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Riflessioni sui concetti di identità, differenza e diversità

Date post: 12-Nov-2023
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Aldo Stella IDENTITA’, DIFFERENZA E DIVERSITA’: SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULLA DIALETTICA IMMANENTE ALLA RELAZIONE EDUCATIVA 1. Identità e differenza Per avviare la riflessione, ritengo essenziale indicare, per linee essenziali, la tematica che concerne il concetto di identità, inteso nella sua accezione più ampia, ossia nel senso di una qualunque identità determinata. In effetti, la questione dell'identità è questione nodale. Essa riveste un ruolo fondamentale non solo in ambito psicologico-psicoanalitico e in ambito pedagogico, ma anche in ambito filosofico, dove si cerca, appunto, una fondazione onto-logica della cosiddetta “esperienza”. L'espressione “identità” deriva dalla espressione latina idem, la quale è un pronome che sta ad indicare “il medesimo”, “lo stesso”, “la medesima cosa”. Allorché si usa il termine “identico”, si intende dunque indicare ciò che permane il medesimo nonostante il variare del tempo e dello spazio: l'identico non muta, sì che il suo permanere un medesimo risulta proprio in forza del confronto con qualcosa che invece muta. Se tempo e spazio non mutassero, allora non apparirebbe la medesimezza dell'identico, ossia il suo permanere lo stesso in spazi diversi e in tempi diversi. Già da questa prima considerazione risulta evidente che l'identità si costituisce in forza di un confronto: un confronto con sé e un confronto con qualcosa di diverso da sé. Il confronto con la differenza, rappresentata qui da spazio e tempo, consente di precisare che la cosa è rimasta identica a se stessa. Senza il confronto, e cioè senza la relazione, non si porrebbe l'identità, giacché quest'ultima si esprime come una relazione nella quale il primo termine risulta identico al secondo: è la forma dell'identità con sé di ogni cosa, dove il “con” indica, appunto, che la cosa è se stessa perché si identifica con sé, si riferisce a sé. La questione è sottile, quanto decisiva, e merita il necessario approfondimento. Per precisarla ulteriormente, muovo da questa domanda: che cosa consente di porre la determinatezza dell'identità? In altri termini: che cosa consente all'identità di porsi in forma determinata? La risposta non può che essere la seguente: il limite. Il limite è ciò che de- termina l'identità, perché le consente di avere una configurazione che la specifica e, nello specificarla, la distingue da ogni altra identità. E questo è un punto di estrema rilevanza. È innegabile che il limite, e solo il limite, consente la posizione dell'identità determinata. È però altrettanto innegabile che il limite presenta due facce, una che guarda il limitato e una che guarda il limitante, così come accade se si disegna su una lavagna una circonferenza e si definisce con la lettera “A” ciò che è contenuto in essa e con “non A” ciò che le è esterno. Anche l'immagine rivela che la posizione di “A” è vincolata alla posizione di “non A”, nel senso che “A” si pone solo perché si differenzia da “non A”, ma la differenza, “non A” appunto, è essenziale perché “A” si presenti nella sua forma specifica. Volendo esprimere tutto ciò in forma concettuale, si dovrà affermare che l'identico si pone come tale in virtù del suo essere se stesso e non altro: “A” è “A” per la ragione che non è “non A”, sì che l'identità si rivela, a rigore, esclusione della differenza. Questo è precisamente il nocciolo della questione: la differenza viene bensì esclusa, ma per venire esclusa essa deve venire richiesta, dal momento che si ha bisogno della sua presenza e se ne ha bisogno proprio per poterla escludere. Se, insomma, “non A” non fosse, neanche “A” sarebbe, così che la relazione negativa a “non A” è condizione della posizione stessa di “A”.
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Aldo Stella IDENTITA’, DIFFERENZA E DIVERSITA’: SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULLA

DIALETTICA IMMANENTE ALLA RELAZIONE EDUCATIVA

1. Identità e differenza

Per avviare la riflessione, ritengo essenziale indicare, per linee essenziali, la tematica che concerne il concetto di identità, inteso nella sua accezione più ampia, ossia nel senso di una qualunque identità determinata.

In effetti, la questione dell'identità è questione nodale. Essa riveste un ruolo fondamentale non solo in ambito psicologico-psicoanalitico e in ambito pedagogico, ma anche in ambito filosofico, dove si cerca, appunto, una fondazione onto-logica della cosiddetta “esperienza”. L'espressione “identità” deriva dalla espressione latina idem, la quale è un pronome che sta ad indicare “il medesimo”, “lo stesso”, “la medesima cosa”.

Allorché si usa il termine “identico”, si intende dunque indicare ciò che permane il medesimo nonostante il variare del tempo e dello spazio: l'identico non muta, sì che il suo permanere un medesimo risulta proprio in forza del confronto con qualcosa che invece muta. Se tempo e spazio non mutassero, allora non apparirebbe la medesimezza dell'identico, ossia il suo permanere lo stesso in spazi diversi e in tempi diversi.

Già da questa prima considerazione risulta evidente che l'identità si costituisce in forza di un confronto: un confronto con sé e un confronto con qualcosa di diverso da sé. Il confronto con la differenza, rappresentata qui da spazio e tempo, consente di precisare che la cosa è rimasta identica a se stessa. Senza il confronto, e cioè senza la relazione, non si porrebbe l'identità, giacché quest'ultima si esprime come una relazione nella quale il primo termine risulta identico al secondo: è la forma dell'identità con sé di ogni cosa, dove il “con” indica, appunto, che la cosa è se stessa perché si identifica con sé, si riferisce a sé.

La questione è sottile, quanto decisiva, e merita il necessario approfondimento. Per precisarla ulteriormente, muovo da questa domanda: che cosa consente di porre la determinatezza dell'identità? In altri termini: che cosa consente all'identità di porsi in forma determinata? La risposta non può che essere la seguente: il limite. Il limite è ciò che de-termina l'identità, perché le consente di avere una configurazione che la specifica e, nello specificarla, la distingue da ogni altra identità. E questo è un punto di estrema rilevanza.

È innegabile che il limite, e solo il limite, consente la posizione dell'identità determinata. È però altrettanto innegabile che il limite presenta due facce, una che guarda il limitato e una che guarda il limitante, così come accade se si disegna su una lavagna una circonferenza e si definisce con la lettera “A” ciò che è contenuto in essa e con “non A” ciò che le è esterno. Anche l'immagine rivela che la posizione di “A” è vincolata alla posizione di “non A”, nel senso che “A” si pone solo perché si differenzia da “non A”, ma la differenza, “non A” appunto, è essenziale perché “A” si presenti nella sua forma specifica.

