadtguerilla+RAF/RAF/brd+raf/011.html).

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piattaforma di azione della raf da obiettivi estremamente ambiziosi a un orizzonte sempre più autoreferenziale.b) Come si dispiegò la lotta armata nel corso del decennio? È noto che i successi della prima ondata repressiva non segnarono la fine del grup-po, bensì l’inizio di un nuovo corso. Un corso segnato dal susseguirsi di azioni di crescente impatto mediatico finalizzate in maniera sempre più sistematica alla liberazione dei compagni detenuti. All’offensiva anti-imperialista della primavera 1972 seguì, dopo una fase di nuovi recluta-menti e di riorganizzazione della raf, una nuova offensiva a metà del decennio. Tra il 1974 e il 1975 alcune azioni spettacolari – il sequestro/omicidio del presidente della Corte di appello di Berlino Ovest, Günter von Drenkmann; il sequestro dell’esponente della cdu berlinese Peter Lorenz (per la liberazione del quale il governo assecondò le richieste di liberazione di alcuni membri della raf); l’assalto, sempre a fini estorsivi, dell’ambasciata tedesca di Stoccolma nell’aprile 1975 – conferirono alla raf della “seconda generazione” un profilo che sempre più coincideva con quello di un gruppo fortemente determinato a non lasciarsi intimi-dire dalle istituzioni e dai poteri legittimi dello Stato tedesco. La posta in gioco si era oramai definitivamente spostata dalle grandi questioni di ingiustizia nel mondo alla volontà indefessa di non arrendersi in alcun modo, di non perdere la guerra ormai dispiegatasi contro das Schwei-nesystem, una definizione di ben scarso spessore politico con cui la raf designava l’ordine politico “bundesrepublikano”. La logica giustizialista e l’obiettivo della liberazione dei compagni detenuti tramite estorsione saranno anche i moventi della terza offensiva, inaugurata con l’omicidio del procuratore della Repubblica Siegfried Buback nella primavera del 197719 e culminata con il sequestro e poi l’omicidio del presidente della Associazione degli industriali tedeschi Hanns-Martin Schleyer nell’otto-bre di quello stesso anno. La brutalità degli eventi del deutscher Herbst20 e la progressiva perdita di contenuti politici da parte della raf produs-

19. Nella primavera del 1977 la raf fu artefice dell’attentato al procuratore Bu-back, accusato di essere «direttamente responsabile [tra il 1974 e il 1976] dell’assassi-nio di Holger Meins, Siegfried Hausner e Ulrike Meinhof». Cit. tratta da L. Hach-meister, Schleyer. Eine deutsche Geschichte, C. H. Beck, München 2004, p. 328, ora in Tolomelli, Terrorismo e società, cit., p. 110.

20. M. Tolomelli, Deutschland im Herbst. La lunga transizione democratica nella Germania federale degli anni Settanta, in “Novecento. Per una storia del tempo pre-sente”, 14-15, 2006, pp. 155-73.

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sero lo smantellamento progressivo di quell’aura di eroismo di cui fino ad allora il nucleo più determinato della lotta armata in Germania ave-va potuto godere in alcuni ambienti della sinistra extraparlamentare21.c) Come interpretò la società il dispiegarsi della lotta armata all’inter-no della giovane democrazia postbellica? A questo proposito è interes-sante osservare che i primi ad orientare le analisi e il dibattito furono gli stessi propugnatori della Stadtguerilla. Molto più influente degli astrusi scritti teorici dei primi anni Settanta fu la propaganda svilup-pata sull’asse tematico della continuità del iii Reich nel nuovo assetto politico e sociale. Sin dalla prima ondata repressiva, che portò all’arre-sto del nucleo fondatore della raf, dall’interno delle carceri il gruppo agì sviluppando un’efficace campagna di sensibilizzazione dell’opinio-ne pubblica sulle condizioni carcerarie, descritte come tipiche del re-gime nazista. La terminologia utilizzata dai detenuti della raf – che definivano le condizioni di detenzione in termini di tortura (Folter) e sterminio (Vernichtungshaft) – intendeva esplicitamente evocare quel periodo al fine di produrre e diffondere una rappresentazione di sé opposta a quella circolante nella stampa di maggiore divulgazione. Se quest’ultima proponeva l’idea dei terroristi come temibili nemici di Stato, i detenuti della raf si autorappresentavano come vittime di uno Stato di polizia che nonostante avesse assunto le sembianze di una democrazia formale, nelle sue strutture profonde si poneva in stret-ta continuità con il regime del terrore nazista. Al fine di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sui caratteri repressivi della brd, i detenuti della raf condussero prolungati scioperi della fame – fino al punto da mettere in gioco la vita di alcuni compagni (come nel caso di Holger Meins22). In questo modo il gruppo cercava di presentarsi all’opinione pubblica nelle vesti di vittime, martiri di uno Stato spieta-

21. Sulla critica alla lotta armata della raf negli ambienti della sinistra non isti-tuzionale cfr. Tolomelli, Terrorismo e società, cit., pp. 133-44.

22. Holger Meins morì nel 1974 a seguito di un prolungato sciopero della fame cui fu quasi costretto dai suoi compagni di carcere. Holger Meins ebbe in effetti mo-menti di cedimento e in più di un’occasione fu in procinto di sospendere lo sciopero, fu tuttavia indotto a non arrendersi fino all’estrema conseguenza della morte. Negli ambienti della sinistra extraparlamentare la morte di Meins fu definita una “esecu-zione” di cui lo Stato tedesco era considerato responsabile. Tale visione fu condivisa dallo stesso avvocato difensore di Meins, Siegfried Haag, tanto che egli stesso nel 1976 avrebbe assunto la guida della “terza generazione” della raf.

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to, ridestante incubi di un passato ancora non superato. Tale strategia mirava inoltre alla mobilitazione dei “simpatizzanti” esterni, i quali or-ganizzati in comitati antifascisti, comitati di soccorso rosso, comitati sulla tortura ecc. contribuirono ad alimentare l’immagine di uno Stato dai caratteri estremamente autoritari. Si trattava di un tema particolar-mente sensibile in un giovane Stato in cui la “catastrofe tedesca” – così come lo storico Friedrich Meinecke aveva definito l’esperienza del na-zionalsocialismo – ancora non era stata storicamente né culturalmente metabolizzata. La rigorosa reazione dello Stato, sostenuto da ampi set-tori dell’opinione pubblica, fu giudicata rivelatrice di atteggiamenti di isteria collettiva, nonché di debolezze profonde della cultura politica democratica sulla base della quale la nuova Germania federale aveva costruito la propria legittimazione. La questione riguardava insomma le capacità della giovane democrazia tedesca – incorporata da società e istituzioni – di affrontare situazioni di sfida senza ricorrere a strumenti repressivi e antidemocratici. Le reazioni di “simpatia” che in alcuni set-tori sociali emersero nei confronti della raf si spiegavano dunque non tanto in termini di approvazione della lotta armata anti-imperialista, quanto piuttosto in virtù di una particolare sensibilità rispetto alle mi-sure repressive adottate dallo Stato.

Nel maggio 1976 Ulrike Meinhof fu trovata impiccata nel carce-re di Stammheim presso Stoccarda. Meinhof soffriva di depressione; i rapporti con i compagni di carcere Baader e Ensslin si erano progressi-vamente deteriorati; il suo ruolo nella raf, preminente della prima ge-nerazione, era stato marginalizzato in favore di altre figure nel frattem-po subentrate. Benché il suicidio di Meinhof avesse molto a che fare con problemi e conflitti interni al gruppo, esso fu tuttavia interpretato piuttosto come una ennesima manifestazione del rigore repressivo del-le istituzioni tedesche. In occasione del suo funerale l’editore berline-se Klaus Wagenbach tenne un discorso in cui dichiarò: «Ciò che ha ucciso Ulrike Meinhof sono state le condizioni tedesche [die deutsche Verhältnisse], l’estremismo di coloro che dichiaravano estremista chi poneva anche solo in discussione un cambiamento di tali condizio-ni»23. Ulrike Meinhof vittima insomma di uno Stato di polizia che si riteneva non avesse alcuna tolleranza per chi metteva in discussione

23. Il discorso di Wagenbach è riportato in P. Brückner, Ulrike Meinhof und die deutsche Verhältnisse, Wagenbach, Berlin 1976.

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l’ordine dato, o meglio, lo status quo. In questo discorso Wagenbach in definitiva attribuiva implicitamente alla classe politica e di gover-no la responsabilità dell’escalation culminata nella lotta armata, ac-cusandola di reazioni “estremiste” nei confronti dei critici dell’ordine esistente, così come era emerso sin dalle proteste studentesche di fine anni Sessanta. Di conseguenza Wagenbach non ammetteva distinzio-ni all’interno della classe politica dirigente, disconoscendo ad esempio gli effetti indiretti – equiparabili di fatto ad un’amnistia – della libe-ralizzazione del diritto penale in materia di manifestazioni politiche voluta dal cancelliere Brandt nel 1970; liberalizzazione che, in ultima istanza, decriminalizzò numerosi giovani coinvolti nelle proteste della primavera-autunno 196824. L’editore rivelava la stessa incapacità poli-tica delle forze conservatrici, pur se invertita di segno, nel distinguere tra forme di protesta rientranti nel repertorio di gestione democratica dei conflitti e la forma estrema della lotta armata. Come se la raf po-teva essere considerata vittima di un sistema repressivo paragonabile a quello rappresentato dal nome Auschwitz. Questa era la logica di cui si era alimentata la propaganda di reclutamento o a sostegno della raf, e questa fu anche la chiave di lettura attraverso cui furono giudicati gli omicidi, all’interno del carcere di Stammheim, delle figure-martiri Gu-drun Ensslin e Andreas Baader, allorché gli eventi che segnarono l’epi-logo del sequestro Schleyer avevano lasciato intendere che la guerra era definitivamente persa. Non solo negli ambienti della sinistra tedesca, ma in maniera diffusa anche al di fuori dei confini nazionali – in Ita-lia e in Francia in particolare – la drammatica vicenda di Stammheim fu letta come una evidente manifestazione della spietatezza dello Sta-to tedesco. Si trattava di una cornice interpretativa che prima ancora di rivelare la fragilità della cultura politica democratica in Germania metteva in luce l’esistenza di un rapporto ancora estremamente diffi-cile con il recente passato nazista e il peso che questo esercitava anche sull’immagine della Germania oltre i confini nazionali25.

24. M. Görtemaker, Geschichte der Bundesrepublik Deutschland. Von der Grün-dung bis zur Gegenwart, Beck, München 1999.

25. P. Terhoeven, Morte accidentale di tre anarchici? Reazioni della sinistra italia-na alla «notte della morte di Stammheim», in C. Corneliessen, B. Mantelli, P. Terho-even (a cura di), Il decennio rosso. Contestazione sociale e conflitto politico in Germania e in Italia negli anni Sessanta e Settanta, il Mulino, Bologna 2012, pp. 295-327.

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3 Per concludere

Se osservato da vicino il terrorismo tedesco assume i caratteri di un fe-nomeno sociale di primo acchito che si spiega in relazione alla diffu-sione della lotta armata in molteplici contesti di aree diverse del mon-do. Il paradigma tricontinentalista ebbe indubbiamente una rilevanza centrale nel dotare di senso l’azione di coloro che, sulla scia dell’indi-gnazione internazionale sollevata dalla guerra del Vietnam, si impe-gnarono nella lotta armata clandestina. Ad un livello più profondo di analisi emergono tuttavia altri moventi, o meglio, aspetti di maggior rilievo per comprendere la particolare declinazione assunta dalla lotta armata in Germania (federale). Emergono in primo luogo duri conflit-ti generazionali, determinati dal problema del rapporto con il passato nazista26; questione evocata costantemente dai protagonisti del terrori-smo sia istituendo presunti nessi di continuità col passato, sia riportan-do la questione ebraica sull’agenda politica della Germania federale. Con la ricerca di contatti con l’olp e la forte solidarietà mostrata nei confronti della causa palestinese, la raf intendeva alimentare il disagio del governo tedesco, riportarlo insistentemente di fronte alle proprie responsabilità passate e presenti. Il tema della fragilità delle basi su cui si reggeva il nuovo ordine democratico postbellico fu poi un’altra que-stione su cui l’opinione pubblica tedesca di fatto si confrontò anche se apparentemente il discorso pareva vertere principalmente sulla raf.

Le azioni o forse l’esistenza stessa di formazioni che, come la raf, non cercavano alcuna negoziazione, bensì un conflitto insanabile con l’ordine politico esistente, volevano essere in primo luogo una costante ed estrema provocazione nei confronti dello “stato delle cose” affermatosi in Germa-nia tra anni Cinquanta e Sessanta. Sotto questo profilo le azioni della raf possono essere lette come manifestazioni involute di disperazione e impotenza di fronte a problemi su cui a lungo la politica aveva taciuto, problemi che il movimento studentesco aveva sollevato suscitando forte clamore e che la lotta armata provvide invece ad esasperare producendo una regressione del dibattito politico su fronti rigidamente polarizzati.

26. Questo aspetto fu approfondito da N. Elias, Der burdesdeutsche Terrori-smus. Ausdruck eines sozialen Generationskonflikts, in Id., Studien über die Deutschen. Machtkämpfe und Habitusentwicklung im 19. und 20. Jahrhundert, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1989, pp. 300-89.

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Sul medio periodo la raf perdette la guerra contro lo Stato, la Re-pubblica Federale Tedesca si portava sulle spalle l’ipoteca del passato del iii Reich ma aveva saputo dimostrare di non essere con questo identifi-cabile. Negli anni Ottanta il dibattito su come affrontare e superare la “catastrofe tedesca” rientrò prepotentemente in ambito accademico e da qui rimbalzò nell’arena della politica27. Fortunatamente per il futuro del-la Germania lo Historikerstreit e la spregiudicata riflessione sull’identità politica e culturale della Germania postbellica precedette il 198928, così che la Germania federale ebbe il tempo di rivisitare criticamente il pro-prio passato prima di ritrovarsi nel nuovo contesto della Germania unita.

Ma tornando agli anni Settanta e tenendo come riferimento compara-tivo il contesto italiano, emerge quanto distante fosse il profilo politico della raf da una formazione cui viene spesso accostata: le Brigate Rosse, le cui origini e la cui storia furono fortemente ancorate a un imma-ginario politico di tipo marxista-ortodosso incentrato sul paradigma classico della lotta di classe e del superamento dell’anticapitalismo. La diversa natura politica delle due più note organizzazioni della lot-ta armata antisistema in Europa occidentale lascia pertanto trasparire quanto fuorviante possa risultare far confluire fenomeni fortemente eterogenei sotto il cono d’ombra del lemma terrorismo.

