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Quaderni Mamertini - 45 - Momenti e figure nella storia della vecchia e nuova Oppido - VI -

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Rocco Liberti

Momenti e figure nella storia della vecchia

e nuova Oppido

VI

Quaderni Mamertini

45

Stampa presso la

Litografia Diaco snc

Bovalino (RC)

Tel. 0964-670270

Novembre 2003 (riveduto e corretto

Luglio 2016)

in copertina: selciato della via principale dell’antica Oppido venuto alla luce durante gli scavi dell’anno 2003.

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Disavventure, amministrative e non, dei sindaci di Oppido

e di Castellace nel '700

Il sindaco di Oppido in carica in quel 14 maggio del 1757, d. Lorenzo Grillo, cui il subalterno della regia udienza, mag. Carmine Pepe, intimò di procedere in modo inusitato e precipitoso, assieme agli altri Ufficiali del Re-gimento, a indire parlamento per il rinnovo degli amministratori della cosa pubblica, venne subito a contestare l’ordine presso lo stesso notaio, alla pre-senza del quale gli era stato notificato. Non poteva egli provvedere in 24 ore - la convocazione andava fatta per l'indomani 15 - a quanto richiesto occor-rendo emanare i bandi non solo a Oppido, ma anche nei casali di Tresilico, Varapodi, Messignadi e Zurgonadi, formando tutti un Corpo e usandosi nominare, con il sindaco, anche gli eletti per ogni centro abitato. Con tutto ciò, non poteva egli ugualmente impegnarsi nella richiesta azione, in quan-to i libri dei parlamenti - l'ultimo gli era stato requisito dal subalterno - li aveva in custodia il mag. Saverio Dimana, mastrodatti assunto nel parla-mento tenutosi il giorno 8 precedente. Per mettere in moto la convocazione di una tale assise detto libro era quanto mai indispensabile e d. Saverio, no-nostante le ricerche effettuate, non era stato possibile rintracciarlo in città.

Il Grillo, dopo aver fatto mettere a verbale quanto sopra, venne a pro-

testarsi energicamente «una, due, e tre volte, quante sarà necessario» a fronte

del notaio, del regio giudice ai contratti Giuseppe de Francia e dei testimoni dr. fisico Francesco Antonio Italiano, Pietro Pantatello e Pasquale Gaglianò e ad affermare senza peli sulla lingua che riteneva il Pepe per sospetto e so-spettissimo. Motivo per cui invitava il pubblico funzionario ricevente le sue attestazioni a farlo partecipe dell'atto. Egli, dal canto suo, avrebbe provve-duto a renderne edotto il regio tribunale, nel mentre si riprometteva per tal gesto addirittura di avanzare ricorso al re e al sacro regio consiglio.

Cos'era successo di così eclatante perchè il subalterno si comportasse in siffatta maniera? Da quanto pare di capire, doveva essere intercorsa lite tra il sindaco e i padri del locale convento dei paolotti. Infatti, il Grillo si ram-maricava che un subalterno, che solitamente prendeva dimora presso la ca-sa dell'università, quindi in un luogo pubblico, fosse andato a stare con quelli, che peraltro rappresentavano la parte collitigante. Era davvero ben strano - riferiva - il comportamento del Pepe, il quale, dopo aver dato l'or-dine di convocare il parlamento, si era dato a scassinare la porta dell'orolo-gio pubblico, onde dar di piglio alla campana, in ciò fregandosene del sin-daco e dell'ufficiale locale. Aveva, peraltro, quegli in animo di far nominare i nuovi amministratori dal mag. d. Francesco Sartiani e da Domenico Girar-

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dis, che avevano bell'ed espletato il loro mandato. Ma il tribunale aveva stabilito che questi ultimi avevano facoltà di assistere in parlamento, non già di procedere a nomine di sorta. Queste spettavano unicamente al sinda-

co uscente, ch'era appunto d. Lorenzo Grillo1.

Il 9 gennaio l762 in Castellace si verificò uno strano caso. Ben lo ricor-davano il mag. Domenico Carzo, Francesco Schiava, Antonino Pentimalli e il massaro Giuseppe Fotia, che un mese dopo, il l0 febbraio, ne lo rappresenta-vano al notaio.

Quel giorno si portarono in paese l4 soldati dell'arrendamento del ta-bacco di Monteleone capitanati da Giuseppino Carrà, i quali, armati alla dop-pia, si avvicinarono alla casa del sindaco, mag. Sebastiano Puglisi e l'assalta-rono. Penetrati all'interno, accampando la scusa che vi avevano rinvenuto 3 libbre di tabacco, che in precedenza quegli aveva ritirato in detta città al fine di distribuirlo ai suoi amministrati com'era d'uso praticare, legarono con fu-nicelli in un primo momento, data l'assenza del proprietario, il mag. Pasqua-le, di lui cugino, in faccia al mag. nr. Pietro Corelà e a parecchie donne. Ma, una volta che quegli si trovò a rientrare, liberarono il malcapitato e lo sosti-tuirono con lui e, non sappiamo se prima o dopo, si diedero a fare razzìa di

«vino, grano indiano, e certo cacio, con molto scandolo ed ammirazione di tutti» al fine di consumarli.

La disavventura per il povero Puglisi non finì qui. Nonostante che il Corelà, di unita al parroco d. Pietro Paolo Rossi e al rev. can.co d. Sebastiano Sant'Agati, avesse dichiarato che quanto sequestrato fosse tabacco di corte, non già intercetto e appartenesse al quantitativo concesso all'università per spartirlo ai foresi, il sindaco venne condotto a Monteleone. Qui l'arrendatore dr. d. Francesco Maria di Francia, che fece esaminare il tabacco da due periti alla presenza del sig. d. Trojano Casabano, fu costretto ad ammettere che la ragione stava tutta dalla parte del Puglisi. Malgrado ciò, quest'ultimo fu ob-

bligato a pagare carlini l3 e l/2 di «jus di pedaggi, 20 di jus di pleggeria di stare

carcerato per Civitatem» e ulteriori 24 per transazzione. Ritornatosene al suo

paese in compagnia del massaro Giuseppe Fotia, che avallò la sua versione, riferì addirittura che i soldati, mentre si trovavano alle Pietrenegre, gli fecero la miscita e gli sottrassero un'oncia d'oro a motivo - dicevano - di loro jus di pedaggio. Altra gli era stata già tolta a Castellace2.

1 SEZIONE ARCHIVIO DI STATO PALMI (=SASP), Libro del protocollo di nr. Nicola

Musitano, Santa Giorgìa, a. 1757. 2 Ivi, nr. Carmine Fantone, Seminara, a. l762.

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Iniziative vescovili nel campo dell'assistenza

Il monte frumentario di Oppido * Lo spettro della carestìa fu uno dei tanti malanni con i quali dovette fa-

re i conti dal XVII secolo in avanti la Calabria. Per avere un'idea chiara sull'incidenza del grave fenomeno, di cui, pe-

raltro, sono ricche le numerose croniche tramandateci dagli antichi, basta so-lo scorrere i registri delle parrocchie dei vari paesi, dove a ogni piè sospinto capita di riscontrare che il tale è morto per inedia e il tal altro per fame, quan-do, addirittura, non è dato imbattersi in diciture che evidenziano come iattu-re simili si siano protratte per lunghi periodi. Frasi come tempore famis e tem-pore magnae penuriae sono estremamente significative e fanno quasi toccare con mano in quali tristi edavvilenti condizioni abbiano dovuto trascorrere la loro grama esistenza i nostri maggiori3.

Pure se l'incubo della scarsità di generi alimentari di prima necessità fe-ce la sua comparsa nella regione in altri tempi, fu lungo tutto l'arco del XVIII secolo che venne a dominarvi sovrano, raggiungendo il culmine con quella grande carestìa del 1763-64, che colpì l'intero Meridione d'Italia e il Croce im-

putò al cattivo sistema annonario in vigore nel regno4. Di seguito alcuni frangenti di particolare doloroso ricordo. Nell'estate del 1715 si ricavarono assai scarsi raccolti, per cui nell'inverno successivo si venne a registrare un aumento del prezzo del grano nientemeno che a 2 ducati e 80 grana al tomo-lo. Una magra messe si verificò pure nel 1720. Nel 1739 l'eccessivo caldo fece inacidire tutti i frutti e di grano, specificatamente, se ne ottenne poco e di pessima qualità, tanto che già a luglio si vendeva a un ducato e 20 grana e anche a un duc. e 30. La stessa cosa accadde negli anni appresso fino al 1743,

* Pubblicato in "Incontri Meridionali", a. IV-1984, n. 3, pp. 139-150. 3 R. LIBERTI, Seminara, “Studi Meridionali”, a. III-1970, fasc. I-II, p. 128; ID., Aieta tra

cronaca e storia, ivi, a. IV-1971, fasc. III-IV, estr., pp. 51-52; ID., Paesi di Calabria attra-verso i secoli, Tortora, "Nuova Rassegna", a. VII-1972, nn. 5-7, pp. 38-39; ID., Polistena nei libri parrocchiali, “Studi Meridionali”, a. IX-1976, fasc. I, p. 259; ID., Storia dello Stato di Ajello in Calabria, Oppido Mamertina 1978, pp. 160-161; G. CIMINO, Memo-ria della gran penuria del 1764 nell'Italia Meridionale e in particolare nell'Università di Scigliano (Cosenza), “Archivio storico per la Calabria e la Lucania", a. XXIX-1960, fasc. III-IV, p. 256.

4 B. CROCE, Storia del Regno di Napoli, Bari 1966, p. 184.

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quando il prezzo salì a duc. 1,80 al tomolo e dal 1746 al 1750. E così di questo passo fino al 17685.

Naturalmente, le ricorrenti avversità convinsero presto chi n'era in po-tere che bisognava fare qualcosa onde alleviare le pene dei cittadini. Qualco-sa, infatti, si fece, però, dati i tempi, si trattò essenzialmente d'iniziative loca-li, non potendo i paesi certamente attendere che se ne incaricasse il lontano governo. Ecco, perciò, spuntare tutta una serie di provvedimenti avviati so-prattutto dalle autorità religiose, evidentemente da coloro che, soli all'epoca, avevano la capacità di farlo, e per trovarsi al vertice della scala sociale e per essere in grado di garantire con i loro pingui benefìci il funzionamento di qualsiasi organismo d'ordine assistenziale.

Fu forse un ecclesiastico colui che per primo si fece venire in mente l'i-dea dell'istituzione dei monti frumentari, di quella specie di ammassi, cioè, come diremmo oggi, che fossero nella condizione di assicurare ai cittadini le sementi un anno per l'altro e, quindi, di combattere ogni intrallazzo volto a peggiorare una situazione più che critica. Da quanto se ne conosce, nel 1694 fu l'arcivescovo di Benevento, il cardinale Orsini, a promulgare un primo editto col quale si faceva carico ai parroci della circoscrizione di creare tali monti usufruendo degli avanzi dei luoghi pii laicali. Successivamente, lo stesso, una volta salito agli onori della tiara con il nome di Benedetto XIII, vorrà estendere ai vescovi del reame napoletano e dello Stato della Chiesa quella sua prescrizione6. Ma negli anni appresso fu tutto un fioccare di simi-lari intraprendenze. Nel 1734 il marchese di San Marco, Carlo Onero Cava-niglia, otteneva il regio assenso alla donazione di una casa frumentaria con dote di 360 tomoli di grano e 50 duc. utile ai cittadini di Bovino, nelle Pu-glie7, mentre nel 1743 il vescovo catanzarese Ottavio Del Pozzo si faceva da-re 10 duc. da ogni monastero al fine di fare incetta di grano per la popola-zione8. Monti frumentari legati al clero, alle università e anche a privati cit-tadini ne sorgeranno un po' in tutti i paesi calabresi. Se ne ritrovano evidenti tracce per Oppido, Cirò, Umbriatico, Castrovillari, Aieta, Altomonte, Mor-

5 A. PLACANICA, Catanzaro nell'età moderna: problemi di un'economia di sussistenza,

"La Società Religiosa nell'età moderna", Napoli 1973, pp. 983-985. 6 A. TERMINELLI, Il Monte Frumentario e pecuniario in Cirò, "Studi Meridionali", a.

VIII-1975, fasc. III-IV, p. 472. 7 J. MAZZOLENI, Fonti per la storia del Viceregno (1503-1734) esistenti nell'archivio di

Stato di Napoli, Napoli 1968, p. 34. 8 PLACANICA, Catanzaro ..., p. 983.

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manno, Papasidero, Tortora, Saracena, Laino, Reggio, Rossano, Mesoraca, Cerenzia, Casabona, Pietrapaola, Squillace, San Giorgio di Rossano9.

Sapevamo della fondazione di un monte frumentario a Oppido da parte di mons. Mandarani, che contemporaneamente aveva spinto a istituirne al-tro analogo, ma annonario, a Pedàvoli, quanto ci aveva fatto conoscere lo sto-rico Candido Zerbi, che in modo aulico e nient'affatto dettagliato, trovandosi a trattare di quel presule, così scrisse al proposito nel 1876:

«Gliene fece occasione, nell'anno 1750, la carestìa che, per mancati ricolti agricoli ed ec-cessivo caro di civaie, travagliava, in Oppido e nei prossimi paesi, le classi villiche e lavoriere; alle quali ei, con paterne sollecitudini, rese men molesto il disagio, fondando a sue spese un Monte frumentario nella città capoluogo, e promovendo con efficaci impulsi la istallazione di un altro annonario, nel paese di Pedavoli. Disciplinò, con particolari statuti, queste pie opere,

e posta la prima sotto la direzione amministrativa dell'Ordinario diocesano ... tenne l'una a precipuo scopo l'accredenzamento delle sementi agli agricoltori col semplice obbligo della re-

stituzione»10.

Una scheda notarile colma ogni lacuna e ci rivela in tutta la sua natura come una tale lodevole iniziativa nacque, quale fu la dote che ne costituì la base, dove potè svolgere la sua funzione e quali erano le regole, cui occorre-va uniformarsi. È essa un atto altamente dimostrativo di come, al fine di ri-sollevare le sorti di un paese nel '700, bastasse a volte lo zelo di una persona-lità d'eccezione, anche forestiera, quale poteva riuscire per allora un vescovo residenziale.

Mons. Ferdinando Mandarani, approdato a Oppido dalla sede di

Strongoli nel 174811, dopo appena due anni di permanenza sull'altopiano delle Melle, avendo dovuto constatare come i suoi amministrati abbisognas-sero sì di pane celeste, ma prima ancora di quello terreno, volle mandare a effetto quanto papa Benedetto XIII aveva pur ordinato tra il 1724 ed il 1730.

9 Il monte a Cirò fu opera del vescovo mons. Peronace. Aveva ricetto in un magazzi-

no capace di contenere da 3.000 a 4.000 tomoli di grano e, tra fasi alterne, ebbe vita fino al 1818 (TERMINELLI, Il Monte Frumentario ..., passim). Il monte di Umbriatico, dopo una prima sospensione, riprese a funzionare intorno al 1867, ma nel 1931 venne chiuso definitivamente (O. GIUDICISSI - G. GIURANNA, Sintesi della storia di Umbriatico, Umbriatico-Pallagorio-Roma 1977, p. 21). A Castrovillari il monte venne fondato nel 1749 dall'abate d. Antonio Dolcetti (F. RUSSO, Storia della Diocesi di Cassano al Jonio, II, Napoli 1967, pp. 279-280; ID., Storia della Archidiocesi di Reggio Calabria, II, Napoli 1963, p. 437).