Volendo esprimere tutto ciò in forma concettuale, si dovrà affermare che l'identico si pone come tale in virtù del suo essere se stesso e non altro: “A” è “A” per la ragione che non è “non A”, sì che l'identità si rivela, a rigore, esclusione della differenza.

Questo è precisamente il nocciolo della questione: la differenza viene bensì esclusa, ma per venire esclusa essa deve venire richiesta, dal momento che si ha bisogno della sua presenza e se ne ha bisogno proprio per poterla escludere. Se, insomma, “non A” non fosse, neanche “A” sarebbe, così che la relazione negativa a “non A” è condizione della posizione stessa di “A”.

2. La relazione come costitutiva dell'identità Per esprimere in forma più chiara un tema così rilevante, prendo in esame la definizione di identità che ci viene offerta da Aristotele nel V libro della Metafisica: «L’identità è una unità d'essere o di una molteplicità di cose, oppure di una sola cosa, considerata però come una molteplicità: per esempio come quando si dice che una cosa è identica a se stessa, nel qual caso essa viene considerata appunto come due cose»1.

L'identità esprime, dunque, o che una cosa è identica a un'altra (A id. B, A è B) o che una cosa è identica a se stessa (A id. A, A è A). Nell'un caso come nell'altro è da rilevare che l'identità si costituisce come identità tra due termini. V'è da sottolineare, pertanto, quanto era già emerso e che trova ora conferma nel passo di Aristotele: la relazione è costitutiva dell'identità. L’alterità (non A), infatti, non può non venire richiesta, anche se viene richiesta per venire negata, affinché risulti la medesimezza sostanziale dei termini che la forma, invece, presenta come distinti. Ciò vale anche quando si afferma l'identità della cosa con se stessa. Anche questa identità, daccapo, si esprime nella forma “A è A”, ossia come una relazione, sancita dalla copula “è”, e tale relazione altro non è che un’identità, proprio per la ragione che il primo termine coincide con il secondo. D'altra parte, però, è da rilevare che, se i termini non si disponessero come due, allora non si potrebbe rilevare – né si potrebbe affermare – il loro essere un medesimo. Con questa conclusione: la relazione funge e opera nel concetto di identità. Solo per la ragione che i termini sono due, di essi può dirsi l'identità. Se non che, non appena si dice l'identità, la loro differenza dovrebbe venir meno, dovrebbe sparire: i due, poiché identici, sono in effetti uno.

Anche questo è un punto da mettere bene in evidenza. Allorché si afferma l'identità, questa deve venire considerata come un’identità di due cose (o, che è lo stesso, di una cosa con se stessa), ma, proprio per la ragione che di tali cose si afferma l'identità, esse non possono non risultare, in effetti, un'unica realtà. La dualità, che è solo formale, funge dunque da premessa per poter pervenire all'unità sostanziale, alla medesimezza, che è ciò che si intende affermare allorché si afferma l'identità. Per affermare lo idem, o l'unità, si deve, insomma, comunque presupporre la differenza, così che, anche quando affermo l'identità della cosa con se stessa, sono costretto a sdoppiarla, a reduplicarla, ossia a introdurre una relazione nel suo essere, onde inscrivere la molteplicità all'interno dell'unità. Per questa ragione Aristotele afferma che una cosa viene considerata come due cose.

Per le ragioni addotte, l'identità non può mai svincolarsi dalla differenza, sì che, se concettualmente essa dovrebbe valere come un processo in cui l'esito, l'unità, dovrebbe attestare il toglimento del punto di partenza (la dualità), è altresì da rilevare che tale esito non si realizza mai pienamente di fatto, ma mantiene soltanto valore ideale: nessuna identità può valere come assolutamente autonoma e autosufficiente, anche se questo dovrebbe essere il suo autentico significato. Che è quanto dire: l'unità (l'identità) effettiva dovrebbe valere come una ablatio alteritatis, la quale, però, non si pone mai veramente e proprio per questa ragione l'identità tende ad esprimersi nella forma dell’uguaglianza. Quest'ultima mantiene valenza relazionale, così come, del resto, anche l'unità si esprime come unificazione, come sintesi, nelle quali la dualità non viene definitivamente superata, ma innegabilmente conservata.

Ciò che intendo affermare – e che è stato già espresso, ma in forma cursoria – è che l'identità ha valore ideale. All'identità, intesa nella sua purezza ideale, non si perviene mai veramente; di fatto l'identità, quella che ciascuna cosa “ha” con se stessa, mantiene la differenza come intrinseca e costitutiva. Non per niente la formula “A id. A” (“A = A”, “A è A”) esprime, anche a livello grafico, la dualità, così che non si potrà evitare di parlare di

1 Aristotele, Metafisica, III, 4, 999 a, Rusconi, Milano 1978, p. 151.

relazione di identità, come appunto accade nell'ambito proprio della logica formale. Del resto, se si afferma, come ho fatto in precedenza, che “non A” è essenziale ad “A” per costituirsi come “A” – ed è essenziale anche se “A” si pone come esclusione di “non A” –, allora risulta chiaro che la differenza non è estrinseca all'identità, ma la costituisce dal suo interno. Non ha senso, insomma, pensare che l'identità si costituisca in forma autonoma e indipendente e solo in un secondo tempo, a muovere da questa sua posizione autosufficiente, possa anche relazionarsi alla differenza. Non ha senso perché la relazione (anche se negativa) alla differenza è la condizione che consente di determinare “A”: dunque, la relazione alla differenza è costitutiva dell'identità e intrinseca alla sua struttura.

Proprio per questa ragione ho affermato che ogni identità è, in effetti, in sé relazione: relazione alla differenza che è esterna, ma anche relazione alla differenza che è interna, le quali altro non sono che le due forme in cui si esprime la differenza. Lo stesso principio di identità, che afferma che “ciascuna cosa è identica a se stessa”, non fa che evidenziare quanto ho cercato di indicare fin qui. Nel dire “identico a sé”, infatti, si fa comunque valere una relazione, perché “identico” equivale a “identico a”, così che il riferimento si impone innegabilmente. Dire identico a sé, pertanto, significa porre una relazione con sé, ossia uno sdoppiamento di sé con sé, sdoppiamento che implica una relazione nella quale i relati sono diversi per essere due, ma sono identici per ricomporsi effettivamente nell'unità. 3. L’io, l'altro, il diverso Se quanto è stato detto vale per ogni identità determinata, a fortiori esso vale anche per quella particolare identità che è l’identità personale, che potremmo anche indicare con l'espressione “io”.

