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Scrivere la storia in Israele. I «nuovi storici» e la nascita dello Stato ebraico

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RICERCHE DI STORIA SOCIALE E RELIGIOSA A. XLI, NUMERO 83 – NUOVA SERIE – GENNAIO-GIUGNO 2013 SOMMARIO CIRO DI FIORE, L’ospite, il pellegrino e il vagabondo in alcune fonti letterarie tra mondo antico, medievale e moderno . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 PIERLUIGI GIOVANNUCCI, Venezia: una Repubblica di santi? . . . . . . . . 33 CORRADO PIN, Politica e religione nell’Europa dell’età moderna: l’esperienza di Paolo Sarpi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51 LUCIA RUSSO, La Santa Sede e la Palestina dall’approvazione del mandato britannico alla Conferenza di St. James (1922-1939) . . . . . . . 75 ELIANA VERSACE, Montini, Pio XII e la nomina ad arcivescovo di Milano. Un contributo alla luce della nuova documentazione . . . . . . . 109 GIUSEPPE MARIA VISCARDI, Tra storia della pietà e sociologia religiosa. Gabriele De Rosa e la storia sociale e religiosa del Mezzogiorno moderno 133 NOTE MARIA ANNA NOTO, Il Mezzogiorno in una difficile transizione: società, cultura e istituzioni tra Settecento e Ottocento. Riflessioni su recenti contributi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 215 00 Sommario_Layout 1 12/12/2013 15:21 Pagina 5
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RICERCHE DI STORIA SOCIALE E RELIGIOSA A. XLI, NUMERO 83 – NUOVA SERIE – GENNAIO-GIUGNO 2013

SOMMARIO

CIRO DI FIORE, L’ospite, il pellegrino e il vagabondo in alcune fonti letterarie tra mondo antico, medievale e moderno . . . . . . . . . . . . . . . . . 7

PIERLUIGI GIOVANNUCCI, Venezia: una Repubblica di santi? . . . . . . . . 33

CORRADO PIN, Politica e religione nell’Europa dell’età moderna: l’esperienza di Paolo Sarpi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51

LUCIA RUSSO, La Santa Sede e la Palestina dall’approvazione del mandato britannico alla Conferenza di St. James (1922-1939) . . . . . . . 75

ELIANA VERSACE, Montini, Pio XII e la nomina ad arcivescovo di Milano. Un contributo alla luce della nuova documentazione . . . . . . . 109

GIUSEPPE MARIA VISCARDI, Tra storia della pietà e sociologia religiosa.Gabriele De Rosa e la storia sociale e religiosa del Mezzogiorno moderno 133

NOTE

MARIA ANNA NOTO, Il Mezzogiorno in una difficile transizione: società, cultura e istituzioni tra Settecento e Ottocento. Riflessioni su recenti contributi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 215

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SOMMARIO6

ERMINIO FONZO, Scrivere la storia in Israele. I «nuovi storici» e la nascitadello Stato ebraico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 231

GIUSEPPE MARIA VISCARDI, Jean Delumeau tra storia e profezia . . . . . . . 265

RECENSIONI: Relazioni religiose nel Mediterraneo. Schiavi, redentori,mediatori (secc. XVI-XIX), a cura di SARA CABIBBO – MARIA LUPI

(Benedetto Fassanelli); EUGENE ROGAN, Gli arabi (Erminio Fonzo);ANGELOMICHELE DE SPIRITO, Le api e la penna. Antonio Maria Tannojaentomologo e agiografo del Settecento (Dina Aristodemo); MARIA

IOLANDA PALAZZOLO, La perniciosa lettura. La Chiesa e la libertà distampa nell’Italia liberale (Milena Sabato); FILIPPO FOCARDI, Il cattivotedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerramondiale (Giuseppe Fresolone); Fenomenologia di una Macro Regione,vol. I, Percorsi storici e storico-giuridici, a cura di G. DE VERGOTTINI,D. ROSSI – G. F. SIBONI (Ivan Buttignon) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 273

ABSTRACTS . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 307

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SCRIVERE LA STORIA IN ISRAELE

I «NUOVI STORICI» E LA NASCITA DELLO STATO EBRAICO

«Quando si inizia una guerra la prima vittima è la verità». Il celebre aforisma,attribuito al poeta Eschilo, è indubbiamente valido per qualsiasi conflitto, ma assu-me un valore ancora maggiore per uno scontro come quello arabo-israeliano del1948, considerato «Guerra di indipendenza» dagli israeliani e «Nakba» (catastrofe)dagli arabi. Dalla guerra è scaturita una delle più dibattute questioni geopolitichedel mondo contemporaneo che, dopo oltre sessant’anni, è quanto mai lontana dal-l’essere risolta.

Com’è noto, il conflitto si articolò in due fasi: nella prima (dicembre 1947-mag-gio 1948) gli ebrei affrontarono le milizie palestinesi e i volontari riunitinell’Esercito arabo di liberazione; nella seconda (maggio 1948-marzo 1949), dopoil ritiro del Regno Unito, che esercitava in Palestina un mandato affidatogli Societàdelle nazioni, fu dichiarata l’indipendenza di Israele (14 maggio 1948) e la guerracoinvolse gli eserciti regolari di alcuni Paesi arabi, che furono sconfitti dalle neoco-stituite Israeli Defense Forces (IDF). Lo scontro provocò una grande ondata di pro-fughi, oltre 700.000, che trovarono rifugio nei campi allestiti in Transgiordania, inSiria, in Libano e nelle zone palestinesi non occupate. Nel 1949 i belligeranti firma-rono degli armistizi e gli scontri armati terminarono, ma non fu possibile sottoscri-vere un accordo di pace.

Il racconto degli eventi proposto dalle due parti è molto diverso. La storiogra-fia «ufficiale» israeliana ha articolato la sua narrazione intorno ad alcuni puntifermi: la guerra fu causata dall’intransigenza degli arabi, che non accettavano la pre-senza degli ebrei e rifiutarono i piani di spartizione della Palestina proposti dallacomunità internazionale nel 1937 e nel 1947; i profughi abbandonarono le loro casevolontariamente o per ordine dei loro leader, con l’intenzione di ritornarvi appenasarebbero cessate le ostilità; gli inglesi si opponevano decisamente alla fondazionedello Stato ebraico; gli ebrei erano pochi e male armati, cosicché il conflitto si con-figurò come uno scontro tra Davide e Golia; i nemici di Israele costituivano unblocco compatto, che mirava alla completa distruzione dell’avversario, e non vi fualcun accordo tra le due parti; alla fine delle ostilità la pace non fu raggiunta per

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l’ostinazione degli arabi; l’esercito israeliano non commise atrocità, basando il suocomportamento sulla Tohar HaNeshek, la purezza delle armi. Questa versione deifatti è rimasta largamente predominante nella storiografia e, soprattutto, nei testiscolastici e nell’opinione pubblica di Israele, ed anche nel resto del mondo, con l’ec-cezione dei Paesi mediorientali, è stata la narrazione più diffusa1.

Non è mai stata è accettata, invece, dai palestinesi, che la ritengono propagan-distica, sostenendo che l’esodo della popolazione autoctona fu provocato con laforza dalle milizie ebraiche e che l’impegno degli arabi fu minimo e non disinteres-sato. In Palestina gli eventi del 1948 sono l’elemento centrale della memoria collet-tiva e, spesso, una delle prima cose che i figli dei profughi imparano è il nome delvillaggio dal quale proviene la loro famiglia. Quando la guerra era ancora in corsosi diffuse, come contraltare dell’ebraico «Shoah», il termine «Nakba», adoperatoper primo dal politologo siriano Costantin Zureiq e oggi usato comunemente perriferirsi all’esodo del 1948. In Palestina la versione israeliana dei fatti non è mai stataaccettata nemmeno dalla storiografia: per esempio Walid Khalidi, fondatoredell’Istituto di studi palestinesi e professore nelle università di Beirut, Harvard ePrinceton, negli anni ’50 e ’60 scrisse che la popolazione era stata espulsa con laforza, secondo un preciso piano elaborato dallo stato maggiore israeliano, e sosten-ne che i dirigenti arabi non solo non sollecitarono i profughi ad abbandonare le lorocase ma, al contrario, li invitarono a resistere2.

1 La «vecchia storiografia» israeliana è composta in larga parte dalla memorialistica e dalleopere scritte per iniziativa di reduci e uomini politici. Si tratta di ricerche basate su memoriee fonti orali, visto che fino alla fine degli anni ’70 i documenti del 1948 non erano accessibi-li, ad eccezione di una parte delle carte dell’esercito, che potevano essere consultate dai mili-tari. Tra gli scritti più rappresentativi della vecchia tendenza sono da annoverare la Storiadella guerra di indipendenza (Toldot Mu’hemet Hakomemiyut), pubblicata in ebraico dalDipartimento di storia delle IDF nel 1959; il volume di Netanel Lorch, The Edge of theSword. Israel’s War of Independence, 1947-1949, New York, Putnam, 1961; Id., One LongWar. Arab versus Jew since 1920, New York, Herzl Press, 1976. Sono poi da menzionare alcu-ni studi biografici, tra i quali quello dedicato a David Ben Gurion (leader dell’Agenzia ebrai-ca e Primo ministro dopo la fondazione di Israele) da Shabtai Teveth, Ben Gurion. TheBurning Ground 1886-1948, Boston, Highton Mifflin, 1987 (ed. or. in ebraico, III voll.,Gerusalemme 1976-1987). Una rassegna della storia della storiografia israeliana è stata pro-posta da Yoav Gelber, The History of Zionist Historiography. From Apologetics to Denial, inMaking Israel, a cura di Benny Morris, Ann Arbor (USA), University of Michigan Press,2007, pp. 47-79. Quanto alla narrazione della guerra nel resto del mondo, nel 1970 negli StatiUniti apparve il libro del giornalista e storico militare Dan Kurzman, Genesis 1948. The FirstArab-Israeli War, New York, World (ripubblicato nel 1992 con un’introduzione di YitzhakRabin), che proponeva la tradizionale versione israeliana ed ha avuto un grosso impatto inOccidente. Il punto di vista palestinese, invece, nel mondo occidentale fu recepito dal volu-me di Michael Palumbo, The Palestinian Catastrophe. The 1948 Expulsion of a People fromtheir Homeland, London-Boston, Faber and Faber, 1987.

2 Walid Khalidi, Why did the Palestinians Leave?, «Middle East Forum», 24 (1959), pp. 21-24; Id., Plan Dalet: the Zionist Master Plan for the Conquest of Palestine, «Middle EastForum», 37 (1961), pp. 22-28. Entrambi i saggi sono stati ripubblicati nel «Journal of

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In Israele si è dovuto aspettare fino agli anni ’80 perché, almeno a livello acca-demico, il tradizionale racconto dei fatti fosse messo in discussione. Il cambiamen-to fu possibile grazie ad una serie di fattori. Anzitutto la maggiore disponibilità difonti: nello Stato ebraico i documenti sono declassificati dopo 30 anni, per cui, apartire dal 1978, gli studiosi hanno potuto accedere alle carte dell’Archivio di Stato,dell’Archivio centrale sionista e degli archivi delle Israeli Defense Forces, del -l’Haganah (la maggiore forza armata ebraica prima della fondazione dello Stato), diDavid Ben Gurion e del Partito laburista3. Nello stesso periodo divennero accessi-bili anche i documenti di alcuni Paesi occidentali, come il Regno Unito, che eranostati coinvolti negli eventi. Dopo la guerra in Libano del 1982, inoltre, il clima poli-tico iniziò lentamente a cambiare: Israele era ormai un Stato consolidato, i suoi cit-tadini non vivevano più con l’ansia che potesse essere distrutto e l’invasione delPaese dei cedri, a differenza dei precedenti conflitti, fu condannata da una partesignificativa dell’opinione pubblica. A questo si aggiunga che il tempo trascorso eraormai tale che molti cittadini israeliani, nati dopo l’indipendenza, non erano staticoinvolti direttamente nella guerra del 1948, alla quale potevano guardare conminore coinvolgimento emotivo e maggiore serenità. Gli studiosi che per primihanno contestato la storiografia «ufficiale» hanno assunto la denominazione di«nuovi storici», coniata nel 1988 da Benny Morris, il più noto e discusso esponen-te di questo gruppo di ricercatori4.

Palestine Studies» (XVIII, 1988, 1; XXXIV, 2005, 2) con alcune integrazioni. Prima dei lavo-ri di Khalidi lo studio più importante realizzato in Palestina era quello di Arif al-Arif, unimportante uomo politico, che aveva pubblicato sei volumi su Al-Nakba, Sidon (Libano),1956-1962 (opera mai tradotta in inglese, escluse alcune parti, né in altre lingue). Il citatoIstituto di studi palestinesi fu fondato nel 1963 a Beirut e ha successivamente aperto sedi aWashington, a Parigi e a Ramallah. Pubblica riviste (tra le quali il «Journal of PalestineStudies» e il «Jerusalem Quarterly») e monografie sulla storia e la politica della Palestina.

3 Avi Shlaim, The debate about 1948, «International Journal of Middle East Studies»,XXVII (1995), 3, pp. 287-304; Id., The War of Israeli Historians, «Annales HSS», LIX(2004), 1, pp. 161-167. Non esistono archivi palestinesi relativi ai fatti del 1948, mentre rima-ne molto difficile l’accesso agli archivi dei Paesi arabi.

4 Alla nuova storiografia e al suo impatto sulla società israeliana sono stati dedicati diversistudi, non solo in Israele, in Palestina e nel mondo anglosassone, ma anche in altri Paesi. InFrancia sono stati pubblicati i lavori di Ilan Greilsammer, La nouvelle histoire d’Israël. Essaisur une identité nationale, Paris, Gallimard, 1998; Sebastien Boussois, Israël confronte a sonpassé. Essai sur l’influence de la nouvelle histoire, Paris, L’Harmattan, 2007. In Italia si sonooccupati della nuova storiografia Margherita Platania, Israele e Palestina. Dalle origini del sio-nismo alla morte di Yasser Arafat, Roma, Newton & Compton, 2005, pp. 130-134; LorenzoKamel, Israele-Palestina. Due storie, una speranza. La nuova storiografia israeliana allo spec-chio, Roma, Editori Riuniti, 2008; Marco Allegra, Il 1948 nella storia di Israele. Appunti su undibattito tra storiografia e politica, «Historia Magistra», I (2009), 1, pp. 42-58. Recentementele diverse narrative della guerra del 1948 sono state messe a confronto nei volumi Parlare conil nemico. Narrazioni palestinesi e israeliane a confronto, a cura di Ilan Pappé e Jamil Hilal,Torino, Bollati Boringhieri, 2004; Motti Golani e Adel Manna, Two Sides of the Coin.

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Independence and Nakba 1948. Two Narratives of the 1948 War and its Outcome, Dordrecht(Paesi Bassi), Republic of Letters, 2011.

5 Lo storico aveva anticipato alcune conclusioni nel saggio The Causes and Character of theArab Exodus from Palestine: the Israel Defense Forces Intelligence Service Analysis of June1948, «Middle Eastern Studies», XXII (gennaio 1986), 1, pp. 5-19, nel quale portava all’at-tenzione dei lettori un documento molto importante, un rapporto riservato del servizio infor-mazioni delle IDF circa l’esodo palestinese fino al giugno del 1948. Gli estensori del testospiegavano che la ragione principale della fuga era costituita dalle azioni dell’Haganah e dellealtre milizie ebraiche, che avevano deliberatamente terrorizzato la popolazione, allo scopo difarla andare via, e che solo in pochi casi i leader arabi consigliarono agli abitanti, per ragio-ni strategiche, di allontanarsi temporaneamente. È, in sostanza, la stessa interpretazione deglieventi che Morris avrebbe dato in tutti i suoi libri. Il suo saggio del 1986 è stato ripubblica-to più volte ed è stato tradotto in italiano con il titolo Cause e carattere dell’esodo arabo dallaPalestina. L’analisi del servizio segreto militare israeliano nel giugno del 1948, in BennyMorris, 1948. Israele e Palestina tra guerra e pace, Milano, Rizzoli, 2004, pp. 71-96.