10 C. ZERBI, Della Città, Chiesa e Diocesi di Oppido Mamertina e dei suoi Vescovi, Roma 1876, pp. 373-374.

11 Il Mandarani era oriundo di Santa Caterina di Badolato, oggi Santa Caterina dello Jonio.

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Era il primo ottobre 1750 e ricorreva un ennesimo periodo di carestìa, con Catanzaro particolarmente afflitta durante il primo semestre12, quando il buon presule si fece venire dinanzi un notaio, onde stendere l'atto di costitu-zione di un monte frumentario. Antonio Costarelli, queste le generalità del pubblico ufficiale, recatosi in episcopio, fu ricevuto nella Camera innanzi alla Cappella, o sia Sacello nuovo dal vescovo, seduto, che aveva attorno a sé, egualmente accomodati, le dignità e i canonici del capitolo, il tutto rappre-sentato nelle persone del vicario d. Saverio Grillo, decano d. Alfonso Grillo, abate curato d. Domenico Antonio da Campora, parroco d. Carlo Lucà, abate d. Domenico Augimeri e dei canonici semplici d. Rocco Musitano, d. Dome-nico Laghanà, d. Francesco Girardis, d. Michele Carbone, d. Francesco Mina-si, d. Domenico Germanò e d. Francesco Ioculano, che, come si vede, erano in numero cospicuo, ma non completo, risultando il corpo capitolare nella totalità composto di 20 unità. Vi si trovava altresì presente il regio giudice ai contratti Domenico Gargiuli. Di seguito quanto fu all'origine della decisione vescovile di creare il monte ad Oppido, nonché gli scopi che la stessa si pre-figgeva, nel preambolo del documento secondo la conoscenza avutane dal notaio:

«ha lo stesso Monsignore asserito, che per lo vivo e paterno amore ha portato, e porta a questa dilettissima Città, della quale anche riceve alla giornata buoni, e lodevoli argomenti di vicendente affetto, e per sodisfare ancora quanto si possa al pastorale officio di promovere il maggior bene Spirituale, e temporale, e rimovere il male; nel corso di ogni suo studio, e pen-siero a questo fine diretto, li venne in mente, e determinò ergere in questa Città per commodo d'essa un Sacro Monte frumentario a beneficio, ed aiuto de' Poveri, de' quali la Città abbonda medesima; li è nata questa idea nell'aver certamente saputo per propria esperienza, e relazione di uomini probi, e zelanti le angustie nelle quali si trovano essi Poveri nel tempo di raccogliere l'olive, ed in nudrire il verme della Seta (che sono li due capi d'industrie alle quali più incli-nano), quando per mancanza di vitto, o si vendono a dure conditioni, e dannose molto le loro fatiche, o il frutto da esse operato, o pure si soggettano a perniciosi contratti usurarj; de' quali crede per altro esso Monsignore non esserci l'orrenda infezione in questa Città; Diocesi, ma

forse contratteranno altrove».

Davvero palpabile la situazione di Oppido a metà del XVIII secolo qua-le si evidenzia dalle scarne proposizioni del tabellione! Dalle vecchie carte balza fuori un paese traboccante di gente inope, che si dedicava in massima parte alle poche industrie fruttifere praticate, quelle dell'olivo e della seta e che, pur di sbarcare il lunario, era costretta a vendersi a duri patti e a sotto-stare all'impietosa piaga dell'usura. Singolare a quest'ultimo proposito il convincimento del Mandarani, che, forse eccessivamente fiducioso nella bontà d'animo dei suoi amministrati, stimava la diocesi tutta immune

12 PLACANICA, Catanzaro ..., p. 985.

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dall'iniquo negozio13. Ecco ora in dettaglio le precise disposizioni date dal vescovo per l'avvìo dell'opera:

«... invocato la benedizione del Signore ed implorata la protezione della Beata Vergine dell'Angelo Annunziata, dichiara ergere, e fondare, come in effetti erge, e fonda colla sua au-torità ordinaria un Sacro Monte Frumentario sotto il titolo della Beata Vergine Annunziata rifuggio de' Poveri; e dona; ed assegna per prima dote, e primo fondo, o sia Capital di esso Monte tumola duecento di grano germano esistente nel Maghazeno del nuovo Seminario cu-stodito, e conservato dal Mo. Rev. Can.co Sig. D. Nicola da Campora, qui presente ed accet-tante il quale debba consignarli al Rndo Sac. Mansionario D. Antonio Vistarchi, che in que-sto atto medesimo da esso Monsignore si costituisce Granarista, o sia Procuratore di detto Sacro Monte a fine, ed oggetto, che così la prenotata quantità; come ogn'altra, che proseguirà il medesimo Monsignore a donare per l'avvenire si avesse da imprestare col pegno a soli Cit-

tadini di questa Città abitanti in essa».

Per il buon funzionamento del monte mons. Mandarani, anche se stimò

prudente avanzare «riserva di aggiungere, diminuire, e dichiarare in Bolla, editti,

o decreto suo, o in suoi istruzioni nel principio, e progresso dell'opera», cosa che gli

stessi suoi successori avrebbero potuto fare, venne a dettare ben otto condi-tioni, che cerchiamo ora di riassumere nel migliore dei modi.

In primo luogo, il monte, data logicamente la natura e l'artefice della

fondazione, doveva «essere sempre essenzialmente, ed intieramente luogo pio Ec-clesiastico, o vero opera propria Ecclesiastica, all'Episcopale giurisdizione privata-mente soggetto, e subordinato, anzi in tutto, e per tutto sottoposto alla detta Episco-

pale giurisdizione d'esso Monsignore, e di suoi Successori». Quindi, erano di

stretta competenza vescovile la nomina dei ministri, la visita annuale, che poteva essere effettuata sia prima dell'anno che nel corso dello stesso, le mi-sure e il rendimento dei conti. La seconda condizione fissava quale sede ap-posita per la conservazione del grano, sia di quello già offerto in dote che dell'altro che avrebbe potuto seguire, il maghazeno del nuovo Seminario. A questo istituto, in compenso della cessione del locale, monsignore avrebbe

13 Nei sinodi diocesani celebrati tra '600 e '700 un intero capitolo venne spesso dedi-

cato proprio all'usura, un'attività considerata illecita per un cristiano e degna del castigo divino nonché del biasimo del vescovo (P. DIANO PARISIO, Constitutiones Synodales, Romae MDCLXXI, pp. 106-107; B. FILI, Acta Synodi Diaecesanae, Messa-nae 1701, pp. 131-132). È interessante per l'argomento quanto si ritrova nel sinodo del Perrimezzi del 1726, ma anche in altri, dove è chiaramente detto che il vino, il frumento, l'olio, la seta e altri similari prodotti dovevano essere venduti al prezzo comunemente fissato da chi ne aveva la potestà e che avrebbe commesso usura sia colui che veniva a consegnare frumentum corruptum che chi ne offriva nella giusta misura, al fine di ottenerne poi in restituzione in abbondanza eccessiva (J. M. PERRIMEZZI, Prima Dioecesana Synodus Oppidensis, Neapoli 1728 p. 60; O. PARAVICINO, Synodus dioecesana Miletensis, Messanae 1692, p. 36).

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elargito, per quanto gli fosse stato possibile, denari al fine di completarne le fabbriche. Oltre a ciò, avrebbe erogato anche una certa somma utile a forma-re l'opportune dichiarazioni, e cautele, ma, qualora non si fosse addivenuto a tale operazione, la sua prima distribuzione in soldi sarebbe valsa a costituire la rimunerazione per l'uso del locale fino al momento in cui sarebbe venuta a cessare la funzione stessa del monte. Al terzo posto il Mandarani venne a contemplare quella che era l'essenza stessa del monte e cioè la qualità delle persone che esso era in dovere di aiutare e come un tale aiuto andasse

estrinsecato. Innanzitutto, il prestito del grano doveva essere fatto a «quelle

persone, e famiglie, che veramente povere ne avranno il bisogno» e dette, al fine di

garantire l'istituzione, erano in obbligo di «lasciare il pegno in oro, argento, ra-me, ferro, panni di seta, o di lino; il quale pegno vaglia almeno il terzo più del valore

del grano». In verità, a questo punto insorgono delle perplessità. Sembra

davvero strano che il prestito del grano andasse fatto a delle famiglie vera-mente povere e che poi da queste si pretendesse come contropartita il terzo del valore, da coprire con pegni di un certo tipo sicuramente assenti dalle case dei proletari! Non sarebbe ciò un vero e proprio controsenso? Ma, pro-seguiamo oltre e vediamo quali erano le ulteriori condizioni per ottenere l'imprestanza.

Colui che godeva dell'assegnazione di grano era tenuto a provvedere

entro il 20 del mese di agosto dell'anno successivo alla «restituzione del grano in natura, e nella qualità; che si riceve; e con due soli squelli di più sopra ciaschedun

tomolo, che si sarà ricevuto». I due squelli in più, diceva monsignore, erano appena la sedicesima parte di un tomolo e non venivano richiesti a motivo della concessione in sé e per sé. Servivano per le spese incontrate dal monte nel mantenere il servizio e cioè per la moderata mercede che andava al Palliato-re, o sia ventilocazione del grano, al granarista o procuratore e alla conserva-zione stessa dei pegni. Tale richiesta veniva giustificata anche e, con ragione, dal fatto che il prestito si verificava in un periodo in cui il prezzo del grano era superiore rispetto a quello in cui avveniva la restituzione. Era notorio, infatti, per lunga esperienza, che quello stesso grano che nei mesi da ottobre in poi si aveva al prezzo di 10, 11 o 12 carlini al tomolo e a volte anche di più, poi nei mesi di agosto e settembre si poteva avere normalmente a 7 o 8 circa al tomolo e il tutto risultava un altro bel guadagno per i poveri.

Il quarto punto prevedeva il caso che il grano concesso non venisse reso al monte entro la prefissata data del 20 agosto. Ebbene, in tale congiuntura andava subito messo in vendita il relativo pegno. Con quanto ottenuto da questa operazione si provvedeva poi immantinente ad acquistare altro gra-no equivalente a quello dovuto, di modo che ci si trovasse sempre nella po-

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sizione di continuare nel normale prestito. Solo qualora si fosse ricavato del denaro in eccedenza, quest'ultimo veniva devoluto al proprietario del pe-gno. Al quinto posto il Mandarani volle stabilire i tempi in cui il prestito si poteva concedere. Esso poteva avvenire due volte all'anno, una prima nella ricorrenza della Presentazione della Beata Vergine, quindi al 21 novembre e un'altra alla vigilia della festività della Madonna Annunziata (24 marzo). La scelta era caduta in detti giorni sia per rendere onore alla Vergine e sia per-chè era in tali tempi che il bisogno imperava più urgente. Però, prima della consegna, al granarista competeva l'obbligo di mostrare al vescovo un foglio su cui aveva già provveduto ad annotare il nome delle persone e delle fami-glie povere richiedenti e la quantità di grano desiderata, il tutto al solo scopo di una distribuzione proporzionale fra quanti ne avevano fatto domanda.

La sesta condizione concerneva la possibilità che il vescovo non solo godesse della facoltà di variare le singole parti del regolamento dell'istitu-zione, ma anche quella di cambiarne l'indirizzo ove ci si fosse accorti dell'i-nutilità della stessa come originariamente concepita. Era una disposizione questa che si addiceva però soltanto al Mandarani, non riconoscendosi ugual potestà ai di lui successori. Nel caso si fosse costretti a ricorrere al mu-tamento del fine propostosi all'atto della costituzione del monte, al vescovo doveva venire restituito il grano offerto sia come prima donazione che nei susseguenti periodi. Il di più pervenuto di accrescimento doveva essere distri-buito gratuitamente ed equamente ai poveri che avevano goduto del servi-zio di prestito o ai loro discendenti e, in assenza, ad altri più poveri. Al setti-mo posto era evidenziato il divieto di effettuare distribuzioni di grano con la sola sicurtà di oblighi, o pleggerie in sostituzione del pegno previsto, anche se si fosse trattato di persone siano quanto si voglia benestanti. Con l'ottava e ultima disposizione il vescovo stabiliva che qualora il monte, Dio nol permetta, aves-se cessato di funzionare, il magazzino poteva essere reso al seminario franco di ogni vincolo.

Non sono molte le notizie in successione sul monte frumentario oppi-dese a cagione del furioso incendio che seguì al funesto terremoto del 1783 e incenerì la più gran parte dell'archivio curiale, ma siamo certi che la benefica istituzione voluta da mons. Mandarani abbia arrecato tanto profitto alle-viando le pene degli oppidesi negli anni a venire, particolarmente durante la grande carestìa del 1763-64. Una minima reliquia si ritrova già in una lettera che la congregazione dei riti inviò a quel vescovo appena un anno dopo la fondazione del monte, nel 1751, quale risposta a una sua relazione, certa-mente la relazione triennale ad limina. In essa detta tenne a scrivere come non fosse atto da nascondere la liberalità del presule, tutta protesa a curare

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lo splendore della Casa del Signore e a erogare fondi a vantaggio dei poveri nel monte frumentario14.

Un rapporto diretto tra un cittadino e il monte ce lo rivela una scheda di nr. Lemmo del 13 gennaio 1773, anche se nel caso venne a trattarsi, come pa-re, di tutt'altra cosa che di un prestito. Quel giorno l'eletto di Messignadi, Giulio di Maria, dichiarò di aver ricevuto da quell'istituto e, per esso, dai sindaci 378 tumoli di grano al prezzo di 19 carlini 6 grana e 6 piccoli per un totale di 741 ducati e 51 grana. Come conseguenza, si obbligava a rifondere

la somma per tutto il mese di luglio e, cioè, «con pagare ogni mese quella quan-

tità che si panizzerà in Piazza, e così andar sfando il grano» Nella su esposta somma erano da comprendersi 1 duc. 96 gr. e 6 picc., necessari per il bollo e il trasporto di quel prezioso prodotto dalla marina fino al magazzino. Le fra-si vergate dal Lemmo inducono senzaltro a pensare che il monte al tempo segnalato sia stato indotto a far fronte a una delle ricorrenti calamità penu-riose e che l'eletto era incaricato alle provviste per quanto riguardava il casa-

le che lo aveva espresso15.

Giuseppe Maria Grillo

Mons. Giuseppe Maria Grillo, personalità ecclesiastica di rilievo in Op-pido, dove rivestì vario tempo la carica di vicario generale, fu sicuramente ritenuto in gran conto se l’Accattatis venne a inserirlo tra le sue note “Bio-grafie”16 e se, in morte, si ebbe varie orazioni funebri pronunziate da perso-ne che all’epoca contavano. Peraltro, gli si è debitori della prima trattazione sulla storia del paese e dell’istituzione diocesana, che fu inserita nell’Enciclopedia dell’Ecclesiastico. Mons. Patroni così si esprimeva il 4 no-

vembre 1862 in cattedrale: «Ovunque io volgo lo sguardo tutto mi dice, che la pa-tria in lui à perduto una gloria, e che il Clero con lui un grande ornamento ha per-

duto»17. L’Accattatis, da parte sua, lo ricorda quale «uomo dottissimo nelle scienze teologiche e nel giure canonico, e degli studi archeologici appassionato cul-

tore». Il Grillo nacque in Oppido nel 1801 e, come tanti suoi predecessori in

famiglia, si consacrò al sacerdozio. Essendosi rarefatto il clero per i noti

14 ZERBI, Della Città, Chiesa e Diocesi ..., p. 376. 15 SASP, Libro del prot. di nr. Giulio Lemmo, Messignadi, a. 1773. 16 L. ACCATTATIS, Le Biografie degli uomini illustri delle Calabrie, IV, ristampa 1877,

pp. 481-483. 17 R. PATRONI, Orazioni funebri, Torino 1871.

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frangenti sismici del 1783, dal primo vescovo di Oppido nuova, mons. Tommasini, fu nominato canonico alla verde età di 17 anni. Lo stesso presu-le, quando venne traslato a Reggio, nel 1818, lo condusse seco quale esami-natore prosinodale. Indi, portatosi nel 1820 a Napoli, onde proseguire gli studi, seguì gli insegnamenti del parroco Nappi nelle scienze teologiche, del canonista Rossi in diritto canonico e di mons. Clary arcivescovo di Bari, che alla fine l’ordinò sacerdote. Seguì studi universitari e pervenne a laurearsi a 23 anni in teologìa, lettere e filosofia e in utroque jure. Nella capitale del re-gno era di casa nel palazzo di mons. Capecelatro arcivescovo di Taranto e già ministro, dove ebbe occasione di fare adeguate conoscenze. Si ebbe la nomina a uditore di mons. Giustiniani inviato nunzio a Madrid, ma rinun-ciò senza tentennamenti a una carriera di grande prestigio per correre a Oppido al capezzale del padre morente.

