+ All Categories
Home > Documents > Storia, linguaggio e prospettive in Sardegna - Hotel Calabona

Storia, linguaggio e prospettive in Sardegna - Hotel Calabona

Date post: 31-Jan-2023
Category:
Upload: khangminh22
View: 0 times
Download: 0 times
Share this document with a friend
442
CERAMICHE Storia, linguaggio e prospettive in Sardegna
Transcript

CERAMICHEStoria, linguaggio e prospettive in Sardegna

0 Ceramiche prime pagine Ilisso 19-11-2007 16:22 Pagina 1

0 Ceramiche prime pagine Ilisso 19-11-2007 16:22 Pagina 1

0 Ceramiche prime pagine Ilisso 19-11-2007 16:22 Pagina 2

CERAMICHEStoria, linguaggioe prospettive in Sardegna

0 Ceramiche prime pagine Ilisso 19-11-2007 16:22 Pagina 3

© 2007 ILISSO EDIZIONI - Nuorowww.ilisso.it

ISBN 978-88-6202-017-6

Collana di ETNOGRAFIA E CULTURA MATERIALE

Coordinamento redazionale Anna Pau

Grafica e impaginazione Ilisso edizioni

Progetto grafico copertina Aurelio Candido

Referenze fotografiche Le fotografie, quando non diversamente segnalato indidascalia, sono state appositamente realizzate per questo volume da PietroPaolo Pinna e fanno parte dell’Archivio Ilisso, al quale appartengono anchele fotografie del Fondo Mario De Biasi, del Fondo Max Leopold Wagner ele immagini nn. 148-149, 156-157, 190, 380-381, 387, 470, 475, 556, 602-603,607, 620, 622, 626-627 (foto Nelly Dietzel), nn. 10, 150, 533 (foto DonatelloTore), n. 540 (foto Massimo Napoli), n. 535 (foto Angelo Saini); nn. 488,491, 525, 530, 543, 558-563, 640, 644-649, 656. Le immagini nn. 651-655 so-no dell’Archivio di Umberto Angius; la n. 537 dell’Archivio MIC di Faenza,le nn. 310-311, 323, 352-353, 373-374, 486 (a-b, d-e), 487, 490, 492, 495-496,sono degli archivi privati dei ceramisti asseminesi e dei loro familiari.

È vietata ogni ulteriore riproduzione e duplicazione.

L’editore e gli autori ringraziano sentitamente tutti i ceramisti e gli artistiche, preziosi referenti, hanno attivamente partecipato a questa intrapresaeditoriale.

Un particolare ed esteso ringraziamento è rivolto a coloro che hanno colla-borato a vario titolo alla migliore realizzazione del volume, in particolare:alla direzione e al personale del Museo Nazionale delle Arti e TradizioniPopolari di Roma; Museo Nazionale “G.A. Sanna” di Sassari; Museo Ar-cheologico Nazionale di Cagliari; Antiquarium Arborense di Oristano; Pina-coteca Nazionale di Cagliari; Museo della Vita e delle Tradizioni PopolariSarde di Nuoro; Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza; Museodel Costume Tradizionale e della Lavorazione del Lino e Raccolta Etnogra-fica Su Collegiu di Busachi; Museo Etnografico Sa dommu baunesa di Bau-nei; Centro Pilota della Ceramica, Collezione Comunale Ceramiche d’Artedi Assemini; l’Istituto Statale d’Arte “Carlo Contini” e la Scuola Elementare“II Circolo” di Oristano.Per la sollecita e ampia collaborazione un sentito ringraziamento a: So-printendenza per i Beni Archeologici per le Province di Sassari e Nuoroe per le Province di Cagliari e Oristano nella persona del SoprintendenteGiovanni Azzena; Soprintendenza BAAAS per le Province di Cagliari eOristano nella persona del Soprintendente Stefano Gizzi; MAT nella per-sona del direttore Stefania Massari.

Per il generoso sostegno e la disponibilità: la cooperativa Paideia, Ange-lo Sciannella, Salvatore Stoccoro, Cinzia Ventimiglia, Francesca Porcella,Donatella Salvi, Giovanna Palimodde, Stefano e Annapia De Montis, GiòBiasi, Roberto Bozzano, Roberto Contu, Robert e Giulia Carzedda, Simo-netta Marongiu, Don Stefano Bacchitta, il Priorato di N.S. di Bona Era diBitti, il Priorato di San Bachisio di Onanì, Loreto e Giovanna Muggittu,Loreta Gungui, Maria Giuseppina Cuccu, Silvana Frongia, Fabio Genova,Bonario Piu, Michela De Giorgio, Angelo e Candida Tilocca, Basilio Aso-ni, Serafino e Antonietta Loddo, Franca Sanna, Anna e Mario Salis, An-nunziata e Maria Bandinu, Giovanna Maria Fadda, Maria Tedde, AnnaCongiu e Sergio Piras, Annarella Frau e Cristian Erdas, Anna Murgia.

0 Ceramiche prime pagine Ilisso 19-11-2007 16:22 Pagina 4

Indice

7 LA SARDEGNA TERRA DI PERMANENZAGiovanni Lilliu

13 LA CERAMICA PRENURAGICA E NURAGICAMaria Rosaria Manunza

49 LA CERAMICA DEL PERIODO FENICIO, PUNICO E ROMANORaimondo Zucca

75 LA CERAMICA DEL PERIODO BIZANTINO E MEDIEVALERossana Martorelli

89 I RAPPORTI TRA LIGURIA-SARDEGNAFederico Marzinot

105 APPUNTI SUL LESSICO SARDO DELLA FIGULINAGiovanni Lupinu

119 LA PRODUZIONE DELLA TERRACOTTA NEL CAMPIDANOTRA GLI ANNI VENTI E GLI ANNI OTTANTA DEL NOVECENTOMaria Beatrice Annis

261 TORTOLÌ: NEL RICORDO DELLA TRADIZIONEMichela Sardo

275 LA “SCUOLA DI DORGALI”: L’INTAGLIATORE DIVENTA CERAMISTAAntonello Cuccu

291 I PENTOLAI DI PABILLONISDario Frau

311 GLI STOVIGLIAI DI ASSEMINIInes Ruggeri

321 LA CERAMICA DEGLI ARTISTI NELLA SARDEGNA DEL PRIMO NOVECENTOGiuliana Altea

351 LA CERAMICA DEGLI ARTISTI DAL DOPOGUERRA AD OGGIAntonella Camarda

365 TRA UN BARBARICO HORROR VACUI E UNA SINTESI DI GUSTO MODERNOAntonello Cuccu

405 CERAMICA E ARCHITETTURAAntonella Camarda

415 LE ARGILLEUmberto Angius

423 IL SETTORE DELLA CERAMICA ARTISTICA IN SARDEGNA. PROBLEMI E OPPORTUNITÀSergio Lodde, Giovanni Sistu

434 BIBLIOGRAFIA

0 Ceramiche prime pagine Ilisso 19-11-2007 12:22 Pagina 5

1

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:10 Pagina 6

7

Chiedere a un archeologo di scrivere la prefazione diun volume come questo, sulla ceramica in Sardegna,può significare interrogarsi sull’esistenza o meno di unacontinuità fra ieri e l’oggi. Premesso che la personale esperienza di studi è rac-chiusa soprattutto nell’arco che dal prenuragico arrivaal periodo romano, con qualche incursione nel periodoaltomedioevale, credo di poter affermare che in tutta lastoria della Sardegna ci sia un qualcosa che permane.Ed è molto ciò che resta dell’antico, sia pure con tuttaquesta invasione di moderno, e Nuoro lo dimostra. Nuo-ro e tutta la Barbagia. La storia della Sardegna non è una storia catastrofica co-me altrove; anche quando viene occupata dall’esterno,nell’Isola la linfa antica non s’interrompe, resistendo fi-no ai giorni nostri.Il tessuto umano, allora come oggi, non era uniforme:c’erano i dolicomorfi e i brachimorfi, quindi evidente-mente esistevano diverse compagini che convivevanoinsieme; questa è una storia costante nell’Isola, attraver-sata da tante culture e tante civiltà, al cui interno peròrimane sempre lo strato antico. Analogo è il discorso sulla lingua. L’idioma appreso dairomani esiste oggi come lingua sarda. Non sono riusciti,quelli che la combattevano, a eliminarla, anzi, direi cheessa oggi prorompe. E negli ultimi decenni, devo rico-noscere anche grazie a quelli, fra i quali mi annovero,che hanno condotto una vera e propria battaglia – per-ché, quando ci si occupava della lingua sarda, si diven-tava vigilati speciali –, si è riusciti a vincere e ora, sullaquestione, si è aperto un grande dibattito. La lingua sarda è specchio della cultura lasciataci dairomani. Della lingua dei cartaginesi, al contrario, non èrimasto quasi più niente, fatta eccezione per la topono-mastica. I nomi dei luoghi sono quelli che permangonomaggiormente, specialmente quelli legati alla natura, deiquali, bisogna precisare, moltissimi sono ancora della ci-viltà nuragica. Insomma la Sardegna è una terra di permanenza. Noisiamo italiani ma anche sardi, soprattutto sardi.

Il mio primo contatto con la ceramica non è stato conquella quotidiana domestica. Conoscevo le diffusissimebrocche per l’acqua; vedevo, essendomi in varie occa-sioni recato a Siniscola, quelle realizzate da un vecchiotorniante, credo Paolo Casu. Ai fini di una conoscenzaspecifica tuttavia non mi sono spinto oltre.Sono stato invece subito affascinato dalla produzionedi scavo: la ceramica neolitica, straordinaria nelle linee– con la produzione di oggetti che quasi si sarebberopotuti fare oggi con tutte le concezioni di moderno de-sign – e quella nuragica. Le due espressioni sono moltodifferenti e non per rinuncia o involuzione della secon-da: le popolazioni sono le stesse.Nelle ceramiche neolitiche l’interpretazione della formaè sbilanciata a favore di un decorativismo che è femmi-nile, prorompente. Le figure umane stesse del Neolitico,bellissime, obese, sono sempre prevalentemente donne.Formalmente la brocca ricorda la Grande Madre: c’è labocca, la testa, il corpo. È indubbio che al tempo in cuisi facevano ceramiche siffatte, rappresentative della divi-nità, meglio, della Dea, madre di tutte le cose, le donneprevalessero. D’altra parte col vaso la donna riproduce-va il suo ventre.Nel Neolitico si era in presenza di un matriarcato, eranole donne “a comandare”, difatti le statuette in pietra rin-venute raffigurano esclusivamente donne. È con l’etànuragica che si invertono le parti; s’impone una sceltadi guerra e tutto cambia: le ceramiche sono più asciutte,spesso neppure decorate.Il mondo contemporaneo, accadrà presto o probabil-mente è già così, sta tornando al matriarcato, perché ledonne si stanno riappropriando del potere. La donna dioggi ha le forze dell’uomo.Nel decoro delle ceramiche neolitiche venivano impie-gati dei punteruoli e poi, nel solco tracciato con questi,spesse volte, si aggiungeva l’ocra rossa. E i decori, comenegli straordinari oggetti della cultura di San Michele diOzieri, ripetevano probabilmente la forma delle corna, oquella radiale della stella o, ancora, della spirale. Cerami-che belle, “distinte”, destinate anche a un utilizzo rituale.Sempre l’ocra rossa, il colore rosso – così come nellegrotte artificiali dove veniva utilizzata per la realizza-zione di dipinti – è la tonalità che permane ancora sino

La Sardegna terra di permanenzaGiovanni Lilliu

1. Ex voto costituito da una figura femminile, sec. III a.C.(particolare della fig. 9).

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:10 Pagina 7

all’Ottocento nel trattamento superficiale delle cassa-panche tradizionali.Dalle statuette in pietra steatopigie del Neolitico si èpassati successivamente a figurine più stilizzate. I nura-gici non guardavano all’arte come ornamento ma allasua forza: dunque nell’età nuragica le spirali e i motivigeometrici delle ceramiche non ricorrono più.Si deve tener conto che molto di quanto si può vederein forme e decori nella ceramica antica a noi oggi risul-ta incomprensibile. Anche gli archeologi non riesconoa comprendere a cosa allude quel linguaggio nascosto:forse non lo si conoscerà mai. È per questo che gli studiosi di antichità devono essereprudenti. Immaginare è lecito, ma è doveroso anchenon oltrepassare i limiti. Personalmente, avendo ripresoalcuni miei lavori ed essendomi accorto di alcuni errori,ho sempre rettificato perché, a volte, nel tentativo diperfezionare le proprie teorie, si aprono nuovi scenarie si può andare oltre. Cambiare e sostenere i motivi delcambiamento è morale, etico.Si conosce poco di alcuni aspetti della cottura dei fittiliin età preistorica. Si può ipotizzare che la cottura deipezzi ceramici avvenisse generalmente in esterno, pres-so una parete alla quale si appoggiava il fuoco. Non sipuò parlare di fornaci vere e proprie come quelle d’epo-ca successiva, ad esempio romana. Ed è per questo mo-do di cuocere all’aperto che le ceramiche variavano ditono da una parte all’altra dell’oggetto: una risulta piùavvampata mentre l’altra meno. Proprio la tonalità su-perficiale diversa dimostra una cottura non uniforme.I primi forni, per quanto conosca, risalgono all’età ro-mana; ad esempio ne è stato rinvenuto uno a Sorradile.In un’altra località, poco distante da Fonni, è stata rin-venuta una fornace d’età altomedioevale, bizantina.Non sono state invece scoperte le cave dalle quali veni-va estratta l’argilla: più facile trovare quelle dove siestraeva il materiale per le statue, la pietra. L’argilla èun materiale troppo aleatorio e poteva essere prelevatoovunque in maniera casuale.

È difficile capire se le ceramiche antiche venissero trat-tate con grassi impermeabilizzanti per una maggiore re-sistenza all’uso, anche perché in quest’ambito, dove so-no richieste analisi di laboratorio, non mi risultano studispecifici suffragati da analisi chimiche sugli impasti, ve-rifiche invece effettuate soprattutto su manufatti di etàromana. Nel suo lavoro l’archeologo dovrebbe essere sempre af-fiancato da altre figure come il geologo, il chimico e tut-te le diverse specialità professionali indispensabili a for-mulare un quadro storico completo. Se tutto ciò avvienein gran parte del mondo, in Italia questa prassi non èconsolidata. Sarebbe inoltre opportuno non varare ulte-riori campagne di scavo ma completare quelle già incorso, come ad esempio quella intorno al nuraghe Losa,mai ultimata, o quella del nuraghe Santu Antine, per ci-tare le più note. In Italia non esiste una legislazione chedisciplini tutto questo, mentre in Francia, ad esempio,se non si consegna lo scavo ultimato non se ne puòaprire un altro.Tornando alle questioni prettamente ceramiche e par-lando di permanenze, si può dire che in Sardegna è sta-ta rinvenuta una grande quantità di ceramica etrusca, dimateriale cioè che arrivava dall’Etruria, come il famosobucchero. Dal momento che entrambi erano popoli dinavigatori e avevano instaurato tra loro intensi rapporti,non è da escludere che potessero essere i sardi stessi adandare in Etruria a portare i manufatti. Addirittura inuna tomba etrusca sono stati rinvenuti una statuina dietà nuragica e altri materiali della stessa provenienza. Inquesto si deve leggere, probabilmente, che una donnasarda era andata in sposa con un etrusco. Ulteriore testimonianza degli spostamenti dei sardi so-no, ad esempio, i frequenti ritrovamenti nuragici in Cam-pania.I fenici portavano in Sardegna sia materiale di lusso siamateriale corrente che i sardi acquistavano. Ciò dimo-stra che c’era una differenziazione del mercato e cheesistevano già allora i ricchi e i poveri.Ritengo, tuttavia, che i fenici non abbiano avuto unagrande arte. In generale davano via cose facilmentesmerciabili a poco prezzo, con le debite eccezioni, natu-ralmente. Essi sono stati sostanzialmente un grande po-polo di mare.Bisogna ricordare che in Sardegna, inizialmente, sonoarrivati i fenici dalla madre patria, Tiro e Sidone, succes-sivamente da Cartagine. Questi ultimi, grandi navigatorie valenti mercanti, sull’Isola hanno avuto una incisivitàmaggiore motivata da un dominio protrattosi per benquattro secoli.Accadeva spesso che i fenici portassero delle statuine,anche ceramiche, destinate ai templi protosardi. Lo face-vano per ingraziarsi gli indigeni in tempi in cui nonc’erano ancora conflitti fra le due popolazioni: inizial-mente infatti si era stabilito un reciproco comportamen-to corretto.Nel Museo Archeologico Nazionale di Cagliari sonocustodite numerose figurine ceramiche che avevano

8

2

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:10 Pagina 8

3

4

2. Testina di idolo femminile,Neolitico medio, V millennio a.C.terracotta graffita, h 6 cm, Cagliari,Museo Archeologico Nazionale.Proviene da Polu di Meana Sardo.È la trasposizione ceramica dellecoeve figure in pietra “bellissime eobese”. Nel Neolitico, periodocaratterizzato dal matriarcato, ricorrela rappresentazione della donnaquale centro e perno societario.

3. Vaso a cestello, Cultura Ozieri,Neolitico finale, IV millennio a.C.terracotta graffita, Ø 33 cm, Sassari,Museo Nazionale “G.A. Sanna”.Proviene dalla Grotta di Sa Ucca de Su Tintirriolu presso Mara.Ceramica “distinta” destinata anche ad un uso rituale.

4. Conca, Tortolì, inizio sec. XXterracotta invetriata internamente, Ø 45,7 cm, Baunei, MuseoEtnografico Sa dommu baunesa.Manufatto, denominato scivedda,tianu, impastera, destinatoprevalentemente alla panificazione.

funzione di ex voto. Raffigurano, in forme rozze ele-mentari, esseri umani che invocano la guarigione toc-candosi nel punto in cui è presente il male o viceversasegnalano il punto doloroso guarito. Tali manufatti per-sistono anche in periodo greco e romano, costituendouna produzione tardiva di età storica. Molti sono pro-dotti in Sardegna, presentano un’esecuzione general-mente veloce e approssimativa, un’immediatezza digrande efficacia espressiva. Questi ex voto possono costituire un altro esempio del-la permanenza tematica che travalica i secoli: si con-frontino con le piccole plastiche in terracotta della seriededicata dall’artista Costantino Nivola alla Danza del-l’árgia (fig. 10).Nella coroplastica, in mezzo alla routine di figure di dei-tà del pantheon fenicio, sfornate per i santuari di Thar-ros, Bithia, Caralis e altrove, si distinguono, per il reali-smo, le maschere grottesche funerarie di Tharros e SanSperate (VI sec. a.C.), e per le fattezze regolari, “classi-che”, un busto maschile barbuto, dal volto assorto, rin-venuto nella necropoli di Tuvixeddu (V sec. a.C.).Come già detto, erano soprattutto mercanti e, a seguirele leggi dello scambio, è più facile commerciare piccoli

manufatti, realizzabili a bassi costi, dal momento cheprobabilmente andavano loro stessi a venderli nellecampagne e nei paesi al di fuori degli insediamenti colo-niali. Tuttavia si deve riconoscere come in Sardegna, ri-mastivi per molto tempo, i fenici abbiano lasciato un’im-pronta. Non la lingua però, non volevano che i sardiparlassero il loro stesso idioma: non desideravano esserecapiti e lasciarono che si continuasse a parlare la lingualocale. I romani, al contrario, grandi comunicatori, in Sar-degna come in altre aree, hanno propagandato la lingualatina. Un modo di vedere profondamente diverso.Il vasellame greco di tipo attico è presente nell’Isola inridotte quantità. Naturalmente non venne portato daigreci ma, per via indiretta, dagli etruschi. Questo per-ché gli antichi greci rimasero per troppo poco tempo inSardegna, fondando presumibilmente la sola Olbia.La bellissima ceramica romana detta “sigillata” (da sigil-lum, stampo), dalla tonalità rossiccia, comincia a essereprodotta negli ultimi tempi della Repubblica e si protraesino ai primi tempi dell’Impero. Era diffusa dappertuttoe ha pervaso il mondo antico. Anche in Sardegna si so-no trovati esemplari magnifici e, spesso, in ottimo statodi conservazione. Una coppa con piedistallo, conservata

9

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:10 Pagina 9

10

presso le raccolte del Museo Nazionale “G.A. Sanna” diSassari, è davvero stupefacente per finezza di rilievi(fig. 122).La presenza di questa tipologia e la sua raffinatezza de-notano come i romani abbiano abitato l’Isola per lungotempo. Vi sono arrivati nel III secolo a.C. e rimasti finoalle invasioni dei vandali. Il mondo romano ha permea-to la Sardegna e noi ne siamo figli.Questa considerazione lascia ancora più perplessi sull’ar-rivo cartaginese di cui non è rimasto quasi niente. I ro-mani non erano mercanti, erano un popolo moderno,molto vicino a quello attuale.Continuando sull’età romana, i siti significativi da unpunto di vista di produzione ceramica sono Caralis eTurris Libisonis. Le ceramiche ritrovate e presenti neinostri musei non sono comunque tutte di fattura locale.La sopracitata sigillata arrivava senza dubbio dall’esternomentre alcuni tipi di ceramiche, più grossolane, venivanorealizzate in officine locali come, ad esempio, quella del-l’odierna Florinas, chiamata un tempo Figulina: luogo deifiguli, dei ceramisti.È doveroso accennare ancora al contenitore ceramicosardo per eccellenza: la brocca per l’acqua. Mi si fa no-tare come non si conoscano brocche più vecchie diquelle risalenti alla metà dell’Ottocento e che il vasella-me giunto sino a noi, quasi tutto d’importazione, è com-posto in gran parte da oggetti da tavola o di piccolo-medio taglio, peraltro di grande eleganza, che tuttavianon scioglie l’interrogativo di quali fossero le forme e letipologie dei recipienti utilizzati per il trasporto dell’ac-qua potabile.Io non posso rispondere all’interrogativo se non per laparte inerente le personali competenze. È stata trovata a Crotone in Calabria, località Capo Co-lonna, una navicella sarda del VI secolo a.C., evidente-mente portata dalla Sardegna. Sulle sponde laterali visono raffigurati dei carri con i buoi e sui carri è rappre-sentata una forma che, occupando l’intero spazio, quasicertamente doveva essere una botte di legno adibita altrasporto dell’acqua.L’immagine mi riporta all’oggi. Ricordo che a casa mia,casa di mio padre, poiché in paese non esisteva ancorala rete idrica, l’acqua si andava a prenderla al fiume congrandi botti. Ci si approvvigionava per un lungo perio-do di tempo. Credo che questo avvenisse anche allora ela navicella nuragica calabrese ne è riprova. Ricordo però anche che le donne si recavano al fiume aprendere l’acqua con le brocche. In proposito c’è unastatuina nuragica che rappresenta proprio una donnacon l’anfora sulla testa. In età nuragica, così come hannodovuto fare sino agli anni Cinquanta del secolo scorso,le donne provvedevano alla riserva potabile. Ma al fiu-me andavano anche con le scivedde, le conche cerami-che cariche di panni da lavare. Ecco, la scivedda, per es-sere riposta e quindi appesa a parete, nasceva fornita didue fori sul fianco per il legamento. Questo stesso usoera già presente nel Neolitico, periodo nel quale i cera-misti/e, prevedendo fosse il bordo piano del lato interno

5

6

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:10 Pagina 10

ad aderire a parete, decoravano quasi esclusivamentel’esterno del manufatto, cioè la superficie contraria aquella di utilizzo.

In chiusura, desidero accennare a un’altra forma di per-manenza, quella volutamente ricercata, meno profondaanche nei risultati: la rivisitazione storica dei modi e deicaratteri, che avviene attraverso l’intenzionale citazione.Se guardo ad esempio l’Anfora sardesca di FedericoMelis (fig. 517), capolavoro ceramico della seconda me-tà degli anni Venti del secolo XX, mi viene quasi dapensare a una copia desunta da modelli antichi. Sarebbero tanti i casi da menzionare, mi sembrano rias-suntive le divertite ambientazioni ceramiche che Mel-kiorre Melis, nei primi anni Cinquanta, propone dellaciviltà nuragica, in un momento di grande vivacità e at-tesa nella regione poiché si scavava a Barumini. Mi rife-risco alle colorite e festose scene di caccia o ai bronzet-ti, con Melis diventati pupazzi colorati. Ma la forma piùampia del “far permanere” il periodo dei nuraghi, a pu-ro scopo commerciale e facendo leva sull’identità, èsenza dubbio quella legata al souvenir turistico. Ne sonostati realizzati di tutti i tipi nelle più diverse forme: posa-ceneri, bottiglie, scatole, stoviglie varie, piatti, suppellet-tili ecc. Interessanti, anche per capire come il mercato simuova laddove esista una richiesta, sono gli oggetti ce-ramici “nuragici”, nei quali la patina imita persino ilbronzo, che venivano confezionati nel dopoguerra fuoridall’Isola per essere venduti ai sardi.

La nostra Sardegna è davvero terra di permanenza.

10

78

9

5. Donna con anfora sulla testa, prima Età del ferro, 900-500 a.C.bronzo, h 18,5 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Il bronzetto proviene dalla garetta dell’andito d’ingresso del nuraghe Cabu Abbas o Riu Mulinu di Olbia.La figurina porta l’anfora sulla testa protetta da un cercine,trattenendola con le due mani, fornendo una preziosa indicazionesul modo del trasporto dell’acqua, appannaggio esclusivo delledonne, rivelando quanto sia antica questa vitale fatica femminile.

6. L’offerta del vaso, prima Età del ferro, 900-500 a.C.bronzo, h 13,3 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Il bronzetto proviene dall’atrio del pozzo sacro di Santa Vittoria a Serri.

7. Ex voto, sec. III a.C.-I d.C.terracotta, h 11 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Così come per l’immagine successiva, si tratta di un manufattoeseguito in modo veloce, presentando un’immediatezza di grandeefficacia espressiva. Proviene da Sant’Andrea Frius.

8. Ex voto, sec. III a.C.-I d.C.terracotta, h 9 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Provieniente da Sant’Andrea Frius.

9. Ex voto, sec. III a.C.terracotta, h 20,5 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.La figura, realizzata al tornio, proviene dal santuario di divinitàsalutare di Bithia.

10. Costantino Nivola, Nudo, 1972terracotta, h 15 cm, Cagliari, collezione privata.La terracotta fa parte della serie “La danza dell’árgia”.Confrontato con gli ex voto precedenti, costituisce un esempioconcreto di permanenza tematica e metodologica che travalica i secoli.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:10 Pagina 11

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:10 Pagina 12

13

LA CERAMICA PRENURAGICA

NeoliticoLe più antiche testimonianze di una produzione cerami-ca in Sardegna sono costituite da frammenti di vasi data-bili tra il 5700 e il 5000 a.C., attribuibili alla fase definitaNeolitico antico, che ritroviamo per lo più in grotta. So-no manufatti realizzati a mano, in ceramica d’impasto,riconducibili a forme per cuocere: tegami, olle a corpoglobulare con breve collo estroflesso ed orlo ondulato,e per contenere e consumare i cibi: piatti, scodelle, taz-ze, bicchieri. Alcuni di questi recipienti presentano deifori che servivano per la sospensione con cordicelle. Ciòche rende inconfondibili i vasi del Neolitico antico è ladecorazione realizzata imprimendo sulla pasta ancorafresca del vaso il bordo di una conchiglia detta cardium,da cui la ceramica prende il nome di cardiale. Associatiai recipienti con decorazione cardiale troviamo anchequelli non decorati, che presentano le stesse forme etecnica d’impasto. Nella Grotta Verde di Alghero si sono rinvenuti vasi, at-tribuiti ad una seconda fase del Neolitico antico, carat-terizzati da anse a gomito, oblique o diritte sopra l’orlo,decorate ad impressioni cardiali. Si tratta di contenitori:olle a breve collo e corpo globulare a bocca larga, condue anse a gomito talvolta con decorazione plastica an-tropomorfa e con due bugne opposte sul corpo; vasiad alto collo distinto, cilindrico o troncoconico, a boccastretta, corpo globulare e anse a presa orizzontale fora-ta, talora, collegate da cordoni plastici.Una terza fase, che prende il nome dalla Grotta di Filie-stru di Mara, dove è stata individuata per la prima volta,è documentata da frammenti di tegami, scodelle emisfe-riche con presa, talvolta forata, olle con collo e due ansea gomito, vasi con alto collo cilindrico o troncoconico.Tra il 4700 e il 4000 a.C., nel Neolitico medio, si diffon-de la ceramica di aspetto Bonu Ighinu che prende il no-me dall’omonimo sito presso Mara ed è tra le tipologiepreistoriche più eleganti, sia per la finezza degli impastie delle superfici, sia per le decorazioni, ottenute ad im-

pressione con minuti tratti e con piccolissimi punti, di-sposti sull’orlo o sulla carena. Alcuni vasi presentano an-se arricchite da bottoni plastici, delimitati da trattini opuntini ottenuti a graffito, realizzati quindi dopo la cot-tura; talvolta sulle anse compaiono appendici con la raf-figurazione schematica di un animale o di un volto uma-no. Dalla Grotta del Bagno Penale di Cagliari provieneun vaso a collo con due anse a gomito, ornato sulla ca-rena da una fila di trattini e sulla spalla da un motivo ascacchiera ottenuto lasciando zone prive di decorazionetra zone rettangolari; da questa scacchiera pende untriangolo con vertice in alto, racchiuso in un’area delimi-tata da una fascia semicircolare che parte dalla base del-la scacchiera. In questa fase si realizzano le prime se-polture scavate intenzionalmente dall’uomo. Ciotolecarenate, con parete al di sopra della carena più o menosvasata, e vasca a calotta sferica e ciotole a collo distin-to, tazze troncoconiche, in ceramica fine e raffinatissima,associate a figurine in pietra di dea madre, costituivanoil corredo funerario di sepolture ad inumazione in grotti-celle artificiali (Cuccuru S’Arriu, Cabras). La dea madre,in questa fase, è raffigurata in forme steatopigie: vengo-no messi in evidenza i volumi dei seni e dei glutei conchiari riferimenti alla maternità e alla rinascita del defun-to. Le statuine ritrovate finora sono per lo più in pietratenera, ma esistono esemplari anche in ceramica. Un’altra fase del Neolitico, successiva alla cultura di Bo-nu Ighinu, è stata individuata nella località San Ciriaco diTerralba. Le ceramiche di questa fase sono caratterizzateda vasi a pareti sottili con superfici perfettamente lucida-te, color cuoio, in qualche caso anche nero lucide. Sonoprevalenti i vasi con un tipico orlo estroflesso, accompa-gnati da anse verticali, o, in qualche raro caso, da presea stretta linguetta. La ceramica è quasi sempre inornata,tranne pochi esemplari che presentano decorazionigraffite o incise lungo la carena o, ancora, impresse, co-stituite da linee, cerchi concentrici, o da triangoli campi-ti a pointillèe con piccoli punti. Tra le ceramiche damensa si distinguono: bicchieri, ciotole carenate, scodel-le, tazze basse munite di ansa impostata sull’orlo. I vasicontenitori assumono le forme di vasi ovoidi a collo,con orlo estroflesso. Non esistono al momento cronolo-gie assolute per la facies di San Ciriaco ma sulla base

La ceramica prenuragica e nuragicaMaria Rosaria Manunza

11. Olla, Cultura nuragica, facies di San Cosimo, Bronzo medio II,1600-1300 a.C. (particolare della fig. 42).11

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:10 Pagina 13

12

13

14

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:10 Pagina 14

14

12. Ciotola carenata, Cultura Bonu Ighinu, Neolitico medio, V millennio a.C.terracotta graffita e impressa, Ø 14,5 cm, Cagliari, MuseoArcheologico Nazionale.La ceramica Bonu Ighinu è tra quelle preistoriche più eleganti, siaper la finezza degli impasti e delle superfici, sia per le decorazioni, ottenute ad impressione con minuti tratti e conpiccolissimi punti, disposti sull’orlo o sulla carena dei vasi.Il manufatto proviene da Cabras, insediamento di Cuccuru S’Arriu.

13. Vasetto a collo decorato sulle due facce, Cultura Bonu Ighinu,Neolitico medio, V millennio a.C. terracotta impressa, h 17 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.La decorazione, eseguita con la punta di una stecca, presenta diversimotivi geometrici messi in evidenza dal bianco della pasta di gesso.Si tratta di un manufatto reperito a Cagliari, San Bartolomeo, Grotta del Bagno Penale.

14. Vaso globulare, Neolitico antico, VI millennio a.C.terracotta impressa, h 19 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.Il vaso globulare con breve colletto è decorato ad impressionicardiali. Le anse sono apicate e decorate ad impressioni cardialiall’esterno, mentre la parte interna raffigura un viso umano. È statorinvenuto nella Grotta Verde ad Alghero.

15-17. Pisside carenata, Cultura Ozieri, Neolitico finale, IV millennio a.C. terracotta graffita, Ø 16,5 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.Pisside carenata decorata con motivo a stella sul fondo e con bandecircolari concentriche sulla parete e sulla spalla (resi evidenti dallapasta di gesso). Proviene dalla Grotta di San Michele ad Ozieri.I due fori sulla spalla erano finalizzati alla sospensione a paretedell’oggetto, fatto che ne motivava il ricco decoro solo esterno.

15

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:11 Pagina 15

15

16

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:11 Pagina 16

17

16

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:11 Pagina 17

delle datazioni conosciute per la fase di Bonu Ighinu,che la precede, e quella di Ozieri, ad essa successiva, sipuò collocare nel Neolitico recente, in un arco di tempotra il 4000 e il 3200 a.C. circa. Negli ultimi secoli del IV millennio a.C., nella fase finaledel Neolitico, si sviluppa la cultura individuata nellaGrotta San Michele di Ozieri, e perciò detta di San Mi-chele o semplicemente cultura Ozieri, diffusa in manieraomogenea in tutta la Sardegna, caratterizzata da nume-rose forme ceramiche riccamente ornate. Le decorazionivenivano realizzate prima della cottura del vaso median-te tecnica ad impressione o incisione, e venivano evi-denziate, poi, con pasta bianca o con ocra rossa. I moti-vi ornamentali erano prevalentemente a bande, triangolicampiti, spirali, cerchi o archi concentrici sapientementedisposti per ottenere figure armoniose e simmetriche. Inalcuni vasi compare anche la figura femminile rappre-sentata in modo molto schematico. Tra le forme più de-corate troviamo le pissidi, vasi di origine egeo anatolica,molto diffusi in Sardegna, destinati a contenere sostanzeo oggetti particolari, che, in questa fase, presentano for-ma chiusa, cilindrica con parete concava, troncoconicao carenata con spalla rientrante, talvolta provvista di pe-ducci, piccole anse o bugne forate e, in alcuni casi, per-forazioni sulla carena. Un’altra forma, spesso riccamentedecorata è un tipo di scodella, nota con il nome di “va-so a cestello”. Tra le ceramiche da mensa troviamo: piat-ti con pareti basse e oblique, ciotole, caratterizzate dallapresenza di una carena più o meno arrotondata, talvoltacon piccole presine plastiche e perforazioni, tazze conanse verticali o prese, scodelle troncoconiche, emisferi-che o a calotta, scodelle ad alte pareti convesse ed orlorientrante, talvolta con bugne o prese forate. I bicchierihanno forme alte, strette e poco articolate. Tra i vasi daportata, che potevano essere usati anche per la cottura,si riconoscono: spiane a disco piano con margini rileva-ti, in alcuni casi con l’impressione della stuoia e foripassanti; vasi carenati di grandi dimensioni, talvoltaprovvisti di anse e oltre 30 cm di diametro all’orlo. Ca-ratteristici di questa fase del Neolitico sono i piccoli tri-podi, con vasca di forma aperta e piedi bassi e larghi, digusto plastico. Tra le forme destinate alla cottura dei cibisono presenti i tegami, d’impasto grossolano e superficipoco curate, e le olle globulari o a corpo ovoide, carat-terizzate dalla presenza di anse verticali oppure bugneimpostate sotto l’orlo o nel punto di massima espansio-ne del corpo. Forme chiuse, destinate a contenere liqui-di, erano i vasi a collo, caratterizzati dalla presenza di uncollo distinto più o meno alto di forma cilindrica o tron-coconica, a corpo globulare oppure ovoide, con fondipiani o leggermente concavi e anse, impostate nel pun-to di massima espansione del corpo, nella pasta internadel vaso e perciò dette “a tunnel” o canaliculate, o an-che “a occhi” con riferimento all’impressione che si haguardando il vaso dall’esterno, come nel caso del rinve-nimento a Is Solinas di Giba, la cui decorazione a cer-chi concentrici sul corpo è ripassata con pasta bianca,

18

19

18. Ciotola emisferica, Cultura Ozieri, Neolitico finale, IV millennio a.C.terracotta graffita, Ø 18 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.La ciotola, decorata sul fondo da bande tratteggiate ripassate conpasta di gesso, è stata ritrovata nella sacca 345 dell’insediamento di Cuccuru S’Arriu a Cabras.

19. Pisside cilindrica, Cultura Ozieri, Neolitico finale, IV millennio a.C.terracotta graffita, h 10 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.La pisside presenta parete concava, in ceramica a superfici nerelucidate a stecca, riccamente decorata da bande di trattini disposti aformare sulla parete angoli concentrici e sul fondo una lunga spirale.La decorazione è ripassata con ocra rossa. È stata rinvenuta nellaGrotta di San Michele ad Ozieri.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:11 Pagina 18

1921

20

20-21. Vaso a cestello, Cultura Ozieri, Neolitico finale, IV millennio a.C. terracotta graffita, Ø 15 cm, Cagliari,Museo Archeologico Nazionale.Il manufatto, con decorazione che neinvade tutta la superficie nero-lucidaesterna e risparmia motivi spiraliformi,proviene dall’insediamento di Puisteris, a Mogoro.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:11 Pagina 19

20

22

23

22. Vaso bitroncoconico, Cultura Ozieri, Neolitico finale, IV millennio a.C. terracotta graffita, h 21 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Il vaso con spalla insellata, decorato a festoniconcentrici incisi e ripassati a sgorbia, provienedalla Grotta del Carmelo ad Ozieri.

23. Vaso globulare, Cultura Ozieri, Neolitico finale, IV millennio a.C. terracotta graffita, h 16 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Il vaso a collo distinto, con anse a tunnel o a occhi, decorato a cerchi concentrici ripassati con pasta bianca, provienedall’insediamento di Is Solinas, presso Giba.

24. Placca fittile raffigurante la Dea Madre, Cultura Ozieri, Neolitico finale, IV millennio a.C. terracotta impressa, h 7 cm, Sassari, MuseoNazionale “G.A. Sanna”.Nella testa cilindrica è delineato un viso schematico con occhi incisi e naso triangolare,sporgente sulla placca. Le rotondità dei seni sono messe in risalto da una lunga collana che ricade sulle spalle.È stata rinvenuta nella Grotta di Sa Ucca de Su Tintirriolu di Mara.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:11 Pagina 20

o il vaso da Cuccuru S’Arriu presso Cabras o quello dal-la Grotta del Carmelo di Ozieri con archetti concentricisovrapposti sulla spalla del vaso. Facevano parte delcorredo domestico le fusaiole, che servivano per blocca-re il fuso, le cui forme troviamo invariate fino all’Età delferro, ma qui risultano arricchite dalla decorazione cheriprende i motivi utilizzati sui vasi, adattandosi alla for-ma. Anche i pesi da telaio presentano decorazioni conarchi concentrici, come quello proveniente dal villaggiodi Conca Illonis presso Cabras o come quello rinvenutonella sacca 183 di Cuccuru S’Arriu, che sulla spalla mo-stra anche una figurina femminile, messa in risalto dal-l’ocra rossa che ne colora il triangolo dell’abito. La figuraumana è presente, in questo periodo, nella decorazionedi diversi vasi ed è riprodotta anche a tutto tondo nelledee madri, ora non più volumetriche e steatopigie, co-me quelle del Neolitico medio. Dalla Grotta di Sa Uccade Su Tintirriolu proviene il busto di una figurina in cuirisaltano i seni delimitati da una sorta di collana ottenu-ta a piccoli punti impressi. Statuine provenienti da varielocalità, con volto caratterizzato da un lungo naso, co-me negli idoletti marmorei contemporanei, mostrano se-ni e glutei sporgenti.

