1
Stato, cittadini e social norms Come la Behavioral Economics può salvarci dalla crisi
Alessandro Del Ponte1
A man ought to be a friend to his friend
and repay gift with gift.
People should meet smiles with smiles
and lies with treachery.
Edda, sec. XIII
You are at your mother-in-law’s house for Thanksgiving dinner, and what a sumptuous
spread she has put on the table for you! […]
“Mom, for all the love you’ve put into this, how much do I owe you?” you say sincerely. As
silence descends on the gathering, you wave a handful of bills.
“Do you think three hundred dollars will do it? No, wait, I should give you four hundred!”
A glass of wine falls over; your mother-in-law stands up red-faced;
your sister-in-law shoots you an angry look; and your niece bursts into tears. Next year’s
Thanksgiving celebration, it seems, may be a frozen dinner in front of the television set.
Dan Ariely, Predictably Irrational
Le crisi economiche mettono in discussione il rapporto di fiducia tra cittadini e Stato. Nel
caso italiano, in particolare, la crisi rischia di mettere a repentaglio un rapporto per molti
versi già compromesso, che mina le basi per il rinnovamento del sistema-Paese e rende
problematico un ritorno duraturo a sviluppo e crescita. In questo paper si individua nel
distacco cronico tra Stato e cittadini la causa principale della situazione corrente e si propone
di sfruttare alcuni concetti di economia comportamentale (Behavioral Economics) per
disegnare le riforme del futuro e, più in generale, per impostare il rapporto tra Stato e
cittadini. Riconoscere l’importanza degli aspetti psicologici nel comportamento degli agenti
economici e incorporarli nelle decisioni di politica economica può accrescere la coesione
sociale e ridurre il rischio di implementation gaps delle politiche pubbliche.
In particolare, la struttura dell’intervento è la seguente: nella sezione I si analizza il concetto
di reciprocità con riferimento ai public goods experiments, evidenziandone l’utilità per un
efficace public policy design; nella sezione II si considera il framework proposto da Ostrom
per la gestione dei commons (i Design Principles of Cooperative Regimes); nella sezione III
si evidenziano gli scostamenti più significativi dal modello di Ostrom; nella sezione IV si
suggerisce un mutamento di paradigma, da market norms a social norms, nell’impostare il
1 Alessandro Del Ponte è Graduate Scholar presso la New York State Assembly e studente double degree di
Economia e Management delle Amministrazioni Pubbliche e delle Istituzioni Internazionali all’Università
Bocconi e del Master of Public Administration al Rockefeller College of Public Affairs and Policy a SUNY
Albany.
2
rapporto tra Stato e cittadini; nella sezione V si presenta un’applicazione di policy sul tema
dell’evasione fiscale; la sezione VI conclude.
I. Reciprocità: un asset inesplorato per il successo della politica economica
La teoria economica tradizionale sostiene che i beni pubblici spesso non riescono ad essere
forniti per via del fenomeno chiamato free-riding. Gli individui sarebbero perfettamente
razionali, massimizzatori della loro singola utilità e, pertanto, coglierebbero l’occasione, non
appena gliene venga lasciata la possibilità, di sottrarsi dal contribuire al bene pubblico.
In realtà, la tipologia dell’homo oeconomicus è decisamente meno diffusa di quanto
l’economia mainstream affermi. In numerose situazioni le persone non si comportano
seguendo il loro egoistico interesse, ma esibiscono spiccata prosocialità. Se gli individui si
comportassero davvero egoisticamente come i modelli economici tradizionali prevedono, ad
esempio, si registrerebbero tassi di evasione fiscale ben più elevati (vedi infra, parte V); il
volontariato sarebbe un fenomeno del tutto marginale (chi accetterebbe di sacrificare risorse
proprie per aumentare quelle altrui?); le elezioni verrebbero disertate (l’utilità attesa del voto
del singolo individuo tende a zero); il fenomeno dei software open-source sarebbe
inspiegabile (Meier 2006).