Rimasto nel paese natale, si ebbe anche qui i meritati riconoscimenti, tanto che il vescovo Coppola lo volle suo vicario generale. Nella carica ope-rò lungamente e, venuto a morte il presule nel 1851, servì ancora la diocesi per un anno quale vicario capitolare. Ma era in arrivo il temibile Caputo, di

cui l’Accattatis dice che «veniva su per meriti polizieschi, ed organizzava in Op-pido la più schifosa persecuzione politica che stomacava le istesse autorità civili di

quell’epoca». E avvenne inevitabile l’urto. Il Grillo pensò bene di andarsene a Roma e a Napoli, ma nel 1858, con l’arrivo di un nuovo ordinario, mons. Te-ta, se ne tornò ai patrii lidi, dove riprese a esercitare l’antica carica. Fu tenu-to in grande considerazione da tanti egregi personaggi ecclesiastici del suo tempo, come mons. Marra, Minutoli, Ferrigni, Salzano e i cardinali Riario Sforza e Cosenza. Quest’ultimo ebbe a definirlo nel Sacro Collegio il 2 no-

vembre 1857 «uno dei più distinti ecclesiastici della Calabria». Fu membro delle Accademie degli Affaticati di Tropea, Vibonese di Monteleone, Peloritana di Messina e della Società Economica del III Abruzzo. Relativamente alle sue

opere l’Accattatis afferma ch’egli «Fu dei compilatori dell’Enciclopedia dell’Ecclesiastico, scrisse una Monografia della Chiesa di Oppido ed un trattato di

polizia ecclesiastica, rimasto inedito, oltre ad altri opuscoletti di minor conto». Ol-tre alla monografia detta, piuttosto nota, di recente abbiamo rintracciato nell’archivio vescovile un suo inedito compilato nel 1860 dal titolo Origine della diocesi di Oppido, che abbiamo pubblicato quale inserto della rivista “AVIS Calabria”.

In morte il Grillo si ebbe varie orazioni funebri poi date alle stampe e, cioè, “Orazione funebre” di Francesco S. Sergio (Stabil. Tip. Del Cav. Gaetano Nobile 1863); “Orazione funebre” in “Orazioni funebri del Sac. Raffaele Patroni” 2a ediz.Tip. Scolastica di A. Vecco e C., Torino 1871 (è dedicato all’Ill. scritto-re delle Lezioni dell’Arte del Dire Sac. D. Vito Fornari); “Corona funebre” (Ada-

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mo d’Andrea, Reggio Cal. 1864). Quest’ultima è una raccolta d’iscrizioni e composizioni in italiano e in latino in memoria, dovute, tra i tanti amici, a

Candido Zerbi, Felice Bisazza e Giuseppe Taccone marchese di Sitizano18.

Rapporti di Diego e Raffaele Corso con Oppido Mamertina *

Sicuramente, tra Nicotera e Oppido sono intercorsi nel corso dei secoli

strettissimi rapporti. Senza andare molto lontano e porre mente all’operosità di quel nucleo di frati celestini di stanza a Terranova, che ave-va nella casa della prima cittadina il suo maggiore riferimento, si può benis-simo partire dagli inizi del secolo XIX e cioè all’epoca dell’occupazione francese. Basti dire che allora, in uno dei peggiori momenti vissuti dalla ri-nata comunità dopo il brusco risveglio dal grande flagello del 1783 e dall’imprigionamento del suo vescovo, mons. Alessandro Tommasini, la diocesi venne affidata non a un ordinario viciniore, quale poteva risultare quello di Mileto o di Gerace o di Reggio o di Bova, ma espressamente al presule di Nicotera, quel mons. Marra, che per un buon decennio girò in lungo e in largo per la circoscrizione attento ad andare incontro alle necessi-tà più pressanti e a tenere uniti sacerdoti e popolo. Nel caso però trattavasi di un compaesano e amico dello stesso Tommasini.

Promosso nel 1818 il Tommasini all’arcivescovato di Reggio e dopo il breve episcopato di mons. Greco, ecco arrivare a Oppido nel 1822 un citta-dino nicoterese, quel Francesco Maria Coppola, che vi rimarrà fino alla mor-te avvenuta nel 1851 e che nella cittadina come nel resto della diocesi com-pirà davvero egregie cose. Si devono a lui, tra l’altro, la costruzione dell’imponente cattedrale, avviata e terminata in grandissima parte a spese proprie, per cui lesinava su tutto pur di portarla a compimento e l’impegno per la fondazione dell’ospedale con il lascito Mazzitelli, che, previsto in fa-vore di un istituto da erigersi nel Circondario di Palmi, riuscì a dirottarlo al capoluogo diocesano. Mons. Coppola, pervenendo in sede, è naturale, con-dusse seco alcuni sacerdoti di vaglia, che gli furono validi collaboratori. Tra tanti, oltre al Conìa, ricordiamo proprio i nicoteresi Giuseppe Maria Pupa, che gli fu segretario (†1883), Antonino Mattei, insegnante in seminario nel 1864 e Domenico Antonio Ionadi, che fu parroco a Lubrichi per 11 anni e

18 “Albo Reggino”, a. III-1864, n. 15, pp. 115-116. * Pubblicato in “Historica”, a. LVI-2003, n. 3, pp. 157-165.

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venne a morte nel 1876. Di Nicotera era anche il pittore Domenico Russo, che a Oppido agì tra il 1864 ed il 187619.

Ho rapportato quanto detto unicamente per far notare che la presenza di Diego Corso a Oppido non è stata un caso, ma si inserisce in un filone che ha antiche origini. D’altro canto, non risultando idonee alla balneazione le vicine marine, molte famiglie di Oppido e della finitima Tresilico preferiva-no frequentare la spiaggia nicoterese. Il tresilicese fotografo Luigi Morizzi nacque a Nicotera il 25 settembre 1891 proprio in una di queste occasioni.

Il primo approccio del medico e studioso nicoterese Diego Grillo con Oppido si data documentariamente all’11 dicembre 1872. In tale occasione atti comunali e parrocchiali danno notizia del suo matrimonio nella cittadi-na con Teresa Stilo, di altolocata famiglia di Tresilico trasferitasi forse da poco nel maggior centro, da cui peraltro distava qualche chilometro appena. Nel registro del Comune si fa presente che quel giorno, essendo comparso in sede il medico e proprietario Giuseppe Stilo, venne a chiedere al sindaco, cav. Domenico Grillo, di volersi recare nel suo domicilio sito nella Strada le Fucine 22 (da notare che questa appresso sarà intitolata proprio al vescovo Coppola; la casa è probabilmente quella oggi abitata dalla famiglia Carrano, che presenta un aspetto signorile), onde celebrare le nozze tra la di lui figlia signorina Teresina e il signor Diego Corso. Il sindaco, evidentemente un amico, non si fece pregare e col segretario Innocenzo Princi soddisfece sen-zaltro alla domanda. La cerimonia, che vedeva in primo piano Diego Corso di a. 28 medico e proprietario domiciliato e residente a Nicotera, figlio dei fu Giuseppe e Felicia Santacroce, e Teresina Stilo di a. 24, proprietaria, figlia di Giuseppe e Cristina Pignataro, si svolse in presenza dei testimoni cav. Gregorio Ioculano proprietario e dei signori Rocco Migliorini, Giuseppe De Gerardis e Achille Longo. Questo per quanto riguarda il rito civile perché quello religioso, che venne eseguito in cattedrale nel medesimo giorno, ver-rà officiato dal sacerdote nicoterese Domenico Antonio Ionadi in faccia ai testimoni d. Domenico Grillo e d. Candido Zerbi. Entrambi gli atti certifica-no la stessa cosa, ma in quello della chiesa si rivela un errore piuttosto vi-stoso: il Corso viene indicato col nome di Domenico20.

19 R. LIBERTI, Momenti e figure nella storia della vecchia e nuova Oppido, Oppido Ma-

mertina 1979, passim; ID., Momenti e figure…, V, “Quaderni Mamertini” n. 40, Bova-lino 2003.

20 ARCHIVIO COMUNALE OPPIDO (=ACO), Registro dei matrimoni, a. 1872, n.ro d’ordine 31; ARCHIVIO PARROCCHIALE DELLA CATTEDRALE DI OPPIDO MAMERTINA, Libro dei matrimoni. La coppia ebbe ben otto figli, nati sicuramente tutti a Nicotera (Galleria dell’Istituto Araldico Italiano, parte II, 1885, pp. 99-100 in fa-

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Non conosciamo se Diego Corso sia pervenuto in Oppido a svolgere at-tività di medico prima o dopo il matrimonio e quando abbia iniziato a in-trattenere rapporti con la famiglia Stilo, ma una cosa sicuramente emerge. Il suocero era un medico molto noto. Oltre che della condotta di Oppido, ave-va anche il carico della direzione dell’ospedale, quindi nulla di più facile che, arrivato nella cittadina per ragioni della sua professione o perché indi-rizzato da amici nicoteresi residenti, quegli sia entrato presto in amicizia con gli Stilo e, quindi, che da cosa, come suol dirsi, sia nata cosa. Comunque siano avvenuti i fatti, possiamo rilevare da una delibera comunale del feb-braio 1875 la nomina del Corso a medico delle frazioni Messignadi e Pimi-noro col soldo di £. 400, ma a essa segue a breve, nel mese di aprile, la revo-ca e la surroga con Bellissario Polistena21. Il Corso si era venuto a trasferire forse allora a Nicotera.

Non siamo edotti di ulteriori tappe oppidesi nella vita del medico nico-terese, ma da quanto abbiamo detto prima e dal fatto che il suo primo lavo-ro a stampa di carattere eminentemente storico, materializzato nel 1876, sia stato consacrato proprio a Oppido - è il “Cenno storico retrospettivo di Oppido Mamertina” realizzato con la “Tipografia nel Reale Albergo dei Poveri di Napoli” - ci spinge a formulare l’ipotesi che l’imput alla sua attività storio-grafica gli sia venuto proprio dall’ambiente oppidese22. Difatti, se siamo de-bitori col suocero per vari lavori di carattere sanitario e addirittura per una biografia del vescovo Coppola, dobbiamo tanto anche ai suoi amici, i quali sicuramente diventeranno amici pure del giovane Diego. Il testimone Can-dido Zerbi altri non è che lo storico di Oppido episcopale, la cui maggiore opera sarà edita proprio nel 1876 e Achille Longo è il direttore della banda musicale cittadina e compositore, padre del più famoso Alessandro. Peral-tro, il Corso dedicherà il suo “Cenno storico” a un altro personaggio che ha scritto parecchio sulla storia di Oppido, Francesco Saverio Grillo, autore dei

scicolo n. 25 (marzo 1994) della Biblioteca “Raffaele Corso” del Comune di Nicote-ra, a cura di E. Gligora). Per Giuseppe Stilo ved. R. LIBERTI, Tresilico, “Quaderni Mamertini” n. 28, Bovalino 2002, p. 31; ID., Su e giù nel passato delle comunità della Piana (XXVIII), “La Città del Sole”, a. X-2003, nn. 1-2, p. 18. Questa l’epigrafe im-pressa sulla lapide che chiude la tomba al cimitero di Oppido: “D. M. O. Emerito Doctori Iosepho Stilo/ patriae suisque/ acceptissimo/ honor et requies/ an. 1883”.

21 ACO, Registro delle Deliberazioni del Consiglio Comunale; R. LIBERTI, Oppido Mamertina ieri e oggi nelle immagini II, Oppido Mamertina 1985, p. 139 n. 24.

22 La prima pubblicazione di Diego Corso riveste carattere prettamente scientifico e risulta “Il materialismo e la psicofisiologia”, che venne stampata a Napoli dalla Tipo-grafia A. Trani nel 1868. Fascicolo n. 25 (marzo 1994) della Biblioteca “Raffaele Corso”, ibidem.

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“Ricordi cronistorici della città e della chiesa di Oppido Mamertina” pubblicati nel 1895. Così, infatti, egli offre il suo opuscoletto: A Francesco Saverio Grillo cui tanto è caro il culto delle memorie patrie. Pietro Stilo, cognato del Corso, che morrà inopinatamente a Messina nel noto sisma del 1908, darà alle stampe

anche lui un’opera di carattere sanitario-storico23. Il “Cenno storico” consta di appena 15 paginette in piccolo formato e ri-

sulta datato Nicotera li 25 marzo 1876 e firmato Diego Dottor Corso. In esso l’autore, dopo un approccio di carattere generale, si sofferma sulla possibile localizzazione dell’antica Mamerto attingendo agli storici che ne hanno scritto in passato, da Strabone al Grimaldi. Quindi, tratta dei Mamertini e del loro impatto con Romani, Epiroti e Tarantini, con qualche accenno a Ni-cotera e delle origini della vecchia Oppido. Per quest’ultimo tema, oltre che attenersi ai soliti Malaterra, Aceti, Barrio e Capialbi, cui tutti ricorrono, fa leva su notizie documentarie di prima mano fattegli avere dal direttore dell’archivio di Napoli, il Minieri Riccio, proprio tramite l’oppidese France-sco Saverio Grillo. Il breve excursus perviene fino al grande evento distrutto-re del 1783. È manifesto ch’esso si riveli essenzialmente, più che un tentati-vo di fare ricerca storica vera e propria, un atto di omaggio verso la cittadi-na, che ha accolto il Corso nel migliore dei modi. Comunque, si rende testi-monianza evidente di una persona che intende cominciare un discorso serio sui trascorsi storici delle popolazioni che gli sono care. Gli studi successivi su Nicotera e vari altri lo dimostreranno appieno24. Peraltro, per la storia di Nicotera edita nel 1882 egli verrà a ringraziare ancora il Minieri Riccio e l’arcidiacono Giuseppe Maria Pupa e attingerà al manoscritto di Nicola An-tonio Gangemi, importante personaggio delle curie oppidese e romana, se-tacciato in ogni parte da Candido Zerbi25.

Il “Cenno storico” costò al Corso nel 1877 un feroce attacco da parte di Francesco Antonio Carbone da Pedàvoli ma al tempo ridottosi in Lubrichi, l’uccisore del patriota Domenico Romeo, che nel suo “I veri Mamertini e il

23 L. ALIQUÒ LENZI-F. ALIQUÒ TAVERRITI, Gli scrittori calabresi, IIa ediz., Reggio

Cal. 1955, alla voce. 24 Uno studioso nicoterese, che in un’opera su Raffaele Corso, tratta anche del di lui

padre, oltre ad aver commesso vari errori ignora del tutto i rapporti di Diego Cor-so con la cittadina pianigiana e, quindi, il “Cenno storico” (R. MILETO, Etnografia e

folklore nelle opere di Raffaele Corso, Soveria Mannelli 1985, pp. 40-42. Su detti rap-porti tacciono anche l’Aliquò Lenzi e l’Aliquò Taverriti, cit.

25 D. CORSO, Cronistoria civile e religiosa della città di Nicotera, vol. I, Napoli 1882, p. XI e passim.

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vero Mamerto”26, accomunandolo allo Zerbi, la cui opera era uscita l’anno prima, ne disse peste e corna. Riprendendolo su ogni punto, arrivò a dire

che quegli «cita tanti autori, e ravvolge, e rimescola le cose in modo che, da false

sembrano vere». In verità, le documentazioni che man mano sono venute alla luce, così come gli scavi archeologici, danno man forte a quanto ipotizzato dai due piuttosto che al fegatoso borbonico. Comunque, dopo tale aggres-sione, il Corso non se ne stette zitto e allestì una “Allegazione storico-critica sopra Oppido Mamertina” che nel 1879 apparve sul fascicolo 11-12 dell’Enciclopedico, un periodico di Napoli. Fattala avere già in anteprima al direttore de “La Zagara”, una rivista che si pubblicava a Reggio, così il re-sponsabile Filippo Caprì ebbe ad esprimersi a proposito una volta che ven-

ne stampata: «Le sue prove ci paiono sode e convincentissime»27. Ma ecco ancora

come ebbe a pronunciarsi ai nostri tempi sulla “querelle” il Pignataro: «Certo se la cosa fosse da decidersi a chiacchiere il Carbone avrebbe bello e vinto su gli altri

due. Dei tre studiosi il Corso solo era preparato alla ricerca storica»28.