Età del rameIl diffondersi della metallurgia, nel corso del III millen-nio a.C., porta anche in Sardegna numerosi mutamentinell’organizzazione sociale e culturale. Il villaggio di SuCoddu-Canelles, finora il villaggio di cultura Ozieri me-glio documentato, si espande verso Sud con nuove ca-panne, che restituiscono ceramiche quasi o del tuttoprive di decorazioni, pur conservando caratteri formalidelle ceramiche Ozieri; quest’aspetto culturale è statoperciò definito Sub-Ozieri, sottolineando così la conti-nuità culturale, pur nel cambiamento. In questa fase co-minciano ad apparire le prime lesine di rame. Accantoal tipo d’impasto già presente nella fase Ozieri, chiama-to per comodità Canelles A, di colorazione scura, congradazioni dal bruno rossiccio al nero, poco o media-mente depurato, compare un tipo di ceramica molto dif-ferente, d’impasto giallino chiaro, molto depurato, chia-mata Canelles B. Questi impasti, riscontrati anche nellesacche eneolitiche di Is Calitas presso Soleminis, sonostati sottoposti ad analisi mineralogiche in diffrattome-tria di raggi X e analisi petrografiche in sezione sottile almicroscopio ottico polarizzatore. Il primo, di colorazio-ne scura, risulta poco o mediamente depurato. La gran-de variabilità di colorazione dell’impasto e delle superfi-ci, che va dal grigio scuro al bruno rossastro, riconducead un tipo di cottura rudimentale e mal governato, con-traddistinta da condizioni di atmosfera riducente, ossi-dante o alternata nel corso dello stesso processo di rea-lizzazione. Per il secondo, di colorazione chiara, dalrosa al giallo pallido, talvolta con zone a sandwich gri-gio chiaro-rosa, si può ipotizzare un ciclo di cottura con-dotto prevalentemente in atmosfera ossidante. Quest’ul-tima ceramica, con decorazione dipinta a bande rosse,

ben depurata, apparentemente priva di inclusi, differiscedalla prima per la natura carbonatica dell’argilla utilizza-ta e per la presenza di una frazione sabbioso-siltosa conframmenti di roccia di origine vulcanica. Il tipo CanellesB coesiste con il tipo A in quasi tutte le capanne sca-vate, sia a Selargius, sia a Soleminis, ma con una per-centuale di esemplari molto inferiore rispetto al tipo A.La Canelles A dà corpo sia a vasi atti a consumare e acontenere, come le scodelle, sia a vasi per la cottura dicibi come i tegami, le spiane e i tripodi. Questi ultimipresentano forme per lo più chiuse e panciute, a pareticoncave con carene più o meno smussate e fondi con-vessi, piedi triangolari e insellati, impostati sul punto dimassima espansione del vaso, con prese a bugne, in ge-nere in numero di tre per vaso, posizionate in prossimi-tà dell’orlo. Meno frequenti gli esemplari di forma bassae aperta. Il tripode è un recipiente che troveremo, informe diverse, fino all’Età del bronzo antico. Esiste an-che una variante piatta utilizzata, presumibilmente, co-me sostegno. Tra le forme del tipo Canelles B non tro-viamo vasi per la cottura di cibi ma soltanto contenitorispesso dipinti con vernice rossa a bande. Questo secon-do tipo, a bassa porosità, si trova soltanto su vasi damensa, quali scodelle, ciotole e vasi a collo destinati acontenere liquidi. Non lo troviamo mai sui vasi tripodi osu altri vasi per la cottura.Dalla fase Sub-Ozieri le forme si evolvono gradatamentenei successivi aspetti culturali di Filigosa e Abealzu. Ca-ratteristici di questa fase sono i vasi bitroncoconici, concollo concavo, come l’esemplare proveniente dalla do-mus di Abealzu presso Osilo, impiegati prevalentemente

21

24

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:13 Pagina 21

22

merose le forme carenate che, invece, sono assenti nel-l’aspetto Abealzu. In questo periodo compaiono pesi datelaio sia del tipo reniforme, sia del tipo “a ferro da sti-ro”, documentati in numerosi esemplari decorati, comequello proveniente da Serra Cannigas presso Villagreca.Allo stato attuale delle conoscenze, tra il 2700 e il 2200a.C. si sviluppa in Sardegna la cultura Monte Claro chein alcuni siti della Sardegna meridionale, come Is Calitasdi Soleminis, si sovrappone stratigraficamente all’aspettoSub-Ozieri, in altri, soprattutto nella zona centro setten-trionale, si sovrappone all’aspetto Abealzu, e precede lafase del Campaniforme. Di questa fase conosciamo lesepolture, ipogeiche con pozzo verticale d’accesso edue o tre cellette laterali con inumazioni singole, comela tomba eponima rinvenuta a Cagliari, oppure riutilizzidelle tombe di età precedente, qualche villaggio, un in-sediamento fortificato a Monte Baranta presso Olmedo eun grande villaggio santuario sulla cima della collina diBiriai a Oliena. In alcuni casi vasi Sub-Ozieri e MonteClaro sembrano aver convissuto nella stessa capanna co-me è documentato in alcune sacche di Is Calitas di Sole-minis. Le ceramiche Monte Claro rinvenute in questo si-to, d’impasto ben depurato, compatto, con superficilisce, talvolta ingobbiate, sono risultate di un tipo d’im-pasto caratterizzato da matrice vulcanica e, pertanto,

per contenere, in qualche caso per bere o per trasporta-re, e i vasi a collo per liquidi. Tra le ceramiche da men-sa sono rari, in questa fase, i piatti, frequenti le scodelle.I vasi a cestello, seppur con profili più rigidi e quasi to-talmente privi di decorazione, continuano ad essere pre-senti. Numerose le tazze e le ciotole carenate tra cuicompaiono esemplari a parete inclinata verso l’interno,con fondo piatto e su piede troncoconico. Presenti i bic-chieri e i boccali per bere; le spiane utilizzate presumi-bilmente per cuocere focacce o come piatti di portata; itegami, di dimensioni medie e grandi, con diametri chevariano dai 10 ai 40 cm, di fattura grossolana, per cuo-cere cibi. Forme destinate a contenere, cuocere e con-servare erano anche le olle, talvolta provviste di anse oprese di solito poco sviluppate. Per conservare le prov-viste di cibo venivano utilizzati grandi dolii che nel Sub-Ozieri assumono sagome globulari rastremate, mentrenella fase Abealzu presentano spalla sfuggente e collo.La funzione di attingitoi era riservata a tazze carenatedotate di manico rettilineo, sopraelevato con estremitàricurva e forata, da alcuni autori definito “a protome diuccello”. Nei contesti Filigosa si diffondono ciotole care-nate con accenno di spalla e breve colletto “a profilopluriangolare”, considerate fossili guida di quest’aspettoculturale. Sia nel Sub-Ozieri che nel Filigosa sono nu-

25

26

25. Attingitoio con manico a forma di testa di uccello, facies Sub-Ozieri, Eneolitico, prima metà III millennio a.C.terracotta, h 7,5 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.Proviene da Osilo, domus de janas di Sos Laccheddos.

26. Vaso, facies Abealzu, Eneolitico, prima metà III millennio a.C.terracotta, h 24 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.Il vaso, a collo distinto con due anse, proviene da Osilo, domus de janas di Abealzu.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:13 Pagina 22

non compatibile con le argille del Parteolla, fatto che im-plica la necessità di approvvigionamenti da zone in cuifosse presente tale componente vulcanica, che nel pun-to più vicino si trova nella zona di Sarroch. Caratteristicidi questa fase culturale sono gli orli a tesa e la decora-zione a partitura metopale ottenuta con lunghe scanala-ture realizzate sulla pasta ancora fresca. La decorazionea scanalature è accompagnata, spesso nello stesso vaso,da decorazione a stralucido, come nel piatto che facevaparte della tomba di Monte Claro a Cagliari, eponimadella cultura, il cui fondo è decorato da un motivo a rag-giera ottenuto a stralucido sfregando la pasta in manierauniforme con una stecca, prima della cottura, dopo cheil vaso era già stato parzialmente essiccato. Un altro ele-gante esempio di decorazione a stralucido è nella situlaproveniente da Simbirizzi presso Quartu Sant’Elena. Inaltri vasi la partitura metopale a scanalature è alternatada un reticolo a maglie romboidali ottenuto a stralucido. Tra le ceramiche Monte Claro compaiono forme di gran-di dimensioni per cuocere e per contenere cibi, dettivasi situliformi (o situle), come l’esemplare di Simbiriz-zi: vasi troncoconici con orlo a tesa, muniti di due, treo quattro anse, di altezza variabile tra i 15 e i 60 cm cir-ca. Le ceramiche da mensa, quali piatti, scodelle, cioto-le, tazze, mostrano orli decorati ad impressione di punti

o di tacche, oppure orli a tesa decorati anch’essi a sca-nalature. Altre forme da mensa, documentate nel villag-gio di Biriai presso Oliena, erano i bicchieri e i vasi conversatoio, generalmente biansati, con vasca profonda ebeccuccio all’orlo, i boccali, talvolta provvisti di collo,con ansa impostata tra orlo e spalla, come quello pro-veniente dalla tomba di Sa Duchessa presso Cagliari. I va-si per cuocere erano di medie dimensioni: tra questi itripodi su piedi a largo nastro triangolare o trapezoidale,talvolta insellato, a sezione concavo-convessa, con orloa tesa e vasca bassa a profilo troncoconico o emisferico,prevalenti nella Sardegna meridionale, oppure con va-sca profonda a corpo globulare, breve colletto ed orlosvasato, generalmente biansati, prevalenti nella Sarde-gna settentrionale. Erano presenti anche olle con corpobitroncoconico, o cilindroconico od ovoide, con due opiù anse verticali ed orlo ingrossato a tesa, anfore e an-forette a corpo ovoidale, orlo svasato e anse impostatealla massima espansione o alla spalla, con coperchitroncoconici o cilindrici con appendici laterali. Le gran-di situle erano vasi per derrate, con orlo a tesa, sprovvi-ste di anse o con due o più anse impostate tra carena eventre. Nella tomba di Bau su Matutzu di Serdiana gran-di situle tagliate a metà erano utilizzate come letto fune-bre dell’inumato.

27

27. Vaso tripode, faciesSub-Ozieri, Eneolitico, inizi III millennio a.C.terracotta, h 23 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Il tripode, decorato con trepiccole bugne rettangolari, era utilizzato per la cottura dei cibi. I piedi sono di formatriangolare a sezione concavo-convessa. È stato rinvenuto nel villaggio Canelles, pressoSelargius.

23

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:13 Pagina 23

Nel corso dell’Età del rame anche la Sardegna viene in-vestita dal fenomeno del “bicchiere campaniforme” (in-glese: Beaker Culture, tedesco: Glockenbeckerkultur)che influenzerà profondamente le culture europee delBronzo antico, tra cui quelle di Polada in Italia setten-trionale e di Bonnanaro in Sardegna. I bicchieri campa-niformi erano vasi di ceramica a forma di campana rove-sciata, diffusi, a partire dai primi secoli del III millennioa.C., in tutta Europa dove si trovavano, per lo più in se-polture singole, in associazione con pugnali di rame,punte di freccia con codolo e alette, bracciali d’arciere(brassard ) e alcuni ornamenti. L’insieme dei reperti chericorrono costantemente nella stessa combinazione conil bicchiere è definito come suo set. Nella fase più anticadel Campaniforme si diffonde lo stile “internazionale”della decorazione (bande parallele di linee oblique im-presse a pettine, alternate a bande lisce). I vasi della pri-ma fase sono frequenti nelle sepolture mentre sono po-co conosciuti negli abitati, dove sembrano intrusivi neicontesti locali. Si è ipotizzato quindi che il loro ruolofosse soprattutto sociale, segno di prestigio e potere. Siritiene generalmente che questo insieme di oggetti ve-nisse utilizzato nel corso di feste intertribali, che eranole occasioni per stringere e rinnovare alleanze; in baseagli oggetti ritrovati si è ipotizzato che durante questefeste si praticassero gare con l’arco, si diffondessero iprodotti della metallurgia, di cui i portatori del vasocampaniforme conoscevano i segreti, si bevesse dalbeaker un liquore dolciastro, probabilmente inebriante.Il set campaniforme si rinviene quasi sempre nelle se-polture: questo significa che esso apparteneva al corre-do personale del defunto, che, proprio attraverso il suosimbolismo, era riconoscibile come appartenente ad ungruppo preciso. Assieme al rito sepolcrale era quindiespressione non solo della particolare importanza at-tribuita al suo portatore, ma anche di un’ideologia edi una concezione del mondo non solo religiosa mapure sociale ed economica, espressa nel culto dei mor-ti. In una seconda fase l’evoluzione delle forme dei vasicampaniformi e della loro decorazione si manifesta infacies locali. Le forme possono essere tozze o più slan-ciate e associate a coppe e brocche: le decorazioni si di-versificano, compaiono quadrettature, linee interrotte,triangoli campiti, decorazioni metopali. La presenza diqueste ceramiche in alcuni abitati è assai più frequenteche nella prima fase, soprattutto in certe regioni comeGran Bretagna, Spagna, Portogallo e Midi francese, edè collegata all’intensificarsi delle attività metallurgiche.Il Campaniforme dell’Europa centrale si accompagna aforme di boccali ansati e vasi su piede, con decorazionicomplesse oppure inornati. Nell’Europa occidentale iclassici bicchieri vengono affiancati da basse ciotole, ric-camente decorate come i bicchieri. Nell’Italia centro-set-tentrionale il vaso campaniforme si diffonde a cavallodella metà del III millennio, interessa tutta l’area padanae scende verso la Toscana. Nella tipologia dei vasi e del-le decorazioni si notano influssi sia iberici e francesi sia

24

28

29

28-29. Piatto, Cultura Monte Claro, Età del rame, III millennio a.C.terracotta impressa, Ø 26 cm, Cagliari, Museo ArcheologicoNazionale.Il piatto, con orlo a larga tesa, eseguito con molta abilità, è decoratosul fondo con due fasce costituite da più giri di triangoletti impressi,separate da una fascia a solcature concentriche, con la pasta inrilievo lucidata a stecca. Al centro del fondo spicca una decorazionea spina di pesce ottenuta mediante la tecnica a stralucido. Facevaparte del corredo funerario della tomba rinvenuta a Cagliari nellacollina di Monte Claro. Il corredo era composto anche da una situla,un vasetto con due anse e beccuccio, un vaso su tre piedi (tripode)e un vasetto miniaturistico.

30. Vaso, Cultura Monte Claro, Età del rame, III millennio a.C.terracotta incisa e impressa, h 50 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Questa tipologia viene detta “situla”. La decorazione è ottenutainteramente a stralucido. Proviene dalla tomba di Simbirizzi, presso Quartu Sant’Elena.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:13 Pagina 24

25

30

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:13 Pagina 25

26

31

centroeuropei. In tutti i siti (quasi tutte tombe) gli ele-menti campaniformi appaiono in contesti dissimili tra lo-ro, perciò si è propensi a formulare l’ipotesi che non sitratti di una vera e propria entità culturale ma di presen-ze in contesti locali indigeni. In Sardegna i reperti cam-paniformi si sovrappongono alla cultura Monte Claro e,pertanto, gli inizi del fenomeno si collocano nella se-conda metà del III millennio a.C. Come il Campanifor-me dell’Italia settentrionale, quello sardo mostra duecomponenti: una iberico-francese, l’altra dell’Europacentrale. Non si conoscono abitati campaniformi, soltan-to in tre siti abitativi si sono riscontrati sporadici elemen-ti di questa cultura. Non si conoscono luoghi di culto.Per quanto riguarda le sepolture la ceramica campani-forme si rinvenne spesso in grotta e nelle domus de ja-nas, in un dolmen e in due ciste litiche. L’aspetto Cam-paniforme sardo appartiene ad una fase secondaria delfenomeno, in cui le rigide norme dei riti sepolcrali nonsono più riconoscibili. Tuttavia gli studiosi hanno indivi-duato diversi momenti di diffusione. I primi bicchieridel Campaniforme sardo, come quelli di Marinaru pres-so Sassari, mostrano decorazioni di tipo internazionale esono accompagnati da forme ceramiche mediate dal-l’area iberica e francese quali basse ciotole, motivi deco-rativi ad incisione semplice, triangoli campiti da trattiniottenuti con un pettine, motivi a denti di lupo, zig-zag,rombi lisci ottenuti da bande contrapposte di triangolicampiti a pettine. Compaiono, inoltre, forse successiva-mente, anse su bicchieri, ciotole e vasi tripodi o tetrapo-di su vasca emisferica e con piedi cilindrici, di deriva-zione centroeuropea. Nella fase più tarda domina lacomponente dell’Europa centrale: si intensificano i con-tatti lungo le direttrici che dal centro Europa arrivano inSardegna passando dall’Italia settentrionale, tramite lecoste della Toscana. In questa fase si trovano decorazio-ni più articolate oppure vasi privi di ornato, spessoprovvisti di anse. Le ceramiche che accompagnano ibicchieri (beakers), eponimi della cultura, possono esse-re ricondotte alle seguenti forme: cuencos di derivazionespagnola e del Midi, che sono ciotole, a calotta di sfera,spesso con fondo ombelicato, oppure carenate, tazze

troncoconiche monoansate, nella fase più tarda conun’ansa che parte dall’orlo, tripodi e tetrapodi derivatidai cuencos a calotta di sfera con l’aggiunta di corti pie-di a sezione circolare, boccali che ripetono la forma deibeakers con l’aggiunta dell’ansa che parte dall’orlo, co-me l’esemplare rinvenuto a Padru Jossu di Sanluri. Nellatomba di Marinaru e anche in quella di Padru Jossu, unafase più antica, con ceramiche decorate, era distinta stra-tigraficamente da una più recente con vasi privi di deco-razione. Nella fase più tarda del Campaniforme isolanosi aggiungono i vasi a collo, con forme e decorazionipiù complesse rispetto a quelle delle fasi precedenti, traquesti quelli definiti finora da alcuni autori “a calamaio”e vasi a collo con corpo ovoide o a calotta, denominati“a botticella” come l’esemplare proveniente dalla tombaBingia ’e Monti di Gonnostramatza.

Età del bronzo anticoI contatti con le coste dell’Italia centro-settentrionale siprotraggono anche durante l’Età del bronzo antico. Inquesto periodo nella penisola italiana si sviluppa la cul-tura di Polada. Questa cultura, come molte altre euro-pee del Bronzo antico, mostra elementi di derivazionedal Campaniforme, e, in particolare, da quello inornatodel centro Europa, per la presenza di tazze e boccalimonoansati con anse che partono dall’orlo del vaso; ècaratterizzata, inoltre, da vasi con anse a gomito talvoltasopraelevato. La facies culturale di Bonnanaro, che sisviluppa contemporaneamente in Sardegna, tra il 2200 eil 1900 a.C., come esito evolutivo del Campaniforme, hamolti elementi comuni con la cultura di Polada: l’assen-za della decorazione, la tipologia delle anse a gomito, letazze monoansate. Questa facies culturale deve il nomeal fatto che nel territorio di Bonnanaro, nella domus dejanas di Corona Moltana, per la prima volta si individuòun contesto omogeneo di questa cultura, formato daciotole, tazze ansate, ciotole carenate, vasetti carenati,tripodi. I tripodi e i tetrapodi campaniformi avevanopiedi cilindrici come quelli dell’Europa centrale; nellacultura di Bonnanaro i piedi diventano a sezione rettan-golare, più larghi, più alti e più ravvicinati, rispetto a

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:13 Pagina 26

quelli campaniformi, come quelli provenienti dalla tom-ba eponima di Corona Moltana o quelli dalla tomba diIs Calitas di Soleminis. La funzione dei singoli vasi nellavita quotidiana non è sempre accertabile; tranne due ca-si, infatti, i rinvenimenti Bonnanaro riguardano contestifunerari, tanto che è ancora prematuro parlare di culturaBonnanaro. Si tratta di ceramiche d’impasto in generemolto friabile, realizzate a cercine, tecnica che consistenell’avvolgere a spirale un cordone d’argilla, con su-perfici, talvolta ingobbiate, lisciate a stecca. Spesso laparete è così irregolare da essere dritta da un lato econvessa dall’altro; l’orlo è, nella maggior parte dei ca-si, irregolare ed obliquo. Nella facies Bonnanaro sonofrequentissime le scodelle, a calotta di sfera o troncoco-niche con pareti convesse, di cui esistono esemplari an-che con incavi sull’orlo, e le tazze troncoconiche o care-nate. Frequenti anche i vasi tripodi, con parete a calotta,con parete tronco ovoidale, con parete carenata. Si tro-vano poi vasi carenati, con o senza collo, vasetti a collocon corpo globulare o con corpo ovoide. L’unica formariconoscibile proveniente da contesto abitativo, doveera utilizzato probabilmente come contenitore di derra-te, è un vaso bitroncoconico a collo, trovato in una ca-panna quadrangolare con base di piccole pietre nellalocalità Su Stangioni di Portoscuso, che ha restituito ma-teriale ceramico Bonnanaro e una lesina di bronzo. Allafase più antica della facies Bonnanaro, che mostra anco-ra gli echi del Campaniforme, appartengono le tombe diCuccuru Nuraxi presso Settimo, a cista litica, e quella diIs Calitas presso Soleminis, in fossa, che, finora, sono leuniche sepolture ad avere un impianto originario Bon-nanaro. La sepoltura ad inumazione collettiva di Is Cali-tas, ubicata sul margine di un piccolo rilievo abbastanzaventilato, è costituita da una fossa, scavata in parte nellaterra, in parte nello strato roccioso, di forma ovale mol-to irregolare, coperta, probabilmente, con lastre di pie-tra. Del corredo, oltre a lesine in bronzo, un braccialed’arciere, collane con elementi in conchiglia, osso, zan-ne di cinghiale e denti di animali, che mostrano una de-cisa derivazione dalle parures campaniformi, facevanoparte: scodelline, tazzine troncoconiche, scodelle care-nate con ansa a gomito sopraelevato, vasi tripodi convasca emisferica e con vasca carenata. Alla stessa faseappartengono anche i reperti degli strati 9-11 della do-mus de janas di San Iroxi presso Decimoputzu, che han-no restituito tripodi a vasca emisferica, tazzine, tripodi avasca carenata, associati con pugnaletto di rame e lesinedi rame. In questo strato comincia ad apparire il bic-chiere con 4 anse la cui presenza si intensificherà neglistrati più recenti, così come nello strato Bonnanaro dellatomba di Bingia ’e Monti presso Gonnostramatza, so-vrapposto ad un livello campaniforme, compare un’ol-letta quadriansata che sarà sempre più frequente nellasuccessiva fase del Bronzo medio.Anche per la seconda fase del Bronzo antico, definitafacies di San Iroxi, dal nome della tomba di Decimoput-zu, possediamo dati provenienti da sepolture, mentre

27

32

mancano informazioni sugli abitati. In questo periodo sicontinua a riutilizzare le tombe delle culture precedenti,come nelle domus de janas di Fann’e Massa presso Cu-glieri, oppure si seppellisce in grotta, ma cominciano an-che ad apparire le grandi sepolture megalitiche ad allèe,come quella di Li Lolghi ad Arzachena. In questo perio-do nella Grotta Su Benatzu di Santadi inizia a formarsiun grande deposito votivo di ceramiche, che proseguirà,con l’aggiunta di bronzi, anche nell’Età del bronzo re-cente e finale fino all’Età del ferro. Le ollette globularicon piccolo collo estroflesso, con due o quattro ansettecontrapposte, talvolta ancora a gomito apicato comenella fase precedente, o a semplice anello, caratterizza-no questa seconda fase del Bronzo antico. A San Iroxi èben documentato che, ad una prima fase del Bronzo an-tico, con tripodi simili a quelli di Corona Moltana, Is Ca-litas e Cuccuru Nuraxi, se ne sovrappone un’altra in cuii tripodi sono assenti, mentre sono numerose le ollettecon due o quattro anse, accompagnate da vasetti ovoidie scodelle emisferiche. Le stesse forme si trovano, prov-viste anche di piccoli piedini conici o cilindrici, in conte-sti rinvenuti in grotte del Sulcis e nella tomba ad allèe diLi Lolghi. Un vaso su corti piedi cilindrici, ornato di bu-gne e con ansa sopraelevata, ornata da scanalature, pro-viene dalla tomba III di Anghelu Ruju.

31. Ciotola carenata, Cultura del vaso campaniforme, Eneolitico, III millennio a.C. terracotta impressa, h 7 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.Decorata a bande parallele di triangoli, campiti a trattini impressi apettine, risparmianti fasce lisce. È stata ritrovata in località Marinaru,presso Sassari.

32. Vaso campaniforme, Cultura del vaso campaniforme, Eneolitico, III millennio a.C. terracotta impressa, h 8,5 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.Decorato a bande parallele con trattini impressi a pettinerisparmianti fasce lisce. È stato ritrovato in località Marinaru, presso Sassari.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:13 Pagina 27

33. Vaso tetrapode, Cultura del vaso campaniforme,Eneolitico, III millennio a.C.terracotta impressa, h 18,5 cm, Sassari, MuseoNazionale “G.A. Sanna”.Vaso su quattro piedi cilindrici con vascaemisferica profonda, decorato a pettine, ritrovatonella domus de janas I di Santu Pedru di Alghero.

28

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:13 Pagina 28

33

29

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:13 Pagina 29

LA CERAMICA NURAGICA

Età del bronzo medioNel corso del Bronzo medio, tra il 1900 e il 1600 a.C., sisviluppa lo straordinario megalitismo nuragico che portaalla costruzione delle grandi tombe di giganti e delle pri-me grandi torri nuragiche. Rispetto alla fase precedentedel Bronzo antico, nei contesti nuragici spariscono i vasisu piedi (tripodi e tetrapodi). La forma del vaso tripode,presente in quasi tutte le culture preistoriche sarde, dallacultura Ozieri, Sub-Ozieri, Monte Claro, Campaniformee Bonnanaro, che aveva accompagnato la vita dei pa-leosardi per tutto il III millennio a.C., scompare nei pri-mi secoli del II millennio, intorno al 1900 a.C. Ritrovere-mo qualche raro vaso su piedi soltanto nei contesti delBronzo finale intorno al 1000 a.C. Ricompare invece iltegame, sia a pareti alte che a pareti basse, spesso conansa a nastro che si imposta tra l’orlo e il fondo, abbrac-ciando l’intera altezza del vaso. Il primo periodo del Bronzo medio, che inizia intorno al1900 a.C., è caratterizzato dalle ceramiche di facies SaTurricula, che prendono il nome dal contesto abitativodi Sa Turricula presso Muros, e che si ritrovano all’inter-no di protonuraghi quali Talei di Sorgono, Fruscos diPaulilatino, Sa Fogaia di Siddi, nelle tombe di giganti astruttura dolmenica come Thomes di Dorgali, Li Lolghi eMonte S’Ape. Continuano ad essere presenti le tazzetroncoconiche, i vasetti a calamaio. Si diffondono cioto-le carenate, tazze e ollette a spalla rientrante, teglie conpareti basse o alte. I vasi sono spesso provvisti di anse agomito con sopraelevazione asciforme o a forma di cor-na, oppure di anse ad anello talora insellato. Come ce-ramiche da fuoco compaiono i bollitoi cilindrici con li-stello interno e collo everso. Le decorazioni, abbastanza

34

35

36

34. Ciotola emisferica con presina forata,Cultura del vaso campaniforme, Eneolitico, III millennio a.C.terracotta, h 7,5 cm, Sassari, Museo Nazionale“G.A. Sanna”.Nella tomba di Marinaru (Sassari), una fase piùantica, con ceramiche decorate, era distintastratigraficamente da una più recente con vasiprivi di decorazione come questo raffigurato.

35. Vaso a botticella, Cultura del vasocampaniforme, Eneolitico, III millennio a.C. terracotta impressa, h 12 cm, Cagliari, MuseoArcheologico Nazionale.Il vaso a botticella, ansato, con ricca e complessadecorazione a pettine, è stato rinvenuto nellaGrotta di Corongiu Acca I di Villamassargia.

36. Vaso tripode, Cultura Bonnanaro, Bronzoantico, 2200-1900 a.C. terracotta, Ø 22 cm, Cagliari, MuseoArcheologico Nazionale. Il tripode, con vasca carenata e ansa a gomitosopraelevato, proviene da Is Calitas, pressoSoleminis.

30

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:13 Pagina 30

rare, si limitano ad essere presenti su grandi ciotole ca-renate, in forma di listelli verticali sulla spalla, oppure digrosse bugne accoppiate. La tomba di giganti di San Cosimo di Gonnosfanadiga harestituito il contesto eponimo di un aspetto culturale in-quadrabile nel Bronzo medio II, tra il 1600 e il 1300 a.C.,che si ritrova anche in altre tombe di giganti come quel-le di Tamuli di Macomer, Palatu-Birori, Selene I di Lanu-sei, e in protonuraghi tra cui quelli indagati di BrunkuMadugui di Gesturi, Friarosu di Mogorella e Su Mulinudi Villanovafranca. Il contesto è caratterizzato da unapisside, di forma bitroncoconica, con orlo a tesa inter-na, con due anse ad anello insellato o a gomito apica-to, decorata con motivi plastici: cordoni verticali alternati

a bugne, fasce a zig-zag, schemi metopali a scacchieracon fasce decorate alternate a fasce lisce, oppure con fi-le di triangoli campiti a piccoli punti o a pettine striscia-to. Alcuni frammenti riportabili a questa fase erano nellostrato più antico del cortile B del nuraghe Arrubiu di Or-roli, che costituiva il vespaio di pietre posto al di sopradella roccia naturale. Durante la costruzione dello stessonuraghe, avvenuta tra la fine del Bronzo medio e gli ini-zi del Bronzo recente, venne frantumato, forse a scoporituale, un alabastron miceneo datato intorno al 1400a.C. attribuibile alla produzione del Tardo Elladico III A,che è finora il più antico reperto ceramico miceneo rin-venuto in Sardegna. Una ciotola carenata e frammenti divasi a tesa interna con decorazione metopale sono stati

37

37. Vaso tripode, CulturaBonnanaro, Bronzo antico, 2200-1900 a.C. terracotta, h 39 cm, Cagliari,Museo Archeologico Nazionale. Il tripode, con vasca emisferica,piedi trapezoidali e ansa a gomitosopraelevato, proviene da CoronaMoltana, presso Bonnanaro.

31

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:13 Pagina 31

rinvenuti nello scavo di una fornace per ceramiche, aCuccuru Cresia Arta presso Soleminis, costituita da duecamere comunicanti, scavate nella roccia, una a pozzo,per la combustione, l’altra, meno profonda, per la cottu-ra dei vasi. I campioni di reperti analizzati, riferibili adun arco cronologico dal Bronzo medio II al Bronzo fina-le, sono risultati molto omogenei nella tipologia dell’im-pasto con particolare riferimento alla composizione mi-neralogica e petrografica che risulta compatibile con leargille del posto; ciò suffraga la tesi che i due ambientisopradescritti si riferiscano ad una fornace che produce-va in loco ceramiche, utilizzando le argille locali. Altreforme di questo periodo sono documentate nella tombadi giganti di San Cosimo presso Gonnosfanadiga: bic-chieri troncoconici con prese a lingua, boccali quasi ci-lindrici con rigonfiamento mediano, tazze carenate conansa impostata sulla spalla come quella di Cuccuru Cre-sia Arta, un’olla globulare con orlo distinto appiattito escodelle a spalla arrotondata in ceramica grigio nerastraderivata dalla ceramica minia tardoelladica.Tra la fine del XIV e il corso del XIII secolo a.C., nellaSardegna centro-settentrionale, cominciano a diffondersitegami decorati a pettine nella parete interna, utilizzati,probabilmente, per sfornare particolari focacce decora-te. La sintassi decorativa è costituita, sulla parete interna,da motivi lineari, a zig-zag, metopali; sul fondo, invece,si hanno soprattutto motivi radiali. Dal nuraghe Albuc-ciu di Arzachena proviene una spiana con l’impronta diun fondo di canestro. Altri grandi dischi dovevano averesia funzione di coperchio sia di piano di cottura per fo-cacce. Queste ceramiche decorate a pettine sono atte-state, oltre che in nuraghi semplici come il Chessedu diUri, anche in nuraghi complessi come quelli di Lugher-ras di Paulilatino, La Prisciona di Arzachena, Santu Anti-ne di Torralba, Santa Barbara di Macomer, Monte Iddadi Posada. Frammenti di tegami decorati a pettine im-presso e strisciato erano presenti nella fase di fondazio-ne del corpo trilobato del nuraghe Losa-Abbasanta.

Età del bronzo recenteA partire dal 1300 a.C., nell’Età del bronzo recente, nel-l’Italia meridionale, alla ceramica Appenninica – caratte-rizzata da ricche decorazioni a nastri campiti formantimeandri, spirali, zig-zag, ottenute ad incisione, excisionee impressione – subentra quella Subappenninica, privadi decorazione. Si intensificano i contatti con i Miceneiche in questo periodo, al culmine della loro magnifi-cenza, danno vita ai contesti del Tardo Elladico III B edi parte del Tardo Elladico III C, fortificano con nuovemura le loro città ed estendono i loro traffici alle costedella Sicilia meridionale, in direzione della Sardegna edella Spagna. Il nuraghe Antigori di Sarroch, situato nelgolfo di Cagliari, diventa un centro importante: vi è sta-ta trovata ceramica del Peloponneso, di Creta e di Ciproassieme a ceramica locale, di imitazione micenea, lavo-rata al tornio lento e dipinta. Alla ceramica pseudomi-nia che viene prodotta nei centri dell’Italia meridionale,

32

38

39

38. Tazza carenata monoansata, Cultura Bonnanaro, Bronzo antico, 2200-1900 a.C. terracotta, h 15 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Il manufatto proviene da Corona Moltana, presso Bonnanaro.

39. Olletta globulare, facies di San Iroxi, Bronzo antico, inizi II millennio a.C. terracotta, h 18 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Proviene dalla domus de janas IV di Fanne Massa, presso Cuglieri.

40-41. Vaso tripode, facies di San Iroxi, Bronzo antico, inizi II millennio a.C. terracotta, Ø 18 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Il tripode, su corti piedi cilindrici (mancanti), con ansa a nastrosolcata da profonde incisioni, terminante in bugne sopraelevaterispetto all’orlo, anch’esso decorato con piccole bugne, provienedalla tomba III della necropoli di Anghelu Ruju.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:13 Pagina 32

33

40

41

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:13 Pagina 33

corrisponde nella Sardegna centro-meridionale la cosid-detta ceramica grigio ardesia o grigio sarda, d’impastodepurato e superfici ben lucidate, le cui forme caratteri-stiche sono scodelline con risega nella parete interna,scodelloni con orlo ingrossato e spigolo nella parte in-terna, conche con orlo ingrossato e sagomato più o me-no rientrante, sottolineato all’esterno da risega, vasi concollo distinto, brocchette con ansa a bastoncello. La ce-ramica grigia, prodotta in Sardegna in questo periodo,tra il 1300 e il 1200 a.C., è stata trovata a Kommòs (Cre-ta) e, recentemente, a Cannatello in Sicilia assieme a re-perti micenei, ciprioti e maltesi. In diversi siti nuragicisono stati trovati tesoretti, conservati in olle e scodello-ni, che costituivano la riserva bronzea, depositata spes-so, sotto la protezione della divinità, nei santuari, chein questo periodo assumono grande importanza, con-centrando, forse, anche il potere economico e politico.Il vaso-ripostiglio rinvenuto nel santuario di Funtana Co-berta di Ballao è un’olla di forma globulare con orlo in-grossato a sezione triangolare e con due anse verticali anastro ponte, contrapposte, impostate sulla massima

34

42

43

42. Olla, Cultura nuragica, facies di San Cosimo,Bronzo medio II, 1600-1300 a.C. terracotta, h 30 cm, Cagliari, Museo ArcheologicoNazionale.L’olla presenta un orlo a tesa interna e due anse ad anello; è decorata con motivi plastici a cordoniverticali alternati a bugne. Proviene daGonnosfanadiga, tomba di giganti di San Cosimo.

43. Conca, Cultura nuragica, Bronzo recente, 1300-1200 a.C. circaterracotta, h 15 cm, Cagliari, Museo ArcheologicoNazionale. La conca, con orlo ingrossato, rientrante, sottolineato all’esterno da risega, proviene dalnuraghe Antigori di Sarroch.

espansione della circonferenza. Quest’olla conteneva nu-merosi oggetti di bronzo da rifondere perché mal riuscitio spezzati, asce piatte a margini rettilinei, asce piatte conspuntoni laterali, rifiuti di lavorazione, frammenti di lameritorte, frammenti di lingotti e di spade votive spezzate.Tra i resti di lingotti che facevano parte del ripostiglio,numerosi frammenti sono riconducibili al tipo oxhide(= a forma di pelle di bue), che quasi tutti gli studiosiconcordano nel pensare provenga da Cipro e che, in ba-se ai dati di cui si dispone, finora, si può ritenere che siaandato fuori produzione e commercio molto prima dellafine dell’Età del bronzo. Vasi analoghi a quello di Funta-na Coberta sono stati rinvenuti nella capanna 4 del nura-ghe Brunku Madugui a Gesturi, nella torre F del nuragheAntigori di Sarroch, nella torre A del nuraghe Arrubiu diOrroli, nel nuraghe Su Nuraxi di Barumini, nel nuragheSu Sonadori di Villasor. Due olle dello stesso tipo, conorlo ingrossato a sezione triangolare, provengono dallatomba megalitica di Perda ’e Accuzzai di Villa San Pietrodove erano associati ad un vago di pasta vitrea a formadi rosetta simile a quello rinvenuto nel nuraghe Antigoriin stretta associazione con il materiale miceneo della fa-se III B/C. Un’olla affine era anche tra i vasi nuragici tro-vati a Creta (a Kommòs, Festòs) e datati tra la fine delXIV e la prima metà del XIII secolo a.C., in associazionecon conche tipiche del Bronzo recente sardo e brocchecon ansa a bastoncello che parte dall’orlo. Altri riposti-gli con bronzi da rifondere provengono da vari conte-sti, per lo più sacri, della Sardegna. Nel santuario di San-t’Anastasia di Sardara è stato trovato uno scodellone conlingotti di rame nella capanna 1, che era situata alle spal-le del pozzo sacro, come a Funtana Coberta. Nello stes-so santuario, un orcio, rinvenuto nella sala del Consiglio,conteneva 25 manufatti in bronzo, tra cui armi e utensilida lavoro integri e rotti. Nel nuraghe Albucciu di Arza-chena è stato trovato un ripostiglio di bronzi all’internodi un’olletta con breve colletto distinto e con ansa tipoKommos. Sotto il pavimento della capanna 135 del vil-laggio di Su Nuraxi di Barumini, una serie di pozzetti

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:14 Pagina 34

35

votivi ha restituito diverse coppette emisferiche con fon-do ombelicato e ciotole carenate che erano utilizzate percontenere pasti sacri, offerti come sacrificio di fondazio-ne. Le stesse forme sono state trovate nello strato IV del-la torre C del nuraghe Antigori di Sarroch in associazionecon la ceramica grigio ardesia tipica di questo periodo.

Età del bronzo finaleIntorno al 1200 a.C. una serie di avvenimenti importanti,tra cui l’attacco dei popoli del mare, sconvolgono gliequilibri nel Mediterraneo. A seguito di terremoti ac-compagnati da incendi e carestie, i grandi centri di po-tere micenei vengono distrutti. Nella fase successiva delTardo Elladico III C (tra 1200 e 1100 a.C.) Micene cercadi riorganizzarsi, riprende i contatti con i siti pugliesi,calabresi e sardi dove si producono anche ceramiche diimitazione. A Barumini fittili micenei del Tardo ElladicoIII C sono stati trovati nei vani 17 e 23 delle capanne asviluppo centripeto numeri 11 e 20. Altri fittili di imita-zione locale sono stati trovati nei nuraghi Domu ’e S’Or-ku, Is Baccas di Sarroch e Nastasi di Tertenia. Nella fase che definiamo del Bronzo finale, inquadratatra il 1125 e il 900 a.C., la civiltà nuragica è al massimodello splendore. I nuraghi modificano la loro funzione, ivillaggi si espandono e i santuari diventano sempre piùricchi. Comincia in questa fase la produzione della bron-zistica figurata. Le ceramiche, per lo più ancora inornate,iniziano, almeno in un secondo tempo, ad arricchirsi di

44

45

44. Olla globulare, Cultura nuragica, Bronzo recente, 1300-1200 a.C. circaterracotta, h 31 cm, Cagliari, Museo ArcheologicoNazionale.L’olla con orlo ingrossato, anse a nastro ponte,contrapposte, impostate sulla massima espansionedella circonferenza, presenta superfici abrase, appenalisciate. Era un ripostiglio di bronzi da rifondere checonteneva frammenti di lingotti in bronzo oxhide(= a forma di pelle di bue), di spade votive, scarti difusione, rifiuti di lavorazione, oggetti mal riusciti in cui si riconoscono lame, asce piatte, asce piatte conspuntoni laterali molto accentuati, per un totale di 20,57 kg. Proviene dal tempio a pozzo di FuntanaCoberta, presso Ballao.