L’io, in apparenza, risulta porsi in forma autonoma e autosufficiente. A muovere da questa sua presunta consistenza indipendente, esso si relazionerebbe al mondo e ad ogni altro io. Se non che, l’io assume una posizione determinata solo in forza della relazione all'altro da sé, sì che è solo apparenza quella che lo descrive come irrelato e indipendente. Più radicalmente, esso si pone solo all'interno della relazione e, pertanto, il movimento dell’entrare e dell'uscire dalla relazione si rivela un movimento del tutto parvente.

Intendo dire che l’io può uscire da una determinata relazione (con l'oggetto x) ed entrare in un'altra determinata relazione (con l'oggetto y), ma non può porsi prescindendo dalla relazione come tale. Esso, insomma, si pone solo in quanto si rapporta all’altro, perché senza la relazione all'altro l’io non si determina come “questo” io, diverso da ogni altro, ma in relazione con il mondo e con gli altri io.

Da questo punto di vista, la differenza risulta costitutiva dell'identità e quell’io che pretendesse di negare l'altro – e negare è necare, cioè uccidere – non farebbe che negare se stesso. Senza l'altro, l’io non sarebbe: per questa ragione l’io dovrà imparare a dialogare con l'altro, giacché dialogando con l'altro, e solo dialogando con l'altro, l’io troverà un'armonia con se stesso.

Il punto è veramente importante. Esso consente di intendere la ragione profonda per la quale la differenza, l'altro io, non solo deve venire tollerato, ma deve venire accolto, amato, giacché, solo accogliendo l'altro, l’io è veramente in grado di accogliere e di amare anche se stesso.

L'altro, questo è ciò che intendo affermare, non è qualcosa di estrinseco, che possa venire accantonato e respinto, ma vale come l'essenza stessa dell’io, che è sé solo in quanto esce da sé e si incontra con il suo fondamento autentico, che è l'altro.

Da questo punto di vista, se con l'espressione “diversità” intendiamo la differenza intesa nella sua forma estrema – facendo valere l’etimo dell'espressione, che indica il di-vertere, ossia il “volgersi altrove, il “separarsi” –, se ne dovrà allora concludere che è proprio con la

diversità che l’io dovrà imparare a dialogare. Il “diverso” può trovare espressione in forme molteplici, da quella che lo descrive come

il più lontano dalle nostre idee a quella che lo assume come appartenente ad un altro paese, ad un'altra razza, ad un'altra religione, e così via. Anche il portatore di deficit, il disabile, il diversamente abile è un altro che può venire vissuto per la sua lontananza, la quale a volte risulta inquietante, perturbante, destabilizzante. E tuttavia, è con chi viviamo come massimamente lontano che dobbiamo imparare ad instaurare un rapporto intimo, profondo, significativo, giacché avvicinare il diverso significa avvicinare veramente l’io a se stesso, significa cioè riconsegnargli quell’identità che inizialmente poteva sentire come alienata e perduta.

Saper dialogare con il diverso, o con colui che “inizialmente” viene avvertito come tale, significa aprire l’io ad orizzonti nuovi, a nuove esperienze; equivale, cioè, a consentirgli un arricchimento che certamente sarebbe stato impensabile se l’io si fosse chiuso e avesse preteso di avere rapporti solo con chi sente massimamente vicino.

Non solo, dunque, la differenza è essenziale all'identità, ma altresì la diversità esprime la ricchezza più autentica della vita, l'esperienza più significativa che l’io fa nel suo esistere. Chiudersi all'esperienza della diversità equivale a mutilare l’io, a costringerlo entro ambiti angusti, in un arroccamento difensivo che non fa che aumentare la sua sofferenza, perché aumenta la sua paura.

«Solo chi non ha paura di perdersi si salverà» recitano i Vangeli e il significato di questa espressione è profondo: chi si attacca ostinatamente a se stesso e alle proprie cose è destinato a perdersi, perché si consegna ad una vita chiusa e ottusa, segnata dalla paura e dall'aggressività, che alla paura è inesorabilmente vincolata. Di contro, chi si apre alla differenza e, più radicalmente, alla diversità impara a distaccarsi da sé, si dispone a quell'oblio di sé che è condizione per una vita serena e armoniosa, per un incontro fattivo con l'altro e per una condizione di autentico benessere.

In questa prospettiva, è l'altro che salva l’io dal male radicale, che è precisamente il suo egocentrismo. Quest'ultimo configura il male radicale perché vale come la radice di ogni altro male. Non è soltanto la causa di ogni pretesa, di ogni violenza e di ogni sopraffazione, ma è anche la ragione del conflitto che l’io ingaggia con se stesso: l'ego sembra volere il bene dell’io, e invece lo porta alla rovina.

In effetti, la nostra condizione naturale ci porta ad osservare il mondo sempre e solo a muovere dal punto di vista dell’io, sì che attaccarsi a tale prospettiva, fino al punto di assolutizzarla, sembra la via più semplice e spontanea. Ma proprio in questa condizione apparentemente naturale si nasconde la somma insidia. Non andrà mai dimenticata la seduzione serpentina che induce l'uomo e la donna a commettere il peccato originale: essi mangiano la mela perché vengono sedotti dall'idea di diventare come Dio.

Il sogno onnipotente riemerge continuamente nel cuore dell'uomo, alimentato dalle sue brame di potere, espressione di un egocentrismo che non vuole incontrare ostacoli alle proprie mire egemoniche. Ebbene, questo sogno onnipotente si capovolge sempre e comunque in penosi sensi di impotenza, i quali, a loro volta, producono nuovi sogni onnipotenti, nell'illusione che questi possano compensare il senso di inferiorità e di fragilità, in un circolo vizioso che strangola l’io e lo condanna ad una condizione servile.

Il circolo vizioso – e dunque la condizione servile – può venire spezzato solo da una scelta coraggiosa dell’io, quella di staccarsi dall'ego e di aprirsi all'altro, che significa aprirsi alla vita, con la sua ricchezza, la sua varietà, la sua difformità, la sua diversità.

Aprirsi alla differenza che sta di fronte all’io, ancor meglio alla diversità, equivale, del resto, a creare le migliori condizioni per aprirsi alla differenza che è interna all’io e che lo costituisce intrinsecamente. In effetti, nel momento stesso in cui affermiamo che la differenza è essenziale all'identità, noi ci sottraiamo alla considerazione esclusivamente rappresentativa e approdiamo ad una considerazione autenticamente concettuale o

speculativa. Per la rappresentazione, infatti, il differente si pone “fuori” dell'identico e il limite funge

da “contorno” che separa l'uno dall'altro. La prima cosa che deve venire rilevata è che quel limite, che si pone tra identico e diverso, consente bensì, a livello rappresentativo, di distinguerli, ma fa poggiare la loro distinzione sul loro reciproco vincolarsi: il limite separa, ma solo perché congiunge; distingue, ma vincolando inscindibilmente i distinti.