L’Allegazione29, fornitami in copia cortesemente dal Bibliotecario del Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella di Napoli, dott. Francesco Meli-si, che ringrazio sentitamente, si rivela parecchio interessante per le ricerche su Mamerto e sui Mamertini intraprese dal Corso avverso le elucubrazioni del Carbone e, nel contempo, ci fa conoscere vari particolari sulla diatriba, nonché sui rapporti con altolocati personaggi di Oppido, che di seguito si elencano.

Il Corso aveva dato alle stampe il “Cenno storico” «ad invito di parecchi

amici, cultori degli studii classici nella nostra Calabria». Oltre ai “Veri Mamerti-

ni” il Carbone aveva pubblicato nel medesimo anno Altro articoluccio biblio-grafico di uguale tenore nei numeri 29, 30 e 31 del “D. Pirlone”30. In riferi-

26 Tip. G. Lopresti, Palmi. 27 Sul vero sito dell’antica Mamerto, “La Zagara”, a. XI-1879, nn. 3-4, pp. 183-184. 28 G. PIGNATARO, Candido Zerbi e la “cronistoria” di Oppido Mamertina-Centenario

della pubblicazione dell’opera, “Historica”, a. L-1997, n. 4, pp. 178-179. 29 Allegazione Storico-Critica sopra Oppido Mamertina in risposta all’opuscolo del Cav.

Francescantonio Carbone I veri mamertini ed il vero Mamerto, “L’Enciclopedico”, a. 1879, pp. 1117-1131.

30 Numerose ricerche, esperite anche attraverso Internet, hanno dato scarso esito. Comunque, debbo alla cortesia della dott.ssa Barbara Gentile del Servizio Informa-zioni bibliografiche dell’Archiginnasio di Bologna, che vivamente ringrazio, la co-noscenza di alcuni particolari. Del “Don Pirlone”, di cui la biblioteca di detto pos-siede le annate 1848-1849, si nota l’esistenza altrove solo delle annate 1863, 1866,

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mento diretto a tale autore, che stranamente, ma non tanto, gli aveva fatto avere copia del suo opuscolo sin dal principio, il medico nicoterese, che ri-batte punto per punto e con larghezza di documentazioni e riflessioni ogni frase, ogni critica, afferma di aver risposto allo sconosciuto lubrichisano, che

inserisce tra gli “itterici intellettuali”, «non per iscendere ad una esosa diatriba … ma per richiamarlo seriamente alla gravità della storia, la quale ricalcitra alle pette-golezze ed alle contaminazioni che si ha l’audacia di registrare a nocumento del ve-

ro». Nella controversia Martirano-Oppido si pronunzia ancora una volta e con ricchezza di argomentazioni a favore della tesi che vuole l’antica Ma-merto nel sito La Mella presso la cittadina del Reggino. A riguardo del ma-

noscritto Gangemi così si esprime: «Avremmo voluto far tesoro del pregevole Mss. dello archeologo fu Nicola Ant. Gangemi sulla “Storia di Oppido, nonché vita, ritratti e cronologia dei Vescovi di quella Città. Scrivemmo sul proposito al nostro Compare D. Pietro M. Gangemi Can. di quella Cattedrale, il quale ci rispose non potercelo per ora favorire poiché si trova averlo dato ad impronto al sig. Comm.

Candido Zerbi»31. Comunque, il fatto che lo citi nella sua cronistoria nicotere-

se è chiaro segno che in successione ne dovette prendere ampia visione. Così Diego Corso chiude la sua fiera risposta datata 22 ottobre 1877 sia

all’opuscolo “I veri mamertini” che all’articolo apparso sul D. Pirlone: «E qui poniamo fine alla esosa discussione, pronti a ripigliarla con maggiore fervore al

semplice invito dello intonso Cav. Carbone. “Ignotos fallit, notis est derisui”». In verità, non conoscendo ulteriori lavori del Carbone sul medesimo tema, si può stare certi che il riscontro del Nicoterese sia stato sufficiente a zittire quel temerario o avventato polemista. Peraltro, il risentito studioso non manca di dare una stoccata anche al varapodiese Carmelo Faccioli, che sin da un quarantennio prima si era piccato di officiare alcune opere di scarsa incidenza sui Bruzi32.

1870-72. Dal sito dell’Arma dei Carabinieri si apprende, peraltro, che il periodico, ch’era un giornale di caricature politiche, si stampava a Roma. In esso viene de-

scritto quale «raffinato e corrosivo, audacemente schierato contro il potere temporale ponti-

ficio». 31Il manoscritto Gangemi, ereditato dalla famiglia Zito, venne consegnato

dall’ultima erede, la prof.ssa Filomena Monoriti, al canonico Giuseppe Pignataro, presso cui avemmo modo di dare una frettolosa sbirciata. Deceduto il Pignataro nel 1987, non si conosce che fine abbia fatto tale pregevole opera, nonché tutta la ric-chissima biblioteca, nella quale era compreso.

32 Ricerche su’ Bruzi. Memoria, vol. I, Napoli, Stamperia Boeziana, 1839, pp. 184 (Il vo-lume è stato ristampato dalle Edizioni Brenner di Cosenza nel 1978, pp. 119). I sus-seguenti due volumi, con titolo “Ricerche su’ Bruzi e su’ moderni Calabri dal 284 al

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Altra testimonianza in precedenza all’uscita del “Cenno storico” ci viene offerta da un articolo che il Corso consegnò in data 4 marzo 1874 da Nicote-ra a “La Zagara”. Nel caso, il resoconto di un viaggio a Polsi, nel quale si di-scetta di ambiente, particolari storici e folklorici nonché di elementi di fisica e chimica, si ha ulteriore prova dei suoi rapporti con Oppido. Ecco come si

esprime a riguardo: «La strada tenuta nell’ascensione di esso (cioè l’Aspromonte nella cima di Montalto) fu quella che passa per Oppido, S. Cristi-na, Scido, Pedavoli. Da qui scortato dalle guide Pasquale Macrì e Domenico Sam-pogna (sic! Zampogna), son salito alla volta dei piani della Melia e per la valle del-

le fontanelle mi diressi sulla cima del selvaggio monte»33. Non soltanto Diego Corso ebbe rapporti stretti con Oppido, ma anche il

di lui figlio Raffaele, il notissimo folklorista, che appunto era nato da una oppidese o meglio tresilicese. Lo attestano largamente i quaderni, nei quali annotava una ricerca etnografica da servire per la Mostra di Etnografia Ita-liana effettuata anche in zona tra il 1908 e il 1910. Ecco come scriveva

nell’aprile del 1909 a Maria Marzi: «Ho in animo, giovedì prossimo, di recarmi

ad Oppido Mamertina e nei villaggi di Tresilico, Zurgonadi etc.» e nell’agosto

dello stesso anno a Lamberto Loria: «Da Oppido, dove mi trovo da più giorni».

In altra occasione, trattando dei “coppari” dei pastori, così dice: «come ho po-

tuto constatare in Piminoro». Per far fronte a tale ricerca l’insigne etnografo si

giovò di corrispondenti locali. Di Oppido è segnalato un A. Stilo. Si tratta sicuramente dello zio Andrea, fratello della madre (nato nel 1860 c. e sposa-

to a Domenica Demana dal 1889)34. Per poco non ho conosciuto di persona il prof. Corso. Egli era molto ami-

co di un altro studioso oppidese, il canonico Pignataro. Nel 1958 questi venne a trovarmi a Napoli, dove prestavo servizio militare e mi propose di andare a far visita all’emerito folklorista nella sua casa al Vomero. Doveva-mo recarci di pomeriggio, ma, non ricordo per quale contrattempo, il sacer-

1734”, sono usciti rispettivamente nel 1843 e 1846 a Napoli dalla Stamperia dell’Iride, rispettivamente con pp. 376 e 238. In un’opera su Varapodio di Antonino De Masi (Varapodio 1990, p. 277) s’indica come anno di edizione del secondo vo-lume il 1834, ma evidentemente si tratta di un refuso.

33 D. CORSO, Un viaggio sull’Aspromonte, “La Zagara”, a. VI, n. 7 del 22-2-1874, p. 52. L’articolo, compreso inizialmente, come sopra, alle pagine 52-53, ha termine in altro fascicolo (a. VI, n. 12 del 20 marzo 1874, pp. 99-100).

34 L. LOMBARDI SATRIANI – A. ROSSI, Calabria 1908-10 – La ricerca etnografica di Raffaele Corso, Documenti e ricerche del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, Roma 1973, pp. 23, 31, 36 e passim.

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dote fu costretto ad anticipare la visita al mattino, cosa che mi era preclusa per l’impegno, cui soddisfacevo.

Domenico De Giorgio (1908-2003) *

A molti oppidesi il nome di Domenico De Giorgio, stimato professionista e storico di gran valore deceduto a Reggio nel mese di marzo del 2003, dirà poco o nulla, ma, riandando con la memoria a tempi lontani, sicuramente offrirà di più quello del padre, Pietro, più noto con l’indicazione di Tabana, cioè tabarro, manto e con l’impegno lavorativo di ortolano del Seminario. Chi ha qualche annetto ricorderà quel ricco verziere accanto alla cattedrale, che l’indefessa attività di De Giorgio, cui cooperava la moglie Annunziata Prio-lo, messignadese, altra instancabile lavoratrice, rendeva quasi un giardino e dove si andava a comprare quanto occorreva alle mense più semplici. Allora la carne e altri cibi di costo elevato si assaggiavano davvero a ogni morte di papa. L’orto di Pietro Tabana, come diuturnamente ci si riferiva, che quegli difendeva dalla rapacità dei ladruncoli con due temibili cani, che gli stavano sempre da presso, riusciva perciò di notevole richiamo. Nell’orto, come si dice, aveva egli casa e bottega, anche se possedeva un domicilio al centro del paese, dove si recava di tanto in tanto. Era esso allocato nel sito ove ora sor-ge l’edificio postale.

Alla coppia di lavoratori oppidesi nacque un solo figlio e fu Domenico il 23 marzo del 1908. L’evento si verificò nella casa sita in quella che allora era conosciuta come via Mamerto. La via Mamerto prendeva dalla piazza mag-giore e finiva proprio nel gruppetto di case, in cui aveva l’alloggio la fami-glia De Giorgio. Essa ricalca propriamente la via Garibaldi, l’inizio della via Mazzini e il tratto prospiciente alla piazza Salvatore Albano. Il piccolo Do-menico, quando fu in età, andò naturalmente a scuola. Frequentò le elemen-tari del paese a partire dall’anno 1913-1914, vale a dire all’età di 5 anni e mezzo. Suo primo maestro fu Vincenzo Scarcella. Arrivò in seconda nell’annata 1915-1916, probabilmente per non aver continuato regolarmente forse a causa della guerra e della chiamata sotto le armi del padre. Fu, quin-di, nella classe del maestro Vincenzo Frascà, ma nel successivo anno, fece la IIIa classe con Salvatore Scarcella. Non conosciamo il suo profitto all’inizio, ma nelle due ultime classi appare tra i migliori, evidenziando voti tra 6 e 9.

* Relazione tenuta il 9 agosto 2003 nel teatro “Mamerto” di Oppido Mamertina in occasione della commemorazione a iniziativa della locale Società di Mutuo Soccor-so e della Deputazione di Storia Patria col patrocinio del Comune e pubblicata in “Calabria Sconosciuta”, a. XXVI-2003, n. 99, pp. 65-67

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Con la terza classe ha termine l’impegno scolastico presso la scuola pubblica comunale. Sicuramente, in successione passò alle aule seminarili.

Contadino tutto d’un pezzo e dipendente del Seminario, il di lui padre non potè non pensare a quell’istituto per l’educazione e istruzione del figlio. Il Seminario, quindi, struttura allora quanto mai frequentata e fornita di ot-timi insegnanti, accolse il nuovo studente, che ne profittò ugualmente con gran merito. Lasciato il Seminario, passò alle scuole statali e, infine, dopo aver conseguito le licenze liceale e magistrale, alla facoltà di Magistero dell’università di Messina, dove si laureò in filosofia. Si diede presto all’insegnamento nei licei: fu al Campanella, quindi divenne preside dei licei classici di Palmi e La Farina di Messina. Conquistata la libera docenza, inse-gnò storia del Risorgimento all’università di Messina e precisamente “storia delle scoperte geografiche e storia dei partiti politici”. Nel 1947 sposò Matilde Delfino, da cui ebbe due figlie: Ivana e Rossella, oggi affermate profes-sioniste.

Pur essendo suo compaesano, conobbi piuttosto tardi il Prof. De Giorgio. Prima che di lui ebbi cognizione della sua creatura, “Historica”. Era il 1951 e, recatomi da Messina, ove studiavo, a Reggio per la prima volta, onde assi-stere all’arrivo del giro ciclistico della Provincia, avvistai sul muro esterno di un’edicola del Corso quella rivistina color paglino titolata in rosso, che subi-to mi attirò. Studente, le 100 lire che si richiedevano per l’operazione di ac-quisto servivano sicuramente ad altro, per cui guardai e tirai dritto. Alcuni anni dopo ebbi l’occasione di rivedere il periodico e anche di leggerlo a Op-pido in casa di uno studioso che per il Professore quasi stravedeva, il cano-nico Pignataro. Da questi fui informato di tutto e seppi che si trattava del fi-glio di Pietro De Giorgio, da me ben conosciuto, in quanto anche vicino di casa. In effetti, avevo tante volte sentito dire che quest’ultimo aveva un figlio che a Reggio si faceva onore con la sua professione, ma non più.

L’occasione per entrare in rapporti col direttore di Historica arrivò nel 1965. Operavo allora a Tortora. Qui, in seguito a una ricerca sul posto, ave-vo scritto un paio di articoli, che, appena rientrato a Oppido mostrai al sud-detto sacerdote, il quale subito volle farli avere al Professore. Fu così che en-trai a far parte della famiglia della rivista. Il primo articolo fu ospitato pro-prio nell’ultimo fascicolo dell’annata. Da allora le pubblicazioni di miei la-vori si sono susseguite variamente, sempre amabilmente accolte.

Incontrai più volte personalmente il Prof. De Giorgio, persona quanto mai affabile e disponibile. Ricordo particolarmente la sua umanità e cordiali-tà durante lo svolgimento del V congresso storico calabrese che si svolse nel 1973 tra Cosenza, Vibo Valentia e Reggio Calabria e che fu da lui, tra vari al-tri, organizzato quale presidente della Deputazione di Storia Patria per la

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Calabria. In quelle giornate ci fu modo di conoscerci meglio. Ha scritto lo studioso Giuseppe Masi in merito al suo approccio con “Historica” che il di-rettore, aderendo subito con grande gentilezza e disponibilità alla richiesta di

avervi ospitalità, ha testimoniato doti umane non comuni, quindi che «ha vissu-to il suo magistero di preside e di docente universitario in modo schivo ed apparta-

to»35. Interessanti apporti sull’uomo e sullo studioso sono forniti da tanti che lo hanno conosciuto proprio nell’ultimo numero della rivista, che gli è stata interamente e giustamente consacrata.

Il Professore, probabilmente, dopo essere andato via da Oppido per mo-tivi di studio, non dovrà esserci più tornato o avrà fatto qualche sporadica capatina, ma non è stato mai dimenticato, anche perché, pur operando in silenzio, alla lunga i suoi fattivi interventi a favore di compaesani sono ve-nuti fuori. Mi parlava sempre il defunto collega Sebastiano Maisano di quando lui e altri nel dopoguerra scamparono ai rigori della commissione epuratrice, avendo rivestito incarichi durante il regime fascista. Il professo-re, che faceva parte o meno di tale commissione, perorò in loro favore con esito positivo senza ch’essi ne sapessero niente. Hanno avuto coscienza del bene loro fatto a distanza di molto tempo e per un caso fortuito. Il Professo-re De Giorgio, sicuramente, non avrebbe mai ostentato un’azione del gene-re. Nella pensione di via Filippini, nella quale abitava con tanti studenti, al-cuni dei quali suoi compaesani, era assai stimato. Il medico Luigi Iaria mi racconta sempre della sua felicità quando gli portava in regalo degli uccelli vivi e dell’innumerevole cerchia di alunni privatisti, che si avvaleva del suo insegnamento. Qualche studente oppidese del tempo del liceo classico ri-corda con particolare affetto la di lui bonomia.