45. Scodella su fornello a ferro di cavallo, Cultura nuragica, Bronzo finale, 1125-900 a.C.terracotta, h 24 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.Manufatto proveniente dal nuraghe don Michele di Ploaghe.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:14 Pagina 35

nuovi motivi esornativi: a punzonature, incisioni lineari,foglioline e coppelline impresse, a spina di pesce, so-prattutto sulla base delle anse di vasi askoidi. Le anse inqualche raro caso presentano anche motivi plastici inbassorilievo, talora raffiguranti animali. È tipico di que-sto periodo il vaso ovoide, a colletto, con anse a gomitorovescio, assieme a scodelloni a spalla rientrante e anseverticali. Compaiono le ciotole carenate con pareti darientranti a verticali e accenno di orlo distinto. Appaionopintadere decorate che servivano per imprimere la de-corazione nel pane prima della cottura, fornelli fittili aferro di cavallo con tre appendici interne per sostenerei vasi. Nuovi anche i vasi “alambicco”, come quello delnuraghe Nastasi di Tertenia, o del nuraghe Arrubiu diOrroli provvisti, all’altezza della spalla, di un alto listelloesterno nel quale si raccoglieva il liquido che si fossecondensato nel coperchio. Un altro vaso con listelloesterno, ma a forma di borraccia, stava in una buca sca-

vata in un banco di caolino al centro della camera dellatorre A del nuraghe Arrubiu: la sua presenza è stata in-terpretata come rito di fondazione in occasione del riuti-lizzo del vano durante il Bronzo finale. Nello stesso nu-raghe la presenza di un alare nel cortile è stata messa inrelazione al rinvenimento di forme legate al rituale delbanchetto quali una brocchetta in ceramica grigia, con-nessa forse al consumo di bevande pregiate, forse vino,e un boccale con grande ansa; al rituale del banchetto siriallacciano anche la grande borraccia quadriansata dellatorre A e un’olla a colletto, in quanto collegabili tutti allaconsumazione comune di arrosti e bevande inebrianti.La forma troncoconica degli alari è molto discussa: è in-fatti simile a quella dei pesi da telaio utilizzati anche nelNord Italia. In relazione alla produzione di tessuti, conti-nua ininterrotta la presenza di fusaiole e rocchetti per ilfilo, che proseguirà per tutta la civiltà nuragica. Altra for-ma nuova è la brocca askoide che, al contrario della

36

46

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:14 Pagina 36

37

47

brocca vera e propria, assume orlo obliquo anzichéorizzontale e collo eccentrico, la nuova forma è sicura-mente più funzionale al versare liquidi rispetto allebrocche della fase precedente. La forma dell’anforetta,comparsa già negli strati tra il Bronzo medio e il Bron-zo recente del pozzo sacro di Funtana Coberta pressoBallao, si ritrova con carena più bassa e ansa impostataleggermente al di sotto dell’orlo, in contesti del Bronzofinale, come quelli del nuraghe Sianeddu di Cabras edel villaggio Facc’e Idda di Soleminis, quest’ultimo de-corato con incisione ancoriforme. Continuano ad esserepresenti i tegami, le scodelle, le ciotole carenate, i vasi acollo, le brocchette con ansa che parte dall’orlo. Rari,ma presenti, i vasi divisi in settori interni. I contesti cera-mici di questo periodo, come quelli rinvenuti nel tem-pio a pozzo di Cuccuru S’Arriu di Cabras, nel vano F diS’Urbale di Teti, nel santuario di Su Monte di Sorradile,nel nuraghe Brunku Madugui di Gesturi, nelle capannedel santuario di Funtana Coberta di Ballao, trovano ri-scontri nei contesti dell’Ausonio II delle Eolie.

Età del ferroAll’inizio dell’Età del ferro, in una fase definita Geome-trico, compresa tra il 900 e il 750 a.C., in diversi villaggie nuraghi, quali Palmavera di Alghero, Su Mulinu di Vil-lanovafranca, Genna Maria di Villanovaforru, Su Nuraxidi Barumini, Sant’Antine di Torralba, nonché nei grandi

santuari come Santa Vittoria di Serri e Sant’Anastasia diSardara, si formano stipi votive con offerte, connesseprobabilmente con i rituali propiziatori del ciclo agrario,costituite per lo più da bronzi e lucerne. Le lucerne so-no del tipo a cucchiaio o a piattello con pareti carenate,talora decorate sul bordo a cerchielli a occhio di dado,come l’esemplare che viene dal deposito votivo dellaGrotta Pirosu di Santadi. In questo periodo le ceramichesi arricchiscono di decorazioni anche complesse, chetendono ad invadere la superficie del vaso. I vasi askoi-di, simili a quelli della fase precedente, assieme ad unnuovo tipo con bocca stretta, quasi sempre obliqua, so-no adornati da decorazioni sempre più complesse comela brocchetta da Villanovaforru. Compaiono i vasi piri-formi con falso beccuccio decorati a tratteggio e a oc-chio di dado. In un esemplare proveniente da Sardara èraffigurata l’immagine stilizzata di un nuraghe realizzatacon incisioni e impressioni di cerchielli a occhio di da-do. Dal nuraghe Piscu di Suelli proviene un’olletta a col-lo, decorata a cerchielli a occhio di dado, con 4 ansettea bastoncello accoppiate. Diventano più frequenti i vasicosiddetti “bollilatte” con grande ansa a gomito rovescio,che sarà presente anche nella successiva fase orientaliz-zante, e i bracieri dotati di listelli interni e, in qualchecaso, come quello del nuraghe Palmavera di Alghero,anche di piedi. Compaiono grandi ziri con anse a “x”per contenere le derrate, che, nel caso dell’esemplaredel circolo B di Li Muri presso Arzachena, erano sepoltifino all’orlo sotto il pavimento del vano. Continuano adessere presenti le olle ovoidi con breve colletto e dueanse a gomito rovescio, le scodelline emisferiche anchecon manico sopraelevato, le ciotole carenate, le pinta-dere decorate. Le ceramiche erano così preziose chevenivano restaurate con grappe di piombo, come docu-mentano lo ziro trovato nel villaggio di Facc’e Idda diSoleminis, le brocche askoidi provenienti da Su Nuraxi

46. Vaso “alambicco”, Cultura nuragica, Bronzo finale, 1125-900 a.C.terracotta, h 22 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.È provvisto, all’altezza della spalla, di un listello esterno nel quale si raccoglieva il liquido che si fosse condensato nel coperchio.Proviene dal nuraghe Nastasi di Tertenia.

47. Vaso a scomparti con presina forata, Cultura nuragica, Bronzo finale, 1125-900 a.C.terracotta, h 8,5 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Proviene dal nuraghe Genna Maria di Villanovaforru.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:14 Pagina 37

falsa cordicella. Compare la decorazione dipinta e plasti-ca, anche figurata. Continua l’uso dei cosiddetti “bollilat-te” e degli scodelloni lenticolari con ansa verticale, for-me che nel vano 17 del villaggio di Genna Maria diVillanovaforru erano associate ad uno ziro con anse ad“x” e a vasi askoidi con collo stretto ed ansa a bastoncel-lo. A questo periodo è attribuita anche la raffinata broc-ca askoide proveniente da Monte Cao presso Sorso, de-corata con sottili fasce di trattini e impressioni a occhiodi dado: la sua forma, col corpo basso e schiacciato di-sposto orizzontalmente, stretto collo verticale e grandeansa a ponte, è pressoché identica a quella di un vasonuragico di bronzo proveniente dal nuraghe Ruju diBuddusò, dove all’attacco dell’ansa è presente un moti-vo a palmetta di ispirazione fenicia diffuso in Etruria.Qui si rinvengono diversi vasi askoidi, alcuni d’importa-zione sarda, altri di imitazione locale. Una brocchetta si-mile a quella di Monte Cao è stata trovata a Creta in unatomba del sito di Kaniale Tekkè e frammenti di anse de-corate sono stati trovati negli strati più antichi di Cartagi-ne. Si suppone che contenessero liquidi particolari. Sottol’influsso di ceramica dall’Eubea compare la decorazio-ne dipinta su brocche askoidi da Sardara e da Barumini.Si diffonde l’uso di secchielli, come quello con decora-zione dipinta da Sardara, o il cestello con versatoio dalnuraghe Nastasi di Tertenia, o il portabrace-proteggifiamma dal villaggio di Genna Maria di Villanovaforru,di fiasche scanalate con fori passanti per la sospensio-ne, come quella da Monte Olladiri presso Monastir de-corata con bande a spina di pesce, occhi di dado estampigliatura ottenuta con punzone quadrato con alcentro una “x”, di tazze con ansa sull’orlo come quelledi Monte Olladiri di Monastir, di catini come quelli delnuraghe Piscu di Suelli. In questo periodo a BruncuMogumu di Sinnai, sulla cima di una collina con traccedi un precedente luogo sacro nuragico, si costruisce unedificio di culto con due ambienti, racchiuso in un’arearecintata, all’interno del quale, assieme ad una cote liti-ca, in una sorta di nicchia, erano impilati due vasi in ce-ramica figulina: una brocca askoide dipinta a fasce e uncatino con decorazione dipinta a ditate, anche nella pa-rete interna, e con sintassi metopale. I vasi, utilizzatiforse nel corso di sacrifici, erano probabilmente legatialla liturgia dell’acqua. Il contesto è datato da un fram-mento di brocca fenicia, trovato a contatto con il pianoroccioso su cui è stato impostato l’edificio. Nello stratoformatosi nell’ultimo momento di vita della costruzioneprima del crollo, invece, erano presenti scodelloni lenti-colari con ansa verticale, simili a quelli rinvenuti nel-l’emporio di Sant’Imbenia di Alghero, in strati databilitra il IX e il VII secolo a.C. e, inoltre, in questo stratoerano presenti forme ceramiche con orli che imitavanoquelli dei vasi fenici.L’imitazione delle forme e delle tecniche allogene si in-tensifica nei secoli successivi fino alla presa di potere diCartagine, nel 510 a.C., che determina la fine della civil-tà nuragica.

38

48

49

50

di Barumini e dal nuraghe La Prisciona di Arzachena,decorato a cerchielli a occhio di dado alla base dell’an-sa, e le ciotole carenate dal villaggio di Genna Maria diVillanovaforru.Intorno all’VIII secolo a.C., dopo la fondazione delle cit-tà fenicie sulla costa (Tharros, Nora, Sulci, Bithia, Kara-lis) si delinea un quadro complesso di rapporti, scambi,mutuazioni di stili e tecniche tra i nuragici e le popola-zioni che stavano ad Oriente, soprattutto greci. Capitasempre più spesso di trovare insediamenti in cui alla ce-ramica locale, assieme ai vasi d’importazione fenicia egreco-orientale, si accompagna la ceramica d’imitazionefenicia, o, al contrario, insediamenti fenici, come Sulci, incui, assieme alla ceramica fenicia, si trova quella d’imita-zione nuragica. La presenza di forme ceramiche d’imita-zione fenicia e di figulina dipinta, ispirata a forme orien-talizzanti, documenta una trasformazione delle bottegheindigene che presuppongono una committenza, semprepiù, di tipo “aristocratico”. In questa fase, definita orien-talizzante, le ceramiche di produzione nuragica assumo-no decorazioni più complesse: cerchielli, occhi di dado,

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:14 Pagina 38

51 52

53

48. Lucerna a cucchiaio, Cultura nuragica, Età del ferro, 900-750 a.C.terracotta, lungh. 16,5 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Proviene dal nuraghe Palmavera di Alghero.

49. Lucerna a piattello, Cultura nuragica, Età del ferro, 900-750 a.C.terracotta, lungh. 12 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Questa lucerna, con pareti carenate e presa a linguetta, è stata rinvenuta nella Grotta santuario Pirosu Su Benatzu, presso Santadi.

50. Lucerna a piattello, Cultura nuragica, Età del ferro, 900-750 a.C.terracotta impressa sul bordo, lungh. 14 cm, Cagliari, MuseoArcheologico Nazionale. La lucerna, con pareti carenate decorate sul bordo a cerchielli aocchio di dado, proviene dalla Grotta santuario Pirosu Su Benatzu,presso Santadi.

51. Borraccia, Cultura nuragica, Età del ferro, 900-750 a.C.terracotta, h 12 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Il vaso è caratterizzato da collo a imbuto nettamente distinto, corpocompresso, doppia coppia di prese forate verticalmente impostatesulla spalla, fondo piatto.

52. Vaso quadriansato, Cultura nuragica, Età del ferro, 900-750 a.C.terracotta impressa, h 10 cm, Cagliari, Museo ArcheologicoNazionale.Il vasetto a collo imbutiforme, nettamente distinto, sottolineato darisega, con quattro anse verticali contrapposte, decorato a cerchiellia occhio di dado impressi sotto il collo e sulle anse, proviene dalnuraghe Piscu di Suelli.

53. Vaso piriforme, Cultura nuragica, Età del ferro, 900-750 a.C.terracotta graffita e impressa, h 16,5 cm, Cagliari MuseoArcheologico Nazionale.Vaso piriforme con falso colatoio e due bugne per lato. La spalla delvaso è decorata da bande verticali che alternano zig-zag, cerchielli,trattini orizzontali disposti in maniera simmetrica a partire dal centrodel colatoio. Proviene da Sant’Anastasia di Sardara.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:14 Pagina 39

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 12:14 Pagina 40

41

54 55

56

54-56. Vaso, Cultura nuragica, Età del ferro, 900-750 a.C.terracotta graffita e impressa, h 32 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Il vaso piriforme, con falso colatoio e due anse, presenta unadecorazione ad incisione ed impressione che invade la superficie del vaso. Bande verticali di zig-zag, cerchielli, trattini orizzontali sono disposti in maniera simmetrica a partire dal centro del colatoio.Proviene da Sant’Anastasia di Sardara.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 17-11-2007 10:21 Pagina 41

42

57

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 17-11-2007 10:21 Pagina 42

43

58

57-58. Brocca askoide, Cultura nuragica, Età del ferro, 900-750 a.C.terracotta, h 23 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Questa brocca askoide a collo distinto e bocca trilobata, ansa a bastoncello conbeccuccio, proviene da Sant’Anastasia di Sardara.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 17-11-2007 10:21 Pagina 43

44

59

60

59. Bollilatte, Cultura nuragica, Età del ferro, 900-750 a.C.terracotta, h 23 cm, Sassari, MuseoNazionale “G.A. Sanna”.Il bollilatte, con grande ansa a gomitorovescio, poggia su un braciere chepresenta un lungo manico a bastoncelloe tre listelli interni. Proviene dalnuraghe Palmavera di Alghero.

60. Braciere su piedi con due anse e tre listelli interni, Cultura nuragica, Età del ferro, 900-750 a.C.terracotta, h 13 cm, Sassari, MuseoNazionale “G.A. Sanna”.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 17-11-2007 10:21 Pagina 44

45

61 62

63

63. Orcio ad orlo ingrossato con grandeansa a gomito e ansetta contrapposta,Cultura nuragica, Età del ferro, 900-750 a.C.terracotta, h 17 cm, Cagliari, MuseoArcheologico Nazionale. Manufatto reperito nel complessonuragico di Genna Maria, vano a,presso Villanovaforru.L’ansa più grande presenta una serie di fori.

62. Proteggi fiamma, con manico a bastoncello, Cultura nuragica, Età del ferro, 900-750 a.C.terracotta, h 21 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Manufatto reperito nel complesso nuragico di Genna Maria presso Villanovaforru.

61. Vaso carenato con versatoio e manico trasversale, Cultura nuragica, Età del ferro, 900-750 a.C.terracotta, h 17 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 17-11-2007 10:21 Pagina 45

46

64

64-65. Brocca askoide, Cultura nuragica, Età del ferro, 900-750 a.C.terracotta graffita e impressa, h 19,5 cm, Sassari, Museo Nazionale“G.A. Sanna”.Brocca askoide, con collo stretto ed ansa a bastoncello, decoratacon sottili fasce di trattini e impressioni a occhio di dado. La sua forma, col corpo basso e schiacciato dispostoorizzontalmente, stretto collo verticale e grande ansa a ponte, è pressoché identica a quella di un vaso nuragico di bronzoproveniente dal nuraghe Ruju di Buddusò, dove all’attaccodell’ansa è presente un motivo a palmetta di ispirazione fenicia diffuso in Etruria. Proviene da Monte Cao, presso Sorso.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 19-11-2007 8:48 Pagina 46

65

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 17-11-2007 10:21 Pagina 47

66

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 17-11-2007 10:22 Pagina 48

49

La ceramica e coroplastica del periodo fenicioLa ceramica del periodo fenicio e punico della Sarde-gna, comprendendo in tale termine anche la produzio-ne coroplastica, principia ad essere oggetto di studio apartire dalle ricerche pionieristiche del Canonico Gio-vanni Spano intorno alla metà del secolo XIX, benchél’attenzione verso i prodotti vascolari, in gran parte pro-venienti dalla necropoli meridionale di Tharros, sia indi-rizzata alle terrecotte figurate ed alle ceramiche ionichee attiche piuttosto che a quelle puniche.Gli scavi delle necropoli di Nora e di Tuvixeddu (Kara-les) consentono, tra il tardo Ottocento e i primi del No-vecento, grazie alle indagini di Giovanni Patroni e An-tonio Taramelli, di redigere la prima seriazione delleceramiche essenzialmente cartaginesi dei corredi funera-ri norensi e caralitani, benché siano segnalate ceramichefenicie, quali le numerose brocche con orlo espansodalle necropoli di Tharros, confluite nella collezione diEfisio Pischedda di Oristano e di Othoca.1

Intanto in Sardegna era stata avviata la razionale seriedi campagne di scavo archeologico nei principali sitifenici e punici, nel quadro delle iniziative portate avantidall’Istituto del Vicino Oriente dell’Università di Roma,da parte di Sabatino Moscati e dei suoi allievi, in sinto-nia con le Soprintendenze per i Beni Archeologici dellaSardegna ed in particolare con i soprintendenti punico-logi Gennaro Pesce e Ferruccio Barreca.Le acquisizioni di ceramica fenicia e punica, talvolta inassociazione con vasellame greco ed etrusco, hanno ri-guardato le necropoli di Karales (Tuvixeddu e Bonaria),San Sperate, Bidd’e Cresia (Sanluri), Bithia (Domusde-maria), Sulci (Sant’Antioco), San Giorgio (Portoscuso),Monte Sirai (Carbonia), Pani Loriga (Santadi), Monte Lu-na (Senorbì), Othoca (Santa Giusta), Tharros (necropolimeridionale e settentrionale), Olbia. Per quanto attienegli abitati devono segnalarsi gli scavi di Karales, Nora,Sulci, Monte Sirai, Neapolis (Guspini), Othoca, Tharrose di numerosi centri rurali.L’attività di pubblicazione relativa alla ceramica e allacoroplastica è stata, a partire dagli anni Settanta del XX

secolo, di vastissima portata, con relazioni di scavo eanalisi frontali delle tipologie ceramiche.2

Un noto passo di Diodoro inquadra esplicitamente laSardegna tra le aree mediterranee centro-occidentali (eatlantiche) interessate al fenomeno della colonizzazionefenicia. Le fonti greche, d’altro canto, tuttavia, distingue-vano una fase di emporìa (commercio) dei Phoinikescon gli indigeni, precedente l’età della colonizzazione.Il termine greco Phoinikes, in realtà, compendia struttu-re del commercio e delle interrelazioni con il milieu in-digeno profondamente diverse tra loro e attribuibili divolta in volta, e non necessariamente in scansione cro-nologica, ad Aramei, Filistei, Ciprioti, Euboici e Phoini-kes delle città della Fenicia, in una fase antecedentel’assunzione del potere del re di Tiro sulla regione con-giunta dei Tirii e dei Sidonii, ossia nella prima metà delIX secolo a.C., al tempo del re Ithobaal I (887-856 a.C.),fondatore secondo Giuseppe Flavio delle colonie di Bo-trys in territorio giblita (a nord di Byblos, in Libano) e diAuza nella Libye, ossia nell’Africa maghrebina (Tunisia,Algeria, Marocco). Solamente in questa seconda fase,dunque, appare legittimo riferirsi alla colonizzazione fe-nicia della Sardegna, con lo sviluppo di insediamentiche, a partire dall’VIII secolo a.C., traducono in ambitooccidentale i modi urbanistici di tradizione vicino orien-tale o più precisamente tiri. La strutturazione delle colo-nie fenicie in Sardegna è relativa essenzialmente all’arcocostiero compreso tra le foci del Flumendosa sul Tirre-no e la penisola del Sinis, sulla costa centro occidentale,con due poli principali di concentrazione: il Sulcis, daun lato (con i centri principali di Nora, Bithia e Sulci) eil golfo di Oristano dall’altro, con le colonie di Neapolis,Othoca e Tharros. L’avvento del dominio di Cartagine in Sardegna, destina-to a durare tre secoli, a seguito delle guerre dei Magoni-di contro le città fenicie della Sardegna, conclusesi intor-no al 510 a.C., comportò una nuova strutturazione degliassetti sociali, economici ed urbanistici della Sardegna,con l’avvento di classi dirigenti cartaginesi nelle princi-pali città dell’Isola e la deportazione di contadini libicinelle campagne isolane per incrementare la produzionecerealicola.

La ceramica del periodo fenicio, punico e romanoRaimondo Zucca

66. Maschera orrida di modello cartaginese, inizio sec. V a.C.(particolare della fig. 97).

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 17-11-2007 10:22 Pagina 49

50

70

67 68 69

67. Brocca con orlo espanso, sec. VI a.C.terracotta, h 19 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Proviene dalla necropoli fenicia di Monte Sirai (Carbonia).

68. Brocca biconica ad orlo bilobato, inizio sec. V a.C.terracotta, h 21 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Proviene dalla necropoli fenicia di Monte Sirai (Carbonia).

69. Brocca a corpo ovoide con collo conico ed orlo trilobato, sec. V a.C.terracotta, h 22 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Proviene dalla necropoli fenicia di Monte Sirai (Carbonia).

70. Bruciaprofumi a doppia patera, sec. VI a.C.terracotta ingobbiata, Ø max 13 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.Proviene dalla necropoli fenicia meridionale di Tharros.

71. Brocca ad orlo espanso, fine sec. VII a.C.terracotta, h 28 cm, Oristano, Antiquarium Arborense.La brocca, decorata ad ingobbio rosso limitato all’orlo ed al terzosuperiore del collo, ed a fasce rosse e nere al centro del corpo,proviene dalla necropoli fenicia settentrionale di Tharros.

72. Olpe a corpo ovoide, fine sec. VII a.C.terracotta, h 19 cm, Oristano, Antiquarium Arborense.Proveniente dalla necropoli fenicia settentrionale di Tharros.

73. Brocca a corpo troncoconico rovescio, sec. VI a.C.terracotta, h 27 cm, Oristano, Antiquarium Arborense.Proveniente dalla necropoli fenicia settentrionale di Tharros.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 17-11-2007 10:22 Pagina 50

L’avvento di gruppi orientali nei contesti indigeni del-la Sardegna comportò una rivoluzione tecnologica nelcampo dell’artigianato dei figoli.Se è vero che sin dal Miceneo III A, allo scadere del XVsecolo, penetrano nella civiltà nuragica prodotti vasco-lari micenei torniti e che con il Miceneo III B e III C siattivano ateliers locali che imitano i prodotti micenei,talora con l’utilizzo di un tornio lento, solamente con lapresenza, dapprima negli emporia indigeni quindi nellefondazioni coloniali, dei Phoinikes si attua l’acquisizio-ne da parte degli artigiani in Sardegna dell’uso del tor-nio veloce.L’esempio più esplicito è costituito dall’insediamentosardo di Sant’Imbenia (Alghero), che nel corso del IX se-colo a.C. ma soprattutto nel successivo VIII rappresentala struttura di scambio indigena aperta all’elemento le-vantino, ma forse anche euboico: se, infatti, la docu-mentazione archeologica ed epigrafica ci mostra, nel-l’ambito del controllo indigeno dell’emporio, una chiaraprevalenza di manifatture e modelli orientali, tra cuiemerge una componente filistea, d’altro canto è docu-mentata la presenza di materiali euboici (uno skyphos asemicerchi penduli della fine del IX secolo a.C., unacoppa à chèvrons della metà dell’VIII secolo a.C., unaoinochoe) e corinzi (una coppa Aetòs 666 del 750-730a.C., una kotyle del Protocorinzio antico, della fine del-l’VIII secolo a.C.).

Tra le varie tipologie di ceramica levantina si distinguo-no accanto alle tazze di importazione orientale (Sama-ria Ware), ad anfore a decoro metopale di produzionesulcitana, ad askoi a protome zoomorfa, le anfore a sac-co, con collo pronunciato ed orlo extroflesso, destinateprobabilmente al trasporto di vino locale. Tali anforedenominate “ZITA” o “di Sant’Imbenia” sono documen-tate anche in contesti indigeni dell’Oristanese (Su Cun-giau ’e Funtana di Nuraxinieddu e S’Uraki di San VeroMilis),3 in Italia centrale, a Cartagine e nell’estremo occi-dente atlantico dell’Iberia (Huelva, Cadiz).In attesa di analisi archeometriche delle argille chechiariscano l’unicità o la pluralità dei luoghi di produ-zione, possiamo ipotizzare che un modello anforariolevantino venisse assunto dai figoli sardi per realizzareun contenitore destinato al vino locale da esportare.Le città fenicie della Sardegna a partire dal 770 a.C., da-ta presumibile della fondazione della più antica di esse,Sulci, sono interessate sia dalle importazioni di cerami-ca levantina – come le due coppe a labbro distinto diproduzione tiria individuate nell’abitato sulcitano daBartoloni – e di aree coloniali fenicie, sia dalle importa-zioni greche ed etrusche, sia dalle produzioni locali,derivate specialmente dai modelli orientali, ma ancheda vasi greci o tirrenici. La colonia di Sulci partecipa di questo quadro di scam-bi, acquisendo, tra il 750 e la metà del VII secolo a.C.,

5171 72 73

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 17-11-2007 10:22 Pagina 51

52

74 76

75

74. Candelabro rituale, inizio sec. V a.C.terracotta, h 38 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Candelabro rituale con piede a tromba e corpo decorato da protomed’ariete con sette vasetti con testine femminili di profilo. Sul corpo siinnalza il fusto sorreggente una lucerna a due becchi. Realizzato altornio con aggiunte plastiche, ingobbiato e dipinto, proviene dallanecropoli punica di Sulci.

75. Askòs foggiato a forma di cavallo con cavaliere, fine sec. VII a.C.terracotta, lungh. 18 cm, Oristano, Antiquarium Arborense.L’askòs è lavorato al tornio; il cavaliere ha gli arti, i tratti fisionomicidella testa (occhi, naso, orecchie e barbetta) applicati. Proviene dallanecropoli fenicia settentrionale di Tharros.

76. Askòs ornitomorfo, fine sec. VI-inizio V a.C.terracotta, lungh. 15 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

L’askòs in forma di colomba è realizzato al tornio e ingobbiato;proviene dalla necropoli punica di Sulci.

77. Brocca ad orlo trilobato, sec. V a.C. terracotta, h 16 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.Brocca ad orlo trilobato con ansa a “rotelle” all’attacco con l’orlo,derivata da modelli in bronzo di ambito rodio e etrusco, ritrovata a Tharros nella necropoli punica meridionale.

78. Fiasca da pellegrino, sec. V a.C.terracotta, h 20 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.La fiasca, dotata di quattro prese forate per il passaggio di unacorreggia destinata a sospenderla, decorata da bande anulariconcentriche su ognuno dei due lati, è di remota origine levantinaed egizia. Proviene dalla necropoli punica meridionale di Tharros.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 17-11-2007 10:22 Pagina 52

manufatti fenici sia di Cartagine sia del “circuito delloStretto” andaluso-mauritano. Accanto al vasellame feni-cio si individua una rilevante, seppur largamente mino-ritaria, presenza di ceramiche euboiche tardo geometri-che di ambito orientale (Eubea-Cicladi) e pitecusano, edi ceramiche corinzie e del Protocorinzio antico, chepotrebbe rimandare a quel quadro misto degli scambidell’arcaismo.Le città fenicie di Sardegna non mostrano, allo stato del-le ricerche, un livello degli scambi fra il 750 e il 650 a.C.paragonabile a quello sulcitano, benché si vada rilevan-do una presenza di contenitori anforari fenici del “cir-cuito dello Stretto” della seconda metà dell’VIII-metà VIIsecolo a.C. oltre a Sulci ed ai centri dell’area sulcitana(Monte Sirai, San Giorgio di Portoscuso, San Vittoriopresso l’isola di San Pietro), a Nora, Neapolis, Othoca,Mal di Ventre e Olbia e di anfore fenicie, di produzionedel Mediterraneo centrale (Cartagine e Mozia, ma forseanche Sardegna) a Nora e a Sarcapos.Tra gli ultimi decenni del VII e la fine del VI secolo a.C.è attestata una produzione nei centri fenici della Sarde-gna di una tipica anfora “a sacco” destinata ad essereesportata come contenitore di derrate varie, tra cui carni

conservate, ma anche verosimilmente vino, salse di pe-sce ecc. Tali anfore sono documentate non solo nei por-ti fenici della Sardegna, ma anche a Cartagine e nei portietruschi dell’Etruria meridionale. Al di là della preminente documentazione di produzio-ni anforarie fenicie delle varie città della Sardegna stan-no le facies locali di ceramica vascolare da mensa e dacucina e la ceramica rituale dei corredi funerari e diambito santuariale e di tofet (il recinto sacro per la de-posizione delle ceneri, entro urne, di bimbi nati morti odefunti in tenera età).Nell’ambito degli abitati prevalgono le forme apertequali piatti, tazze, lucerne a un becco o a due becchi af-fiancati di tipo fenicio, su quelle chiuse, tra cui spiccanole pentole e le brocche ad orlo circolare o trilobato.Le necropoli hanno, naturalmente, offerto la più riccaserie di ceramiche integre o ricostruite: non mancano leforme aperte, come i piatti, le coppe, le doppie patere,ancora le lucerne, anche se prevalgono le forme chiuse.Caratteristiche dei corredi fenici sono la brocca ad orloespanso e la brocca ad orlo bilobato, funzionali la primaall’unzione con olio del defunto, la seconda a libazioniper il morto. Si rileva anche l’assunzione nel repertorio

77

78

53

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 17-11-2007 10:22 Pagina 53

rette, marcando un tratto distintivo del circuito dei mate-riali etruschi in area fenicizzante.I porti fenici della Sardegna recepiscono ceramicheetrusche prodotte nelle poleis dell’Etruria meridionale: èsoprattutto il vasellame etrusco-corinzio, circolante tra il580 e il 540-530 a.C. che ci consente di distinguere leproduzioni tarquiniesi (piatti del “Pittore senza graffito”da Sarcapos, Sulci, Othoca, Tharros), da quelle vulcentiprevalenti (coppe del “Pittore delle Code Annodate” edel “Pittore delle Macchie Bianche”) e da quelle più tar-dive ceretane (coppe e coppette del gruppo “a Masche-ra Umana”). La diffusione del bucchero, dopo i prodromi delle anfo-rette d’impasto a doppia spirale attestate a Nora, Bithia,Sulci tra la fine dell’VIII e il principio del VII secolo a.C.,si afferma nei porti sardi verso il 630 a.C. con vasi poto-ri e oinochoai di prevalente produzione ceretana, ornatia ventaglietti o a decoro lineare soprattutto a Nora, Bi-thia ma anche a Tharros. L’akmé della circolazione delbucchero si situa tra il 600-590 a.C. e il 560 a.C., ma consuccessive attestazioni che coprono l’intero VI secolo ela prima metà del V a Nora, con forme lisce attinenti ilsimposio, di difficile attribuzione di bottega, attestato aSarcapos, Cuccureddus di Villasimius, Karales, Nora, Bi-thia, Sulci, Neapolis, Othoca, Tharros e con ampia diffu-sione nell’entroterra.Se spostiamo l’attenzione sui materiali ceramici greco-ar-caici, osserviamo che a parte un poco rilevante quanti-tativo di ceramiche corinzie e laconiche, i centri feniciacquisiscono ceramiche attiche a figure nere e a vernicenera e coppe ioniche, prevalentemente di ateliers occi-dentali, insieme ad anfore ateniesi à la brosse, corinzieA, chiote, milesie o samie, ionio-massaliote della MagnaGrecia e a rare anfore massaliote a pasta micacea conuna forbice cronologica estesa tra il 600 e la fine del VIsecolo a.C., benché la maggiore concentrazione si attuinel terzo e nel quarto venticinquennio del VI secolo a.C.

La ceramica e coroplastica del periodo punicoCon l’avvento del dominio cartaginese in Sardegna sulloscorcio del VI secolo a.C. e con l’inaugurazione di unapolitica di monocoltura cerealicola, si attua negli ateliersceramici dell’Isola una vasta produzione di contenitorianforari, rispondenti a due modelli “a sacco” e “a silu-ro”, rispettivamente databili al V-inizi IV e fine V-IV se-colo a.C., e destinati a contenere prevalentemente cerea-li sardi per l’esportazione. Il tipo a sacco del V secolo èdocumentato, oltreché in tutta l’Isola, in Sicilia, Cartagi-ne e Ampurias. L’altro tipo a siluro del IV secolo appareattestato sia nell’Isola, sia in Sicilia e Nord Africa. Nel IIIsecolo domina nella produzione anforica isolana il tipo“a siluro allungato”.Accanto alle produzioni locali vi è da registrare la cir-colazione nella Sardegna punica di anfore provenientidal Nord Africa, dalla Sicilia, da Ibiza e dall’area iberica.Ricerche recenti hanno evidenziato che, accanto allepreponderanti importazioni da area punica, la Sardegna

54

79

79. Lucerna a conchiglia, sec. V a.C.terracotta, h 9 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Lucerna a conchiglia, a due becchi, dotata inferiormente di unmanico a fusto cilindrico, proveniente dalla necropoli punica di Sulci.

80. Anfora a collo cilindrico, sec. V a.C.terracotta, h 35 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Anfora a collo cilindrico, dotato di risalto mediano, decorato dasottili fasce anulari nere, proveniente dalla necropoli punica di Sulci.

81. Brocca a corpo ovoide con collo trilobato, sec. V a.C.terracotta, h 22 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Brocca a corpo ovoide con collo trilobato, decorata da un motivo stellare bianco inquadrato da fasce verticali dipinte in bianco, proveniente dalla necropoli punica di Sulci.

fenicio di modelli non fenici quali le coppe sulcitane,derivate da prototipi euboici o pitecusani, o il crateredella necropoli di Bithia imitante un modello laconico.Come si è detto accanto alle produzioni vascolari localisi documenta la circolazione di vasi d’importazione, ta-lora rifunzionalizzati come nel caso dell’olla stamnoidepitecusana, con decoro metopale (720 a.C.), usata comecinerario nel tofet di Sulci.La coroplastica del periodo fenicio – a parte i vasi plasti-ci, tra cui un cavaliere lavorato al tornio da Tharros, e ivari askòi zoomorfi – annovera soprattutto nel corso delVI secolo alcune maschere orride di importazione carta-ginese (esemplari di Tharros), placchette rappresentantila dea col tamburello, protomi virili barbute con la capi-gliatura e la barba resa “a lumachelle”, protomi femmi-nili influenzate dalla plastica greco arcaica.Per quanto attiene le importazioni ceramiche si noti chele anfore etrusche attestate a Sarcapos, Nora, Bithia,Neapolis, Cornus, Korakodes portus, Ittireddu sono inquantità irrisoria rispetto ai vasi per profumi etrusco-co-rinzi (aryballoi ed alabastra) e ai vasi in bucchero.Questi ultimi attestati negli insediamenti fenici mostranoaccanto agli onnipresenti kantharoi e oinochoai (maanche kylikes e olpai) le più rare attestazioni delle anfo-

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 17-11-2007 10:22 Pagina 54

registra l’arrivo di contenitori anforari, soprattutto vina-ri, dall’area egea, dalla Magna Grecia, dall’Etruria e daMassalia.Il vasellame cartaginese della Sardegna da un lato ripren-de modelli orientali, come la brocca con orlo espansoancora nel V secolo a.C., i piatti, le coppe, dall’altro in-nova il patrimonio vascolare attraverso modelli in parti-colare attici.In Sardegna il vasellame attico, a figure rosse e a verni-ce nera, risulta infatti ben diffuso nelle città puniche ein tutto l’entroterra, tra V e IV secolo a.C., con una ric-chezza particolare di ceramiche anche di notevole valo-re artistico a Neapolis, nell’ansa sud orientale del golfodi Oristano.Artigiani tharrensi, ma anche di altre città come Karalese Santu Teru-Monte Luna (Senorbì) propongono anforee brocche con una decorazione pittorica che spazia daipiù comuni temi fitomorfi a quelli zoomorfi (delfino)alla rappresentazione della figura umana.Più comune è la traduzione del piatto da pesce attico inuna forma di piatto ombelicato a sua volta ispirato adantichi prototipi levantini.

Il repertorio vascolare attico a vernice nera è ripreso,spesso fedelmente, da artigiani locali che utilizzano unavernice nerastra o anche rossastra con sbavature.Le terrecotte figurate, frequentissime in santuari urbanie rurali, divengono assai diffuse, con larghe elaborazio-ni locali su matrici cartaginesi (è il caso delle maschereorride di San Sperate e di Tharros) e greche, in partico-lare siceliote. Si hanno protomi sileniche, teste muliebri,statuette di dea assisa in trono, figurine di dea stanteammantata ecc.Rilievo straordinario assume il tipo della dea kernopho-ros, il busto bruciaprofumi della dea Demetra, di ispira-zione siceliota con la mediazione di Cartagine, a partiredallo scorcio del IV secolo a.C. Le repliche sono miglia-ia in particolare in ambito rurale, ma sono note anchein santuari cittadini.La coroplastica popolaresca ripete modelli orientali siro-palestinesi sino ad età romana, talora con l’innesto di sti-lemi ellenistici. Il ritrovamento più significativo della Sar-degna punica è quello del deposito votivo di Neapolis.L’appartenenza di questo complesso a botteghe neapoli-tane non è stata finora suffragata da specifiche analisi

80 81

55

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 17-11-2007 10:22 Pagina 55

82 83

84 85

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 17-11-2007 10:22 Pagina 56

57

87

86

82. Urna cineraria, sec. V a.C.terracotta, h 23 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Si tratta di un’urna cineraria costituita da una brocca a corpoovoide con collo a risalto mediano ed ansa impostata sullaspalla e attacco sul risalto; un piattello funge da coperchio.Proviene dal tofet di Tharros.

83. Urna cineraria, sec. III a.C.terracotta, h 19,5 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Urna cineraria costituita da un’anforetta a corpo cilindrico.Per coperchio ha un piattello “a bugia”.

84. Anforetta a corpo ovoide, sec. V a.C.terracotta, h 25 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.Proviene dalla necropoli punica meridionale di Tharros.

85. Piatto, sec. V a.C.terracotta, Ø 16 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.Il piatto, decorato da un disco rosso sul fondo e da una seriedi fascette anulari concentriche, proviene dalla necropolipunica meridionale di Tharros.

86. Anfora ovoide, sec. V a.C.terracotta, h 45 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.L’anfora, su piede a spalle oblique, decorata da fasce rosseanulari e da un motivo a fiore di loto su due volute, è statarinvenuta nella necropoli punica di Monte Luna, pressoSenorbì.

87. Anfora ovoide, sec. V a.C.terracotta, h 39 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.L’anfora è decorata da tremuli verticali alternati a fascetteugualmente verticali e da un’iscrizione punica compresa tra fasce anulari rosse. L’epigrafe allude a un’offertafuneraria per il defunto Arim. Proviene dalla necropolipunica di Tuvixeddu, a Cagliari. È realizzata al tornio,ingobbiata e dipinta.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 17-11-2007 10:22 Pagina 57

archeometriche, ma l’esame complessivo delle terrecottee l’analisi autoptica delle argille e dei degrassanti utilizza-ti fa propendere verso una produzione locale. Le terre-cotte, in stato frammentario a causa dell’originario acca-tastamento e per le condizioni della scoperta, in seguitoad arature a scasso, appartengono a varie categorie: fi-gurine plasmate a mano di devoti sofferenti; figurine altornio; figurine e protomi a stampo; votivi anatomici (ar-ti, fallo); pinakes; frutti; vasi plastici.

La ceramica e coroplastica del periodo romanoLa ceramica romana in Sardegna ha suscitato un mode-sto interesse negli studiosi fino ad anni recenti. Nell’Ot-tocento e nella prima metà del Novecento le ricerchesulle produzioni vascolari romane d’importazione o diateliers locali sono state limitate, sostanzialmente, alletestimonianze dell’instrumentum domesticum inscritto

58

88

89

88. Placchetta rappresentante una dea stante contamburello al petto, fine sec. VI a.C.terracotta da stampo, h 19 cm, Cagliari, MuseoArcheologico Nazionale.La placchetta, d’ispirazione ionica, proviene dallanecropoli punica meridionale di Tharros.