E proprio questa consapevolezza consente di fare un salto, onde collocarsi ad un livello ulteriore, quello nel quale si perviene a sapere che quel limite, che la rappresentazione dispone tra le cose, in effetti è intrinseco e immanente a ciascuna di esse. Intendo dire che ogni determinazione, incluso l’io, proprio per la ragione che si pone in forza della differenza, ha nella differenza la propria essenza, sì che essenza della determinazione finita è il suo essere sé uscendo da sé, cioè l'essere sé e non sé, l'essere contraddicendosi.

La differenza, pertanto, non è solo altra dalla identità, ma, più radicalmente, è altra in essa. Si potrebbe anzi dire che la differenza esterna è l’esteriorizzazione della differenza intrinseca, ossia la disposizione spaziale, dunque rappresentativa, di una differenza che, concettualmente, immane all'identità. E, reciprocamente, la differenza intrinseca, che ha valore concettuale, non può non assumere forma esteriorizzata.

Questa è la ragione vera del sorgere del concetto di “inconscio”. Se l'altro che ci sta davanti, che si pone di fronte all’io, è la differenza più esteriore, l'altro che si colloca nell’io, l'inconscio, è la differenza espressa nella forma più interiorizzata: è quella differenza che ciascuno incontra “dentro” se stesso. 4. La dialettica di identità-differenza e il modello della complessità Poiché l'identità si pone nella relazione alla differenza, tanto l'una che l'altra si configurano in forza della dialettica che caratterizza il modo d'essere proprio della relazione.

A rigore, la differenza è intrinseca all'identità, sì che concettualmente non è possibile disporre l'una accanto all'altra. E tuttavia, non si può mantenere la considerazione concettuale, che indica il senso più radicale, senza esprimerla ricorrendo alla forma rappresentativa, che tende a configurare l'intrinseco riferirsi dell'identico al diverso (e viceversa) secondo l'immagine del costrutto mono-diadico, cioè della relazione che si pone tra identità e differenza.

Questa disposizione rappresentativa vale come l’inevitabile espressione formale di una struttura concettuale che, se pensata nella sua essenza, non consentirebbe rappresentazione alcuna, giacché tanto l'identico quanto il diverso dovrebbero venire intesi come l’atto del loro riferirsi, l’atto dell'essere sé trascendendosi: e l'atto non è rappresentabile.

Di contro, se l'identità vuole assumere una qualche configurazione che consenta di rappresentarla, essa non può evitare di valere come una posizione determinata, la quale, pur valendo come intrinseco riferirsi ad altro, mostra di avere una qualche consistenza autonoma e autosufficiente, che consente di porla come “A”, cioè di identificarla, distinguendola da “non A”.

Si potrebbe affermare che la relazione, descritta dalla rappresentazione, configura la conciliazione della relativa dipendenza di identità e differenza con la loro relativa indipendenza.

Se la dipendenza fosse assoluta, né l'identità né la differenza potrebbero avere una qualche consistenza che consenta di assumerle come posizioni determinate, poiché l'una si capovolgerebbe immediatamente nell'altra. E, del resto, se la dipendenza non connotasse reciprocamente il loro essere, esse non potrebbero assumere forma

determinata, giacché il determinarsi di ciascuna è frutto del loro reciproco riferirsi e del loro distinguersi all'interno di questo riferirsi.

Se l'indipendenza fosse assoluta, d'altra parte, né l'identità né la differenza potrebbero configurarsi in forma determinata, poiché verrebbe meno la relazione e, dunque, il limite che le determina. E tuttavia, una certa autonomia esse devono pur conservarla, poiché è solo questa autonomia, che pure è soltanto relativa, che consente di parlare di “A” e di “B” (o di “non A”).

La complessità, da questo punto di vista, altro non è che l'espressione della dialettica che sussiste tra identità e differenza e che impone all'una di porsi in una certa qual autonomia rispetto all'altra, ma anche in relazione con l'altra, sì che tale dialettica risulta, a rigore, una conciliazione di momenti che tendono ad elidersi: da una parte l’autonomia, essenziale per il costituirsi dell'identità, dall'altra la dipendenza, che descrive lo status di ciò che si relaziona ad altro, dunque si vincola e si subordina alla differenza.

Tale status, intrinsecamente complesso, caratterizza innanzi tutto l'esperienza come relazione di soggetto e oggetto. Tanto l'identità del soggetto quanto quella dell'oggetto, infatti, non possono non venire pensate nella relazione che pone l'uno perché lo vincola inscindibilmente all'altro: il soggetto è tale solo perché si riferisce ad un oggetto, il quale, valendo come ob-iectum, necessita di un soggetto a cui venga “dato”, a cui stia “davanti”. Potremmo così affermare che essi sono due sezioni astratte di un unico riferimento: il soggetto costituisce il momento attivo, e per questa ragione viene definito “referente” o “esperente”; l'oggetto il momento passivo, e per questa ragione viene definito “relato” o “esperito”.

La medesima dialettica la si riscontra nel processo conoscitivo, il quale esplicita la dinamica che costituisce la relazione conoscitiva. Tale dinamica si costituisce, appunto, in forza della relativa indipendenza e della relativa dipendenza del soggetto e dell'oggetto, i quali, ancorché intrinsecamente vincolati, non possono non mantenere anche una certa autonomia l'uno dall'altro. È questa la ragione per la quale l'oggetto viene modellato dalle forme mediante le quali il soggetto lo conosce, sì che esso, in quanto receptum, vale sempre e comunque come receptum per modum recipientis: l'oggetto di conoscenza non può mai venire considerato come assolutamente oggettivo, cioè come totalmente indipendente dal soggetto, stante che il suo configurarsi in forma determinata è vincolato a al sistema di riferimento al quale il soggetto lo riferisce nel connotarlo.

D'altra parte, però, l'oggetto esibisce anche una sua autonomia dal soggetto, che impedisce di considerarlo una “creazione” del soggetto stesso, autonomia che, per le ragioni suddette, deve venire definita “relativa”.

La rilevanza che il soggetto del conoscere ha in ordine alla costituzione dell’oggetto osservato costituisce precisamente uno dei punti fondamentali della concezione che valorizza il modello della complessità: «quelle proprietà che si credeva facessero parte delle cose – scrive a questo proposito Heinz von Foerster – si rivelano proprietà dell'osservatore»2.