E’ evidente che l’agire delle persone non è dettato esclusivamente da interessi personali, ma è
mosso (anche) da altre motivazioni. I filoni principali sono tre: le teorie delle preferenze pro-
sociali, in cui l’utilità del singolo è funzione delle utilità altrui; l’approccio che sottolinea
l’importanza della propria identità e dell’immagine di sé, secondo cui gli individui
accrescono la propria utilità nel vedersi sotto una luce positiva grazie alle proprie buone
azioni; infine, le teorie della reciprocità, secondo cui gli individui agiscono in un determinato
modo in risposta alle azioni altrui. In questo paper mi soffermerò su quest’ultimo punto,
particolarmente rilevante per la strutturazione della politica economica.
La reciprocità può essere di due tipi: positiva o negativa. Nel primo caso, gli individui
rispondono pro-socialmente al comportamento amichevole altrui, a prescindere dalla
convenienza economica; nel secondo, essi diventano vendicativi in risposta ad azioni
percepite come lesive nei loro confronti, e tendono a punire colui che ha commesso l’offesa,
anche a costo di sopportare una perdita in senso strettamente economico. Inoltre, secondo le
norme della reciprocità, le intenzioni percepite contano quanto le azioni effettivamente
compiute. La nozione di reciprocità non entra nella sfera del calcolo economico puramente
razionale: in altri termini, esula dal mondo delle norme di mercato (market norms), ma rientra
in quello delle norme sociali (social norms) (Fehr e Gächter 2000).
La reciprocità costituisce la base per la creazione e il mantenimento del capitale e delle
norme sociali, che contribuiscono alla formazione del tessuto sociale. Essa, infatti, permette il
mantenimento di regolarità comportamentali ampiamente accettate e condivise dalla
comunità, operando con meccanismi premianti e sanzionatori (Bruni 2006).
3
Tale concetto risulta un ingrediente rilevante per un public policy design efficace: ciò appare
chiaro considerando l’evidenza empirica raccolta nei vari public goods experiments condotti,
tra gli altri, da Fehr e Gächter (2000).
Public Goods Experiment
Prendiamo un gruppo con quattro persone, e diamo a ciascuno 20 gettoni. Per ogni gettone
non speso dal soggetto, egli guadagna un altro gettone. Per ogni gettone impiegato in beni
pubblici, tutti i soggetti del gruppo ricevono 0,4 gettoni. Qual è la strategia massimizzante?
Per il singolo, il free-riding: se egli tiene per sé tutti i gettoni, guadagnerà altri venti gettoni,
più 0,4*X gettoni che verranno investiti dagli altri nel bene pubblico. Per la collettività,
tuttavia, il benessere è massimizzato se tutti i soggetti investono tutti i gettoni nel bene
pubblico. Il ritorno per ciascuno, infatti, sarà di 0,4*(20*4)=32 gettoni, cosicché la collettività
disporrà di 32*4=128 gettoni.
Secondo la teoria economica neoclassica, il risultato finale del gioco dovrebbe essere
l’impossibilità di fornitura del bene pubblico, causata dall’egoismo razionale degli individui;
in realtà, gli esperimenti condotti sul campo mostrano ben altri risultati. I partecipanti,
innanzitutto, tendono a mostrare reciprocità positiva nel decidere quanto investire nel bene
comune: se i giocatori vedono che gli altri contribuiscono, essi a loro volta fanno la loro
parte. Quando ciò non accade, gli altri partecipanti puniscono il recalcitrante, ove sia data
loro la possibilità, anche a costo di rimetterci dei gettoni (Fehr e Gächter 2000). Inoltre, ove
la comunicazione tra i partecipanti è permessa, i livelli di contribuzione al bene pubblico
aumentano considerevolmente, e la collaborazione dura più a lungo, riducendo drasticamente
il free-riding (Isaac e Walker 1988).
I risultati dei public goods experiments sono applicabili alla politica economica e, più in
generale, all’impostazione del delicato rapporto tra comunità dei cittadini e Stato. Incorporare
tali concetti nell’architettura della governance dello Stato e delle singole politiche può
costituire il fattore critico di successo per instaurare quei regimi cooperativi di governo dei
beni collettivi descritti da Ostrom (1990) come la forma di governo della cosa pubblica di
maggior efficacia e longevità.