89. Busto femminile di divinità, fine sec. VI a.C.terracotta, h 25 cm, Cagliari, Museo ArcheologicoNazionale.Il piccolo busto, caratterizzato dal klaft egiziano, è la cosiddetta Tanit Gouin, dal nome del primitivocollezionista. Proviene dalla necropoli punicameridionale di Tharros.

90. Testina di giovinetto con capigliatura sunteggiatadal motivo a cerchielli, inizio sec. V a.C. terracotta da stampo, h 7 cm, Cagliari, MuseoArcheologico Nazionale. Proviene dalla necropoli punica di Sulci.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 17-11-2007 10:22 Pagina 58

cui si riferiscono le Inscrizioni figulinarie sarde di Gio-vanni Spano del 1875.4

Attraverso tali lavori sono resi noti i laterizi, le terrecottearchitettoniche, le produzioni anforiche, i vasi da men-sa, le lucerne con marchio di fabbrica rinvenute in Sar-degna sia di produzione locale, sia soprattutto di impor-tazione durante l’età romana.L’attenzione frontale alle ceramiche romane della Sar-degna fu poi portata da Giovanni Lilliu sia con l’edi-zione di corredi funerari di necropoli della Marmilla,sia con lo studio sugli insediamenti rurali del territoriodi Biora (Serri) del 1947.5

La conquista romana della Sardinia e della Corsica (238-237 a.C.), riunite in un’unica provincia nel 227 a.C., nonsconvolge gli assetti economici della Sardegna con lesue prevalenti produzioni cerealicole né i traffici con ilNord Africa, benché si profili, specie dopo la conclusio-ne vittoriosa per Roma della II guerra punica, nel 202a.C., una nuova stagione economica che vede affiancar-si, lungo la rotta Africa-Sardegna, ai precedenti protago-nisti sardo-punici, i negotiatores romani e italici.Un segno evidente di questi emporoi romani attivi inSardinia all’indomani della conquista lo cogliamo nellecoppe a vernice nera, dette Herakleschalen, della finedel terzo venticinquennio del III secolo a.C. rinvenute aOlbia e dotate in due casi di iscrizioni latine graffite, re-lative ad un M. Teio(s) o M. Peio(s) e ad un L. Oa(---), enella rara ceramica a vernice nera calena, decorata a ri-lievi, attestata a Karales e a Othoca. Le azioni di rappre-saglia militare nei confronti degli emporoi, ovvie neimomenti più crudeli del clima bellico, non devono di-stoglierci dall’analisi dei documenti archeologici che cimostrano, al contrario, un’ampia circolazione di mercida e per la Sardinia sullo scorcio del III secolo a.C., e,soprattutto, nel mezzo secolo tra la fine della II guerrapunica e la distruzione di Cartagine del 146 a.C., ma an-che successivamente nell’ambito dei rapporti tra la pro-vincia Africa e la Sardinia, da un lato e tra l’Italia e laSardinia dall’altro.Con la costituzione del principato augusteo, a partiredal 27 a.C., anche la Sardinia, dopo i turbolenti tempidelle guerre civili, conosce la pax romana che assicurauno sviluppo economico generalizzato. Le importazioniceramiche dalla penisola italica, dalla Gallia, dall’Iberiae dall’Africa assicurano ai Sardi una vasta produzionevascolare standardizzata che attiva le imitazioni da par-te dei figoli locali.Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia6 menzionauna qualità di argilla sarda, esportata dalla Sardinia peressere utilizzata per la pulitura delle vesti candide nonessendo adatta per quelle policrome.Il dato è comunque importante in quanto ci documen-ta l’estrazione dell’argilla in cave della Sardinia seppureper un utilizzo nelle fullonicae (tintolavanderie) del-l’antichità.Naturalmente altrettanto numerose dovettero essere lecave di argilla che alimentarono la produzione di vasel-

lame, di laterizi e di terracotte della Sardegna romana,anche in continuità con le tradizioni dei figoli del perio-do punico.I centri di origine punica della Sardegna continuano, in-fatti, nella produzione delle anfore “a siluro” che costi-tuiscono un’evoluzione dei tipi precedenti, destinate ve-rosimilmente al trasporto della produzione granaria, maanche salagioni.Tutte le produzioni locali in età romana, tuttavia, ebbe-ro scarsa originalità, destinate com’erano ad un mercatoesclusivamente locale, di ambito strettamente cittadino.Le analisi statistiche della ceramica comune rinvenuta aNora (area C) documentano per questa tipologia unanetta prevalenza (70%) delle produzioni locali su quelled’importazione ed una circolazione meramente cittadina.Si stacca da questo quadro la ceramica “fiammata”, chepresenta principalmente brocche e bacini, prodotta inbotteghe di Sulci ed esportata, via mare, a Karales, Nora,Neapolis, Tharros, Cornus ed eccezionalmente a Ostia.Il vasellame da mensa, da dispensa e da cucina, le lucer-ne, gli unguentari circolanti nelle città e nelle campagnedella Sardegna sono in buona parte di importazione daivari centri produttori del Mediterraneo, come merce diaccompagnamento delle derrate contenute entro anfore.Questi prodotti si propongono, come già il vasellameda mensa greco ed etrusco per gli ateliers locali fenici ecartaginesi, in qualità di modelli per i ceramisti locali:sorgono così le fabbriche di vernice nera a pasta grigia,le imitazioni della sigillata italica e della ceramica afri-cana chiara A e chiara D.

59

90

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 17-11-2007 10:22 Pagina 59

60

92

93

91

91. Anfora attica a figure nere, 520 a.C. circaterracotta, h 40 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.Anfora attica a figure nere del gruppo di Leagros con Antaios edHerakles (lato A) e due cavalieri (lato B), proviente dalla necropolipunica meridionale di Tharros.

92. Lekythos ariballica attica a figure rosse, 420-400 a.C.terracotta, h 10 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Questo contenitore di oli profumati proviene dalla necropoli punica meridionale di Tharros.

93. Amphoriskos rappresentante una mandorla, fine sec. V a.C.terracotta, h 9 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Il piccolo vaso proviene dalla necropoli punica meridionale di Tharros.Questo manufatto, straordinario per perizia esecutiva, conserval’impronta digitale del suo artefice impressa in pasta.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 17-11-2007 10:22 Pagina 60

Ricorrenti pure le imitazioni della ceramica comuneafricana e specialmente delle lucerne. Nel II secolo d.C.furono celebri in Tharros i fratelli (o padre e figlio?)Quinto Memmio Karo e Quinto Memmio Pudente perla loro bottega che produceva delle splendide lucerne,commerciate in tutta la Sardegna. Una delle lucerne,timbrata QMEMPVD (Quinti Memmi Pudentis = lucer-na fabbricata da Q.M.P.) reca sul disco la raffigurazionedi Giove in trono, impugnante la folgore, una secondala testa di guerriero con elmo, una terza, infine, di Q.Memmio Karo, una testa equina a sinistra e un giovi-netto con frutti tra le mani a destra.Ben più rilevanti furono le importazioni, in primis dicontenitori anforari che recavano svariate derrate (vino,olio, salse di pesce ecc.) e che potevano essere riutiliz-zati in Sardegna.Le anfore di tradizione punica del II e I secolo a.C.,contenenti salagioni, ma anche olio e, forse, vino, sonoparimenti massicciamente attestate in Sardegna, conparticolare riferimento alle produzioni nordafricane, edin specie tunisine, ma anche ibicenche. D’altro cantouna rotta che dall’Iberia orientale recava in Sardinia èda supporsi sulla base della diffusione nell’Isola dellaceramica iberica (sombreros de copa e boccalini a pastagrigia ampuritani). In età tardo repubblicana la Sardiniaè interessata da una vasta diffusione di anfore vinarierodie di tipi tardi del II secolo a.C. A partire dal tardo III secolo a.C. con prevalenza nel IIsecolo a.C. sono documentate nei centri costieri, ma an-che interni della Sardinia, le anfore vinarie greco-itali-che, almeno in parte provenienti da centri dell’Italiacentro-meridionale tirrenica. Nell’ambito dello stesso IIsecolo si affermano le anfore vinarie Dressel 1 di princi-pale produzione etrusca e campana, che soppiantano legreco-italiche intorno al 150 a.C., durando in uso nelcorso del I secolo a.C. Nei carichi navali a queste anforesi associano quelle apule e di altri centri dell’Adriatico(Lamboglia 2, Dressel 6), attestate ugualmente, in esem-pi non numerosi, in Sardegna.I relitti con carichi di anfore vinarie tardo repubblicanedocumentano, con chiarezza, la veicolazione contempo-ranea di “merci parassitarie”, debitamente impilate, desti-nate ad occupare gli spazi vuoti tra le anfore. Si tratta inparticolare delle ceramiche a vernice nera di produzionecampana (Campana A) e di area etrusca (Campana B),cui si associano altre serie vascolari sia a vernice nera,sia di altro genere (coppe megaresi anche di produzioneitalica, lucerne, vasi a pareti sottili, unguentaria).Le ceramiche a vernice nera in Campana A e B hannoanche in Sardinia una amplissima diffusione: appare in-teressante rilevare la presenza in numerosi casi di graf-fiti sia punici, sia greci, sia latini, benché non possaescludersi che in molti casi si tratti di iscrizioni di pos-sesso, piuttosto che di graffiti commerciali: gli elementionomastici documentati individuano, in ogni caso, quelnovero di negotiatores e mercatores che andarono astrutturarsi nelle antiche città puniche della Sardegna

61

94

95

94. Oinochoe, primo quarto sec. VI a.C.bucchero, h 23 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Si tratta di versatore per vino etrusco, rinvenuto nella necropolifenicia settentrionale di Tharros.

95. Kantharos, 600-570 a.C.bucchero, h 14 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Questa tazza da vino etrusca, proviene dalla necropoli feniciasettentrionale di Tharros.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 16-11-2007 22:32 Pagina 61

62

96

97

96. Maschera orrida, fine sec. VII-inizio VI a.C.terracotta da stampo, h 19 cm, Cagliari, MuseoArcheologico Nazionale.Proveniente dalla necropoli fenicia settentrionale di Tharros.

97. Maschera orrida di modello cartaginese, inizio sec. V a.C. terracotta da stampo graffita con inserti metallici, h 18 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Proveniente da una tomba a cassone di inumatodella necropoli punica di San Sperate.Troppo piccola per essere indossata, era appesaall’ingresso della sepoltura.

98. Maschera silenica, sec. V a.C.terracotta da stampo graffita, h 24 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Proveniente dalla necropoli punica meridionale di Tharros.

99. Askòs foggiato a cavalluccio, sec. V a.C.terracotta, h 20 cm, Oristano, AntiquariumArborense.Proveniente dalla necropoli punica meridionale di Tharros. In apparenza una fiasca, questaterracotta non ha alcuna funzione pratica.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 16-11-2007 22:32 Pagina 62

63

99

98

come nuovo e dinamico ceto sociale, possiamo ricorda-re: Se(xtus) Herennius, Ar(untius?), [-] Ann(eius) Na[---],Ser(gius?), Pr(oculus) Met(ilius?), [---P]riscu[s] a Karales;Licinus e Apollonis a Neapolis, Fuf(ius) a Gesturi.Il periodo alto imperiale documenta il prosieguo delleimportazioni italiche in Sardinia. Le anfore vinarie Dres-sel 2-4 di produzione tirrenica sono documentate spo-radicamente a Nora, Bithia, Tharros, Magomadas (agerBosanus), Turris Libisonis, Olbia, mentre appaiono re-lativamente più frequenti le anfore Dressel 2-4 dellaTarraconensis.Le merci italiche di accompagnamento comprendonoinnanzitutto la sigillata italica e tardo italica, le cerami-che a vernice rossa interna, le forme tardive di vasi apareti sottili e le lucerne. A parte devono considerarsi idolia, spesso bollati, di botteghe urbane, attestati in cen-tri prevalentemente costieri (Karales, Nora, Tharros, El-mas, Dolianova, Gergei, Biora), legati al trasporto e,successivamente, alla conservazione di liquidi e di aridi.Dal secondo quarto del I secolo d.C. si avvia l’importa-zione delle sigillate sud-galliche, benché l’akmé si ri-scontri nella prima metà del II secolo d.C. Sono noteforme lisce e decorate, anche nella varietà marmorizzatadi Le Graufesenque. Le anfore della Gallia, che traspor-tavano vino e, forse, garum, sono attestate in Sardegnasoprattutto con il tipo Gauloise 4 (Pélichet 47) diffusotra l’età flavia e l’età antonina, ma sono noti ancheesempi di Gauloise 3 e 5. Per il periodo tardo antico siconoscono importazioni di sigillata grigia.I traffici dalla penisola iberica verso la Sardinia in etàimperiale principiano, come si è detto, con le anforeDressel 2-4 della Tarraconense. A partire dall’età giulio-claudia iniziano le importazioni dei contenitori anforaridella Baetica (e forse anche della Mauretania Tingitana)con salse di pesce contenute nelle anfore Dressel 7-11,14, 17 e Beltrán II A e II B (attestate, queste ultime sinoad età antonina), documentate a Nora, Bithia, Othoca,Tharros, Korakodes portus, Corpus. Ancora dalla Baeti-ca derivano le anfore Haltern 70, forse connesse al tra-sporto del defrutum, un derivato del mosto, e le anforeolearie Dressel 20, attestate tra I e II secolo d.C. con re-sidue documentazioni nel corso del III e del IV secolod.C. In età tardo antica dall’area della Baetica e dellaLusitania giungono in Sardegna i contenitori di salsa dipesce Almagro 50 e 51 A-B.Dall’ultimo quarto del I secolo d.C. fino al principio delVII secolo d.C. si affermano anche in Sardinia le merciafricane. La Tripolitania esporta olio contenuto nelle an-fore dette Tripolitana I, II e III diffuse a Karales, Nora,Bithia, Neapolis, Othoca, Tharros, Cornus, ager Bosa-nus, Turris Libisonis, Olbia, Tertenia, Sarcapos, Uselis,Nureci, Sardara, cui si accompagnano lucerne tripolita-ne. Le più cospicue importazioni africane provengono,comunque, dalla Zeugitana e dalla Byzacena: si trattadelle anfore Africana I (olearia) e Africana II (prevalen-temente destinata alle salse di pesce). Per l’Africana Ipossiamo citare i rinvenimenti di Karales, Nora, Bithia,

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 16-11-2007 22:32 Pagina 63

64

100

101

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 16-11-2007 22:32 Pagina 64

103

104

102

100. Statuetta policroma del dio Bes, sec. III a.C.terracotta da stampo dipinta, h 20 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.La statuina, caratterizzata dal copricapo a piume e dal gonnellino, è stata rinvenuta nella necropoli punica di via is Maglias a Cagliari.

101. Divinità leontocefala, sec. II-I a.C.terracotta da stampo con aggiunte plastiche e inserti metallici, h 28 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.La divinità (Frugifero-Saturno), rappresentante un simulacro di cultodi fase romana repubblicana, è stata ritrovata nell’area del tofet diTharros, consacrato in piena età punica a Baal Hammon e a Tanit.

102. Dea seduta in trono con collana di semi in triplice serie, fine sec. V a.C.terracotta da stampo, h 19 cm, Oristano, Antiquarium Arborense.Derivata da un modello siceliota, di Akragas (Agrigento), provienedalla necropoli punica meridionale di Tharros.

103. Askòs configurato a coppia di sposi su kline, sec. IV a.C.terracotta da stampo dipinta, lungh. 15 cm, Oristano, Antiquarium Arborense.Proviene dalla necropoli punica meridionale di Tharros.

104. Testa di Herakles-Melkart, sec. IV a.C.terracotta da stampo dipinta, h 20 cm, Oristano, Antiquarium Arborense.La testa di Herakles-Melkart, caratterizzato dalla leonté (la spogliadel leone di Nemea ucciso da Herakles), è sormontata da un vasorituale traforato con la funzione di bruciaprofumi. Proviene dallanecropoli punica meridionale di Tharros.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 16-11-2007 22:32 Pagina 65

105 106

108107

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 16-11-2007 22:32 Pagina 66

111109 110

105. Ex voto costituito da unafigura femminile, sec. III a.C.terracotta con aggiunte plastiche, h 21 cm, Cagliari, MuseoArcheologico Nazionale.La figura, realizzata al tornio, denota,con la posizione della mano destrasul capo, una malattia da cui vennerisanata; proviene dal santuario didivinità salutare di Bithia.

106. Ex voto costituito da unafigura femminile, sec. III a.C.terracotta con aggiunte plastiche, h 20 cm, Cagliari, MuseoArcheologico Nazionale.Realizzato al tornio, proviene dal santuario di divinità salutare di Bithia.

107. Ex voto costituito da unafigura femminile, sec. III a.C.terracotta con aggiunte plastiche, h 23 cm, Cagliari, MuseoArcheologico Nazionale.Ex voto realizzato al tornio,costituito da una figura femminile,denotante, con la posizione dellemani sul ventre e sulla spallasinistra, le malattie da cui vennesalvata dalla divinità, provenientedal santuario di divinità salutare di Bithia.

108. Ex voto costituito da unafigura femminile, sec. III a.C.terracotta con aggiunte plastiche, h 17 cm, Cagliari, MuseoArcheologico Nazionale.Ex voto, realizzato al tornio,

costituito da una figura femminilecon in braccio il figlio, denotante la guarigione da una malattia ol’esito felice del parto; proviene dal santuario di divinità salutare di Bithia.

109. Ex voto, sec. III a.C.terracotta, h 14 cm, Cagliari,Museo ArcheologicoNazionale.L’ex voto, lavoratomanualmente, denotante,con la posizione dellamano destra sulla bocca,una malattia da cui vennerisanata, proviene dal santuario di divinità salutare di Neapolis.

110. Ex voto, sec. III a.C.terracotta, h 15 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Ex voto, lavorato manualmente,costituito da una figura maschiledenotante, con la posizione dellemani sull’inguine, una patologia da cui venne guarito, proviene dal santuario di divinità salutare di Neapolis.

111. Statuetta di giovinetto tra le spire del serpente, sec. I a.C. terracotta da stampo, h 76 cm,Cagliari, Museo ArcheologicoNazionale.Statuetta di giovinetto recumbenteavvolto nelle spire del serpente,ipostasi della divinità Esculapio.Proviene dal tempio di divinitàsalutare di Nora.

67

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 16-11-2007 22:33 Pagina 67

112

113

115

114

112. Anfora vinaria del tipo Dressel 1, ultimi decenni sec. II a.C.terracotta, h 123 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.In pasta presenta il marchio di un’officina di Sant’Antioco.

113. Coppa a pareti concave a vernice nera di produzione campana (Campana A), sec. II a.C.terracotta verniciata, h 7 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.

114. Patera a vernice nera di produzione campana (Campana A),sec. II a.C.terracotta verniciata, Ø 19 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.

115. Coppa emisferica a vernice nera di produzione campana(Campana A), sec. II a.C.terracotta verniciata, h 5,8 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 16-11-2007 22:33 Pagina 68

69

116

116. Brocchetta a corpo globulare, primi decenni sec. II d.C.terracotta, h 25 cm, Sassari, MuseoNazionale “G.A. Sanna”.Brocchetta a corpo globulare e collettocilindrico, decorata a striature a rotella, di produzione africana (sigillata chiara A).Questo esemplare, integro, viene da Cornus.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 16-11-2007 22:33 Pagina 69

117

118

119

121120

70

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 16-11-2007 22:33 Pagina 70

122

71

117. Fiasca da pellegrino, sec. II d.C.terracotta, h 20 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Fiasca da pellegrino in ceramica comune di probabile produzioneafricana.

118. Patera, fine sec. I-inizio II d.C.terracotta, Ø 14 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Patera in ceramica sigillata sudgallica nella varietà “marmorizzata”dell’atelier di Le Graufesanque.

119. Askòs, prima metà sec. II d.C.terracotta, lungh. 14 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Askòs a corpo oblungo in ceramica sigillata chiara A di produzioneafricana.

120. Askòs, seconda metà sec. II d.C.terracotta, h 12 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Askòs a corpo cilindrico dotato di solcature anulari, in ceramicasigillata chiara A di produzione africana.

121. Coppa, sec. III d.C.terracotta, h 6,5 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.Coppa in sigillata, di tipo corinzio.

122. Coppa, prima metà sec. I d.C.terracotta, h 15,5 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.Coppa in sigillata italica, decorata con maschere di Sileno, grappoli d’uva e girali nella fascia centrale.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 16-11-2007 22:33 Pagina 71

Sulci, Neapolis, Othoca, Tharros, Cornus, Turris Libiso-nis, Sarcapos, mentre per l’Africana II Karales, Nora, Bi-thia, Sulci, Neapolis, Tharros, Turris Libisonis. Sono do-cumentati i bolli di Fannius Fortunatus della col(onia)Hadr(umeti) a Turris Libisonis e a Tharros e di Clau-dius Optatus di Leptis Minus a Turris. Dalla MauretaniaCaesariensis provengono contenitori vinari, tra cui unobollato, di Tubusuctu, rinvenuto a Karales.La Proconsolare esporta grandiosi quantitativi di vasel-lame da mensa in sigillata chiara A e D, tra gli ultimidecenni del I secolo d.C. e il V secolo d.C. con unaflessione nel VI e la fine delle esportazioni al principiodel VII secolo. La sigillata chiara C, prodotta in officinedella Byzacena, è assai meno documentata con attesta-zioni a Karales, Nora, Neapolis, praetorium di Muru isBangius, Tharros, Cornus, Turris Libisonis, Sanluri, Dor-gali. Abbiamo ancora un’amplissima attestazione di ce-ramica africana da cucina e di lucerne di figlinae africa-ne, anche bollate. Minoritarie appaiono le importazioni dall’Egeo e dal-l’Oriente: si tratta di contenitori anforari delle isole del-l’Egeo (tipo Kapitän I e II) e forse di Cipro (tipo AgoràAtene J 46), noti soprattutto a Turris Libisonis e a Nora.Si aggiungano le più tardive anfore Late Roman 1 dellacosta meridionale della Turchia, di Rodi e Cipro. DaCorinto giungono nella media età imperiale le coppecorinzie a rilievo, attestate a Nora, Tharros, Turris Libi-sonis e Olbia.I laterizi utilizzati in Sardegna soprattutto per le copertu-re, per le tombe alla cappuccina, e per le conduzioniidriche, ma anche per i paramenti in laterizio o misti dilaterizi e tufelli sono essenzialmente di produzione loca-le. Non mancano tuttavia prodotti di importazione. Lepartite di tegulae e di altri elementi dell’opus doliare siaurbano (prodotto in ateliers di Roma), sia provincialepoterono giungere in Sardinia, sia come zavorra, sia co-me parte del carico: in dettaglio abbiamo un cospicuocarico di bipedales e tegulae urbane della fine dell’etàdomizianea e del principio di quella traianea (circa 100laterizi bollati, corrispondenti a un migliaio di manufatti)utilizzato nella villa marittima di Coddu de Acca Arra-mundu dell’ager neapolitanus, ma laterizi urbani sononoti a Karales, Elmas, Decimo Mannu, Arbus, Neapolis,Tharros, Turris Libisonis, Olbia. Terrecotte architettoni-che di officine laziali sono attestate nel Sardi Patris tem-plum a Antas, a Metalla-Grugua (Buggerru), a GurulisVetus-Padria, a Sorgono e a Ploaghe. Laterizi della GalliaNarbonense del tardo II-III secolo d.C. di L. Her(ennius)Opt(atus) sono documentati a Tharros e nel praetoriumdi Muru is Bangius. Appare rilevante l’individuazione didue relitti rispettivamente con tegulae provviste di ante-fisse a palmetta dirimpetto a Costa Rei (Sardegna sudorientale) e con laterizi urbani di età neroniana e tubulipresso l’Isola dei Cavoli (Villasimius).La produzione di statuette fittili, in gran parte votive, èattestata in varie città della Sardegna romana: a TurrisLibisonis erano attive le botteghe produttrici delle sar-

dae Cereres, succedanee dei busti di Demetra di tradizio-ne greco-punica. A Nora sono note le statue di camilli(assistenti del sacerdote) e di due giovinetti dormienticompresi tra le spire di serpenti dal tempio repubblicanodi Aesculapius e la statuetta di Venus col delfino con lascritta Veneri sacrum (consacrata a Venere). Dalla necro-poli di Sulci deriva un’altra statuina di Venus ancora ca-ratterizzata dalla ricca policromia.

Note

1. L’opera di P. Cintas, Céramique punique, edita a Tunisi nel 1950, ètributaria per la Sardegna delle predette ricerche, così come il succes-sivo manuale di A.M. Bisi, La ceramica punica, pubblicato nel 1970 earricchito dei quadri preliminari sulle ceramiche puniche di Olbia.

2. Tra gli studiosi di ambito fenicio e punico spicca la produzione di P.Bartoloni che ha dedicato numerosi volumi alla ceramica vascolare fe-nicia e punica della Sardegna, tra cui si segnalano: Studi sulla cerami-ca fenicia e punica di Sardegna, Roma 1983; Le anfore fenicie e puni-che di Sardegna, Roma 1988; La necropoli di Nora, Roma 1981 (con C.Tronchetti); La necropoli di Bitia-I, Roma 1996; “La necropoli di Tuvi-xeddu: tipologia e cronologia della ceramica”, in Rivista di Studi Fenici,n. 28, Roma 2000. Per quanto attiene le terrecotte figurate fenicie e car-taginesi è preminente la ricerca promossa da S. Moscati con l’edizionedei materiali dei musei di Cagliari, Sassari, Oristano, da lui stesso curatao affidata in particolare a M.L. Uberti. La ceramica greca ed etrusca èstata esemplarmente analizzata da M. Gras, Les importations du VIemesiècle avant J.C. à Tharros, Roma 1974; M. Gras, Trafics Thyrrenins ar-chaiques, Roma 1985. Contributi rilevanti sono stati offerti anche da C.Tronchetti sulla ceramica attica.

3. Ricerche di S. Sebis e A. Stiglitz.

4. Confluite poi nel X volume del Corpus Inscriptionum Latinarum.

5. Le seriazioni tipologiche delle ceramiche a vernice nera ad opera diN. Lamboglia e soprattutto di J.P. Morel, delle anfore e della ceramicasigillata italica, gallica e africana attraverso gli studi di Goudineau, diHayes e degli autori degli Atlanti delle forme ceramiche dell’Enciclope-dia dell’Arte Antica (Roma 1981-85) hanno offerto nella seconda metàdel XX secolo gli strumenti per le indagini scientifiche sulla ceramicaromana in Sardegna. Tra i numerosi studiosi che hanno affrontato il te-ma si segnala G. Pianu per il materiale anforario e C. Tronchetti, autoredi numerosi interventi su riviste scientifiche e di un manuale sull’argo-mento (1996). A mantenere vivo l’interesse sulla documentazione epi-grafica delle ceramiche è stata G. Sotgiu con il suo secondo volumedelle Iscrizioni latine della Sardegna sulle lucerne (Padova 1968) e connumerosi articoli.

6. Plinio il Vecchio, Naturalis historia, liber XXXV, p. 196.

72

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 16-11-2007 22:33 Pagina 72

124

125

126

123

123. Busto di Ceres, sec. I d.C.terracotta da stampo, h 20 cm, Cagliari, Museo ArcheologicoNazionale.La statuetta proviene da Padria; nei piccoli santuari campestridedicati alla dea Cerere, divinità delle messi, venivano offertiquesti busti, caratterizzati dal copricapo ornato di spighe.

124. Lucerna, sec. II d.C.terracotta da stampo, lungh. 10 cm, Oristano, AntiquariumArborense.Marchiata in pasta, sul fondo: QMEMPVD.Lucerna di produzione tharrense della fabbrica di QuintoMemmio Pudente.

125. Lucerna, sec. I d.C.terracotta da stampo, lungh. 11 cm, Sassari, Museo Nazionale“G.A. Sanna”.Decorata con la scena di Herakles e l’albero dei pomi nelgiardino delle Esperidi, proviene da Turris Libisonis.

126. Lucerna, sec. I d.C.terracotta da stampo, lungh. 14 cm, Sassari, Museo Nazionale“G.A. Sanna”.Lucerna bilicne con ansa bicorne derivata dai riflettori inmetallo per enfatizzare la luminosità, proveniente da TurrisLibisonis.

73

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 16-11-2007 22:33 Pagina 73

127

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 16-11-2007 22:33 Pagina 74

L’ampio arco cronologico lungo il quale si snodano l’etàbizantina e medievale (534-1492) vede l’avvicendarsinell’Isola di diverse dominazioni, dai Bizantini, ai Giudi-ci, ai Pisani, ai Genovesi, fino ai Catalani e agli Aragone-si, che confluendo nella Corona di Spagna alla fine delQuattrocento concludono il lungo Medioevo sardo.Un’eterogeneità storica e culturale, che inevitabilmentesi riflette anche sulla produzione e sul commercio deimanufatti.All’indomani della sconfitta dei Vandali a Tricamari (pres-so Cartagine) nel 534, secondo la narrazione dello stori-co bizantino Procopio, e al conseguente assorbimentonella sfera imperiale bizantina come parte della provin-cia d’Africa, l’Isola – già ben inserita nelle rotte maritti-me del bacino mediterraneo – si rifornisce prevalente-mente dal mercato africano. Fin dalla fine del I secolod.C. le botteghe situate nei territori delle attuali Tunisia,Algeria e Marocco avevano avviato una fiorente indu-stria di manufatti ceramici, caratterizzati da un’argilla dicolore rosso-arancio, molto depurata, lavorata a stampoe al tornio, ricoperta da una vernice lucente e brillantedello stesso colore, conosciuta sotto la definizione diTerra Sigillata Chiara (o Africana). Il pregevole aspettoe la qualità dei manufatti, che costituivano il servizio datavola, ne ha decretato la fortuna (con varianti, indicateconvenzionalmente come produzioni A, C, D ed E),tanto da dominare il mercato delle esportazioni. La Sar-degna, uno degli acquirenti più costanti, non aveva in-terrotto i rifornimenti neppure durante il dominio van-dalico (455 ca.-534), quando altrove si era verificato uncalo delle importazioni. A maggior ragione, all’indoma-ni della riconquista l’Isola, oltretutto parte dell’ImperoBizantino, continua a rifornirsi dai mercati nordafricani. Si tratta prevalentemente di oggetti da mensa (piatti, sco-delle, coppe, ciotole, brocchette per le bevande, mortaie vasi listello forse per servire le salse in tavola), inqua-drabili nelle produzioni D e in minor misura E, in argillameno depurata, di colore rossastro, tendente al matto-ne; con una vernice più spessa, talvolta opaca, polita e

semilucente, che non sempre copre tutto il vaso; si ar-ricchisce invece il repertorio ornamentale, realizzato amatrice, a rotella, o a rilievo applicato, con motivi di ti-po geometrico-floreale, simbolico o figurato d’ispirazio-ne cristiana. Dalle stesse officine vengono acquistati anche manufat-ti usati in cucina, per la preparazione, la conservazioneo la cottura dei cibi (piatti, coperchi, marmitte, tegamiecc.), che presentano le stesse caratteristiche in quantoad impasto, ma la vernice è solo parzialmente distribui-ta sul corpo ceramico, talvolta con politure a bande o astrisce, oppure con un annerimento a patina cinerogno-la delle superfici, più spesso limitatamente all’orlo. Rilevante quantitativamente e qualitativamente è la pro-duzione di lucerne, a serbatoio chiuso, dalla tipica for-ma ovoidale, realizzate a stampo, in cui si aprono uno odue fori (infundibula) per inserire l’olio o il sego (gras-so animale), che alimentano la fiamma prodotta da unostoppino acceso. Utilizzate nelle domus e negli edifici diculto, spesso inserite nelle sepolture, sono state ritrovatein grandissima quantità. Nei secoli V-VII vengono arric-chite spesso da decorazioni geometriche, floreali e sim-boliche, legate al patrimonio iconografico religioso (sim-boli giudaici e monogrammi del nome di Cristo). Nonpochi esemplari, inoltre, presentano un’ornamentazionefigurata, ispirata a scene desunte dai testi biblici dell’An-tico Testamento (Adamo ed Eva, il sacrificio di Isacco,Giona, Daniele fra i leoni, i tre giovani ebrei di Babilo-nia, ecc.) e del Nuovo Testamento (Pietro e Paolo, la re-surrezione di Lazzaro ed altri miracoli di Cristo, ecc.).Il ritrovamento di due matrici in Sardegna fa ipotizzareun’imitazione locale dei manufatti africani, secondo unaprocedura nota anche fuori dell’Isola.Questi oggetti godevano di un’ampia circolazione, ancheperché esportati approfittando delle navi da carico cheeffettuavano il trasporto di anfore, piene di olio, vino esalse. Tali contenitori, di medie e grosse dimensioni (finoa 1,5 m di altezza), o in forma di piccoli spatheia (nonsuperiori a 30 cm, destinati al garum, la salsa di pesceassai presente sulla mensa degli antichi), impilati vertical-mente l’uno accanto all’altro, lasciavano interstizi, riempi-ti dal vasellame d’uso domestico e da mensa (una pro-posta di ricostruzione è al Museo Archeologico di Olbia).

75

La ceramica del periodo bizantino e medievaleRossana Martorelli

127. Ciotola, Valenza, secondo quarto-metà sec. XIVterracotta smaltata a lustro, Ø 16 cm, Cagliari, Pinacoteca Nazionale.Fa parte del “Fondo Pula”.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 16-11-2007 22:33 Pagina 75

76

128 129

130 131

Fino alla chiusura delle officine ceramiche del Nordafri-ca, avvenuta nel 698, con la distruzione di Cartagine daparte degli Arabi, questo è il vasellame più utilizzato.Tuttavia, insieme al mercato africano, che esporta su lar-ga scala dalle regioni del Mar Nero sino alla penisolaiberica e nell’Europa continentale, si incrementano an-che le transazioni commerciali con i paesi mediorientali,inclusi anch’essi nell’Impero Bizantino, da cui l’Isola im-porta soprattutto vino e spezie. Il carico doveva partiredai porti di Bisanzio, in primo luogo, ma anche da altreregioni, come indica il ritrovamento in diverse città e vil-laggi rurali di anfore di produzione egeo-anatolica, istro-pontica, siro-palestinese e di area balcanica, che – purin una grande varietà tipologica – sono riconoscibili peruna caratteristica comune: alcune costolature orizzontalie parallele impresse sulla superficie esterna del vaso,che a sua volta tende ad assumere una forma globulare;talvolta sono contrassegnate da tituli picti in caratterigreci. Più rari in quest’epoca i manufatti provenienti dal-la penisola iberica (dalla quale sembra si importasserooltre all’olio betico e al vino tarraconense prodotti ine-renti la lavorazione del pesce), forse anche dalla Lusita-nia (attuale Portogallo).Contemporaneamente si registra una crescita numericadi quelle anfore, comparse già dalla fine del V secolo,caratterizzate da dimensioni ridotte rispetto alle prece-denti e da una forma più accentuatamente globulare.

Ispirate ai contenitori di provenienza mediorientale,sembrano invece prodotte su scala regionale, in ambitocampano (soprattutto a Miseno), siciliano, calabrese epugliese (ad es. ad Otranto), ma poi anche in Liguria,destinate ad una circolazione a medio raggio forse per iltrasporto di prodotti locali. Le stesse officine probabil-mente realizzavano imitazioni di lucerne africane, insie-me ad un tipo di lampada in terracotta, detta “siciliana”,o in generale “bizantina”, in argilla di colore variabile,contrassegnata da una decorazione aniconica, a perlineo segmenti, che progressivamente modifica la formadella lucerna africana tipica, allargando i due fori per lafuoriuscita del fumo, fino a divenire una tazzina apertae quasi circolare. Sempre d’importazione è la ceramica da fuoco dettaPantellerian Ware, che viaggiava con i carichi di ritor-no delle navi africane e orientali. Molto grezza, model-lata a mano o al tornio lento, è riconoscibile perché hanell’impasto componenti vulcaniche reperibili nell’isolaomonima.In Sardegna con una circolazione capillare i manufattiarrivano dapprima nelle città portuali: a Cagliari, dove iltraffico delle merci è regolamentato agli inizi del VII se-colo da una lex portus, nota perché in parte trascritta suuna lapide trovata a Donori; a Nora, Neapolis, Cornus,Porto Torres. Diverso è il caso di Olbia, il cui approdoera in antico fra i più importanti dell’Isola, soprattutto

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 16-11-2007 22:33 Pagina 76

per il collegamento con Roma. Fortemente danneggiatodall’attacco dei Vandali alla metà del V secolo, duranteil quale vengono affondate 10 navi da carico ancoratenell’approdo stesso, rimane molto penalizzato dal fattoche i relitti non vengono rimossi, rendendolo impratica-bile soprattutto per le navi di medie e grandi dimensio-ni, a causa del fondale basso, e dunque emarginandolorispetto ai circuiti di navigazione dell’epoca, come atte-sta con grande evidenza l’interruzione brusca di manu-fatti ceramici in terra sigillata chiara D e di lucerne.Grazie alla rete stradale, impiantata in epoca romana edancora efficiente in età bizantina, la distribuzione avvie-ne anche nei villaggi rurali dell’entroterra. Un contestoparticolarmente significativo per quantità e qualità deireperti risiede nell’hinterland cagliaritano, in località Pil-l’e matta (Quartucciu). Molteplici erano i mercati di riferimento, oltre a Cartagi-ne che costituisce il bacino di approvvigionamento prin-cipale; sono attestati scambi con la Liguria, almeno daparte dei territori della Sardegna settentrionale, ma cer-tamente molto frequenti erano i contatti con il VicinoOriente. Le navi da carico imbarcavano anche i fedeliche si recavano in Terra Santa. Il ritrovamento di un’am-polla fittile di San Mena a Tharros indica un avvenutopellegrinaggio da parte di un sardo nel VI-VII secolo. Inceramica si realizzavano, infatti, anche oggetti liturgici edevozionali, come il tipario conservato all’AntiquariumArborense di Oristano, che reca sul campo centrale l’im-magine di un santo nimbato e orante, identificabile gra-zie all’iscrizione in caratteri greci come San Giorgio, acui era intitolata l’omonima chiesa nei pressi di Cabras,oggi scomparsa.A quest’epoca risalgono le brocche di dimensioni ridottema costantemente comprese fra i 13 e 18 cm, con corpopiriforme o globulare, collo lungo cilindrico ed orlo ar-rotondato, in argilla beige e beige rosato fino al rosso,talvolta coperte da un leggero strato di ingobbio (argilladiluita in acqua che viene messa con funzione imper-meabilizzante). La peculiarità consiste nella lavorazio-ne della superficie esterna a fitte costolature orizzontalie parallele (cannerules), realizzate sul recipiente primadella cottura. Non è ancora chiaro il luogo di originedi tali oggetti, attestati fin nella Persia, genericamente

77

132

133

128, 130. Lucerna con raffigurazione giudaica del candelabro a sette bracci (menorah), sec. IV-V terracotta, lungh. 8,5 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.

129, 131. Lucerna cosiddetta “siciliana” o “bizantina”, sec. VI-VIIterracotta, lungh. 10,5 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.

132. Tipario con raffigurazione di San Giorgio megalomartire edeulogia dalla distrutta chiesa di San Giorgio di Cabras, sec. VIIterracotta, Ø 9,5 cm, Oristano, Antiquarium Arborense.