La svolta, come si diceva, arrivò alla fine degli anni ’80: nel 1987 Simha Flapan,un anziano giornalista di sinistra, critico verso il sionismo sin dagli anni ’70, pubbli-cò il volume The Birth of Israel. Myths and Realities, New York, Pantheon Books, nelquale per la prima volta si metteva in discussione il tradizionale racconto dei fatti.L’autore negava che l’Yishuv (la comunità ebraica insediatasi in Palestina prima dellanascita di Israele) avesse accolto con gioia il piano di spartizione del 1947; che gliebrei fossero più deboli dei loro nemici; che la pace non fosse stata raggiunta percolpa degli arabi; che i palestinesi avessero abbandonato le loro case volontariamen-te. Flapan non era uno storico di professione e il suo libro non brillava per accura-tezza metodologica e scrupolo nell’uso delle fonti. Inoltre l’autore morì poco dopola pubblicazione del volume, ma l’anno successivo altri studiosi israeliani, apparte-nenti ad una generazione più giovane e dotati di una più solida formazione scientifi-ca, diedero alle stampe lavori che ribaltavano le tesi della storiografia «ufficiale».

Benny Morris, corrispondente del «Jerusalem Post» fino al 1990 e ora docenteall’Università Ben Gurion del Negev (Beersheba), pubblicò The Birth of thePalestinian Refugee Problem 1947–1949, Cambridge, Cambridge University Press,nel quale sosteneva che l’esodo dei palestinesi non era stato volontario e che i lea-der arabi non avevano mai invitato la popolazione a fuggire. Morris ricostruiva det-tagliatamente, basandosi su una grande mole di documenti, le operazioni delle mili-zie ebraiche nel corso della guerra e spiegava che gli abitanti erano stati costretti adabbandonare i loro villaggi dai soldati israeliani, sebbene nella maggior parte deicasi non vi furono espliciti ordini di espulsione. La fuga fu dovuta a diverse cause(paura, minacce, espulsione forzata, invito dei leader arabi) a seconda dei luoghi,ma fu comunque voluta dai dirigenti dell’Agenzia ebraica (una sorta di governodell’Yishuv), per i quali «meno arabi restavano e meglio era». Per Morris sia la ver-sione tradizionale israeliana (fuga volontaria), sia quella palestinese (pulizia etnicapianificata), erano sbagliate, essendo stato l’esodo una conseguenza della guerra5.

Nello stesso anno Ilan Pappé, vicino alle posizioni del Partito comunista, permolti anni docente all’Università di Haifa e attualmente in cattedra in quella di

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Exter (Regno Unito), diede alle stampe il volume Britain and the Arab-Israeli Conflict1948–1951, London, Macmillan Press, basato su fonti inglesi, arabe ed israeliane,che metteva in discussione l’interpretazione secondo la quale il Regno Unito era osti-le all’Yishuv. Per Pappé gli inglesi, almeno a partire dal febbraio del 1948, avevanoaccettato la costituzione di uno Stato ebraico, mentre rifiutavano quello palestinesee preferivano che i territori che non spettavano agli ebrei fossero annessi al Regnohascemita di Transgiordania. L’autore, inoltre, criticava Israele perché dopo la con-clusione della guerra non aveva voluto la pace, ribaltando la tesi tradizionale, secon-do la quale l’accordo non era stato raggiunto per l’intransigenza degli arabi.

Ancora nel 1988 Avi Shlaim, professore di relazioni internazionali ad Oxford,già autore di importanti studi sulla storia della diplomazia in Occidente e collabo-ratore del giornale «The Guardian», pubblicò Collusion across the Jordan. KingAbdullah, the Zionist Movement and the Partition of Palestine, Oxford, Clarendonpress, che discuteva degli accordi intercorsi nel 1948 tra l’Agenzia ebraica e laTransgiordania. L’autore focalizzava l’attenzione sugli incontri tra Golda Myerson(che poi assunse il cognome Meir e fu Primo ministro negli anni ’60 - ’70) e ReAbdullah, avvenuti nel novembre del 1947 e nel maggio del 1948, durante i quali idue si accordarono per far saltare il piano dell’ONU e dividere la Palestina tra ilRegno hascemita e lo Stato ebraico. Solo nell’estate del 1948 il dialogo, che Shlaimnon esitava a definire collusione, si interruppe. Lo storico sosteneva anche che gliarabi, durante tutta la guerra, evitarono lo scontro frontale con Israele, contraddi-cendo la versione secondo la quale volevano la completa distruzione del nemico6.

Tutte queste ricerche, inoltre, mostravano chiaramente che la guerra non erastata uno scontro tra il Davide israeliano e il Golia arabo, come sostenuto dalla vec-chia storiografia, giacché l’impegno dei Paesi arabi era stato minimo e ben poche letruppe che avevano mandato a combattere, tanto che alla fine della guerra i solda-ti ebrei erano il doppio dei loro nemici. Gli autori non avevano una solida posizio-ne nelle università di Israele (Pappé e Morris sarebbero diventati professori neglianni successivi7, mentre Shlaim avrebbe conservato la sua cattedra ad Oxford), male loro ricerche ebbero un enorme impatto. Esse, infatti, infrangevano una serie di

6 Non esistono traduzioni italiane di queste opere. Solo il libro di Morris è stato tradotto,con il titolo Esilio. Israele e l’esodo palestinese. 1947-1949, Milano, Rizzoli, 2005, ma non sitratta di una traduzione della versione originaria, bensì di quella rivisitata, pubblicata ininglese nel 2004. Sono stati tradotti, viceversa, numerosi lavori successivi dei nuovi storici.

7 Benny Morris, a causa delle sue posizioni sulla guerra del 1948, ebbe forti difficoltà conil mondo universitario israeliano e restò senza lavoro per molti anni. Solo nel 1996, dopo cheaveva dichiarato di voler emigrare negli Stati Uniti e cercare di essere assunto lì da un’uni-versità, il Presidente dello Stato di Israele, Ezer Weizmann, lo convocò e gli promise una cat-tedra, che gli fu assegnata all’Università Ben Gurion del Negev, dove insegna tuttora. Lo rac-conta Morris stesso nell’intervista The 1948 War Was an Islamic Holy War, «Middle EastQuarterly», XVII (estate 2010), 3, pp. 29-34. Ilan Pappé, dopo aver conseguito un dottora-to di ricerca ad Oxford con la supervisione dello studioso anglo-libanese Albert Hourani, nel1984 ebbe il primo incarico all’Università di Haifa.

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convinzioni della storiografia e dell’opinione pubblica di Israele, con pesanti rica-dute politiche circa i rapporti con i palestinesi. Non tutti gli argomenti erano nuovi:alcuni era no già stati proposti da altri studiosi israeliani (senza contare quelli del -l’Oc cidente e del mondo arabo) negli anni precedenti. Inoltre, a partire dalla finedegli anni ’70, anche in altri ambiti (letteratura, cinema, teatro) alcuni intellettualidello Stato ebraico avevano iniziato a mostrare un approccio critico verso il sioni-smo, mettendo in discussione soprattutto l’occupazione dei Territori palestinesicompiuta nel 19678. Anche i nuovi storici, già prima del 1988, avevano pubblicatosaggi e articoli, anticipando alcune delle loro conclusioni. Tuttavia ora, con la pub-blicazione dei loro volumi, la «demolizione» della storiografia «ufficiale» veniva con-dotta in maniera scientifica e sistematica, sulla base di ampie ricerche in archivio.

Come prevedibile, si scatenarono polemiche furibonde e molti intellettuali epolitici accusarono la nuova storiografia di mettere in discussione le basi stesse delloStato e di fare propaganda a favore della causa palestinese, soprattutto perché ilconflitto iniziato nel 1948 era ancora in corso e divulgare notizie «scomode» pote-va avere ripercussioni negative per il Paese. Paradossalmente, i lavori dei revisioni-sti furono accettati più facilmente dai nazionalisti, che ammettevano, giustificando-le, le responsabilità israeliane nei confronti degli arabi, piuttosto che dai laburisti,che tendevano a nasconderle9.

8 Ilan Pappé ha dedicato a questo argomento un saggio in tre parti, intitolato Post-ZionistCritique on the Israel and the Palestinians, «Journal of Palestine Studies», I: The AcademicDebate, XXVI (1997), 2, pp. 29-41; II: The Media, XXVI (primavera 1997), 3, pp. 37-43; III:Popular Culture, XXVI (estate 1997), 4, pp. 60-69.

9 Shlaim, The War of Israeli Historians, p. 163; Pappé, Post-Zionist Critique, I, p. 39. È danotare che, almeno a partire dagli anni ’90, le polemiche non hanno riguardato solo la storiacontemporanea di Israele, ma anche quella antica. Si consideri che, in un’area contesa e di anti-ca civilizzazione come la Terrasanta, l’archeologia riveste una grossa importanza politica, tantoche esistono numerosi siti ai quali israeliani e palestinesi attribuiscono significato di verso(valga per tutti l’esempio della presunta tomba di Giuseppe di Nablus, che secondo i palesti-nesi non è che un’antica moschea), con l’intenzione di accreditare la loro presenza sul territo-rio sin da tempi antichissimi. Ma, come per la storia del 1948, le discussioni avvengono ancheall’interno di Israele. Una questione molto dibattuta è quella della resistenza di Masada duran-te la Grande rivolta ebraica contro i romani (66-73 d.C.). Secondo la narrazione di GiuseppeFlavio, dopo la caduta di Gerusalemme (70 d.C.) un gruppo di circa 960 ebrei, appartenential gruppo degli Zeloti, si rifugiò nella fortezza di Masada, presso il Mar Morto. Il forte fu asse-diato dai romani, che lo espugnarono dopo una lunga resistenza (secondo alcuni durata bentre anni), ma, una volta entrati, i conquistatori non trovarono che cadaveri: dopo aver resisti-to eroicamente, gli assediati avevano preferito uccidersi piuttosto che consegnarsi al nemico.L’episodio è entrato da molto tempo a far parte della mitologia del sionismo e di quella delloStato di Israele. Negli anni ’60, inoltre, i resti della fortezza furono portati alla luce dagliarcheologi e il sito è diventato un luogo simbolo dell’eroismo degli ebrei, tanto che a volte visi tengono le cerimonie del giuramento delle reclute delle IDF. La versione tradizionale dellastoria, però, è molto discussa. Nel 1995 un professore del l’Università ebraica di Gerusalemme,Nachman Ben-Yehuda, pubblicò il libro The Masada Myth. Collective Memory andMythmaking in Israel, Madison (USA), Unversity of Winsconsin Press, nel quale sosteneva chenon si era trattato di una resistenza eroica; che gli assediati appartenevano alla setta dei Sicari

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Poco dopo la pubblicazione dei citati volumi la rivista ebraico-americana «Tik -kun» organizzò un dibattito tra esponenti della vecchia e nuova storiografia. I testidegli interventi non furono pubblicati, ma Benny Morris scrisse per il periodico unsaggio, The New Historiography. Israel Confronts Its Past10, che ebbe larga risonan-za ed è considerato una sorta di manifesto dei nuovi storici. In esso l’autore, riassu-mendo le conclusioni raggiunte dai loro lavori, utilizzava per la prima volta le defi-nizioni di vecchia e nuova storiografia e spiegava che la nuova tendenza era il segnoche Israele stesse maturando.

Molti studiosi israeliani, però, erano di diverso avviso. Tra i primi e più decisi nelcriticare i nuovi storici vi fu Shabtai Teveth, il biografo di Ben Gurion, che nel mag-gio del 1989 pubblicò una serie di articoli sul quotidiano «Haaretz», usando tonimolto duri. L’autore criticò soprattutto il lavoro di Morris sui profughi, non ammet-tendo le responsabilità degli ebrei nell’esodo dei palestinesi, ma prese di mira anchele conclusioni di Shlaim e Pappé relativamente agli accordi tra Yishuv eTransgiordania, al ruolo del Regno Unito e ai rapporti di forza tra i belligeranti11.L’anno successivo Teveth tornò sulla questione dei rifugiati, scrivendo una lungarecensione di The Birth of the Palestinian Refugee Problem, del quale contestavamolti punti, in particolare le accuse a Ben Gurion, e spiegò che i palestinesi eranofuggiti seguendo l’esempio dei loro leader, scappati all’inizio della guerra12. La nuova

(i più estremisti degli Zeloti); che anche altri elementi del racconto tradizionale erano errati.Anche in questo caso si scatenarono forti polemiche (una rassegna delle opinioni espresse daglistorici dopo la pubblicazione di The Masada Myth è nell’articolo di Patrick Cockburn, Ancientbattle divides Israel as Masada ‘myth’ unravels, «The Independent», 30 marzo 1997). Ben-Yehuda è tornato sulla vicenda in alcuni saggi e nel volume Sacrificing Truth: Archaeology andthe Myth of Masada, Amherst (New York, USA), Prometheus Books, 2002, nel quale affermache gli scavi del sito di Masada, diretti dall’ex Capo di stato maggiore dell’esercito YigaelYadin, furono condotti in maniera fraudolenta, allo scopo di accreditare la versione «ufficia-le» della storia. Le sue tesi sono state accolte da molti storici e archeologi. Un’altra polemica,dai toni molto accesi, è relativa ad un recente libro di Shlomo Sand, professore di storia con-temporanea all’università di Tel Aviv, The invention of Jewish people, London-New York,Verso, 2009 (ed. or. in ebraico, 2008; trad. it. L’invenzione del popolo ebraico, Milano, Rizzoli,2010). Secondo l’autore il popolo ebraico è un’«invenzione» recente e non ha legami né con lapopolazione protagonista del racconto della Bibbia né con gli ebrei dei primi secoli dopoCristo. Il volume ha avuto un grande successo editoriale ed è stato tradotto in numerose lin-gue, ma è stato fortemente criticato dall’intellighenzia israeliana, compresa quella più progres-sista. Tra i pochi che, entro certi limiti, lo hanno apprezzato vi è Tom Segev, del quale si vedala recensione An invention called ‘the Jewish people’, «Haaretz», 28 febbraio 2008.

10 Il saggio fu pubblicato da «Tikkun», III (novembre-dicembre 1988), 6, pp. 19-23 e 98-102, e poi è stato ripubblicato diverse volte (per esempio in Making Israel, pp. 11-27). Lo sipuò leggere in italiano nel volume dello stesso Morris, 1948. Israele e Palestina tra guerra epace, pp. 45-70.

11 Gli articoli furono raccolti nel saggio Charging Israel with Original Sin, «Commentary»[mensile dell’American Jewish Committee, edito a New York], settembre 1989, pp. 24-33.

12 Shabtai Teveth, The Palestine Arab Refugee Problem and its Origins, «Middle EasternStudies», XXVI (aprile 1990), 2, pp. 214-249.

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storiografia, per Teveth, era un insieme di distorsioni e falsificazioni, che serviva gliinteressi dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP).

Tra gli altri critici, che usarono toni meno aggressivi, vi furono Itamar Rabi -novich, diplomatico e rettore dell’Università di Tel Aviv, secondo il quale le tesi diPappé e Shlaim circa gli accordi di pace del 1949 non erano accettabili, perché tuttele parti in causa – arabi, ebrei e Paesi occidentali – erano responsabili del fallimen-to delle trattative13; Avraham Sela, professore di relazioni internazionali al l’Uni ver -sità ebraica di Gerusalemme, che mise in discussione la conclusione di Shlaim circai legami con la Transgiordania, osservando che durante la prima fase della guerra irapporti tra il Regno hascemita e l’Yishuv si erano definitivamente guastati, renden-do impraticabili gli accordi14.

Il dibattito è proseguito negli anni successivi15 e, accanto a quella di «nuovi sto-rici», si è diffusa la definizione di «post-sionismo», per indicare questi studiosi e,più in generale, tutti quegli ebrei che mettono in discussione le politiche dello Statodi Israele e l’occupazione dei Territori palestinesi16.

13 Itamar Rabinovich, The Road Not Taken. Early Arab-Israeli Negotiations, Oxford,Oxford University Press, 1991.

14 Avraham Sela, Transjordan, Israel and the 1948 War. Myth, Historiography, and Reality,«Middle Eastern Studies», XXVIII (ottobre 1992), 4, pp. 623-89.

15 A partire dalla fine degli anni ’80 ha preso avvio anche una critica «da destra» della sto-riografia tradizionale. Uri Millstein, medico e docente di storia militare presso le IDF, ha scrit-to vari libri, tra i quali quattro volumi di una History of the War of Independence, Lanham(USA), University Press of America, 1996-1999 (ed. or. in ebraico, Tel Aviv, 1989-1991), percriticare aspramente la tattica dell’esercito e il comportamento dei suoi comandanti (tuttiappartenenti o vicini ai partiti di sinistra). Nell’aprile del 1995 Milstein diede alla stampe unvolume su Yitzhak Rabin, in quel momento Primo ministro e impegnato nel processo di pacecon i palestinesi, al quale l’autore era fortemente contrario. Nel libro, tradotto in inglese comeThe Rabin File. An Unauthorized Expose, New York, Gefen, 1999, Milstein ripercorreva lacarriera militare di Rabin, attaccandolo duramente e accusandolo di essere un codardo chefuggiva di fronte ai combattimenti. Più di recente lo studioso ha dedicato una ricerca al mas-sacro di Deir Yassin, un villaggio nei pressi di Gerusalemme dove il 9 aprile 1948 le milizieebraiche dell’Irgun e della Banda Stern, schierate su posizioni estremiste e ostili alla leader-ship laburista, uccisero oltre 100 arabi. Milstein, nel volume The birth of a Palestinian nation.The myth of the Deir Yassin massacre, Springfield (USA), Gefen, 2012, (ed. or. in ebraico, TelAviv, 2007), ha sostenuto che il massacro è un’invenzione per delegittimare la destra israelia-na. L’impatto di questi lavori, in ogni caso, è di gran lunga inferiore a quello dei nuovi storici.