Le stesse leggi scientifiche altro non sono che descrizioni di rapporti che sussistono tra oggetti del conoscere, rapporti che si fondano tutti su quel rapporto fondamentale che è il rapporto soggetto-oggetto: «Ma questa reinterpretazione della nozione di legge – scrive Mauro Ceruti –, dei concetti di necessità e di ordine, fa parte di un processo generale di reintegrazione dell'osservatore nelle proprie descrizioni, che caratterizza i più importanti esiti tecnici della scienza contemporanea»3.

Tutto ciò ha come conseguenza fondamentale l'impossibilità di intendere la descrizione, offerta dal sistema della teoria, come attingimento neutro della realtà, sì che ogni

2 H. von Foerster, Disorder/Order: Discovery or Invention?, Anma Libri, Stanford 1984, p. 186. 3 M. Ceruti, La hybris dell’onniscienza e la sfida della complessità, in G. Bocchi, M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1987, p. 31.

configurazione teorica si rivela un'interpretazione, più che una restituzione fedele dell’oggettivo.

È innegabile che l'interpretazione intende avvicinarsi il più possibile alla verità delle cose descritte – essa infatti si pone in virtù di quella intentio veritatis che è il fondamento stesso del conoscere in quanto tale –, e tuttavia è altrettanto innegabile che l’intenzione di verità non potrà venire confusa con la pretesa di inglobare la verità in una qualche interpretazione, dichiarando così che tutte le altre sono erronee.

L'impossibilità di ridurre l'intenzione alla pretesa, cioè lo in-tendere che si volge alla verità al pre-tendere di essere pervenuti ad essa, comporta la molteplicità dei punti di vista, a muovere dai quali è lecito descrivere la cosiddetta realtà, nonché la necessità che queste descrizioni accettino di confrontarsi le une con le altre, stante che nessuna può appunto erigersi a coglimento unico e autentico della realtà intenzionata.

E proprio in forza di questa strutturazione dialettica del processo del conoscere, il modello della complessità si impone come l'unico in grado di superare le pretese dogmatiche, anche se il dialogo, che deve sussistere tra i sistemi della teoria, il confronto tra le prospettive di ricerca, la multidisciplinarietà non possono occultare l’intenzione fondamentale del conoscere, che non è quella di produrre l'oggetto di conoscenza – ciò significherebbe cadere in una relativismo assoluto –, ma tendere verso quell'oggettività che non può non rimanere ideale: se le conoscenze di fatto comparenti valgono come l'oggettivazione dei punti di vista teorici con cui si interpreta il mondo, ciò che anima il processo del conoscere è tendere a quella verità che coglie la realtà nel suo essere autentico, nella sua oggettività ultima, la quale, però, può valere solo come un ideale del conoscere, come il fine del processo, fine che, se fosse effettivamente raggiunto, decreterebbe la fine del conoscere stesso.

Lo scarto tra ideale e fattuale tiene dunque in vita la ricerca e la mantiene inesauribile.

5. La relazione educativa e il modello della complessità La stessa relazione educativa, per fornire una esemplificazione paradigmatica del discorso svolto, riproduce la dialettica che caratterizza intrinsecamente ogni relazione e che qui si specifica nelle forme assunte dalla relazione educatore-educando, le quali non possono non venire descritte dal modello della complessità.

Edgar Morin, nell'ultimo libro che compone la sua “trilogia pedagogica” – e che si intitola I sette saperi necessari all'educazione del futuro –, indica i punti qualificanti di un progetto educativo per il nuovo millennio e, nel farlo, ripropone proprio quel modello della complessità di cui ha parlato in molte altre opere.

Egli afferma:«è necessario promuovere una conoscenza capace di cogliere i problemi globali e fondamentali per inscrivere in essi le conoscenze parziali e locali»4, e ciò in ragione del fatto che la «supremazia di una conoscenza frammentata nelle diverse discipline rende spesso incapaci di effettuare il legame tra le parti e le totalità, e deve far posto a un modo di conoscere capace di cogliere gli oggetti nei loro contesti, nei loro complessi, nei loro insiemi»5.

Il riferimento alla totalità è quanto mai significativo. Le conoscenze particolari, infatti, devono sempre venire inscritte in contesti più generali, i quali, essi stessi, devono saper configurare quell’universo teorico di riferimento che risulta essenziale per comprendere senso e valore delle singole, particolari, conoscenze. La necessità del riferimento all'unità di senso, a quell'unum che sappia orientare il vertere – da cui, appunto, universo –, trova esplicita espressione nel testo di Morin. 4 E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina, Milano 2001, p. 12. 5 Ibidem.

Questi, dopo aver affermato che è «necessario sviluppare l'attitudine naturale della mente umana a situare tutte le informazioni in un contesto e in un insieme» e che, inoltre, è «necessario insegnare i metodi che permettano di cogliere le mutue relazioni e le influenze reciproche tra le parti e il tutto in un mondo complesso»6, scrive: «L’essere umano è nel contempo fisico, biologico, psichico, culturale, sociale, storico. Questa unità complessa della natura umana è completamente disintegrata nell'insegnamento, attraverso le discipline. Oggi è impossibile apprendere ciò che significa essere umano, mentre ciascuno, ovunque sia, dovrebbe prendere conoscenza e coscienza sia del carattere complesso della propria identità sia dell'identità che ha in comune con tutti gli altri umani. La condizione umana dovrebbe, così, essere oggetto essenziale di ogni insegnamento. Questo capitolo indica come sia possibile, a partire dalle discipline attuali, riconoscere l'unità e la complessità dell'essere umano riunendo e organizzando le conoscenze disperse nelle scienze della natura, nelle scienze umane, nella letteratura e nella filosofia, e come sia possibile mostrare il legame indissolubile tra l'unità e la diversità di tutto ciò che è umano»7. Ciò che viene indicato in questo passo costituisce indubbiamente un punto nodale, un vertice dal quale deve venire ripensato l'intero discorso. Quando, infatti, Morin parla di «legame indissolubile tra l'unità e la diversità» egli ripropone una formula ben nota ai filosofi, e cioè quella «unità dell'unità e della non unità» ripetutamente proposta da Hegel nelle sue molteplici opere. Che cosa è, infatti, il «legame indissolubile» se non l'unità stessa? Allorché si parla di «legame indissolubile tra l'unità e la diversità» non si può quindi non riconoscere che si intende parlare di un'unità che si disponga ad un livello più profondo di quello in cui si colloca l’unità che si contrappone alla molteplicità. E qui viene in mente la fondamentale formula usata da Spinoza per esprimere il concetto di verità: «veritas [est] norma sui et falsi»8. Con questa formula, infatti, Spinoza indica l'impossibilità di intendere il vero come collocantesi allo stesso livello del falso, come la logica formale a due valori di verità intenderebbe proporre. Se a livello formale vero e falso sono reciproci e coessenziali, a livello teoretico, di contro, non si può non rilevare che, proprio nel fondare la logica sulla contrapposizione vero-falso, si assume tale contrapposizione, cioè tale relazione disgiuntiva ed esclusiva, come la stessa verità. E per questa ragione si pone la relazione come vera, cioè come emergente oltre la contrapposizione al falso. È vero, insomma, che vero e falso si contrappongono, sì che il vero affermato inizialmente risulta irriducibile al vero che si contrappone al falso e che risulta a quest’ultimo subordinato, proprio per il suo vincolarsi ad esso. Altrettanto deve dirsi per l'unità: l'unità che si contrappone alla differenza non è quell'unità che ricompone entrambe in un «legame indissolubile». Quest'ultimo vale come “unità fondante” perché è condizione della stessa possibilità di contrapporre l'unità alla differenza o, in altre parole, tanto l'unità quanto la differenza si pongono perché si riferiscono reciprocamente e, pertanto, questo atto del loro riferirsi fonda la loro stessa distinzione. Più chiaramente: poiché l’identità è tale soltanto perché si riferisce intrinsecamente alla differenza, e viceversa, entrambe, prese isolatamente, costituiscono due sezioni astratte del concreto, che è la loro unità. Quanto detto consente di comprendere come il discorso sulla complessità necessiti di una opportuna integrazione teoretica, ossia di una fondamentale precisazione di natura speculativa: la complessità acquista un senso solo in virtù del riferimento ad un'unità che valga come fondamento e, per questa ragione, legittimi la posizione dell’universo di