133. Brocchetta cosiddetta “bizantina” con costolature, sec. VI-VII terracotta, h 17 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.La brocchetta proviene da Santadi, località Pani-Loriga.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 16-11-2007 22:33 Pagina 77

classificati come “brocchette bizantine”; nell’Isola ven-gono ritrovati prevalentemente in contesti funerari, sug-gerendo l’ipotesi che i parenti del defunto le inserisserointenzionalmente nella tomba come corredo di accom-pagnamento nel viaggio ultraterreno.Essi rientrano nella classe convenzionalmente, anchese impropriamente, definita “ceramica d’uso comune”,destinata alla dispensa per la conservazione e la pre-parazione dei cibi e alla cucina per la cottura (boccali,brocche, catini, olle, casseruole, pentole), per la qualesempre di più, in virtù della destinazione funzionale cheprivilegia la praticità e la convenienza rispetto alla bel-lezza esteriore, si ipotizza anche – ma non esclusiva-mente – una produzione locale per coprire il fabbisognodelle comunità urbane e rurali. Fondamentale è il contri-buto dell’archeometria, al fine di individuare l’area diprovenienza della materia prima, apporto che si ha gra-zie alle analisi petrografiche effettuate talvolta sui reper-ti. Più spesso, però, non è possibile affermare con cer-tezza se si tratti di una produzione in loco. Le perplessitàsono accresciute anche dal fatto che tali manufatti, pro-prio per la destinazione funzionale, mantengono la me-desima forma in un lungo arco di tempo (brocche, botti-glie, olle, catini, bacini, pentole, marmitte, testi per ilpane, vasi a listello), talvolta fino ad oggi.Alcuni esemplari, in argilla grigia, rosa e beige, accomu-nati da un impasto depurato con inclusi bianchi, rossi equarzosi, che alla caduta produce un suono quasi me-tallico, sembrano una produzione sarda. Suppellettiledomestica di forma prevalentemente chiusa (boccali,brocche, olle, casseruole, pentole) mostra spesso su en-trambe le superfici una rifinitura ottenuta mediante unastecca, che disegna striature lucide verticali, orizzontali,

oblique, a zig-zag o variamente combinate fra loro, coneffetto decorativo (ceramica con decorazioni lineari po-lite). La notevole presenza in Sardegna, contro scarsiconfronti puntuali in ambito extrainsulare, orienta versouna lavorazione isolana, particolarmente concentratanel Campidano. In alcuni casi l’uso della stecca, secon-do la pressione esercitata dal ceramista e le condizioniin cui è il vaso (prima o dopo la cottura), può produrrelinee e motivi incisi (se lo strumento penetra l’argilla,tracciando un solco) o graffiti (se, al contrario, producesolo uno sgraffio superficiale). Con il pettine si hannoinvece incisioni o impressioni a linee parallele. Un altro tipo, in genere brocche o olle di forma arro-tondata e con bocca larga, sul corpo ceramico rivestitodi un velo di ingobbio, reca una decorazione dipinta,in rosso, verde e bruno, a cerchi, spirali, archi. Ritrova-ti in grande quantità, sembrano mantenere in vita latradizione tecnologica della cosiddetta ceramica “fiam-mata”, prodotta ed utilizzata soprattutto nella Sardegnameridionale in età imperiale, in cui fasce di colore bru-no o rossiccio con andamento orizzontale danno origi-ne a bande più strette e curve simili a “fiamme”.Si ritiene fosse di produzione sarda anche un altro insie-me di oggetti, in argilla scura, caratterizzati da stampi-gliature di tipo geometrico, impresse sul manufatto acrudo mediante strumenti di vario tipo (cannucce, pun-zoni, stampi ecc.). Il motivo connota la ceramica deiLongobardi, tanto che si è proposta una connessione senon con i Longobardi stessi, che in realtà non occupanomai l’Isola, almeno con gruppi etnici germanici. La par-ticolare concentrazione di ritrovamenti dall’entroterraoristanese fino al golfo di Orosei, spesso negli antichinuraghi riabitati, è stata ritenuta indizio dell’esistenza dipiccole comunità allogene, isolate in Barbagia, ma l’ipo-tesi è stata smentita, sia perché tale ceramica è stata tro-vata anche in aree costiere, sia perché il repertorio de-corativo, presente sì nell’area longobarda, rievoca anchequello della ben più nota sigillata africana.Infine, una lucerna ritrovata a Cagliari, in vico III Lanusei,diversamente dalle altre ha il serbatoio rotondo e, purrichiamando manufatti dell’area siciliana o mediorienta-le, sembra per il momento un unicum, forse una pro-duzione locale, databile fra la fine del V e l’VIII secolo.Molto difficile è a tutt’oggi definire con certezza tipi eforme di oggetti ceramici prodotti o importati in Sarde-gna fra l’inizio dell’VIII e l’XI secolo. La distruzione diCartagine da parte degli Arabi (698) causa almeno inun primo momento – come si è ricordato – la chiusuradelle figline dell’Africa settentrionale, che riapronoqualche tempo dopo, producendo però manufatti concaratteristiche tipologiche e formali marcatamente isla-miche, ben diverse da ciò che aveva così profonda-mente contrassegnato i mercati fino alla fine del VII se-colo. Il progressivo allontanamento dalla madrepatriaBisanzio, di cui per molto tempo l’Isola costituisce unasorta di avamposto anche militare, conduce attraversouna progressiva emancipazione alla formazione di

78

134

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 16-11-2007 22:33 Pagina 78

quattro giudicati, guidati da uno iudex. Le ripercussionidi tali eventi sull’economia si manifestano in una rare-fazione del commercio con l’esterno, sebbene anche inSardegna come altrove circolino alcuni manufatti d’im-portazione, accanto alla grande quantità di ceramiched’uso comune, di probabile produzione locale, che nonsembrano differenziarsi dagli oggetti più antichi entratiormai nella tradizione, per cui risulta difficile individua-re con sicurezza i prodotti di quest’epoca.Le anfore a corpo globulare apparse sul mercato nel Vsecolo (supra) continuano, talvolta assumendo una for-ma più allungata, fino all’XI-XII secolo e finiscono persostituire il commercio interregionale con un mercatopiù ridotto proprio in questa fase intermedia fra l’arrivodegli Arabi e la nascita delle Repubbliche Marinare. InSardegna sono attestate soprattutto nel sud. A Cagliari,presso il cimitero di Bonaria, è stato recuperato un nu-trito gruppo di esemplari – che recano incise le letteregreche PA (Pateres), forse da interpretare come monaci– in una “discarica di rifiuti” pertinente quasi certamenteal cenobio sorto in relazione alla chiesa di San Bardilio,in origine Sancta Maria de portu gruttis. Fra le terre gia-ceva un frammento di Forum Ware (infra), che permet-teva di datare anche gli altri oggetti all’VIII-IX secolo.Risale a questo arco cronologico, infatti, la circolazionedi alcuni oggetti noti come “Ceramica a vetrina pesante-Forum Ware” (Ceramica del Foro), nome derivato dalprimo ritrovamento agli inizi del Novecento nel ForoRomano di Roma, nei pressi della chiesa di Santa MariaAntiqua. I manufatti sono modellati in argilla ben depu-rata e il corpo ceramico è rivestito da uno strato di pastavetrosa al piombo, piuttosto spesso, che a contatto con

il calore in cottura produce per l’appunto dei processi divetrificazione, rendendo i prodotti lucidi e brillanti. So-no brocche o boccali con versatoio unito mediante unponticello, catini e lucerne, caratterizzati da una superfi-cie di colore verde scuro, decorata in rilievo con motivi“a cordoni”, “a scaglie”, “a pasticche”, “a petali”, “a bu-gne”, realizzati con la medesima pasta del rivestimento.Con un processo evolutivo naturale la tecnica si perfe-ziona e nell’XI secolo la vetrina più sottile, distribuita inmaniera meno uniforme, dà origine alla definizione diceramica “a vetrina sparsa” (Sparse Glazed).La preziosità e la raffinatezza di tali oggetti, la cui lavora-zione richiede evidentemente una perizia degli artigianie di conseguenza genera un aumento dei prezzi, ha cer-tamente influito sulle modalità di diffusione e sulla ri-chiesta di mercato. Si tratta, infatti, di una produzione li-mitata nel tempo e nel territorio, che risale al periodocompreso fra la metà dell’VIII secolo e la metà del suc-cessivo, destinata probabilmente solo ad un’utenza d’éli-te. Alcuni studiosi, riscontrando una concentrazione nelLazio e in Campania, in strutture in qualche modo legatealla Chiesa di Roma, hanno pensato ad una produzionevicina alla committenza ecclesiastica, in un’epoca in cuiRoma e il papato, sotto l’influenza e la protezione delladinastia dei Carolingi, vivono una notevole rinascita eco-nomica ed artistica. Altri centri di recente sono stati indi-viduati nell’Italia centro-meridionale e in Sicilia, ma sem-bra che le esportazioni avvenissero dal Lazio e da Roma.Sia pure in misura minore, infatti, tali oggetti hanno vistouna circolazione anche al di fuori dei territori ricordati.In Sardegna, allo stato attuale delle conoscenze, sem-brano circolare soprattutto nel nord. A Porto Torres un

79

135

134. Ampolla per i pellegrini con effige diSan Mena fra i cammelli, sec. VI-VIIterracotta, h 19 cm, Sassari, MuseoNazionale “G.A. Sanna”.La fiasca proviene da Tharros.

135. Boccaletto, sec. VIII-IXterracotta invetriata, h 8,5 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.Il piccolo boccale proviene dal Palazzo di Re Barbaro a Porto Torres.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 16-11-2007 22:33 Pagina 79

lato componenti geologiche proprie di argille dell’arealaziale a nord di Roma, da cui proveniva la materia pri-ma, non si sa però se già lavorata. In questi secoli gli scambi con l’esterno, sebbene più ra-ri, sono attestati anche dal ritrovamento di monete ara-be; da giare, che presentano sul corpo iscrizioni in ca-ratteri cufici (tipici delle popolazioni islamiche); da vasiin vetrina turchese, ottenuta aggiungendo il rame allavernice alcalina, attestata in area andalusa, ma anche aValenza e forse a Denia; infine, da sporadici frammentidi manufatti, che per caratteristiche tecniche (soprattuttodei rivestimenti vetrosi monocromi e opachi) sembranoriconducibili a centri attivi nelle aree sotto la dominazio-ne islamica.Il ritrovamento di monete lucchesi emesse alla fine delX secolo, ad esempio a Sassari, è indizio di una ripresadi rapporti commerciali più sistematici fra la Sardegna egli altri paesi del Mediterraneo, evidentemente da ricol-legare alla situazione storico-politica. Sebbene non visiano esplicite indicazioni documentarie sull’inizio dellaripartizione della Sardegna in quattro giudicati, si puòpresumere che l’emancipazione da Bisanzio, avviatanei secoli precedenti, giunga a compimento proprio nelcorso del X secolo. Il distacco dalla capitale conduce igovernanti dell’Isola a stringere legami con Pisa, che in-sieme a Genova presta il suo aiuto contro la pirateriamusulmana, legami che dopo la sconfitta del califfo diDenia, Mughaid (1015), si trasformano in una vera sot-tomissione, favorendo nel contempo una riapertura delmercato delle importazioni. Intorno al 1100 nel Mediterraneo occidentale si diffondela ceramica invetriata, prodotta nel Maghreb, nella Siciliaislamica e nel Mediterraneo orientale. Sul manufatto vie-ne stesa una miscela vetrosa, contenente ossidi di piom-bo, impermeabilizzante e trasparente, che lascia intrave-dere il corpo del vaso, rendendolo lucido e brillante;oppure verde, se all’impasto si aggiunge ramina; giallocon la ferraccia. In Sardegna la circolazione, sia pure li-mitata, della Forum Ware aveva già introdotto la tecnicadell’invetriatura, che però nel Medioevo continua ad ar-rivare tramite il mercato esterno. Nei secoli XI-XII si im-portano bacini (ciotole), che vengono murati nelle chie-se, i più antichi dei quali ancora visibili a San Gavino diPorto Torres (terminus ante quem 1111) e a San Nicoladi Trullas. Nei secoli centrali del Medioevo si creano diverse va-rianti. Nell’area tirrenica centro-settentrionale si producela cosiddetta “graffita arcaica”, realizzata incidendo conuno strumento a punta un solco sul manufatto a crudo,rivestito solo da uno strato di engobbio chiaro, su cuiviene stesa la vetrina dopo la cottura. La tecnica dell’in-cisione, molto antica, nell’VIII secolo vede una fiorenterinascita nei paesi dell’Estremo Oriente, da dove si dif-fonde tramite la Persia fra il X e il XIII secolo, sotto ladominazione selgiuchide, nelle aree bizantine. Grazieall’attività delle Repubbliche Marinare, dagli inizi delXII secolo i manufatti iniziano a circolare in Occidente,

80

136

136. Vasetto di produzione egiziana, sec. XIIterracotta graffita e dipinta, h 11,5 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.

137. Giara, sec. XIIIterracotta impressa e colorata, h 85 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.La grande giara presenta una decorazione impressa pseudoepigrafica a bande orizzontali. Sulla superficie si conservano tracce dell’originaria colorazione. Il reperto proviene dallo scavosubacqueo sul relitto di Cala dell’Olandese.

boccaletto globulare, monoansato, con beccuccio bilo-bato, verde-giallo, decorato “a petali” applicati, è stato ri-trovato nel cosiddetto Palazzo di Re Barbaro, il grossocomplesso termale di epoca romana ancora oggi visibileal centro dell’area archeologica, frequentato fino all’etàaltomedievale. Altri reperti sono noti a Porto Torres, Sor-so-Santa Filitica, Santa Maria di Coghinas, Sassari negliscavi nel cortile del convento delle Monache Cappucci-ne, dove sono riaffiorati i resti di un abitato medievale,forse Thathari. Ad Olbia una brocca quasi integra, ovoi-dale, con versatoio, decorata “a petali” applicati, è statarecuperata negli scavi effettuati nel porto antico.Il ritrovamento a Sorso di una bolla del papa Nicolò I(855-867), diretta ai giudici e al popolo sardo, control’uso di contrarre nozze incestuose e illecite fra consan-guinei, ha spinto a ricollegare la circolazione sia purelimitata di Forum Ware, attraverso i porti di Turris Libi-sonis e di Olbia (ripristinato sull’interramento che avevacoperto le navi affondate dai Vandali), a contatti con laChiesa di Roma. Le analisi archeometriche hanno rive-

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 17-11-2007 10:20 Pagina 80

81

137

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 13-11-2007 11:48 Pagina 81

138

139 140

138. Boccale, Malaga, prima metà sec. XIVterracotta smaltata a lustro, h 20,3 cm, Cagliari, Pinacoteca Nazionale.Fa parte del “Fondo Pula”.

139. Ciotola, Valenza, secondo quarto-metà sec. XIVterracotta smaltata a lustro, Ø 16,2 cm, Cagliari, Pinacoteca Nazionale.Fa parte del “Fondo Pula”.

140. Ciotola, Valenza, secondo quarto-metà sec. XIVterracotta smaltata a lustro, Ø 15,2 cm, Cagliari, Pinacoteca Nazionale.Fa parte del “Fondo Pula”.

141. Ciotola, Valenza, secondo quarto-metà sec. XIVterracotta smaltata a lustro, Ø 14 cm, Cagliari, Pinacoteca Nazionale.Fa parte del “Fondo Pula”.

142. Ciotola, Valenza, secondo quarto-metà sec. XIVterracotta smaltata a lustro, Ø 15,3 cm, Cagliari, Pinacoteca Nazionale.Fa parte del “Fondo Pula”.

143. Ciotola, Valenza, secondo quarto-metà sec. XIVterracotta smaltata a lustro, Ø 14,7 cm, Cagliari, Pinacoteca Nazionale.Fa parte del “Fondo Pula”.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 13-11-2007 11:48 Pagina 82

141

142 143

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 13-11-2007 11:48 Pagina 83

veicolando anche le competenze tecnologiche, tanto chealla fine del XIII secolo i ceramisti sono ormai esperti ein grado di realizzare prodotti di qualità, con connota-zioni regionali originali, per rispondere ad una domandasempre crescente. Diversi centri della Liguria dalla metàdel XII sino al XV secolo realizzano la cosiddetta “graffi-ta arcaica tirrenica”, incidendo motivi geometrici e fito-morfi su bacini, scodelle, ciotoloni e piatti. Nello stessoperiodo dall’area toscana, in particolare da Pisa, proven-gono la “graffita tarda” e la “graffita a stecca”, in cui siaggiungono motivi spiraliformi, floreali, a girandola, ani-mali e stemmi araldici, incisi con una punta fine e dipin-ti a ramina e ferraccia. La “graffita” è anche in Sardegna la ceramica da mensache soppianta le produzioni africane, scomparse dalmercato almeno dagli inizi dell’VIII secolo. I manufatti,quasi esclusivamente d’importazione, pongono le basiper la futura industria ceramica sarda, che si esprimeràautonomamente solo nell’età moderna. Nel XIII e XIVsecolo sia nelle città che nelle campagne diventa sem-pre più frequente l’uso di manufatti invetriati, destinatinon solo alla mensa, ma anche alla dispensa e alla cot-tura. Alcuni, ritrovati nell’area algherese e nord-occiden-tale, sono forse di produzione locale, oppure provengo-no dalla Linguadoca catalana e dalla Provenza, ma anchedalla Catalogna stessa. Si riconoscono la greixonera (cas-seruola), il llibrell (catino), la setra (orciolo), l’aiguamans(per lavare le mani prima e dopo il pasto).

84

144 145

146

144. Boccale, sec. XIVterracotta invetriata, h 16 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.Si tratta di un manufatto proveniente da Geridu (Sorso).

145. Boccale, sec. XIVterracotta invetriata, h 28 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.Si tratta di un manufatto proveniente da Geridu (Sorso).

146. Piatto, sec. XIVterracotta invetriata, h 28 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.Si tratta di un manufatto proveniente da Geridu (Sorso).

147. Salvadanaio, sec. XIVterracotta, h 11 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.Fa parte di un gruppo di sette salvadanai che giacevano in un silosdel Duomo di Sassari.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 13-11-2007 11:48 Pagina 84

Non sempre, però, il rivestimento è di tipo vetroso, cherisulta più dispendioso e rende il manufatto maggior-mente esposto alle fratture. Talvolta il vaso, già rifinitoal tornio ma non ancora cotto, viene ricoperto, comegià in età imperiale e tardoantica, dall’ingobbio, ottenu-to solitamente con argilla bianca (generalmente caolini-ca, che non vetrifica e non si colora alla cottura) diluitain acqua (da non confondersi con un semplice schiari-mento della superficie) e produce un effetto opaco ecoprente, mascherando le impurità. In quest’epoca siusa spesso anche smalto lattescente. Le ceramiche co-siddette ingobbiate, realizzate in area toscana e ligurenel XIII e XIV secolo, sono ben attestate in Sardegna.Nei secoli XII-XIII giungono inoltre ceramiche con de-corazione a motivi spiraliformi, dipinti in verde raminae bruno manganese sull’ingobbio, o direttamente sulbiscotto, ma comunque sotto vetrina trasparente (SpiralWare), che sembra ormai accertato siano una produzio-ne dell’area campana certamente a Napoli e Salerno.La vera innovazione del Medioevo è la ceramica smal-tata, la cosiddetta maiolica: il vaso in argilla viene rico-perto da una pasta che contiene smalto stannifero, luci-do o opaco, ma con effetto coprente. Già nel IX secologli artigiani mediorientali avevano scoperto che attra-verso l’aggiunta di ossido di stagno era possibile creareun fondo bianco su cui dipingere la decorazione, primadi una nuova cottura, dando vita così ad una manifattu-ra che poteva entrare in competizione con la porcella-na bianca cinese. Sembra che tale tecnica sia stata in-trodotta in Occidente sia dai vasai musulmani stanziatiin Sicilia durante le loro migrazioni, sia attraverso i ba-cini, inseriti con funzione decorativa nelle murature dinumerose chiese romaniche in area tirrenica, giunti co-me bottino delle guerre nei siti della costa africana, maanche grazie al commercio, ai pellegrini e ai crociatiche si recavano in Terra Santa. Con l’intensificarsi deicommerci, oltre agli oggetti viene introdotta anche latecnica di lavorazione che, così come accade per l’inve-triata, ben presto viene applicata in altre regioni. In Italia la ceramica smaltata si diffonde fin dagli inizidel Duecento, con connotazioni regionali: “protomaioli-ca” nel Meridione (usata soprattutto per le forme aper-te), “ceramica laziale” (in area umbro-laziale) e “maiolicaarcaica” nel Settentrione. In particolare, dalle botteghetoscane e liguri, parallelamente alla produzione dellaceramica graffita, nel corso del XIII secolo proviene unafiorente manifattura di maioliche, con oggetti di notevo-le pregio, soprattutto boccali. Pisa è certamente uno deicentri produttori più precoci, probabilmente perché co-me Repubblica Marinara ha presto contatti con l’Orien-te. Il legame intrecciato con la Sardegna nell’XI secolo –che si consolida nel 1217 con la fondazione di Castel diCastro, donato dalla giudicessa Benedetta, destinato adivenire nel 1258, dopo la distruzione della cittadellagiudicale di Santa Gilla, l’erede dell’antica Cagliari e lacapitale del dominio pisano, che si estende per un’am-pia parte dell’Isola – è certamente la causa della capilla-

re diffusione di tale ceramica, con particolare concentra-zione nel meridione. Anche Savona nel corso del XIIIsecolo avvia una fiorente attività ceramistica, attestata inSardegna, aperta ai mercati liguri, savonesi, soprattuttonelle aree centro-settentrionali, dove invece è più senti-ta la presenza genovese. Nel secolo successivo le pro-duzioni pisane e savonesi sono generalmente associatefra loro, con una maggiore o minore concentrazione,che può dipendere – ma non è una regola – da una dif-ferenziazione geografica e politica. Con la dominazione dei Catalani e degli Aragonesi, chenel 1324 conquistano Villa di Chiesa (Iglesias), nel 1326entrano definitivamente in possesso di Cagliari e nel1409 sconfiggono nella battaglia di Sanluri l’ultimo deiGiudicati (quello di Arborea), si diffonde anche la cera-mica smaltata di produzione iberica. A partire dalla ri-conquista della penisola iberica da parte di Giacomo Inel 1238, nei territori sottoposti agli Arabi inizia unaproduzione ceramica, di tipo moresco, che integra ele-menti musulmani ad altri di tradizione romanica e goti-ca, finché con il tempo gli artigiani musulmani sostitui-scono il proprio patrimonio decorativo (pigne, segnoallusivo alla felicità) con motivi cristiani (decoro figuratoe con figure umane). Si tratta perlopiù di stoviglie da ta-vola (non mancano vasi da fiori, candelabri), che esco-no da diversi centri del regno, ma soprattutto dalle offi-cine di Valencia, Paterna, Manresa, Manises, Barcellona,Malaga, Alicante, e dall’Andalusia.Pur mantenendo caratteri comuni, i manufatti si diffe-renziano in ogni centro produttivo. A Paterna, attivocertamente dalla fine del XIII secolo, ma forse in pos-sesso di una tradizione ceramistica già dall’XI, interrotta

85

147

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 13-11-2007 11:48 Pagina 85

durante le invasioni degli almoravidi e degli almoadi, ivasi, in argilla beige-giallino, recano un disegno dipintoin verde all’interno e bruno per i contorni. Questo tipo– somigliante alle produzioni siciliane e tirreniche –,esportato su vasta scala, giunge in Sardegna.A Manises si sviluppa, invece, la produzione “a blu e lu-stro”. Su uno smalto più ricco di stagno, e dunque piùcoprente, viene dipinta la decorazione in blu cobalto elustro metallico, soli o associati fra loro. Il lustro consi-ste in una pellicola metallica, realizzata con sali di ramee d’argento, aggiunta dopo la seconda cottura, renden-do necessaria così una terza cottura in fornace a tempe-rature più basse e in atmosfera priva di ossigeno, perfissare bene la pellicola e dare un effetto di iridescenza,creando un prodotto di lusso, costoso, ma facile a rom-persi durante le ripetute cotture. Eredità tecnica del-l’Oriente islamico, introdotta probabilmente dagli arti-giani islamici di Granada e Malaga, viene applicata suun ricco repertorio di forme che, oltre al vasellame datavola, comprende lucerne, catini, candelabri decoraticon motivi vegetali, figure umane, eulogie ad Allah esegni cristiani. In Sardegna i ritrovamenti sempre piùnumerosi, sia nelle grandi città che nei castelli e nei vil-laggi, attestano una diffusione capillare, nonostantel’aspetto economico, che si manifesta fin dai primi con-tatti con i Catalani e gli Aragonesi, anteriormente allaconquista completa dell’Isola. Ad esempio, diversi esem-plari di pregio sono stati ritrovati nel castello di Monreale(Sardara), di proprietà della famiglia dei Giudici di Arbo-rea, in particolare di Eleonora. Il repertorio più significa-tivo è, tuttavia, il cosiddetto “Fondo Pula”, un cospicuonumero di oggetti ritrovati a Pula, conservato presso laPinacoteca di Cagliari, che ha come caratteristica un lu-stro un po’ sbiadito.In Catalogna, fin dal XIII secolo, figline operanti soprat-tutto a Barcellona e a Manresa producono un tipo dimaiolica, molto semplice e in stile cosiddetto severo, inverde e bruno. La ceramica iberica si diffonde in maniera capillare nel-l’Isola, introdotta almeno attraverso i porti di Cagliari eOristano. Inoltre, Alghero, dal 1354 popolata da Catalani,attraverso il commercio del corallo diviene sicuramenteil fornitore principale di ceramiche valenzane e catalane.La Sardegna costituiva una tappa fondamentale nella ru-ta des illes, il percorso della flotta catalana verso l’Orientesulla ruta de les especes. Dalla penisola iberica venivanorichiesti: sale, lane, pelli, formaggio, corallo e minerali;dunque le navi partivano dal luogo di origine cariche divasellame e tornavano con le merci. Durante l’età giudicale, che costituisce il Medioevo sar-do, in cui si inseriscono dapprima le potenze pisane egenovesi, poi i Catalani e gli Aragonesi, il panorama èdominato – come si è visto – da merci d’importazione,diversamente da quanto accade ad esempio nella vici-na Sicilia, dove, dalla dominazione araba alla dinastianormanna e sveva, il mercato locale è molto fiorente.La Sardegna fino al XV-XVI secolo sembra dipendente

dal commercio estero, almeno per quanto riguarda leproduzioni rivestite (invetriate e maioliche): ai mercantistranieri si richiedono soprattutto oggetti raffinati, dipregevole fattura, che dovevano costituire, come in pas-sato, il servizio da tavola. Le tecniche dell’invetriatura edello smalto, che costituiscono la novità dell’età medie-vale anche nell’Isola, sembrano riservate a prodotti im-portati, sebbene ritrovamenti recenti comincino a porredegli interrogativi. Alcuni reperti dall’oristanese, databilial XIII-XIV secolo (ad impasto rossiccio e invetriaturasolo all’esterno, di colore bruno-giallastro, bollosa nonuniforme, ma piuttosto grezza), inducono a pensare aduna progressiva assimilazione dei procedimenti tecnolo-gici da parte dei vasai locali, che pongono le basi perquella produzione che proprio nell’oristanese diventeràcaratteristica nei secoli XVI e XVII. Anche recenti ritro-vamenti nella Sardegna nord-occidentale (Geridu, Thie-si, Banari, Bosa, Monteleone Roccadoria, Alghero, Osilo,Sassari), che si discostano per le caratteristiche tecnolo-giche dalle produzioni di Pisa e Savona, hanno suggeri-to la presenza di botteghe locali, forse ad opera di mae-stranze toscane e liguri trasferitesi grazie agli intensirapporti commerciali e politici che gli abitanti tenevanosoprattutto con Genova e la Liguria.Ad Oristano le fonti segnalano botteghe di mercanti pi-sani e genovesi lungo la ruga mercatorum, adiacentealla cattedrale appena edificata, ma non ci sono indica-zioni precise relativamente ad un’attività artigianale fina-lizzata alle produzioni rivestite. Forse solo nel caso delmercante catalano Guillem de Lloret, che nel 1301 gesti-va una bottega dove si trovavano scudellas et taglierosde terra in quantitate, si può ipotizzare, data la prove-nienza, che utilizzasse procedimenti tecnici della madre-patria. Alla fine del XV secolo – sembra – si ha la piùantica attestazione dell’esistenza ad Oristano de su bur-gu de sos coniolargios.Invece nell’allusione, riportata nel Condaghe di Bonarca-do, a su stregiu, termine che nel Medioevo indicava l’in-sieme delle stoviglie, si deve probabilmente leggere unriferimento alla ceramica non rivestita. Infatti, in questoperiodo, oltre ai manufatti d’importazione, usati preva-lentemente per l’apparecchiatura della tavola, circolanooggetti d’uso comune e di minor pregio estetico, impro-priamente definiti ceramiche “prive di rivestimento”,“acrome”, “grezze” ecc., per i quali si ripropongono lemedesime problematiche della cosiddetta “ceramica co-mune” dei secoli precedenti. Si tratta di oggetti realizzatiin argille di diverso colore, con impasto più o menogrossolano, privi del rivestimento invetriato o a smaltostannifero, predisposti per l’uso domestico, sulla mensa,nella dispensa e in cucina per la conservazione e la cot-tura dei cibi: olle e pentole da fuoco vengono dal castel-lo di Monreale e dal villaggio di Ardara, presso il castellodei giudici di Torres; sette salvadanai giacevano in un si-los del Duomo di Sassari; borracce e colatoi usati proba-bilmente per la lavorazione e la conservazione dei pro-dotti caseari giungono ancora dal castello di Monreale.

86

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 13-11-2007 11:48 Pagina 86

Continua in quest’epoca la produzione di manufatti dipiccole dimensioni (anforette, boccali e piccole olle),caratterizzati da un’argilla di colore variabile dal camo-scio alle sfumature del beige, che recano sulla superficiedel vaso e delle anse, nuda o rivestita da un leggerostrato di ingobbio, una decorazione dipinta in rosso ci-nabro e bruno manganese a bande, a graticcio, a motivispiraliformi e fitomorfi. Questo tipo, assimilabile a coeveproduzioni dell’Italia meridionale, appare fra i più con-notanti del periodo cosiddetto giudicale, attestato dall’XIalmeno al XIII secolo. A Cagliari diversi esemplari sonostati recuperati a San Saturnino, negli strati del cantiererelativo ai lavori di ristrutturazione del monastero daparte dei monaci provenienti da San Vittore di Marsiglia,che nel 1089 ricevono in dono dal giudice Torchitorio ilcomplesso, per farne la sede del Priorato. Anche recentiscavi ai piedi del colle di Bonaria hanno restituito nu-merosi frammenti simili, probabilmente parte della sup-pellettile utilizzata nella vicina chiesa di San Bardilio,forse l’antica Sancta Maria de portu Gruttis (cfr. supra),passata ai Vittorini in virtù della medesima donazione.Significativi i ritrovamenti effettuati durante i lavori con-dotti negli anni ’80 del Novecento a Santa Gilla, doveoggi è il Centro commerciale Auchan, per la realizzazio-ne della soprelevata che conduce all’aeroporto di Ca-gliari-Elmas; all’interno di discariche giacevano numerosiframmenti, gettati come rifiuti, presumibilmente degli ul-timi abitanti della capitale del giudicato di Cagliari, pri-ma della sua distruzione nel 1257-58. L’età giudicale vede anche un’ampia produzione di ce-ramica con decorazione “a pettine”, quel tipo di vasella-me d’uso domestico, realizzato in molti casi in ambitolocale, già ricordato in precedenza, che mantiene immu-tate le forme e le decorazioni attraverso i secoli, ragioneper cui non sempre è facilmente inquadrabile in un arcotemporale preciso. Tuttavia, il ritrovamento in alcunicontesti sardi di oggetti con decorazione “a pettine” inassociazione con reperti di più sicura cronologia per-mette di attribuirli con certezza alla vita quotidiana deisardi in questa fase storica. È il caso del recupero a San-ta Gilla (a Cagliari), dove frammenti di anfore, anforette,

boccali, olle e catini (usati sulla tavola e in dispensa percontenere o versare i liquidi, o per conservare derratesolide o liquide, e da fuoco), in argilla ben depurata, dicolore marroncino chiaro o beige, con decorazioni astriature rettilinee o ondulate, talvolta sono anche sovra-dipinti. La compresenza nel medesimo contesto di stovi-glie in maiolica islamica e tirrenica conferma la realizza-zione di tali manufatti nel XII-XIII secolo. Entrambe leproduzioni sembrano viaggiare insieme, derivate dallapersistenza o dal recupero di una tradizione ceramicainsulare risalente a tempi ben più antichi. Si nota l’au-mento delle forme chiuse, destinate ai liquidi, forse daricollegare ad un calo dell’attività delle officine vetrarie ead un mutamento delle abitudini alimentari e di appa-recchiatura della tavola, dove anche il bicchiere, insiemealle brocche e ai boccali, è in ceramica.Questo è nelle sue linee essenziali il panorama cheemerge da una ricostruzione della storia della ceramicanel periodo bizantino e medievale. La situazione mutaquando le vie commerciali vedono una rapida deviazio-ne verso l’Atlantico, in seguito alla scoperta dell’Americanel 1492, che modifica profondamente l’economia mer-cantile dei paesi mediterranei, non solo nelle rotte, maanche nella domanda e nell’offerta dei prodotti. La Sar-degna si rivolge quindi alla penisola italica e con l’iniziodell’età moderna anche l’industria dell’artigianato cera-mico sardo vede un notevole incremento. Gli artigiani,padroni ormai delle tecniche dell’invetriatura, avvianofiorenti attività locali, soprattutto nell’oristanese, creandodelle elaborazioni originali (come la Slip Ware).

87

148

148. Bacini, Valenza, prima metà sec. XIV Busachi, chiesa di Santa Susanna di Moddàmene.Sopra il portale della facciata della chiesa è inserito un conciotrachitico con cinque alloggi, di cui quattro ancora ospitano glioriginari bacini ceramici, tre di questi, in blu e lustro su smaltobianco, sono provenienti da bottega valenzana della prima metà del XIV secolo.

01-04 Lilliu-Prenuragico-Fenicio-Bizantino 13-11-2007 11:48 Pagina 87

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:09 Pagina 88

Questo testo illustra, nei suoi aspetti essenziali, la vi-cenda del rapporto ceramico fra la Liguria e la Sarde-gna nei secoli, con particolare interesse – nella partefinale – per la cosiddetta ceramica d’uso comune, cheha una sua larga diffusione dalla metà del XIX secoloin poi, ma che, per certi aspetti, si era vista aprire lastrada – in termini di disponibilità del prodotto ancheper le classi sociali modeste – dalle terrecotte vernicia-te del XVIII e del XIX secolo.Dal Medio Evo sino agli inizi del XIX secolo i principa-li centri ceramici liguri sono stati Savona ed Albisola.Da allora sino agli anni Trenta del Novecento è presen-te pure la vicina Celle Ligure. In base ai dati sinora di-sponibili, il flusso ceramico Liguria-Sardegna ha avutoun suo episodio significativo, per volume della spedi-zione e valore della merce, già nel XVII secolo, con l’in-vio da Savona di prodotti di pregio. Non sono emerse,per il momento, figure di ceramisti liguri emigrati in Sar-degna. Ben documentata è, invece, la presenza ad Albi-sola, presso la fabbrica Mazzotti, dell’artista-ceramista diDorgali Salvatore Fancello (1918-1941).

I rapporti ceramici Liguria-SardegnaRisale al 1016 la vittoriosa impresa pisano-genovese sulmare della Sardegna contro Mugahid Abd Allah al Amiri(nella tradizione sarda Musetto o Mugeto). Chiamati daiGiudici sardi – allora detentori del potere nei quattroterritori di Torres, Cagliari, Gallura ed Arborea – e solle-citati dal papa Benedetto VIII, pisani e genovesi libera-no per sempre l’Isola dal pericolo d’una occupazionearaba2 e danno vita alla potenza navale delle rispettivecittà nel Mediterraneo.3 Per Pisa e Genova la Sardegnaha una posizione strategica nel Mediterraneo; vi si inse-diano e ne scoprono anche le risorse: sale, miniere,prodotti agricoli, pastorizia. Dagli inizi del XII secolo laSardegna – scriveva Alberto Boscolo – diventa terrad’immigrazione e di fortuna per liguri, toscani e genti dialtre regioni del continente. L’economia, i traffici, i portidell’Isola ne traggono beneficio.4 Pisani e genovesi pe-

netrano nei quattro Giudicati. Fondatori e proprietari dicittà e castelli (tra cui Alghero, Bosa, Castelgenovese), igenovesi sono presenti soprattutto nella parte settentrio-nale dell’Isola fino al XV secolo, mentre, tra la fine delsecolo XI e l’inizio del XII, vengono progressivamenteestromessi dalla Sardegna meridionale dopo una lungaguerra con i pisani.5 Nel frattempo, dal 1323 gli Arago-nesi penetrano nell’Isola, dando vita ad una dominazio-ne secolare, di stampo feudale. Ma Genova non perderàtutte le sue posizioni. I Doria restano signori di Castelge-novese e Alghero ed a seguito di trattative con i catalanipossono mantenere i loro commerci con l’Isola, sempreintensi.6 Nel XV secolo genovesi, savonesi, pisani, vene-ziani, anconitani, ebrei, saraceni vedono ostacolati i lorocommerci dagli Aragonesi.7 Savona comunque assolve,sempre nel XV secolo, alla funzione di centro di colle-gamento con la zona mediterranea e di parte della retro-stante area continentale, in primis quella piemontese.8

Dopo il 1528, a seguito della cosiddetta “Convenzionedi Madrid” stipulata tra Carlo V e Andrea Doria, i geno-vesi hanno «libera facoltà di commerciare in tutti gli Statidell’Imperatore in assoluta parità coi suoi sudditi».9 Mer-canti e marinai liguri si trasferiscono nuovamente in Sar-degna. A Cagliari, in particolare, sono presenti nel traffi-co mercantile dei coralli, attuato anche nelle coste sarde,e nella pesca. Il forestiero che voleva allora praticare ilcommercio a Cagliari doveva – per legge – contrarre ma-trimonio con una donna sarda e risiedere nell’Isola.10 Te-stimonianza d’una folta presenza ligure in città è la costi-tuzione, nel 1599, dell’Arciconfraternita dei Santi MartiriGiorgio e Caterina dei Genovesi, con sede, come stabili-to dall’Arcivescovo Don Francesco de Val, nella chiesache alcuni devoti genovesi avevano costruito nel quartie-re della Marina. San Giorgio era un simbolo dei genove-si, mentre Santa Caterina era la patrona di Alassio. L’Arci-confraternita, che dal 1967 ha una nuova sede in unachiesa edificata alle pendici del Monte Urpinu, conservanel suo archivio le Costituzioni che i genovesi residenti aCagliari si diedero nel 1596, in sostituzione di normeprecedenti, ormai superate.11 Nel 1538 mercanti liguri so-no presenti pure ad Oristano e Sassari, dove il ritrova-mento di pochi esemplari di ceramica ligure sembra atte-stare la presenza genovese anche in questa città.12

89

I rapporti tra Liguria-Sardegna1

Federico Marzinot

149. Piatti, Liguria, sec. XIX, Bitti, collezione privata.Il gruppo di piatti, costituito da dodici pezzi, faceva parte dei beni del priorato della chiesa di Sant’Elia di Bitti.149

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:09 Pagina 89

90

Tabarchini a CarloforteDalla metà del XVII secolo gente di Alassio aveva collo-cato proprie tonnare lungo la costa occidentale dellaSardegna. Altre due tonnare, sempre in quella zona, era-no proprietà di imprenditori genovesi. L’attività dei pe-scatori alassini cessa nei primi decenni del XIX secolo, aseguito dell’avvento di Napoleone e della concorrenzadi analoghe iniziative locali.13 Nel 1738 quattrocento ta-barchini, che avevano abbandonato le coste della Tuni-sia, ed altri liguri giunti dalle riviere sbarcano, a lorovolta, a Cagliari e si dirigono all’isola disabitata di SanPietro. Gran parte di loro porta nomi di famiglie origina-rie di Pegli. Svilupperanno la pesca del corallo – pressole isole di San Pietro e Sant’Antioco esistevano nel 1599,e forse anche prima, ricchi banchi di corallo –,14 impian-teranno tonnare e saline. In onore di Carlo Emanuele diSavoia, che ne propiziò la venuta, l’abitato prenderà ilnome di Carloforte.15 Sempre per la pesca del corallo,ogni marzo partono barche dal golfo del Tigullio, so-prattutto da Santa Margherita Ligure, dirette verso la Sar-degna e la costa tunisina. Luoghi di armamento delle“coralline” in Liguria sono, allora, pure nella riviera occi-dentale, a Laigueglia, Diano e Cervo.16 Liguri pescano ilcorallo anche in Corsica e la Historia di Corsica, del1594, informa che «c’è pescaria di corallo a Capocorso,all’Aiazzo e in Bonifatio».17 La pesca del corallo alimen-tava lavorazioni a terra, in piccole fabbriche e a domici-lio, spesso eseguite dalle donne.18

Proseguono pure i rapporti commerciali tra la Liguria ela Sardegna. Da una Memoria presentata nel 1663 alSenato di Genova sugli effetti della legge delle Riviere,orientata «a portare tutto il traffico a questa città», emer-ge, ad esempio, che i vascelli di Sestri Levante naviga-no soprattutto per la Sardegna, tornandone con carichidi formaggi e «per schivar li disturbi di questa nuovalegge lasciano li formaggi a Livorno, dove anco com-prano le robbe che vogliono portare in Sardegna».19 Daidati relativi all’attività del porto di Genova dopo il 1750risulta che la Sardegna costituiva allora il più importan-te e sicuro sbocco della produzione manifatturiera ligu-re. Genova esportava in Sardegna stoffe di seta e di la-na, tessuti di cotone e misti, tele di lino e di canapa,fazzoletti di cotone e di seta, nastri, pizzi, ricami, artico-li di ebanisteria e di falegnameria, maioliche e terrecot-te delle fabbriche di Savona e di Albisola. Il porto fran-co di Genova aveva un ruolo altrettanto importante perle spedizioni in Sardegna degli articoli della lana, dellemercerie e delle telerie. A sua volta la Sardegna espor-tava formaggio per il consumo ligure e del Piemonte,pelli, cuoi, lana, oli di Sassari, paste bianche di Cagliari(rinomate in Italia), carni salate, ceneri di soda. Ma lavoce più importante del commercio sardo con la Ligu-ria restava il grano.20

Con l’annessione della Repubblica di Genova al Regnodi Sardegna, a seguito del Congresso di Vienna del 1815,si riducono nei primi tempi gli scambi commerciali frala Liguria e la Sardegna per il perdurare d’una barriera

doganale fra l’Isola e la costa ligure. Allora – nonostantetali vincoli – l’Isola seguitava ad importare dalla Liguriatele di Chiavari, terrecotte di Albisola, carta di Voltri,stoffe di lana, cotone, fustagni, seterie. A sua voltaesportava verso la Liguria ed il Piemonte cereali, legna,tonno, formaggi, olio di pesce, corallo, vino, frutta sec-ca, sale, tabacco. Dalla navigazione a vela si sta nel frat-tempo passando a quella a vapore. Nel 1829 l’armatoregenovese Giobatta Torrazza ottiene il privilegio per isti-tuire un regolare servizio a vapore tra Genova e la Sar-degna. L’insufficienza delle merci e dei passeggeri sullalinea Genova-Cagliari fa fallire l’impresa. Il Governo sar-do dovrà allora gestire in proprio tale collegamento condue unità della Regia Marina, il Gulnara, in servizio dal1835, e la Ichnusa, posta in linea nel 1838.21 Con l’av-vento di Cavour al Ministero delle Finanze, nel 1851,viene avviata una politica di libero scambio e di trattaticommerciali con il Belgio, la Francia e l’Inghilterra. Que-sta incrementerà progressivamente le importazioni e leesportazioni del Regno.22 Cagliari diventa così il portoprincipale della Sardegna meridionale. Da Carlofortepartono i minerali destinati all’esportazione e vi giungo-no le derrate alimentari per i cantieri. Oristano e Bosapotenziano il loro ruolo di centri d’importazione edesportazione di prodotti agricoli. Saranno soprattutto gliimprenditori liguri a trarre vantaggio dalla fine dell’isola-mento economico della Sardegna, con le loro iniziativenei settori delle comunicazioni marittime e ferroviarie,dello sfruttamento boschivo e di quello minerario. Nel1849 l’avvocato Gavino Scano, docente di diritto penaleall’università di Cagliari, definisce la Sardegna «una fatto-ria di Genova».23

Nella vicenda che abbiamo qui sintetizzato circa la pre-senza di genti liguri in Sardegna e nella vicina Corsica,nell’esistenza di loro legami con la terra d’origine, nel-l’impiego di ceramiche d’uso comune liguri a bordo del-le loro imbarcazioni, nei loro magazzini, luoghi di lavo-ro e case, è ragionevole cercare una delle ragioni delladiffusione in Sardegna di ceramica ligure, di pregio ecomune.