16 Spesso questi ricercatori vengono indicati genericamente come «revisionisti israeliani».Tom Segev, invece, ha proposto addirittura di adoperare la definizione «primi storici», rite-nendo che prima di loro non vi fosse stata vera storiografia, ma solo memorialistica. (Kamel,Israele-Palestina, p. 331). Anche Benny Morris ha sostenuto questa tesi (si veda la suaIntroduction, in Making Israel, pp. 1-10). Ilan Pappé, al contrario, non ritiene corretta la defi-nizione «nuovi storici», perché è ispirata alla «nuova storia» sorta in Francia negli anni ’30con la scuola degli «Annales», che era ben diversa e proponeva un nuovo approccio storio-grafico, mentre, a suo avviso, i revisionisti israeliani si muovono pur sempre nell’ambito dellastoriografia positivista (cfr. Pappé, Post-Zionist Critique, I, p. 33).

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Negli anni ’90 tra i più duri critici della nuova storiografia vi è stato EfraimKarsh, professore al King’s College di Londra e membro del think tank conservato-re «Middle East Forum»17. In un articolo pubblicato sulla rivista «Middle EastQuarterly» osservò che i revisionisti proponevano in alcuni casi interpretazioni vec-chie e fatti già noti, in altri interpretazioni sbagliate e distorsioni della realtà. PerKarsh questi studiosi sono semplicemente «partisans seeking to give academicrespectability to longstanding misconceptions and prejudice on the Arab-Israeli con-flict» [partigiani che cercano di dare rispettabilità accademica a concezioni errate dilunga data e a pregiudizi sul conflitto arabo-israeliano]18. Il fascicolo successivo di«Middle East Quarterly» ospitò le repliche degli «imputati» e un nuovo articolo diKarsh. Shlaim confutò le argomentazioni del suo avversario e ne criticò la concezio-ne totalitaria della storia; Pappé lo accusò di confondere ideologia e realtà; Morris,ritenendo l’articolo di accusa pieno di distorsioni, al momento rifiutò di replicare19.La sua risposta, giunta dopo due anni e dopo che Karsh aveva pubblicato un volu-me sulla nuova storiografia20, fu molto incisiva: discusse punto per punto le critichee concluse accusando il suo detrattore di distorcere la realtà per fini ideologici e diignorare l’evidenza «as those Holocaust-deniying historians» [come gli storici chenegano l’Olocausto]21, che per un israeliano è una delle peggiori accuse che si pos-sano ricevere. Karsh, nondimeno, ha continuato a criticare i revisionisti, ritenendoche propongono semplicemente la versione araba degli eventi, e li ha biasimati ancheper essere collaboratori del «Journal of Palestine Studies», che considera una rivistapartigiana. Lo studioso non intende mettere in discussione il tradizionale raccontodel 1948, ritenendo che la tragedia degli abitanti arabi della Palestina fu causata daloro stessi, perché non accettarono il piano di spartizione: «the mass Arab flight wasa direct result of the fragmentation and lack of cohesiveness of Palestinian society,which led to its collapse under the weight of the war it had initiated and whose enor-mity it had failed to predict» [l’esodo di massa degli arabi fu il diretto risultato dellaframmentazione e della mancanza di coesione della società palestinese, che portò alsuo crollo sotto il peso della guerra che essa stessa aveva iniziato e della quale nonaveva saputo prevedere l’enormità]22. Per Karsh il revisionismo è semplicemente unostrumento al servizio di chi vuole consentire il ritorno dei profughi arabi in Israele23.

17 Da non confondere con l’omonima rivista, citata in nota 2, che usciva negli anni ’50 e ’60.18 Efraim Karsh, Rewriting Israeli History, «Middle East Quarterly», III (1996), 2, pp. 19-29.19 Avi Shlaim, A Totalitarian Concept of History, pp. 52-55; Ilan Pappé, My Non-ZionistNarrative, pp. 51-52; Benny Morris, Undeserving a reply, p. 51; Efraim Karsh, HistoricalFictions, pp. 55-60, tutti in «Middle East Quarterly», III (1996), 3.

20 Efraim Karsh, Fabricating Israeli History. The “New Historians”, London, Cass, 1997.21 Benny Morris, Refabricating 1948, «Journal of Palestine Studies», XXVII (1998), 2, pp.

81-95.22 Efraim Karsh, The Unbearable Lightness of My Critics, «Middle East Quarterly», IX

(2002), 3, pp. 63-73.23 Efraim Karsh, Were the Palestinians Expelled?, «Commentary», luglio-agosto 2000, pp.

29-34. Un’altra polemica di Karsh con Benny Morris è relativa all’attendibilità e alla traspa-renza dei documenti israeliani. In un articolo del 1995 (Falsifying the Record: A Fresh Look

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Tra i critici della nuova storiografia è da annoverare anche Anita Shapira, pro-fessoressa di studi sul sionismo all’Università di Tel Aviv, secondo la quale i revisio-nisti, ai quali riconosce alcuni meriti, legittimano vecchie tesi della propagandasovietica e araba24.

In Palestina i lavori dei nuovi storici sono stati accolti con scetticismo da numero-si intellettuali, che, pur evidenziandone i meriti, ne hanno soprattutto sottolineato ilimiti25. Va ricordato, in proposito, che tra gli anni ’80 e ’90 anche la storiografia pale-stinese diede avvio ad uno studio più sistematico e scientifico degli eventi del 1948.Nel 1992 l’Istituto di studi palestinesi pubblicò due opere importanti: All ThatRemains. The Palestinan Villages Occupied and Depopulated by Israel in 1948, a curadi Walid Khalidi, una dettagliata rassegna delle occupazioni e delle espulsioni opera-te da Israele, basata su fonti orali, su vari libri di memorie e sulla stampa dell’epoca;il libro di Nur Masalha, docente di storia delle religioni in varie università inglesi,Expulsion of the Palestinians: The Concept of “Transfer” in Zionist Political Thought,che mostrava come l’idea di cacciare gli arabi per far posto agli ebrei fosse semprestata presente nell’ideologia sionista. Nello stesso periodo l’Università di Birzeit, unodei maggiori atenei palestinesi, avviò la pubblicazione di una serie di monografie rela-tive alla Nakba, sotto la direzione dello storico Saleh Abd el-Jawad (i volumi sonodisponibili solo in arabo). Inoltre nel 1997 Rashid Khalidi, professore alla ColumbiaUniversity e attuale direttore del «Journal of Palestine Studies», diede alle stampePalestinian Identity. The Construction of Modern National Consciousness, New York,Columbia University Press (trad. it. Identità palestinese. La costruzione di una moder-na coscienza nazionale, Torino, Bollati Boringhieri, 1997), nel quale studiava la storiadel sentimento nazionale e identitario degli abitanti della Palestina, osservando cheera sorto all’inizio del XX secolo ed era meno recente di quanto molti credessero.

at Zionist Documentation of 1948, «Journal of Palestine Studies», XXIV, primavera 1995, 3, pp.44-62) Morris evidenziò le omissioni presenti in molte fonti sioniste, compresi i diari di BenGurion, che tacevano le vicende più imbarazzanti, come le atrocità compiute dalle IDF. Karsh(Benny Morris’and the Reign of Error, «Middle East Quarterly», VI, 1999, 1, pp. 15-28) repli-cò girando al suo antagonista l’accusa di falsificare la realtà. Alcuni anni dopo nel saggio BennyMorris’s Reign of Error, Revisited. The Post-Zionist Critique, «Middle East Quarterly», XII(2005), 2, pp. 31-42, recensì in termini assai critici la riedizione di The Birth of the PalestinianRefugee Problem. Il 18 ottobre del 2006, inoltre, fu impegnato in un breve contraddittorio tele-visivo con Ilan Pappé, andato in onda sul canale Sky News, nel corso del quale i due studiosidiscussero della guerra del 1948 e della politica israeliana nei confronti dei palestinesi (il dibat-tito è visionabile sul sito web news.sky.com e su numerosi altri siti). Karsh ha ribadito anche direcente le sue idee sulla guerra del 1948: si vedano il volume Palestine Betrayed, New Haven(USA), Yale University Press, 2010, nel quale sostiene che il popolo palestinese fu tradito daiPaesi arabi e dalla sua stessa classe dirigente; l’articolo Reclaiming a historical truth, «Haaretz»,10 giugno 2011, dove afferma che furono i dirigenti arabi a ordinare la fuga.

24 Anita Shapira è tornata in più occasioni sulla questione. Si vedano, in particolare, Politicsand Collective Memory: the Debate over the “New Historians” in Israel, «History andMemory», VII (1995), 1, pp. 9-40; The Failure of Israel’s “New Historians” to Explain War andPeace. The Past is not a Foreign Country, «The New Republic», 29 novembre 1999, pp. 26-36.

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Studiosi palestinesi e filopalestinesi hanno criticato i nuovi storici, in particolareMorris, per non aver condotto fino in fondo la demolizione della storiografia «uffi-ciale» di Israele. Questa, per esempio, fu la tesi sostenuta nel 1991 da Nur Masalhae da Norman G. Finkelstein, un ebreo americano molto critico verso Israele. Ilprimo scrisse che Morris ignorava che l’idea di trasferire gli arabi era presente nel-l’ideologia sionista sin dalle origini; il secondo lo accusò di sostituire con un nuovomito, quello della fuga per causa di guerra, la vecchia leggenda dell’esodo volontariodella popolazione autoctona; Morris replicò accusando i suoi detrattori di avere deipregiudizi e mettendoli sullo stesso piano dei suoi critici sionisti come Teveth26.

Lo storico israeliano, inoltre, nel 1993 fu coinvolto in una querelle con WalidKhalidi, dopo che aveva recensito in termini molto negativi un suo lavoro. Lo sto-rico palestinese replicò punto per punto alle critiche e, pur attaccando il suo anta-gonista, ne riconobbe i meriti per lo studio del 194827.

Nel 1995 un importante contributo alla «causa» dei nuovi storici giunse da ZeevSternhell, affermato studioso del fascismo e della «destra rivoluzionaria» francese eitaliana, che in quell’anno pubblicò in ebraico una ricerca sul sionismo e la fonda-zione di Israele, tradotta in inglese con il titolo The Founding Myths of Israel.Nationalism, Socialism and the Making of the Jewish State, Princeton, PrincetonUniversity Press, 1998 (trad. it. Nascita di Israele. Miti, storia, contraddizioni,Milano, Baldini & Castoldi, 1999). Era la prima volta che l’autore, politicamentevicino al movimento pacifista Peace now e contrario all’occupazione dei Territoripalestinesi, si dedicava alla storia del suo Paese, che esaminava con i medesimi cano-ni con i quali aveva studiato la destra europea. Sternhell riteneva che i primi sioni-

25 Una rassegna delle considerazioni espresse dai palestinesi sulla nuova storiografia è stataproposta da Mustafa Kabha, A Palestinian Look at the New Historians and Post-Zionism inIsrael, in Making Israel, pp. 299-318.

26 Il dibattito avvenne sul «Journal of Palestine Studies», XXI (1991), 1, che pubblicò gliarticoli di Norman G. Finkelstein, Myths Old and New, pp. 66-89, e Nur Masalha, A critiqueof Benny Morris, pp. 90-97, e la replica di Morris, Response to Finkelstein and Masalha, pp.98-114. Si veda anche la critica della nuova storiografia di un altro ebreo americano, JoelBenin, professore di storia del Medio Oriente all’Università di Standford, nell’articoloForgetfulness for Memory: The Limits of the New Israeli History, «Journal of PalestineStudies», XXIV (2005), 2, pp. 6-23.

27 Before their Diaspora reviewed by Benny Morris, «Journal of Palestine Studies», XXII(1992), 1, pp. 109-11; Walid Khalidi, Benny Morris and “Before Their Diaspora”, ibidem,XXII (1993), 3, pp. 106-119. Il libro in questione, Before Their Diaspora. A photographichistory of the Palestinians, 1876-1948, a cura di Walid Khalidi, Washington, Institute ofPalestine Studies, 1984, più volte ripubblicato, propone una storia per immagini dellaPalestina, consultabile anche in internet (http://btd.palestine-studies.org). Da notare cheKhalidi aveva già lodato in precedenza il lavoro di Morris, «that stands out for the range andquality of the archival material it uses and for the objectivity» [che spicca per l’ampiezza e laqualità del material archivistico che usa e per l’obiettività], pur evidenziandone alcuni limiti,come il non aver capito che il sionismo, sin dalle sue origini, intendeva allontanare con laforza i palestinesi (si veda la sua Preface, in All That Remains, p. XXIII).

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sti fossero animati più dal nazionalismo che dal socialismo e considerava l’ideologiadei padri fondatori come la versione ebraica del socialismo nazionalista, le cui ori-gini, in altre ricerche28, aveva rintracciato nella Francia d’inizio ’900. Il libro presen-tava una dettagliata analisi del pensiero sionista fino al 1948 e, pur ammettendo chedopo l’Olocausto il popolo ebraico avesse necessità di un proprio Stato, si conclu-deva sottolineando che Israele, dopo essersi consolidato, non correva alcun perico-lo di essere distrutto e che l’occupazione dei Territori palestinesi compiuta nel 1967non trovava giustificazioni.

Il volume, anche a causa della notorietà dell’autore, suscitò molte reazioni, siapositive sia negative. Nella primavera del 1996, quando uscì il primo fascicolo di«Israel Studies», una rivista statunitense dedicata alla storia e alla politica delloStato ebraico, The Founding Myths of Israel fu criticato da studiosi come YosefGorni, esperto del sionismo, che riteneva che per i colonizzatori ebrei il socialismorivestisse un ruolo maggiore di quanto pensasse Sternhell; Ira Sharkansky, economi-sta e politologo, il quale si soffermava sull’affermazione secondo la quale i fondatoridi Israele non si erano posti il problema di migliorare le condizioni delle categoriemeno agiate, e spiegava che le condizioni non permettevano di fare altrimenti29.Sternhell replicò ad entrambi: nei confronti di Gorni sostenne che il «socialismocostruttivo» dei padri fondatori era effettivamente nazionalista, in quanto basato sul-l’idea di nazione, e accusò il suo detrattore di considerare la storia ebraica separatada quella del resto del mondo; a Sharkansky rispose che la leadership sionista, seavesse voluto, aveva tutte le possibilità per dare avvio ad una politica sociale30. TheFounding Myths of Israel ha continuato a far discutere negli anni successivi e ancheil «Journal of Palestine Studies» ha pubblicato una recensione poco benevola, scrit-ta da Muhammad Alì Khalidi, professore di filosofia alla York University diToronto, che non accettava che la tesi per la quale la fondazione di Israele era giu-stificata dalle difficili condizioni del popolo ebraico. Per Alì Khalidi in nessun casosi può giustificare l’occupazione di un territorio abitato da un altro popolo31.

28 Soprattutto La destra rivoluzionaria. Le origini francesi del fascismo 1885-1914, Milano,Corbaccio, 1997 (ed. or. 1979); Nascita dell’ideologia fascista, con Mario Sznajder e MaiaAsheri, Milano, Baldini & Castoldi, 1993 (ed. or. 1989).

29 Yosef Gorni, The Historical Reality of Constructive Socialism, pp. 295-305; IraSharkansky, Israeli Income Equality, pp. 306-314, entrambi in «Israel Studies», I (primavera1996), 1.

30 Zeev Sternhell, A Response to Gorny and Sharkansky, «Israel Studies», I (autunno 1996),2, pp. 304-314. Nello stesso fascicolo è pubblicato l’articolo di Michael Shalev, Time forTheory: Critical Notes on Lissak and Sternhell, pp. 170-188, nel quale l’autore di Nascita diIsraele è criticato perché dà troppo peso all’ideologia e poco alle circostanza concrete.