Si ritiene insomma che la storiografia dovrebbe concentrarsi più su un altro importante elemento accomunante gli eterogenei protagonisti del “terrorismo” in Europa: non tanto sull’aspetto superficiale del ricor-so alle armi in sé, quanto piuttosto sul fatto che tale ricorso – almeno in Italia e in Germania – avvenisse all’interno di ordini politici demo-cratici, improntati a sistemi pluralistici di mediazione di interessi e di conflitti. E dunque cercare di spostare la riflessione sul quesito se e in quale misura il fenomeno della lotta armata sia da considerarsi un sinto-

27. Una svolta fu segnata dal discorso tenuto dal presidente federale Richard von Weizsäcker l’8 maggio 1985 in occasione del 40° anniversario della fine della guerra. Nel discorso il presidente introdusse il concetto di “responsabilità collettiva” in alternativa all’idea di “vergogna” o “colpa” collettiva. H.-U. Wehler, Deutsche Gesellschaftsgeschichte, Band v, 1949-90, Beck, München 2008, p. 295. Cfr. anche K. H. Bohrer, Cultura della colpa, cultura della vergogna. Sulla perdita della memoria storica in Germania, in “No-vecento. Rassegna di storia contemporanea”, 3, 2000, pp. 123-29.

28. D. Diner, Discorsi sulla colpa e altre narrative. Osservazioni sull’epistemologia dell’“Olocausto”, in “Novecento. Rassegna di storia contemporanea”, 3, 2000, pp. 27-40.

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mo di fragilità o di parziale funzionamento degli ordini politici emersi nel dopoguerra e quale impatto la lotta armata abbia su questi rivelato.

Nel caso tedesco si può sostenere che il fenomeno abbia rappresentato un banco di prova cruciale per la democraticità delle istituzioni tedesco-federali, una sorta di “momento di verifica” da cui sono emerse le fragilità di una società ancora ampiamente traumatizzata dalle vicende del nazi-smo e scarsamente fiduciosa nelle regole del gioco della democrazia. Dal-le difficili vicende dei bleierne Jahre (così come la regista Margarethe von Trotta ha descritto quel periodo in un suo celebre film del 1981) la società tedesca ha tratto alcuni insegnamenti atti a consolidare le fondamenta democratiche della cultura politica dominante, la quale finì per accettare il dato della conflittualità sociale, imparando a gestirlo senza ricondurlo entro il novero della lotta eversiva. Già all’inizio del decennio, in risposta alla “dichiarazione di guerra allo Stato” fatta pervenire dalla raf a un’a-genzia di stampa, l’allora cancelliere socialdemocratico Willy Brandt ebbe a osservare che la democrazia di cui la società tedesca poteva final-mente godere era da considerarsi un “dono” prezioso, da preservare e di-fendere contro ogni minaccia. Tale argomento fu ripreso e sostenuto con determinazione anche nella fase più drammatica del sequestro Schleyer, allorché il successivo cancellerie Helmut Schmidt (spd) espresse in più occasioni la volontà di difendere «così tanti diritti, così tanta libertà, così tante garanzie sociali, così tante opportunità di formazione e di vita come si sono date nei tre decenni in cui è cresciuta la seconda democrazia tedesca»29. Nonostante l’opinione pubblica tedesca fosse molto preoc-cupata degli effetti di “svuotamento della democrazia” che secondo alcu-ni osservatori l’inasprimento della legislazione antiterrorismo rischiava di provocare, negli anni Settanta politica e società tedesche realizzarono che il “dono” di uno Stato di diritto democratico non era qualcosa di im-mobile30, unicamente da preservare, bensì un bene collettivo che cresceva con la società e che di questa rispecchiava incertezze, blocchi, paure; un bene insomma di cui prendersi cura, coltivando la cultura politica demo-cratica di cittadini e governanti affinché le ragioni della lotta armata non potessero più trovare alcuna ragione d’essere.

29. O. Kallscheuer, M. Sontheimer, Einschüsse. Besichtigung eines Frontverlaufs. Zehn Jahre nach dem deutschen Herbst, Rotbuch, Berlin 1987, pp. 9-31, qui p. 12.

30. Questa tesi fu ampiamente argomentata già sul finire del decennio Settanta. Crf. A. Wellmer, Terrorismus und Gesellschaftskritik, in J. Habermas (hrsg.), Stichworte zur «Geistigen Situation der Zeit», Suhrkamp, Framkfurt am Main 1979, pp. 265-93.

Esperienze di memoria

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1 Stato dell’arte: giovani, storia, scuola e anni Settanta

Vi è una «estrema ignoranza che serpeggia tra i giovani circa i fatti e gli eventi della storia italiana a partire dalla fine della Prima guerra mondiale» si affermava nel 1965 e a Voghera, nello stesso momento, si scoprì che su 1.300 studenti «la metà abbondante ignorava chi fosse Giacomo Matteotti»1. Problema antico quindi quello della conoscen-za storica così come è da sempre complicato il rapporto fra i giovani e questa disciplina: la storia non è amata, non è studiata, non è cono-sciuta, quella contemporanea in modo particolare. La non conoscenza storica, la difficoltà a comprendere il passato, la limitata motivazione degli studenti verso la materia potrebbe essere causata, ed essere a sua volta causa, dell’appiattimento su un presente destoricizzato che pare caratterizzare i ragazzi. Le generazioni precedenti, quelle dei genitori – ormai dei nonni – e dei docenti, hanno attraversato un processo di socializzazione politica e collettiva elaborando ed enucleando valori e categorie interpretative che, dal passato, si rivolgevano a presente e futuro con l’intento di intervenire nel tracciato storico. Le generazioni più giovani, invece, tendono a separare nettamente la vita individuale dallo spazio politico, vivono al di fuori della storia ed hanno difficoltà nella dimensione dell’agire collettivo2. Si sconta quindi il risultato di

Esperienze nelle scuoledi Cinzia Venturoli

1. D. Giacchetti, Contestatori, capelloni, estremisti. I giovani degli anni sessanta, in N. Fasano, M. Renosio (a cura di), I giovani e la politica: il lungo ’68, Gruppo Abele, Torino 2002, p. 69.

2. C. Leccardi, Storia e memoria: traiettorie della “seconda modernità”, in M. Ram-pazi, A. L. Tota (a cura di), Il linguaggio del passato, Carocci, Roma 2005, pp. 82-84.

cinzia venturoli

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un corto circuito tra memorie – personale, collettiva, sociale – e i ra-gazzi non si sentono più parte di un processo; inoltre si assiste a quella che Franco Fortini ha definito un «effetto di de-realizzazione» ovve-ro la perdita di senso del fatto storico che pare non essere nemmeno accaduto, mentre ciò che ne rimane, anche solo dopo poco tempo, è considerato narrazione o invenzione3.

In modo particolare quando si è testata la conoscenza storica sugli anni Settanta fra gli studenti, si è constatato un non sapere e, ancora più, la presenza di curiose convinzioni per cui la strage di piazza Fon-tana può addirittura diventare un «attentato ordito da un bandito in combutta con le Brigate rosse nella Sicilia del dopoguerra»4.

Il disorientamento che si rileva da interviste, questionari, domande rivolte ai ragazzi è notevole, è come se il rumore informativo e le pole-miche politiche che nel corso degli anni hanno accompagnato questi episodi abbiano contribuito a creare false notizie, visto che, secondo la lezione di Marc Bloch: «una falsa notizia nasce sempre da rappre-sentazioni collettive» e che «la falsa notizia è lo specchio nel quale la coscienza collettiva contempla i propri lineamenti»5.

Si deve sottolineare che le vicende degli anni Settanta, del terrori-smo, dei movimenti, delle leggi varate in quegli anni sono sempre più di sovente sotto la luce dei riflettori politici e mediatici e lo sono non certo per un interesse storiografico, per una esigenza di ricostruzione storica o di trasmissione di memorie, ma, solitamente, in un chiaro esempio di uso, o abuso, politico della storia. Stante questa situazione vi è più che mai la necessità di riportare la discussione in un ambito nel quale i giovani e i cittadini siano in grado di cogliere le strumentalizza-zioni, proponendo, al contrario, un’analisi più approfondita di alcuni eventi della recente storia italiana, troppo spesso sottaciuti o affrontati in modo parziale o commemorativo, e che invece sono importanti an-che per la comprensione del presente.

3. G. Bertacchi, Memoria personale, autobiografia e storia, in Testimoni di Storia. La ricerca. Memoria e insegnamento della storia contemporanea, Ministero dell’Istru-zione, dell’Università e della Ricerca, Roma 2004, p. 143.

4. M. Perosino, La Storia non siamo noi, in “La Stampa. Mondo Scuola”, 21 mar-zo 2006.

5. M. Aymard, Introduzione, in M. Bloch, La guerra e le false notizie, Donzelli, Roma 1994, p. xv.

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Alla consapevolezza di avere scarse, e confuse, conoscenze i ragazzi coniugano la richiesta di saperne di più: questo, assieme alle denunce e allo scandalizzarsi sui media, dovrebbe tradursi in una spinta verso l’insegnamento e l’approfondimento. Ciò però non accade sovente e di certo non è un’azione sistematica, quindi la constatazione delle carenze rimane un fatto, un titolo sui giornali utilizzato soprattutto in occasione di anniversari significativi, mentre il passo successivo, quello grazie al quale le lacune possono essere colmate non viene compiuto, se non par-zialmente, con emerite e sporadiche iniziative di piccoli gruppi, associa-zioni, insegnanti, istituti, istituzioni locali che non trovano, o hanno dif-ficoltà a trovare un quadro generale e istituzionale a cui fare riferimento.

Diventa invece indispensabile fornire ai giovani solide basi sulle qua-li poggiare la capacità di comprendere ed analizzare i numerosi e a volte contraddittori messaggi di cui sono ascoltatori, affinché siano cittadini consapevoli, attenti conoscitori di quelle che sono le radici del loro pre-sente ed acquisiscano conoscenze e strumenti di analisi e di giudizio.

Lavorare con i ragazzi sulla storia degli anni Settanta (i movimenti dei giovani, delle donne, degli operai, i terrorismi, le riforme attuate e quelle mancate, la politica nazionale ed internazionale) ci permetterà inoltre di tracciare un percorso didattico all’interno di una sempre più necessaria educazione alla cittadinanza, ovvero interventi che portino i giovani, e perché no gli adulti, ad acquisire le «competenze necessarie ad esercitare i propri diritti e i propri doveri e a partecipare attivamente alla vita democratica della propria società»6 rafforzandone in questo modo la cultura democratica7.

La scuola può e credo debba essere l’agenzia educativa che si fa carico, sostenuta da altre agenzie ed istituzioni, di lavorare su questi temi nella prospettiva storica e di educazione alla cittadinanza di cui si è detto, pur essendo il rapporto fra storia e scuola indubbiamente complesso in quanto risultato di intrecci, sommatorie e intersezioni fra i programmi ministeriali, i manuali, l’attività dei singoli docenti e le pressioni delle polemiche politiche e pubbliche8.

6. B. Losito, Educazione alla cittadinanza, in G. Cerini, M. A. Spinosi (a cura di), Voci della scuola, vol. iv, Tecnodid, Napoli 2004, p. 105.

7. Su questi temi mi permetto di rimandare al mio Insegnare, e comprendere, gli anni ’70. Ovvero della necessità di affrontarli in classe, in “Storia e futuro”, 28, febbraio 2012.

8. N. Baiesi, E. Guerra, Interpreti del loro tempo ragazzi e ragazze tra scena quoti-diana e rappresentazione della storia, clueb, Bologna 1997, p. 119.

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Innanzitutto si confrontano nella scuola, come ben noto, due sog-getti del processo formativo: i discenti e i docenti, entrambi interpreti del loro tempo; abbiamo quindi il rapportarsi di insegnanti testimoni del loro tempo e protagonisti delle vicende del recente passato con stu-denti deprivati di memoria e al contempo portatori di bisogni formati-vi quali lo sviluppo di una coscienza storica necessaria ad orientarsi nel loro presente in accelerato cambiamento.

Anche se molti docenti comprendono l’importanza di questo la-voro didattico ed individuano negli anni Settanta fatti fondamentali per la storia del paese e per la crescita personale non è consueto vedere trattati questi temi a scuola per motivi differenti: in molti, ad esempio, credono che quegli anni siano un passato ancor troppo vivo e presente per essere considerato storia, altri adducono la presenza di troppi “mi-steri” irrisolti e in questo caso una storiografia ancora non consolidata su questi temi non aumenta la sicurezza degli insegnanti.

È poi indubbio che i docenti si trovino «stretti tra le incertezze delle indicazioni governative e le sempre maggiori difficoltà del fare scuola, tra i mutamenti profondi della disciplina di riferimento e un’o-pinione pubblica estremamente conservatrice rispetto alla definizione di cultura storica, fomentata in questo dall’uso distorto che fanno i mass media», come afferma Paolo Bernardi9.

Uno dei nodi cruciali in questa dinamica è quello legato alle mo-dalità dell’insegnamento delle tematiche sensibili della storia del xx secolo, che nella percezione di numerosi docenti non sono “come le altre”, visto che conciliano l’approfondimento storico e le responsabi-lità della memoria: se rispetto a temi quali la Shoah molto si è riflet-tuto, legando la ricerca storiografica e quella didattica all’elaborazione di ormai numerose “buone pratiche”, non così è stato fatto per altre tematiche della storia del Novecento, fra cui il terrorismo, che, come si è detto, è evento la cui conoscenza è imprescindibile per comprendere la storia italiana, ed europea, di quegli anni.

Si deve infine ricordare come i programmi ministeriali, la cornice en-tro la quale i docenti (volenti o nolenti) si trovano ad inserire la loro azio-ne e programmazione, siano mutati al mutare dei ministri della (pubbli-ca) Istruzione. Anche se ora le indicazioni ministeriali prevedono, per le

9. P. Bernardi (a cura di), Insegnare storia. Guida alla didattica del laboratorio storico, utet, Torino 2006, p. xv.

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ultime classi della scuola superiore di primo e secondo grado, lo studio della storia più recente, difficilmente si assiste alla trattazione di temi legati agli anni Settanta e Ottanta, soprattutto nella superiore di secon-do grado: il metodo solitamente utilizzato è infatti quello cronologico e, inevitabilmente, il tempo a disposizione degli insegnanti per arrivare alla trattazione di periodi più recenti e successivi alla Seconda guerra mon-diale o ai primissimi anni Sessanta, non è sufficiente, anche a causa delle poche, pochissime, ore curriculari previste per questa materia.

Il primo strumento attraverso il quale discente e docente entrano in relazione con la storia/disciplina è indubbiamente il manuale, uno de-gli ausili didattici tutt’ora più utilizzato. Inserire in un testo scolastico questa storia, i movimenti, la storia politica ed economica italiana ed europea, i terrorismi, può risultare complesso per una duplice serie di motivi. Innanzitutto le già citate incertezze della storiografia10, legate non tanto all’analisi dei (o di una parte dei) movimenti quanto e so-prattutto a quella del terrorismo, nello specifico quello stragista, che si riflettono, come evidente, anche sui manuali scolastici e sui testi anto-logici o di supporto alla didattica dove sempre più facilmente si trovano schede, approfondimenti, documenti sul terrorismo brigatista e dove lo stragismo e le minacce alla democrazia stentano ad essere affrontate.