Mercanti sardi a Genova nel XIII secoloRivolgiamo ora l’attenzione alla presenza della cerami-ca ligure in Sardegna dal Medio Evo agli anni Trentadel Novecento per conoscere il percorso che ha porta-to nell’Isola anche ceramiche liguri d’uso comune, os-sia oggetti d’uso quotidiano, in dimore di gente d’ogniclasse sociale, in ambienti religiosi, nelle comunità mo-nastiche, ospedaliere o d’altro genere. La tappa iniziale è stata la presenza d’una ceramica dipregio presso ceti agiati. Tale scelta d’un prodotto “nuo-vo” o di pregio si ripeterà nel tempo in tale ambientesociale; successivamente, dalla metà del XVIII secolo al-la seconda metà di quello seguente, osserviamo la pre-senza soprattutto presso classi modeste d’un prodotto li-gure di basso costo, largo smercio ed uso: le terrecotte ataches noire e poi la terraglia nera. È legittimo ritenere

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:09 Pagina 90

150. Bacino, Liguria, fine sec. XIII, Sassari, chiesa di Santa Barbara.Gli esordi della presenza di prodotti ceramici liguri in Sardegna sono documentati dall’incastonatura di questi oggetti ceramiciinvetriati – i cosiddetti “bacini” – sulla superficie esterna di dueedifici religiosi di Sassari, la chiesa di Santa Barbara e il campaniledel Duomo di San Nicola. Il bacino presenta una decorazionezoomorfa policroma, graffita.

91

che la disponibilità dell’acquisto di ceramiche da partedei ceti meno abbienti possa averli indotti a prestareattenzione a quelle d’uso comune che Albisola propor-rà dalla metà del XIX secolo. Questo fenomeno po-trebbe essersi verificato anche in Sardegna, dove, dallametà del XIX secolo si sviluppano attività nei settoridelle comunicazioni marittime e terrestri, in quello fo-restale ed in quello minerario, con conseguenti nuoviposti di lavoro ed accresciute capacità di spesa dei ri-spettivi addetti.Infine, dalla seconda metà del XIX secolo in avanti, vi èuna progressiva diffusione della ceramica cosiddetta“gialla”, del pentolame, di stoviglie, conche, boccali edaltri contenitori, scaldini, contenitori in terracotta rivesti-ta, veri e propri esemplari di ceramica d’uso comune. Gli esordi della presenza di prodotti ceramici liguri inSardegna sono documentabili, almeno dal XIII secolo,dall’incastonatura di oggetti ceramici invetriati – i cosid-detti “bacini” – sulla superficie esterna di due edifici re-ligiosi di Sassari. Si tratta del campanile del Duomo, de-dicato a San Nicola, della metà del XIII secolo, e dellafacciata della chiesa di Santa Barbara, dell’ottavo de-cennio del XIII secolo. Vengono attribuiti a produzioneligure del tipo “Graffita arcaica tirrenica” alcuni bacinidi San Nicola, a monocromia verde graffita, che riman-dano alle produzioni ingobbiate monocrome liguri, equelli di Santa Barbara, che presentano una decorazio-ne zoomorfa policroma, giallo-arancio, graffita.24

Le prime notizie sul commercio di ceramiche liguri conla Sardegna risalirebbero al XIII secolo: «Gli atti del nota-io Uberto mostrano i manufatti ceramici savonesi abba-stanza introdotti in Provenza, in Corsica, in Sardigna» an-notava, nel 1925, Filippo Noberasco nel suo studio su“La ceramica savonese”.25 Ma forse alcune di quelle sco-delle, conche e taglieri erano di legno.26 Infatti, nel 1236,a Genova, «Patucio de Vetica, Pasquale de Fogia e Ban-dino di Rapallo ricevono in accomendacione da Giovan-ni Monleone, tornatore, ventisei libbre e mezza di geno-vini in fustagni e scodelle, conche, taglieri e mortai» dacommerciare in Sardegna.27 Giovanni Monleone era untornitore di oggetti in legno28 e di legno erano quindi glioggetti da lui consegnati ai genovesi ed altri che figura-no in contratti di accomendacione sottoscritti a Genova,rispettivamente il 12 marzo 1256 ed in date successive.29

Da questi accordi, che hanno per protagonista un torna-tor genovese, emerge che in tre contratti di accomenda-tio (o commenda) i soci tractantes, ossia coloro che siimpegnavano col socius stans (qui il tornator) a recare evendere in Sardegna le merci affidategli, con un guada-gno del 25 per cento,30 erano sempre Patucio de Vetica,Pasquale de Fogia e Bandino di Rapallo. Qui compaio-no perciò i mercanti che, ricevuto il prodotto a Genova,cercheranno di venderlo nell’Isola. Uno di tali mercanti èsardo: Arzocus Gaianus di Sassari che, il 14 maggio1237, riceve in accomendacione da Giovanni di Lavagnatornatore nove libbre di genovini in taliatoribus et scuel-lis (anch’essi in legno) da commerciare in Sardegna.31

Vasellami liguri a Porto Torres nel 1597Nel XIV secolo la presenza in Sardegna di maioliche ar-caiche pisano-liguri è documentata da ritrovamenti invarie località della città di Cagliari (cripta di Santa Resti-tuta, presso la torre di San Pancrazio, negli ipogei del ci-mitero di Bonaria), nella provincia di Cagliari (nel pozzomedievale di Bia ’e Palma di Selargius e presso il castel-lo di San Gavino Monreale); nella provincia di Oristano(a Casteddu Etzu a Cuglieri); a Sassari (nella chiesa diSan Nicolò); ad Alghero (nel chiostro di San France-sco); nella provincia di Nuoro (nella chiesa della BeataVergine d’Itria a Noragugume) e ad Ozieri.L’assenza, almeno sinora, di ritrovamenti di esemplaridi produzione ligure del XV secolo sarebbe spiegabile– secondo Maria Laura Ferru e Francesca Porcella – conil conflitto allora in atto tra liguri ed aragonesi, caratte-rizzato anche da drastiche imposizioni fiscali. Sempresecondo queste studiose, non sarebbe di notevoli pro-porzioni la presenza in Sardegna, nella seconda metàdel XVI secolo, di prodotti liguri – albarelli, scodelle,piatti – documentata a Cagliari, ad Allai e Nurachi, nellazona di Oristano, ed a Sassari. Tale diffusione del pro-dotto ligure sopperirebbe alla mancanza d’una analogaproduzione sarda.32

Dai ritrovamenti passiamo ai documenti relativi alla pre-senza di ceramiche liguri in Sardegna nel XVI secolo.

150

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:09 Pagina 91

92

Fra le prime, puntuali notizie – ad opera di Anna MariaRossetti – su spedizioni di ceramiche liguri nel XVI se-colo, con indicazione del prodotto e della sua destina-zione, figurano quelle relative ad invii in Sardegna enella vicina Corsica. Il 2 aprile 1578, il ceramista Ago-stino Isola, di Albisola, spedisce in Sardegna «dozzine205 di vasellami assortiti» a soldi 16 la dozzina. Da Sa-vona, l’8 novembre 1597, i ceramisti Giulio e Gio Ma-ria Grixollo spediscono vasellami a Porto Torres ed il20 marzo 1598 il ceramista Battista Salamone invia va-sellami assortiti a Sassari. Infine, vasellami vengonospediti da Savona in Corsica, il 7 gennaio ed il 9 otto-bre 1563, da Tommaso Salamone.33

In un pozzo al centro del chiostro del convento di SanDomenico a Cagliari, assieme ad un ingente numero dimattonelle di produzione campana e ligure, a decori flo-reali, del XVII secolo, è stato rinvenuto un frammentod’un piatto, decorato in blu cobalto, tipico prodotto ligu-re (Albisola o Savona).34 Questo ritrovamento mostra an-che l’uso di ceramiche liguri in ambienti religiosi sardi.La documentazione archivistica propone, a sua volta,numerosi esempi d’esportazione di ceramica savonese dipregio in Sardegna nel XVII secolo. Nel 1624 Battino Sa-lamone consegna, per due volte, a Benedetto Brignacaceramiche da inviare in Sardegna: il carico della secondaspedizione ha un valore di ben 1382 lire e soldi 3, mo-neta di Genova: una delle più forti partite di ceramichespedite in quel secolo. Nel 1629 Giuliano Salamone affi-da a padron Stefano Sciaccarama 890 lire di vasellameda portare in Corsica. Nel 1630 Giuliano Ghirardi dà apadron Alessandro Bozzetto 40 lire di vasellame per laSardegna e Giuliano Salamone nel 1637 invia, sempre inSardegna, prodotti per 25 lire. Ancora Battino Salamonenel 1652 spedisce ceramiche in Sardegna. Commentan-do questi ed altri dati relativi all’esportazione di cerami-che savonesi nel XVII secolo per tutto il bacino del Me-diterraneo occidentale, dalla Puglia alla Spagna, oltre lostretto di Gibilterra, Carlo Varaldo, che li ha raccolti, sot-tolinea che i consoli dell’Arte sottile potevano allora af-fermare a buon diritto che «dappertutto le parti del Mon-do sono nominate le maioliche fini di Savona, e moltiforestieri vengono di lontani paesi a provvedersene».35

Reperti dell’esportazione ligure in Sardegna nel XVIII se-colo sono mattonelle di produzione campana e ligure, amotivi floreali, e frammenti, rispettivamente d’un coper-chio di zuppiera e d’un piatto di probabile produzionesavonese o sua imitazione laziale, provenienti anch’essidal pozzo del convento dei Domenicani, a Cagliari.36

Le taches noires di AlbisolaLa prima notizia sul commercio con la Sardegna di ce-ramiche liguri, disponibili anche per le classi modeste, eche perciò avrebbero aperto la strada a quelle d’uso co-mune, la troviamo, agli inizi del XIX secolo, nella Stati-stica del Dipartimento di Montenotte, con dati di settorederivanti da un’inchiesta condotta nel 1806-07 dal pre-fetto napoleonico Joseph-Gaspard, conte di Chabrol de

Volvic, nel territorio da lui amministrato, e pubblicatanel 1824:37 «Le fabbriche di stoviglie si trovano ad Albi-sola ed a Savona. Queste manifatture hanno un fortissi-mo smercio: si calcola che la produzione annua am-monti a circa 1.200.000 dozzine di tutte le qualità, dicui 5/6 esportati in Piemonte, nel Monferrato, in Tosca-na, in Linguadoca, in Corsica e in Sardegna; in passatosi facevano numerose spedizioni anche in Spagna». E sisottolinea che «da molti anni l’esistenza e la prosperitàdelle fabbriche di stoviglie di Savona e di Albisola sonogarantite da un enorme smercio». Inoltre, a propositodei laterizi, dei quali «le fabbriche di Savona hannosempre controllato il commercio», la Statistica annotache «un tempo questi prodotti avevano un mercato mol-to ampio: erano pochi i bastimenti in partenza dal por-to di Savona per Tunisi, l’Elba, la Corsica, la Sardegna,la Spagna e Gibilterra che non avessero la zavorra inte-ramente costituita da mattoni, venduti poi con moltoprofitto da quei paesi». Ora, invece, «la produzione è as-sai diminuita».38

Le stoviglie fabbricate allora ad Albisola (piatti, scodelle,casseruole, piccoli tegami, tegami con coperchio, pento-lini globulari con anse, brocche, candelieri) erano di ter-racotta, con una decorazione informale, realizzata sotto-vernice con pennellate di manganese. Si tratta dellecosiddette taches noires, prodotto tipico di Albisola Ma-rina e di Albisola Superiore. Tale manifattura viene af-fiancata alla produzione di maiolica fine, e poi realizzatain grandi quantità dalla metà del XVIII secolo sino alme-no al primo quarto del XIX, per contrastare la crisi del-la maiolica e la forte concorrenza della terraglia inglese.Data l’esiguità del loro prezzo queste terrecotte eranovendute soprattutto ai ceti più modesti.39 Sottolineava aquesto proposito lo Chabrol: «Le stoviglie fabbricate adAlbisola, per lo più, sono grossolane e andanti; vengonousate solo dalla gente del popolo, e il loro unico pregioè che costano poco».40 Le classi sociali meno abbientinon potevano acquistare la maiolica e la terraglia. Conl’avvento delle taches noires liguri anch’esse diventanopotenziali acquirenti di ceramiche. Si tratta d’un eventodi mercato pericoloso per un Paese: è per questo che,alla fine del XVIII secolo, la Spagna impone un fortedazio sull’importazione di vasellame. Assieme alleguerre napoleoniche ed al fluttuare del prezzo delpiombo, importato dalla Spagna, che rappresentava i2/5 dell’intero costo, il dazio spagnolo metterà in crisi lefabbriche ceramiche e con loro si può dire l’intera co-munità di Albisola: allora circa 3.500 persone in granmaggioranza impegnate, in vario modo, nella ceramica.Tra il 1780 ed il 1790 circa 50 fabbriche producevanotaches noires.41 Nel 1807 lo Chabrol annota la presen-za di 27 fabbriche di ceramiche ad Albisola Marina, 18ad Albisola Superiore e 5 a Savona. Come reazione al-l’attacco della terraglia inglese, ben più competitiva, Sa-vona – informa sempre lo Chabrol – aveva avviato «laproduzione della “terra da pipe”» (ossia della terragliaall’uso inglese).42

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:09 Pagina 92

Un Regolamento per la “terraglia nera”Nel primo decennio del XIX secolo, sempre ad Albiso-la, volendo inizialmente fabbricare una ceramica fine, sisviluppa la produzione d’una terracotta ricoperta dauna vernice che, per la presenza dell’ossido di manga-nese e per effetto della cottura, assume una colorazio-ne tendente al nero, con riflessi metallici. Nei primi an-ni del XIX secolo avrà anch’essa un vasto mercato. È lacosiddetta “terraglia nera”. Fabbricata nelle due Albisoleed a Celle Ligure, soppianterà progressivamente le ta-ches noires.43 Giuseppe Garbarini nei suoi Cenni storiciintorno al borgo di Albissola Marina informa che l’albi-solese Bartolomeo Seirullo, «accurato fabbricante di sto-viglie … dolente del decadimento nel quale era venutal’arte figulina, verso l’anno 1808 o 1809, trovò un nuovogenere di vernice nera, la quale, se non accresce gran

fatto il pregio delle stoviglie, le distingue non poco dal-le più scadenti».44 La ceramica nera, ispirata come le ta-ches noires a modelli delle terraglie inglesi, era già pro-dotta in Italia ad Este.45

A seguito delle difficoltà di mercato dovute alle guerrenapoleoniche, pure la “terraglia nera” avrà i suoi pro-blemi. Per questo, nel 1817, i titolari di 50 fabbriche al-bisolesi di “terraglia nera” daranno vita ad un Regola-mento per adeguare la produzione allo smercio: laquota fabbricabile in un anno viene portata a 750.000dozzine (circa nove milioni di pezzi). Dei prodotti fannoparte, come dice il Regolamento: «piatti, tazze, terrine,tondi, trencerini e maffarette, ponci, coppette, salatiere,xiatte». I pochi fabbricanti albisolesi che, oltre alla cera-mica nera, producono anche quella “bianca” (vera ter-raglia e maiolica) sono soggetti anch’essi a quote. La di-mensione dei piatti viene rigidamente stabilita. La pagaquotidiana del torniante è di circa lire 2,50, mentre unoperaio comune guadagna 2 lire al giorno. In fabbricalavorano da quattro a sette operai compreso il maestro.Ogni fabbrica è costituita da una fornace, dai trogli oterrai per la lavorazione delle terre, che vengono fattedecantare; da muri con paramenti di mattoni sui quali,

93

151

151. Pavimentazione, Liguria (?), sec. XVI, Orosei, chiesa diSant’Antonio Abate.La pavimentazione a piastrelle è stata rinvenuta nella zona absidale (infase di restauro dell’edificio si decise di conservarla creando una sortadi passerella che conduce all’altare odierno) e attesta la seconda fasedi ampliamenti dell’edificio (sec. XVI). Si presenta qui un repertoriodecorativo similare a quello del palazzo dei Sormano a Savona.

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:09 Pagina 93

94

zionale dell’Industria dei Regi Stati, che ha luogo a Tori-no. Ma nel frattempo il numero delle fabbriche di Albi-sola era diminuito: nel 1836 Albisola Marina, che necontava 27 al tempo dello Chabrol e 28 nel 1818, erascesa a 18; Albisola Superiore scendeva dalle 18 al tem-po dello Chabrol a 14 nel 1833 e ne contava solo 10 nel1846.49 Sempre nel 1846 a Savona sette fabbriche, im-piegando 104 operai, producevano la terraglia detta “ter-ra di pipa” o “maiolica bianca”. La esportavano assiemeall’analogo prodotto di Albisola in Sardegna, Corsica,Toscana, Provenza, Spagna, Stati Barbareschi e Levan-te.50 Riassumendo, la gamma produttiva della “terraglianera” di Albisola era caratterizzata dalle stoviglie, dagliscaldini, dalle veuilleuse e dagli oggetti decorativi dallelinee neoclassiche, realizzati al tornio ed a stampo, inte-ramente rivestiti col nero manganese sul biscotto (l’argil-la dopo la prima cottura) e poi invetriati con “l’arcifullo”.Savona – produttrice di pentole già nel XII secolo – sidedicava soprattutto alle terraglie bianche, cotte anch’es-se nelle caselle come le maioliche.51

Nel 1853, a seguito della riforma economica di Cavour,cresce a Savona e ad Albisola il numero delle fabbricheche producono e spediscono terraglie anche in Sarde-gna. Sempre intorno alla metà del secolo, ad Albisolaprosegue e si afferma la produzione delle pentole, av-viata secondo il Garbarini dal ceramista G.B. Siccardi(«egli fu pure il primo che fece esperimento della fab-bricazione delle pentole, volgarmente dette pignatte,che dovea in seguito tanto fiorire»),52 mescolando la ter-ra di Albisola, solo argillosa, con uguale quantità diquella di Antibes, refrattaria, e perciò più resistente alfuoco.53 Secondo il poeta e ceramista albisolese Tulliod’Albisola si doveva all’industriale francese Nicolas Pa-nery l’innesto su quello albisolese del metodo tecnicodi Vallauris per la produzione delle stoviglie del tipocosiddetto “Alpi Marittime”, verniciate esternamente innero, mentre all’interno la vernice è gialla o rossa.54 In-fine, secondo lo studioso savonese Arrigo Cameirana, iltipo “Alpi Marittime” sarebbe giunto ad Albisola dallaFrancia verso il 1865.55 La caduta delle barriere dogana-li a seguito dell’unità d’Italia e l’avvento della ferroviaad Albisola daranno impulso alla fabbricazione dellepentole: nel 1882 Albisola Marina conta 22 fabbrichenel settore ed Albisola Superiore 15.56

La “ceramica gialla”di AlbisolaSempre intorno alla metà del secolo compare ad Albi-sola la “ceramica gialla”: una terracotta ingobbiata everniciata, cuocente in giallo. Anche questa è una ce-ramica d’uso comune, prodotta in grandi quantità: nefanno parte grandi piatti, conche, zuppiere (della stes-sa forma di quelle della “terraglia nera”), tazze, terri-ne, piattini, boccali, scaldini. In genere viene decorata,in bruno manganese o in verde ramina, premendouna spugnetta, dal disegno predefinito ed imbevuta dicolore, sull’interno d’un piatto o sulla pancia d’unazuppiera, oppure decorando l’oggetto con colature,

152

appendendola a mucchi tondeggianti, viene asciugata laterra; da un piazzale dove stendere i prodotti prima diinfornarli. Per la “terraglia nera” si usa una miscela com-posta da due terzi di terra rossa ed un terzo di bianca.Entrambe tali argille vengono estratte dalla piana alluvio-nale e dalle colline circostanti. Uno dei componenti del-la vernice nera è il solfuro di piombo (galena), chiamatoad Albisola “arcifullo”, importato dalla Sardegna. La le-gna viene fornita dai contadini abitanti nei paesi vicini.La “terraglia nera” viene esportata in Francia, in Piemon-te, in Toscana attraverso Livorno, nella Costa d’Africa e,in piccole quantità, anche nelle Americhe. Raggiungeràpure la Sardegna, le isole dell’arcipelago greco e Co-stantinopoli.46

“Maiolica bianca”di Savona in SardegnaAnche la “terraglia nera” è fortemente competitiva. Giànel 1802 un prefetto delle Bocche del Rodano avevainvocato dal Governo un inasprimento doganale con-tro «les poteries noires de Genes».47 E così, nel 1820 ilgoverno francese impone un dazio del cento per centosull’importazione della ceramica di Albisola. La Direzio-ne della “terraglia nera”, costituita nel 1817, entra incrisi. Segue la progressiva decadenza delle fabbriche.Alcuni produttori emigrano in Francia. Dopo il 1832 sifa crescente la produzione delle pentole. Nel 1839 adAlbisola Superiore risultano non attive 8 delle 19 for-naci esistenti. Dazi doganali, mutati gusti del pubblico,concorrenza del prodotto industriale inglese e di quel-lo di Mondovì sono alla base del progressivo affievolir-si della fabbricazione della “terraglia nera”.48 La suaproduzione proseguirà comunque per anni: nel 1858le «stoviglie di terra nera» di G.B. Siri, di Albisola Capo,ricevono una “Menzione onorevole” all’Esposizione Na-

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:09 Pagina 94

marmorizzazioni o macchie. Rari sono i casi di unadecorazione con il disegno d’un veliero, d’un paesag-gio o d’un edificio, o delle scritte. La “ceramica gialla”,specie la piatteria, viene prodotta ancora negli anniQuaranta del Novecento, fin quando non verrà vietato– perché nocivo alla salute – l’uso della vernice alpiombo per gli oggetti di cucina.57

Un’immagine ricca di particolari sulla presenza della ce-ramica ligure in Sardegna risulta dalla Relazione dei Giu-rati dell’Esposizione Industriale Italiana tenutasi nel1881, a Milano. Nella periferia a ponente di Savona, alleFornaci, quartiere di antiche fabbriche di mattoni, opera-no pure tre fabbriche di pentole e quattro fabbriche diconche. Gran parte delle 221.000 pentole e delle 252.000conche prodotte ogni anno viene spedita in Sardegna,nell’arcipelago greco ed in Turchia. La maggior partedella produzione di «stoviglie tenere bianche» della “Fra-telli Musso di Antonio” va da Savona in Sicilia, ed il restoin Sardegna e sul mercato ligure. Si esporta negli StatiUniti ed in Argentina. Due terzi dell’analogo prodottodella “Fratelli Folco fu Carlo” parte da Savona per la Sar-degna (Oristano, Carloforte, Alghero, Cagliari e Sassari),il resto va in Sicilia, nelle isole dell’arcipelago greco edin Turchia. La “Sebastiano Ricci”, produttrice anch’essadi terraglia tenera bianca e colorata, «smercia nelle Rivie-re di Ponente e di Levante, in Sardegna ed in Sicilia» esporadicamente esporta; per alcuni anni ha prodotto pu-re pentole. La ditta più importante di Albisola è la “MariaRosciano vedova Poggi e Figli”. Produce «terraglie nere,rosse e gialle comuni, bianche e colorate ad uso di Fran-cia e pentole e casseruole di terra francese». Tra le mate-rie prime usa quarzo proveniente dalla Sardegna «e lo sipaga alla tonnellata ai capitani di bastimento che ne fan-no una speculazione». Occupa oltre dieci persone. Rea-lizza circa 260.000 pezzi all’anno. Gran parte della suaproduzione di pentole con vernice viene spedita in Sar-degna mentre le pentole nere vanno in Piemonte. Com-presa quella della Rosciano sono presenti ad AlbisolaMarina dieci fabbriche di pentole, che occupano «uncento persone fra tutte», con una produzione complessi-va annua di 1.200.000 pentole. Ad Albisola Capo vi sonotre fabbriche di pentole, con 40 operai ed una produzio-ne complessiva annua di 480.000 pentole. Ad Albisola Marina si fabbricano stoviglie comuni conuna produzione complessiva annua di 345.000 pezzi, adAlbisola Capo la produzione complessiva è di 86.400pezzi. Riepilogando, ad Albisola Marina si producono

153

154

155

95

152. Piatto, Liguria, sec. XIXterracotta invetriata, Ø 18,5 cm, Bitti, collezione privata.

153. Piatto, Liguria, sec. XIXterracotta parzialmente ingobbiata e invetriata, Ø 19,8 cm, Bitti, collezione privata.Il motivo sottovetrina è realizzato in manganese con uno stampinoin spugna

154-155. Piatto, Liguria, sec. XIXterracotta parzialmente ingobbiata e invetriata, Ø 19 cm, Mamoiada, collezione privata.

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:09 Pagina 95

96

260.000 stoviglie fini, 1.200.000 pentole, 345.600 stovi-glie comuni. Ad Albisola Capo: 480.000 pentole, 86.400stoviglie comuni.58

Sempre con riferimento a quel periodo Nello Cerisola,nella sua Storia delle industrie savonesi, dava operantiin Albisola Marina 27 fabbriche di ceramiche comuni, ilcui prodotto veniva spedito in Piemonte, Toscana, Cor-sica, Sardegna, Francia, Spagna. Erano inoltre in attività17 fabbriche di stoviglie nere e bianche comuni ubicatenel territorio del Comune di Albisola Superiore.59

Nel paese delle pignatteNel 1905 a Savona operavano solo sei fabbriche, chescompariranno prima della Grande Guerra, a causa del-la sempre minore disponibilità di materie prime deidintorni, un tempo molto abbondante.60

Nel 1906, il giornalista Gian Luigi Cerchiari visita Albi-sola e su Il Secolo XX pubblica un ampio articolo, cor-redato da sue foto, in cui riferisce: «Oggi sono benventidue le fabbriche adattate alla fabbricazione dellepentole e vasi da cucina. Dodici di esse si occupano

della fabbricazione di tondi. Ma può dirsi che tutta Al-bisola sia una immensa fabbrica di pignatte e di tondi.Quale originale spettacolo! Ogni atrio di casa è una fu-cina o una sala di modellatori, tutti i muri delle vie ser-vono a mantenere al sole appiccicati i blocchi di creta,la spiaggia è un immenso deposito di pentole cheasciugano al sole … alla stazione v’è sempre una lungafila di carri carichi di stoviglie … Si cammina tra cocci efuscelli di paglia da imballaggio … le donne corronoverso la fabbrica portando sul capo gran carico di tondiche han modellati in casa … Trovato il campo che pro-duce la terra utile alla bisogna, l’impresario adibisce unagrande schiera di badilanti a dissodare il prezioso terre-no ed a riempirne i carri che saranno portati alla ferro-via e spediti alle fabbriche. La terra adoperata nelle fab-briche di Albisola viene importata dall’Olanda, a mezzodi ferrovia, dalla Francia (ed è detta terra d’Antibo) amezzo di barche. Allo scarico delle barche è adibita unaschiera di facchini che in alcuni giorni rendono sullaspiaggia lo stesso originale e caratteristico spettacoloche si gode a Genova, nell’osservare lo scarico del car-bone compiuto dai cavalli a mezzo di coffe». Descritta la fabbricazione «delle pentole, dei piatti, delleterrine, delle scodelle, delle ciotole lavorate pure al tor-nio o con stampi», l’opera del «pittore da grosso» – chesu un piatto o una scodella «traccia una striscia precisa erotonda come se l’avesse fatta il compasso» – e del «pit-tore artista per le stoviglie di lusso» e ricordato che «aduna fabbrica modesta occorrono almeno un terrante, unimpastatore, tre tornanti, qualche verniciatore e due for-nacianti», Cerchiari informa che il prodotto finito verràpoi «imballato con paglia, o portato alla stazione dentroa cesti sulla testa di robuste operaie».61

La Cooperativa “Avanti”Le descrizioni idilliache di Liegeard e di Cerchiari dellavita ceramica di Albisola non avevano colto anche ladifficile condizione degli operai, il loro desiderio d’unriscatto sociale e le tensioni che ne nascevano con iproprietari delle fabbriche. A fine settembre-inizi ottobredel 1887 i lavoratori avevano costituito una «associazio-ne di mutuo soccorso fra lavoranti di stoviglie di Albiso-la», che sembrava non mirasse soltanto a fornire sussidie intervento in caso di taluni collocamenti sul lavoro,ma avesse anche come obiettivo non lontano la possibi-le costituzione d’una cooperativa di produzione. I fab-bricanti di stoviglie reagirono con provvedimenti. Nederivò uno sciopero durato quattro mesi, con il licenzia-mento degli scioperanti. La vicenda si concluse, il 12febbraio 1888, con un compromesso fra le parti, nelquale figurava anche la riassunzione di tutti i licenziati.62

Il 12 luglio 1920, a conclusione di nuove lotte con i pro-prietari delle fabbriche di stoviglie, 35 lavoranti – comedice l’atto costitutivo della società – «dichiarano di volercostituire siccome costituiscono una Società AnonimaCooperativa “Avanti” avente per oggetto di riunire in unsol fascio le forze di tutti gli operai stovigliai e generi

156

157

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:09 Pagina 96

97

affini occupati nelle fabbriche di Albisola e farli benefi-ciare dei vantaggi della Cooperazione». La Cooperativaproduce positivi risultati economici. Ma, il 5 settembre1922, a seguito del progressivo affermarsi del fascismo,l’azienda procede a modifiche statutarie e muta la deno-minazione in ILSA (Industria Ligure Stoviglie ed Affini).Direttore amministrativo è Francesco Perotti. Il 1 aprile1925 la ditta assume la veste di Società anonima perazioni. A presiederla è chiamato Santino Poggi, perso-na gradita al nuovo regime. Ma – ricorda lo studiososavonese Giuseppe Buscaglia, in un suo testo sulla“Cooperativa Stovigliai” di Albisola – «di fatto il tecnicoche dirige e dà un’impronta unitaria alla gestione delladitta rimane il dott. Francesco Perotti che, pur schedatoin Questura come “antifascista pericoloso”, per le dimo-strate capacità imprenditoriali e le ricche doti di umanitàgodette sempre d’una generale stima. È dunque a luiche va attribuito il costante sviluppo dell’ILSA». Dopo laseconda guerra mondiale le maestranze della fabbricachiedono a Perotti di ridiventare proprietarie dell’azien-da, come lo erano state prima dell’avvento del regime.Perotti aderisce alla richiesta di cessione. Trasferiscel’ILSA a Carcare, nell’entroterra, dove avvia una produ-zione di piastrelle in ceramica per uso edilizio. A lorovolta gli operai danno vita, il 26 luglio 1946, alla “Coo-perativa Stovigliai”.63 L’azienda proseguirà la propria at-tività produttiva, con alterne vicende, nello stabilimentodi Albisola Superiore, in riva al Sansobbia, mutando piùavanti la propria denominazione in “Piral”. Oggi, con ilmarchio “Piral 1870” (che fa riferimento ad una produ-zione di stoviglie e pentole in quell’anno nell’attuale se-de di via Casarino 153, in Albisola Superiore) la dittaprosegue a spedire il proprio prodotto in Sardegna.64

Una Relazione della Camera di Commercio di Savonasull’attività nel 1928La produzione delle stoviglie di Albisola ed il loro com-mercio con la Sardegna è documentato anche per glianni Venti e Trenta del Novecento. La Relazione sull’at-tività svolta dal Consiglio della Camera di Commercio eIndustria di Savona durante l’annata 1928, alla voce“Industria delle ceramiche” dice: «Un’altra industria ca-ratteristica in questo campo, e degna di nota, è l’indu-stria delle stoviglie di terracotta, industria che si svolgein modo del tutto particolare nei Comuni di Albisola.La produzione annua è abbastanza notevole ed è costi-tuita da pentole, casseruole, servizi da tavola economi-ci, neri, rossi, grezzi. La merce viene spedita oltre chenelle regioni limitrofe nell’Italia meridionale, nella Sici-lia, Sardegna e nel bacino del Mediterraneo e poi an-che nell’America del Sud».65

Sempre alla voce “Industria delle ceramiche” la Rela-zione sull’attività svolta nell’anno 1928 dice a propositodella produzione e del mercato dell’industria delle cera-miche artistiche: «Viene curata e perfezionata questapregevole industria da una dozzina di ditte, con sceltemaestranze che lavorano diuturnamente per produrre

158

156-157. Piatto, Liguria, sec. XIXterracotta parzialmente ingobbiata e decorata sottovetrina, Ø 32,5 cm, Busachi, Su collegiu, collezione Civica di Etnografia.

158. Piatto, Liguria, sec. XIXterracotta parzialmente ingobbiata e decorata sottovetrina, Ø 33,1 cm, Bitti, Priorato della B.V. di Bonaria.Il motivo decorativo, ripetuto sulla tesa del piatto, è colato in cottura, modificandosi.

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:09 Pagina 97

vasi superbi, anfore deliziose, giare dalle sagome per-fette, magnifici piatti murali da tavolo, grandi, piccolis-simi, ovali, con una fantasmagoria di colori che abba-gliano e commuovono per l’insieme geniale e semplice… La maggior parte della produzione viene esportatanell’America del Nord, a New York, a San Francisco diCalifornia, a Boston, e nell’America del Sud, a BuenosAires, a Valparaiso, a Montevideo e altrove».66

Il commercio delle stoviglie con la Sardegna è docu-mentato anche nel 1929. Esso ha avuto un «decorsosoddisfacente», malgrado «le inevitabili ripercussionidella crisi generale che travolge quasi tutte le nazioni».L’anno successivo la Relazione della Camera di Com-mercio evidenzia che le aziende de «l’industria delle sto-viglie di terracotta si sono dibattute in gravi difficoltà perla fortissima caduta dei prezzi sui mercati e la deplore-vole concorrenza che tra ditta e ditta localmente si veri-fica». Permane il commercio con la Sardegna. Nel 1931si registra una valutazione pesantemente negativa, do-vuta alla crisi economica mondiale: «Le industrie dellaceramica si sono trovate nel 1931 in condizioni presso-ché precarie, con magazzini oberati di prodotti, convendita in forte diminuzione per ciò che concerne lestoviglie comuni. Difficoltà hanno segnato pure le cera-miche artistiche date le difficoltà economiche generali ele altissime barriere doganali dei principali mercati este-ri, dove in passato attivi erano gli affari data la fama e lecaratteristiche dei nostri prodotti». L’anno successivo

159

«l’andamento dell’industria delle ceramiche è staziona-rio». Nel 1935 il settore delle «ceramiche artistiche, deglioggetti in vetro e delle terrecotte ha segnato una contra-zione nella produzione e delle possibilità di colloca-mento».67 Dal 1932 la Relazione non fornisce più elenchidi aziende e dati specifici per il settore delle stoviglie.Essa non risulta disponibile per il periodo dal 1936 al1951. Dal Registro delle Imprese iscritte alla Camera diCommercio emerge che alcune ditte di Albisola, produt-trici di stoviglie oppure pentole, hanno cessato l’attivitànel periodo 1928-31. L’avvento della guerra significa per le fabbriche cera-miche scarsa disponibilità delle materie prime necessa-rie alla produzione e difficoltà nella vendita: tali restri-zioni hanno come conseguenza una loro vita stentata.68

Nell’Italia dell’immediato dopoguerra le difficili comu-nicazioni, la disoccupazione, lo scarso potere d’acqui-sto delle classi modeste portano progressivamente allachiusura delle vecchie fabbriche di Albisola produttricidi stoviglie; fa eccezione la “Cooperativa Stovigliai”.