II. Principi per la governance dei beni collettivi: i Design Principles of Cooperative
Regimes
Secondo il premio Nobel Elinor Ostrom (2000), la legge dello Stato non si applica con la
forza dei controlli a tappeto e di costrizioni dall’alto; la civile convivenza e la condivisione
dei beni collettivi si ottiene efficacemente, invece, sfruttando alcuni aspetti della psicologia
umana. I presupposti per governare i commons con successo sono norme di reciprocità,
credibilità e fiducia nei leader della comunità: risorse e fattori intangibili, ma critici per la
prosperità e la sopravvivenza a lungo termine dello Stato. In particolare, ogni regime
indipendente di gestione delle risorse collettive, per avere successo, ha bisogno di poggiare su
otto principi costitutivi, chiamati Design Principles of Cooperative Regimes (Ostrom 1990).
4
I principi costitutivi
1) Un set di regole chiare e confini ben delineati. I partecipanti allo sfruttamento delle
risorse comuni (i cittadini) devono poter avere un’idea chiara dei propri diritti e dei propri
doveri con riferimento all’appropriazione dei beni collettivi, e devono sapere con chi
collaborare e a chi rivolgersi per lo sfruttamento di tali beni. In altri termini, la comunità deve
dotarsi di un sistema giuridico limpido, comprensibile a tutti e a misura di cittadino, senza
opacità e aree d’ombra. Le regole devono essere user-friendly.
2) Un set di regole equo e rispettoso delle specificità locali. Tali regole consentono
l’accesso alle risorse comuni a tutti i cittadini, poiché ne limitano le quantità, i tempi e la
tecnologia ammissibili per la loro appropriazione. I cittadini, inoltre, ottengono benefici dallo
sfruttamento delle risorse in proporzione al contributo offerto per la fornitura del bene
collettivo (i costi d’uso sono proporzionati ai benefici). Infine, tali regole si adattano alle
specifiche caratteristiche regionali, prevedendo opportune modifiche qualora in un
determinato luogo la risorsa sia particolarmente scarsa o abbondante. In altre parole, equità,
sostenibilità e rispetto della diversità devono informare il sistema giuridico vigente.
3) Meccanismi inclusivi di partecipazione democratica. La maggioranza degli individui
interessati da tale regime di governo dei beni collettivi deve poter stabilire le norme che lo
costituiscono e, se necessario, proporre di apportarvi delle modifiche. E’ dimostrato che le
comunità che rispettano questa condizione sono in grado di disegnare sistemi regolatori più
efficaci e duraturi nel tempo. La partecipazione democratica a tale processo deve essere la più
ampia possibile: diversi studi condotti in vari Paesi mostrano che l’efficacia del sistema
giuridico è inferiore quando la popolazione ha la percezione che le regole siano imposte
dall’alto da un’elite dominante. Famoso il caso di un sistema di irrigazione in India, in cui
Bardhan (2000) ha rilevato come la qualità della manutenzione dei canali fosse sensibilmente
inferiore quando i contadini ritenevano che le regole fossero state decise da una elite al
potere. Inoltre, le violazioni delle regole erano più frequenti, e i contributi per la
manutenzione tendevano ad essere inferiori.
4) Controllori legittimati dalla comunità a far rispettare le regole. I cittadini selezionano i
loro controllori, deputati a far rispettare le regole e accountable nei loro confronti. A volte,
tali controllori possono essere gruppi di cittadini che sfruttano le risorse comuni in prima
persona e si impegnano a partecipare all’enforcement delle regole. Talora, inoltre, il ruolo di
controllore è a rotazione, cosicché ogni utilizzatore della risorsa ha la possibilità di diventare
controllore a sua volta. Si tratta di un altro esempio di meccanismo inclusivo che caratterizza
i governi delle risorse collettive di maggior successo e durata.