Tenendosi a Oppido nel 1976 un primo concorso di poesia, pensammo a lui come presidente della commissione esaminatrice anche con lo scopo di fargli fare una specie di “rimpatriata”, ma egli allora pregò il can. Pignataro di farlo esimere. Capimmo il suo stato e, sebbene a malincuore, ci rivol-gemmo ad altra persona.

Il Prof. Pasquino Crupi, che ha giustamente lamentato il silenzio dei me-dia in merito alla morte del Prof. De Giorgio, così ha scritto su “Il Quotidia-

no” del 21 marzo: «Alta e forte è stata la presenza di Domenico De Giorgio nella battaglia delle idee per il rinnovamento della cultura, il suo legame con la questione

meridionale e il rapporto Croce-Gramsci». Questo, invece, il sottotitolo premes-

so all’articolo: «Non cercò la fama nazionale ma amò la sua terra e ne esaltò i valo-

35 G. MASI, Per una biografia critica di Domenico De Giorgio, “La Questione Meridiona-

le”, a. I-2003, n. 1, p. 31.

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ri». Quanto formulato risponde in pieno alla realtà ed entrambe le espres-sioni si qualificano idonee a delineare con estrema precisione la personalità del fondatore di “Historica”, che fu studioso serio e alieno sempre da estemporanee ufficializzazioni.

In politica, dopo la restituzione delle masse alla discussione dei problemi sociali, De Giorgio si entusiasmò per le battaglie sostenute dal partito d’azione, cui s’iscrisse fin dall’inizio condividendo programmi e attività. Nel 1946 divenne addirittura il direttore del settimanale “L’Azione”. Svani-to presto quel movimento, si disinteressò almeno ufficialmente di politica.

In campo culturale le sue passioni andarono alla storia e alla filosofia e per quest’ultima fece parte di un sodalizio di tutto prestigio. Fu, infatti, tra i fondatori della Sezione della Società Filosofica Italiana assieme a gente del calibro di Rodolfo De Stefano, Domenico Scoleri, Domenico Antonio Cardo-ne e Antonino Lovecchio, sezione particolarmente attiva tra gli anni ’50 e ‘60. Si trattava di studiosi di grande impegno, ch’egli non aveva esitato a coopta-re nella collaborazione a quella sua amata rivista, che inizialmente venne a occuparsi proprio di storia, filosofia e letteratura a carattere nazionale e che col tempo si consacrerà in sommo grado a trattazioni di storia meridionale e calabrese.

Il primo numero di una rivista avviata con i primi scarsi mezzi che si po-tevano reperire in una Reggio ancora intenta a leccarsi le ferite della guerra, che reca la data del febbraio 1948 e il sottotitolo “Rivista bimestrale di cultu-ra”, venne stampato molto modestamente dalla tipografia Leo. Un numero costava 60 lire e comprendeva 28 paginette; per un abbonamento annuo di lirette ne occorrevano 350. La Direzione era in via XXI agosto 136, eviden-temente nello stesso domicilio del direttore. Essa seguirà i successivi spo-stamenti dello stesso, per finire in via Muratori 25. Questa la Premessa, cui venne ad affidarsi il messaggio relativo a intenzioni e contenuti: «“Historica”, che intende la realtà come storia e la civiltà come integrale umanesimo, non

è legata ad alcuna confessione religiosa né ad alcuna ideologìa politica. Vuole portare il suo contributo ad una cultura viva, umana, senza pregiudizi e senza po-

sizioni ferme e fisse. È per una libera critica, per gli studi seri e sereni, per le discussioni, per i dibattiti sulle idee che possano orientare, chiarire, stimolare al lavoro e alla riflessione, senza polemichette astiose sugli individui. La rivista, pur nella sua mole modesta, è aperta a tutti

coloro che hanno qualcosa di nuovo da dire, a tutti coloro che lavorano e pensano».

Com’è facile capire, quanto esternato risente indubbiamente del tempo in cui l’iniziativa venne varata. Uscendo da un lungo periodo di cultura impo-sta dall’alto, si sentiva un gran bisogno di pensare, studiare ed esprimersi secondo propri personali convincimenti senza tuttavia abbandonarsi a criti-che gratuite. Ecco perché il Prof. De Giorgio era restìo a pubblicare lavori

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che attenevano alla contemporaneità. Nel secondo numero, uscito ad aprile, l’invito agli studiosi a collaborare. In esso si evidenzia la serietà con cui

l’operazione venne avviata: «Tutti possono collaborare ad Historica: una sola

condizione: la serietà scientifica». Quella serietà scientifica che ha caratterizzato l’iter del periodico fino ai nostri giorni, quindi per ben 55 annate.

In piena aderenza con tutto ciò è anche lo spirito che animò il Prof. De Giorgio e gli altri nella fondazione della Società Filosofica Calabrese, che si avverte nell’invito ad iscriversi formulato nello stesso primo numero di “Hi-

storica”. Queste le frasi più significative: «Essa (la Società) assume, essenzial-mente ed esclusivamente una funzione etico-sociale di incremento e di diffusione del-la cultura. Non solo rimane assolutamente estranea a conflitti di ideologìe politiche e di convinzioni religiose, ma non rappresenta alcuna scuola filosofica particolare, e

accoglie studiosi di tutti gli indirizzi». Afferma giustamente Pasquino Crupi che sulle pagine di “Historica” si

sono formate intere generazioni di storici calabresi i cui studi onorano la cultura nazionale e hanno reso evidente il volto colto della Calabria. Quanti nomi di prestigio: Emilio Barillaro, Antonino Basile, Pietro Borzomati, Um-berto Caldora, Gaetano Cingari, Ferdinando Cordova, Nicola Ferrante, Franco Mosino, Antonio Piromalli, Domenico Coppola, Francesco Russo ecc. E quanti studi di notevole impegno, che hanno onorato la Calabria, e non solo! Questo quanto in merito alla rivista scrive ne “Il Quotidiano della Calabria”36 prima e ne “L’Avvenire di Calabria” successivamente37 il Prof.

Pasquale Amato: «Historica è una perla della Città, di cui l’intera Città si deve

sentire orgogliosa, impegnandosi a rispettarne l’economia scientifica e gestionale». L’ultimo numero dell’anno decorso della rivista è uscito sotto l’egida del

Comune di Reggio Calabria e della Biblioteca Comunale. Ne fanno fede le indicazioni iscritte nella seconda pagina di copertina che l’amministrazione di essa e gli abbonamenti vanno riferiti al Comune. Che cosa è accaduto? Che il Prof. De Giorgio, pensando da tempo ad assicurare un avvenire alla sua creatura, in quest’opera sicuramente collaborato da colui che per tanti anni gli è stato efficacemente vicino, appunto il direttore della biblioteca, dott. Domenico Romeo, ha ceduto “Historica” al Comune, pur continuando nella sua veste di direttore. È stata una mossa intelligente da tutti i punti di vista da chi ha voluto bene alla Calabria ed alla sua cultura. Un solo vincolo ha egli imposto al Comune: che il periodico non venisse snaturato e potesse proseguire sul solco della tradizione.

36 A. IX-2003, n. 141, p. 19. 37 A. LVI-2003, n. 20, p. 3.

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Nel suo impegno di storico il Prof. De Giorgio, anche se talvolta ebbe a occuparsi di vicende lontane nel tempo, come nei casi di Giovanni Simonetta calabrese storiografo di Francesco Sforza o di Pietro Verri, fu eminentemente un risorgimentalista, privilegiando il periodo che intercorre tra il 1848 ed il 1860, cioè le tappe contrassegnate dai primi grossi fremiti rivoluzionari e dalla conquistata unità nazionale e il teatro di operazioni figura nettamente in primo piano il territorio della provincia reggina. Qualche titolo dei lavori pubblicati sulla rivista: “Aspetti economici e sociali del moto del 1848 in Cala-bria”; “Episodi reazionari in Calabria dopo il 1860”; “Giovanni Nicotera e la Sini-stra al Governo”. Tra tanti studi vi è uno che riguarda molto da vicino il paese natale: “Fra Michele Maria Caputo, vescovo garibaldino”. Nello scritto il De Giorgio, che fa leva, come suo costume, su atti inediti e pertinenti, rende in qualche modo giustizia a quel temuto vescovo di Oppido svelando trame e comportamenti, gabellati altrimenti da autori partigiani o affatto inclini a ri-cercare la verità nei documenti. L’impegno per una maggiore conoscenza della storia della Calabria durante il Risorgimento lo fece conoscere in largo raggio tanto che per lungo tempo fu egli incaricato di reggere quale presi-dente la sezione calabrese dell’Istituto per il Risorgimento con sede a Roma.

Non tutti sanno che il Prof. De Giorgio è stato inizialmente anche un deli-cato poeta. Infatti, nel 1935 dava alle stampe presso l’editore G. Cafaro di Lecce il volumetto “Primule”, che contiene 32 odi. I temi di queste sono logi-camente quelli che di solito attraggono un giovane sognatore nella primave-ra della vita. Sfido chiunque fa o ha fatto cultura a dire di non avere pecca-tucci del genere, anche se poi, col mutare di età e interessi, si sia rivolto al-trimenti. La natura, con quanto di bello esprime con l’alternarsi periodico dei mesi, le disillusioni amorose, la nostalgìa per il paese natìo, i dorati tra-monti, la vita corrente dai toni di volta in volta belli o brutti: ecco quanto of-fre un poeta di solide basi culturali, sicuramente, ma anche un uomo che ha già saggiato parimenti contrarietà e gradimenti. Riescono molto accattivanti le composizioni, al cui centro è la mamma, ma non sono da meno quelle da cui traspaiono il pessimismo tipico di chi si avvìa nel cammino del mondo o le considerazioni d’ordine filosofico. Per far capire l’animo poetico del Prof. De Giorgio proprio in ragione di quanto sin qui detto, mi piace offrire all’attenzione l’ode “Per le vie del mondo”, che sicuramente è altamente signi-ficativa

Esiliato dalla mamma, a vent’anni, per fame di gloria e d’oro andai solo e ramingo pel mondo. E dalle mie campagne profumate di sogni inconsistenti e di visioni

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e d’albe e di tramonti e fate bionde, m’allontanai vivendo il mio gran sogno. Una bramosia di vivere, ardente, vivere intensamente il cor mi accese e il mondo girovagai sognando i sogni di vent’anni. Per strade polverose, grandi e immense camminai gran tempo carico di sogni e di chimere. Vidi macchine giganti dove corpi ignudi fremevano avvampando di febbre e d’arsura. Terribile frastuono e grida e fumo. Un esercito immenso lanciato all’impazzata alla grande conquista dell’oro. Dove va questa gente frettolosa? Dove corre così senza curarsi d’alcuno, in cerca di che cosa? Ad inseguire la felicità? La strada è fatta liscia, scalpitano i cavalli, i mostri rombano, gli uomini ansanti, affaticati s’affrettano e non posano. Una piovra gigantesca anelante che corre febbrile e tutto schiaccia. Tremante mi tirai da un lato sbigottito. Ad una giovinetta, in quel trambusto, ho chiesto un pane, il pane della vita e dell’amore ma una cento-cavalli fiammante l’inghiottì nel turbine funesto, ed io rimasi nella polvere solo. Così tutte ad una ad una caddero infrante le illusioni mie: amore, gloria, sogni e dolci incanti tutto svanì con un lamento del cuore agonizzante. Ripresi quindi la via del ritorno con la bisaccia vuota. Quando il mio campanile m’apparve da lontano e le campagne note

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ove piansi e sognai i sogni di vent’anni, mi prostrai baciando la mia terra ed il mio cuore inaridito e vuoto trovò le lacrime non piante.

Il Prof. De Giorgio, relazionando in data 16 maggio 1976 sull’attività

esperita nel triennio quale presidente della Deputazione di Storia Patria, così

si congedava: «credo che possiamo guardare all’avvenire con fiducia e speranza: tante forze nuove lavorano seriamente./Se lasciamo da parte la boria del passato e il

mito della grandezza». Ecco forse condensato in poche righe il calzante pensie-ro di uno studioso in merito al modo di accostarsi alla storia con metodo e assoluta modernità. Si tratta indiscutibilmente di un congedo che sintetizza al meglio tutta una vita dedita al lavoro e alla ricerca con serietà d’intenti.

La situazione archeologica

Altopiano delle Melle: un “mistero” da scoprire *

In Italia da più tempo ormai un invidiabile patrimonio archeologico se ne sta andando lentamente, ma inesorabilmente, alla malora. Ciò avviene per l’opera sempre più pervicace di ladruncoli d’ogni stampo, la scarsa assisten-za offerta da uno stato sempre più debole e l’assenteismo sempre più mani-festo delle autorità preposte. È ormai un fatto di tutti i giorni quello di assi-stere impotenti al depauperamento di tesori, che generazioni su generazioni hanno tramandato sino a noi e al riprovevole disinteresse che investe le amministrazioni e purtroppo anche taluni studiosi.

Gli esempi da addurre sarebbero tanti, ma in questo servizio intendiamo limitarci a un caso occorsoci direttamente. A meno di mezzora di automobile per balze e dirupi da Oppido Mamertina, sul cosiddetto altopiano delle Mel-le, un breve pianoro situato a cavaliere dei fiumiciattoli Tricuccio e Cumi, si ammirano ancora oggi gl’imponenti avanzi di quella che fu una delle più importanti cittadine delle terre alte della Piana di Terranova oggi di Gioia, di quella Oppido, sede vescovile di origine bizantina e patria di tanti valen-tuomini, che perì tragicamente col terremoto del 5 febbraio 1783. Frammezzo a oliveti, alberi da frutto e vigne, che hanno invaso l’antico tracciato medioe-vale, si notano, infatti, vestigia delle poderose mura di cinta, delle due porte, del Duomo, dei vari conventi e soprattutto del castello, un discreto maniero abitato per lungo tempo da famiglie illustri e che subì nel corso dei secoli va-

* Pubblicato in “Pianadomani”, a. I-1977, n. 3, pp. 6-7.

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ri rifacimenti. Di particolare, nella vecchia rocca si distinguono nettamente le robuste e quadrate torri aragonesi. Il castello è il rudere più vistoso che l’antica Oppido offre ai rari visitatori, ma, abbandonato come si ritrova, mi-naccia rovina da ogni parte. Nel 1973, nel frangente di un’ennesima alluvio-ne, il lato di un torrione si sbriciò e la bardatura aragonese precipitò a terra mettendo a nudo il rotondo stile angioino. Appena a conoscenza dell’accaduto, l’ispettore onorario ai monumenti della zona, Mons. Pignata-ro, levò un grido d’allarme informando tempestivamente l’Amministrazione Comunale e la Soprintendenza ai Monumenti e alle Gallerie della Calabria con sede in Cosenza, ma il tutto si esaurì nell’agosto dello stesso con un semplice scambio di lettere tra il sindaco, avv. Coco, l’ispettore onorario menzionato e il Soprintendente arch. Greci.

Il fatto che qui si lamenta, purtroppo, non costituisce novità! Antichi scrittori, secolari tradizioni e rinvenimenti casuali fanno presumere da gran tempo che Oppido possa essere considerata l’erede di una mitica Mamerto, una città scomparsa in epoca remota. Sulla scia del sempre valido Strabone, il quale colloca la sede dei forti guerrieri Mamertini nel territorio soprastante le città di Reggio e di Locri e che comprende nel seno stesso della Selva Brut-tiana (la Sila nell’antichità abbracciava anche le Serre e l’Aspromonte) con-cordano, tra i tanti, Cluverio, Leandro Alberti, il Mazzocchi, il Romanelli, il Grimaldi, il Morisani. Contrari a quanto affermato da questi validissimi sto-rici e geografi si sono pronunziati altri scrittori, leggi Barrio, Fiore, Ughelli, Pacichelli, ma le loro argomentazioni spesso non si reggono in piedi, risul-tando legate solo a dei bisticci toponomastici. Assai di frequente tali pur illu-stri studiosi cadono in contraddizioni così evidenti che non si riesce a capire come ancora oggi possano essere tenuti in altissima considerazione. Si pren-da, tanto per fare un esempio, il caso di François Lenormant, autore di “La Grande Grêce”. Ecco che cosa ha scritto in un primo momento quel noto viaggiatore e scrittore francese a proposito di Mamerto: «Alla stessa origine risale la città di Mamertium, che portava un nome sabellico. Strabone

la ubica nell’interno delle terre del Bruttium, fra Locri e la grande foresta della Sila; e gli eru-diti calabresi del Rinascimento la identificarono con Martorano, il Marturianum del medioe-vo, su una semplice analogìa di nome, che è ben lungi dall’essere decisiva. Più probabile è il parere di coloro che identificano Mamertium con Oppido; ma questo un problema su cui do-

vremo tornare più tardi»38. Lo stesso Lenormant, in altra parte del suo lavoro39, rimangiandosi quan-

to aveva già affermato, così reiterava sull’argomento:

38 F. LENORMANT, La Magna Grecia, Chiaravalle Centrale 1976, II, p. 27. 39 Ivi, III, pp. 143-144.

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«Alcuni dei mattoni di Monteleone (periodo romano) provengono del resto da una certa distanza dalla città. Ne noto presso il signor Cordopatri parecchi che portano il bollo della cit-tà di Oppidum, già conosciuta per altri esemplari della collezione Capialbi. Oppidum è evi-dente Oppido ancora oggi città vescovile, sita alle estremità della Piana, sopra uno dei con-trafforti dell’Aspromonte. Il suo nome moderno è dunque esattamente il suo nome antico. Da ciò risulta che essa non può essere, come si è creduto, il misterioso Mamertium della Geogra-fia di Strabone, e che la municipalità non aveva il diritto di decorare ultimamente la città col

nome di Oppido Mamertina».