Nei manuali scolastici anni Settanta, terrorismo e stragismo sono fra gli argomenti la cui trattazione risente di più del linguaggio gior-nalistico; solitamente definiti, spesso acriticamente, “anni di piombo”, difficilmente in questi testi si trova descritta la complessità e la ricchez-za di quel periodo11.

Molti testi rivolti alle scuole secondarie di secondo grado sottoli-neano, forse anche troppo, i legami col Sessantotto, in particolare per il terrorismo di estrema sinistra, quasi a suggerire, in certi casi, che la principale eredità di quel movimento sia stata questa, anche se non mancano manuali che presentano i nuovi movimenti politici e di vo-lontariato che dall’esperienza sessantottina sono nati, e sottolineano come gli anni Settanta non siano solo “anni di piombo”, ma anche anni di importanti riforme civili.

10. Rimando al mio La storiografia e le stragi nell’Italia repubblicana: un tentati-vo di bilancio, in “Storia e futuro”, 11, novembre 2006.

11. C’è manuale e manuale: analisi dei libri di storia per la scuola secondaria, Sette Città, Viterbo 2010, p. 35.

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Manuali incerti, a volte imprecisi, a volte un po’ superficiali, ma anche testi che possono, o potrebbero, offrire una base di lavoro dalla quale far scaturire approfondimenti, percorsi, laboratori.

2 Esperienze, proposte, progetti per insegnare

gli anni Settanta

Difficoltà su difficoltà si prospettano quindi a chi voglia insegnare gli anni Settanta. A questo corrisponde, per quanto possiamo constatare in pratica, una crescente volontà di fare entrare questa parte di storia nelle aule scolastiche; da qualche anno e sempre più, si possono tro-vare, infatti, progetti che vanno proprio in questo senso e che sono, a volte, proposti o sostenuti da associazioni o figure professionali esterne alla scuola, incontrando la volontà di insegnanti motivati ad accogliere nella loro programmazione lo studio specifico di quegli anni.

Non di rado i soggetti coinvolti propongono laboratori: la didattica laboratoriale venne prospettata già negli anni Settanta. In un suo sag-gio Raffaella Lamberti12 poneva la necessità di rivedere l’insegnamento della storia sottolineando l’esigenza di rivolgersi al passato per stimo-lare una più avvertita e coerente consapevolezza del presente, in quel passaggio presente-passato-presente che è divenuta una delle caratteri-stiche fondamentali del laboratorio, un passaggio che si può, e si deve compiere, attraverso l’analisi delle fonti; tale pratica è rientrata poi nei programmi scolastici del 1979 e del 1985 dove viene definita una «del-le competenze fondamentali a cui deve tendere la formazione storica dello studente»13. Dopo oltre trent’anni da quella prima riflessione si può affermare come questa metodologia didattica abbia avuto una sor-ta di diffusione a “macchia di leopardo”, in una situazione in cui una minoranza di insegnanti, motivata, la utilizza, mentre la maggioranza tende a preferire una didattica più tradizionale14. E la situazione non è sostanzialmente mutata in questi ultimi anni.

12. R. Lamberti, Per un laboratorio di storia, in “Italia contemporanea”, 132, 1978.13. E. Rosso, Le fonti, dalla storiografia al laboratorio di didattica, in Bernardi (a

cura di), Insegnare storia, cit., p. 105.14. Bernardi (a cura di), Insegnare storia, cit., p. xiii e S. Stefanizzi, Dalla ricerca

quantitativa all’indagine campionaria, in Testimoni di Storia. La ricerca, cit., pp. 91-2.

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Noi crediamo che l’approccio laboratoriale possa essere un efficace “antidoto” contro la disaffezione alla storia, visto che permette un ap-prendimento attivo e non passivo, un fare e un saper fare che stimola l’interesse; inoltre l’utilizzo delle fonti, caratteristica di questa pratica, diviene l’occasione per insegnare un metodo critico e per radicare più a fondo le conoscenze. È possibile introdurre qualche lavoro sui temi di nostro interesse anche alle scuole elementari dovendo però considerare che nei programmi attuali l’unico spazio per la storia contemporanea in queste scuole è l’insegnamento di “convivenza civile”, o di storia locale, oppure di adempimento alla legge che istituisce il giorno della memo-ria. È innegabile che la scomparsa della storia contemporanea dai pro-grammi di questo ordine scolastico costituisce un ostacolo ulteriore. Di certo sono le classi delle scuole superiori di primo e secondo grado quel-le in cui più facilmente si introducono laboratori sugli anni Settanta.

Gli obiettivi didattici ed educativi che si possono raggiungere utiliz-zando questa metodologia sono numerosi e, evidentemente, si differen-ziano per età degli alunni. Nella scuola superiore di primo grado quelli propriamente didattici sono rivolti a tematizzare problematicamente l’oggetto della ricerca, a “leggere” e saper utilizzare il testo storiografico, a individuare, analizzare, criticare l’intenzionalità della fonte, a selezio-nare ed elaborare le informazioni raccolte in base al modello di lavoro prescelto, a rileggere e reinterrogare le fonti, ad ampliare la ricerca per rispondere a nuove domande, a costruire il quadro contestuale. Il nodo sta proprio nel sollecitare la riflessione critica anche sugli aspetti quo-tidiani del proprio presente. Vi sono poi gli obiettivi logico-operazio-nali, come analizzare, selezionare, comparare, generalizzare, costruire mappe concettuali, tradurre da un linguaggio ad un altro informazioni e concetti. Infine gli obiettivi affettivo-relazionali, come rafforzare la dimensione motivazionale dello studio della storia, stimolare un uso critico del territorio, rafforzare la consapevolezza dell’essere soggetti sociali attivi15. Per le scuole superiori di secondo grado si possono pro-porre obiettivi educativi quali sollecitare alla riflessione sul valore della stessa, “operare” perché questa realtà preziosa permanga ed anzi si rea-lizzi sempre più. Gli obiettivi didattici prevedono, fra l’altro, l’analisi più approfondita della recente storia italiana e, in particolare, di alcuni

15. Percorso elaborato da Pietro Biancardi e da chi scrive per il cd-rom didattico P. Biancardi, G. Marcucci, C. Venturoli (a cura di), 2 agosto 1980, 10, 25.

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aspetti costitutivi della storia locale, nazionale e mondiale, che restano fondamentali anche per la comprensione del presente16.

L’acquisizione di un metodo critico diventa sempre più importante anche a causa dei nuovi luoghi di informazione che stanno diventando il principale territorio in cui i giovani si muovono: mi riferisco, na-turalmente, alla rete. Internet pone temi e problemi molto complessi agli storici, e agli insegnanti, che mai come ora devono confrontarsi con mezzi di comunicazione e con modalità di racconto che possono rendere «patetici e impotenti i pudori documentari»17. Fra questi vi è una sempre più ampia presenza di siti legati alla storia, sovente siti “amatoriali”18, spesso siti costruiti allo scopo di raccontare la propria, personale o di un gruppo, interpretazione dei fatti, a volte siti pensati appositamente alla conservazione della memoria, in un proliferare e prosperare di luoghi virtuali, ma scarsamente virtuosi, differenti per contenuti e metodologie difficili da controllare, che pongono quindi con grande forza la necessità di dotare i loro fruitori di strumenti di analisi critica appropriati.

Una volta deciso di affrontare questi temi, così come vuole la di-dattica laboratoriale il punto di partenza è il presente: si presenta alla classe il progetto e si verificano le pre-conoscenze sui temi per capire cosa sanno gli studenti e quali interessi possono essere presenti. Ci si ri-volge quindi al passato e si identificano le fonti che possono servire alla ricerca e con cui si possa rispondere alle domande quali quando, come e perché è accaduto l’evento, o gli eventi, che si vogliono analizzare, avviando così la ricostruzione storiografica.

Le fonti devono essere analizzate e incrociate utilizzando schede costruite appositamente e che riprendono le categorie e le classificazio-ni proprie della ricerca storica.

L’ultima fase dell’attività laboratoriale è il ritorno al presente in cui si deve dare conto del lavoro con la costruzione di un elaborato, così da rispettare le fasi della ricerca storica: selezionare, interrogare, inter-pretare, scrivere19.

16. Ibid.17. M. Isnenghi, I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, La-

terza, Roma-Bari 1997, p. 529.18. A. Criscione, Web e storia contemporanea, a cura di P. Ferrari, L. Rossi, Caroc-

ci, Roma 2006, p. 52.19. cd rom didattico Biancardi, Marcucci, Venturoli (a cura di), 2 agosto 1980, cit.

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Il prodotto finale del laboratorio non è un accessorio, una fase eli-minabile e sostituibile da una verifica, scritta o orale, ma parte essen-ziale dell’azione didattica. Questa può assumere varie e diverse forme, dalla “tesina” ai cartelloni (per i ragazzi più giovani), dal prodotto multimediale al documentario al telegiornale o giornale storico20. Al-trettanto importante è la socializzazione del prodotto con una presen-tazione rivolta anche agli studenti che non hanno svolto il laboratorio; funzione essenziale di questo tipo di didattica è l’archiviazione delle fonti e dei risultati del laboratorio.

Il progetto laboratoriale può anche andare incontro all’esigenza espressa nella legge che ha istituito il giorno della memoria, in cui viene prevista la possibilità che vengano organizzati «momenti co-muni di ricordo dei fatti e di riflessione, anche nelle scuole di ogni ordine e grado»: attività non facile visto che la legge stabilisce che lo Stato non dovrà accollarsi oneri. Inoltre, a scuola, e lo si sa chiara-mente, non si può lavorare esclusivamente per conservare la memo-ria, visto che gli obiettivi che ci poniamo sono legati a competenze e conoscenze.

La scuola può, e forse dovrebbe, essere coinvolta nella costruzione di un percorso di lavoro strutturato, coeso nel tempo scolastico e atti-vo, che aderisca alla prospettiva della storia-problema, ossia alla con-sapevolezza del prevalere della ricerca rispetto al “fatto-monumento”, e quindi alla costruzione di ipotesi, modelli, verifiche degli stessi, evitando i noti rischi legati alla didattica della memoria, quelle che Todorov definisce «le Scilla e Cariddi» del lavoro della memoria21, vale a dire la sacralizzazione e la banalizzazione, processi questi che si possono insinuare, al di là delle buone intenzioni, in forme sotti-li e striscianti, non sempre avvertite da docenti e operatori culturali. Evidentemente il laboratorio non può, e credo, non debba sostituire la lezione frontale o gli altri metodi didattici, è solo uno strumento, attivo, che può dare stimoli visto che ci permette di lavorare su un congruo numero di documenti e materiali di vario tipo, così da sti-

20. C. Bonelli, Il laboratorio come didattica del prodotto, in Bernardi (a cura di), Insegnare storia, cit., pp. 240-56.

21. T. Todorov, Uso e abuso della memoria, in “Le Monde diplomatique”, 20 apri-le 2001.

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molare conoscenze e competenze, attivando il fare insieme, il dibat-tito e la riflessione, in particolare sul rapporto tra storia e memoria e su quello presente/passato/futuro. Il laboratorio può utilizzare, visto il periodo storico oggetto di ricerca, innumerevoli fonti: giuridico-politiche, quali sentenze e materiale delle commissioni parlamentari d’inchiesta; sociologiche quali indagini sociali e inchieste; fonti visi-ve: fotografie, filmati; letterarie e artistiche come letteratura, canzoni, film di fiction; e anche quotidiani, settimanali. E ancora fonti orali: testimoni, uomini e donne che parteciparono ai movimenti collettivi e altre esperienze significative, familiari delle vittime, giudici e giorna-listi: queste fonti sono sia costruite durante il laboratorio, sia reperite attraverso letture di testimonianze pubblicate. Infine luoghi di me-moria e segni di memoria sul territorio.

Questa disponibilità delle fonti e il particolare avvicinamento allo studio degli anni Settanta ci permette di poter valorizzare un approc-cio multidisciplinare che rafforzi i legami con gli altri insegnamenti previsti dai programmi scolastici scomponendo le discipline e dimi-nuendo la tentazione del dogmatismo, inducendo lo studente a colle-gare le realtà di cui ha esperienza.

Qualche parola in più si dovrà forse in questa sede dedicare al lavo-ro sul luogo della memoria inserito nella didattica degli anni Settanta: se, infatti, è ormai pratica acquisita svolgere progetti a scuola sui luoghi della memoria legati alla Seconda guerra mondiale e al sistema concen-trazionario nazista, meno frequente è invece “l’utilizzo” di altri luoghi della memoria.

Il luogo di memoria, come è noto, può coincidere con il luogo dell’evento quando siano stati posti dei segni legati al ricordo quali monumenti, lapidi, cippi e il lavoro didattico può partire proprio dalla visita e dall’analisi di uno di questi luoghi. Diversi e differenti luoghi possono essere interrogati in questo senso. Se questo è, ad esempio, il terrorismo le città colpite dalle stragi o da altri eventi terroristici, saranno “i luoghi possibili”. Forzando forse un po’ si può includere anche un’analisi della toponomastica della propria città ed anche le eventuali lapidi collocate in memoria di vittime o di eventi, in questo caso dedicati anche ad altri temi o protagonisti, rilevandone presenze e assenze. Attraverso l’analisi di queste fonti si può affrontare anche il tema del rapporto fra memoria personale e collettiva.

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3 Sul campo, in classe e nel luogo di memoria

Alla prova pratica, ovvero all’applicazione sul campo di quanto ipo-tizzato e programmato, i risultati ottenuti si sono rivelati interessanti, importanti, incoraggianti.

Ad esempio, dopo esperienze che possiamo definire sporadiche, seppur valide dal punto di vista educativo, dall’anno scolastico 2010-11 l’Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, in convenzione con l’Assemblea della Re-gione Emilia-Romagna, ha presentato un progetto rivolto alle scuole superiori di primo e secondo grado che si è avvalso della collaborazio-ne di alcuni istituti emiliano-romagnoli per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea. In questo caso, il tema principale è la strage di Bologna del 2 agosto, ma naturalmente il progetto include anche la contestualizzazione e l’analisi di altri aspetti degli anni Settanta.

Numerosissime scuole della regione hanno aderito alla proposta ed è stato quindi possibile portare lo studio degli anni Settanta, con una metodologia laboratoriale, all’interno delle classi.

Si può sottolineare l’interesse vivo degli studenti che si interroga-no sulle reazioni al terrorismo e sulla difesa della democrazia, sul suo sviluppo e sul suo condizionamento messo in atto da eventi storici e attuali, sui differenti modi di vivere e intendere la politica.

Questi temi che hanno avuto grande attenzione e partecipazione soprattutto fra gli studenti delle scuole superiori di primo e di secondo grado, sono stati discussi persino alle scuole elementari.