5) Uso di sanzioni progressive. Le sanzioni nei confronti di chi infrange la legge sono
graduali e dipendono dalla serietà e dal contesto della violazione. In particolare, la sanzione
iniziale è molto blanda, ed è ascrivibile a una semplice informazione nei confronti del
cittadino sanzionato e della comunità nel suo insieme. Infrazioni ripetute, tuttavia, innescano
una rapida escalation della gravità delle sanzioni, fino all’extrema ratio, costituita dal bando
del soggetto dalla comunità. Tale architettura sanzionatoria permette di distinguere tra
5
violazione occasionale e violazione sistematica, in grado di minare le basi di fiducia e
reciprocità tra gli utilizzatori.
6) Risoluzione delle controversie rapida e a basso costo. Istituzioni credibili e affidabili
deputate al dispute settlement tra cittadini e controllori permettono di mantenere e
corroborare la fiducia degli utilizzatori delle risorse nel sistema giuridico e nell’architettura
sociale cui essi stessi contribuiscono in prima persona. Tali istituzioni, inoltre, fanno luce su
possibili ambiguità e difficoltà interpretative della legge, agendo con il ruolo di facilitatori
della convivenza civile e non di impositori dall’alto del controllo.
7) Possibilità di modificare le regole in base alle necessità locali. Il settimo principio,
informato a criteri di sussidiarietà e autodeterminazione, prevede che le comunità locali
abbiano il diritto di innovare le regole nel loro territorio, rendendole ancora più rispondenti
alle loro esigenze. Per poter fare ciò, è necessario il placet del governo centrale.
8) Per sistemi più estesi e complessi, una struttura di governance a più livelli. Qualora le
risorse collettive siano molteplici e il loro sfruttamento complesso e su vasta scala, si rende
necessaria una governance appropriata, basata sui criteri precedentemente richiamati di
sussidiarietà e autodeterminazione.
III. Minacce alla sopravvivenza dello Stato
Ostrom (2000) passa in rassegna le minacce identificate empiricamente in letteratura ai
regimi di governo dei commons che fondano il loro successo su norme di reciprocità e
fiducia. Innanzitutto, la premessa per mantenere tale capitale sociale inalterato consiste nella
coesione sociale, che secondo Ostrom è messa a repentaglio quando i flussi migratori in
uscita e in entrata sono talmente significativi da far evaporare la fiducia reciproca tra i
membri della collettività, che si riflette nella ricerca del proprio “particulare”, a discapito
dell’edificio comune di governo dei commons. Per dirlo con Putnam (2000), c’è il rischio che
i membri della comunità inizino a giocare a bowling da soli. In tal modo, i regimi di governo
delle risorse collettive si disintegrano in breve tempo.
Altre cause –endogene ed esogene- del dissolvimento del capitale sociale e che minacciano il
fallimento del governo delle risorse collettive (e quindi dello Stato) includono: 1) un governo
nazionale accentratore, che non tiene conto dei principi di sussidiarietà e di
autodeterminazione, scatenando reazioni centrifughe da parte delle comunità locali. Ciò porta
allo sfaldamento dello Stato, percepito come un nemico; 2) rapidi cambiamenti nella
tecnologia e nella disponibilità dei fattori; 3) scomparsa del civismo e del rinnovamento
generazionale, che si declinano in: a) scarso turnover tra anziani e giovani; b) sclerosi della
trasmissione da una generazione all’altra dei principi alla base del governo delle risorse
collettive; 4) la ricerca troppo frequente di aiuti provenienti dall’esterno, che si traduce in
sostanziale perdita di autonomia nel definire e rispettare il set di regole di governo; 5) aiuti
internazionali di natura top-down, che non tengono conto delle esigenze e delle specificità
locali, trascurando know-how e istituzioni locali; 6) il prosperare di corruzione e pratiche
opportunistiche come l’evasione fiscale; 7) l’assenza di istituzioni che assicurino una
risoluzione delle controversie autorevole, rapida e a basso costo. Aggiungo un ulteriore
6
punto, 8) una Pubblica Amministrazione inefficace e inefficiente, con rappresentanti
inadeguati e poco accountable nei confronti dei cittadini, utilizzatori delle risorse collettive.