A questo punto, in chi e in che cosa bisognerebbe credere? Non c’è alcun dubbio! L’unico sbocco a una situazione, che appare senza vie di uscita, re-stano, come sempre, i documenti e il piccone, ma spesso degli uni si lamenta la perdita, mentre l’altro rimane inoperoso.

Riguardo l’indagine documentaria, esiste un atto greco dell’anno 105140, che evidenzia con molta chiarezza come, accanto alla Oppido bizantina, ri-sultassero ancora a quel tempo gli avanzi di un altro abitato scomparso in precedenza. Nell’atto si trova scritto che tale Leone Mardanités affermava di aver avuto in donazione dal padre un vallone situato dirimpetto al paese e incavato lungo il corso del fiume – molto probabilmente il Tricuccio. Aveva esso inizio dal crinale, nel quale si scoprivano i Phatoi (toponimo sconosciu-to) e risaliva fino alla porta di un antico kastron, seguendo poi il crinale che ridiscendeva verso ovest, vale a dire verso le Melle. Il documento, non ci so-no dubbi, attesta l’esistenza di un abitato anteriore alla costruzione bizanti-na. Nel caso, ci troveremmo di fronte alla Oppido romana oppure potrebbe trattarsi addirittura della fantomatica Mamerto di Strabone?

Finora non si conosce nulla di preciso, però un fatto appare ormai certo. Attorno all’antica Oppido le testimonianze d’insediamenti anteriori al pe-riodo romano si vanno facendo sempre più numerose e solo la voluta mio-pìa dei santoni dell’archeologìa non permette di accertare le cose a chi di dovere. Sempre nel 1973 alcuni giovani, che nel corso dell’anno avrebbero poi costituito in Oppido una sezione del Centro Studi meridionali di Ar-cheologìa Cristiana e Geografia Storica, fecero presente al Soprintendente alle Antichità della Calabria, dott. Foti, che nelle immediate pertinenze dell’antica Oppido, vale a dire nel sito in cui lo storico Candido Zerbi nel 1876 aveva creduto di localizzare Mamerto, si rinvenivano spesso reperti di vario genere (vetuste mura, cocci di lavori di fattura greca, mattonacci, pesi da telaio, statuette fittili, monete mamertine ecc.), che facevano presumere di qualche antichissimo insediamento urbano. Il dott. Foti in un primo momen-to tenne a mostrarsi interessato alla cosa e promise una visita sul posto, ma poi, pressato evidentemente da qualcuno, non esitò a rimandare tutto alle

40 A. GUILLOU, La Théotokos de Hagìa-Agathè (Oppido), Città del Vaticano 1972.

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classiche calende greche. Si rifece vivo inaspettatamente il 15 ottobre dello stesso anno quando apprese che in Oppido si era costituita la Sezione di cui sopra. Aveva appreso l’evento da un polemico ciclostilato inviatogli diret-tamente, ma fece le viste di averlo saputo per vie traverse. Ecco quanto in quell’occasione il Soprintendente reggino tenne a comunicare: «Ho preso atto con interesse della costituzione a Oppido di una sezione di Studi Meridio-

nali, del suo programma e delle prime attività esposte nel numero unico “Mamertum” (sic!

) trasmessomi dal Dott. Sabbione. L’attività di studio e di segnalazione che vi proponete è senz’altro degna di incoraggiamento, mentre è noto che qualunque scavo archeo-logico può essere effettuato solamente dalla Soprintendenza alle Antichità. Fra le prime e più utili attività dell’Associazione potrebbe essere una visita al Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, che fornirebbe pure l’occasione di una reciproca conoscenza e di una migliore puntualizzazione della possibile sfera di attività dell’Associazione. In attesa di concordare la

data dell’incontro, porgo cortesi saluti».

Appena ricevuta la missiva, così teneva a rispondere il 19 successivo la Sezione di Studi Meridionali di Oppido a mezzo del suo presidente: «Godo nell’apprendere che la costituzione di una sezione di Studi Meridionali a Oppido

ha incontrato il Suo pieno favore, ma è bene precisare che Le ho fatto spedire direttamente una

doverosa lettera di comunicazione ed una copia del numero unico sin dall’inizio. Accetto senz’altro con piacere, e con me tutti gli amici della sezione, di compiere una visita al Museo Nazionale, che servirà, certo, ad una prima conoscenza e ad un primo scambio di vedute e, a tal proposito, La prego di voler fissare Lei la data relativa. Tenga pre-sente, però, che dal 28 al 31 del corrente mese sarò impegnato, come certamente lo sarà anche Lei, col Congresso storico di Cosenza.

Siamo perfettamente consci che gli scavi archeologici fanno capo solamente alla Soprin-tendenza e noi non abbiamo alcuna intenzione di prevaricare nessuno perché il nostro scopo è unicamente quello di stimolare e di aiutare, almeno per quanto rientra nelle nostre possibilità. Stia pur certo che, se si fiderà di noi e non darà ascolto a persone dalla “denunzia facile”, che sconoscono completamente l’esatta ubicazione di antiche necropoli et similia nel territorio di Oppido, avrà in tutti i componenti della sezione veramente degli amici. Io stesso, quale am-ministratore comunale, metto sin d’ora a Sua disposizione il Comune e La informo che ho già fatto mettere in bilancio per il prossimo anno apposite somme per scavi archeologici e museo comunale. Comunque, di tutto parleremo meglio e più a lungo in occasione del nostro prossi-

mo incontro».

In seguito allo scambio di lettere e all’incontro avvenuto a Cosenza, il dott. Claudio Sabbione, funzionario della Soprintendenza delegato dal dott. Foti, promise a sua volta solennemente d’interessarsi al problema archeolo-gico, di cui venne messo al corrente e di fare, quindi una puntatina a Oppi-do. Sono già trascorsi quattro anni e le promesse del dott. Sabbione si sono venute reiterando nel tempo senza che il problema venisse però minima-mente affrontato. È stato tutto inutile o ancora è legittimo sperare? Di certo si sa che i contadini continuano a distruggere quanto viene a intralciare i la-vori agricoli e che gli immancabili “tombaroli” fanno razzìa di quanto rie-

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scono a scoprire. La colpa di questo stato di cose non è certo tutta del dott. Sabbione o del dott. Foti, sempre alle prese con una caterva di problemi, sia-no essi Sibari, Crotone o Metauria, ma di chi, per motivi incomprensibili ai più, tende a convincere i funzionari della Soprintendenza che sull’altopiano delle Melle nulla d’interessante esiste e che Mamerto vada cercata addirittu-ra nel Catanzarese. Da queste colonne rivolgiamo, perciò, ancora una volta alle Autorità interessate un nuovo appello a voler intervenire sul problema costituito da Mamerto o da altra città sconosciuta, i cui resti sono facilmente localizzabili nelle pertinenze dell’antica Oppido. Verrà ascoltato? Anche se l’esperienza c’insegna il contrario, noi ci auguriamo vivamente di sì.

La misteriosa città di contrada Mella *

Di un antichissima città sepolta nei pressi del diruto Oppido hanno sem-pre riferito gli storici e la tradizione, ma, prima che il piccone dell’archeologo la individuasse e ne scandagliasse un primo nucleo, lo scet-ticismo era d’obbligo e si era in molti a non credere alle affermazioni di Candido Zerbi. Costui aveva dichiarato in una sua monografia sin dal 1876 che in contrada La Chiusa i contadini traevano spesso dal terreno manufatti di età arcaica assegnabili alla mitica Mamerto. All’identificazione si è giunti, dopo vani tentativi esperiti presso il competente ufficio da parte di singoli appassionati, nel 1984 e il tutto è imputabile a cause non strettamente di-pendenti da interesse archeologico, come d’altronde si verifica spesso in Ita-lia. Si doveva costruire, per effetto della legge regionale che istituiva gli Iti-nerari Turistici della Magna Grecia, una strada che da Oppido Mamertina portasse più agevolmente ai ruderi dell’antica città perìta col terremoto del 1783. Poiché il percorso ricadeva su terreno già segnalato, fu d’uopo effet-tuare prima una campagna di prospezioni elettriche e magnetiche e di caro-taggi. La Fondazione Lerici, cui l’incarico venne affidato, individuò allora in contrada Mella un’area archeologica per un’estensione di ben 10 ettari. Con-temporaneamente fu eseguito un saggio di scavo a opera dell’ispettrice Li-liana Costamagna, che mise in luce abitazioni, monete, vasi, vasche, tutto fatto risalire al III-II secolo avanti Cristo.

Quella prima felice scoperta indusse i responsabili a chiedere i finanzia-menti necessari a un nuovo scavo, che nel 1986 venne materializzato a cura della stessa ispettrice e di un giovane studente torinese, Massimo Brizzi. An-che la seconda operazione fu coronata da successo e il pezzo forte fu rappre-

* Pubblicato nel numero unico “Incontro”, Giornale del Circolo “Incontro” di Oppi-do Mam., gennaio 1990, pp. 1, 4.

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sentato da un’ampia strada selciata, sul bordo della quale venne rintracciata una conduttura d’acqua, sui cui elementi apparivano distintamente due bolli

con impressa la scritta yy. Nell’87 e nell’88 la missione USA, gui-data dal prof. Paolo Visonà, dell’Università di Notre Dame nello Stato dell’Indiana, ha infine impresso una poderosa svolta rivelando che ci tro-viamo ormai di fronte a uno dei più sensazionali rinvenimenti del nostro se-colo.

La città, della quale vanno delineandosi precisi contorni e datazioni, non più affidate ai “si dice”, è oggi un’avvincente realtà. Esistente almeno sin dal III secolo e perìta violentemente intorno al 90 a. C. forse nel frangente delle guerre sociali, sta offrendo un materiale davvero eccellente e le analisi, cui parte di esso è stato sottoposto presso istituti specializzati di Pisa e Como, ci forniranno presto ulteriori preziose informazioni. Nell’ultima campagna, conclusasi a fine giugno ’88, sono venuti alla luce, oltre alle consuete monete mamertine e romane, una daga in ferro simile a quelle in dotazione ai guer-rieri mamertini, come si desume dalle stesse monete, una graziosa fibula in argento, ceramica con scritta in rilievo, i resti di una casa signorile, divisa da un ambitus (vicolo) da altre più modeste, quindi ancora una strada selciata.

Su quanto è emerso e sulle deduzioni che da esso si potrebbero ricavare ci sarebbe parecchio da dire, ma lo spazio riservatoci in questo giornale non ce lo consente. Prima di chiudere, comunque, fa d’obbligo mettere in chiaro alcuni particolari svisati oltremisura e propalati come oro fino da gente ignorante della materia.

La legenda , che si trova sulla nota conduttura e sui mattoni, compresi quelli conservati al museo di Palmi, al quale sono stati donati al suo tempo dal Pignataro, non porta a Tauriana, altra antica città del litorale tirrenico, la cui esistenza per ora è acclarata soltanto per il periodo imperiale romano, ma ai Tauriani, essendo detta il genitivo etnico di un popolo, che probabilmente occupava tutta l’odierna Piana di Gioia Tauro.

La strada selciata, che corre a lato, è arteria che verosimilmente interessa l’interno della città (ce lo conferma più chiaramente l’altra parte in zona sot-tostante scoperta nel giugno ’88), anche se è logico pensare che ci sia stato certamente in funzione un percorso istmico che, collegando lo Jonio al Tirre-no, toccava i centri di Santa Cristina o solo Cristina o Crestina (quella di-strutta nei pressi del fiume Lago), la città di contrada Mella, Buzzano oggi Castellace, Tauriana o Metauria, ricalcando in sostanza l’odierna SS. 112.

Nell’89 non c’è stato alcuno scavo a Mella, ma nel giugno il prof. Visonà, ch’è ritornato sul luogo per verificare dei rilievi, ha assicurato in un’intervista che, appena ultimato un volume recante i risultati delle prime campagne, la cui pubblicazione è prevista per la prossima primavera, la ri-

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cerca archeologica riprenderà col consueto impegno. Ce lo auguriamo viva-mente, come ci auguriamo che gli amministratori comunali succeduti al de-funto avv. Giuseppe Mittica, ch’è stato in tutti i momenti una solida garan-zìa per l’iniziativa, si rendano conto dell’importanza della scoperta e assicu-rino il loro pieno appoggio in futuro all’archeologo vicentino e a quanti si prodigheranno con amore perché finalmente possa diradarsi il mistero che avvolge le origini di Oppido.

Risorgeranno dalle ceneri Mamerto, Buzano e la vecchia Oppido? *

Nei mesi di settembre e ottobre tre équipes dell’Università della Calabria hanno fatto rivivere ancora una volta nel territorio di Oppido Mamertina la passione per l’archeologìa, quella passione, che, nata a partire dal 1984, an-no in cui la Fondazione Lerici effettuò un ciclo di prospezioni, s’ingigantì quando si diede il via in contrada Mella al primo saggio di scavo. Fu un evento memorabile. D’allora, sotto la direzione dell’ispettrice della Sovrin-tendenza di Reggio, dott. Liliana Costamagna, coadiuvata due anni dopo da Massimo Brizzi, cominciarono a venir fuori le vestigia di una grande città, che potrebbe – e lo speriamo vivamente – risultare la mitica Mamerto di straboniana memoria. Si evidenziarono subito, tra l’altro, resti di antiche abitazioni, un’ampia arteria stradale e una conduttura idrica contrassegnata in ogni elemento da ben due bolli recanti l’indicazione del genitivo etnico dei Tauriani, oltre a numerose monete che riportavano quello dei Mamertini e fu un susseguirsi di visite sul campo da parte di cittadini e curiosi venuti da ogni parte della regione e oltre. Quella che, con tutta probabilità, fu la culla degli oppidesi cominciava a porsi finalmente all’attenzione.

Essendosi a un bel momento esaurite le finanze assegnate per i primi due saggi, nessuna prospettiva seria si affacciava all’orizzonte quando, ina-spettato, mise piede tra noi uno studioso italo-americano, il prof. Paolo Vi-sonà, ch’era all’affannosa ricerca di vestigia del periodo annibalico, un’età cui aveva già dedicato proficui lavori. Avendo a tale scopo preso contatto con la Sovrintendente Elena Lattanzi e la dott. Costamagna, queste toccaro-no certamente il cielo con le mani e pensarono bene di proporgli il sito di Mella, un sito ancora vergine, che aveva timidamente iniziato a rivelare i suoi tesori nascosti. Detto fatto. Nel 1987, accompagnato da uno stuolo di studenti statunitensi, l’archeologo di origine vicentina, che si era fatto le os-sa in tante altre occasioni, in Europa e soprattutto in Africa, si portò in Op-pido e anno dopo anno i frutti del suo alacre e puntiglioso impegno potero-

* Pubblicato in “La Città del Sole”, a. III-1996, n. 11, p. 21.