6 Ibidem. 7 E. Morin, I sette saperi), pp. 12-13. 8 B. Spinoza, Ethica, Parte II, prop. 43, scolio.

riferimento, che consente di comprendere le parti non solo perché le riferisce ad un insieme, ma perché le riferisce ad un'unica unità: «In effetti – scrive Aristotele, come già citato – noi conosciamo tutte le cose solo in quanto esista qualcosa che è uno, identico e universale»9. E lo stesso Hegel, parlando del concetto di unione di essere e nulla, precisa la differenza concettuale che distingue l'unione dalla autentica unità: «pur nondimeno anche nella più imperfetta unione è contenuto un punto in cui l'essere e il nulla coincidono, e la differenza loro sparisce»10. Giudico fondamentale questo passo di Hegel. Esso consente, infatti, di comprendere il senso dell'unità, la quale è effettiva solo in quanto si differenzia dall'unione e dunque dalla relazione: solo l'unità, del resto, vale come autentico fondamento di ogni attività unificante. È solo in virtù di quel «punto (Punkt)», in cui la differenza viene meno e si realizza l'unità, che è giustificato parlare di unione. Morin, a ben vedere, non sempre pone in evidenza questa necessità di riferire il complesso (la relazione) al semplice (all'unità fondante), giacché soprattutto si preoccupa di mostrare come ciò che ordinariamente risulta semplice (il dato immediato di esperienza o di conoscenza) sia, in effetti, complesso. Ed è proprio su questo assunto teorico che egli fa poggiare il suo progetto educativo: «Ora, l'educazione alla comprensione è assente dai nostri insegnamenti. Il pianeta ha bisogno in tutti i sensi di reciproche comprensioni. Data l'importanza dell’educazione alla comprensione, a tutti i livelli educativi e a tutte le età, lo sviluppo della comprensione richiede una riforma delle mentalità. Questo deve essere il compito per l'educazione del futuro»11. Il cum-prehendere indica, appunto, la necessità di considerare ogni dato nella rete di relazioni che lo vincola agli altri dati, in quel tessuto (textus) che è l'esperienza (la conoscenza). Esperienza e conoscenza sono, in effetti, un testo, un tessuto, perché si costituiscono, immaginosamente, di un'orditura di linee che variamente si intrecciano e si annodano, intercorrendo tra i dati (esperiti, conosciuti): solo cogliendo questo ordito è possibile interpretare correttamente ciascun fenomeno. Ebbene, se questa è la realtà che domanda di venire compresa e interpretata, allora il compito fondamentale dell’educatore è proprio quello di promuovere lo sviluppo dell’intelligenza dell’educando, giacché è in virtù dell’intelligenza, e solo di essa, che si rende possibile la penetrazione interpretativa. Uso questa espressione per evidenziare il duplice significato che deve venire assegnato all'intelligenza, secondo quanto il suo etimo indica: da un lato, infatti, l’intelligenza va intesa come lo inter-legere, ossia il leggere tra le righe del testo, rappresentato dalla realtà ordinaria, secondo le modalità del comprendere interpretando; da altro lato, però, lo intelligere va inteso anche come un intus-legere, ossia come un penetrare il testo fin nel suo significato più profondo. Sono proprio questi due significati dell’intelligere che inducono Edgar Morin a scrivere quanto segue, nell’intento di evidenziare la necessità di cogliere bensì il particolare, l’elementare, lo specifico, ma sempre e solo inscrivendolo nel contesto che lo connota e determina: «Di conseguenza, l'educazione deve promuovere una “intelligenza generale” capace di riferirsi al complesso, al contesto in modo multidimensionale e al globale»12. «Contrariamente all'opinione diffusa – aggiunge ancora Morin –, lo sviluppo delle attitudini generali della mente permette un migliore sviluppo delle competenze particolari o specializzate. Più potente è l'intelligenza generale, più grande è la sua capacità di trattare problemi specifici. Così, la comprensione di dati particolari richiede l'attivazione

9 Aristotele, Metafisica, p. 151. 10 G. W. F. Hegel, Scienza della logica, Laterza, Roma-Bari 1974³, I, p. 72. 11 E. Morin, I sette saperi), p. 14. 12 E. Morin, I sette saperi), p. 38.