31 Sternhell: The Founding Myths of Israel Reviewed by Muhammad Ali Khalid, «Journal ofPalestine Studies», XXIX (2000), 2, pp. 109-110. Dopo The Founding Myths of IsraelSternhell non ha pubblicato altri lavori sulla storia dello Stato ebraico, ritornando a studiareil pensiero politico europeo, ma ha continuato a collaborare con il quotidiano «Haaretz» ead esprimere le sue critiche nei confronti della politica israeliana. Nel 2008 fu insignito del

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Un’occasione di confronto tra storici israeliani e palestinesi si ebbe nel maggio1998, quando a Parigi fu tenuto un dibattito organizzato dal mensile «Le mondediplomatique» e dalla «Revue d’études palestiniennes», con la partecipazione distudiosi dello Stato ebraico (tra i quali Morris, Pappé, Sternhell e Rabinovich) epalestinesi (tra i quali Masalha ed Edward Said, uno dei più noti intellettuali dellaPalestina del XX secolo). L’incontro servì ad acuire le differenze piuttosto che adappianarle: gli israeliani presentavano posizioni tutt’altro che unanimi, con Pappémolto critico verso i suoi connazionali; gli arabi, dal canto loro, premevano perchéin Israele, dopo il promettente avvio, si indagassero ancora più approfonditamentele ragioni e lo svolgimento del conflitto32. Said, pur mostrando di apprezzare lo sfor-zo fatto dai nuovi storici, ne derivò l’idea che, con l’eccezione di Pappé, si muove-vano all’interno della cornice del sionismo e non avrebbero mai condotto fino infondo le loro indagini33.

Nonostante queste critiche, negli anni ’90 le tesi della nuova storiografia hannoricevuto molta attenzione in Israele, anche grazie al più disteso clima politico eall’avvio del processo di pace, che sembrava destinato a risolvere una volta per tuttela questione palestinese. Le ricerche dei revisionisti cominciarono ad avere ecoanche nei libri scolastici, che fino ad allora avevano proposto solo la versione «uffi-ciale» della storia del 194834. Nella seconda metà degli anni ’90, dopo che ilMinistero dell’istruzione aveva pubblicato un nuovo programma di storia per lescuole primarie e secondarie, furono dati alle stampe alcuni manuali che, senzarinunciare alla versione sionista dei fatti e pur continuando a dipingere i colonizza-

Premio Israele, uno dei massimi riconoscimenti dello Stato (mai concesso ad esponenti dellanuova storiografia), il che suscitò le proteste di una parte dell’opinione pubblica, che lo accu-sava di essere un sostenitore del terrorismo. Inoltre lo storico, che già aveva ricevuto molteminacce per le sue posizioni politiche, nel settembre del 2008 fu vittima di un attentato daparte di un estremista, Yaakov Teitel, che piazzò una bomba nei pressi della porta di ingres-so della sua abitazione, ferendolo lievemente (cfr. Dichter: Prof attack takes us back to days ofRabin assassination, «Haaretz», 26 settembre 2008). Il colpevole è stato arrestato nell’otto-bre del 2009 («Haaretz», 1 novembre 2009). Sternhell, nonostante l’attentato, ha continuatoad esprimere le sue idee pacifiste. Si veda, tra i tanti, il suo articolo Social justice also meansending the occupation, «Haaretz», 26 agosto 2011.

32 Cfr. Nur Masalha, New History, Post-Zionism and Neo-Colonialism: a Critique of theIsraeli “New Historians”, «Holy Land Studies», X (2011), 1, pp. 1-53.

33 Edward Said, New History, Old Ideas, «Al-Ahram Weekly On-line», 21-27 maggio 1998,http://weekly.ahram.org.eg/. Dello stesso autore si veda anche l’articolo La Palestina non èscomparsa, «Le monde diplomatique», edizione italiana, maggio 1998.

34 Giova ricordare che in Israele il sistema scolastico è diviso in tre settori: esistono scuolestatali per gli ebrei laici, scuole religiose per gli ebrei ortodossi e scuole per gli alunni arabo-israeliani. Vi sono, inoltre, alcuni istituti indipendenti e alcune scuole miste per arabi edebrei. Il Ministero dell’istruzione e la Commissione per l’istruzione e la cultura della Knesset(il parlamento israeliano) hanno un forte potere di controllo sui libri adottati dai docenti.Inoltre, il Ministero pubblica periodicamente dettagliati programmi, diversi per arabi edebrei, con l’indicazione degli argomenti che si devono studiare.

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tori ebrei come eroi, accennavano timidamente all’espulsione dei palestinesi35,suscitando le proteste di studiosi come Efraim Karsh36.

Si consideri anche che, nello stesso periodo, in Israele vi fu una parziale priva-tizzazione dei media, il che favorì la liberalizzazione dell’informazione e permise agliintellettuali «post-sionisti» di trovare spazio sui principali organi di stampa37. Iricercatori, inoltre, con il passare degli anni hanno potuto disporre di più documen-ti, grazie a nuove declassificazioni.

Anche altri studiosi israeliani hanno sostenuto tesi vicine a quelle dei nuovi stori-ci, non facendosi scrupoli nel criticare il sionismo e i suoi leader, e hanno preso inesame altre questioni. Tra gli argomenti più dibattuti vi è stato il comportamentodell’Yishuv nei confronti delle vittime dell’Olocausto. Alcuni storici hanno sottolinea-to l’approccio strumentale che gli ebrei che vivevano in Palestina e i loro dirigenti, apartire da Ben Gurion, hanno avuto nei confronti dei sopravvissuti al genocidio, con-siderati soprattutto un mezzo per giungere alla fondazione dello Stato. In propositolo studio più importante è stato quello di Tom Segev, professore di storia in varie uni-versità degli Stati Uniti, già critico del sionismo negli anni ’8038, che ha pubblicato TheSeventh Milion. The Israelis and the Holocaust, New York, Owl Books, 2000 (trad. it.Il settimo milione. Come l´Olocausto ha segnato la storia di Israele, Milano, Mon da -

35 Cfr. Majid Al-Haj, National Ethos, Multicultural Education, and the New HistoryTextbooks in Israel, «Curriculum Inquiry», XXXV (primavera 2005), 1, pp. 47-71. L’autore,un professore arabo-israeliano dell’università di Haifa, prende in esame cinque libri di testoper le scuole statali e osserva che, nonostante gli accenni all’espulsione, raccontano la storiasolo secondo la versione tradizionale e non favoriscono il multiculturalismo. Sebbene sia uni-versalmente riconosciuto che i libri di testo israeliani propongano la narrazione «ufficiale»della storia del 1948, la loro imparzialità sulle altre questioni e il modo in cui presentano gliarabi sono molto discussi. Secondo IMPACT-SE (Institute for Monitoring Peace andCultural Tolerance in School Education), un istituto che esamina periodicamente i libri sco-lastici di alcuni Paesi mediorientali, i testi non presentano posizioni razziste e descrivono intermini positivi il processo di pace, ma fanno apparire i palestinesi come responsabili dellaloro Nakba. Molto più negativo, per altro, è il giudizio di IMPACT-SE circa i libri di testopalestinesi, accusati di demonizzare gli ebrei (tutti i report dell’Istituto sono pubblicati ininternet, www.impact-se.org). Diversa l’opinione di Nurit Peled-Elhanan, glottologadell’Università ebraica di Gerusalemme, che in una recente ricerca ha sostenuto che i libriscolastici israeliani presentano gli arabi in termini razzisti e raccontano la storia in modoestremamente parziale (Palestine in Israeli School Books. Ideology and Propaganda inEducation, London-New York, I. B. Tauris, 2012). Il Ministero dell’istruzione palestinese, dalcanto suo, ha pubblicato un rapporto nel quale asserisce che i libri usati nelle scuole diIsraele incitano all’odio («The Jerusalem Post», 23 giugno 2012).

36 Karsh, Were the Palestinians Expelled?.37 Cfr. Pappé, The Post-Zionist Critique, II, p. 40.38 Segev aveva anticipato alcuni temi poi proposti dalla nuova storiografia in un libro uscito

in ebraico nel 1984 e tradotto in inglese due anni più tardi con il titolo 1949. The first Israelis,New York, The Free Press (ripubblicato nel 1998), che focalizzava l’attenzione sui rapportidegli israeliani con gli arabi e con gli ebrei immigrati dopo la fondazione dello Stato, sulle rela-zioni tra laici e religiosi, sul sentimento nazionale e sulle condizioni economico-sociali.

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dori, 2001). Il libro prende in esame non solo l’Yishuv, ma anche la successiva storiaisraeliana, fino allo sviluppo del «culto» della Shoah negli anni ’80. Sull’atteggiamentodi Ben Gurion e della comunità ebraica in Palestina è da menzionare anche il lavorodi Idith Zertal, professoressa di storia contemporanea all’Università ebraica diGerusalemme, From catastrophe to power. Holocaust survivors and the emergence ofIsrael, Berkeley, University of California Press, 1998, che a sua volta mette in eviden-za la strumentalizzazione dell’Olocausto da parte dell’Yishuv39.

Queste ricerche hanno avuto un grosso impatto in Israele, perché lo sterminioha una posizione molto particolare nella memoria collettiva. Come è noto, la Shoahè stata un elemento fondamentale per la nascita dello Stato, ma il suo ricordo, finoagli anni ’60, era tenuto in sordina. Si era imposta, infatti, una visione degli ebreicome popolo forte e coraggioso, capace di sconfiggere il potente nemico arabo, e sirifiutava la rappresentazione dell’ebreo come vittima. Anche nei programmi scola-stici si parlava ben poco del genocidio: nel curriculum per le scuole primarie stabi-lito nel 1954, rimasto in vigore per circa venti anni, era inserito nella parte dedica-ta alla storia del resto del mondo (separata dalla storia del popolo ebraico) comeelemento della seconda guerra mondiale; i manuali non vi dedicavano che pochicenni e prestavano più attenzione alle ribellioni degli ebrei contro i nazisti, comequella del ghetto di Varsavia del 1943. Anche due leggi emanate nel 1953, quellache istituiva il museo-memoriale dello Yad Vashem a Gerusalemme e quella che sta-biliva di celebrare in tutto il Paese la «Giornata dell’Olocausto e dell’eroismo»,focalizzavano l’attenzione sulle insurrezioni. Lentamente, però, le cose cambiarono:nel 1961 il processo ad Adolf Eichmann fece crescere l’attenzione per la Shoah intutto il Paese; i sopravvissuti, inoltre, premevano perché lo Stato desse più impor-tanza alla memoria della loro tragedia. In un programma di storia per le scuolesecondarie entrato in vigore nel 1977 l’Olocausto fu inserito nella parte relativa allastoria degli ebrei, ma restava un argomento a scelta, a differenza della Diaspora edei rapporti arabo-israeliani, che, invece, erano obbligatori. Solo nel 1980, quandoper la prima volta era al potere il Likud (il principale partito della destra israeliana)di Menachem Begin, che aveva un approccio diverso alla questione40, fu votata unalegge che rendeva necessario lo studio dell’Olocausto. A partire dagli anni ’80, inol-tre, la memoria del genocidio divenne sempre più importante: le scuole comincia-

39 Per il dibattito avvenuto in Israele circa l’atteggiamento dell’Yishuv di fronteall’Olocausto si veda Yechiam Weitz, Dialectical versus Unequivocal. Israeli Historiography’sTreatment of the Yishuv and Zionist Movement Attitudes toward the Holocaust, in MakingIsrael, pp. 278-298.

40 Già negli anni ’50 Begin mostrò di avere una posizione diversa sull’Olocausto rispetto al -la sinistra e di non tollerare alcun compromesso circa la sua memoria. Nel 1952 il Primo mi -nistro Ben Gurion negoziò un accordo con la Germania Ovest, in base al quale i tedeschi siimpegnavano a risarcire con una grossa somma Israele per la Shoah. Begin, all’epoca leaderdel partito di opposizione Herut (embrione di quello che oggi è il Likud), si dichiarò contra-rio, ritenendo che, in tal modo, si vendessero per denaro le vittime del genocidio, e il 7 gen-naio 1952 organizzò un’imponente e violenta manifestazione di protesta davanti alla Knesset.

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rono ad organizzare viaggi di istruzione in Polonia, per visitare i campi di stermi-nio; il Ministero dell’istruzione commissionò un libro di testo, intitolato TheHolocaust and its Significance, destinato ad avere molta fortuna, che raccontava det-tagliatamente la Shoah e la raffigurava come un evento unico nel suo genere. Ilgenocidio, inoltre, fu utilizzato per appianare i contrasti etnici che animavano loStato di Israele: si cercò, infatti, di presentarlo come una questione che riguardavatutti gli ebrei, non solo gli askenaziti (ebrei di origine europea), che ne erano statieffettivamente vittime, ma anche i mizrahi (ebrei dei Paesi arabi, appartenenti algruppo sefardita), che non avevano subito direttamente la persecuzione41. Da allo-ra la tesi dell’unicità dell’Olocausto e la sua centralità per l’identità ebraica e israe-liana si sono affermate definitivamente e oggi il suo ricordo è venerato come unavera e propria religione. Spesso, però, il genocidio è usato in maniera strumentale,per avallare scelte politiche e militari con il presunto (e infondato) timore che gliebrei possano di nuovo subire una simile tragedia. Frequentemente, inoltre, i nemi-ci arabi di Israele vengono equiparati ai nazisti: è una retorica che è stata semprepresente, tanto che già Ben Gurion ne faceva ampio uso, ma ha raggiunto i massi-mi livelli durante la guerra dei sei giorni e durante l’invasione del Libano del 1982.

Lo studio dell’Olocausto potrebbe servire efficacemente a dimostrare qualisono i pericoli ai quali possono portare il razzismo e lo sciovinismo e far capire lanecessità della comprensione reciproca, ma, purtroppo, non è questo il senso cheviene dato alla sua memoria.

All’uso ed all’abuso della Shoah che si fa in Israele è dedicato un altro libro diIdith Zertal, pubblicato in ebraico nel 2002 e tradotto in inglese con il titolo Israel’sHolocaust and the Politics of Nationhood, Cambridge, Cambridge University Press,2005 (trad. it. Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia, Torino, Einaudi,2007) . L’autrice esamina la funzione dello sterminio nella formazione della coscien-za collettiva israeliana e presta particolare attenzione ai processi contro i collabora-zionisti ebrei celebrati negli anni ’50, alle polemiche nelle quali fu coinvolta la filo-sofa Hannah Arendt dopo il processo ad Adolf Eichmann e all’uso dell’Olocaustonel conflitto con i palestinesi. La Zertal si esprime in termini molto critici verso lacultura ufficiale e la classe dirigente di Israele, mostrandone tutte le strumentalizza-zioni della Shoah, come quella dell’equiparazione degli arabi ai nazisti e della qua-lifica di «nuovo Hitler» affibbiata nel corso degli anni a uomini come il presidenteegiziano Gamal Abdel Nasser e il leader palestinese Yasser Arafat42.

41 Dan A Porat, From the Scandal to the Holocaust in Israeli Education, «Journal ofContemporary History», XXXIX (ottobre 2004), 4, pp. 619-636. Si veda anche Anna Foa,Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 213-224.

42 Sullo stesso tema è da segnalare anche il libro di Norman G. Finkelstein, The HolocaustIndustry. Reflections on the Exploitation of Jewish Suffering, New York, Versus, 2000 (trad.it. L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Milano, Rizzoli,2002), che si sofferma anche sulle questioni economiche e sugli indennizzi pagati dallaGermania Ovest ai sopravvissuti.

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In Palestina non mancano persone, soprattutto tra quelle vicine ad Hamas (ilmovimento islamista che ha conquistato la maggioranza relativa alle ultime elezio-ni), che negano o minimizzano la Shoah43, ma tale posizione non è mai stata accol-ta né dalla maggior parte dell’opinione pubblica né dall’intellighenzia del Paese che,al contrario, hanno spesso accusato i negazionisti di danneggiare la loro causa44. Ipalestinesi, invece, ritengono di essere stati i soli a pagare le conseguenze del geno-cidio, essendo stati espropriati della loro terra per far posto agli ebrei, e pensanoche questo sia ingiusto, in quanto i responsabili della Shoah sono stati gli europei.

Oltre alla fondazione dello Stato e all’Olocausto, anche altre questioni sonostate prese in esame con un approccio critico. Per esempio Hillel Cohen, docenteall’Università ebraica di Gerusalemme, ha pubblicato diverse ricerche, tra le qualiArmy of Shadows. Palestinian Collaboration with Zionism 1917-1948, Berkeley,University of California Press, 2004, che analizza l’atteggiamento delle diversefazioni palestinesi prima della guerra. Cohen mostra come il clan degli Husseini (lapiù importante famiglia di Gerusalemme prima del 1948) fosse nemico giurato degliebrei sin dagli anni ’20, non accettando la loro presenza, mentre gli altri gruppi ave-vano un atteggiamento più fluido ed erano disposti ad adattarsi alla coabitazione.In particolare, molti abitanti accettarono di vendere le loro terre agli ebrei e, perquesto, furono accusati di tradimento dai sostenitori degli Husseini.