Abbiamo svolto, infatti, un percorso nella scuola di base, in un co-mune in provincia di Bologna, grazie all’iniziativa di Federica Mara-nesi, una maestra preparata e attenta che si proponeva di offrire agli alunni l’opportunità di conoscere momenti di storia italiana partico-larmente difficili, che erano ad essi per lo più sconosciuti e che invece rappresentavano il vissuto dei loro stessi genitori o dei nonni; l’intento è stato quello di far riflettere gli alunni su quei tragici eventi perché problematizzandoli e contestualizzandoli ne prendessero consapevo-lezza. Il percorso didattico ha previsto la presenza sul luogo della me-moria e, cioè, proprio nella sala d’aspetto della stazione di Bologna in cui il 2 agosto 1980 fu collocata la bomba che uccise 85 persone e ne ferì 200. L’osservazione dei segni posti a memoria nell’edificio ricostruito

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(le lapidi, l’orologio fermo all’ora della strage, la breccia lasciata nel muro...) e la loro analisi si sono affiancate all’ascolto di un testimo-ne che è avvenuta presso la sede dell’Associazione22. Il prodotto finale, una presentazione multimediale, ha dato conto del coinvolgimento degli alunni e delle competenze acquisite durante il percorso.

Per diversi motivi, di grande importanza per tutti gli ordini di scuole si è rivelato l’incontro con il testimone. Se siamo ormai abituati ad ascoltare racconti dei grandi venti luttuosi del xx secolo (Shoah, Seconda guerra mondiale) o narrazioni di vita quotidiana, meno fre-quente è l’ascolto di persone coinvolte in prima persona nei fenomeni dello stragismo o del terrorismo.

I racconti di memoria sono momento di incontro fra le generazioni, educazione all’ascolto, didattica inclusiva. L’educazione all’ascolto del testimone è un passaggio fondamentale: percepire le parole e i silenzi degli altri, dare rilievo al racconto autobiografico alle storie, eccezionali o alla storie di tutti, significa educare all’ascolto di sé, favorire il ricono-scimento della propria storia. Scrive a questo proposito Renate Siebert:

Un atteggiamento responsabile, a partire da una elaborazione intima di que-gli eventi storici che hanno segnato il nostro presente, non può che sviluppar-si attraverso una relazione – di dialogo, di scontro, di partecipazione – con altre persone che di questa memoria sono stati testimoni, la generazione, le generazioni che ci hanno preceduto. [...] Sarà sull’impronta dell’elaborazione (o meno) del passato più recente, attraverso il “corpo a corpo” con i suoi pro-tagonisti, che si configurerà in modo significativo il nesso tra memoria e re-sponsabilità – anche per quanto riguarda il passato remoto. Estremizzando: se non comunichiamo sui significati della memoria, del ricordo e dell’oblio, con la generazione che ci precede e con quella che ci segue, difficilmente vi-viamo in una dimensione che conosce un passato e un futuro23.

Durante i nostri laboratori, l’incontro con il testimone ha suscitato una forte emozione, ha permesso una reazione empatica, rivelabile da tutti

22. Questo progetto è stato realizzato nella scuola primaria di Rastignano di Pia-noro sotto la guida della maestra Federica Manaresi. Di questo lavoro si dà conto nella tesi di C. Luppi, La strage di Bologna spiegata ai bambini: un percorso didattico sulla memoria, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna, Facoltà di Scienze del-la formazione primaria, relatore professor A. Preti, a.a. 2011-12.

23. R. Siebert, Una generazione di orfani, in D. Barazzetti, C. Leccardi (a cura di), Responsabilità e memoria. Linee per il futuro, Carocci, Roma 1997, p. 119.

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gli scritti e i pensieri redatti dai ragazzi, reazione empatica che non è rimasta fine a se stessa ma che ha attivato una serie di domande e consi-derazioni volte ad approfondire l’evento e le sue ripercussioni sulla vita delle persone direttamente colpite e sopravvissute alle ferite e al lutto.

Entrare in contatto con le persone coinvolte permette, infine, ai ragazzi di avere una raffronto anche rispetto alla rete che è anche una sorta di magazzino di memorie, proprio per la funzione che viene a lei affidata dai suoi stessi frequentatori ed autori: mettere a disposizione ricordi e notizie che si ritengono importanti, esprimendo la propria opinione su temi ed eventi. In una sorta di intreccio fra telematica e fonti orali che, come così puntualmente rilevava Criscione24, offre allo storico, e allo studioso, materiale estremamente interessante, seppur di complessa analisi e utilizzo. Internet è quindi una estensione della memoria sociale, intesa «come il repertorio delle tracce del passato vir-tualmente disponibili in seno alla società»25. Una sorta di magazzino da cui si traggono fonti di memoria che possono, a volte, essere scam-biate per storiografia.

Per incoraggiare, incentivare le scuole a lavorare su questi temi si sono pensati alcuni concorsi. Sempre l’Assemblea legislativa della Re-gione Emilia-Romagna e l’Associazione tra i familiari delle vittime del-la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, con il patrocinio dell’Ufficio scolastico regionale per l’Emilia-Romagna, hanno propo-sto alle istituzioni scolastiche di primo e secondo grado della regione il bando di concorso: «E tu come faresti?».

Lo scopo di questo concorso era quello di chiedere ai ragazzi di pro-porre un percorso attraverso il quale interessare a questi temi i loro coe-tanei. I risultati, anche in questo caso, sono stati davvero interessanti26.

Per valorizzare il lavoro degli insegnanti e, nel contempo, per cre-are un archivio dei progetti realizzati, è stato bandito dalla Rete degli archivi per non dimenticare27 il concorso «Le buone pratiche: storia e

24. Criscione, Web e storia contemporanea, cit., p. 183.25. P. Jedlowski, Media e memoria. Costruzione sociale del passato e mezzi di co-

municazione di massa, in M. Rampazi, A. L. Tota (a cura), Il linguaggio del passato, Carocci, Roma 2005, p. 43.

26. http://www.assemblea.emr.it/quotidianoer/notizie/stragi-la-memoria-sal-vata-dagli-studenti

27. Alla rete aderiscono alcuni Archivi di Stato e Soprintendenze archivistiche e numerosi archivi privati, centri di documentazione e associazioni, che hanno lavorato

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memorie a scuola. Lavorare in classe sui temi legati a terrorismi, crimi-nalità organizzata, violenza politica». Questo concorso non ha ancora visto la sua conclusione ma, conoscendo la realtà, non dubitiamo che si potranno raccogliere ottime esperienze. La stessa rete degli archivi ha poi pensato di promuovere il concorso «Storie di vite, storie nelle città», dove i temi del terrorismo e della criminalità organizzata si ca-leranno nella concretezza del caso individuale e di un preciso contesto urbano.

Naturalmente numerosi sono ancora i concorsi, le borse di studio, a volte intitolati a vittime della violenza, istituiti proprio per non di-menticare e per affiancare alla memoria conoscenza e impegno attivo.

I risultati ottenuti da questi progetti e, comunque, dal lavoro fatto in classe sulla storia, la memoria degli anni Settanta (anche nella pro-spettiva dell’educazione alla cittadinanza), sono incoraggianti: l’auspi-cio è quindi quello di poter trasformare questi progetti in momenti curricolari e di allargare tematiche e metodi all’educazione permanen-te rivolta ai cittadini italiani, vecchi e nuovi.

per conservare e tutelare la memoria storica del nostro paese riguardo alle tematiche legate al terrorismo, alla violenza politica e alla criminalità organizzata (http://www.memoria.san.beniculturali.it).

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C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su ro-vine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo.

W. Benjamin, Angelus Novus

Per ricostruire la storia complessa e difficile degli anni del terrorismo, abbiamo a disposizione inedite fonti d’archivio e in gran parte ancora inesplorate, che possono offrire nuovi sguardi e spunti di riflessione alquanto interessanti. Archivi pubblici e privati che negli ultimi anni hanno iniziato a dialogare in maniera fruttuosa sui temi della violenza politica in Italia, costituendo a partire dal 2005 una rete nazionale, la Rete degli archivi per non dimenticare1, che lavora per conservare, tu-telare, valorizzare, far conoscere la memoria e la storia di quegli anni su cui stiamo discutendo in questo convegno. Anni difficili, bui, e per

Per una storia del terrorismo: fonti e memorie negli archivi

di Marcella Filippa

1. Alla Rete aderiscono circa sessanta archivi privati, centri di documentazione, alcuni Archivi di Stato e Soprintendenze archivistiche presenti nel territorio nazio-nale. In Piemonte hanno aderito il Gruppo Abele e la Fondazione Vera Nocentini. Nel 2011, in occasione del Giorno delle vittime del terrorismo, alla presenza del pre-sidente Giorgio Napolitano in Quirinale è stato presentato il portale della Rete, in continua fase di ampliamento e aggiornamento (www.memoria.san.beniculturali.it).

marcella filippa

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certi versi in parte rimossi, perché troppo dolorosi e inquietanti, ma anche di grande fermento culturale, di dibattito storiografico intenso.

Occorre dire che, proprio intorno alla metà degli anni Settanta – sotto la spinta del dibattito e degli eventi che avevano segnato la storia del paese – nascevano in Italia e in alcune città italiane, in particolare, istituti culturali per dar voce e visibilità a soggetti che cominciavano a essere riconosciuti dalla storia. Forse ricordare ciò contribuisce anche a dare un’immagine di quel periodo più complessa, e a mettere in discus-sione una rappresentazione a tinte forti, che da più parti è stata definita troppo parziale, tranchant – gli anni Settanta come “anni di piombo” – e fuorviante. Non sono infatti solamente anni in cui la violenza politica si è esplicitata in maniera prepotente , ma anche anni di grande dibat-tito e fermento culturale, di inizio di percorsi e attività che nei decenni successivi avrebbero segnato profondamente la storia italiana. Erano gli anni delle ricerche che utilizzavano le fonti orali per dar voce a soggetti rimasti per troppo tempo invisibili, ricerche prodotte quasi sempre al di fuori dell’accademia, promosse con spregiudicatezza e coraggio da giovani istituti culturali che allora prendevano forma. A Torino si co-stituivano la Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci (1974), l’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini (1977) e la Fondazione Vera Nocentini, fondata nel 1978, che sarebbero nel tempo diventati i principali centri di conservazione e valorizzazione della storia sindaca-le, del movimento operaio in Piemonte, dei partiti e dei movimenti po-litici e studenteschi, fino a costituire nel 2008 un nuovo istituto, unico nel panorama culturale italiano, l’ismel (Istituto per la Memoria e la cultura del Lavoro, dell’impresa e dei diritti sociali)2.

La Fondazione Nocentini, su cui vorrei soffermarmi, raccoglie, conserva e ordina una ingente documentazione relativa alla storia so-ciale e sindacale del nostro territorio, con una particolare attenzione alla storia e alla memoria della cisl e dei suoi protagonisti. Nel tempo ha ampliato in modo considerevole la documentazione, raccogliendo fonti sulla storia dei movimenti migratori e delle culture alimentari, delle donne, dell’esodo, dei giovani, per citare alcuni dei temi mag-giormente presenti nel nostro archivio, diventato negli anni uno dei principali riferimenti culturali della nostra città. Un archivio che ha

2. Ad oggi, oltre i tre istituti, sono tra i soci fondatori la Città di Torino, cgil, cisl, uil, l’Unione Industriale, la Camera di commercio, l’Archivio fiat.

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salvato dall’oblio e ha reso pubblica e consultabile una notevole docu-mentazione, frutto di un lavoro composito e di una sinergia attiva con organizzazioni e individui, di un intreccio fra pubblico e privato che ha permesso di mantenere viva la memoria di eventi sui quali stiamo riflettendo, e che ora dovrebbe lavorare nella direzione di una ricostru-zione storica di quegli eventi.

Il tema del terrorismo compare in molta documentazione presente nei fondi archivistici sindacali, ma è più diffusamente documentato nei fondi archivistici della cisl torinese e della fim-cisl (Federazione italiana metalmeccanici). La maggior parte dei documenti si colloca tra la metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del Novecento, ed evidenzia il ruolo svolto dal sindacato unitario, perché è quella la storia sindacale di quel decennio, nell’azione di contrasto e di lotta al terrorismo e alla violenza, che si esplicita in incontri, assemblee in fab-brica, convegni, corsi di formazione sindacale, questionari distribuiti nelle fabbriche torinesi e piemontesi; di questi ultimi conserviamo la formulazione, i passaggi e i risultati dell’inchiesta. Così come vi sono interi fascicoli sui momenti più drammatici di quel tempo: il caso Moro, il delitto Tarantelli, fino all’uccisione di Massimo D’Antona e Marco Biagi. Esemplificativo l’opuscolo redatto congiuntamente da cgil, cisl e uil Piemonte, subito dopo l’uccisione di Biagi, in occa-sione delle manifestazioni del 25 aprile 2002, dal titolo La coerenza del sindacato contro il terrorismo. In esso leggiamo, tra l’altro:

Il sindacato confederale unitariamente può rivendicare il merito di essere sta-to tra i primi a comprendere che il terrorismo rosso derivava veramente da una matrice ideologica di sinistra e per questo era ancora più pericoloso per il movimento (sindacale) del terrorismo neofascista. Con questa consapevo-lezza il sindacato agì con determinazione, chiamando i lavoratori a difendersi dai nuovi nemici. Non bastava più solo proclamare gli scioperi contro il ter-rorismo. cgil cisl e cil fecero firmare a tutti i loro delegati una lettera che li impegnava a confermare e a opporsi a ogni forma di violenza e terrorismo.

Un vero e proprio proclama di principio. Sono documenti che andreb-bero analizzati nel contesto di quel tempo, spogliati della loro carica ideologica, confrontati con la pratica che caratterizzò il sindacato in quegli anni, attraverso una ricostruzione precisa, incrociandoli con le storie personali che conserviamo e continuiamo a raccogliere, anche

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grazie a un finanziamento della Compagnia di San Paolo, nell’ambito di un progetto di valorizzazione del nostro “fondo terrorismo”.

Il nostro archivio, oltre ai cosiddetti fondi sindacali, conserva un in-gente patrimonio audiovisivo, concernente in particolare documentazio-ne fotografica di alcune migliaia di fotografie relative a manifestazioni, scioperi, cortei, assemblee in fabbrica e in luoghi significativi della città. Così come vi conserviamo centinaia di manifesti politici, sindacali e non solo, che negli anni Settanta e Ottanta sono stati prodotti soprattut-to dalla flm, spesso anche in forma “artigianale”, di qualità e profonda innovazione grafica. Anche da questo punto di vista varrebbe la pena approfondire le forme di linguaggio, la circolazione di tale materiale e l’impatto che esso ebbe nelle forme di comunicazione sindacale3. Sono manifesti che testimoniano l’impegno sindacale unitario, insieme ai con-sigli di fabbrica, comitati di quartiere, partiti (pci, psi, dc in particolare) nell’affrontare l’emergenza terrorismo specialmente nelle grandi fabbri-che del Nord – e in appuntamenti di piazza come il 25 aprile e il 1° maggio (cfr. figg. 1 e 2) – o altri realizzati a commemorazione dell’uccisione di figure idealmente legate al movimento sindacale come Ezio Tarantelli, per citarne una particolarmente emblematica (cfr. figg. 3 e 4), o nel caso dell’assassinio di Guido Rossa a Genova (cfr. fig. 5).