Zero Contribution Thesis
Conseguenza del dissolvimento di fiducia e reciprocità è il raggiungimento dello stadio che
Olson (1965) chiama zero contribution thesis. Gli individui si comportano da free riders,
facendo diminuire a zero il loro contributo al bene pubblico, pur continuando a goderne i
benefici, dato che esso è, per definizione, non rivale e non escludibile nel consumo. E’ chiaro
che se ciascun individuo persegue questo corso d’azione, la fornitura del bene pubblico
diviene ben presto impossibile. Per Olson, pertanto, l’azione collettiva diviene problematica,
e gli individui, egoisti e razionali, devono essere influenzati tramite la predisposizione di
incentivi monetari e benefici adeguati.
IV. Come uscire dall’impasse? Il passaggio dalle market norms alle social norms
In realtà l’approccio di Olson è stato superato dalle acquisizioni recenti della Behavioral
Economics. I meccanismi di mercato (market norms), caratterizzati da scambi monetari, non
sono adeguati per impostare il delicato rapporto tra Stato e cittadini. I comportamenti e i
processi cognitivi e decisionali delle persone, infatti, sono contraddistinti da una buona dose
di irrazionalità e, con buona pace della saggezza convenzionale, spesso le considerazioni non
monetarie prevalgono sul resto (Ariely 2010a). Il nostro mondo è modellato in gran parte
dalle norme sociali (social norms), che si fondano su reciprocità e scambi gratuiti. Il nostro
universo interpersonale si basa su questi presupposti, sia nella vita privata che in quella
lavorativa. Ogni manager di successo conosce bene l’importanza di mantenere e sviluppare
eccellenti reti informali di relazioni con colleghi e clienti; allo stesso modo, il negoziatore
geniale sa che la riuscita di un negoziato dipende dalla capacità di ampliare la torta della
contrattazione, creando valore per sé e la controparte, in modo da acquisirne la fiducia anche
per il futuro. Secondo Bazerman e Malhotra (2007), “[y]our goal should not simply be to get
the best possible deal while preserving the relationship, but to get the best deal while
strengthening the relationship and your reputation”. Se il mondo in cui viviamo è questo,
perché il policy making dovrebbe funzionare diversamente?
L’errore nel quale i policy makers perseverano troppo spesso è quello di cedere alla
tentazione di creare distacco tra governo e cittadini, nel tentativo (fallace) di rimarcare i
rapporti di potere in gioco. Ne consegue una deriva paternalistica distorta, che mal si concilia
con l’obiettivo di migliorare la vita dei cittadini e rappresentarne gli interessi. Chi governa
imposta una relazione con i cittadini basata su market norms. Si registra, di conseguenza, un
arido appiattimento su diritti e doveri; la sottoposizione ad un regime fiscale oscuro (e
percepito come ingiusto in quanto tale) e ad una giustizia non meno aliena ai cittadini;
l’evaporazione del capitale sociale e del senso civico; la riduzione dell’impegno civile.
Riassumendo, il sistema si ripiega su stesso, poiché i cittadini, invece che formare un network
la cui massima espressione è lo Stato, si disperdono in un arcipelago di isole non
comunicanti. Il collante tra i cittadini si dissolve e lo Stato viene percepito come estraneo, un
“intruso” nel proprio microcosmo.
7
Questa condizione, pur rappresentando un problema, non è sufficiente a minare le basi del
governo delle risorse comuni. Finché le market norms vengono rispettate, il sistema funziona.
Il problema, tuttavia, risiede nel fatto che, senza social norms forti e consolidate e
meccanismi di reciprocità e fiducia, anche le market norms iniziano a rivelarsi insufficienti e
a non essere più rispettate. Quando ciò accade, la crisi è manifesta e sia l’opinione pubblica
sia i policy makers sono consci della serietà della situazione.
L’errore ancor più grave, a questo punto, consiste nel tentare di risolvere la condizione di
cortocircuito delle market norms portando avanti soluzioni imperniate su queste ultime. Tale
corso d’azione, infatti, porterebbe ad una spirale perversa in cui i cittadini si sentono sudditi,
invece che partecipanti alla costruzione dell’edificio collettivo, con conseguenze nefaste e
potenzialmente drammatiche.