Un contributo importante alla revisione della storia israeliana è arrivato ancheda alcuni sociologi (definiti «sociologi critici»), che hanno analizzato diverse que-stioni relative alla politica e alla società di Israele. Tra essi spicca Baruch Kimmer -ling, professore all’Università ebraica di Gerusalemme, che aveva anticipato giànegli anni ’80 alcuni temi proposti dai nuovi storici ed ha successivamente pubbli-cato lavori come The Invention and Decline of Israeliness. State, Culture and Militaryin Israel, Berkeley, University of California Press, 2001, nel quale traccia una storiadel sentimento di identità nazionale diffuso tra gli israeliani, osservando che ogginon è più unitario come negli anni ’50.

Più di recente sono iniziate le discussioni anche in merito alla guerra dei sei gior-ni, che, com’è noto, ebbe luogo nel giugno del 1967 e permise allo Stato ebraico,

43 Anche l’attuale Presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas (notoanche come Abu Mazen), è stato accusato di essere un negazionista, perché nel 1982, nella suatesi di dottorato in storia, discussa all’Università Patrice Lumumba di Mosca, sostenne che gliebrei uccisi dai nazisti non erano stati sei milioni ma alcune centinaia di migliaia. La ricerca,dedicata ai rapporti tra nazismo e sionismo dal 1933 al 1945, fu pubblicata in arabo nel 1984e suscitò molte critiche. Nel 2003 Abbas, intervistato da «Haaretz», affermò che nella tesiaveva solo citato alcuni dati presi da altri studi e riconobbe che «the Holocaust was a terrible,unforgiveable crime against the Jewish nation, a crime against humanity that cannot be accep-ted by humankind. The Holocaust was a terrible thing and nobody can claim I denied it»[l’Olocausto fu un crimine terribile e imperdonabile contro la nazione ebraica, un criminecontro l’umanità che non può essere accettato da nessun essere umano. L’Olocausto è statauna cosa terribile e nessuno può dire che io l’abbia negato» («Haaretz», 28 maggio 2003).

44 È il caso, per esempio, di Edward Said e del poeta Mahmud Darwish, che nel 2001hanno aderito alla protesta contro un convegno negazionista che doveva tenersi a Beirut.

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dopo un attacco preventivo contro gli eserciti di Egitto, Siria e Giordania, di occu-pare una parte dei loro territori. Alcuni di essi, come Gerusalemme Est e la Ci sgior -dania, non sono mai stati restituiti e sono reclamati dall’OLP per fondarvi il nuovoStato di Palestina. In Israele è diffusa la convinzione che il conflitto sia stato causa-to dalla minaccia dell’Egitto e della Siria, che avevano schierato i loro eserciti aiconfini ed erano pronti a portare a termine un «secondo Olocausto», e che il Paeseaveva tutto il diritto di occupare quelli che oggi sono i Territori palestinesi. Tale ideaè stata recepita anche dalla storiografia dello Stato ebraico. Il volume più noto eimportante è quello di Michael B. Oren, storico e attuale ambasciatore di Israele aWashington, Six Days of War. June 1967 and the Making of the Modern Middle East,Oxford, Oxford University Press, 2002 (trad. it. La guerra dei sei giorni. Giugno1967: alle origini del conflitto arabo-israeliano, Mondadori, Milano, 2004), che pre-senta la guerra come conseguenza di una serie di eventi, anche fortuiti, dei qualifurono responsabili soprattutto le forze armate egiziane, e racconta il conflittosecondo il punto di vista israeliano. Un’interpretazione diversa è stata proposta daTom Segev in un libro pubblicato in ebraico nel 2005 e tradotto in inglese con iltitolo 1967. Israel, the War, and the Year that Transformed the Middle East, NewYork, Metropolitan Books, 2007, nel quale sostiene che, sebbene una parte consi-stente della popolazione fosse effettivamente impaurita dalla possibilità che Israelevenisse invaso e distrutto, in realtà il Paese non correva alcun pericolo di essereattaccato45. Questa tesi è stata criticata da Oren, per il quale l’autore, oltre a con-traddirsi in più occasioni, ignora le ripetute prese di posizione di Egitto e Siria e laloro dichiarata volontà di distruggere Israele46. Quello che è certo è che, con il librodi Segev, si sono «aperte le ostilità» storiografiche circa la guerra dei sei giorni, sullaquale è facile prevedere che, visto che è ormai possibile accedere ai documenti degliarchivi, verranno pubblicati altri studi e nasceranno nuove discussioni. I punti piùcontroversi, sui quali verosimilmente si concentreranno i dibattiti, sono le respon-sabilità per lo scoppio del conflitto, il diritto di Israele di occupare i Territori pale-stinesi, il comportamento delle IDF nei confronti dei prigionieri egiziani (alcuni sol-dati israeliani hanno sostenuto di aver assistito ad esecuzioni sommarie), la nuovaondata di profughi, il ruolo degli USA e l’attacco (ufficialmente avvenuto per erro-re) della Israeli Air Force contro la nave spia statunitense Liberty.

Probabilmente la guerra dei sei giorni sarà il principale «campo di battaglia»degli storici dello Stato ebraico nel prossimo futuro. Tuttavia va anche rilevato che,dopo i successi mietuti negli anni ’90, l’attenzione per la nuova storiografia ha cono-sciuto un regresso nel decennio successivo, dominato politicamente prima da Ariel

45 Tra le altre ricerche di Tom Segev: One Palestine, Complete. Jews and Arabs Under theBritish Mandate, New York, Metropolitan books, 2000 (ed. or in ebraico, Gerusalemme,1999); Elvis in Jerusalem. Post-Zionism and the Americanization of Israel, New York, HenryHolt & co., 2002 (ed. or. in ebraico, Gerusalemme, 2001); Simon Wiesenthal. The Life andLegends, New York, Doubleday, 2010.

46 Michael B. Oren, Who Started It?, «The Washington Post», 10 giugno 2007.

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Sharon e poi da Benjamin Netanyahu e segnato dalla seconda Intifada e dalle guer-re in Cisgiordania, in Libano e nella Striscia di Gaza. Nel 2000, poco prima didiventare Primo ministro, Sharon dichiarò senza mezzi termini: «the children mustbe taught Jewish-Zionist values, and “new historians” must not be taught» [ai bam-bini devono essere insegnati valori ebraico-sionisti, e i “nuovi storici” non devonoessere insegnati]47. L’anno successivo il suo ministro dell’istruzione, Limor Livnat,lanciò un’offensiva contro la presenza delle tesi revisioniste nei libri scolastici, chelentamente si stava affermando. Fu vietata, per esempio, l’adozione di un libro inti-tolato A world of changes, scritto dal professore Danny Jacoby, perché il suo raccon-to del 1948 non era considerato in linea con la versione «ufficiale» dei fatti. Così laLivnat, in un’intervista al quotidiano «Maariv» del 7 marzo 2001, motivò la decisio-ne: «no nation studies its history from the point of view of the enemy or the pointof view of the United Nations. The State of Israel is a Jewish and democratic stateand this should direct the perspective of its education system» [nessun Paese stu-dia la propria storia dal punto di vista del nemico o dal punto di vista delle Nazioniunite. Israele è un Stato ebraico e democratico e questo deve caratterizzare l’impo-stazione del suo sistema di istruzione]48. Ed effettivamente i manuali di storia israe-liani propongono un racconto della guerra del 1948 ben diverso da quello espostodalla nuova storiografia, presentando gli arabi come unici responsabili del conflittoe facendo apparire gli ebrei come eroi che sconfissero un nemico molto più forte.

Nel 2003, inoltre, negli Stati Uniti furono pubblicati due libri di successo, scrittida autori non appartenenti alla storiografia tradizionale israeliana, che difendevano leragioni dello Stato ebraico in tutte le guerre che aveva combattuto. Yaacov Lozowick,un ebreo tedesco che è stato per molti anni direttore degli archivi dello Yad Vashem,diede alle stampe Right to Exist. A Moral Defense of Israel’s Wars, New York,Doubleday, nel quale inseriva le guerre di Israele nella categoria della «guerra giusta»;Alan Dershowitz, noto avvocato e giurista, pubblicò The Case for Israel, New York,John Wiley & Sons, nel quale prendeva le difese dello Stato ebraico su molte questio-ni, a partire da quella dei rapporti con i palestinesi49. Entrambi i libri, pur senza attac-carla frontalmente, erano critici verso la nuova storiografia e hanno influenzato l’opi-nione pubblica, non solo statunitense, sul conflitto in corso in Medioriente.

In Israele uno degli studiosi che negli ultimi anni sono stati più attivi nel critica-re i revisionisti è Yoav Gelber, ex militare di carriera e ora professore di storiaall’Università di Haifa, che ha dedicato saggi, opuscoli e alcune monografie allaquestione. Gelber ha accusato i nuovi storici, in particolare Pappé, di aver reso un«invaluable service» [servizio inestimabile] alla causa palestinese e ha sostenuto che

47 Shlaim, The War of Israeli Historians, pp. 166-167.48 Citato da Al-Haj, National Ethos, p. 55. 49 Il libro di Dershowitz provocò un’aspra querelle con Norman G. Finkelstein, che lo cri-

ticò pesantemente e lo accusò di plagio in vari articoli e nel volume Beyond Chutzpah. On theMisuse of Anti-Semitism and the Abuse of History, Berkeley, Calfornia University Press, 2005.Dershowitz cercò di impedirne la pubblicazione per vie legali, coinvolgendo persino il gover-natore della California, ma non vi riuscì.

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la loro presunzione di obiettività risulta particolarmente irritante50. A suo avvisol’esodo del 1948 fu volontario fino alla proclamazione dell’indipendenza di Israele,con l’eccezione di pochi villaggi, e solo nella seconda parte della guerra le forzearmate attuarono delle espulsioni di massa (che Gelber, per altro, giustifica). Oggiil ritorno dei profughi sarebbe un «national suicide» [suicidio nazionale]51.

Recentemente il governo guidato da Netanyahu ha lanciato una nuova offensi-va circa la storia della fondazione dello Stato, con l’obiettivo di accreditare la ver-sione «ufficiale» israeliana e negare la catastrofe dei palestinesi. Nel luglio del 2009il ministro dell’istruzione Gideon Saar decise di non permettere l’uso del termineNakba nei libri di scuola, nei quali la parola era stata usata per la prima volta nel2007 in un volume per gli istituti arabo-israeliani, con il consenso dell’allora mini-stro Yuli Tamir. Nel 2009 il nuovo governo, sostenendo che il termine incitavaall’odio, ne impose la rimozione52. Già nel 2007, del resto, Netanyahu si era espres-so contro il suo utilizzo. Ad ottobre 2009 fu censurato anche un libro per le scuolestatali ebraiche, intitolato Nationalism. Building a State in the Middle East, reo dipresentare, dopo quella israeliana, anche la versione palestinese dei fatti del 1948,per altro senza usare la parola Nakba, ma servendosi dell’espressione «pulizia etni-ca»53. Nella primavera del 2011, in un opuscolo inviato ai presidi, il Ministero hainsistito ancora sulla necessità che agli studenti vengano insegnati i valori ebraici esionisti54. Il governo, inoltre, sta cercando di limitare la celebrazione della«Giornata della catastrofe» da parte degli arabo-israeliani: il 15 maggio di ognianno, giorno successivo alla Festa dell’indipendenza, gli arabi celebrano il loro«Nakba day», per commemorare le vittime e i profughi del 1948, e la cosa infasti-disce vasti settori della classe dirigente. Già nel 2009 Avigdor Lieberman, ministrodegli esteri e leader del partito nazionalista Yisrael Beitenu, aveva proposto di ban-dire le cerimonie in tutto il territorio nazionale55. Nel marzo del 2011 la Knesset haapprovato il contestato «Nakba bill», una legge che dà allo Stato la facoltà di impor-re sanzioni pecuniarie a tutti gli enti pubblici che partecipano alle celebrazioni56.

È evidente, insomma, come negli ultimi anni le istituzioni israeliane stiano cer-cando di confutare quanto scritto dai nuovi storici e di riproporre la vecchia versio-ne della storia del Paese, negando l’espulsione degli arabi. È quanto si può leggere

50 Yoav Gelber, The New Post-Zionist Historians, New York, American Jewish Committee,2008 (citazione a p. 33); cfr. anche Id., Nation and History. Israeli Historiography betweenZionism and Post-Zionism, London, Vallentine Mitchell, 2011; Id. The History of ZionistHistoriography, pp. 64-66.

51 Yoav Gelber, Why did the Palestinians Run Away in 1948?, «History News Network», 8agosto 2005, www.hnn.us.

52 1948 no “catastrophe” says Israel, as term Nakba banned from Arab children’s textbooks,«The Guardian», 22 luglio 2009.

53 Israel pulls textbook with chapter on Nakba, «Haaretz», 19 ottobre 2009.54 Israel’s plan for next year’s school curriculum: Reinforcing Jewish and Zionist values,

«Haaretz», 14 aprile 2011.55 Lieberman’s party proposes ban on Arab Nakba, «Haaretz», 14 maggio 2009.56 ‘Nakba Bill’ passes Knesset in third reading, «The Jerusalem Post», 23 marzo 2011.

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in tutte le pubblicazioni ufficiali dello Stato. Per esempio, in un volume redatto perconto del Ministero degli esteri ad uso degli stranieri, è scritto che nel 1948 «mili-tanti arabi locali, aiutati da forze volontarie occasionali provenienti da altri paesiarabi, lanciarono violenti attacchi contro la comunità ebraica, nel tentativo di ren-dere vana la risoluzione sulla spartizione e impedire la fondazione di uno Statoebraico […] le Forze di Difesa Israeliane (IDF), appena formate e malamente equi-paggiate, respinsero gli invasori in duri combattimenti»57. Nemmeno una parola èspesa per gli oltre 700.000 profughi che furono costretti a lasciare le proprie case.

Appare chiaro che il nuovo inasprirsi della tensione e la sensazione, molto dif-fusa in Israele, che il fallimento del processo di pace sia da attribuire all’OLP, hannoavuto ricadute anche nella percezione del passato. È in atto una vera e propria dam-natio memoriae dell’esodo palestinese, che trova una spiegazione nelle pesanti rica-dute politiche che ha la storia del 194858, le cui conseguenze sono ben lontane dal-l’essere risolte. I palestinesi, infatti, chiedono con forza che ai rifugiati sia consenti-to il ritorno nella terra dalla quale sono stati cacciati, come esigono anche le Nazioniunite. Gli israeliani, però, hanno sempre negato con la massima risolutezza questaprospettiva che, se attuata, inficerebbe la stessa ebraicità dello Stato: i profughi e iloro discendenti oggi sono più di quattro milioni e, se tornassero, metterebbero arischio la predominanza demografica degli ebrei, un’ipotesi che in Israele nessunoè disposto ad accettare. Non a caso nessun governo dello Stato ebraico, nemmenoquelli che sono mostrati più disponibili nel processo di pace, ha mai voluto discu-tere del ritorno dei rifugiati. Per questo non sorprende che, di tutti gli argomentiproposti dai revisionisti circa la guerra del 1948, la questione dell’esodo palestine-se è quella che suscita le polemiche più accese.

Non bisogna pensare, d’altro canto, che i nuovi storici siano un gruppo compat-to. A partire dagli anni ’90 le loro posizioni sul conflitto arabo-israeliano si sono dif-ferenziate nettamente e in alcuni casi sono sfociate in forti contrasti e accuse perso-nali, come è avvenuto, in particolare, tra Benny Morris e Ilan Pappé. Il primo in ori-gine era molto avverso all’occupazione della Palestina59, ma negli ultimi anni, so -

57 Fatti su Israele, a cura di Ruth Ben-Haim, Roma, Centro di informazione di Israele, 2010,p. 32. Il libro è consultabile in italiano sul sito web dell’Ambasciata israeliana a Roma(embassies.gov.il/rome) e in numerose lingue su quello del Ministero degli esteri di Israele(www.mfa.gov.il). Non è diversa la narrazione degli eventi proposta dalle Israeli DefenseForces sul proprio sito internet (www.idf.il/english). Dal canto suo l’attuale Primo ministro,Benjamin Netanyahu, mostra di sposare le tesi di Efraim Karsh, del quale pubblica intera-mente l’articolo Were the Palestinians Expelled?, sul suo sito ufficiale (www.netanyahu.org).A loro volta i musei israeliani dedicati alla guerra del 1948, come l’Haganah Museum di TelAviv, celebrano l’eroismo degli ebrei senza fare menzione alcuna dei profughi arabi.