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no essere osservati e ammirati da tutti. Quanto venuto alla luce nei primi anni è, peraltro, materia di un ponderoso volume, che col titolo Oppido Ma-mertina I, uscirà presumibilmente entro la fine del 1996 per i tipi di Gangemi editore in Reggio Calabria e Roma. Tale opera, che sarà particolare oggetto di studio per gli addetti ai lavori, attrarrà sicuramente anche le popolazioni calabresi, non ultima quella di Oppido.

Conseguenza degli ottimi esiti delle tante campagne di scavo, dietro il fervore dello scomparso sindaco avv. Giuseppe Mittica, che sin dall’inizio fu entusiastico protagonista di ogni intrapresa, la Regione Calabria, avvalen-dosi della legge 64/86, concesse al Comune la somma di un miliardo e mez-zo da spendersi in tre fasi finalizzate alla ricerca e al recupero del patrimo-nio archeologico di Mella, Oppido Vecchio e Castellace, i punti nevralgici nella mappa dell’interesse. Dopo la repentina dipartita del sindaco Mittica insistettero nell’azione gli amministratori che lo seguirono, il rag. Paolo Ful-co e il dr. Bruno Barillaro, che, buon ultimo, ha avuto l’opportunità di assi-stere al completamento della terza fase.

La prima fase è consistita nella redazione di cartografie delle aree segna-late con rilievo architettonico delle strutture monumentali del castello e del borgo medioevale. Con la seconda si è passati a una serie di prospezioni ar-cheologiche integrate (meccaniche e geofisiche) a Mella e a Castellace, men-tre la terza ha riguardato dei saggi di scavo in tutti e tre i siti, saggi che sono stati impiegati alla verifica delle anomalìe avvertite dalle prospezioni ese-guite a suo tempo dalla Lerici. Detti, su precisa indicazione della Sovrinten-denza, sono stati affidati all’Università della Calabria.

L’11 maggio di quest’anno, dopo reiterati rinvii dovuti all’onnipotente burocrazia, si addivenne alla firma di una convenzione tra il Comune e l’Ateneo di Arcavacata. A siglarla in municipio furono allora il sindaco Ba-rillaro e il pro-rettore Pier Augusto Bertacchini. In sul momento si pensò a un (finalmente!) sollecito avvìo dei lavori – sempre procrastinato prima e dopo la firma di quel documento – ma detti poterono iniziare solo a settem-bre inoltrato e, nonostante le intemperanze delle condizioni atmosferiche, i risultati si rivelarono sorprendenti e superiori al previsto.

Nel breve arco di tempo a disposizione il prof. Giuseppe Roma, direttore del Dipartimento di Arti, reduce dalla proficua campagna di Morano, avva-lendosi della competente e qualificata collaborazione offerta, tra gli altri, dai dott. Adele Coscarella e Antonio Lamarca, è riuscito a presentare il vero vol-to dell’antica cattedrale del borgo medioevale. Difatti, se conosciuto era il sito in cui il tempio aveva agito nei secoli, non erano note le sue dimensioni, la tipologia e soprattutto il prospetto, dato in modo errato dal Pacichelli sul fronte-ovest, in netta opposizione, peraltro, a quello evidenziato dal Cassia-

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no De Silva. L’attenta e scrupolosa azione di docenti, collaboratori e studen-ti ha permesso d’individuare per la prima volta, anche se spogli per effetto della razzìa operata nell’immediatezza del dopo terremoto, scalinate, porti-co, rampe di accesso, loculi di seppellimento e tantissimo altro materiale, che, valutato per come merita, sarà quanto prima oggetto di pubblicazione da parte dell’équipe che se n’è occupata41.

Al prof. Maurizio Paoletti è toccata l’indagine a Mella e anche qui il se-condo docente universitario, specializzato in studi e scavi sul territorio di quella che fu la Magna Grecia e parimenti usufruendo di validi professioni-sti e studenti, ha avuto le sue soddisfazioni, che ha trasmesso entusiastica-mente un po’ a tutti. Operando sul versante est, quindi all’opposto dei saggi Visonà e, cioè, nella proprietà Frisina, ha portato alla vista ulteriori resti dell’impianto stradale e di abitazioni, il tutto sicuramente collegabile a quanto messo in luce dallo studioso vicentino. Se ancora ce ne fosse biso-gno, i nuovi reperti hanno evidenziato a iosa che si è ormai di fronte ad un insediamento di grande respiro.

Il prof. Massimo Frasca è stato il responsabile della ricerca in zona di Ca-stellace, presumibilmente nel posto che dovette accogliere l’antica Buzano e da dove proviene, tra l’altro, la lamina bronzea consacrata a Eracle reggino, che si trova custodita al Museo Nazionale della Magna Grecia. Anche a Tor-re Cillèa, nonostante il persistere del cattivo tempo, si sono avuti degli esiti piuttosto incoraggianti, per cui la costanza degli addetti è risultata parimen-ti premiata.

Che fare dopo sì lusinghieri esiti? Senza alcun dubbio, occorrerà andare avanti. Le prospettive ci sono e si offrono piuttosto allettanti, per cui a nes-suno potrà sfuggire l’importanza dell’impresa. Intanto, Sovrintendenza, Comune e Università, in unione d’intenti, si sono detti concordemente inte-ressati al proseguimento degli scavi attraverso un piano sistematico. A tal proposito non verrà meno ancora una volta l’impegno del tecnico comunale, geom. Francesco Scattarreggia, il quale, sempre in prima linea, ha cooperato con le carte e l’assistenza personale diretta.

41 Il lavoro è stato pubblicato due anni dopo. Queste le note bibliografiche: G.

ROMA ed altri, Oppido Mamertina (RC): la cattedrale di Oppido Vecchio (campagna di scavo 1996), “Archeologìa postmedievale società ambiente produzioni”, a. 1998, n. 2, pp. 75-106.

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Domenico Florio autore di commedie per televisione *

Domenico Florio, notaio di Bagnara ma residente e operante da moltis-simo tempo a Oppido, ove ha parentela e al cui attivo si segnalano stimati saggi giuridici in pubblicazioni del ramo, ha un hobby particolare: scrive commedie per la televisione. Tale autore, che ha principiato questa sua sin-golare attività sin dall’avvento del nuovo mezzo espressivo, risulta però al-quanto schivo e riuscirebbe davvero fatica ardua voler rintracciare su di un qualsiasi periodico recensioni che lo riguardano. Talché, onde poter intesse-re un qualche discorso su di lui, non ci rimane altra scelta che soffermarci su alcune opere che ci è stata data l’opportunità di esaminare.

Un primo lavoro del Florio dato alle stampe risulta “Cose di sempre” pubblicato con l’editore Gastaldi di Milano anteriormente al 1960, però il primo in ordine di tempo su cui potremo intrattenerci è “Due madri”, un atto unico che appare concepito nel 1958, ma stampato con il medesimo editore nel 1960. Questa seconda opera, che ha partecipato a un concorso bandito dalla RAI TV, quello stesso in cui primeggiò la notissima “I figli di Medea”, ci è però quanto mai bastevole per captare il pensiero dell’autore sul modo di operare proprio del mezzo televisivo. Scriveva a quel tempo il Florio:

«La Televisione entra nelle case. Appunto perché entra nelle case e nella famiglia, la te-levisione deve procurarsi una produzione propria nel campo dello spettacolo drammatico, creata appositivamente, in cui gli argomenti e le tesi che concernono e rispecchiano la vita e i sentimenti umani, anche i più delicati e i più intimi, lungi dall’essere accantonati o evitati, siano svolti e presentati con determinato ruolo e prudente metodo, in modo che gli adulti li riconoscano in se stessi, e i giovani, anche in prima età, imparino a comprenderli, e a farli

propri, con moderatezza e su base educativa e sentimentale, non materiale».

Con questa introduzione preposta al suo lavoro, l’autore si dimostra convinto assertore della necessità che l’ente televisivo abbia una produzione propria, che dev’essere indirizzata esclusivamente alla famiglia e cioè al fine per cui lo spettacolo è nato. E su tale impostazione, che ancora è assai valida ai nostri giorni, non si può non essere d’accordo con lo scrittore oppidese.

Ecco in breve la vicenda rappresentata nell’atto unico “Due madri”. No-rina Capuani e Antonio Ridelli un tempo sono stati felicemente innamorati, ma poi le loro vie hanno preso indirizzi diversi. I due s’incontreranno anco-ra molti anni più tardi, quando i loro rispettivi figli Antonio e Norina, così chiamati per un mutuo impegno a ricordo del loro sfortunato amore, per un caso verranno a invaghirsi a loro volta. L’innamoramento dei due ragazzi riporta clamorosamente alla ribalta il triste antefatto e da ciò ha origine il

* Pubblicato in “La Voce di Calabria”, n. 17 del 20 luglio 1975, p. 3.

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dramma di Olga, moglie di Antonio e madre della giovane Norina. Questa l’eco angosciata della povera donna, che all’improvviso si ritrova suo mal-

grado al centro di avvenimenti non previsti: «Quando i due ragazzi s’incontreranno e saranno felici, come io lo auguro, altre due persone di riflesso, at-

traverso i loro figli, saranno felici … Cosa sarò io fra di voi? … ». Sembra che alla

fine tutto debba andare alla malora, quando, per l’intervento della non più giovane Norina, l’antica fiamma di Antonio, ci si avvìa a un felice epilogo.

“Ora che sei più vicina”, una commedia in due tempi compresa nella medesima pubblicazione, di cui sopra, è per alcuni versi una composizione biografica. In essa, infatti, si snodano i casi dei notai Enrico Forestini, che fa la spola fra lo studio di Bologna e l’altro di S. Giorgio di Piano e quelli di due giovani fidanzati che svolgono il periodo di praticantato. Il notaio è un uomo solo, che insegue sin dalla prima giovinezza un’ombra - Maria - un uo-mo solo perso in fantasticherie diaristiche, ma di una dirittura morale a tutta prova. Nello studio del notaio si avvicendano i casi umani più disparati e tutto si svolge secondo le norme giuridiche più appropriate. Al finale si giunge in modo imprevisto - la Maria di un tempo è vedova ed è madre del-la praticante Giuseppina. Tale riconoscimento, in verità, ci appare però al-quanto forzato e una concessione al facile sentimentalismo.

L’ultima fatica del notaio commediografo è inedita e si rivela di assai palpitante attualità. Il titolo “Sequestro di un bambino” è di per sé esplicativo e il nuovo atto unico si riallaccia al tristo e noto fenomeno delinquenziale dei giorni nostri. Nel nuovo parto letterario la vicenda si svolge come di consueto. Viene rapito Carlo Spadini, figlio di un noto proprietario di un’azienda agricola e subito ne viene dato l’annuncio per televisione. Primi silenzi e indi il primo approccio con i mafiosi di turno, tramezzante il parro-co d. Luigi. Tutto sembra svolgersi normalmente, ma il coraggio e l’astuzia del padre di Carlo fanno terminare la vicenda in modo amaro per i rapina-tori. Questo nuovo lavoro del Florio è un aperto atto di denuncia di una si-tuazione ormai insostenibile e ne fa le spese il sistema, ove imperversa una classe politica inefficiente e dove la mancanza di fiducia nelle forze di poli-

zia è totale: «Il sistema democratico è meraviglioso, - fa dire lo scrittore al suo personaggio padre del rapito - ed io ne sono stato sempre assertore; ma si deve constatare che, se non è sorretto da robusti pilastri amministrativi si rivela deluden-te, si riduce a un gioco di voti, a un mezzo, a una via per raggiungere il potere, e produce confusione, disordine, abusi e violenza … Tutto si risolve “a telegrammi del Capo dello Stato, solidarietà e cordoglio da parte di ministri civili ed ecclesiasti-ci; concessione di medaglie, invio di corone di fiori; i partiti politici e i sindacati de-

plorano l’accaduto, giornali e televisione non badano a spazio né a tempo …». Quanto dice il Florio è un’amara realtà e il suo coraggioso “J’accuse”, nei

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tempi in cui viviamo, quando regna sovrano soltanto l’amore per il Dio De-naro, resterà purtroppo ancora un grido nel vuoto!

Le commedie di Domenico Florio, costruite a bella posta per la televi-sione, rivelano un’orditura specifica e a tal fine appaiono assai utili al regi-sta i numerosi richiami in esse compresi. Le azioni sono imbastite con ordi-ne e non risultano quasi mai uggiose, mentre le varie scene procedono sem-pre con estremo rigore logico. Il linguaggio è assai sciolto e i dialoghi si rive-lano quanto mai chiari e espressivi.

Giuseppe Pignataro *

Mons. Giuseppe Pignataro, una delle intelligenze più vive espresse da

Oppido Mamertina in questo secolo, si è spento il 18 ottobre 1987 al suo paese natale lasciando tangibile memoria di un impegno profuso soprattut-to nel settore della ricerca storiografica locale. Nato il 3 novembre 1901 da Filippo e da Zoiti Antonina, andò a scuola piuttosto tardi chè nei primi anni, come usava in certi ambiti, perse tempo prezioso a imparare il mestiere di calzolaio nella bottega di mastro Luigi Bonarrigo. Nell’anno scolastico 1916-17 stava completando la sesta classe del corso elementare col maestro Giu-

seppe Scarcella quando, come venne scritto sul registro, «Abbandonò la scuola

perché chiuso nel locale Seminario»42. Espletati gli studi ginnasiali e liceali nel collegio oppidese, si portò al Seminario Pio X di Catanzaro, donde uscì pre-parato a ricevere il sacramento che ne avrebbe fatto un ministro di Dio. Simpatica e toccante e, nel contempo, parecchio indicativa dello stile lettera-rio del futuro scrittore, saldamente ancorato al classico periodare latino e ricco di una verve poetica connaturale e invitante a una piacevole lettura, la lettera, che, giovanissimo, faceva tenere al suo vescovo, mons. Galati, il 27 novembre 1923 da Catanzaro, probabilmente alla vigilia del conseguimento degli ordini minori. Di seguito l’interessante missiva, che rivela in pieno il felice stato di grazia raggiunto da chi aveva intrapreso con grande aspetta-tiva un cammino prescelto, ma che in certo modo sembrava frenato da qual-che esitanza del presule o da lentezza nella procedura, se non proprio da una malattia che lo aveva fatto penare intorno a quell’epoca: «Eccellenza C’è qui una scheda che io ho riempito così; tra una lacrima e un sospiro. La notte scorsa non ho potuto chiudere un occhio, come se il mio capo non avesse un

guanciale ove poggiarsi. Eppure lo spirito si preparava a porre le fondamenta del suo castello!

* Pubblicato in “Historica”, a. XL-1987, n. 4, pp.161-167. 42 Archivio Scuole Elementari Oppido Mamertina.

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Ella comprenderà: è il primo gradino all’ascesi trionfale. Il mio cuore sconfina in un sen-so soave, per accogliere un infinito. Io non so, io non so più. Tra fibra e fibra scorrere mi sen-to il brivido dei piani al ridestarsi primaverile.

Ora le domanderei se ella avesse cosa in contrario al pio cominciamento! No! … ed allora … Ma veda lei, ma veda lei …

Non altro che la mia fidanza intera nel suo paterno volere. Le bacio il S. A. Dev.mo in X°

Sem. Pignataro Giuseppe»

In effetti, ancora prima il seminarista Pignataro era incappato in una de-pressione piuttosto seria. Ecco come il rettore d. Francesco Mennini, ne scri-veva premurosamente all’Ordinario di Oppido il 23 maggio: «Mi son dovuto decidere a mandare per qualche giorno in famiglia Pignataro, perché mi

dava segni un po’ preoccupanti di prostrazione nervosa. Fare una cura qui sarebbe stato inutile, perché gli è necessario riposo assoluto, distrarsi, e

non pensare assolutamente allo studio. Spero che riprenderà in breve le sue forze»43. D. Giuseppe fu ordinato il 12 settembre del 1926, ma già da parecchio le

sue peculiari doti risultavano abbastanza conosciute e apprezzate. Difatti, nel comunicare la fausta notizia ai lettori, il periodico Albòri, che lo annove-

rava tra i collaboratori, lo presentava provvisto di «brillante coltura, massime

nelle discipline letterarie e storiche, quale gentile poeta e rivolto a studi di storia

locale con raccolto fervore»44. Dopo aver superato l’importante traguardo, il neo sacerdote venne pre-

sto incaricato dell’insegnamento in Seminario, dove in successione di tempi ricoprirà anche il ruolo di preside. Quindi, intraprese ad ascendere la scala gerarchica dei benefìci capitolari fino a raggiungere la vetta quale canonico arcidiacono. Per le due attività gli rimasero appiccicati come etichette i due titoli antonomastici di professore e canonico, con cui fu solitamente chiamato sia da coloro ch’erano poi divenuti suoi confratelli che dai professionisti lai-ci, i quali, anche se avevano percorso altre vie, erano stati pur sempre istra-dati da lui privatamente. Tra gli altri incarichi assunti prevale quello di ret-tore della chiesa filiale di S. Giuseppe, dove officiò per parecchi anni.