Da Savona a CarloforteForse, come altri del suo tempo, affascinato dalla fer-rovia, il Cerchiari nella sua descrizione del paese dellepignatte non ha prestato troppa attenzione alle barchecon un solo albero a vela che, in secco sulla spiaggiadi Albisola, stavano caricando stoviglie. È soprattuttocon queste ed altre piccole imbarcazioni – in genereleudi, barche a vela latina, con l’albero inclinato versoprora, lunghe circa 16 metri ed anche liuti, imbarcazio-ni poco dissimili – che le ceramiche savonesi e quellealbisolesi venivano portate in terre lontane. Anche perl’esiguo pescaggio del porto di Savona, dopo il suoriempimento imposto da Genova nel secolo preceden-te, le imbarcazioni che nel XVII secolo trasportano leceramiche vendute anche in Sardegna erano di stazzaridotta: cimbe, gondole, tartane, lembi. Nei documentifigura un solo brigantino. I padroni di nave sono quasitutti di Albisola o di Celle.69 Per rendersi autonomo nelcommercio delle ceramiche, nel 1705, il commerciantesavonese Gio Luigi Bosio acquista un leudo: comanda-ta da un bravo padrone, l’imbarcazione porterà i pro-dotti della fabbrica in quasi tutti gli scali del Mediterra-neo occidentale. Meno fortunato sarà l’accordo per lavendita di metà del leudo e l’affidamento d’un ingentecarico di ceramiche ad un padrone di Albisola, che, ar-rivato a Marsiglia, ha portato via il carico rimandandoil leudo vuoto al Bosio.70 Nel 1807, un documento sul-la navigazione di cabotaggio nel Mediterraneo redattoper il prefetto Chabrol de Volvic dall’albisolese AntonioPiccone, maggiorente del paese, riferisce del noleggioda parte di quattro negozianti locali di «bastimenti de-nominati leudi catalani» che trasportano, per la lorovendita, ceramiche savonesi a Barcellona e Tarragonae di altre vendite in Francia, lungo il fiume Rodano, eda Livorno. In Francia, alla fine del XVIII secolo, i mari-nai si comportano da veri e propri rappresentanti di

98

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:36 Pagina 98

commercio, vendendo il prodotto nei villaggi posti sul-la riva del Rodano. A Livorno le imbarcazioni, sostandoper un lungo periodo, diventano un emporio galleg-giante. Il tipo di contratto tra il capitano del bastimentoe la sua controparte è, negli episodi citati dal Piccone,la cosiddetta “colonna”.71

Da quanto sopra emergono alcuni dati: almeno sino alprimo quarto del XIX secolo si ricorre anche a imbar-cazioni di ridotte dimensioni, ma provate, come il leu-do, per il trasporto di ceramiche da Savona ed Albisolaverso altri paesi. Il contratto fra un titolare d’una fab-brica di ceramiche ed un padrone di nave può essere,in genere, di due tipi: vendita del carico al padrone,che si accolla il rischio della sua vendita e della suapossibile perdita; la cosiddetta “colonna”, per cui il pa-drone di nave si impegna a dare al ceramista, al termi-ne del viaggio, una parte del valore della merce chegli era stata affidata. In caso d’un sinistro il ceramista sisarebbe accollato il danno derivante dalla perdita delprodotto ed il padrone quello per la perdita dell’imbar-cazione. Raramente il padrone ha solo funzione di vet-tore della merce per un agente del ceramista, che do-vrà poi smerciarla. Il vasellame viaggiava talora dentrodelle giare. Ad Albisola, dagli inizi del XIX secolo, pen-tole e piatti venivano posti sul fondo delle piccole im-barcazioni di solito adibite al trasporto delle stoviglieed erano avvolti, fra loro, con delle trecce di paglia, sic-ché paglia e ceramiche, assestandosi nel viaggio, diven-tavano un tutt’uno.72

Una decisione della Camera di Commercio del 28 di-cembre 1911 circa lo stivaggio delle terraglie e vetreriesui velieri ricorda che: «È uso costante nel porto di Sa-vona che il caricatore di terraglie e vetrerie su velieriprovvede con personale proprio, o fornito dalle fabbri-che produttrici, allo stivaggio delle merci a bordo e cheil capitano firmi la polizza solo affermando il numerodei pezzi o dei mezzi con la clausola solo rottura».73

Circa i trasporti di ceramiche dalla Liguria verso la Sar-degna ne abbiamo più sopra dato conto per quelli ef-fettuati dal XVII sino alla prima metà del XIX secolo.Nel 1881 – come documenta la relazione sull’Esposi-zione Nazionale tenutasi quell’anno a Milano – due ter-zi della produzione della “Fratelli Folco” va in Sarde-gna (Oristano, Carloforte, Alghero, Cagliari, Sassari), inSicilia, nelle isole dell’arcipelago greco ed in Turchia.74

Conosciamo così il nome del produttore ligure e deiporti sardi dove giunge la sua merce. Sono gli stessitoccati oltre 50 anni dopo dalla navigazione di cabotag-gio tra la Liguria e la Sardegna. La Relazione della Ca-mera di Commercio indica, nel 1928, fra le «più comunidestinazioni per le merci spedite in cabotaggio da Sa-vona», i porti sardi di Cagliari, Porto Torres, Porto Ve-sme, Carloforte, La Maddalena, Bosa. Tra le principaliprovenienze a Savona figurano: Cagliari, Porto Torres,La Maddalena ed a Vado Ligure: Porto Vesme, PortoTorres, La Maddalena. Sempre nel 1928 viene attivatadalla “Cooperativa Sarda di Armamento e Navigazione”,

160

161

159. Boccale, Liguria, sec. XIXterracotta ingobbiata e invetriata, h 19,7 cm, Scano Montiferro, collezione privata.Questi versatori a Scano Montiferro sono chiamati pitzeri o conzu.

160. Boccale, Liguria, sec. XIXterracotta ingobbiata e invetriata, h 9,7 cm, Cagliari, collezione privata.

161. Boccale, Liguria, sec. XIXterracotta ingobbiata e invetriata, h 12,7 cm, Scano Montiferro, collezione privata.

99

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:09 Pagina 99

con sede a Genova, la linea mensile “Periplo sardo”che, toccando anche Savona, ha scali a La Maddalena,Santa Teresa di Gallura, Castelsardo, Porto Torres, Al-ghero, Bosa, Oristano, Carloforte, Sant’Antioco, Teula-da, Cagliari, Torrevecchia, Muravera, Tortolì, Dorgali,Orosei, Siniscola, Terranova.75

Pentoloni per la SardegnaCirca le caratteristiche delle ceramiche d’uso comuneprodotte ad Albisola, la buona resistenza delle stoviglieagli sbalzi termici, cui le stesse venivano sottoposte du-rante la cottura, veniva garantita dall’uso di una miscela,in parti uguali, di argilla grigia di Albisola e di argillafrancese di Cap d’Antibes, trasportata via mare da velie-ri e barconi, come documentano pure antiche cartolinedi Albisola. L’“arcifullo”, ossia la vernice trasparente leg-germente giallina, che rivestiva l’oggetto prima della se-conda cottura era composto da galena (71,5%), sabbiaquarzosa (21,5%), argilla di Cap d’Antibes. Per la fog-giatura delle pentole si operava al contrario: si partivadal girello foggiando la bocca dell’oggetto; poi si tiravasu un tubo cilindrico, restringendolo progressivamentefino a chiuderlo in alto. Dopo averlo tolto dal girello losi metteva all’aperto ad asciugare. Man mano che si ras-sodava, il torniante, con una spatola di legno, lo batte-va ogni tanto fino a far assumere alla superficie esternadella pentola la forma desiderata. Un sistema analogoera allora in uso in Provenza. L’ingobbio (rivestimentoterroso biancastro), oltre a conferire una tonalità chiaraall’interno della stoviglia, serviva ad evitare la cavillatu-ra della vernice che lo avrebbe impermeabilizzato al-l’interno. Esso veniva versato nella pentola non ancoracompletamente essiccata e fatto aderire in maniera uni-forme alla parete interna dell’oggetto, che veniva ruota-to con le mani.76

Circa il tipo, il nome, la forma delle stoviglie, punti diriferimento possono essere: le immagini dei campionaridel “Consorzio Produttori Stoviglie – An. Coop. in Albi-sola Capo”, precedente la costituzione dell’ILSA, il 5settembre 1933;77 due volantini pubblicitari distribuitiverso gli anni Trenta dalla ditta Umberto Fornari;78 leimmagini di alcuni oggetti in maiolica rustica, in “cera-mica gialla” e di stoviglie correnti pubblicate dal cera-mista e poeta albisolese Tullio d’Albisola nel suo libroLa ceramica popolare ligure.79

Gli oggetti del campionario del “Consorzio ProduttoriStoviglie”, raffiguranti stoviglie grezze, sono identici aquelli proposti al pubblico dalla ditta Umberto Fornari.Si tratta di oggetti rivestiti all’esterno d’una vetrina mar-rone e all’interno da un ingobbio in terra bianca rico-perta di arcifullo, che dà loro un colore giallino. Sono,rispettivamente: una pentola diritta del n. 4 (grandepentola con 4 anse); una pentola da stufa, detta in fran-cese rond-feu e ad Albisola ronfò, di forma a cono,con due anse e al centro un cerchio sporgente che per-metteva di calare profondamente la pentola nella stufain ghisa, togliendone uno dei cerchi che la chiudevano:

100

162

163

162. Pentola, Liguria, fine sec. XIX-inizio XXterracotta ingobbiata e invetriata, h 17,5 cm, Cagliari, collezione privata.Questa tipologia di pentola, riconoscibile per l’invetriatura esternacon manganese e l’ingobbio giallo interno, ebbe una vasta diffusionein tutta la Sardegna, costituendo un modello anche per i figoli sardi.

163. Pentola, Liguria, fine sec. XIX-inizio XXterracotta ingobbiata e invetriata internamente, h 12,7 cm, Cagliari, collezione privata.

164. Pentola, Liguria, inizio sec. XXterracotta ingobbiata e invetriata, h 22,1 cm, Cagliari, collezione privata.

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:09 Pagina 100

si poteva così accelerare la cottura del cibo;una pentola rotonda, di corpo globulare, euna pentola diritta, cilindrica, entrambe condue anse; una pentola bassa, anch’essa ci-lindrica con due anse; un boccale detto adAlbisola tupin; una terrina quadra, formaa cono, con due anse al centro dell’ogget-to; una tazza; una parigina a 2 manici;una terrina comune; una casseruola a 2manici detta ad Albisola tian grande, percuocere il coniglio, il pollo, lo stufato; unacasseruola a 1 manico, usata in genere peri sughi o per cucinare i polipi e le seppie;un testo o teglia. Oggetti dello stesso tipofanno parte delle “stoviglie nere”, ma inve-ce della tazza e del boccale vi figura il botti-cino, un’alta tazza affusolata con ansa. Quisono presenti le tipiche pentole di Albisola,rivestite all’esterno d’una vetrina nera e gialleall’interno per l’ingobbio di terra bianca copertada “arcifullo”.Fra gli oggetti pubblicati da Tullio d’Albisola nelsuo libro La ceramica popolare ligure figurano: unbarattolo usato in cucina e a tavola come contenitoreper il sale o le salse, si tratta di un vasetto bianco, inmaiolica povera, decorato con strisce orizzontali, detto“bombillo”, databile al 1840, attribuito alla fabbrica diGio Batta Siri detto “Barulli”, di Albisola Capo; unpiatto piano da portata in “ceramica gialla”, decorato astampini, attribuito alla prima metà del XIX secolo; unazuppiera da minestre con coperchio, del XIX secolo,anch’essa in “ceramica gialla” con una decorazione apizzo in manganese; una ciotola per minestrone, conla tesa decorata a pennello in manganese, attribuita allametà del XIX secolo; un barattolo per il sale in “cerami-ca gialla” con taches in terra rossa, attribuito alla finedel XIX secolo; una brocca da latte, tupin, in “ceramicagialla” decorata con macchie di manganese, attribuitaal primo quarto del XX secolo; un barattolo per acciu-ghe o da cucina, in maiolica povera, ancora della fab-brica Siri, attribuito alla seconda metà del XIX secolo;uno scaldino in “terraglia nera”, versione “di tipo si-gnorile” d’un oggetto che ha funzione di “braciere” ne-gli ambienti dove manca il riscaldamento; una grandeconca in terracotta. «È il lavabo dei poveri» commenta-va Tullio d’Albisola, «un catino sanitario stranamentedecorato con macchie di ramina verde colante … Ser-ve anche, nelle misure grandi, per il bucato e comescolapiatti. Viene eseguito con argilla fluviale, talvoltaanche allo stato impuro ad una sola cottura». La raminaveniva spruzzata con un ramo sopra l’ingobbio che ri-vestiva l’interno. Sempre a proposito delle pentole e delle stoviglie di Al-bisola e del modo di calcolarne la quantità per vendereil prodotto e pagare i lavoranti (fra cui il torniante, chelavorava a cottimo e che, per foggiare presto e bene glioggetti, aveva bisogno dell’aiuto d’una o più donne, le

“balleggiatrici”, le quali, battendo più volte da una ma-no all’altra le palle d’argilla le rendevano plastiche eprive d’intrusioni) Tullio d’Albisola ricordava che «i ton-di si calcolano a dozzine, ma una dozzina non constagià, come si dovrebbe credere, di dodici capi, sebbene,secondo la dimensione dell’oggetto, si stabilisce quantidi essi debbano concorrere a formare la così detta doz-zina: così vi sono le dozzine che constano di quattrotondi, di cinque, di sei, e via via. Le pentole invece sicalcolano a numeri: e vi è il numero che consta di quat-tro pentole – grandezza massima – quel di cinque, disei e così di seguito, fino a quello che consta di trenta-sei pentolini – misura minima».80

Le più importanti fabbriche albisolesi di ceramiche arti-stiche – ad esempio la “Fenice”, i Mazzotti – avevanodei propri rappresentanti a Genova e in altre grandi cit-tà, dove proponevano il prodotto mostrandone deicampioni o anche dei piccoli esemplari, detti “mostra”,traendoli da una apposita valigia. Non risulta documen-tato – almeno sinora – un analogo modo di vendere lepentole e le stoviglie di Albisola su mercati lontani.Nella memoria di vecchi ceramisti di Albisola v’è l’im-magine di agenti francesi, piemontesi e di altre regioniche si recavano direttamente nelle fabbriche ad ordi-nare. Note potevano diventare, col tempo, le prefe-renze della clientela di città o regioni italiane. «Ecco,per esempio, Roma e Bologna, grandi clienti di Albiso-la, acquistarvi specialmente casseruole, e di misura pic-cola, buone per gli arrosti, per gli umidi, per le vivande

101

164

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:01 Pagina 101

102

165. Casseruola, Liguria, inizio sec. XXterracotta ingobbiata e invetriata, Ø 14,1 cm, Cagliari, collezione privata.

166. Casseruola, Liguria, inizio sec. XXterracotta ingobbiata e invetriata, Ø 13,5 cm, Cagliari, collezione privata.

167. Conca, Liguria, inizio sec. XXterracotta ingobbiata e invetriata internamente, Ø 39,5 cm, Cagliari, collezione privata.

165

appetitose e accurate: gente che mangia bene e ama gliintingoli. Di contro, il Veneto, la Sardegna, la Campaniacompreranno per lo più pentolame: quei marmittonigrandi grandi, capaci di un numero imprecisabile di ra-zioni, che poi saranno state razioni di polenta o di pastae fagioli: alta natalità, gusti semplici, vita povera e stenta… Attraverso il povero coccio vedevi una famiglia sedu-ta alla mensa e indovinavi se era patriarcale o ristretta-mente contadina o borghese» scriveva un altro poeta al-bisolese, pure lui figlio di ceramisti, Angelo Barile.81

Note

1. Un doveroso ringraziamento per la collaborazione ricevuta va rivol-to a: Archivio di Stato di Savona; Arciconfraternita dei Genovesi di Ca-gliari; Biblioteca Civica “Barrili” di Savona; Biblioteca Universitaria diGenova; Biblioteca di Storia del Diritto, Facoltà di Giurisprudenza del-l’Università di Genova; Ufficio del Registro delle Imprese e Ufficio Stu-di della Camera di Commercio di Savona; “Piral 1870”; Torido “Turi-din” Colombo; Franco Fornari; Graziella Locatelli Marzinot; Giuseppe“Bepi” Mazzotti.

2. A. Boscolo, “L’età dei Giudici”, in La Sardegna, a cura di M. Briga-glia, vol. 1, Cagliari 1982, p. 28.

3. T.O. de Negri, Storia di Genova, Milano 1968, p. 186.

4. A. Boscolo, “L’età dei Giudici” cit., p. 29.

5. M.L. Ferru, M.F. Porcella 1995.

6. C. Varaldo 1983, p. 58.

7. M.L. Ferru, M.F. Porcella 1995, p. 309.

8. C. Varaldo, “Savona nel secondo Quattrocento, aspetti di vita eco-nomica e sociale”, in Savona nel Quattrocento e l’istituzione del mon-te di pietà, Savona 1980, p. 44.

9. F. Marzinot 1979, p. 148.

10. M.L. Ferru, M.F. Porcella 1995, p. 309.

11. G. Usai, “L’archivio”, in Arciconfraternita dei Genovesi – il Museo,Cagliari 2007, pp. 3, 10-11.

12. M.L. Ferru, M.F. Porcella 1995, pp. 310, 312.

13. D. Precotto, “Le tonnare alassine”, in Liguria, n. 2, febbraio 1992,pp. 11-12.

14. D. Durante, I. Deferrari, Pescatori di corallo turco barbareschi ban-diti e schiavi, Imperia 1984, p. 13.

15. T. Bruna, I pegliesi di Tabarca, Sestri Ponente 1898, pp. 12-15.

16. G. Giacchero, Genova e Liguria nell’età contemporanea, vol. I, Ge-nova 1980, p. 102.

17. D. Durante, I. Deferrari, Pescatori cit., p. 15.

18. G. Giacchero, Genova e Liguria cit., p. 102.

166

167

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:13 Pagina 102

19. C. Costantini, La Repubblica di Genova nell’età moderna, Torino1978, p. 369.

20. L. Bulferetti, C. Costantini, Industrie e commercio in Liguria nell’etàdel Risorgimento (1700-1861), Milano 1966, p. 171.

21. G. Giacchero, Genova e Liguria cit., pp. 28, 58, 189-190.

22. M.L. De Felice, “La storia economica dalla fusione perfetta alla le-gislazione speciale”, in Le regioni d’Italia. La Sardegna dall’Unità adoggi, Torino 1998, pp. 296-297.

23. M.L. De Felice, “La storia economica” cit., pp. 298, 300-340.

24. G. Berti, M. Hobart, M.F. Porcella 1993, pp. 155, 157, 159-161, 163;C. Varaldo 1983, pp. 59-60.

25. F. Noberasco, “La ceramica savonese”, in Atti della Società Savone-se di Storia Patria, vol. II, Savona 1925, p. 4.

26. F. Marzinot 1979, p. 104.

27. N. Calvini, E. Putzolu, V. Zucchi, Documenti inediti su trafficicommerciali tra la Liguria e la Sardegna nel secolo XIII, Padova 1957,p. 61.

28. C. du Cange, Glossariun mediae et infimae latinitatis, tomo VIII,Bologna 1803, p. 129.

29. N. Calvini, E. Putzolu, V. Zucchi, Documenti inediti cit., pp. 63,66-77.

30. A. Boscolo, “Rapporti tra Genova e la Sardegna nel secolo XII enella prima metà del XIII”, in N. Calvini, E. Putzolu, V. Zucchi, Docu-menti inediti cit., p. XXVI.

31. N. Calvini, E. Putzolu, V. Zucchi, Documenti inediti cit., pp. 75-76;A. Boscolo, “Rapporti tra Genova e la Sardegna” cit., p. XIX.

32. M.L. Ferru, M.F. Porcella 1992, “La circolazione”, p. 160, nota 11,pp. 307-314.

33. A.M. Rossetti, “Ceramica a Savona ed Albisola nella seconda metàdel Cinquecento: produzione e commercio”, in Atti del XXV Conve-gno Internazionale della Ceramica, Firenze 1995, pp. 149-164.

34. M.L. Ferru, M.F. Porcella 1992, “La terraglia”, p. 37.

35. C. Varaldo, “L’esportazione di ceramica savonese nella documenta-zione archivistica del XVII secolo”, in Atti del V Convegno Internazio-nale della Ceramica, Albisola 1973, pp. 338-339, 341, 345.

36. M.L. Ferru, M.F. Porcella 1992, “La terraglia”, p. 37.

37. M.N. Bourget, “L’inchiesta e il territorio: la statistica dipartimentalenel periodo napoleonico”, in J.G. Chabrol de Volvic, Statistica del Di-partimento di Montenotte, ristampa a cura di G. Assereto, Savona 1994,pp. 38-63.

38. J.G. Chabrol de Volvic, Statistica cit., vol. 2, pp. 235, 352-354.

39. A. Cameirana, “La ceramica albisolese a taches noires, nota intro-duttiva”, in Atti del X Convegno Internazionale della Ceramica, Savona1980, pp. 277-285.

40. J.G. Chabrol de Volvic, Statistica cit., vol. 2, p. 234.

41. A. Cameirana, “La ceramica albisolese” cit., pp. 280-281.

42. J.G. Chabrol de Volvic, Statistica cit., vol. 2, p. 234, nota 13, p. 238.

43. A. Cameirana, “La terraglia nera ad Albisola agli inizi dell’800”, in At-ti del III Convegno Internazionale della Ceramica, Savona 1971, p. 64.

44. G. Garbarini, Cenni storici intorno al borgo di Albissola marina,Genova 1886, p. 56.

45. C. Franzia Buscaglia, “La ceramica popolare ligure al tempo dellaSanta Rossello”, in Albisola alla sua Santa, Parrocchia di Nostra Signo-ra della Concordia, Albisola Marina 1981, p. 86.

46. C. Franzia Buscaglia, “La ceramica popolare ligure” cit., p. 86.

47. G. Garbarini, Cenni storici cit., p. 56.

48. A. Cameirana, “La terraglia nera” cit., pp. 66, 69-72; C. FranziaBuscaglia, “La ceramica popolare ligure” cit., p. 89.

49. C. Franzia Buscaglia, “La ceramica popolare ligure” cit., p. 89.

50. N. Cerisola, “L’industria delle stoviglie e della terraglia”, in Storiadelle industrie savonesi, Genova 1965, p. 45.

51. F. Marzinot 1979, p. 22.

52. G. Garbarini, Cenni storici cit., p. 57.

53. C. Franzia Buscaglia, “La ceramica popolare ligure” cit., p. 89.

54. T. d’Albisola 1964, p. XXII.

55. A. Cameirana, “La terraglia nera” cit., pp. 71-72.

56. C. Franzia Buscaglia, “La ceramica popolare ligure” cit., p. 89.

57. C. Franzia Buscaglia, “La ceramica popolare ligure” cit., p. 91; F.Marzinot 1989, p. 53.

58. G. Corona, La Ceramica, Milano 1885, pp. 130-132.

59. N. Cerisola, “L’industria delle stoviglie” cit., p. 46.

60. N. Cerisola, “L’industria delle stoviglie” cit., p. 46; F. Marzinot1989, p. 551.

61. G.L. Cerchiari, “Nel paese delle pignatte”, in Il Secolo XX. Rivistapopolare illustrata, a. 9, n. 9, Milano, settembre 1906, pp. 730-737.

62. T. d’Albisola 1964, pp. XLV-LI; I.R. Rossello, “Vita sociale dei figulialbisolesi: la prima battaglia del lavoro nel 1887-88”, in Atti del III Con-vegno Internazionale della Ceramica, Savona 1971, pp. 153-169.

63. G. Buscaglia, “La Cooperativa Stovigliai: vicende d’una fabbrica al-bisolese”, in Albisola Rassegna 2000 – X Mostra regionale della cera-mica artigianale ed artistica, Albisola 1984, pp. 118-126.

64. Informazione fornita dall’Azienda all’autore.

65. Relazione sull’attività svolta dal Consiglio della Camera di Com-mercio ed Industria di Savona durante l’anno 1928, Biblioteca UfficioStudi Camera di Commercio di Savona, p. 166.

66. Relazione sull’attività cit., 1928, pp. 163-164.

67. Relazione sull’attività svolta dal Consiglio della Camera di Commer-cio ed Industria di Savona durante l’anno 1929, Biblioteca Ufficio Stu-di Camera di Commercio di Savona, pp. 144, 146, 194-195, 219, 257.

68. F. Marzinot, Omaggio a Torido, Albisola Marina 1988, p. 24.

69. C. Varaldo, “L’esportazione di ceramica” cit., p. 342.

70. M. Scarrone, “La fabbrica di ceramica Isola durante la gestione diGio Luigi Bosio 1703-1709”, in Atti del IV Convegno Internazionale de-la Ceramica, Savona 1972, p. 184.

71. F. Ciciliot, “Questa Comune a tempi quieti spera: commercio ma-rittimo di ceramica di Albisola tra Sette e Ottocento”, in Atti del XIXConvegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1989, p. 297.

72. F. Marzinot 1979, pp. 91, 94.

73. Usi mercantili e marittimi accertati dalla Camera di Commercio,Archivio di Stato di Savona, Fondo Camera di Commercio di Savona,Verbali 1915, p. 1.

74. F. Marzinot 1979, p. 307.

75. Relazione sull’attività cit., 1928, pp. 206-207, 226.

76. E. Biavati, “La stoviglieria da fuoco ad Albisola nel primo Nove-cento”, in Atti del IX Convegno Internazionale della Ceramica, Albiso-la 1977, pp. 463-464. Ringrazio Torido “Turidin” Colombo, torniante diAlbisola Marina, per le informazioni circa il modo con il quale suo pa-dre Giuseppe “Pepin” Colombo foggiava le pentole.

77. F. Marzinot 1979, p. 301, fig. 356; F. Marzinot 1989, p. 73, fig. 119.

78. G. Buscaglia, “La Cooperativa Stovigliaia” cit., figg. alle pp. 121-122.

79. T. d’Albisola 1964, figg. alle pp. 6-9, 36-37, 50-53, 83, 105-106, 108,111, 113-115.

80. T. d’Albisola 1964, p. XXIII.

81. A. Barile, “La casa del figulo”, in Il Letimbro, a. LXXV, n. 38, Savo-na, 29 settembre 1966.

103

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:01 Pagina 103

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:01 Pagina 104

105

È noto che il vocabolo latino fig(u)lina – riconducibilea figulus “vasaio”, il quale a sua volta è connesso alverbo fingo “plasmare, modellare (l’argilla)”, che conti-nua una radice indoeuropea rappresentata in numeroselingue – era impiegato per indicare l’arte del vasaio, co-me pure la sua bottega e la cava di argilla.1 In relazionea tale vocabolo e all’attività da esso designata, una del-le tracce più remote ed eloquenti che la linguistica pos-sa rinvenire in Sardegna è consegnata dal patrimoniotoponimico isolano, più precisamente è testimoniatadalla vicenda del nome di luogo Florinas (pronunziatolocalmente Fiolínas), relativo a un piccolo centro chesorge a pochi chilometri di distanza da Sassari. Nel ri-cercarne l’origine in primo luogo è stato necessariosottrarsi a quella sorta di illusione ottica rappresentatadalla veste ufficiale del toponimo che, come vedremo,non riflette un’evoluzione fonetica regolare della baselatina di provenienza: si può stimare probabile, infatti,che tale veste sia sorta a partire dalla forma locale delnome (Fiolínas, si è già precisato), a sua volta percepi-ta come recante nella sillaba iniziale una marca lingui-stica italiana, e ciò sulla base delle note corrispondenzefra, ad es., il logudorese settentrionale fjámma “fiam-ma” < lat. FLAMMA, fjòre “fiore” < FLOS, -ORE ecc. (che esi-biscono, appunto, palatalizzazione di tipo italiano)2 e ilresto del logudorese frámma, fròre ecc.;3 di conse-guenza, per reazione anti-italiana, Fiolínas fu emendato(“sardizzato”, verrebbe da dire), ma non in *Frolínas,come si sarebbe atteso sulla base delle corrisponden-ze dialettali illustrate in precedenza, bensì in Florinas,intervento che mostra una volontà latinizzante nel ri-chiamo a flos, floris “fiore”.4 Sono però le attestazionimedioevali del toponimo a mettere sulla giusta via il ra-gionamento etimologico: presente, infatti, sin nei docu-menti più antichi, quali i Condaghi di San Pietro di Silkie di San Nicola di Trullas, nelle varianti Ficulinas, Figu-linas, Fiulinas,5 esso mostra chiaramente di derivaredal lat. FIGULINAS nel senso di “botteghe dei vasai” o di“cave di argilla”.6

Richiamato cursoriamente il valore di testimonianzastorica della persistenza toponimica appena illustrata,intendiamo ora soffermare l’attenzione, in modo spe-ciale, sopra alcuni termini che fanno riferimento al-l’ambito della produzione di quella che può esseredefinita ceramica d’uso di fattura popolare,7 etichettariassuntiva all’interno della quale resta compresa unaserie di utensili che, sino a qualche decennio fa, eranopresenti e utilizzati quotidianamente nelle case sarde.In questo settore terminologico è particolarmente inte-ressante il vocabolo centr. istérju, log. istérdzu, camp.stré≥u che, documentato già nei testi medioevali (peres. il Condaghe di Santa Maria di Bonarcado e gli Sta-tuti Sassaresi),8 offre una serie piuttosto articolata di si-gnificati che ruotano intorno alla nozione fondamenta-le di “recipiente”. Per illustrare l’estensione semanticadi questo vocabolo, tuttavia, sarà utile dare una scorsaalle definizioni presenti in alcuni dei dizionari dei qua-li disponiamo: il Porru, ad es., offre del camp. strexule accezioni di “fardello” («po sa roba, chi si portat inviaggiu, o po fai prangiu in campagna, e similis»), “sto-viglie” («strexu de terra po usu de coxina»), “bagaglio”(«po su strexu, chi portant a pala is sordaus in s’eserci-tu») e anche “utensili” («po aterus mobilis, o alascias dedomu, strexu de terra, o de fenu ec.»);9 più stringata-mente lo Spano definisce il log. istèrzu nei termini di“arnese, utensile, stoviglia, vasame” e, limitatamente al-la locuzione isterzu de ponner binu, “bottume”;10 sul-l’accezione principale di “recipiente” insiste il Casu(salvo specificare che esso può essere de terra, de lin-na, de latta, de metallu),11 e non troppo distante daqueste ultime indicazioni è pure la definizione del Wag-ner, che per il nostro termine indica i significati princi-pali di “stoviglia, recipiente, vaso”;12 infine, i due dizio-nari dialettali del Farina, per il nuorese, e del Cabras,per il baroniese, pongono in adeguato rilievo, al fiancodel significato di “recipiente”, quello di “stoviglie” e, inun caso (Cabras), anche l’altro di “corredo domesticodi stoviglie”.13

Riassumendo, dunque, le opere lessicografiche cheabbiamo preso in considerazione per delimitare il si-gnificato del nostro vocabolo offrono in modo presso-ché costante, al fianco dell’accezione più generica di

Appunti sul lessico sardo della figulinaGiovanni Lupinu

168. Torniante, Assemini, 1960 (foto Marianne Sin-Pfältzer).Nella foto è ritratto il giovane Luigi Nioi.168

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:44 Pagina 105

“recipiente”, il riferimento specifico alle stoviglie di ter-racotta, e ciò anche in assenza del determinante deDèrra;14 casomai, è quando si vogliono indicare altrirecipienti di diverso materiale, quali, ad es., le corbe ei canestri, che si impiegano con più frequenza, se nonobbligatoriamente, sintagmi del tipo di strè≥us de vénuecc. Se poi si considera, in aggiunta a tutto ciò, che ilnome di mestiere, log. isterdzáju, camp. stre≥áju, desi-gna il vasaio e lo stovigliaio,15 si può ragionevolmenteipotizzare che il termine centr. istérju, log. istérdzu,camp. stré≥u avesse inizialmente il riferimento prima-rio a recipienti di terracotta, estendendo in progressodi tempo l’accezione originaria a quella più generica di“recipiente” tout court.Più complessa della vicenda semantica, seppure intima-mente connessa, è la questione etimologica legata alvocabolo di cui discorriamo. Tralasciando le ipotesi piùimprobabili che, come suole accadere specialmente neicasi controversi, sono folla, una proposta interessanteal riguardo fu avanzata da Rudolf Böhne: partendo dal-l’accezione (secondaria) di “corredo” riscontrata nelSarrabus per il termine stré≥u (come si è già avuto oc-casione di rilevare, infatti, qui e altrove le stoviglie co-stituivano parte del corredo della sposa), il linguista te-desco poté suggerire per esso una derivazione dal cat.creix, escreix “aumento legale della dote” (oltreché,meno tecnicamente, “aumento”), ipotesi, però, che ma-

le si concilia con la precoce attestazione della voce insardo, come pure, almeno parzialmente, col suo signifi-cato.16 Un altro etimo non del tutto inverosimile cheper questo vocabolo fu preso in considerazione, in unprimo momento, dallo stesso Wagner è l’ital. stiglio, sti-gli, presente nella sezione centro-meridionale della pe-nisola col significato di “mobili”, ma anche “attrezzi,masserizie, ordigni, utensili” e, in Sicilia (stigghiu), “sto-viglie, oggetti di terracotta per la cucina”: l’assenza del-la vibrante -r- nella forma italiana, tuttavia, rende pro-blematica tale derivazione, e questo per dire solo delledifficoltà fonetiche.17 Ostacoli simili si frappongono aun accostamento al lat. TERREUS, spendibile bene solodal punto di vista semantico, così come a CAPISTERIUM

(una sorta di crivello o ventilabro per il frumento), riu-scendo malagevole, nel primo caso, spiegare la sempli-ficazione della vibrante geminata (di solito stabile nelpassaggio dal latino al sardo), nel secondo caso la per-dita dell’elemento iniziale CAP-.18 Già da questi brevicenni riassuntivi sulla discussione etimologica che haaccompagnato il nostro vocabolo, si potrà comprende-re il tono rassegnato col quale M.L. Wagner chiudeva ilrelativo lemma nel Dizionario Etimologico Sardo: «Inultima analisi, la sua provenienza rimane oscura».In tempi più recenti tutta la questione è stata riesami-nata da Carlo Alberto Mastrelli che, per parte sua, ègiunto infine a ipotizzare una derivazione da *gastériu,

106

169. Efisio Cugusi, Boccale, Villaputzu, 1890terracotta invetriata, h 18,5 cm, Nuoro, collezione privata.Il versatore, fatto piuttosto insolito, ha inciso sul fianco la firma dell’esecutore, la data e il luogo di realizzazione: Maestro Cugusi EfisioVillaputzu anni Trenta 1890.

170. Conca, Assemini, metà sec. XXterracotta invetriata internamente, Ø 45 cm, Assemini, collezione privata.169

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:02 Pagina 106

a sua volta dal greco gastr…on /gastr…, diminutivo dig£stra “vaso, recipiente panciuto”, «con aferesi dellaprima sillaba (ga-), o – meglio ancora – con perditadella gutturale sonora iniziale (g-), e con l’inserimentotipicamente sardo della vocale epentetica e tra t e r »:19

la trafila fonetica ipotizzata per questo supposto greci-smo di epoca bizantina è pertanto *su gastériu > *suastériu, con la forma *astériu successivamente genera-lizzata anche al di fuori della posizione intervocalica infonetica sintattica.20

Rispetto all’ipotesi etimologica del Mastrelli, tuttavia,appare più economica la proposta ultimamente avan-

zata da Massimo Pittau, che ha pensato a SESTERIUM,una variante documentata nel latino medioevale delclassico sextarius, misura per solidi e per liquidi, dacui deriva, ad es., anche l’ital. staio (che indica, comeè noto, sia un’unità di misura di capacità per aridi, im-piegata in Italia prima dell’adozione del sistema metri-co decimale, con valori differenti a seconda delle lo-calità, sia un recipiente per la misura di uno staio).21

Occorre tuttavia precisare che nel latino medioevale è at-testata pure la variante sisterium, che meglio si conciliadal punto di vista fonetico con la voce sarda, che da es-sa potrebbe essere derivata per discrezione del supposto

107

170

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:02 Pagina 107

articolo.22 Oltre al fatto che l’etimo suggerito dal Pittaunon propone alcuna difficoltà di carattere formale, oc-correrà pure valutare la circostanza che sovente i nomidei recipienti erano anche nomi di unità di misura dicapacità, proprio perché si trattava di recipienti-misu-ra: si pensi, giusto per fare un esempio, oltre al casodi staio discusso di passaggio più in alto, all’ital. mog-gio (dal lat. MODIUS), che indica sia un’antica unità dimisura di capacità per aridi, sia il recipiente che ha lacapacità di un moggio.

Passando ora all’analisi di alcuni vocaboli sardi che de-signano specifici prodotti della figulina locale, occorrein primo luogo puntualizzare che, dovendo seleziona-re un inventario per lo meno rappresentativo del rela-tivo settore terminologico, abbiamo dovuto fare i conticon la circostanza – peraltro ampiamente prevedibile eprevista – che le definizioni proposte nelle opere lessi-cografiche disponibili sono assai spesso stringate o im-precise, quando non ingannevoli e contraddittorie.23

A ciò si somma la complicazione rappresentata dal fat-to che, a seconda delle località, a una medesima eti-chetta linguistica possono, eventualmente, essere asso-ciati utensili di forma o anche funzione diversa, così

come, in modo complementare, lo stesso utensile puòessere designato con nomi differenti in ragione del va-riare dei centri in cui trova impiego: giusto per fare unesempio, al di là della definizione provvisoria che an-che qui, di necessità, adotteremo e forniremo più avan-ti per il termine frásku, ricavandola dal Wagner, non cisfugge che tale espressione indica in alcuni centri uncontenitore per liquidi che, in altri paesi (ove frásku èpure in uso, ma per designare recipienti esteriormentedifferenti), è chiamato baríl’a (sa aríl’a, sa eríl’a) osimm.24 L’economia generale della presente opera, incui le “cose” trovano ampia trattazione nelle appositesezioni, ci permette tuttavia di concentrare l’attenzionesoprattutto sulle “parole”, al fine primario di poter svi-luppare, in conclusione, alcune considerazioni generalisulla composizione etimologica del contingente lessi-cale esaminato.Incominciando ora la nostra rassegna, possiamo ricor-dare il termine logudorese bròkka “brocca, anfora”,che è di chiara derivazione italiana e trova impiegoper indicare «il vaso a due manici ed un collo utilizza-to per la raccolta dell’acqua alla fonte e per la conser-vazione domestica»;25 la voce campidanese brokkáli“piccola brocca di terraglia, in cui si tiene l’acqua per

108

171

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:02 Pagina 108

lavarsi”, col suo diminutivo brokkalíttu, brokkolíttu,provengono invece dal cat. brocal, brocalet.26 In areacampidanese è preferito, rispetto a bròkka, il geosino-nimo mániùa, máriùa,27 riguardo al quale il Wagner silimitò a prospettare la possibilità di un legame conmánu “mano”, giudicato tuttavia problematico in ra-gione del fatto che la forma con -r- (máriùa) è la piùdiffusa; in conclusione del proprio esame, lo studiosotedesco si spingeva addirittura ad asserire che «è benpossibile che la voce sia preromana».28 Alla luce dellacomposizione etimologica del settore lessicale sul qua-le stiamo soffermando la nostra attenzione, tuttavia, cipare che invocare l’argomento della persistenza delsostrato per il vocabolo mániùa, máriùa non costitui-sca procedimento esattamente economico. Oltre a ciò,con tutte le cautele del caso, esiste la possibilità diprospettare una spiegazione differente che trae spuntodalle caratteristiche morfologiche dell’utensile: è noto,

infatti, che le anse sono chiamate in sardo, oltrechéápas (da ANSA),29 anche mániùas (da MANICA),30 sicchénon è affatto improbabile che la denominazione dellaquale discutiamo sia sorta a partire da un procedimen-to sineddochico che ha portato a indicare il tutto colnome di una sua parte (nella brocca ansata in questio-ne, in sostanza, è proprio l’ansa che fu percepita comel’elemento più caratteristico, tanto da designare l’interorecipiente). Circa l’altra forma con -r- (máriùa), essadovette sorgere, giusta la nostra ipotesi, secondaria-mente, forse attraverso l’incrocio con una voce – chenon siamo in grado di specificare – associata dai par-lanti, per una qualche ragione, a mániùa (o m,jùa),se non, più semplicemente, per un fenomeno dissimi-lativo che comportò la perdita della nasalità nella se-conda sillaba.31

Sempre in area campidanese, inoltre, col significato di“brocca” è segnalato il termine kántaru, che provienedallo sp. cántaro.32 A Bosa, poi, nella medesima acce-zione si incontra koffáina, voce proveniente dallo sp.volg. cofaina per jofaina, se non dal cat. cofaina, chein altre zone del dominio dialettale logudorese è im-piegata nel significato di “catinella”.33

109

171. Donna con brocca di Assemini, Tonara, 1956 (foto Marianne Sin-Pfältzer).

172. Bambine di Cabras alla fonte con brocche di Oristano, anni Venti (foto Charles Delius).

172

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:02 Pagina 109

110

173. Brocca, Assemini, metà sec. XIXterracotta parzialmente invetriata, h 42,6 cm, Bosa, collezione privata.

174. Donna con brocca di Assemini, Teulada, anni Sessanta (foto Josip Ciganovich).173 174

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:19 Pagina 110

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:28 Pagina 111

112

Restando ancora nel dominio dialettale campidanese,è molto caratteristico pure il vocabolo búrnia “giarra,orcio”, “brocca a bocca larga” utilizzata per la conser-vazione degli alimenti (come olive e pomodori sec-chi), che proviene dal cat. búrnia e presenta numero-se varianti, fra le quali ci limitiamo a ricordare quellaoristanese brúnnja.34

Il vocabolo camp. &árra, log. dzárra, che proviene dal-l’italiano, indica la “giarra, recipiente per conservarel’olio”; di esso sono conosciute anche le varianti log.dzòrra, &òrra, che si possono ricondurre al pisano anti-co giorra.35 Sempre nell’accezione di “orcio, giarra”, se-gnaliamo la voce centr. e camp. dzíru, &íru (a Dorgalisírju), che è prestito dall’ital. ant. ziro.36

Con la voce log. kóndzu, camp. kón&u, dal lat. CON-GIUS, si indica un “vaso di terra cotta”, “boccale” e una“misura di liquidi” (circa 3 litri); fra i suoi derivati sihanno il log. kondzále, camp. kon&ále, kun&áli e illog. kondzé{{u, camp. kon&é{{u; qui rammentiamoanche il nome di mestiere camp. kon&ulár&u (a Orista-no) “stovigliaio, vasaio”.37

Col termine log. e camp. frásku, fjásku, dall’ital. fiasco,si fa riferimento a una “brocca di terra cotta per con-servarvi l’acqua, che ha il ventre schiacciato e il collo e

le anse attaccate alla pancia e si posa orizzontalmente,mentre la bròkka ha il collo e le anse al sommo e siposa verticalmente”.38

Segnaliamo ora la voce log. pi**éri “bricco”, camp.pittséri “mesciroba, vaso per l’acqua”, log. pittsarè{{a“brocca”, che si lasciano ricondurre al cat. pitxer: comeha rilevato M.L. Wagner, nelle forme con -tts- si ricono-sce la presenza di píttsu “becco”, ragione per la qualeil medesimo recipiente è anche chiamato pittsúDu.39

Il termine log. e camp. dísku, camp. anche dískua, “sco-della” proviene dal lat. DISCUS,40 mentre la voce camp.palangána, che ha il significato di “bacino, catinella”,“fiamminga”, deriva dallo sp.-cat. palangana.41

Fra i termini impiegati per indicare pentole e tegamiche un tempo erano realizzati in terracotta, ricordiamo:camp. pin&áDa “pignatta, pentolo”, da *PINEATA, mentre

175. Brocche alloggiate nell’apposita vasca domestica, 1956 (foto Marianne Sin-Pfältzer).La vasca, spesso collegata a un canale di scolo del giardino, ovviavaall’inconveniente della trasudazione. Il bordo frontale è sagomatoper agevolare il gesto di inclinare la brocca nel versare.