Levi, nel suo saggio A State of Trust (2003), descrive la fiducia reciproca tra Stato e cittadini
come una conditio sine qua non per ottenere il consenso contingente (contingent consent) dei
cittadini. In altri termini, solo se i cittadini hanno fiducia nello Stato e lo ritengono equo e
accountable sono disposti alla collaborazione, ricreando il tessuto sociale necessario alla
sopravvivenza e alla prosperità del regime di governo dei beni collettivi, che agisce attraverso
lo Stato stesso.
Pertanto, un policy making efficace non può prescindere dall’affidarsi alle social norms per
impostare il rapporto tra Stato e cittadini. Accountability, partecipazione collettiva, inclusione
sociale nei processi decisionali, mobilità sociale, equità e soprattutto comunicazione
trasparente ed immediata dell’azione di governo devono essere i pilastri su cui fondare l’agire
pubblico. Tali principi devono essere tuttavia corroborati da un sistema educativo appropriato
nella trasmissione da una generazione all’altra dei principi alla base del governo delle risorse
collettive. Il termine “educazione civica” appare limitante: non si tratta semplicemente di
insegnare i principi costituzionali o di fornire delle pur minime basi del vivere civile. Si
tratta, invece, di disegnare un sistema educativo che, nel suo complesso, metta in condizione i
cittadini del futuro di comprendere l’architettura della società, partecipando attivamente al
governo della comunità.
Gli ultimi decenni hanno visto l’affievolirsi dell’attenzione per le social norms, che ha avuto
come contraltare l’ossessione per l’applicazione universale delle market norms a tutti gli
aspetti delle nostre vite. Si sono snaturate le relazioni tra cittadini e tra cittadini e Stato. Gli
effetti sono sotto gli occhi di tutti. Parafrasando Ariely (2010a), provate a pagare vostra
suocera dopo che vi ha cucinato il pranzo di Natale. Ne subirete le conseguenze!
V. Social norms in azione: il caso dell’evasione fiscale
Un esempio di area di policy in cui il cambiamento di paradigma da market norms a social
norms potrebbe rivelarsi fruttuoso è quello della tassazione. In un Paese come l’Italia, in
particolare, il problema dell’evasione fiscale è una spada di Damocle per l’economia, avendo
raggiunto dimensioni talmente vaste (secondo il rapporto 2010 della GdF, i redditi non
dichiarati ammontano a 50 miliardi) da tarpare le ali alla crescita del Paese e da minare le
basi della coesione nazionale. Che fare dunque?
8
Secondo i modelli economici tradizionali, fondati su meccanismi di deterrenza, gli individui
valutano se evadere o meno in base a un calcolo puramente razionale. La decisione dipende
strettamente dalla probabilità di essere scoperti e dalle sanzioni pecuniarie previste. Tuttavia,
come mostra una vasta letteratura di Behavioral Economics, se il modello di deterrenza
rappresentasse fedelmente la realtà, l’evasione fiscale costituirebbe un fenomeno ancor più
diffuso di quanto non accada (Feld e Frey 2003, Slemrod 2007, Congdon, Kling e
Mullainathan 2009). La probabilità di essere scoperti, infatti, è in tutti i Paesi troppo bassa per
essere considerata un deterrente efficace. Del resto gli accertamenti fiscali, da soli, non
saranno mai in grado di conseguire una totale tax compliance.