58 Non è privo di significato il fatto che, stando a quanto racconta Benny Morris, uno deinegoziatori degli Accordi di Oslo, chiamato in Norvegia alla fine del 1992 per i colloqui coni palestinesi, portò con sé una copia di The Birth of the Palestinian Refugee Problem (cfr.Benny Morris, Introduction, in Making Israel, p. 7).

59 Basti pensare che nel 1988 Morris, richiamato per un breve periodo nell’esercito e desti-nato ad un reparto che occupava la città palestinese di Nablus, preferì rifiutare e finire in car-

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prat tutto dopo lo scoppio della seconda Intifada, ha progressivamente moderato lecritiche verso Israele. Nel 2002 Morris spiegò che, dopo il fallimento delle trattati-ve di Camp David del 2000, aveva «radically changed» [cambiato radicalmente] lesue idee sul conflitto e aveva perso le speranze circa la possibilità di un accordo,ritenendo che i palestinesi, e soprattutto l’«inveterate liar» [bugiardo inveterato]Yasser Arafat, fossero i responsabili dell’attuale situazione e non volessero la pace60.Nel 2004, intervistato da «Haaretz», ha affermato che «in certain conditions, expul-sion is not a war crime. I don’t think that the expulsions of 1948 were war crimes» [incerte condizioni l’espulsione non è un crimine di guerra. Io non penso che le espul-sioni del 1948 fossero crimini di guerra], esprimendo persino rammarico perché lapulizia etnica non fu completa61. In un’altra occasione ha dichiarato di essere ancoraa favore di una soluzione a due Stati, «more or less along the pre-1967 borders» [piùo meno lungo i confini precedenti il 1967], negando di essere diventato un sostenito-re della destra, ma ha anche ribadito che il fallimento del processo di pace è imputa-bile solo ai palestinesi62. Come la maggior parte degli israeliani, inoltre, lo storico ècontrario al ritorno dei profughi. Nel 2007 ha ammesso anche che era giusta una cri-tica che fu rivolta al suo The Birth of the Palestinian Refugee Problem, quella di divul-gare notizie scomode su un conflitto che è ancora in corso63.

Sulle ragioni dell’esodo palestinese del 1948 non ha cambiato la sua posizione,continuando a sostenere che non fu volontario, ma ha insistito sul fatto che, essen-do stato una conseguenza della guerra, ne furono responsabili i palestinesi stessi,che avevano provocato il conflitto rifiutando la spartizione del territorio. Lo stori-co, però, negli ultimi anni ha dovuto recepire alcune critiche che gli erano statemosse da Nur Masalha e da Walid Khalidi e ha ammesso che il sionismo, sin daitempi del fondatore Theodor Herzl, sosteneva l’idea di trasferire gli arabi residentiin Palestina per far posto agli ebrei64.

cere per tre settimane, dal 16 settembre al 4 ottobre, asserendo che non voleva essere com-plice dell’occupazione della Cisgiordania. Nel Prologo di 1948. Israele e Palestina tra guerrae pace, pp. 14-23, lo storico pubblica il breve diario che tenne durante la prigionia (già pub-blicato in inglese nel 1988 su «The Guardian»). Oggi Morris, che aveva servito nell’esercitonegli anni ’60, si dichiara contrario all’obiezione di coscienza.

60 Benny Morris, Peace? No chance, «The Guardian», 21 febbraio 2002 (poi ripubblicatoin Id., 1948. Israele e Palestina tra guerra e pace, pp. 24-34).

61 Survival of the Fittest?, «Haaretz Friday Magazine», 9 gennaio 2004 (una traduzione ita-liana dell’intervista è in Kimmel, Israele-Palestina, pp. 352-366).

62 È quanto lo storico ha asserito in una lettera al giornale «The Independent», 21 novem-bre 2006.

63 Benny Morris, Introduction, inMaking Israel, p. 7. La svolta di Morris, naturalmente, nonè stata ben vista dagli intellettuali palestinesi. Si veda, per esempio Masalha, New History,Post-Zionism and Neo-Colonialism. Al contrario, lo storico si è avvicinato alla comunità scien-tifica israeliana e a studiosi come Yoav Gelber, con il quale ha scambiato attestazioni di stima.

64 Questa è la tesi sostenuta da Morris nella seconda edizione del suo opus magnum, TheBirth of the Palestinian Refugee Problem Revisited, Cambridge, Cambridge University Press,2004 (si vedano soprattutto le pp. 66-90 e 509-522 dell’edizione italiana, Esilio). È interessan-

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Tra i numerosi lavori pubblicati da Morris vi è una storia generale del conflittoarabo-israeliano: Righteous Victims. A History of the Zionist–Arab Conflict, 1881-1999.New York, Alfred A. Knopf, 2001 (trad. it. Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista1881-2001, Milano, Rizzoli, 2001), che prende in esame gli anni compresi tra la primaaliyah (letteralmente «ascesa», ossia l’emigrazione ebraica verso la Terra promessa) e ilgoverno di Ehud Barak a cavallo tra XX e XXI secolo. Ba san dosi soprattutto su fontisecondarie (com’è logico per un volume così ampio), lo storico ricostruisce nel detta-glio l’evoluzione del conflitto, proponendo una descrizione precisa e imparziale deglieventi militari e diplomatici in tutti i principali scenari dello scontro. Il racconto termi-na con il fallimento delle trattative di Camp David del 2000, che, come si è detto,impressionò molto l’autore e lo spinse a cambiare parere sulla possibilità che il conflit-to terminasse. Nel libro, però, Morris mostrava di essere ancora possibilista sullavolontà palestinese di giungere alla pace.

I toni sono cambiati nei suoi studi più recenti, come 1948. A History of the FirstArab-Israeli War, London-New Haven, Yale University Press, 2008 (trad. it. La primaguerra di Israele. Dalla fondazione al conflitto con gli Stati arabi 1947-1949, Milano,Rizzoli, 2008), nel quale ha introdotto un nuovo concetto a proposito della guerradel 1948, quello di jihad, spiegando che i palestinesi e i Paesi arabi combatterono unavera e propria guerra santa, in nome dell’Islam, contro gli invasori di religione ebrai-ca. È un’interpretazione nuova, non presente né nei precedenti libri di Morris né inquelli di altri studiosi. Lo storico cita a suo sostegno varie dichiarazioni dei leaderarabi, come quella del Consiglio degli Ulema (dotti dell’Islam) del l’Università Al-Azhar del Cairo del 2 dicembre 1947, che incitava i musulmani di tutto il mondo acacciare gli «infedeli» dalla Palestina65, e osserva che per gli arabi gli ideali religiosierano più importanti di quelli nazionali. Morris ritiene che tuttora il mondo islami-co stia conducendo una guerra contro l’Occidente, la cui origine si trova proprio nelconflitto del 1948, e che le attuali iniziative di Hamas contro Israele siano la logica

te notare che, rispetto alla prima versione, i cambiamenti apportati sono prevalentemente asfavore di Israele: infatti l’autore, oltre ad aggiungere un capitolo (pp. 66-90) per spiegare chel’idea di trasferire la popolazione araba era presente nell’ideologia sionista sin dalle origini,descrive un maggior numero di atrocità compiuti dalle IDF, in particolare gli stupri di donnepalestinesi, perché ha avuto la possibilità di consultare nuovi documenti. Già nel 1999, inol-tre, Morris aveva pubblicato un breve saggio per correggere un errore a proposito dell’opera-zione Hiram, con la quale nell’ottobre del 1948 le IDF occuparono la Galilea settentrionale(assegnata allo Stato arabo dal piano di spartizione delle Nazioni unite) ed espulsero circa50.000 persone, che si rifugiarono per lo più in Libano. Nella prima versione del suo libro (pp.218-219) lo storico aveva scritto che non vi era stato alcun ordine di espulsione. In seguito,però, ha potuto consultare altri documenti, tra i quali gli ordini del generale Moshe Carmel,comandante delle truppe di occupazione, che stabilivano di espellere tutti gli abitanti dei ter-ritori conquistati, e ne ha discusso nel saggio Operation Hiram Revisited. A Correction,«Journal of Palestine Studies», XXVIII (inverno 1999), 2, pp. 68-76. La correzione è statainserita anche nella seconda edizione di The Birth of the Palestinian Refugee Problem.

65 Morris. 1948. History of the First Arab-Israeli War, p. 65. Nel libro lo storico ritorna piùvolte sul jihad come movente dell’attacco arabo contro Israele.

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prosecuzione del jihad lanciato sin dalle origini dell’emigrazione ebraica nella «Terrapromessa»66. Il volume ricostruisce in maniera precisa la guerra del 1948, ma la tesidella guerra santa è un anacronismo, essendo chiaramente influenzata dal contrastosviluppatosi negli ultimi anni, soprattutto dopo gli eventi dell’11 settembre 2001, tral’Occidente e la parte più radicale del mondo musulmano e dallo scontro che, daglianni ’80, contrappone Israele ad alcuni movimenti islamisti, come Hamas e il libane-se Hezbollah. Anche per questo il libro ha ricevuto molte critiche67.

Negli ultimi anni Morris ha dato alle stampe anche un altro lavoro sul conflittoisraelo-palestinese: One State, Two States. Resolving the Israel/Palestine Conflict,London-New Haven, Yale University Press, 2010, nel quale traccia una storia delletrattative di pace, mostrando come i palestinesi non abbiano mai accettato alcuncompromesso con gli ebrei, essendo intenzionati solo a cacciarli via. Anche il rico-noscimento dello Stato di Israele dichiarato dall’OLP nel 1988 e gli Accordi di Oslodel 1993 sono stati un mero espediente tattico. Secondo lo storico israeliano, YasserArafat si è rivelato un degno erede di Muhammad Amin al-Husseini, Gran Muftì diGerusalemme e presidente dell’Alto comitato arabo, la più importante istituzionepalestinese degli anni ’30-’40, noto per la sua ostilità verso gli ebrei.

Dopo questo libro Morris ha deciso di non dedicarsi più alla storia del conflit-to arabo-israeliano e attualmente, insieme ad uno specialista di storia ottomana, staconducendo una ricerca sulle relazioni tra armeni e turchi dal 1876 al 192468.

66 Su questo punto si veda non tanto il libro, dove l’attività di Hamas è solo accennata inuna nota (p. 490 dell’edizione in inglese), quanto l’intervista Morris, The 1948 War Was anIslamic Holy War.

67 Tom Segev (A War of Necessity, «Haaretz», 9 luglio 2010) ne ha scritto una spietatarecensione, sostenendo che «Morris’s position about the tragedy of Palestinians is shamefulon both humanistic and moral terms» [la posizione di Morris sulla tragedia dei palestinesi èvergognosa sia in termini umanistici che morali] ed evidenziando come non sia possibile,sulla base di citazioni prese a caso, attribuire la volontà di una guerra santa agli arabi. AviShlaim (No Sentiments in War, «The Guardian», 31 maggio 2008), pur apprezzando l’ampiaricerca di archivio condotta dall’autore, è a sua volta in disaccordo circa il jihad, osservandoche nel 1948 si confrontarono semplicemente due movimenti nazionali, quello arabo e quel-lo ebraico. Anche uno studioso di tutt’altra tendenza, Yoav Gelber (The Jihad that Wasn’t,«Azure», 34, autunno 2008, www.azure.org.il.), ha scritto che le fonti citate nel libro nonsono sufficienti a interpretare la prima guerra arabo-israeliana come una guerra santa.

68 Benny Morris on why he’s written his last word on the Israel-Arab Conflict, «Haaretz», 20settembre 2012. Oltre ai volumi citati, lo storico ha dato alle stampe altre ricerche, interve-nendo in tutti i maggiori dibattiti sulla storia contemporanea che hanno coinvolto gli intel-lettuali israeliani e aprendo nuovi campi di indagine. Tra i suoi libri: Israel’s Secret Wars. AHistory of Israel’s Intelligence Services, New York, Grove Weidenfeld, 1991 (trad. it. Mossad.Le guerre segrete di Israele, Milano, Rizzoli, 2003), scritto insieme al giornalista inglese IanBlack, una storia delle principali operazioni dei tre servizi segreti israeliani, l’Aman, lo ShinBet e il Mossad; Israel’s Border Wars 1949–1956. Arab Infiltration, Israeli Retaliation and theCountdown to the Suez War, Oxford, Clarendon Press, 1993 (trad. it. Le guerre di confined’Israele. Infiltrazioni arabe e rappresaglie israeliane prima della crisi di Suez 1949-1956,

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Completamente diversa è stata l’evoluzione intellettuale e politica di Ilan Pappé,che non perde occasione per criticare aspramente lo Stato ebraico, tanto da pro-muovere un boicottaggio delle sue università (egli stesso ha lasciato la sua cattedradi Haifa)69, ed è molto attivo nel movimento contro l’occupazione dei Territori pale-stinesi. Negli ultimi anni è intervenuto soprattutto sulla guerra del 1948, alla qualeha dedicato, conferenze, articoli e il suo libro più noto e discusso: The EthnicCleansing of Palestine, Oxford, Oneworld, 2006 (trad. it. La pulizia etnica dellaPalestina, Roma, Fazi, 2008), nel quale traccia un profilo delle operazioni di espul-sione condotte dalle IDF e sottolinea come vi fosse stata una deliberata pulizia etni-ca da parte delle forze armate ebraiche, pianificata e condotta scientificamente.L’autore cita a suo sostegno l’adozione del Piano Dalet, approvato da Ben Gurionil 10 marzo 1948, che dava ai comandanti delle operazioni la facoltà di espellere gliabitanti e distruggere i villaggi. Inoltre Pappé critica pesantemente i personaggi piùrappresentativi dello Stato ebraico: non solo David Ben Gurion, che ritiene lamente organizzatrice delle espulsioni, ma anche Yitzhak Rabin, divenuto un simbo-lo della pace dopo la sua uccisione nel 1995. Lo storico ha insistito sul fatto che l’or-dine di espulsione degli abitanti della città araba di Lydda, sul quale si tornerà inseguito, portasse la firma proprio di Rabin, all’epoca tenente colonnello delle IDF,che definisce «uno degli esecutori della pulizia etnica»70. L’autore conclude biasi-mando il «memoricidio» della Nakba compiuto da Israele, facendo notare comenella stragrande maggioranza dei casi i villaggi palestinesi distrutti siano stati coper-ti da boschi o da nuovi insediamenti, perché non ne restasse il ricordo, e come tuttii toponimi arabi siano stati cambiati.

Anche Pappé ha dato alle stampe una storia generale del conflitto: History ofModern Palestine. One Land, Two Peoples, Cambridge, Cambridge University Press2004 (trad. it. Storia della Palestina moderna, Torino, Einaudi, 2005). L’autore hapreso in esame la società araba ed ebraica presente in Palestina con l’approcciodella «storia dal basso», concentrandosi sull’evoluzione dell’agricoltura, sul diffon-dersi di sentimenti nazionalisti nella popolazione palestinese, sui contrasti tra aske-naziti e mizrahi in Israele, sulle fluttuazione economiche e su altre questioni, inun’età compresa tra la guerra di Crimea e l’inizio del XXI secolo. Secondo BennyMorris, che contesta molte affermazioni del volume, è un «appalling book» [libroorrendo]71, ma, in realtà, History of Modern Palestine e Righteous Victims, nono-

Gorizia, LEG, 2011); Ha inoltre raccolto alcuni saggi nel volume 1948 and After. Israel andthe Palestinians, Oxford, Clarendon Press, 1990, più volte ripubblicato e ampliato (trad. it.parziale 1948. Israele e Palestina tra guerra e pace).

69 Recentemente lo studioso ha dedicato un libro alla sua «battaglia» contro le universitàisraeliane: Out of the Frame. The Struggle for Academic Freedom in Israel, London, Plutopress, 2010 (trad. it. Controcorrente. La lotta per la libertà accademica in Israele, Verona,Zambon, 2012).

70 Pappé, La pulizia etnica della Palestina, pp. 203-207.71 Benny Morris, Politics by other means, «The New Republic», 22 marzo 2004. La replica

non si fece attendere: Ilan Pappé, Response to Benny Morris’ “Politics by other means” in theNew Republic, «The Electronic Intifada», 30 marzo 2004, http://electronicintifada.net/.

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stante l’antagonismo degli autori, sono due libri che si completano a vicenda, essen-do l’uno focalizzato sugli aspetti socio-economici e culturali e l’altro su quelli poli-tico-militari del conflitto72.