Formatosi in buona sostanza a quel cenacolo letterario, che negli anni ’20 e ’30 agiva tra Oppido e Cittanova e aveva quali punti di forza i fratelli De Cristo, prese viva parte a molte iniziative offrendo una fattiva collaborazio-ne. La sua attività di ricercatore lo fece entrare poi in rapporti con qualificati rappresentanti della cultura, come il tedesco Gerhard Rohlfs, Alfonso Fran-gipane, Raffaele Corso, Alessandro Monteleone, Raffaele Lombardi Satriani,

43 AVO. 44 “Albòri”, a. II-1926, nn. 17-18.

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i vari Sovrintendenti alle Antichità P. E. Arias, Alfonso De Franciscis e Giu-seppe Foti, tanto per citarne alcuni, che gli concessero la loro amicizia e sti-ma. Nel 1933 e 1936, dopo aver studiato con impegno presso l’Archivio Se-greto Vaticano i trascorsi plurisecolari della sua Oppido, diede alle stampe i primi rilevanti saggi delle sue ottime possibilità, dei lavori condotti con par-ticolare serietà scientifica, i due opuscoli di “Appunti di storia calabrese”, che avrebbero fatto dire all’Orsi di trovarsi di fronte a uno scritto notevole. In ve-rità, entrambe le fatiche, condotte con rigoroso metodo in documentazioni del tutto inesplorate, apportarono nuova e più completa luce all’iter storico di una cittadina fino a quel tempo proposto in modo poco chiaro e sorretto soltanto da fonti di scarso credito o da opere inficiate da tutta una serie di plagi e nelle quali gli autori avevano fatto a gara a copiarsi l’un l’altro. Per i meriti acquisiti sul campo fu nominato Ispettore Onorario alle Antichità e Belle Arti e Deputato di Storia Patria per la Calabria. Negli anni ’50, in se-guito all’istituzione in Palmi di un Museo del Folklore, cui consegnò alcuni pezzi di un certo valore, costituì a Oppido l’Associazione Amici del Folklo-re, che indisse una riuscita serie di applaudite conferenze su temi di caratte-re etnografico tenute da giovani universitari che oggi sono tutti stimati pro-fessionisti.

Il canonico Pignataro s’interessò variamente di poesia, folklore e storia calabrese in generale con serietà d’intenti, ma gli argomenti preferiti furono le vicende riguardanti Oppido, Gerace e Polsi, luoghi altamente significanti nella cultura religiosa della provincia reggina, ai quali consacrò trattazioni di particolare rilievo, che furono ospitate in gran parte da “Historica”, la ri-vista dell’amico e conterraneo Prof. De Giorgio, cui diceva sempre di voler riservare i lavori ritenuti più interessanti e da “Brutium”. Ma, pur avendo prodotto tanta messe, egli non riuscì o non volle portare a termine un’opera organica che si occupasse per intero della storia di Oppido vecchia e nuova per come ci si attendeva e per come gli annunci frequenti di un’imminente edizione di essa facevano presagire. Ora purtroppo, avvenuto l’inevitabile, non resta che confidare negli eredi e far voti che quanto non è stato possibile materializzare nel corso di una lunga esistenza, venga finalmente offerto all’attenzione di cittadini e studiosi almeno come opera postuma, al fine di dare un più giusto merito a chi dedicò tutta la vita allo studio.

Questo il testo di un manifesto con cui l’Amministrazione Comunale oppidese volle commemorare la figura di mons. Pignataro: «Dell’Illustre Estinto ricorda dolente alla Cittadinanza che fu letterato dalla fervida men-

te e dalla vasta cultura. Appassionato cultore di storia patria fu studioso attento e felice scrit-tore. Amò la sua terra. Diede lustro alla sua gente e profuse sapere a generazioni di giovani che restano perennemente riconoscenti alla sua opera educatrice. Con diligenti ricerche e

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scritti originali validamente contribuì a dare testimonianza ai fasti della sua Città e alle sue

remotissime origini».

Bibliografìa La lauda dell’olivo, poesia in “Albòri” a. 1926, nn.15-16; Di alcuni laterizi rinvenuti nel contado di Oppido Mamertina, ivi, nn. 17-18; Francesco d’Assisi e l’amore delle sue creature, ivi, nn. 22-23; Frate Francesco, ivi, n. 39, p. 3; Edicola, poesia in “Fede ne Civiltà”, a. I-1926 (3a s.), n. 40, p. 3; Mistici calabresi, “Albòri”, a. 1927, n. 7; Refugium peccatorum ora pro nobis! poesia, ivi, n. 10; A Polsi, poesia, ivi, nn. 14-15; Aurora, poesia, ivi, n. 16; Raccoglimento, poesia, ivi, nn. 18-19; Ninna nanna, poesia, ivi, nn. 22-23; Paesaggi della Piana, poesia, “La coltura regionale”, a. 1928, n. 9; Villa Abbandonata, poesia, a. 1930, nn. 2-3; Meditazione, ivi, n. 4; Appunti di storia calabrese (Un documento del 1188-L’origine della sede vescovile-

Uno sguardo alla cronotassi dei vescovi), Terranova S. M. 1933, Tip. SS. Crocifisso, pp. 14+note;

Appunti di storia calabrese – II (La cronotassi dei vescovi-Il rito greco-La congrega del SS.-Le relationes del Perrimezzi-I diaconi selvatici-Il monastero della Purificazio-ne-Il palazzo vescovile-Il seminario diocesano-La cattedrale-Il banco del maestra-to-La chiesa di Bagnara), Terranova S. M. 1936, pp. 25+note;

Divinazione idrica in Calabria,” Folklore della Calabria”, a. 1956, nn. 2-3; Culto e storia di S. Fantino Confessore Patrono di Lubrichi, Reggio Cal. 1958, Tip. Leo,

pp. 32; Iscrizione ebraica di Oppido Mamertina, “Historica”, a. 1959, n. 6; Un Vescovo di Calabria nel secolo XV-Athanasio Chalkèopoulos, “L’Avvenire di Cala-

bria”, a. 1959, nn. 29-30; Il “Liber Visitationis” di Athanasio Chalkèopoulos, ivi, n. 31 (i due articoli sul Calceopilo

hanno visto la luce anche su “Parole di vita”, a. 1959, nn. 25-26-27); Il monastero di S. Bartolomeo di Trigona, a. 1959 c.; Carte vecchie e tempi nuovi in Oppido Mamertina (con pseudonimo Francesco S. De

Maistre), “La Voce della Piana, a. 1960, n. 5; Nuovi luci storiche su la Calabria e sul santuario di Polsi, “Brutium”, a. 1960, n. 5; Pietra e legno nei riti di Polsi, ivi, n. 6; Pietra e legno elementi della liturgìa che regola il primo pellegrinaggio a Polsi, “Il Giornale

d’Italia”, 2-9-1960; La Chiesa di S. Maria di Loreto in Filogaso e una bolla del 1523, “Historica”, a. 1961, nn.

5-6; Il cardinale Bessarione Amministratore della Diocesi di Gerace, “La Voce di Calabria”, a.

1963, n. 49 e in estratto presso Tip. Diaco, Oppido Mam.;

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Due lettere di Costantino Lascaris documenti per la storia culturale di Gerace, “Historica”, a. 1963, n.3;

Bessarione e il monachesimo greco, non si hanno notizie bibliografiche; Un vescovo di Gerace alla Corte di Cipro (1467-68) e un matrimonio mancato, “Historica”,

a. 1964, n. 1; Noterelle carbonare, ivi, a. 1965, nn. 2-3; Il dottor fisico Domenico Campanella di Stignano, “Brutium”, a. 1967, n. 3; Ex-voto di santuari di Calabria, “Historica”, a. 1967, nn. 4-5; Per una storia dell’Episcopato di Mons. Giuseppe Maria Perrimezzi in Oppido di Calabria

(1714-1734), ivi, aa. 1968-69, nn. 4-1; Polsi verso la fine del secolo XVII, “Brutium”, a. 1970, nn. 1-3; “Historica”, a. 1971, n. 1; Monumenti bizantini-Lettera al prof. Domenico Minuto, “Brutium”, a. 1971, n. 2; I Greci di Papanicefore, “La Voce di Calabria”, a.?, n.?; Il Typicon di Bova, “La Voce di Calabria”, a.?, n.?; Per l’identificazione dei Santi Fantino, “La Voce di Calabria”, a.?, n.?; Sant’Agata ovvero Oppido, “La Voce di Calabria”, a. 1972 e in estratto presso Tip. Dia-

co; Medma un’antica città greca dell’Italia Meridionale, “Brutium”, a. 1972, n. 2; Polsi resta ancora un mistero di combinazioni e d’interessi-altri documenti scoperti, ivi, a.

1972, n. 4; Il Duca di Caivano, il vescovo di Oppido in Calabria e l’abolizione della Cassa Sacra, “Hi-

storica, a. 1973, n. 2; La vera storia del Santuario di Polsi, “Comunità”, a. 1974, n. 2; Il cantiere di mons. Coppola, “Brutium”, a. 1974, n. 4;

Candido Zerbi e la “Cronistoria” di Oppido, “”, a. 1974, n. 1; Settecento religioso in Calabria-Luci ed ombre-La pretesa autobiografia di P. Antonio

dall’Olivadi (1653-1720), “Historica”, a? 1974, nn. 1-2; La Certosa di Serra S. Bruno negli scritti di L. Palustre, “Calabria Turismo”, a. 1974, nn.

19-20; Le campane (di Radicena), “Comunità”, a. 1974, n. 15; La vecchiona, ivi, n. 17; L’occupazione militare francese, “Historica”, a. 1975, n. 1; Per la croce di Polsi (in polemica con G. Gnolfo), “Brutium, a. 1975, nn. 2-3; Le campane e la fiera del 25 marzo, festa dell’Annunciazione a Oppido di Calabria,

“”, a. 1975, n. 1; Il culto di Maria SS. Annunziata in Oppido di Calabria, Tip. Formica, Taurianova 1975,

pp. 60); Giovanni Conia a Oppido di Calabria, “Historica”, a. 1975, n. 3; Il barone Raffaele Lombardi Satriani, ivi, a. 1976, n. 1; Un popolano liberale, ivi, a. 1977, n. 2; D. Candido Carbone di Pedàvoli, ivi, a. 1977, n. 3; Un vecchio giornale calabrese, ivi, a. 1978, n.3; Il museo del Folklore in Palmi, ivi, a. 1978, n. 4;

44

Il musicista Giuseppe Nunziato Muratori, i suoi parolieri e Giovanni Conia, ivi, a. 1979, n.3;

Poesie calabre del canonico Conia, Tip. Marafioti, Polistena 1980, ed. reprint, con ag-giunta dell’articolo apparso in “Historica” dell’anno 1975;

Il culto delle Madonne nere e la Vergine nera di Seminara, “Historica”, a. 1980, n. 1 e in ed. reprint, presso Tip. Diaco con pref. del vescovo Benigno L. Papa, a. 1986;

Il monastero delle clarisse in Oppido, Tip. Villivà, Oppido M. 1981; pubblicato dalla Pro Loco in occasione della manifestazione “Alla riscoperta di Oppido Vecchio” del 19 agosto 1981;

1883: la crisi agraria, “Historica”, a. 1981, n. 4; La chiesa di S. Maria di Popsis, ”Brutium”, a. 1981, n. 3; Per una storia del Santuario di Polsi-Lettera indirizzata al Re Ferdinando IV il 1° Aprile 1802 da mons. Vincenzo Barisani Vescovo di Gerace (1797-1806), ivi, n. 4; L’exequatur a Mons. Curcio, “Historica”, a. 1982, n. 4; Censure sopra il libro di Padre Mostro-inedito di Tommaso Campanella, ivi, a. 1983, n.2; La chiesa della Madonna del Buon Consiglio e la Confraternita di S. Giuseppe in Oppido,

Tip. Marafioti, Polistena 1985, pp. 23; La Divina Pastorella (precisazione), “Brutium”, a. 1985, n. 3; I Gesuiti a Oppido, “Historica”, a. 1986, n. 1; Mons. Alessandro Tommasini, ivi, a. 1986, n. 2.

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INDICE

- Disavventure, amministrative e non, dei sindaci

di Oppido e di Castellace nel '700……………………………………pag. 3

- Iniziative vescovili nel campo dell'assistenza:

Il monte frumentario di Oppido……………………………………. ..“ 5

- Giuseppe Maria Grillo……………………………………………………” 12

- Rapporti di Diego e Raffaele Corso con

Oppido Mamertina……………………………………………………..” 14

- Domenico De Giorgio (1908-2003)………………………………………” 21

- La situazione archeologica:

Altopiano delle Melle: un “mistero” da scoprire…………………….” 28

- La misteriosa città di contrada Mella …………………………………..“ 32

- Risorgeranno dalle ceneri Mamerto, Buzano

e la vecchia Oppido ? …………………………………………………..“ 34

- Domenico Florio autore di commedie

per televisione …………………………………………………………..“ 37

- Giuseppe Pignataro ………………………………………………………“ 39

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Collana "Quaderni Mamertini"

1 - Un'isola catanzarese in provincia di Reggio Calabria 1987 2 - Zibaldone calabrese: briciole d'archivio 1991 3 - Postille a S. R. “ 4 - Rocco Liberti Bio-bibliografia 1993 5 - Tresilico “ 6 - Controcorrente a E. D. 1997 7 - Santa Cristina (d'Aspromonte) 1998 8 - Da Roubiklon a Lubrichi “ 9 - Messignadi 1999 10 - 5 febbraio 1783 Magnum ludum “ 11 - Tortora “ 12 - Castellace “ 13 - Sanfedisti Giacobini Briganti nella Piana di Gioia 2000 14 - Ajeta “ 15 - Il culto della Madonna della Catena nell'Italia Meridionale “ 16 - Zurgonàdi “ 17 - Pirateria e guerra di corsa “ 18 - Terranova (di San Martino del Monte) - II - 2001 19 - Momenti e figure nella storia della vecchia e nuova Oppido - II - “ 20 - Cosoleto “ 21 - Sitizano “ 22 - Le confraternite nell'area della diocesi di Oppido Mamertina-Palmi 2002 23 - La cattedrale di Oppido Mamertina “ 24 - Pedàvoli “ 25 - I Vescovi di Oppido Mamertina-Palmi - II - “ 26 - Paracorìo “ 27 - Rizziconi e Drosi “ 28 - Tresilico “ 29 - Momenti e figure nella storia della vecchia e nuova Oppido - III - “ 30 - Palizzi e Villa San Giovanni nel primo ventennio del XX secolo “ 31 - Palmi “ 32 - Seminara “ 33 - Polistena “ 34 - Momenti e figure nella storia della vecchia e nuova Oppido - IV “ 35 - Geppo Tedeschi l'usignuolo d'Aspromonte ed altri poeti autentici 2003 36 – Percorsi storici delle Comunità della Piana di Terranova – I - “ 37 – Una Comunità tra fede e malafede – Oppido Mamertina e la “sua” diocesi “ 38 - Percorsi storici delle Comunità della Piana di Terranova – II - “ 39 - Piminoro IIa edizione “ 40 - Momenti e figure nella storia della vecchia e nuova Oppido – V - “

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41 - Feudi e feudatari nella Piana di Terranova “

42 - Percorsi storici delle Comunità della Piana di Terranova – III - “

43 - Fede e Società nella Diocesi di Oppido-Palmi – II - “ 44 - Percorsi storici delle Comunità della Piana di Terranova – IV- “


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