I modelli di deterrenza, infatti, sono riconducibili esclusivamente al mondo delle market
norms. Come sappiamo, tuttavia, le social norms sono almeno altrettanto importanti nel
modellare il comportamento degli agenti economici. Il settore della tassazione non fa
eccezione. Slemrod (2007) spiega l’importanza del ruolo del contingent consent nel
pagamento dei tributi. I cittadini, infatti, pagano quanto dovuto allo Stato non solo perché
sono obbligati a farlo (come abbiamo visto, potrebbero facilmente sfuggirvi), ma anche e
soprattutto per una “morale fiscale” (tax morale) intrinseca. Feld e Frey (2003) giungono ad
affermare che la tassazione è un fenomeno “quasi volontario”. E’ proprio la morale fiscale a
scendere ai livelli più bassi quando le market norms prendono il sopravvento sulle social
norms. In particolare, essa cala sotto il livello di guardia quando i cittadini nutrono profonda
sfiducia nello Stato, che percepiscono come ingiusto e recalcitrante nel perseguire i loro
interessi. Ariely (2010a) elenca numerosi altri principi psicologici alla base di fenomeni
dell’evasione fiscale o della corruzione: 1) l’assenza di una normativa chiara e comprensibile;
2) la percezione di ingiustizia del tributo (si tratta di un esempio di self-serving bias); 3) la
percezione che non sia un “peccato grave”; 4) il fatto che non implichi fisicamente l’atto del
furto (evasori anche milionari sono spesso individui che non ruberebbero mai nulla in un
supermercato, perché si tratterebbe di un furto diretto); 5) la percezione che il fenomeno sia
diffuso; 6) la mancanza di identificazione con le “vittime” del fenomeno (i cittadini onesti o
quelli disagiati, che ricevono meno sussidi dallo Stato a causa dell’evasione) (Ariely 2010b).
Come, dunque, ottenere il contingent consent da parte dei cittadini? Levi (2003) sottolinea
l’importanza della fiducia nello Stato, che si consegue attraverso meccanismi di
partecipazione inclusiva dei cittadini e procedure eque. Tale fiducia è reciproca: i cittadini
non sono guardati con sospetto. Congdon, Cling e Mullainathan (2009) suggeriscono di
pubblicizzare le cosiddette benefit tax, tasse che finanziano un beneficio saliente e
direttamente visibile dai cittadini. E’ possibile, inoltre, sfruttare concetti di Behavioral
Economics quali drop-in the bucket effect, identifiable victim effect e il principio di social
proof. Il primo, discusso da Ariely (2010b), attiene al fenomeno per il quale le persone sono
riluttanti a contribuire ad una causa per la quale essi percepiscono di non essere in grado di
fare la differenza. Nel campo dell’evasione fiscale, possiamo osservare che molti cittadini
evadono perché pensano che le loro tasse verranno impiegate male, o andranno a finire nel
nulla, non traducendosi in servizi concreti e miglioramento del benessere pubblico.
Conoscendo questo pattern comportamentale, possiamo porvi rimedio sfruttando
l’identifiable victim effect, descritto anch’esso in Ariely (2010b). Si tratta del fenomeno per
9
cui le persone tendono a contribuire alle cause in cui riescono a identificare in maniera
circostanziata il destinatario della loro buona azione. Le ONLUS usano regolarmente questa
strategia per assicurarsi donazioni, preferendo mostrare le foto di un singolo bambino
bisognoso (facile da aiutare con poco) invece che far riferimento alle masse di disperati per le
quali sarebbero necessari miliardi di euro. Lo Stato dovrebbe sfruttare questi aspetti
psicologici per aumentare la tax morale e il contingent consent.
Non meno importante è il principio di social proof, descritto da Cialdini (2009): le persone
determinano ciò che è giusto e sbagliato in base alle convinzioni altrui. In altri termini, il
principio di social proof sta alla base dell’effetto gregge: tendiamo a osservare il
comportamento altrui e, di solito, ci uniformiamo. Nel caso dell’evasione fiscale, la
convinzione che si tratti di un malcostume dilagante gioca un ruolo significativo nel
determinare il comportamento dei cittadini. Il fatto che personaggi famosi del mondo dello
sport, dello spettacolo e della politica siano conclamati evasori fiscali o diano prova di una
condotta non esemplare nei confronti delle istituzioni contribuisce a rinforzare questo
meccanismo. Bisogna quindi sfruttare il principio di social proof a favore della tax
compliance, fornendo modelli positivi ai cittadini e pubblicizzando il comportamento di chi
rispetta la legge ed è un cittadino onesto per innescare fenomeni virtuosi di imitazione.