Una documentazione particolarmente importante è quella relativa ai fondi personali, documentazione raccolta nel tempo da militanti, dirigenti sindacali, intellettuali, docenti universitari e donata negli anni immediatamente successivi agli eventi su cui stiamo riflettendo. È il caso del fondo Carlo Marletti, sociologo, docente all’Università di Torino, aggredito da militanti di estrema destra nei pressi di Palaz-zo Nuovo a Torino nel gennaio 1973, e di Luisa Passerini, storica, che ha insegnato in molte università italiane e straniere, in particolare alla Columbia University. Nel fondo Marletti sono conservati tra l’altro volantini, documenti redatti dalle Brigate Rosse, resoconti di interven-ti a seminari dei primi anni Ottanta sul terrorismo e la violenza politica tenutisi in alcune città italiane. E, ancora, atti di convegno, rassegne stampa, questionari (in particolare i risultati del questionario realiz-zato dal Partito comunista nel 1981), atti dell’inchiesta sul terrorismo promossa dal Consiglio regionale piemontese nel febbraio 1982.

3. Cfr. M. Ferraresi, E. R. Maga (a cura di), La comunicazione sindacale. Dal vo-lantino al social network, Tecnodid, Napoli 2012, in particolare M. Filippa, Il sindaca-to e il lavoro attraverso le fotografie.

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figura 1 Manifesto, 1° maggio 1980, Federazione unitaria cgil, cisl, cil Torino, Fonda-zione Vera Nocentini

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figura 2 Manifesto, 25 aprile 1981, Federazione unitaria cgil, cisl, uil Piemonte, flm Piemonte, Fondazione Vera Nocentini

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figura 3 Manifesto, 25 maggio 1985, cisl Valle Susa, Fondazione Vera Nocentini

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figura 4 Manifesto, marzo 1986, cisl nazionale, Fondazione Vera Nocentini

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Il fondo Passerini, particolarmente consistente, presenta su tali temi una documentazione di straordinario interesse, che per ora è in parte riservata e consultabile solo previa accettazione della donataria, in par-ticolare quella relativa alla corrispondenza privata tra la storica e alcuni detenuti. Contiene, inoltre, verbali di interrogatori, bobine e trascri-zioni di interviste e storie di vita di detenute, raccolte nell’ambito di alcuni seminari universitari tenutisi in carcere nei primi anni Ottanta. Una parte di tale documentazione è stata oggetto di ricerche di studio-si di diverse nazionalità (svizzeri, tedeschi, magrebini).

Questa ingente documentazione presenta, così come altre di cui si sta parlando, un problema di riservatezza e delicatezza per i temi e soprattutto per le storie personali che sono documentate, su cui occor-rerebbe stabilire criteri condivisi e modalità di consultazione. Se ne sta discutendo nell’ambito di alcune iniziative promosse dalla Rete degli archivi per non dimenticare. È recente la richiesta di un ex appartenente delle Brigate Rosse che ha scontato la sua pena, si è “rifatto” una vita e chiede di far oscurare le notizie relative a quella fase della sua vita che compaiono in Internet. Una sorta di richiesta di diritto all’oblio.

figura 5 Manifesto, gennaio 1979, Federazione unitaria cgil, cisl, uil Torino, Fonda-zione Vera Nocentini

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Il problema è complesso; si può espungere e cancellare con un colpo di spugna una parte della propria esistenza, quella più problematica e inquietante, e ridefinire la propria vita, rendendola più accettabile, in funzione dell’oggi e di un futuro prossimo per sé e per i propri fi-gli? È un tema che compare nel film recentemente proiettato in molte sale italiane, La regola del silenzio, con la regia di Robert Redford, che narra di una storia rimossa negli Stati Uniti e non solo, del gruppo ter-roristico che agì negli usa negli anni Settanta, Weather Underground, e della necessità di fare prima o poi i conti con il proprio passato per poter continuare a vivere. Ma questo è un problema etico e personale, che solo in parte ci può riguardare. La domanda che invece ci dob-biamo porre come storici è quale funzione e quale utilizzo debbono avere gli archivi, pubblici e privati, che depositano storie e percorsi sui quali non si è ancora lavorato abbastanza. Per la mia esperienza, più continuo a lavorare più scopro che quasi nessuna distanza emotiva è stata posta, perché le ferite sono ancora sanguinanti e aperte; quella storia ha attraversato anche parte della generazione di storici che su tali temi sta in questi anni lavorando. È un passato troppo recente, troppo ingombro, come qualcuno ha scritto, di macerie e di morti. In tal senso può venirci in aiuto Paul Ricoeur, uno degli interpreti più acuti del pensiero freudiano. In particolare le riflessioni comparse in Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, a proposito del ricordo, del suo continuo processo in mutamento, dell’illusorietà di ritrovare intatta la sua primitiva impronta, come autentica fedeltà al passato, e di una impossibilità di perpetuarsi inalterata, in quanto la riformulazione dei ricordi è legata a un bisogno di renderli coerenti con l’orizzonte del presente, con le tradizioni accettate dalla comunità o dal gruppo a cui si appartiene. Sia l’eccesso di memoria che l’eccesso di oblio per Ricoeur risultano ugualmente nefasti, tanto che uno dei suoi principali obiettivi è stato quello di elaborare l’idea di una politica della giusta memoria. Remo Bodei, nell’introduzione al volume citato, sostiene che parte essenziale del progetto di Ricoeur è la modificazione del peso del passato, che proprio in tal senso ci può offrire utili suggestioni:

La colpa che grava su atti pregressi, il debito contratto rispetto alle promesse non mantenute, il male commesso o subito, rappresentano altrettanti macigni che il passato carica sulle spalle del presente e del futuro. Eppure, il perdono, l’adempimento degli impegni assunti, il rimedio posto (sia pure tardivamen-te) al male, provocano una catarsi, riaprono il passato, ne cambiano il senso,

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permettendo un nuovo inizio e, simultaneamente, alleviando e rischiarando le mete del futuro4.

Perché è proprio il perdono senza attesa di ricambio (di cui solo la vitti-ma e non lo storico è abilitata a praticare) il gesto che è in grado di lenire le ferite della memoria, frenare l’avanzare dell’oblio teso a occultare le responsabilità dell’accaduto, mentre rappresenta etimologicamente un dono di riconciliazione che si offre. E ancora Ricoeur ci indica una terza dimensione che si pone come ponte fra la memoria collettiva e individua-le, quella che riguarda i proches, che stanno in un piano intermedio, in cui si operano gli scambi fra la memoria individuale e quella pubblica, coloro cui siamo legati da rapporti di filiazione, di coniugalità, e di amicizia5.

Le riflessioni che alcuni di noi stanno portando avanti negli inter-venti presenti in questo volume tendono a ripensare un certo uso delle parole per dire tali eventi, troppo cariche di giudizio, troppo definitive, che formulano a priori una rigida visione storica, che non lascia possi-bilità di ripensare gli eventi stessi, di inserirli in un contesto più ampio, e soprattutto stabilisce una rigida visione manichea senza sfumature, solo in bianco e nero. Prendo a prestito alcune osservazioni che fa Gio-vanni De Luna nel suo ultimo libro, La Repubblica del dolore, relativa-mente agli eventi che hanno caratterizzato il Novecento, parlando di una memoria divisa, fondata sulla centralità delle vittime. Lo dimostra l’istituzione di giornate della memoria e del ricordo dedicate ognuna a un particolare e specifico gruppo di vittime (shoah, foibe, mafia, ter-rorismo, caduti militari e civili nelle missioni internazionali di pace). Sono proprio queste giornate stabilite per legge che tengono in piedi, e spesso solo loro, il patto fondativo della nostra memoria; il dolore di ognuna, per potersi vedere riconosciuto, deve sopravanzare sulle altre. Come se l’istituzione di tali giornate fosse una sorta di risarcimento che lo Stato fa alle vittime, che di volta in volta vengono istituzional-mente riconosciute, in un tentativo di governare per legge “il passato che non passa”. Quello che De Luna ha definito il paradigma vittima-rio coinvolge in realtà altri paesi europei, come la Francia e la Spagna, proponendo in questi ultimi decenni tutta la sua forza egemonica. Se-

4. R. Bodei, L’arcipelago e gli abissi, in P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdo-nare. L’enigma del passato, il Mulino, Bologna 2004, p. xiv.

5. P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Cortina, Milano 2003, pp. 185-6.

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condo lo storico la presenza “soffocante” delle emozioni ha spesso il sopravvento: odio, vendetta, perdono, compassione, pietà.

Molte delle pulsioni che si agitano nel nostro universo vittimario nascono dai nodi irrisolti di un passato abbastanza recente, dagli anni settanta delle stragi e dei tanti misteri irrisolti che ancora oggi gravano come una cappa oscura e soffocante sul funzionamento delle nostre istituzioni. L’assenza di verità e di giustizia su episodi che hanno profondamente influenzato il corso della nostra storia lascia aperte troppe ferite, alimenta una spirale interminabile di rancori, rende impossibile recintare uno spazio comune: uno spazio in cui vittime e carnefici, colpevoli e innocenti, possano confrontarsi all’insegna di una certezza e di una verità che non siano solo quelle delle loro storie perso-nali, in cui sia finalmente consentito al passato di passare, in cui sia possibile offrire, a chi lo vuole, un colpevole da perdonare6.

Forse anche in tal caso la categoria di vittime, succeduta alla rappresen-tazione altrettanto rigida di quella di eroi (Risorgimento, Resistenza), similmente a quella dei carnefici, ci appare riduttiva e carica di giudi-zio, a tal punto da impedire una equilibrata ricostruzione della realtà, capace di risolvere il rapporto fra storia e memoria, senza però che la memoria faccia da padrona, come ci ammoniva Charles Maier7.

Norberto Bobbio, nel 1983, in una sua conferenza a Milano, ela-borava il concetto di mitezza, associandola a un pressante invito della conoscenza e alla cultura intesa come:

Misura, ponderatezza, circospezione: valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere, e non pro-nunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda, in modo irrevocabile, una scelta definitiva8.

In tal senso il nostro archivio conserva una documentazione comples-sa, articolata, delicata con una caratteristica di unicità, soprattutto per quanto riguarda le storie di vita di ex detenuti, a cui ho già accennato,

6. G. De Luna, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltri-nelli, Milano 2011, p. 16.

7. C. Maier, Un eccesso di memoria? Riflessioni sulla storia, la malinconia e la ne-gazione, in “Parolechiave”, 9, 1995.

8. Cfr. N. Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, a cura di S. Mobiglia, P. Polito, Linea d’ombra, Milano 1994.

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ma anche quella relativa alle scelte che alcuni dirigenti sindacali fecero in merito all’accompagnamento di detenuti, brigatisti o appartenenti a Prima Linea, dissociati o no, verso l’inserimento esterno lavorativo, e al percorso di riabilitazione che vide nella cisl torinese e nel Gruppo Abele i fautori e gli esponenti più significativi. Una posizione alquanto scomoda e coraggiosa in quegli anni, spesso non compresa, documenta-ta da carteggi interessanti fra dirigenti sindacali e detenuti, che conser-viamo, e che al momento, per la delicatezza dei temi affrontati, non è ancora consultabile al pubblico. La scelta non fu condivisa da molti diri-genti, da quelli in particolare che avevano conosciuto in fabbrica quegli operai, spesso poi passati alla clandestinità. Si erano sentiti “traditi” dalla fiducia data loro, schiacciati dal sospetto e dall’impotenza, anche perché avevano dovuto pagare con una vita “sotto scorta” o a “rischio attentati”.

Alcuni detenuti negli anni del carcere li avevano cercati, avevano loro scritto, ma essi si sono rifiutati di aprire una qualsivoglia forma di dialogo, come confermano le testimonianze orali che stiamo rac-cogliendo in questi mesi, le quali fanno emergere ferite ancora sangui-nanti, aspetti non risolti e non ancora rielaborati e in parte rimossi.

La cisl torinese ebbe il coraggio, negli anni successivi, di inserire alcuni ex detenuti in percorsi lavorativi proprio all’interno del sindaca-to, e su tale tema forse oggi potremmo essere in grado di condurre una riflessione più pacata e costruttiva. Certamente influì in tale scelta, che – ripetiamo – fu assunta da alcuni dirigenti e non sempre condivisa, una visione del mondo legata all’appartenenza religiosa cristiana, pri-ma che cattolica, di molti di essi, a una dimensione legata al perdono e alla possibilità di dare anche a “chi sbaglia” un’opportunità di ricomin-ciare una vita nuova, e di riconciliarsi con essa per poter continuare a vivere e affrontare il futuro. Per aprire una nuova pagina nella propria esistenza e nel proprio tempo, congedandosi da un passato, nei con-fronti del quale si è pagato il prezzo di una condanna, per poter resti-tuire a se stessi una modalità pur segnata dalla colpa, ma anche da una possibilità di “resurrezione”. Perché, come afferma Ricoeur: «Colui che è stato non può più non esser stato: ormai questo fatto misterioso e profondamente oscuro dell’esser stato è il suo viatico per l’eternità»9.

Un tema a cui sono particolarmente legata, e sul quale sto condu-cendo riflessioni e percorsi didattici di approfondimento, è quello rela-

9. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, cit., p. 339.

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tivo al rapporto con le giovani generazioni, che non conoscono quella storia. «È mancato qualcosa alla nostra cultura e alla nostra politica per trasmettere, o per far capire davvero, il senso di ciò che accadde in quegli anni tormentati del terrorismo», ha sostenuto Giorgio Napoli-tano in un intervento sul caso Battisti, l’8 gennaio 2011, e che possiamo riferire nella quasi sua totalità a tutti gli anni attraversati dal terrorismo nel nostro paese.