Morris e Pappé sono entrati in contrasto nel corso degli anni ’90 e da allora sonoin costante polemica: Il primo ha scritto che «at best, Ilan Pappé must be one of theworld’s sloppiest historians; at worst, one of the most dishonest. In truth, he proba-bly merits a place somewhere between the two» [nel migliore dei casi, Ilan Pappé èuno degli storici più inaccurati del mondo; nel peggiore uno dei più disonesti. Inverità, merita probabilmente un posto tra i due]73, asserendo che il suo collega negal’evidenza, ignora fatti basilari e rovescia il significato dei documenti per servire lasua ideologia politica74. Tracciando una succinta biografia del suo antagonista, inol-tre, Morris ha affermato che solo negli anni ’90 si è dichiarato favorevole alla fon-dazione di un unico Stato per arabi ed ebrei, mentre prima era a favore di una solu-zione a due Stati, in linea con le indicazioni dell’URSS75. Pappé, dal canto suo, haaccusato Morris di aver abdicato alle sue precedenti posizioni per motivi di oppor-tunità politica dopo l’ascesa al potere del Likud nel 1996, ha stigmatizzato le sue«abominable racist views about the Arabs in general and the Palestinians in parti-cular» [abominevoli concezioni razziste verso gli arabi in generale e i palestinesi inparticolare]76 e lo ha criticato perché non utilizza le fonti arabe. L’autore di The

72 Tra gli altri lavori di Pappé: The Making of the Arab-Israeli Conflict, 1947-1951, London-New York, I. B. Tauris, 1992; The Rise and Fall of a Palestinian Dynasty. The Husaynis,1700–1948, London, Saqi Books, 2010, che prende in esame la più importante famiglia pale-stinese degli ultimi secoli; The Forgotten Palestinians. A History of the Palestinians in Israel,New Haven-London, Yale University Press, 2011, dedicato alla storia dei cittadini arabi diIsraele. Insieme a Noam Chomsky, inoltre, ha curato un volume di saggi e interviste sullaguerra di Gaza del 2008-2009: Gaza in Crisis. Reflections on Israel’s War against thePalestinians, Chicago, Haymarket books, 2010 (trad. it. Ultima fermata Gaza. Dove ci portala guerra di Israele contro i Palestinesi, Milano, Ponte alle Grazie, 2010).

73 Benny Morris, The Liar as a Hero, «The New Republic», 17 marzo 2011.74 Morris, Politics by other means.75 Pappé è particolarmente preso di mira in Israele, non solo da parte di Morris, e molti lo

considerano un traditore della patria. Tra i più duri nei suoi confronti vi è stato Yoav Gelber,già suo collega all’Università di Haifa, che lo ha definito «dottor Haw Haw» (dal sopranno-me dell’irlandese che faceva propaganda a favore dei nazisti e fu impiccato nel 1945) e lo haaccusato di mettere sullo stesso piano la Nakba e l’Olocausto (tesi smentita da Pappé, cheperò non nega che tra i due eventi vi siano dalle similitudini). Come Morris, inoltre, Gelbercrede che lo storico antisionista sbagli a fidarsi delle testimonianze orali (cfr. Tom Segev, Hiscolleagues call him a traitor, «Haaretz», 23 maggio 2002). Toni molto accesi nei confronti diPappé sono stati usati anche dal rettore dell’Università di Haifa, Yossi Ben-Artzi, del qualesi veda Out of (Academic) Focus: on Ilan Pappé, «Israel Studies», XVI (estate 2011), 2, pp.165-183, una durissima recensione del volume Out of the Frame. Oltre alle critiche degliaccademici, Pappé ha lamentato anche di essere stato oggetto di minacce di morte e di esse-re stato malmenato dai soldati israeliani nel corso di manifestazioni contro l’occupazione deiTerritori palestinesi.

76 Pappé, Response to Benny Morris’ “Politics by other means”.

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Birth of the Palestinian Refugee Problem, a detta di Pappé, è un «ciarlatano», pri-gioniero della sua ideologia di destra. È evidente che la polemica ha trasceso i limi-ti del dibattito tra studiosi, per degenerare in un’aspra querelle personale, combat-tuta senza esclusione di colpi.

È diverso anche il tipo di fonti usato dai due storici: Morris si serve soprattuttodegli archivi israeliani ed è dichiaratamente contrario all’uso delle fonti orali;Pappé, viceversa, fa uso non solo di documenti scritti, ma anche di interviste,soprattutto di palestinesi che furono vittime dell’espulsione, e in più occasioni hafatto notare che, senza le testimonianze orali, non sarebbe stato possibile scrivere lastoria dell’Olocausto77. Il nocciolo della polemica, però, non è metodologico mapolitico, legato alle opposte convinzioni che i due studiosi hanno maturato a pro-posito del conflitto israelo-palestinese.

Avi Shlaim, dal canto suo, conserva una posizione molto critica nei confrontidella politica israeliana e ha proseguito la sua opera di «demolizione» della storio-grafia «ufficiale». Il suo libro più noto e discusso è The Iron Wall. Israel and theArab World, New York, W.W. Norton, 2000 (trad. it. Il muro di ferro. Israele e ilmondo arabo, Bologna, Il ponte, 2003), nel quale mette in luce come negli anni ’20i sionisti, in particolare il leader del Movimento revisionista Zeev Jabotinsky, abbia-no elaborato la dottrina del «muro di ferro», in base alla quale avrebbero trattatocon gli arabi solo da una posizione di forza. Questa impostazione, per l’autore, èrimasta sempre predominante nella diplomazia israeliana ed ha caratterizzato tuttele trattative di pace che si sono avute dopo la fondazione dello Stato78. AncheShlaim ha polemizzato con Morris, scrivendo che le posizioni più recenti del suocollega sono un «betrayal of history» [tradimento della storia] e che le sue afferma-zioni sul conflitto israelo-palestinese sono razziste e propagandistiche, propriocome quella vecchia storiografia che Morris stesso aveva combattuto79. Quest’ul -timo, dal canto suo, ha recensito in termini fortemente critici i lavori di Shlaim e neha confutato le conclusioni su molte questioni80. I due storici sono divisi soprattut-to dall’interpretazione degli eventi recenti: le fallite trattative di Camp David del

77 Morris, Esilio, pp. 32-33; Ilan Pappé, The Tantura Case in Israel: the Katz research andthe Trial, «Journal of Palestine Studies», XXX (2001), 3, pp. 19-39.

78 Shlaim ha anche ripubblicato il suo lavoro sulle relazioni israelo-giordane, cambiando iltitolo in The Politics of Partition. King Abdullah, the Zionist and Palestine, Oxford, OxfordUniversity Press, 1990, accogliendo le tesi di chi aveva criticato l’uso del termine «collusio-ne», ma non modificando le sue conclusioni circa gli accordi tra l’Yishuv e la Transgiordania(successivamente l’autore si è detto pentito di aver cambiato il titolo). Ha inoltre dato allestampe la biografia Lion of Jordan. The Life of King Hussein in War and Peace, London, AllenLane, 2007, ed ha esteso il suo campo di indagine con lavori di carattere più generale, tra iquali War and Peace in the Middle East. A Critique of American Policy, New York, WhittleBooks, 1994. Ha raccolto alcuni saggi nel volume Israel and Palestine. Reappraisals,Revisions, Refutations, London-New York, Verso, 2009.

79 Avi Shlaim, The Betrayal of History, «The Guardian», 22 febbraio 2002.80 Benny Morris, Derisionist History, «The New Republic», 28 novembre 2009.

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2000, la guerra del 2002 in Cisgiordania, la carriera politica di Ariel Sharon, lacostruzione della barriera di separazione tra Israele e West Bank, l’attacco a Gazadel 2008: Morris riconosce la legittimità delle iniziative israeliane, mentre l’autoredi Collusion across the Jordan è fortemente critico. La polemica, in ogni caso, nonha raggiunto gli stessi livelli di quella che ha contrapposto l’autore di The Birth ofthe Palestinian Refugee Problem a Ilan Pappé.

Vivendo in Inghilterra da oltre quarant’anni, Shlaim non si è lasciato coinvolge-re in tutte le discussioni sviluppatesi in Israele a proposito del 1948. Pappé eMorris, invece, sono stati recentemente coinvolti in due querelles. La prima riguar-da il presunto massacro di Tantura, un villaggio arabo di circa 1.500 abitanti dellacosta mediterranea, situato poco a sud di Haifa, che nella notte tra il 22 e il 23 mag-gio 1948 fu attaccato da un battaglione della brigata Alexandroni dell’Haganah. Labattaglia, durante la quale cadde un imprecisato numero di palestinesi, si conclusecon la vittoria degli israeliani, che, dopo l’occupazione, cacciarono via gli abitanti edistrussero il paese, per fare posto ai due kibbutzim di Nahsholim e Moshav Dor. Èla medesima sorte che, durante la guerra del 1948, fu imposta a circa 400 villaggiabitati da gente araba. Quello che non è chiaro, tuttavia, è se a Tantura i soldatiabbiano compiuto una strage dopo la conquista. Nel 1998 un anziano studentedell’Università di Haifa, Theodor Katz, presentò una tesi di laurea nella quale,basandosi su 40 testimonianze orali (20 di arabi sopravvissuti all’occupazione e 20di veterani dell’Haganah), sosteneva gli ebrei avevano ucciso a sangue freddo 240persone. Per Katz solo pochi uomini, tra 10 e 20, erano caduti in battaglia, tutti glialtri erano stati trucidati dopo la conquista del paese. La ricerca, portata all’atten-zione dell’opinione pubblica dal quotidiano «Maariv» nel gennaio del 2000, scate-nò subito forti polemiche: se confermata, quella di Tantura sarebbe la più gravestrage compiuta dagli israeliani durante la guerra, peggiore persino del massacro diDeir Yassin. La vicenda era pressoché ignota e nemmeno la storiografia palestinesene aveva mai parlato81. I veterani della brigata Alexandroni, sostenendo che duran-te la battaglia erano morte circa 70 persone e che dopo non vi erano state altre ucci-sioni, querelarono Katz per diffamazione e lo studente, chiamato in tribunale, fucostretto a ritrattare. L’Università di Haifa sospese la discussione della tesi, chieden-do all’autore di rivederla. Katz accettò, ma nella seconda versione (molto più ampiadella prima) non modificò l’«impianto accusatorio» e, parlando con Benny Morris,disse che la ritrattazione gli era stata estorta in un momento di debolezza (chieseanche al tribunale di annullarla, ma la richiesta fu respinta)82. L’Ateneo, dopo aver

81 I fatti di Tantura non compaiono, per esempio, nel dettagliato volume All That Remains.82 Benny Morris, The Tantura “Massacre” Affair, «The Jerusalem report», 9 febbraio 2004.

Una ricostruzione della vicenda è stata proposta anche da Pappé, The Tantura Case, pp. 19-39. È da notare che non era la prima volta che in Israele una ricerca di storia avesse uno stra-scico giudiziario. Era già accaduto a proposito dell’assassinio di Haim Arlosoroff, un dirigen-te sionista di tendenze moderate, ucciso nel 1933 a Tel Aviv da ignoti. I sospetti caddero subi-to sul Movimento revisionista, ostile al moderatismo di Arlosoroff, e due suoi esponenti,Avraham Stavsky e Zvi Rosenblatt, furono incriminati, ma il tribunale li assolse. Non termi-

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fatto valutare la tesi da una commissione esterna, la respinse e concesse al candida-to solo una laurea di seconda classe, che gli impedisce l’accesso al dottorato di ricer-ca. Tra quelli che condividono le conclusioni dello studente vi è Ilan Pappé, che haa sua volta condotto delle ricerche sull’episodio, accogliendo la tesi del massacro, eritiene che la cattiva valutazione della tesi sia ingiusta e dovuta a ragioni politiche83.Al contrario, studiosi come Morris e Yoav Gelber hanno evidenziato che le testimo-nianze raccolte da Katz sono inaccurate (tra l’ altro, alcuni degli intervistati all’epo-ca dei fatti erano bambini di 5-7 anni) e che la sua ricostruzione è quanto menodubbia84. Morris, però, ha riconosciuto che alcune esecuzioni ed alcuni stupri sonostati effettivamente commessi e gli stessi reduci, pur non ammettendo gli omicidi,hanno confessato che a Tantura vi furono delle espulsioni forzate85. Per svelare laverità sulla presunta strage bisognerebbe condurre delle ricerche nella fossa comu-ne scavata all’epoca e verificare se contiene solo i corpi delle vittime della battaglia,come sostengono i veterani della brigata Alexandroni, o anche gli oltre 200 del mas-sacro, come afferma Katz. Tuttavia, nonostante entrambe le parti in causa abbianochiesto di effettuare delle verifiche, gli abitanti dei due kibbutzim edificati sul sitodi Tantura si sono opposti. Allo stato attuale delle conoscenze, pertanto, la questio-ne resta irrisolta: se la ricostruzione di Katz appare inaccurata e esagerata, è altret-

narono, però, le accuse contro di loro da parte degli avversari politici. Sin dagli anni ’50Menachem Begin, leader di un partito «erede» dei revisionisti, aveva chiesto senza successodi istituire una commissione di inchiesta. Nel 1982 Shabtai Teveth dedicò uno studio (pub-blicato solo in ebraico) all’episodio, sostenendo che i colpevoli erano effettivamente Stavskye Rosenblatt, e Begin, che nel frattempo era diventato Primo ministro, fece istituire una com-missione d’inchiesta. Quest’ultima concluse i lavori asserendo che i due uomini accusati daTeveth non erano i responsabili dell’omicidio, i cui autori, pertanto, restano sconosciuti. Cfr.Shlomo Avineri, Arlosoroff, New York, Grove Weidenfeld, 1990.

83 Pappé, The Tantura Case. Lo storico è tornato sulla vicenda di Tantura anche in La puli-zia etnica della Palestina, pp. 167-172 e in Storia della Palestina moderna, pp. 166-168, riba-dendo la tesi del massacro. Sebbene all’epoca insegnasse ad Haifa, Pappé non è stato il rela-tore della tesi di Katz, che fu affidata al professore druso Kais M. Firro, ma ha seguito assi-duamente il lavoro, che l’autore gli ha anche dedicato. Per il suo sostegno allo studente e, piùin generale, per la sua interpretazione della guerra del 1948 e per le accuse di partigianerialanciate ai suoi colleghi (tra le altre cose, aveva scritto una lettera all’American HistoricalAssociation per denunciare il comportamento dei docenti nei confronti di Katz), nel maggiodel 2002 lo storico subì un provvedimento disciplinare da parte dell’Università di Haifa, chedecretò la sua espulsione. Pappé chiese sostegno agli storici in tutto il mondo e molti, tra iquali Avi Shlaim, intervennero a suo favore. In seguito a questa campagna la decisione furevocata, ma lo storico continuò a subire l’ostracismo dei colleghi, che gli impedivano la par-tecipazione alle conferenze e ai convegni (cfr. Pappé, Out of th Frame; T. Segev, His collea-gues call him a traitor). Pappé ha poi abbandonato la sua cattedra nel 2007 e si è trasferito inInghilterra, per insegnare all’Università di Exter.

84 Morris, Esilio, pp. 264-265 e la lunga nota alle pp. 671-673; Yoav Gelber, Folklore ver-sus History: the Tantura Blood Libel, in Id., Palestine 1948. War, Escape and the Emergence ofthe Palestinian Refugee Problem, Brighton, Sussex Academic Press, 2006, pp. 319-327.

85 Morris, The Tantura “Massacre” Affair; Id., The Liar as a Hero.

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tanto vero che la versione dei reduci dell’Haganah, secondo la quale dopo la batta-glia non vi fu alcuna uccisione, lascia dei dubbi.