VI. Considerazioni conclusive
Il takeaway principale di questo paper è che la politica economica deve mostrarsi vitale e
innovativa per fronteggiare le sfide complesse del mondo odierno. La crisi economica e
finanziaria internazionale ha messo a nudo l’obsolescenza dei vecchi modelli dell’economia
mainstream, che ha dominato gli ultimi decenni del Novecento. La Behavioral Economics si
candida ad essere determinante nell’offrire spunti per una politica economica creativa ed
efficace per gli anni a venire, e i governi dovrebbero aprirsi all’adozione di strumenti e
paradigmi nuovi per impostare la propria azione.
E’ necessario un ritorno alla centralità della persona in quanto combinazione di razionalità e
irrazionalità, di mente e cuore, ed è urgente riconoscere che l’homo oeconomicus
congetturato nell’ultimo secolo non esiste. Basandosi su tale assioma, in questi decenni sono
stati commessi errori notevoli di politica economica, che hanno condotto al
ridimensionamento delle social norms e al dissolvimento del collante sociale, in favore di
market norms dettate da un economicismo perverso, distante dalla realtà e dai cittadini. Il
predominio della finanza sull’economia reale costituisce un aspetto di questa deriva, che ha
prodotto le ben note dolorose conseguenze.
E’ tempo di ricostruire il rapporto tra Stato e cittadini basandosi sui principi ispirati a
reciprocità, fiducia e inclusione suggeriti da Ostrom e scoprendo forme di democrazia
realmente rappresentativa. Incorporare i bias, gli errori e i pattern comportamentali delle
persone nelle analisi economiche significa dimostrare onestà intellettuale, ingrediente
indispensabile per riuscire in questo non facile compito.
10
Note bibliografiche
Ariely, D., Predictably Irrational: the Hidden Forces that Shape Our Decisions, Revised
and Expanded Edition, HarperCollins, 2010.
Ariely, D., The Upside of Irrationality: The Unexpected Benefits of Defying Logic at Work
and at Home, HarperCollins, 2010.
Bardhan, P., Irrigation and Cooperation: An Empirical Analysis of 48 Irrigation
Communities in South India. Economic Development and Cultural Change, 2000.
Bazerman, M., Malhotra, D., Negotiation Genius: How to Overcome Obstacles and Achieve
Brilliant Results at the Bargaining Table and Beyond, Harvard Business School, Bantam
Books, 2007.
Bruni, L., Reciprocità. Dinamiche di cooperazione, economia e società civile,
BrunoMondadori, Milano, 2006.
Cialdini, R., Influence: Science and Practice, Fifth Edition, Pearson, 2009.
Congdon, W., Kling, J., Mullainathan, S., Behavioral Economics and Tax Policy, National
Tax Journal 62(3): 375-386, 2009.
Fehr, E., Gächter, S., Fairness and Retaliation: The Economics of Reciprocity, Journal of
Economic Perspectives, (14); 159-181, 2000.
Feld, L., Frey, B., Deterrence and Tax Morale: How Tax Administrations and Taxpayers
Interact, OECD Papers, Volume 3, No. 10, Special Issue on Taxation, 2003.
Isaac, R. M. and Walker, J. M., Communication and Free-Riding Behavior: The Voluntary
Contribution Mechanism. Economic Inquiry, 26: 585–608, 1988.
Levi, M., A State of Trust, in Braithwaite, V., Levi, M., Trust and Governance, Russell Sage
Foundation, New York, Ch. 4, pp. 76-100, 2003.
Meier, S., A Survey of Economic Theories and Field Evidence on Pro‐Social Behavior,
Federal Reserve Bank of Boston; Working Papers No. 06-6, 2006.
Olson, M., The Logic of Collective Action: Public Goods and the Theory of Groups. Harvard
University Press, 1965.
Ostrom, E., Governing The Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action,
Cambridge University Press, 1990.
Ostrom, E., Collective Action and the Evolution of Social Norms, Journal of Economic
Perspectives, Vol. 14, No. 3., pp. 137-158, Summer 2000.
Putnam, R., Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community, New York:
Simon & Schuster, 2000.