Nel tentativo di ritessere il filo, spesso interrotto, fra le generazio-ni, vorrei segnalare un’interessante iniziativa proposta alcuni mesi fa al Castello di Rivoli, Museo d’Arte contemporanea, nei pressi di Torino, uno dei luoghi per eccellenza in cui vengono proposte mostre e opere di artisti contemporanei italiani e stranieri. La storia che non ho vis-suto (testimone indiretto) è una mostra di sette giovani artisti ai quali è stato chiesto di raccontare, scegliendo una forma di comunicazione artistica privilegiata, un episodio della storia del Novecento nel nostro paese. Una nuova generazione di artisti, pur in un’ampia varietà di for-me e scelte linguistiche, è accomunata da uno specifico interesse nei confronti dell’Italia del Novecento. I temi che hanno scelto di trattare vanno dalle ambizioni imperialiste del regime fascista, al movimento anarchico, alle stragi irrisolte, ai poteri oscuri, ma soprattutto ai cosid-detti “anni di piombo”. Marcella Beccaria, la curatrice della mostra, ha affermato a tal proposito:

Ho ideato questa mostra perché penso sia il momento, nell’attuale contesto di incertezze e contraddizioni, di riconoscere la presenza vitale di un’arte tesa a riaffermare il proprio ruolo politico e sociale. Guardando al passato, le opere in mostra sembrano trovarsi in una condizione non dissimile da quella dell’angelo di Benjamin e contemplano la storia proprio a partire dai suoi frammenti più incrinati o offuscati da altre ingombranti macerie. Cercare di interrogare ciò che è poco chiaro, o fatti che a distanza di anni continuano a dividere l’opinione pubblica, richiama anche la desiderabile immagine di una società democratica, nella quale nulla è celato e tutto corrisponde al vero significato di “res publica” sempre da tutti visibile e condivisibile.

Fra gli artisti segnalo in particolare il lavoro di Eva Frapiccini, tra i gio-vani artisti italiani più innovativi e interessanti, che coniuga immagini, fotografie e cinema per raccontare il tempo, la storia e le storie. Muri di piombo, già presentato in molte città italiane e straniere (Milano, To-rino, Roma, Parigi), è un progetto fotografico composto da cinquanta

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fotografie, ispirato alla stagione del terrorismo tra gli anni Settanta e Ottanta, che induce, come afferma Frapiccini, «lo spettatore a riflet-tere non tanto sulle ragioni storiche, sociali e politiche di quei fatti e di quegli anni, ma sulla dimensione individuale della tragedia, e sulla necessità collettiva di non dimenticare, di ricordare». L’artista, origi-naria di Recanati, è ritornata su cinquanta luoghi dove sono accadu-ti eventi, attentati, morti, assassini, in quegli anni, nello stesso mese, alla stessa ora del giorno o della notte, con la stessa luce o lo stesso buio, a fotografare quel luogo così come è oggi, con o senza tracce di quello che è accaduto un tempo. Il lavoro, frutto di una lunga ricerca d’archivio e bibliografica, è partito da Torino, città in cui lavorava e viveva anni fa Eva Frapiccini, allora studentessa dell’Istituto europeo di design, forse anche perché come lei afferma «l’ermeticità di questa città mi ha spinto a cercare un mezzo per scoprirla, ho poi proseguito con altre città, aspettando per ognuna il suo momento. In realtà io ho fatto ben poco, il più lo decideva il passato, l’ora, il mese, il luogo, io rimanevo in ascolto». Il lavoro è pubblicato in un catalogo che segnala le immagini, una per una, città per città, accompagnate da un testo, da una didascalia, quasi sempre tratta da giornali d’epoca10.

Ritornando al nostro archivio, consultato da studiosi, ricercatori, semplici cittadini interessati alla storia del lavoro e dei diritti sociali, vorrei segnalare un interessante utilizzo di una parte della documen-tazione sugli anni Settanta, che ha permesso di realizzare nel 2009 un documentario, Radio Singer11, con la regia di Pietro Balla, prodotto dalla Fondazione Nocentini, a cui ho personalmente contribuito nella stesura della sceneggiatura, che narra la storia di una fabbrica occupata, la Singer di Leinì, nei pressi di Torino, e di un interessante progetto culturale realizzato nei mesi dell’occupazione, che portò all’apertura di una delle prime radio libere in Italia, una storia che contiene anche la deriva del terrorismo in quella fabbrica. Proprio il 21 ottobre 1975, un dirigente della Singer, Enrico Boffa, cade nell’agguato teso da tre brigatisti. Viene aggredito e ferito, all’uscita di casa sua. Tra i primi attentati della lunga serie di quegli anni. Il quotidiano “La Stampa” scriverà il giorno dopo:

10. E. Frapiccini, Muri di piombo, Skira, Milano 2008. 11. Il documentario è consultabile presso la Fondazione Vera Nocentini, e sul

portale www.onthedocks.it

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Costretto con le armi a inginocchiarsi, lo hanno fotografato, poi con freddez-za, gli hanno sparato nelle gambe: due colpi, un proiettile lo ha ferito all’al-tezza del ginocchio destro. La vittima è Enrico Boffa, 41 anni, abita a Rivoli, sposato con due figli: è direttore del personale dello stabilimento Singer a Leinì. Il cartello che i brigatisti gli hanno appeso al collo così recita: “Brigate rosse. Trasformare la lotta contrattuale in scontro di poter per battere il dise-gno presidenziale e corporativo di Agnelli e Leone e il compromesso storico di Berlinguer”.

Per la realizzazione del documentario sono state raccolte e realizzate nuove testimonianze e videointerviste che sono andate ad accrescere il corpus di memorie orali su tali temi. Radio Singer, per il coraggio e la spregiudicatezza con cui ha affrontato temi controversi della storia degli anni Settanta, tra cui l’ assalto al bar Angelo Azzurro a Torino, a latere di una manifestazione di Lotta Continua, in cui venne arso vivo lo studente Roberto Crescenzio, si è meritato il premio Ucca alla 27a

edizione del Torino Film Festival.Nel 2008, come ho già anticipato, si è costituito l’ismel, un nuovo

istituto, unico nel panorama culturale italiano, e che ha pochi istituti analoghi in Europa, di cui la Fondazione Nocentini è tra i fondatori. Presto avrà una prestigiosa sede a Torino, in cui i tre istituti promotori, l’Istituto Antonio Gramsci, l’Istituto Salvemini, insieme alla Fonda-zione Nocentini, si trasferiranno: in un palazzo juvariano nei cosiddet-ti quartieri militari del centro storico di Torino. La biblioteca e l’archi-vio riunificati diventeranno così uno dei più importanti poli culturali della città. Gli anni Settanta, nella loro complessità, saranno certamen-te analizzati, studiati, e nuove ricerche verranno promosse su tali temi, con l’auspicio che si rafforzi nel contempo la Rete degli archivi per non dimenticare di cui la nostra fondazione fa parte sin dagli esordi.

Un’ultima riflessione: Giuliano Turone, magistrato fino a qualche anno fa, impegnato in importanti inchieste sulla criminalità organiz-zata ed economica, che si occupò dell’omicidio Ambrosoli, e autore di un recente volume sul caso Battisti12, in una presentazione qualche tempo fa a Torino del libro, ha affermato che ciascuno si deve prendere e assumere le proprie responsabilità su quegli anni, esortando altresì

12. G. Turone, Il caso Battisti. Un terrorista omicida o un perseguitato politico?, Garzanti, Milano 2011.

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ad andare oltre il risentimento e la vendetta, utilizzando più strumen-ti e differenti forme di comunicazione per far conoscere quella storia, come egli stesso ha fatto, realizzando una sorta di Teatro civile per nar-rare la storia del nostro paese. Con La diritta via egli sta portando in giro per l’Italia, nelle scuole, in teatri, al Nord e al Sud, un testo da lui scritto, accompagnato dal musicista Mirko Lodedo, sui temi dei diritti e della Costituzione, per contribuire ad uscire da una sorta di incon-sapevole “sonno sociale” in cui sarebbero caduti molti italiani, e far conoscere ai giovani la storia, anche quella più drammatica e violenta.

Tanti modi per raccontare e far conoscere gli anni Settanta, tanti linguaggi, alcuni anche fortemente innovativi, che ci permettono di offrire uno sguardo lucido e complesso su una storia ancora in parte da scrivere, che dovrà necessariamente utilizzare anche nuove e inedite parole per narrarla.

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Quale distacco?

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Più che ricostruire una riflessione coerente, questo testo cercherà di seguire e tematizzare la novantina di frammenti, osservazioni e com-menti contenuti nelle lettere a “Lotta Continua” pubblicate fra il n. 49 (2-3 marzo 1980) e il n. 89 (19 aprile 1980). Il filo logico che unisce tutti questi frammenti è la manifestazione contro il terrorismo di sinistra in-detta da Mimmo Pinto e da “Lotta Continua” per il 30 marzo 1980: la stessa pubblicazione delle lettere doveva servire a scopo promozionale.

L’evento scatenante per indire la manifestazione fu l’assassinio, da parte delle Brigate Rosse (br), del giurista Vittorio Bachelet, il 12 feb-braio 1980, nell’atrio della Facoltà di Scienze politiche della Sapienza. All’indomani dell’omicidio, “Lotta Continua” descrive Bachelet come «persona politicamente “pulita”», professore amato dai suoi studenti, «una persona aperta, aveva le sue idee ma ci si poteva parlare»1. Una delegazione parlamentare, comprendente anche il deputato di Demo-crazia proletaria Mimmo Pinto, visitò la scena del crimine parlando con gli studenti e allievi di Bachelet. Nel numero di “Lotta Continua” del 2-3 marzo apparve un’intervista di Pinto in cui si proponeva l’orga-nizzazione di una grande manifestazione contro il terrorismo di sini-stra a piazza Navona, a Roma.

La proposta di Pinto non era legata particolarmente alla figura di Ba-chelet quanto all’indignazione per la crescita della violenza nella società italiana: in particolar modo, si dirigeva contro il terrorismo di sinistra:

Oggi c’è in giro una violenza grossa. [...] Per esempio io – dico io per dire molta gente – torno e vedo uno che mi sta rubando la ruota della 500, consu-mata; secondo me, io lo strozzo.

Il rifiuto della violenza e la fine del movimento? Una riflessione

agli inizi degli anni Ottantadi Bojan Mitrović

1. “Lotta Continua”, ix, 1980, 34, 13 febbraio 1980, p. 2.

bojan mitrović

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Noi, tutte queste cose, una volta le giustificavamo, dicendo: è la borghe-sia. Ma non credo che sia così, per cui penso che questa manifestazione che dice: “Siamo in piazza contro la violenza” sarà un andare controcorrente, an-che un andare contro le masse, forse.

[...]La “violenza rivendicata”: ecco, negli ultimi tempi questa è la cosa che mi

fa più paura. Prova a pensarci: questa società è violenta, però non c’è mai stato un volantino di rivendicazione dell’operaio morto da parte del padrone. [...] Le br sono all’opposto, la loro è programmazione della violenza, e questa è la cosa più pericolosa perché diventa un comportamento. Per esempio il fatto di Prima Linea a Torino: non è che hanno sparato al dirigente industriale, ma a quello che vorrebbe fare il dirigente industriale, per incutere terrore. Quando la gente – e questa tendenza c’è – dice: ci vorrebbe la pena di morte perché così ci penseranno cento volte prima di fare i terroristi, al di là di chi poi lo vincerà questo scontro, nel momento in cui uno dei due ha vinto abbiamo perso tutti quanti, è passata l’idea della forza come unico mezzo per cambiare. Io non ci credo più: penso che se costringo uno con le armi a cambiare idea, questo starà zitto fino al momento in cui me la farà pagare. Se non l’ho convinto dovrò stare una vita intera a difendermi, a organizzarmi militarmente2.

Non si trattava del primo tentativo di rispondere al terrorismo con una manifestazione pacifica, ma a condurre tali iniziative sino ad allora era-no stati soprattutto il pci e i sindacati. La stessa “Lotta Continua” era stata fortemente critica nei confronti delle br. Questa fu la prima ma-nifestazione di movimento, non soltanto contro le br e Prima Linea (pl), ma anche, più in generale, contro la violenza nella società italiana. Tuttavia, era il modello organizzativo proposto da Pinto ad essere radi-calmente diverso rispetto alle manifestazioni precedenti:

Quello che non deve essere, però, lo so: non deve essere una cosa preparata da un “inter-gruppo aperto agli sbandati”, questa è una manifestazione della gente contro la violenza, anche se ci saranno critiche, che sarà strumentaliz-zata: diranno “finalmente abbiamo isolato le br”, altri diranno che abbiamo lasciato fuori il nemico principale che è la dc. Oppure ci sarà qualcuno che chiederà un programma: il programma è solo questo, niente altro, è già un fatto grosso. E l’indomani, ognuno per sé, con più fiducia in sé3.

2. M. Pinto, A piazza Navona di marzo, contro il terrorismo. E poi? Poi cosa? Poi viene aprile, speriamo bene, ivi, 49, pp. 4-5.

3. Ibid. Si noti che tutte le citazioni da “Lotta Continua” in questo saggio sono dello stesso anno (ix, 1980).

il rifiuto della violenza e la fine del movimento?

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Tale formulazione potrebbe essere vista come un passaggio a quelli che Donatella della Porta definì «movimenti collettivi di tipo nuovo»:

Le caratteristiche di queste nuove forme di azione collettiva sono spesso state descritte: modello organizzativo decentrato, forme di azione prevalentemen-te simbolica, aggregazioni “a termine” su singole issues, alternanza fra fasi di “immersione” e fasi di impegno politico, ideologie pragmatiche4.

Bisogna notare che, sin dagli inizi, i movimenti degli anni della con-testazione in Italia, presentavano molte caratteristiche descritte nella definizione di della Porta. “Lotta Continua” fu uno dei gruppi extra-parlamentari più decentrati; nella primavera del 1980, il gruppo con-sisteva soprattutto nella redazione del quotidiano5. La grande diffe-renza, rispetto alle stagioni precedenti, fu l’aggregazione ad hoc su un tema specifico, ovvero il terrorismo di sinistra. In maniera non sempre esplicitata, si trattava di un passaggio da un movimento rivoluzionario guidato da una seppur dibattuta teoria politica ad una “ideologia prag-matica”. C’è da chiedersi dunque, quali furono le reazioni dei militanti e simpatizzanti del movimento rispetto ad una tale innovazione?

Pur nella consapevolezza che si tratti di una questione complessa e che, da un’analisi più ampia, potrebbero emergere differenze sensibili – tali lettere potrebbero essere considerate come un campione, seppur non rappresentativo, di opinioni di sostenitori dell’area di movimento a si-nistra del pci. “Lotta Continua” è un giornale diffuso e rappresenta il punto di riferimento per una vasta area del movimento. Non ho avuto modo di consultare gli originali di lettere pervenute alla redazione, qua-lora fossero ancora conservate, ed è dunque necessario ipotizzare che vi sia stata una prima selezione del materiale da parte dei redattori di lc. Le posizioni espresse, come vedremo più avanti, sono molto diversifica-

4. D. della Porta, Il terrorismo di sinistra, il Mulino, Bologna 1990, p. 279.5. G. De Luna, Le ragioni di un decennio, Feltrinelli, Milano 2009. Le forme di

azione propriamente simbolica (scioperi della fame, l’incatenarsi ad un cancello, bru-ciare simboli o immagini, o altre azioni simili), nel periodo precedente al 1975 rap-presentavano soltanto il 3% delle azioni totali di protesta, ma non caratterizzarono in particolar modo nemmeno la manifestazione di piazza Navona. Cfr. S. Tarrow, Democracy and Disorder, Oxford University Press, New York 1989 (trad. it. Democra-zia e disordine. Movimenti di protesta e politica in Italia. 1965-1975, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 53, 58); D. della Porta, ivi, pp. 51-62.