dell'intelligenza generale che opera e organizza la mobilitazione delle conoscenze in grado di chiarire ogni caso particolare»13. Anche lo sviluppo iper-analitico delle conoscenze, che ha portato alla iperspecializzazione delle competenze, deve venire opportunamente valutato, giacché è da domandarsi se l’approfondimento delle conoscenze parcellari configuri un autentico ed effettivo sviluppo della conoscenza come tale: «Giganteschi progressi nelle conoscenze sono stati attuati nell'ambito delle specializzazioni disciplinari durante il XX secolo. Ma questi progressi delle conoscenze hanno prodotto una regressione della conoscenza, proprio a causa della specializzazione che spesso frammenta i contesti, le globalità, le complessità»14. Si potrebbe dunque affermare che l'educazione, che viene impartita al giorno d’oggi, si basa essenzialmente sull’operazione del dividere, e cioè sulla valorizzazione unilaterale del momento analitico, che si preoccupa soltanto di scomporre l’oggetto per vedere di quali elementi esso si costituisce. Ciò che l'educazione del futuro ci impone, invece, è la valorizzazione del momento, altrettanto essenziale, della sintesi, senza del quale la stessa analisi perderebbe di significato: «Poiché la nostra educazione ci ha insegnato a separare, compartimentare, isolare e non a legare le conoscenze, l’insieme di queste costituisce un puzzle inintelligibile. Le interazioni, le retroazioni, i contesti, le complessità che si trovano nel no man’s land tra le discipline diventano invisibili. I grandi problemi umani scompaiono a vantaggio dei problemi tecnici particolari. L'incapacità di organizzare il sapere sparso e compartimentato porta all'atrofia della disposizione mentale naturale a contestualizzare e a globalizzare. L'intelligenza parcellare, compartimentata, meccanicista, disgiuntiva, riduzionista, spezza il complesso del mondo in frammenti disgiunti, fraziona i problemi, separa ciò che è legato, unidimensionalizza il multidimensionale. È un'intelligenza miope che il più delle volte finisce per essere cieca»15. E se la cecità dell’intelligenza consiste nell’incapacità di vedere il nesso che costituisce essenzialmente le cose, la capacità di intendere pienamente il nesso, cioè la relazione, consiste nel cogliere il punto ideale di unità che dà senso alle molteplici e variegate unificazioni. Questo è il passaggio ulteriore che mi pare manchi nel discorso di Morin, che pure è importantissimo e assolutamente condivisibile nella critica che rivolge all’unilateralità dell’analisi e nell’invito a valorizzare anche il momento della sintesi. Ciò che mi sento di aggiungere, quindi, è il passaggio che dalla sintesi conduce all’unità, la quale soltanto può assumere valore di fondamento. Ebbene, tale passaggio generalmente non viene compiuto nella riflessione contemporanea, proprio per la ragione che la ricerca del senso ultimo, della condizione di intelligibilità, del fondamento, viene considerata un’astrazione metafisica della quale il pensiero positivo e scientifico non deve occuparsi. Ciò che intendo sostenere, di contro, è che tale unità non può venire oggettivata, dunque non può venire ridotta ad oggetto da analizzare, e tuttavia è soltanto essa che funge da condizione inoggettivabile di ogni oggettivazione, sì che dichiararla inessente significa non avvedersi del valore del trascendentale: il trascendentale è ciò in virtù di cui si compie la ricerca, e perciò non può venire ridotto a ciò che con essa si ottiene; il trascendentale è ciò che configura il valore della relazione educativa, e perciò ne costituisce anche l’ideale compimento. 6. La differenza-diversità di educatore ed educando e il processo della comunicazione Da quanto è stato affermato emerge, dunque, una duplice necessità: da un lato, quella di

13 E. Morin, I sette saperi), pp. 38-39. 14 E. Morin, I sette saperi), p. 40. 15 E. Morin, I sette saperi), p. 43.

precisare il senso della diversità che sussiste tra educatore ed educando; dall'altro, quella di indicare il senso della loro unità, che è poi la destinazione del processo educativo.

Per precisare le necessità indicate, rilevo innanzi tutto che anche la relazione educativa si caratterizza per quella stessa dialettica che ho descritto a proposito dell'esperienza in generale e di quella particolare esperienza che è il conoscere. Intendo dire che in essa si confrontano il momento della relativa indipendenza dei termini e il momento della loro relativa dipendenza. Tale confronto di momenti distinti che, a rigore, tendono reciprocamente a connettersi, ma anche ad escludersi, rende ragione della dinamica propria della relazione educativa, ossia del fatto che il rapporto educatore-educando si esprime come un processo, una tensione rivolta ad un fine, nonché giustifica l'assunzione del modello della complessità come configurazione atta a spiegare la dinamica medesima.

Acclarato, dunque, che «l'evento educativo – come afferma Vanna Iori – si caratterizza innanzitutto come evento relazionistico»16, si tratta di precisare da un lato la differenza che intercorre tra i termini che lo costituiscono e dall'altro il senso di unità che lo pervade.

La differenza è richiesta per poter mantenere distinte le due identità, e cioè l'identità dell'educatore e quella dell’educando. Tale differenza può ulteriormente venire specificata come inerente all’aspetto formale o all’aspetto contenutistico della loro relazione.

Quando parlo di “differenza formale” intendo fare riferimento a quella legata al ruolo, che decreta una asimmetria per la quale l'educatore si propone come colui che, istituzionalmente, è il depositario del sapere e, per questa ragione, lo offre all'altro, e l'educando come colui che richiede il sapere che è proprio dell'altro.

Si comprende dunque che la differenza di ruolo è intrinsecamente vincolata alla differenza di contenuto, sì che l’asimmetria si impone per quel “di più” di sapere, quel “magis” che connota l'espressione magister: «Insegnante ed allievi – scrive opportunamente la Iori – “sanno” cose diverse, ma il magis contenuto nella radice di magister sta di indicare che il maestro si caratterizza per un “di più” di sapere, civiltà, cultura, conoscenze, cioè per il patri munus precedentemente selezionato e che egli trasmette al discente»17.

Da un certo di vista, pertanto, l’asimmetria è richiesta per porre la relazione, stante che quest'ultima in tanto si pone in quanto poggia sulla dualità dei termini relati: questi ultimi, per poter essere due, devono distinguersi e ciò che li distingue è precisamente la differenza che connota il loro “ruolo istituzionale”, legata alla differenza inerente al loro “diverso” sapere. E tuttavia, da un altro punto di vista, è da rilevare che l’asimmetria, cioè la differenza tra i termini della relazione, non può essere “assoluta”, poiché ciò impedirebbe il configurarsi della stessa relazione, sì che, accanto al momento della asimmetria, deve disporsi anche il momento della simmetria.

Si potrebbe così sintetizzare: l'asimmetria è richiesta ed è richiesta perché i termini sono distinti, ma l'aspetto della diversità non cancella la loro omogeneità di fondo, quella omogeneità che giustifica la relazione tra di essi. Che è come dire: la simmetria indica che né l'educatore né l’educando possono porsi al di fuori del loro reciproco riferirsi, sì che, per tale loro essere che coincide con il riferirsi dell'uno all'altro, essi sono fungibili e scambievoli: l'uno non è senza l'altro; di contro, l'asimmetria implica che il modo del riferimento varia, perché l'uno si riferisce all'altro secondo la peculiarità che differenzia la propria identità, che non coincide con quella dell'altro.