L’altra polemica, più recente, è relativa ad una lettera indirizzata da David BenGurion a suo figlio Amos il 5 ottobre 1937. La missiva, già nota agli studiosi damolti anni, tracciava un quadro generale dei rapporti arabo-ebraici a tre mesi didistanza dalla pubblicazione di un piano di spartizione della Palestina da parte dellaSocietà delle Nazioni. In un saggio del 2006 Ilan Pappé citò un brano della lettera,traducendolo in inglese (il testo originale è in ebraico), nel quale si legge: «the Arabswill have to go, but one needs an opportune moment for making it happen, such asa war» [gli arabi dovranno andarsene, ma c’è bisogno di un’occasione giusta, comeuna guerra, perché ciò accada]86. Il testo avvalorava la tesi che Pappé aveva soste-nuto sempre con decisione: nei confronti dei palestinesi vi fu una vera e propriapulizia etnica, pianificata e diretta dallo stesso Ben Gurion. La frase, però, non erariportata in maniera corretta. Tra i primi a replicare vi fu Benny Morris, che avevagià discusso in precedenza del testo in questione e, in una lettera al giornale «TheIndependent», definì la citazione di Pappé «an invention, pure and simple» [un’in-venzione pura e semplice]87. Nella prima edizione del volume The Ethnic Cleansingof Palestine, uscita poco dopo la pubblicazione del saggio, solo le prime sei parole,«the Arabs will have to go», erano virgolettate, mentre le altre erano riportate senzavirgolette, come parafrasi dell’autore88. Nel novembre del 2011 anche l’agenzia sta-tunitense CAMERA (Committee for Accuracy in Middle East Reporting inAmerica, molto vicina alle posizioni di Israele), sostenne che la frase era inventata echiese al «Journal of Palestine Studies» di correggere l’errore. Nella sua replica laredazione del periodico riconobbe che la citazione non era corretta e che solo laprima parte, «the Arabs will have to go», era attribuibile a Ben Gurion, mentre laseconda parte, «but one needs an opportune moment for making it happen, such asa war», era una parafrasi di Pappé. Il «Journal», però, osservò che la traduzione let-terale del testo, «we must expel the Arabs and take their place» [noi dobbiamoespellere gli arabi e prenderne il posto], era persino più esplicita ed era stata utiliz-zata anche da storici non sospettabili di essere ostili a Ben Gurion, tra i quail ShabtaiTeveth e lo stesso Benny Morris. La rivista pubblicò anche una traduzione ingleseintegrale della lettera (fino ad allora mai pubblicata)89. CAMERA rispose asserendoche il testo originale ebraico diceva l’esatto contrario: «we do not want and do notneed to expel the Arabs and take their place» [non vogliamo e non abbiamo biso-gno di espellere gli arabi e prenderne il posto], osservando che Teveth e Morris ave-vano usato l’altra versione solo per un errore di traduzione e che le edizioni in ebrai-

86 Ilan Pappé, The Ethnical Cleansing of Palestine, «Journal of Palestine Studies», XXXVI(2006), 1, pp. 6-20 (citazione a p. 9). Il saggio era un’anticipazione del volume sulla puliziaetnica, pubblicato poco tempo dopo.

87 «The Independent», 22 novembre 2006.88 È così anche nell’edizione italiana del libro, La pulizia etnica della Palestina, p. 37.89 «Journal of Palestine Studies», XLI (2012), 2, pp. 245-250.

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co dei loro libri, a differenza di quelle in inglese, riportavano la frase corretta90. Laquestione era già stata dibattuta in precedenza: per Efraim Karsh la traduzione cor-retta era quella con il «non»91; Benny Morris, al contrario, preferiva la versione «wemust expel», ma riconosceva che la presenza di una negazione è dubbia, giacché nelmanoscritto le righe si sovrappongono92. Recentemente Rashid Khalidi, accettandoa sua volta la traduzione «we must expel», ha sostenuto che la lettera prova che giànel 1937 Ben Gurion avesse in mente la pulizia etnica dei palestinesi93. CAMERA,dal canto suo, ha chiesto all’Università di Exter di sanzionare Pappé per la citazio-ne scorretta, ma il comitato etico dell’Ateneo ha accettato la spiegazione dello stu-dioso (che ha sostenuto di aver parafrasato il testo originale e si è impegnato a ser-virsi solo della frase giusta nelle prossime edizioni del suo libro), e ha riconosciutoche la parafrasi era «fair and accurate» [corretta e accurata]94. Questo, naturalmen-te, non giustifica l’uso delle virgolette (a meno che non sia dovuto ad un errore tipo-grafico), giacché alterare un testo per dimostrare la validità della propria tesi è sem-pre inammissibile. È però anche vero che la lettera, letta nella sua interezza, dimo-stra come per Ben Gurion la spartizione della Palestina fosse solo una soluzionetemporanea, da accettare in attesa di poter ottenere tutto il territorio del Mandatobritannico95.

Le polemiche, su questa come su altre questioni, continuano tuttora e oggi usarela definizione «nuovi storici» è impossibile, giacché le loro posizioni sono troppodistanti. I revisionisti non hanno mai costituito un gruppo compatto, una scuola nelsenso stretto del termine, ma negli ultimi anni le divergenze, soprattutto per viadella «conversione» politica di Morris, si sono ulteriormente ampliate. Il loro lavo-ro, in ogni caso, non può che essere apprezzato, perché ha coraggiosamente intac-cato alcuni dei tabù di Israele e ha proposto una narrazione degli avvenimenti piùvicina alla realtà di quanto non lo fosse la precedente storiografia. Molta strada èancora da percorrere, anche considerando che fino ad ora è stata presa in esamesolo una minima parte del materiale archivistico relativo ai primi anni di esistenza

90 Dexter Van Zile, Gilead Ini, Journal of Palestine Studies compounds its Ben Gurion error,9 aprile 2012, www.camera.org. Anche in Vittime, p. 184, Morris usa la versione con la nega-zione.

91 Karsh, Fabricating Israeli History, p. 50.92 Benny Morris, Refabricating 1948, «Journal of Palestine Studies», XXVII (1998), 2, pp.

81-95.93 È quanto lo storico ha affermato in un’intervista televisiva, andata in onda il 30 marzo 2012,

che si può visionare sul sito web dell’Istituto di studi palestinesi (www.palestine-studies.org). 94 Dexter Van Zile, University of Exter Gives Pappé a Pass on Invented Ben-Gurion Quote,

3 febbraio 2012, www.camera.org.95 Vi si legge: «A Jewish state on only part of the land is not the end but the beginning […]

A Jewish state must be established immediately, even if it is only in part of the country. Therest will follow in the course of time. [Uno Stato ebraico su solo una parte del territorio nonè la fine ma l’inizio. […] Uno Stato ebraico deve essere costituito immediatamente, anche seè solo su una parte del territorio. Il resto seguirà nel corso del tempo], pp. 246 e 250 dellacitata traduzione del «Journal of Palestine Studies».

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dello Stato ebraico96. Un limite delle ricerche dei revisionisti è nel fatto che si con-centrano prevalentemente sugli eventi militari e politici e tralasciano, con l’eccezio-ne di alcuni libri, come la History of Modern Palestine di Pappé, le questioni econo-miche, sociali e culturali del conflitto arabo-israeliano. Una parte dei loro volumi, inaltre parole, rientra in quella che Marc Bloch e Lucien Febvre hanno definito histoi-re bataille. Inoltre, il peso della nuova storiografia nella società israeliana, so prat tuttonell’ultimo decennio, non deve essere sopravvalutato: si consideri, tra l’altro, chesolo una parte dei loro studi, tra i quali quelli di Morris, di Sternhell e di Segev, èstata pubblicata in ebraico, mentre altri sono disponibili solo in inglese. A livelloaccademico gli studiosi che hanno un approccio critico verso il sionismo sono unaminoranza. Tuttavia il lavoro dei nuovi storici ha lasciato tracce indelebili: oggi inIsraele è molto difficile sostenere che nel 1948 non vi furono allontanamenti forzatie, come si è visto a proposito di Yoav Gelber, anche gli storici più inclini ad accetta-re la versione «ufficiale» devono riconoscere che le IDF operarono delle espulsioni.

Un caso emblematico, che dimostra bene quali conseguenze hanno le ricerchedella nuova storiografia, è quello dell’operazione Dani e dell’esodo degli abitantidelle città di Lydda e Ramlah, (che oggi sono le città ebraiche di Lod e Ramle),situate sulla strada tra Gerusalemme e Tel Aviv, che erano state assegnate allo Statoarabo nel piano di spartizione delle Nazioni unite. Le due città furono occupate nelluglio 1948 dalle IDF, che nel corso della battaglia uccisero circa 250 abitanti e, suc-cessivamente, espulsero tutti gli altri. Quelli di Lydda, più di 50.000, furono costret-ti ad un’estenuante marcia a piedi verso i campi profughi, nel corso della quale alcu-ni di loro persero la vita. Solo alcune centinaia di persone di religione cristiana pote-rono restare in città, ma dovettero comunque cedere le loro case agli invasori.Secondo la versione data delle forze armate, i cittadini partirono volontariamente,chiedendo un salvacondotto, e furono felici che i soldati gli permettessero di farlo97.Nel 1979 la censura militare impedì la pubblicazione di un brano delle memorie diYitzhak Rabin, che era stato il comandante in seconda dell’operazione Dani e avevafirmato personalmente l’ordine di espulsione98. Nel testo censurato Rabin raccon-tava che, alla domanda di cosa si dovesse fare dei cittadini di Lydda e Ramlah, BenGurion aveva risposto con un gesto della mano, facendo capire che dovevano esse-re espulsi. Negli anni ’70 in Israele non era ammissibile che un membro di primo

96 Secondo Kamel, Israele-Palestina, p. 258, è stato studiato solo il 10% dei documentidegli anni 1947-1956, per lo più la parte relativa al 1948.

97 Cfr. Morris, The New Historiography, dove è riassunto il racconto dei fatti di Lydda eRamlah proposto da alcune ricerche della vecchia storiografia.

98 Il testo è il seguente: «1. The inhabitants of Lydda must be expelled quickly withoutattention to age. They should be directed toward Beit Nabala. Yiftah [Brigade headquarters(HQ)] must determine the method and inform [Operation] Dani HQ and Eighth BrigadeHQ. 2. Implement immediately» [1. Gli abitanti di Lydda devono essere espulsi rapidamen-te senza riguardo per l’età. [Il quartier generale della brigata] Yiftah deve stabilire il modo einformare il quartier generale della [operazione] Dani e il quartier generale dell’ VIII briga-ta. 2. Eseguire immediatamente]. Citato da Morris, The New Historiography.

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piano dell’establishment politico-militare, già Capo di stato maggiore dell’esercitodal 1964 al 1968 e Primo ministro dal 1974 al 1977, ammettesse l’espulsione, e per-ciò il brano fu censurato dall’apposito ufficio delle IDF99 e non comparve né nel-l’edizione ebraica né in quella inglese delle memorie100.

I palestinesi proponevano una versione dei fatti completamente diversa, soste-nendo non solo che i cittadini di Lydda e Ramlah erano stati cacciati via, ma ancheche i soldati israeliani avevano compiuto ogni sorta di atrocità: omicidi, stupri, furti.

Anche in Israele, però, non si poteva tenere eternamente nascosta la verità. Nel1986, prima ancora di dare alle stampe il suo primo libro, Benny Morris pubblicò ilsaggio Operation Dani and the Palestinian Exodus from Lydda and Ramle in 1948101,nel quale ricostruiva l’occupazione della città, le uccisioni di civili e l’espulsione degliabitanti. Lo storico aveva trovato per caso, mentre nel 1982 lavorava ad una ricercasulla storia del Palmach (l’unità di élite dell’Haganah), l’ordine di espulsione firmatoda Rabin. Dopo la pubblicazione del suo saggio nessuno studioso ha più potutonegare che i cittadini di Lydda e Ramlah fossero stati allontanati con la forza e, tut-t’al più, si è discusso del numero degli arabi uccisi durante l’occupazione o di chiavesse deciso l’espulsione, se Ben Gurion, come è scritto nelle memorie di Rabin, oYigal Allon, comandante dell’operazione Dani. Secondo Yoav Gelber il racconto diRabin non è verosimile e la responsabilità dell’espulsione deve essere attribuita adAllon: Ben Gurion dava sempre ordini in modo chiaro e inequivocabile, non limi-tandosi ad un semplice gesto della mano, e, inoltre, il comandante dell’operazioneera noto per la risolutezza con la quale cacciava gli arabi quando era alla testa delletruppe di occupazione. Gelber, in ogni caso, ammette che «Lydda’s massacre was

99 In Israele è in vigore la censura per le pubblicazioni che possono risultare dannose perla sicurezza dello Stato. I testi che riguardano determinati argomenti (tra i quali le forzearmate, il programma nucleare, l’emigrazione di ebrei da Paesi ostili, le forniture di petrolioe altri), devono essere sottoposti all’autorizzazione preventiva della censura militare (costitui-ta presso l’Aman, il servizio di intelligence delle IDF). Non necessitano di autorizzazione lepubblicazioni relative alla politica e all’economia, a meno che non riportino informazioniclassificate. La lista degli argomenti che devono essere autorizzati è aggiornata periodicamen-te. Talvolta anche i libri di storia devono essere approvati dal censore, come è accaduto alcitato volume di Benny Morris e Ian Black, Mossad, del quale sono state soppresse alcuneparti, sebbene meno di quello che gli autori si aspettassero (si veda la sezione del libro dedi-cata ai Ringraziamenti, p. 7).

100 The Rabin Memoirs, Boston, Little Brown, 1979. Il brano censurato, però, fu consegna-to ad un giornalista del «New York Times» da Peretz Kidron, che aveva tradotto le memo-rie in inglese, e fu pubblicato dal quotidiano newyorkese il 23 ottobre 1979. È stato poi inse-rito nelle successive edizioni del volume di Rabin.

101 «Middle East Journal», XL (1986), 1, pp. 82-109. Sui fatti di Lydda cfr. anche Id., Esilio,pp. 382-396; Id., 1948. History of the First Arab-Israeli War, pp. 286-319; Pappé, La puliziaetnica della Palestina, pp. 203-207; Spiro Munnayer, The Fall of Lydda, «Journal of PalestineStudies», XXVII (1998), 4, pp. 80-98. Non vi è accordo circa il numero dei palestinesi chemorirono durante la marcia: secondo Morris furono al massimo una dozzina, secondo la sto-riografia palestinese oltre 300.

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probably the bloodiest troughout the war» [la strage di Lydda fu probabilmente lapiù cruenta della guerra], sebbene non creda alle fonti arabe che parlano di miglia-ia di morti102. Anche altri storici israeliani, che si muovono all’interno della cornicedel sionismo, ammettono l’espulsione: Anita Shapira riconosce che Allon ordinò disparare sui civili, causando la morte di circa 250 persone, perché temeva un contrat-tacco degli arabi, e ammette sia l’espulsione degli abitanti sia la «marcia dellamorte»103; Efraim Karsh, in polemica con Morris, ritiene che solo una minoranza deipalestinesi fu cacciata via con la forza e che la decisione di espellerli non era preme-ditata, ma non può negare tout court l’espulsione104.

Insomma, la «rivoluzione» compiuta dalla nuova storiografia, su questa come sualtre vicende, non può essere cancellata, almeno a livello accademico, ed anche gliintellettuali e gli storici che giustificano l’espulsione degli arabi non possono negar-la. È più facile, invece, propagandare la versione «ufficiale» nel grande pubblico,attraverso i testi scolastici e i media.

Tutto questo ha anche ricadute sul conflitto in corso: la strada per la pace, ormaibloccata da diversi anni, passa anche per una più corretta comprensione degli even-ti che hanno provocato lo scontro. C’è bisogno, in altri termini, anche di una «riap-pacificazione storiografica», non alla ricerca della «verità» o di un’irraggiungibilememoria condivisa, ma, più semplicemente, attraverso un racconto meno parzialedegli eventi. Va osservato che, sebbene la narrazione proposta dagli studiosi pale-stinesi sin dagli anni ’50 si sia dimostrata più attendibile della storiografia «ufficia-le» israeliana, non si può certo dire che in Palestina si brilli per imparzialità: a livel-lo di cultura popolare, ebrei e israeliani vengono raffigurati come persone prepo-tenti e i numeri e i particolari della Nakba spesso sono gonfiati; la storiografia, puravendo fatto innegabili progressi, non ha ancora indagato e discusso i punti piùcontroversi del passato palestinese, come i massacri di ebrei compiuti dagli arabi oi rapporti allacciati con Hitler e Mussolini dal Gran Muftì Husseini105. Tutto que-sto, insieme alle politiche «memoricide» praticate da Israele, certamente non facili-ta la comprensione reciproca.

Allo stato attuale della situazione, con la prosecuzione dell’occupazione israelia-na dei Territori palestinesi e con prospettive di pace sempre più incerte, non si puòche auspicare che l’attuale tendenza venga invertita, sia in Palestina sia in Israele, eche intellettuali coraggiosi come i nuovi storici divengano le voci preponderanti epiù ascoltate.

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102 Yoav Gelber, Palestine 1948, pp. 161-163.103 Anita Shapira, Yigal Allon, Native Son. A Biography, Philadelfia, University of Pennsylv -

ania Press, 2007, pp. 226-230.104 Efraim Karsh, Rethinking the Middle East, London, Cass, 2003, pp. 160-161.105 Su questo aspetto, invece, è fondamentale quanto ha scritto Renzo De Felice, Mussolinil’alleato. L’Italia in guerra (1940-1943), Torino, Einaudi, 1996, pp. 199-279.

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