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te e, talvolta, in aperta polemica tra loro e con la proposta di Pinto. Tali divergenze di stile, di opinioni e di punti di vista ci inducono a pensare che il criterio per la pubblicazione fosse proprio quello di esprimere la più vasta gamma possibile di voci. È chiaro che 89 lettere non posso-no in alcun modo costituire un campione rilevante sul quale misurare il peso numerico effettivo delle singole opinioni (per esempio, pro o con-tro la violenza politica); credo, tuttavia, possano contribuire a darci una mappatura delle opzioni e atteggiamenti possibili, per i simpatizzanti del movimento, rispetto al problema del terrorismo di sinistra e della continuità del movimento di protesta nei primi mesi del 1980. Ma se è necessario tenere in conto un’eventuale selezione delle lettere da parte della redazione, le stesse osservazioni valgono anche per il loro ordine di pubblicazione, e dunque per il quadro cronologico esaminato. Tra l’as-sassinio di Bachelet e l’effettivo svolgimento della manifestazione, il 21 febbraio 1980, viene arrestato Patrizio Peci, il quale diventerà il primo pentito delle br (a partire dal 1° aprile 1980). Le sue informazioni avran-no una prima tragica conseguenza il 28 marzo, due giorni prima del-la manifestazione di piazza Navona, con lo scontro a fuoco fra le forze dell’ordine e le br a Genova, nel covo di via Fracchia 12, dove muoiono quattro brigatisti. Anche se il giornale “Lotta Continua” dà molto spazio a questi eventi, nelle lettere dei lettori essi rappresentano dei riferimenti marginali e, più in generale, non sempre è possibile evincere dal conte-nuto quando le stesse lettere furono scritte. Il loro esame sarà dunque, in larghissima parte, sincronico, cercando di individuare i temi ricorrenti e le questioni principali dell’insieme delle lettere pubblicate, senza tene-re particolare conto dell’evoluzione degli eventi nel marzo-aprile 1980. Tuttavia, risulta importante aggiungere alcune parole sul contesto.

Dal punto di vista del movimento, il 1980 rappresentava la vigilia di ciò che Giovanni De Luna definì «la glaciazione degli anni ’80», all’interno di una più vasta e lunga tendenza al “riflusso” partita già dalla metà degli anni Settanta e capace di coinvolgere, anzitutto, la ge-nerazione del Sessantotto e quelle immediatamente successive. Come scrive Guido Crainz, si trattò di «un “ritorno al privato” cui si con-trappone la radicalizzazione estrema di gruppi di militanti provenienti soprattutto dalla generazione successiva»6.

6. De Luna, Le ragioni di un decennio, cit., pp. 128 ss.; G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma 2003, p. 558.

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Nel 1978 due grandi inchieste giornalistiche, sugli operai di Mi-rafiori e sugli studenti italiani, condotte da Marco Revelli e Brunello Mantelli, la prima, e da Luca Ricolfi e Loredana Sciolla, la seconda, mostrarono il crescente disimpegno politico e sociale dei due tradi-zionali protagonisti del movimento di protesta italiano nell’anno del rapimento e uccisione di Aldo Moro. Tale tendenza al ritiro al privato e al disimpegno politico e sociale è stata osservata, nello stesso anno, anche presso gli studenti delle scuole superiori milanesi da Walter To-bagi7. La mancanza di capacità di mobilitare le nuove generazioni sarà, come vedremo più avanti, uno dei fallimenti anche della manifestazio-ne di piazza Navona.

Intanto, la smobilitazione del movimento procedeva di pari passo non soltanto con la radicalizzazione dei piccoli gruppi ma anche con l’aumento del numero e della ferocia delle azioni. Nella seconda metà degli anni Settanta si registrò, infatti, il più grande aumento di attenta-ti terroristici sia contro le persone sia contro le cose. Nel 1976 vi furono 16 attacchi contro le persone e 87 contro le cose e tale numero, già alto, salì esponenzialmente per raggiungere il massimo di 165 episodi contro le cose nel 1977 e 57 attentati nel 1978 e 1979, scendendo nel 1980, ma mantenendosi, comunque, al di sopra dei livelli del 1976, con 35 attentati e 95 attacchi8. Gli stessi attacchi diventavano sempre più cruenti provocando lo sdegno non solo del pubblico generale, dopo il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, ma anche l’aperta ostilità di una grande parte della classe operaia dopo l’uccisione dell’operaio, sinda-calista e militante pci, Guido Rossa9. L’11 dicembre 1979, a Torino, un commando di Prima Linea occupa i locali di una scuola di formazione della fiat. Studenti, insegnanti e personale amministrativo dell’istitu-to vengono riuniti nell’auditorium, dove i terroristi tengono un breve comizio propagandistico al termine del quale 5 professori e 5 studenti vengono condotti in un’aula attigua, fatti sedere per terra, accostati a un muro, legati e imbavagliati e feriti alle gambe con un colpo di pisto-la ciascuno. Si moltiplicano anche le vittime uccise per “errore”. Sem-pre a Torino, il 9 marzo, durante una sparatoria fra un commando di pl

7. De Luna, Le ragioni di un decennio, cit., pp. 130-1; Fondazione Corriere della Sera, Walter Tobagi ieri e oggi, Fondazione Corriere della Sera, Milano 2010, pp. 57-61.

8. della Porta, Il terrorismo di sinistra, cit., pp. 58-9.9. S. Zavoli, La notte della repubblica, rai-eri, Roma 1992, pp. 390-1.

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e le forze dell’ordine viene ucciso lo studente diciannovenne Emanuele Iurilli, che stava rientrando a casa da scuola. Il 9 febbraio 1980, a Roma, un commando di pl uccide William Waccher, militante dello stesso gruppo, sospettato di delazione10. La stessa linea di ferocia avrebbe por-tato alla dissociazione anche uno dei capi storici delle br, Renato Cur-cio, nel 1982, quando i membri delle br uccisero due guardie di una banca, durante una rapina, semplicemente per “lanciare un volantino” contro Natalia Ligas, membro dello stesso gruppo, finita in prigione pochi giorni prima e sospettata di «aver tradito i compagni»11.

Sul fronte della lotta al terrorismo, il 15 dicembre 1979 viene appro-vato il decreto legge che inasprisce le misure antiterrorismo (e che verrà convertito nella legge n. 15, la cosiddetta “legge Cossiga”, il 6 febbraio 1980). Vengono estesi il fermo di polizia (a 48 ore) e i termini della carcerazione preventiva per i reati di terrorismo (di un terzo, per ogni grado di giudizio), autorizzate le perquisizioni per causa d’urgenza anche senza mandato; viene introdotto un elemento di retroattività della legge, ordinando di applicare i nuovi termini della carcerazione preventiva anche ai procedimenti già in corso. Il 7 aprile e il 21 dicem-bre 1979 vengono eseguiti degli arresti di massa nell’ambito dell’Au-tonomia organizzata con i relativi processi negli anni successivi, che ipotizzeranno un collegamento diretto fra i vertici dell’Autonomia e il terrorismo di sinistra, specie le br. In questo momento la repressione si abbatte tanto sul terrorismo quanto sul movimento stesso aggravando la crisi in cui il movimento di protesta si stava già trovando. Il mo-dello proposto da “Lotta Continua” nel 1980, di un’organizzazione ad hoc di individui, e non gruppi, su un tema specifico che, una volta rag-giunto, implicava lo scioglimento dell’organizzazione stessa. Più che di una richiesta da rivolgere alle autorità, la manifestazione sarebbe stata un’affermazione del coraggio individuale e collettivo. In questo nuovo modello organizzativo era implicita la possibilità di rifondare il movi-mento su basi nuove, possibilità colta da diversi lettori:

A piazza Navona, una manifestazione insolita. Promossa da un singolo com-pagno e appoggiata da un giornale. Una manifestazione contro il terrorismo, o

10. D. Novelli, N. Tranfaglia, Vite sospese, Baldini Castoldi Dalai, Milano 1988 (2007), pp. 87-90.

11. R. Curcio, A viso aperto, Mondadori, Milano 1993, pp. 192-5.

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meglio di tutti quelli che sono stanchi, che non ne possono più di questo ter-rorismo. Per trovarsi in tanti, possibilmente, e discutere e... dopo marzo, aprile.

Nessun rimpianto per le manifestazioni tutte schierate, per piattaforme. L’alternativa è la manifestazione di Mimmo? La prossima sarà quella di Mar-co o di Lucio?12

Sono questi dunque gli elementi principali che vengono ripresi nelle lettere alla redazione:1. La violenza politica, le sue definizioni, l’opportunità o meno del suo utilizzo e quale uso della violenza politica diventa terrorismo.2. L’opportunità di convocare una manifestazione contro il terrorismo.3. Il modello organizzativo proposto da Pinto e, subordinato a quest’ultimo, il tema della possibilità o meno di ricostruire il movi-mento, e se sì, su quali basi.

È importante notare che per gli intervenuti al dibattito tutti questi temi erano, in linea di principio, tra loro indipendenti, nel senso che si poteva essere contrari alla violenza politica e contrari al modello orga-nizzativo, ma favorevoli ad una posizione contro il terrorismo. In linea di massima, si poteva essere anche favorevoli al modello organizzativo e alla manifestazione contro il terrorismo, rimanendolo anche all’uso della violenza politica. In effetti, c’è un caso del genere in cui si evoca una risposta militare al terrorismo e allo stato:

La mia proposta – scrive Ciro –, come già avrai intuito dal mio stringatissimo discorso, è quella di partecipare sempre più attivamente alle lotte ovunque si sviluppano, portando al loro interno i contenuti di questi anni di riflessione, e, anche se può sembrare una contraddizione con essi, costruire l’organizza-zione militare che sia in grado di misurarsi sul terreno di forza con i “signori della guerra”13.

In questo contributo non verranno prese in considerazione lettere di carattere puramente organizzativo: tali sono le lettere riguardan-ti i gruppi o musicisti da chiamare, o le lettere di carattere specifico, come la pagina della redazione femminista lc dedicata alla discussione sull’opportunità o meno di partecipare ad una manifestazione mista.

12. Esponenti dp, in “Lotta Continua”, ix, 1980, 66, p. 14.13. Ciro, Partecipare alle lotte ovunque, ivi, 54, p. 5.

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1 La violenza politica e il terrorismo

Fra le 89 lettere indirizzate al giornale non ve n’è una che difenda espli-citamente le br o pl. A queste organizzazioni, anzitutto, viene impu-tato un approccio dogmatico verso la realtà:

Si, c’è un punto di incredibile divario tra ciò che penso io e il loro [dei terro-risti] modo di fare, ed è che loro se ne fregano, più o meno come fanno tutti, di quello che pensa la gente. La loro linea è – la linea – la loro prassi è – il verbo – e intanto alzano il livello dello scontro sparando nel mucchio per generare uno scontro di tipo argentino14.

Altrimenti, la violenza delle br è “cieca” o “nichilista” ma senza parti-colari spiegazioni. Tuttavia, sul tema della violenza politica esistono moltissime sfumature e valutazioni diverse anche per quanto riguarda la sua applicabilità nell’Italia di quegli anni. La distinzione principale riguarda ovviamente la violenza di massa e l’opportunità di usarla nel determinato periodo storico.

Noi crediamo nella violenza “giusta”. In questo momento di repressione bru-tale dello stato nei confronti dei suoi oppositori, della tendenza dello stato di eliminare, con qualsiasi mezzo, chi si oppone a questa società e a questo regime, noi siamo per la rivolta. Perché non vogliamo essere compartecipi col potere della morte delle nostre idee, perché non siamo disposti a perdere le possibilità che ancora abbiamo a portata di mano15.

Ma mentre i due interlocutori giudicano favorevole il momento per la rivolta, pur condannando il terrorismo attuale, la maggioranza degli interventi condannano il terrorismo in quanto nocivo agli attuali inte-ressi del movimento e di classe:

Il discorso ridotto ai minimi termini è semplice. In assenza della lotta di classe e delle sue espressioni organizzative, il terrorismo è stato il mezzo innescante per far capire agli sfruttati che era possibile lottare. In presenza della lotta di classe, in nostro caso la più diffusa e articolata, in presenza di un dinamico e

14. Stefano, Trovarci sì, ma perché sul terrorismo?, ivi, 66, p. 14.15. Leo e Enrico C., Chi ha sotterrato l’ascia di guerra e chi no, ivi, 58, p. 4.

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dialettico intreccio dei tanti suoi riferimenti organizzativi, il terrorismo non accelera i processi di classe, bensì li disgrega, rompe l’unità di classe, contribu-isce alla sconfitta del movimento operaio e rivoluzionario16.

O ancora:

Da questo punto di vista credo che sia un appuntamento che può riunire un’intera generazione e quelle che sono seguite, le generazioni che oggi sono sotto il fuoco incrociato di una Restaurazione spietata e ottusa, giustificata e provocata da una “armata combattente” che sottende un furore restauratore analogo a quello che percorre le istituzioni. Insieme terroristi, generali, in-tellettuali e politici in crisi d’astinenza da mancanza d’esercizio d’autorità e nostalgici del stalinismo colpiscono, invariabilmente, quelli che manifestano la voglia di trasformare e cambiare questo paese17.

Tuttavia, esistono già, anche se in un solo caso, posizioni di non vio-lenza radicale:

a chi affermava che “ammazzare un fascista non è un reato” rispondevo che era una affermazione tanto criminale quanto imbecille; con la stessa radicale consapevolezza che la nonviolenza dei disubbidienti civili, degli obiettori di coscienza, dei non collaborazionisti è necessaria, è riformatrice, è rivoluzio-naria, e che la violenza è omogenea al potere delle classi dominanti, è il terre-no sul quale si rafforza la violenza di classe e di regime18.

2 La manifestazione contro il terrorismo

Caro Mimmo Pinto, ti sei proprio rincoglionito!Mi vuoi far venire dalla Calabria, per manifestare contro la violenza, il

terrorismo e chissà cos’altro, insieme a Pertini, a Pannella, ai cattolici, ai dc pacifisti, ai pci “contro la guerra”, ai psi garantisti, ai poliziotti sindacalisti, ai sindacalisti poliziotti, eccetera...

No, non ci vengo, e dirò in giro di non venire, almeno non dalla Calabria. Ci sono problemi che sono prioritari, altri che sono secondari, altri che non

16. V. Miliucci (da Rebibbia), Può diventare un punto di partenza, ivi, 65, p. 14.17. C. Rivolta, Una iniziativa che ha molte facce, ivi, p. 15.18. G. Spadaccia, Non delazione ma diserzione, ivi, 68, p. 12.