Per queste ragioni, la simmetria risulta strutturale; l'asimmetria, invece, attiene alla considerazione formale, così che anche l'asimmetria di contenuto si colloca ad un livello superficiale rispetto alla struttura che impone anche al docente di porsi in relazione

16 V. Iori, Filosofia dell’educazione. Per una ricerca di senso nell’agire educativo, Guerini e Associati, Milano 2000, p. 109. 17 V. Iori, Dal fare didattica all’essere-in-didattica, in P. Bertolini (a cura di), Sulla didattica, La Nuova Italia, Firenze 1994, p. 30.

reciproca con il discente. Del resto, per quanto possa valere come asimmetrica, la relazione educativa può comunque configurare una asimmetria complementare, quando «l'allievo, rispondendo in maniera pertinente (anche quando non vera o non corretta), non crea specularità nella comunicazione, ma complementarità di asimmetrie: egli, poiché accetta la sua posizione “one-down” nella relazione, risponde all'interrogazione. In tal modo si mette in quella circolarità comunicativa o “feedback” in cui il suo tipo di risposta condiziona la relazione con l'insegnante e le reciproche modalità di porsi in posizione “one-up” o “one-down”. Domanda e risposta si influenzano a vicenda e si sincronizzano, dando luogo alla asimmetria complementare a livello di comunicazione»18.

Ciò che emerge dal passo citato è precisamente quanto segue: il concetto di complementarità evidenzia che l'asimmetria non configura affatto un ostacolo alla comunicazione, ma, al contrario, se si esprime nella forma di una diversità che si completa, essa induce una comunicazione effettiva nonché significativa. In effetti, non è detto in alcun modo che, ad una maggiore distanza sussistente tra docente discente, debba necessariamente corrispondere una comunicazione più problematica. Fino a quando le asimmetrie dei soggetti si incontrano e si accordano su una qualche definizione della loro relazione e di se stessi all'interno di essa, si realizza comunque una complementarità o una sincronizzazione delle asimmetrie, sì che la comunicazione risulta comunque “sana”. Comunicazione “patologica”, invece, è quella comunicazione che non riesce a configurare accordo né quella stabilità che rende possibile lo scambio reciproco.

La questione si incentra, pertanto, sulle modalità in cui si realizza l’incontro tra docente e discente, tra educatore ed educando, e non certo sulla maggiore o minore differenza che sussiste tra di essi. Si potrebbe anzi affermare che la differenza, posta anche nella forma più estrema che ho convenuto di definire diversità, rappresenta non già un ostacolo alla comunicazione, quanto piuttosto la sua ricchezza intrinseca, la qualità che la specifica nella varietà delle forme e nella molteplicità dei contenuti.

La condizione affinché la differenza-diversità metta capo ad una effettiva comunicazione consiste propriamente nella capacità, da parte dell'educatore e dell’educando, di individuare un terreno comune sul quale edificare uno scambio proficuo e fattivo.

Orbene, ciò che intendo sostenere è che il communis che consente di superare le differenze è precisamente quella intenzione di verità che costituisce il fondamento stesso dell'attività conoscitiva e, più in generale, di ogni ricerca, che è comunque volta a cogliere la verità di ciò intorno a cui si dispone come ricerca.

L'intenzione di verità costituisce il fondamento di ogni comunicazione, il prerequisito essenziale, la condizione a parte ante sulla quale è possibile erigere lo scambio di informazioni e di opinioni. Queste ultime possono appartenere ad universi teorici lontani, a prospettive culturali diverse, a concezioni del mondo finanche antitetiche; ciò nondimeno, se chi le esprime è animato da una sincera vocazione alla ricerca e cioè è disposto a mettersi effettivamente in gioco, allora lo scambio può configurarsi nella forma del dialogo, che costituisce il modo autentico della comunicazione. Nel dialogo, infatti, ciascun dialogante è pronto a discutere l'opinione di cui si fa portavoce, perché sa che la verità che cerca non è mai riducibile alla verità che possiede: tale verità, proprio per il fatto che “viene posseduta”, non è quella verità che effettivamente si cerca.

Il dialogo, quindi, è la forma in cui si esprime la comunicazione autentica e riveste un valore fondamentale anche nella relazione educativa. Tuttavia, l'intenzione di verità può trovare compiuta espressione nel dialogo a condizione che la comunicazione riesca ad armonizzare le diversità, ricomponendole in una unità superiore, che sia in grado anche di conservarle nella loro specificità.

18 V. Caroni, V. Iori, Asimmetria nel rapporto educativo, Armando, Roma 1989, p. 29.

La diversità, insomma, non deve venire cancellata né deve venire assolutizzata. Questo è il centro della questione: ciò che si deve ricercare è quel punto di equilibrio che eviti il duplice errore indicato. Se la diversità venisse cancellata, l'unità che emergerebbe non potrebbe non valere come l'unità che è propria solo dell’indistinto, un'unità, dunque, tanto vuota quanto astratta, che non è indice di un processo, costituendone il risultato, ma che coincide con la negazione stessa del processo e, quindi, con la negazione del conoscere. Se, del resto, la diversità venisse assolutizzata, allora la relazione che vincola i diversi cesserebbe di esistere, così che anche i diversi verrebbero meno.

L’unità che si è in grado di realizzare nell’esperienza, inclusa l’esperienza educativa, non è mai effettiva, pura, assoluta, ma vale sempre come unificazione, come sintesi, le quali configurano il punto estremo di conciliazione, esprimibile nell’ordine empirico, di punti di vista che possono essere anche lontani e diversi, ma che, riconoscendo l’impossibilità di erigersi a verità, accettano di mettersi in discussione e di lasciarsi integrare dal punto di vista dell’altro.

Se, tuttavia, ci si dimenticasse che l’unificazione non è mai l’unità autentica, si correrebbe il rischio di assumere un qualche punto di arrivo della ricerca come la verità, con la conseguenza che si smetterebbe di ricercare. Di contro, la consapevolezza che la certezza trovata non è mai la verità intenzionata impone di ricercare il confronto e il dialogo con nuove diversità, con punti di vista che ancora risultano divergenti, giacché è solo in questo progressivo venirsi incontro dialogando che l’unità ideale trova adeguato compimento fattuale.

Bibliografia Stella, A. (1994). Il concetto di “relazione” nella “Scienza della logica” di Hegel. Milano:

Guerini Studio. Stella, A. (1995). La relazione e il valore. Milano: Guerini Scientifica.


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