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ci appartengono proprio, una manifestazione in questo senso non mi/ci ap-parterrebbe proprio.

[...]Qui c’è la MAFIA, tutto maiuscolo. Non un fenomeno a sé stante, un

demone astratto, un’entità che non si sa da dove viene. Mafia è potere, ma-fia è dc, è chi sostiene la dc, tutti i partiti, mafia è il collocatore, il prete, il preside della scuola. Mafia è il non parlare, farsi i cazzi propri, è lo Stato. I finanziamenti alle ditte mafiose, i prestiti delle banche. E quanti sono morti assassinati dalla mafia. Li vogliamo paragonare a quelli del terrorismo?

La mafia uccide centinaia di persone all’anno, cittadini semplici che non vogliono subire angherie di nessun tipo, che non vogliono pagare tangenti, che vogliono vivere senza protezioni. Non ci sono proporzioni fra mafia e ter-rorismo. Sono migliaia i cittadini del Sud che vivono assoggettati alla mafia.

Qualsiasi cosa serve deve passare per loro. E i partiti democratici cosa fanno?Niente, dalla mattina alla sera parlano del terrorismo19.

Ho citato la lettera di Francesco Diamante quasi nella sua interezza perché esprime in modo colorito un tipo di argomentazione, varia-mente declinata, molto presente nelle lettere contrarie alla manifesta-zione di piazza Navona, e cioè, che vi sono altre priorità. La mafia, la dc, il lavoro e gli infortuni sul lavoro e l’apparato repressivo dello Stato rappresentano altrettante ragioni per le quali una manifestazione con-tro il terrorismo non si dovrebbe svolgere, e altrettante problematiche di cui occuparsi prima. Soltanto una lettera esprime una tradizionale solidarietà anche verso i “compagni che sbagliano”: «Io a Roma non ci vengo! Gli errori commessi dai compagni sono errori da capire e da far capire, non da combattere. Questo è il comunismo!»20.

Un’altra obiezione, quella dell’inutilità di una manifestazione contro il terrorismo, rimane però puramente teorica, esposta dallo stesso Pin-to, e ripresa esclusivamente dai sostenitori della manifestazione per poterla poi confutare:

occorre prendere atto che oggi non possiamo far niente per farla finita con assassinii e scarnificazioni, che siamo nelle condizioni di dover considerare il fenomeno alla stregua delle catastrofi naturali.

19. F. Diamante, Questo è terrorismo o no?, ivi, 62, p. 14. 20. Carmine di Firenze, ivi, 65, p. 14.

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[...]Allora, tutti a casa? No, credo solo che occorra darsi obiettivi, magari più

marginali, ma praticabili [...] che meno gente entri nel partito armato e che tutti quelli che vogliono possono uscirne21.

Nel 1980, nelle lettere pubblicate, un’iniziativa di questo tipo, contro il terrorismo, viene innanzitutto percepita come utile per liberarsi dalla paura generata dal terrorismo e dalla repressione. In questo senso uno degli interventi più significativi venne fatto dall’allora segretario della fgci romana, Carlo Leoni:

Terrorismo ha bisogno oggi proprio di quella paura, della passività, della ras-segnazione, per affermare il suo disegno lucido e reazionario teso a colpire la libertà di tutti ed arrestare quel processo storico che vede le grandi masse pro-tagoniste della lotta per la trasformazione. Vuole così imbarbarire la politica e ridurla ad uno scontro fra bande armate, agendo con agghiacciante ferocia e puntualità proprio nei momenti cruciali della vita italiana, quando si ripropo-ne con forza l’esigenza dell’accesso delle classi lavoratrici alla guida della socie-tà e dello Stato, con l’intenzione dichiarata di impedire che questo avvenga.

Questo è oggi il reale livello dello scontro.[...]È necessario invece, a me pare, che tutti coloro che sono contro la violenza

e che vogliono una società diversa, si facciano vedere, ascoltare, esprimano a gran voce le proprie idee sempre e ovunque, che siano un punto di riferimen-to per chi ne cerca, e sono tanti, in modo affannoso e spesso confuso22.

Tuttavia, oltre al significato soggettivo dell’autoaffermazione, della fiducia in sé, e del coraggio di esprimersi, l’utilità principale di tale manifestazione viene vista nella ricostruzione della legittimità del mo-vimento. L’autore, che si firma Ro. Gi., e che scrive diversi articoli per “Lotta Continua”, incluso un contributo sulla morte di Bachelet, de-scrive in termini molto chiari questo concetto:

Mao diceva che ci sono tanti nemici, ma che c’è n’è sempre uno da combatte-re immediatamente [...].

Qualsiasi concetto di riorganizzazione o altro, qualsiasi possibilità, anche minima, di tornare in mezzo alla gente, oggi passa necessariamente attraverso

21. G. Lattanzi, Manifestare richiede due cose: un obiettivo e un pubblico, ivi, 54, p. 4.

22. C. Leoni, Senza cercare nemici più facili, ivi, 63, p. 14.

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la lotta al terrorismo, che può essere sconfitto solo dalla sinistra rivoluziona-ria, perché quest’area è al tempo stesso contigua e contraria... E allora la frase, il concetto, può essere questo: per noi, per la gente, combattiamo Questo terrorismo per combattere Questo stato. Necessariamente per arrivare alla seconda parte della frase si deve passare per la prima, deve esser cioè sconfitto assolutamente prima il terrorismo23.

Nel numero 62, un lettore cerca di dimostrare che sarà una manife-stazione utile per affermare che «l’omicidio non è una forma di lotta rivoluzionaria», e per ritrovare militanti per le lotte future: «per ricre-arci un pubblico occorre ricreare un rapporto di fiducia con la gente ed una grande manifestazione pacifica contro il terrorismo è sicuramente un passo in avanti in questa direzione»24.

3 Piazza Navona: il modello organizzativo

e la rifondazione del movimento

All’interno di un contesto, che da molti autori viene riconosciuto come quello della disfatta del movimento, una proposta che forniva nuova le-gittimità e popolarità generale sulla base di un nuovo modello organizza-tivo viene vista da tanti sostenitori come un punto di ripartenza per orga-nizzare le lotte future. Rispondendo negativamente alla richiesta uil di portare le proprie bandiere alla manifestazione, Alex Langer scrive:

Se “fare politica” può essere ancora/di nuovo tentato, una delle condizioni ne è “un processo di scioglimento”: scioglimento della nostra rigidità individuale, ma anche scioglimento di tanti sedimenti organizzativi, ideologici e pratici dei tempi passati. Riconoscersi sciolti per potersi, forse, aggregare: magari di volta in volta, non sempre gli stessi, a seconda degli obiettivi e delle occasioni25.

Il tema della sconfitta e della riorganizzazione ritorna in diverse altre lettere:

23. Ro. Gi., Una discussione a Roma, ivi, 69, p. 14.24. Paolo M. di Perugia, Mi piace!, ivi, 62, p. 14.25. A. Langer, A piazza Navona perché stufi del ruba bandiera, ivi, 51, p. 20.

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Dico che in questo momento di sconfitta – con caratteristiche completamente diverse del ’50, occorre, ed è una operazione legittima per continuare a fare po-litica – abbassare le discriminanti politiche, di tessere, di ricucire pezzi di discus-sione, evitando le pregiudiziali politiche, i pregiudizi stupidi del tipo: “Mah, da chi è organizzata, chi sa chi ci sarà... ma ci saranno o no gli autonomi...”26.

O, in maniera ancora più nitida:

Ma se sapremo scendere in piazza sul contenuto politico di questa invettiva verbale, non sarà solo per gridare di averne le palle piene o la nostra debolez-za, o ancora, per aggiungere fumo ad un discorso che avrebbe bisogno [...] di essere netto per procedere!

Ma possibilmente per contribuire al ritorno in scena di un protagonista cac-ciato a dispetto dei tanti meriti acquisiti sul campo: il Movimento di Massa27.

Tuttavia, è proprio questa pretesa implicita o esplicitata nel modello organizzativo della manifestazione, di avere una capacità, per quanto flebile o remota, di riorganizzazione del movimento, ad incontrare le critiche più aspre da parte dei lettori. La proposta di Pinto viene spesso definita “qualunquista” e la manifestazione “un’ammucchiata folclori-stica”, sorta sull’onda dell’emotività e dell’individualismo:

Ci sembra che vada avanti la logica della disgregazione dell’individualismo impotente e frustrato che già tanto ci appartiene, proprio in un momento in cui c’è la necessità di ritrovare tutta la nostra forza collettiva. Una testimo-nianza quasi cattolica di disagio, un’immagine ingiallita, un contarsi sfilac-ciato senza fantasia, senza prospettive28.

È su questo fronte che arrivano le critiche degli esponenti più importanti del movimento come Giorgio Ferreri, militante del Comitato politico enel, proprietario di Radio Onda Rossa, e latitante dal 22 gennaio 1980:

E allora credo che non ci sia ragione in quello che Pinto vuole fare a piazza Na-vona, c’è solo emotività, ma questa non serve a fermare l’azione dei clandestini,

26. N. Scianna, In tante piazza Navona non solo quella, ivi, 52, p. 20.27. A. Sette, M. Melotti, Piazza Navona è grande: riempiamola con qualcosa di

più, ivi, 53, p. 20.28. Ruggero [...] e altri compagni del centro storico di Roma, Quali sono le scelte

suicide?, ivi, 68, p. 12.

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né a convincere lo stato e i partiti che le leggi speciali non sono contro il terro-rismo, ma contro quell’opposizione di classe che già esiste o potrà svilupparsi29.

Sulla stessa lunghezza d’onda si trovano anche le osservazioni di Beppe Ramina, dell’Associazione Francesco Lorusso:

La proposta di Mimmo è interessante, piena di buone intenzioni, ma rischia di fare cattiva politica [...]. Quella di Mimmo mi pare un’adunata di bravi ragazzi, di chi non vuole allontanarsi dalla mamma, di chi non cerca un mo-mento di confronto per riprendere delle ipotesi di lotta comunicabili ma solo un certificato di buona condotta del pacifismo [del quale] non so che farme-ne; non sono mai stato un mite ma uno scontroso; non ho mai pensato che lo stato rivendicasse la sua violenza, perché la sua violenza io l’ho scoperta assieme a tanti altri scontrandomici30.

Lo stesso Miliucci che, abbiamo visto, approvava la manifestazione in linea di principio, la trova poco utile se non inserita in un contesto più ampio:

Dopo aver tanto scritto, a qualcuno verrà da ridere “ma come vuoi aggredire il terrorismo con una manifestazione!?”. No, non voglio dire questo [...ma] le armi per combattere il terrorismo sono la linea di massa nella lotta di classe, i sedimenti organizzativi stabili del movimento: i consigli-soviet.

Smascherare le gesta dei signorini della guerra è necessario (è il problema di contrastare la “cultura” di guerra con la cultura rivoluzionaria) ma alla fine non basta, se non riusciamo nel compito principale di saper legare tutte le articolazioni, i segmenti, i mille intrecci delle lotte, coinvolgendole in una grande inarrestabile azione riformatrice dello stato che metta fine per la pri-ma volta all’egemonia dc31.

4 Conclusioni

Nella già citata lettera, l’allora esponente fgci Carlo Leoni si chiede, nell’osservazione conclusiva:

29. G. Ferreri, Marzo 1960. Marzo 1980, ivi, 69, pp. 14-5.30. B. Ramina, 11 marzo. Francesco. Riflessioni, ivi, 64, p. 10.31. V. Miliucci, Può diventare un punto di partenza, ivi, 65, p. 14.

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Qualcuno proponeva uno slogan:”Terroristi e generali: no grazie”. Altri vo-gliono che a piazza Navona si torni a dire “né con lo Stato, né con le br”.

Non ho una personale simpatia verso i generali ma mi chiedo ancora (e finisco): perché non si riesce a dire con nettezza no ai terroristi senza ricercare contemporaneamente altri nemici più facili da individuare, senza altre giusti-ficazioni, senza subordinate?32

Da ciò che è emerso dall’esame delle lettere a “Lotta Continua”, si po-trebbe provvisoriamente concludere che, ancora nel 1980, nell’ottica di tanti militanti, la violenza politica era, almeno nella riflessione te-orica, un elemento irrinunciabile. Per poter condannare il terrorismo di sinistra era necessario trovare le ragioni per condannare “questa” violenza e “questo” terrorismo i quali erano riconosciuti come nocivi per gli interessi di classe e del movimento. Allo stesso tempo v’era una chiara percezione della sconfitta del movimento stesso che si scontrava con il desiderio di autoconservazione del movimento da parte dei suoi militanti, o perlomeno da parte dei suoi capi. La scelta che venne a profilarsi per la prima volta nel dibattito sulla manifestazione a piazza Navona era per certi versi drastica. Si trattava di decidere fra il conti-nuare il lavoro e i modelli organizzativi usati sino ad allora, promet-tendo di aumentare l’impegno, e, d’altra parte, cercare di ricostruire il movimento su basi nuove. Optare per questa seconda scelta implicava però la rinuncia alla separazione dei gruppi rivoluzionari rispetto al resto della società e l’assunzione del rischio di porre fine al carattere rivoluzionario del movimento stesso. La dissoluzione, o, in ogni caso, la perdita di rilevanza di gruppi politici costituiti di fronte ad un’ag-gregazione ad hoc, su base individuale e su temi specifici non si rivelò una scelta vincente nel mobilitare nuove risorse. Il 1° aprile 1980, il re-soconto della manifestazione portava il seguente titolo:

Piazza Navona: tanti sessantottini, settantatreini, settantasettini. Ottantini? Pochi. Visitatori? Abbastanza. Turisti? Come tutte le domeniche33.

Vi si lamentava, nonostante la relativa riuscita della manifestazione del punto di vista numerico, la presenza di nuove generazioni. Una delle ultime lettere, del 16 aprile, un’osservazione sulla manifestazione già

32. Ivi, 63, p. 14.33. Ivi, 73, p. 11.

bojan mitrović

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avvenuta, di un’operaia, Rosa, descrive, casualmente proprio nel gior-no della morte di Sartre, il senso di disincanto alla fine del movimento:

Se davvero la vita fosse certi sabati da non sopportare più neanche l’acqua sulle scarpe... le rare serate di “grazia” a Osimo... le notti passate a piangere nel letto... la paura di cercare gli altri... e gli altri che non ti cercano... il lavoro, il tempo nemmeno per bestemmiare... i poliziotti morti... i terroristi morti... e tutti quelli che sono vivi [?]

[...]Mi ha fatto male essere in tanti a piazza Navona.[...] la mia illusione più bella è stata quella di credere che si potesse cre-

scere e cambiare insieme. E invece so che sarò da sola a fare le cose di tutti i giorni, che ognuno sarà solo a crescere e a cambiare, se vorrà farlo.

Ciao34.

34. Rosa, Peccato, eravamo in tanti, ivi, 86, p. 7.


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