176. Brocca, Oristano, inizio sec. XXterracotta parzialmente invetriata, h 35 cm, Baunei, Museo Etnografico Sa dommu baunesa.

175

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:03 Pagina 112

113

176

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:03 Pagina 113

177

179178

114

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:23 Pagina 114

il log. pindzátta è un italianismo (da pin&áDa derivanoanche i nomi di mestiere pin&aDáju, pin&aDéri, che in-dicano «chie faghet o triballat padedhas de terra, isterzude terra»);42 log. e camp. kassaròla, talora anche kassa-lòra, “casseruola, tegame”, dall’italiano;43 log. e camp.tiánu, diánu, tiané{{u “tegame, catino di terracotta”,anche “madia”, dal gr. thg£ni(on).44

Fra i vocaboli relativi alla madia o comunque a delleconche in cui si impastava la farina, ricordiamo: log.iskívu, iskíu, iskivè{{a, camp. ≤ívu, ≤ivé{{u, ≤ivè{{a(anche ≤uv-) “madia”, “conca”, da SCYPHUS;45 log. le•ré-ri “specie di conca di terra cotta verniciata in cui si im-pasta la farina”, dal cat. llibrell;46 log. e camp. kònka“isterzu de terra pro impastare sa farina o scivedha decumossai”, dal lat. CONCHA;47 camp. e barb. kóssju, log.kóssu “conca” e anche “tino per bucato” (di terra cot-ta), dal cat. cossi, cui si può raccostare anche l’arag.cocio;48 log. tevvanía, tavanía “madia”, “piccola con-ca”, da confrontarsi col sen. e aret. tefanía, genov. tof-fanía, corrispondenti all’ital. tafferia.49 Alle voci logu-doresi di cui si è appena detto il Wagner accosta ancheil camp. tuvonèra che, riprendendo il Porru, è definito“grande concola di terra” e, a suo giudizio, «non puòessere un derivato diretto da túvu “fondo”».50 Nel deci-dere della questione, tuttavia, occorrerà tenere presen-te che túvu è attestato anche nel significato di “secchiadi terracotta della noria”, «díscua manna de terra, a for-ma de tassa, chi girat in un’arroda po piscai àcua defuntana in is ortus»;51 sono inoltre segnalate le voci tú-vulu, con il medesimo significato della precedente,52 etuvúka “piccola conca per fare il pane”.53 Sembrerebbedunque, stante anche l’esistenza di queste voci, chel’ipotesi di un legame di tuvonèra con túvu “cavo, pro-fondo” non sia così problematica come sosteneva ilWagner: la spiegazione a nostro avviso più probabile èche il punto di partenza sia costituito dal cat. ant. tu-donera “plat fondo per a tallar-hi i servir en taula elstudons”,54 prestito col quale venne poi a incrociarsi,appunto, la voce locale túvu “cavo, profondo”. Un si-mile accostamento di tudonera a túvu appare confer-mato dalla circostanza che tuvonèra è attestato anchecol medesimo significato di túvu e túvulu, ossia “sec-chia di terracotta della noria”.55

Segnaliamo, infine, i seguenti due termini impiegatiper indicare il vaso di fiori: log. e camp. pastèra, che èdal cat. pastera,56 e camp. téstu, dal cat. test.57

I dati raccolti e illustrati in precedenza compongono unquadro sufficientemente articolato che consente, a que-sto punto, di acquisire un’idea chiara sulla costituzionee la composizione etimologica del lessico sardo dellaceramica d’uso di fattura popolare. Come risultanza piùimmediata, balza subito all’occhio che i vocaboli di di-retta ascendenza latina costituiscono, nel complesso, unmanipolo abbastanza limitato: con maggiore precisione,abbiamo incontrato centr. istérju, log. istérdzu, camp.stré≥u “recipiente (di terracotta)” (< SISTERIUM), che già

177. Noria, 1904 (foto Max Leopold Wagner).

178-179. Recipienti per noria, Oristano, prima metà sec. XXterracotta, rispettivamente h 36,5 e 27,6 cm, Cagliari, collezione privata.

180. Noria, Assemini, 1982 (foto Herman Geertman, archivio M.B. Annis).

180

115

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:05 Pagina 115

abbiamo rimarcato essere dotato di significato piuttostogenerico; inoltre, con riferimenti semantici più specifici,si sono censiti il log. kóndzu, camp. kón&u “vaso di ter-ra cotta”, “boccale” (< CONGIUS), log. e camp. dísku,camp. dískua “scodella” (< DISCUS), camp. pin&áDa “pi-gnatta, pentolo” (< *PINEATA), log. iskívu, iskíu, camp.≤ívu e derivati “madia”, “conca” (< SCYPHUS), log. ecamp. kònka “isterzu de terra pro impastare sa farina oscivedha de cumossai” (< CONCHA).Di contro, si è potuto constatare che sono state soprat-tutto le lingue di superstrato ad aver infoltito di prestiti ilsettore terminologico sul quale abbiamo portato la no-stra attenzione, circostanza che, evidentemente, è il cor-rispettivo linguistico dell’influenza esercitata nel campodella figulina (come, del resto, in numerosi altri settoridella cultura materiale) dalle diverse popolazioni che nelcorso del tempo si affacciarono e si stabilirono duratura-mente in Sardegna. In particolare, si è potuta apprezzarela circostanza per la quale sono frequenti soprattutto ivocaboli di origine iberica: abbiamo segnalato il camp.brokkáli “piccola brocca di terraglia, in cui si tiene l’ac-qua per lavarsi”, dimin. brokkalíttu, brokkolíttu (< cat.brocal, brocalet), camp. búrnia, brúnnja “giarra, orcio”,“brocca a bocca larga” (< cat. búrnia), log. pi**éri “bric-co”, camp. pittséri “mesciroba, vaso per l’acqua”, log.pittsarè{{a “brocca” (< cat. pitxer), log. le•réri “speciedi conca di terra cotta verniciata in cui si impasta la fari-na” (< cat. llibrell ), camp. e barb. kóssju, log. kóssu“conca” e anche “tino per bucato” (< cat. cossi), camp.tuvonèra “grande concola di terra” (< cat. tudonera in-crociato con túvu), log. e camp. pastèra “vaso per fiori”(< cat. pastera), camp. téstu “id.” (< cat. test), camp.kántaru “brocca” (< sp. cántaro), log. koffáina “broc-ca”, “catinella” (< sp. volg. cofaina per jofaina), camp.palangána “bacino, catinella”, “fiamminga” (< sp.-cat.palangana), camp. *átta “fiasca di terracotta col ventreschiacciato” (< sp. chato).In aggiunta a questa quota cospicua di termini di pro-venienza iberica (in alcuni casi, vale la pena di pun-tualizzare, non è agevole dire con certezza se l’originesia catalana o castigliana), si lascia circoscrivere uncontingente lessicale di provenienza italiana, la cui en-tità è del pari non esigua: rammentiamo il log. bròkka“brocca, anfora” (= ital.), camp. &árra, log. dzárra“giarra, recipiente per conservare l’olio” (< ital. giarra),log. dzòrra, &òrra “id.” (< pis. ant. giorra), centr. ecamp. dzíru, &íru “orcio, giarra” (< ital. ant. ziro), log.e camp. frásku, fjásku “brocca di terra cotta per con-servarvi l’acqua, che ha il ventre schiacciato e il collo ele anse attaccate alla pancia e si posa orizzontalmente”(= ital.), camp. baríl’a “barilotto di terra cotta, munitodi anse e col ventre schiacciato” (< ital. ant. bariglio),log. pindzátta “pignatta” (= ital.), log. e camp. kassa-ròla, kassalòra “casseruola, tegame” (= ital.), log. tev-vanía, tavanía “madia”, “piccola conca” (cfr. sen. earet. tefanía, genov. toffanía, ital. tafferia).

Note

1. Si veda, ad es., A. Ernout, A. Meillet, Dictionnaire étymologique dela langue latine, Paris 19854, p. 235, s.v. fing¢.

2. Cfr. M.L. Wagner, Fonetica storica del sardo, a cura di G. Paulis, Ca-gliari 1984, § 251 ss. Avvertiamo ora che per la trascrizione del sardo –laddove non si seguano le opere di volta in volta citate – impieghia-mo, sostanzialmente, il sistema adottato in M.L. Wagner, DizionarioEtimologico Sardo (= DES), Heidelberg 1960-64, scostandocene soltan-to per la notazione non distintiva di i semivocale e l’impiego di j per isemiconsonante. Le basi etimologiche latine sono citate, in maiusco-letto (e senza indicazione della quantità vocalica, ove non rilevante),secondo W. Meyer-Lübke, Romanisches etymologisches Wörterbuch,Heidelberg 1935.

3. Analogamente, anche in campidanese si hanno le forme frámma,fròri: cfr. DES, vol. I, p. 539, s.v. frámma, e p. 550, s.v. fròre.

4. Per un esame approfondito della questione rimandiamo a H.J.Wolf, “Sardische Irrtümer: Florinas und Fordongianus”, in Beiträge zurNamenforschung, XIX/1 (1984), pp. 70-73, che qui abbiamo seguito.

5. Si vedano Il Condaghe di San Pietro di Silki. Testo logudorese ineditodei secoli XI-XIII, pubblicato dal D.R G. Bonazzi, Sassari 1979 (19001),schede 43, 245, 318, 324, 341-342, 386, 410; Il Condaghe di San Nicoladi Trullas, a cura di P. Merci, Sassari 1992, scheda 233.3. Cfr. anche M.Pittau, I nomi di paesi, città, regioni, monti, fiumi della Sardegna. Si-gnificato e origine, Cagliari 1997, p. 74, s.v. Florinas.

6. Per un confronto con altri toponimi romanzi derivati dalla medesimabase latina, rimandiamo a H.J. Wolf, “Sardische Irrtümer” cit., p. 72; siveda inoltre G. Gasca Queirazza, C. Marcato, G.B. Pellegrini, G. Pe-tracco Siccardi, A. Rossebastiano, Dizionario di toponomastica. Storiae significato dei nomi geografici italiani, Torino 1990, p. 276, s.v. Fi-gline Valdarno e Figline Vegliatauro. Anche fuori dall’Italia e dall’am-bito romanzo non mancano nomi locali sorti a partire da analoghemotivazioni storico-semantiche: rammentiamo, ad es., gli ungheresiFazekasboda, Fazekaszaluzsányi, in cui il primo elemento fazekas“vasaio” fa riferimento all’attività principale degli abitanti (cfr. L. Kiss,Földrajzi nevek etimológiai szótára [Dizionario etimologico dei toponi-mi], vol. I, Budapest 1978, p. 444, s.v. Fazekasboda e s.v. Fazekasza-luzsányi).

7. Cfr. A. Cuccu 2000, p. 17 ss.

8. Si vedano Il Condaghe di Santa Maria di Bonarcado, a cura di M.Virdis, Cagliari 2002, scheda 10.3 (cfr. anche 217.2); Gli Statuti dellaRepubblica sassarese, testo logudorese del secolo XIV, nuovamente edi-to d’in sul codice da P.E. Guarnerio, in Archivio Glottologico Italiano,XIII (1892-94), pp. 1-124, I, 90, 100.

9. V.R. Porru, Nou dizionariu universali sardu-italianu, a cura di M.Lorinczi, Nuoro 2002, vol. III, p. 281, s.v. strexu. Rammentiamo quipure l’espressione campidanese fái pu stré≥u “fare i piatti”.

10. G. Spano, Vocabolariu sardu-italianu. Con i 5000 lemmi dell’ine-dita Appendice manoscritta di G. Spano, a cura di G. Paulis, Nuoro1998, vol. II, p. 169, s.v. istèrzu.

11. P. Casu, Vocabolario sardo logudorese-italiano, a cura di G. Paulis,Nuoro 2002, p. 828, s.v. istélzu.

12. Cfr. DES, vol. I, p. 691, s.v. istériu. Il Wagner ha modo di aggiun-gere che «nel camp. mer. stré≥u si dice anche per “roba” o “dote”,cioè per gli oggetti che ne fanno parte e che si trasportano in uno opiù carri di buoi alla casa dei futuri sposi, e quella dote consiste so-prattutto delle masserizie di casa e naturalmente anche di vasellame».

13. Si vedano, rispettivamente, L. Farina, Bocabolariu Sardu Nugoresu-Italianu, Italiano-Sardo Nuorese, a cura di A. Farina, s.l. 2002, p. 187,s.v. istérju; G.M. Cabras, Vocabolariu baroniesu-Vocabolario baroniese.

116

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:05 Pagina 116

Sardu de Baronia-Italianu, Italiano-Sardo di Baronia, Moncalieri 2003,p. 207, s.v. istérju. La voce è presente pure in sassarese e gallurese,con significati analoghi: cfr. G.P. Bazzoni, Dizionario fraseologico sas-sarese-italiano, Sassari 2001, p. 343, s.v. isthègliu (“recipiente, tega-me”; al pl. “stoviglie in genere”), e L. Gana, Il Vocabolario del Dialettoe del Folklore Gallurese, Cagliari 1998, p. 555, s.v. stègliu (“stoviglia,vaso, recipiente”).

14. Si può vedere anche R. Böhne, Il dialetto del Sarrabus (Sardegnasud-orientale), a cura di S. Meloni, Sestu 2003, p. 45.

15. Cfr. P. Casu, Vocabolario sardo logudorese-italiano cit., p. 828, s.v.istelzàiu, e V.R. Porru, Nou dizionariu universali sardu italianu cit.,vol. III, p. 281, s.v. strexàju.

16. Si veda R. Böhne, Il dialetto del Sarrabus cit., p. 45. Contro questaipotesi si pronunciò M.L. Wagner, “Sul lessico del Sarrabus”, in Ar-chivio Glottologico Italiano, XXXVI (1951), pp. 98-120, specie alle pp.113-114. Occorre poi richiamare, seppure non risolutiva, la circostan-za che la voce catalana è continuata nel camp. kré*u “interesse, au-mento” (cfr. DES, vol. I, p. 401, s.v.).

17. Cfr. DES, vol. I, p. 691, s.v. istériu.

18. Si veda il riassunto della questione fornito nell’articolo del DES ci-tato alla nota precedente.

19. C.A. Mastrelli, “Le varie vicende di un grecismo: g£stra «vaso»”, inBollettino dell’Atlante Linguistico Mediterraneo, XXIX-XXXV (1987-93),pp. 275-309: da p. 306 è tratta la citazione nel testo.

20. C.A. Mastrelli, “Le varie vicende” cit., pp. 306-307.

21. Cfr. M. Pittau, Dizionario della lingua sarda. Fraseologico ed eti-mologico, vol. I (Sardo-Italiano), Cagliari 2000, p. 548, s.v. istériu.

22. Si veda Glossarium mediae et infimae Latinitatis, vol. VII, Niort1886, pp. 464-465, s.v. sextarium.

23. Per ovviare a simili inconvenienti, ci sono stati di aiuto il glossarioe il repertorio delle forme ceramiche contenuti in M. Marini, M.L. Ferru2003, pp. 280-289 e 304, e i dati tratti dall’archivio della Ilisso Edizioni.

24. Cfr. DES, vol. I, p. 180, s.v. baríl’a: la voce, che proviene dall’ital.ant. bariglio, è data per il campidanese col significato di “barilotto diterra cotta, munito di anse e col ventre schiacciato”. Il Wagner, inoltre,in questo stesso lemma, precisa che il medesimo recipiente è chiama-to a Oristano anche *átta (in DES, vol. I, p. 445, s.v. *áttu, si specificaulteriormente che «i figulinai oristanesi chiamano *áttas certe fiaschedi terracotta col ventre schiacciato, dette altrove fráskus »; il vocaboloderiva dallo sp. chato).

25. M. Marini, M.L. Ferru 2003, p. 281.

26. Cfr. DES, vol. I, p. 227, s.v. bròkka. Si veda anche M. Puddu, Di-tzionàriu de sa limba e de sa cultura sarda (= DitzLcs), Cagliari 2000,p. 366, s.v. bròca.

27. Segnaliamo ora che per il Sarrabus è registrato, come sinonimo distre≥áju, il vocabolo mariùáju “stovigliaio” (cfr. R. Böhne, Il dialettodel Sarrabus cit., p. 112).

28. Cfr. DES, vol. II, p. 75, s.v. máriùa; il Wagner aggiunge ancheche la voce campidanese presenta, quanto all’origine, problemi similia quelli posti da malúne, impiegato nella Sardegna centrale per indi-care un “secchio da mungere, per lo più di sughero”.

29. Cfr. DES, vol. I, p. 132, s.v. ápa, ove però si indica per questa vo-ce, data come centrale (Nuoro e Dorgali) e logudorese, unicamente ilsignificato di “manico dei vasi di sughero” (anche se, commentandoil derivato apáre “munire di anse”, si dà l’espressione una bròkkaapáDa). Si veda anche A. Cuccu 2000, p. 17.

30. Cfr. DES, vol. II, p. 66, s.v. mánika, e A. Cuccu 2000, p. 17.

31. Il Wagner, nell’articolo del DES citato alla nota 28, ha anche mododi rilevare che vi è motivo di considerare primaria la forma máriùaper il fatto che «-r- > -n- è frequente proprio nella zona del camp.sett. a cui appartiene Mògoro [ove lo studioso tedesco aveva rilevatola forma mániùa]». Nel paragrafo 203 della Fonetica storica del sardocitato a sostegno di una simile osservazione, però, sono segnalati so-

lamente mutamenti -r- > -n- di tipo assimilativo, indotti dalla presen-za nella sillaba successiva di un fenomeno di nasalizzazione per ef-fetto di una -n- originaria (es. ben,– < beránu).

32. Cfr. DES, vol. I, p. 287, s.v. kántaru. Occorrerà rimarcare che illog. kántaru “polla, sorgente”, “scolo d’acqua, fonte che scende dal-l’alto” è altra cosa rispetto alla voce campidanese, anche come etimo,ché proviene direttamente dal lat. CANTHARUS.

33. Cfr. DES, vol. I, p. 362, s.v. koffáina.

34. Cfr. DES, vol. I, p. 243, s.v. búrnia. Si veda anche DitzLcs, p. 367,s.v. brògna («isterzu de terra, a buca larga, cun duas o bator asas mi-nores, pro ponner cosa (olia cufetada, pumatas a pilarda); in carchilogu est s’isterzu pro cogher sa cosa»). Si veda anche M. Marini, M.L.Ferru 2003, p. 281.

35. Cfr. DES, vol. I, p. 603, s.v. &árra.

36. Cfr. DES, vol. II, p. 596, s.v. dzíru.

37. Cfr. DES, vol. I, p. 376, s.v. kóndzu. Il termine kondzè{{a è se-gnalato per Nuoro col significato di “piccolo orcio, a 4 manici, perconservare olive confettate o senza conciatura” (L. Farina, Bocabola-riu cit., p. 98, s.v. conzu).

38. Cfr. DES, vol. I, p. 542, s.v. frásku. Si vedano anche le osservazio-ni che in precedenza abbiamo riservato a questo vocabolo e all’uten-sile da esso designato.

39. Cfr. DES, vol. II, p. 263, s.v. pi**éri. Si veda anche DitzLcs, p.1316, s.v. picéri, p. 1344, s.v. pitzarèdha, e p. 1345, s.v. pitzúdu.

40. Cfr. DES, vol. I, p. 470, s.v. dísku.

41. Cfr. DES, vol. II, p. 207, s.v. palangána, e V.R. Porru, Nou diziona-riu universali sardu italianu cit., vol. III, p. 19, s.v. palangàna.

42. Cfr. DES, vol. II, p. 268, s.v. pin&áDa, e DitzLcs, p. 1326, s.v. pin-giadàju, e p. 1327, s.v. pingiadéri.

43. Cfr. DES, vol. I, p. 314, s.v. kassaròla, e DitzLcs, p. 453, s.v. ca-sciaròla.

44. Cfr. DES, vol. II, p. 481, s.v. tiánu; DitzLcs, p. 1620, s.v. tiàna(«zenia de isterzu tundhu, prus che àteru de terra, a costas no tantuartas, a duas asas, pro cogher cosa a cassola, fagher bagna e gai …;isterzu prus mannu pro impastare o ponner cosa»).

45. Cfr. DES, vol. I, p. 658, s.v. iskívu; DitzLcs, p. 953, s.v. iskíu, e p.954, s.v. ischivèdha («zenia de isterzu ’e terra, largu meda, no tantuartu, ma cun su fundhu meda prus astrintu de sos oros de subra, im-preadu mescamente pro impastare o cumassare sa farina a fagher supane»).

46. Cfr. DES, vol. II, p. 19, s.v. le•réri.

47. Si vedano DitzLcs, p. 521, s.v. cònca, e DES, vol. I, p. 369, s.v.kònka.

48. Cfr. DES, vol. I, p. 391, s.v. kóssiu, e G.M. Cabras, Vocabolariu ba-roniesu cit., p. 100, s.v. cóssiu.

49. Cfr. DES, vol. II, p. 482, s.v. tiánu.

50. Cfr. DES, vol. II, p. 482, s.v. tiánu; cfr. anche p. 539, s.v. túva.

51. DitzLcs, p. 1686, s.v. túvu.

52. Cfr. DES, vol. I, p. 261, s.v. kadúffu; quest’ultimo è il termine lo-gudorese che corrisponde al camp. túvu, túvulu (proviene dal cat.cadúfol, catúfol ).

53. Cfr. DES, vol. II, p. 539, s.v. túva.

54. A.M. Alcover, F. de B. Moll, Diccionari Català-Valencià-Balear,Palma de Mallorca 200610, s.v. tudonera. Il legame con la voce catalanaè stato prospettato, sia pure in modo molto confuso, già in M. Marini,M.L. Ferru 2003, p. 289.

55. Cfr. DitzLcs, p. 1686, s.v. tuvonèra.

56. Cfr. DES, vol. II, p. 232, s.v. pastèra.

57. Cfr. DES, vol. II, p. 480, s.v. téstu.

117

05-06 Liguria-Lupinu 12-11-2007 18:05 Pagina 117

07 Annis Oristano 12-11-2007 17:59 Pagina 118

In nessun campo i fenomeni si succedono l’unl’altro così gradualmente o impercettibilmentecome nella sfera dell’economia, dominio della

necessità e dell’istinto, dove ogni classificazione eogni distinzione di tipo o di tempo diviene quasi

artificiale. Tuttavia le differenze esistono enonostante l’indeterminatezza del loro profilo sipossono facilmente distinguere alcuni gruppi dieventi che vanno insieme e che per la posizionerelativa che occupano, caratterizzano i grandi

periodi della storia economica.Paul Mantoux, The Industrial Revolution of the Eighteen

Century, London 1927 (traduzione di G. Pucci 1997)

PremessaLo studio etnografico sulla produzione della terracottain Sardegna nei tre centri del Campidano, Oristano, Pa-billonis e Assemini, è nato da interrogativi archeologici.1

Nella sua opera di ricostruzione delle società del passa-to l’archeologo si confronta con dati risparmiati dal casoe come tali incompleti, frammentari e disparati. Per l’in-terpretazione di essi la produzione fittile – grazie allasua costante e non di rado abbondante presenza dalNeolitico in poi – risulta fonte informativa di essenzialeimportanza. Considerata a lungo soltanto mezzo di data-zione, la ceramica viene oggi intesa come una delleespressioni della mutua relazione tra una società e lasua cultura materiale e, di conseguenza, essa viene sem-pre più spesso “interrogata” su problemi di portata benmaggiore che nel passato, con l’intento di dare risposteplausibili a complessi interrogativi storici. A questo fine,la comprensione dei processi produttivi dei manufattifittili, con tutte le valenze che ne fanno parte, è essen-ziale. È in questa luce che bisogna vedere le numerosericerche etnografiche che negli ultimi decenni in sem-pre maggior numero fanno parte degli studi ceramolo-gici, e anche lo studio etno-archeologico in Sardegna,di cui si tratterà nel seguente contributo, deve intender-si in questa prospettiva.2

All’origine di detto studio è la problematica posta dalmateriale ceramico proveniente dallo scavo di San SistoVecchio in Roma. Qui, in una sequenza stratigrafica che

si estende dal II secolo d.C. ai nostri giorni, fenomenidi stabilità, modificazione, estinzione e innovazione so-no visibili nelle varie categorie dei reperti appartenentialle diverse epoche. In particolare mi riferisco a periodidi profondi mutamenti politici, ideologici, sociali edeconomici quali sono quelli della Tarda Antichità e del-l’Alto Medioevo.3

Un modo per acquistare cognizione e comprensionedelle variabili che influiscono sulla produzione e la di-stribuzione della ceramica può essere lo studio di uncompleto contesto, soggetto a un processo di radicaletrasformazione. La situazione della Sardegna nell’arcodelle ultime generazioni offriva una tale opportunità.Quest’Isola infatti, che fino agli anni Cinquanta delloscorso secolo era ancora un mondo relativamente isola-to, con una società strutturalmente agropastorale di tipopreindustriale, si è trovata quasi repentinamente a farparte del moderno mondo europeo, con visibili conse-guenze per ogni aspetto della vita.4 Con ciò, sia ben in-teso, non si intende affermare che situazioni concretedel mondo attuale siano trasponibili nel mondo antico,si tratta piuttosto di esercitarsi a distinguere e a definirei fenomeni e, ancor più, di imparare a scoprire le loromutue relazioni aggiungendo una dimensione antropo-logica allo studio dell’antica cultura materiale.5

La ricerca in SardegnaL’indagine, volta alla comprensione dei processi, è stataimpostata in modo diacronico, a partire dagli anni Venti– la memoria degli informatori non va generalmente ol-tre quella data – fino alle soglie degli anni Novanta delNovecento. Dal 1975 in poi si sono svolte periodica-mente delle brevi campagne in ciascuno dei tre princi-pali centri di produzione del Campidano: Oristano, Pa-billonis e Assemini, dove ogni laboratorio è stato piùvolte visitato. Al momento in cui si iniziò lo studio a Ori-stano e ad Assemini erano ancora attivi alcuni vasai natinella tradizione; a Pabillonis invece l’attività si era estintanel 1973, quando l’ultimo degli artigiani aveva chiusobottega. I mezzi di cui si è fatto uso sono stati l’osserva-zione diretta, l’informazione orale e le fonti scritte.Gli aspetti particolarmente messi a fuoco sono l’ambien-te fisico e le risorse, la tecnologia e l’economia, pur sen-za ignorare i caratteri legati alla sfera sociale e simbolica,

119

La produzione della terracotta nel Campidano tra gli anni Venti e gli anni Ottanta del NovecentoMaria Beatrice Annis

181. Il carico del forno, Oristano, 1965 (foto Angelo Sciannella).Il figolo Giovanni Sanna sistema i manufatti nel forno prima della cottura.181

07 Annis Oristano 12-11-2007 18:58 Pagina 119

in altre parole l’uomo dietro il vaso e la loro mutua in-fluenza. Un notevole spazio è stato dato alle analisi tec-nologiche e archeometriche sulle materie prime, tenen-do però sempre presente che ogni atto tecnico non puòessere compreso fuori dal suo ambiente sociale. Esso èinfatti rivelatore di una scelta culturale entro i limiti con-sentiti dalle risorse naturali a disposizione e si articolasu diversi livelli strettamente legati tra loro e in mutuarelazione: le azioni e i procedimenti, gli strumenti e laspecifica conoscenza e destrezza degli artigiani.6

Nell’interpretazione dei fenomeni ci si concentra in par-ticolare sulle forme organizzative della produzione,7 va-le a dire: sulle reciproche relazioni tra il luogo doveviene prodotta la ceramica e chi la produce (ambientefisico e risorse, condizione sociale e economica delproduttore); come viene prodotta e quanta se ne pro-

duce (tecnologia e scala della produzione); quali manu-fatti si producono e per chi (funzione e distribuzione),tenendo d’occhio il loro mutare col mutare del contestosocio-economico e le conseguenze che di tutto ciò siavvertono nei prodotti; le espressioni materiali con lequali infine l’archeologo trova confrontarsi.Con questo contributo si intende offrire al lettore in pri-mo luogo un documento, una testimonianza tra le tantepossibili su un’attività della vita isolana che merita diessere ricordata.

ORISTANO

Il centro produttoreDei tre luoghi di produzione qui esaminati, Oristano èl’unico che abbia lo status di città. Antica è la sua fun-zione di centro agricolo principale del fertile Campida-no settentrionale solcato dal fiume Tirso. Fino almenoagli anni Cinquanta del Novecento l’economia dellacittà era essenzialmente cerealicola, arricchita però dal-la coltivazione di vite e ortaggi, dalla presenza di pe-scose lagune nelle immediate vicinanze e da un fioren-te commercio armentizio. L’ubicazione di Oristano su terreni alluvionali prevalen-temente argillosi, l’abbondanza d’acqua e la presenzanei dintorni di una ricca macchia mediterranea usatacome combustibile, i regolari contatti commerciali conla vasta regione centro-settentrionale della Sardegna, ivicomprese le zone montagnose della Barbagia con lequali da tempo esisteva anche la tradizione della tran-sumanza, sono tutte condizioni ambientali favorevoliallo svilupparsi di un’industria ceramica.Negli ultimi decenni Oristano si è trasformata in uno deicentri di maggior sviluppo industriale della Sardegna e ilfatto che dal 1974 sia divenuta capoluogo dell’omonimaprovincia ha essenzialmente contribuito alla forte cresci-ta del settore terziario.8 Dagli anni Venti alla fine deglianni Ottanta dello scorso secolo9 il numero degli abitan-ti si è più che triplicato: da circa 10.000 a circa 33.000.

I vasai: organizzazione della produzioneFino all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento laproduzione della terracotta oristanese era in mano a ungruppo di artigiani specializzati che lavoravano a tempopieno in appositi laboratori. Per essi l’arte era l’unicomezzo di sussistenza, il che significava lavoro quasisenza sosta nella buona stagione, mentre da novembrea marzo l’umidità del clima e il calo della domanda ob-bligavano ad un’attività ridotta, con la conseguenza dinon lievi ristrettezze economiche che obbligavano aun’integrazione del reddito con attività quali la raccoltadelle olive e l’uccellagione.10 Tutti i maistus, ossia i va-sai capaci di esercitare l’arte, facevano parte della Socie-tà della Santissima Trinità, istituzione ufficialmente rico-nosciuta accanto ad altre pertinenti ad altri mestieri,11

120

182

182. La fotografia ritrae un artigiano mentre lavora al tornio nella sua bottega di via Figoli, Oristano, fine sec. XIX.

183. Foto di gruppo presso il laboratorio di Sisinnio Cau, Oristano, 1930-35.Tra i laboratori oristanesi, negli anni Trenta e Quaranta, uno emergevaper capacità (cinque torni e due forni) e per una diversa condizionesociale del suo proprietario, quello di Sisinnio Cau (il secondo dadestra). Presso di lui si formarono i giovani nipoti Raffaele Cau eGiovanni Sanna (il quarto e il quinto da sinistra). Sul tavolo vi sonoalcune brocche ornate e altri vasi di forma e decorazioni nontradizionali, anche dipinti “a freddo”, che facevano parte degliesperimenti ai quali si dedicava in particolare Raffaele. Nella bottegadi Sisinnio Cau c’era lo spazio economico per tali sperimentazioni.

07 Annis Oristano 12-11-2007 18:55 Pagina 120

ed alla quale chi voleva lavorare non poteva fare a me-no di aderire. Questa associazione era considerata l’ere-de del vecchio gremio, istituito nel 1692 e definitiva-mente abolito, come tutti i gremi sardi, nel 1864. Delgremio la Società assolve ancora la principale funzione,che essenzialmente è quella di proteggere la praticadell’arte, sia all’interno del gruppo che nei confronti de-gli altri cittadini.12

La più antica menzione conosciuta di un quartiere po-polato da vasai – su burgu de sos coniolargios – nellacittà di Oristano risale alla fine del XV secolo.13 Ancoranegli anni Sessanta i laboratori dei vasai oristanesi sitrovavano in parte concentrati nella via Figoli (S’arrugade is congioargius), in parte sparsi nei sobborghi (SuBrugu), nome comprensivo di diversi rioni periferici(fig. 185). In via Figoli la maggior parte dei laboratori

erano delle bottegucce basse, tutte in fila e senza abita-zione annessa, che sul retro si affacciavano su un gran-de spiazzo comune. I figoli che vi operavano, 10-12maistus, non erano i proprietari di queste officine e ve-nivano considerati un unico laboratorio. Essi lavoravanoper un padrone, un ex vasaio al quale cedevano lamerce, che li pagava a seconda delle quantità prodotte,e usufruivano di grandi forni comuni di cui il padroneera pure proprietario. Egli riforniva gli artigiani di tutti imezzi di produzione (argilla, combustibile, ingredientiper la vetrina). Alcuni laboratori singoli, pure situati nel-la via Figoli, e quelli dei sobborghi erano invece dellecase-bottega, ciascuna con un proprio forno (fig. 186).14

Qui abbiamo evidentemente a che fare con due diver-se forme organizzative della produzione: una di tipocapitalistico, e un’altra secondo la quale i vasai sono i

121

183

FORME ORGANIZZATIVE DELLA PRODUZIONE CERAMICA IN SARDEGNA 1920-1970

Forma organizzativa Attività Tempo impiegato Tecnologia Economia Organizzazione Condizioni

di lavoro Mercato

I Laboratorio individuale stagionale part-time tornio veloce + forno importante fonte

di reddito minima indipendente locale

II

Aggl

omer

ati

di o

ffici

ne a) rurale tutto l’anno(nov.-apr.: ridotta) part-time tornio veloce

+ fornoprincipale fonte

di reddito modesta parzialmente dipendente regionale

b) urbano tutto l’anno(nov.-apr.: ridotta) full-time tornio veloce

+ fornounica fontedi reddito

gremiale oassociativa molto dipendente regionale

III Manifattura tutto l’anno full-timetornio veloce e tornio

elettrico + modellazione a calco + forni industriali

lavoro salariato capitalistica con divisione di compiti molto dipendente regionale e a lunga

distanza

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:28 Pagina 121

proprietari dei propri mezzi di produzione, ad eccezio-ne dei terreni dove si cavava la terra, proprietà dellaSocietà. Tra i laboratori singoli, negli anni Trenta e Qua-ranta uno emergeva per capacità (cinque torni e dueforni) e per una diversa condizione sociale del suo pro-prietario, Tziu Sisinni Cau (fig. 183). Questi, vasaio divecchia stirpe, avendo sposato una donna proprietariadi terre e con una mentalità intraprendente, si trova nel-la situazione di vasaio-contadino che lo pone in unacondizione sociale, e ancor più economica, diversa daquella degli altri membri della Società.Le cave erano situate in terreni a sud della città dovetroviamo un altro toponimo che si riferisce all’arte: Ter-ra Cungiali o Cungiai (Terra Figulina) (fig. 185).15 Que-sti terreni erano proprietà della Società che li sfruttavacomunitariamente e a cui solo i suoi membri avevanoaccesso. Per quanto riguarda il numero degli artigiani, nel perio-do 1920-40 si contano circa 35 maestri divisi in pocopiù di una ventina di laboratori. Tenendo conto checiascun maestro era di media assistito da un lavorante e

da un apprendista, si può supporre che le persone atti-ve nell’arte fossero circa un centinaio in una città cheallora contava tra le 10.000 e le 13.000 anime.16 I lavo-ranti (operaiu), artigiani che conoscevano e praticavanotutta l’arte, spesso non erano impiegati stabilmente, masi spostavano da una bottega all’altra a seconda dellanecessità e venivano pagati a giornata. La loro ambizio-ne era quella di risparmiare abbastanza per mettere subottega per conto proprio e avere così diritto al titolodi maistu. Gli apprendisti (scienti ), preferibilmenteseppur non esclusivamente familiari dei maestri, riceve-vano il sapere tecnico (s’atti) senza insegnamento, al-meno non nel senso corrente del termine. I giovani do-vevano “rubare l’arte con gli occhi” e praticarla a costodi ripetuti tentativi ed errori.17 La loro prima prova altornio era la modellazione di una scodella (discu). Pri-ma dell’abolizione della Società, un candidato che aspi-rava al riconoscimento di maistu e all’iscrizione comemembro dell’organizzazione doveva sostenere un esa-me che consisteva nella confezione di una brocca da30 la cui capacità era di 15 litri.18

Le donne, naturalmente assenti dall’agglomerato deilaboratori di via Figoli, prestavano invece la loro operain caso di necessità – come del resto ogni membrodella famiglia in grado di lavorare – nelle case-bottega.Le loro mansioni crebbero negli ultimi anni, quando ivasai non avevano più aiuti, ma rimasero sempre mar-ginali, limitate al carico e scarico del forno e a porgere

122

184

184. Via Figoli, Oristano, ante 1930 (foto Guido Costa).Ancora negli anni Sessanta i laboratori dei vasai oristanesi si trovavanoin parte concentrati nella via Figoli (S’arruga de is congioargius), inparte sparsi nei sobborghi (Su Brugu), nome comprensivo di diversirioni periferici. In via Figoli la maggior parte dei laboratori erano dellebottegucce basse, tutte in fila e senza abitazione annessa, che sul retrosi affacciavano su un grande spiazzo comune.

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:28 Pagina 122

185. Oristano, elaborazione di due mappe catastali del 1859 e del 1926.Viene evidenziata l’area edificata nella quale si distinguono la piantadella città antica con la cinta muraria e il quartiere Su Brugu, nomecomprensivo di diversi rioni fuori le mura, e i luoghi dove sonodislocate le cave di proprietà della Società della SS. Trinità.

186. Facciata del laboratorio del figolo Giovanni Manca, adiacente all’abitazione, Oristano, 1976 (foto Herman Geertman, archivio M.B. Annis).Abitazione e laboratorio avevano in comune il cortile dove si trovava il forno.

la legna durante la cottura (apporri linna). Talvoltaperò alle mogli erano affidati i contatti coi clienti chevenivano nel laboratorio e alcune di esse si recavanoanche alle sagre a vendere la merce. Mentre la primafunzione veniva considerata socialmente onorevole, laseconda invece non era considerata degna di un mai-stu che si rispettasse.Ogni laboratorio teneva alla propria autonomia. Ciò erareso possibile dal fatto che ciascun proprietario dibottega, oltre che sugli aiuti dei familiari e una certadivisione del lavoro all’interno del laboratorio, potevacontare su alcuni servizi ausiliari esterni: bracciantiche aiutavano a cavare la terra, carrettieri che la tra-sportavano, legnaiuoli che provvedevano alla legna efornitori di ingobbio e galena.19 Quando però si tratta-va della cavatura dell’argilla e della cottura del vasella-me, lo spirito di indipendenza doveva cedere all’effi-cienza. All’interno del gruppo, pertanto, cinque o seimaestri costituivano dei nuclei per prestarsi aiuto vi-cendevole in queste circostanze. In genere poi, l’obbli-go morale di assistenza reciproca valeva per ciascunmembro della Società. Non sembra però che questa,che si sarebbe inclini a considerare solidarietà tramembri di un’organizzazione, andasse oltre la pura as-sistenza tecnica. I vasai spesso si lamentavano dell’“in-vidia” dei loro colleghi: “Custa est ûa atti invidiosa”era una frase ricorrente.20

La forma organizzativa descritta corrisponde a quellache David Peacock, nel suo modello sui modi di pro-duzione nell’industria ceramica, definisce urban work-shop industry, cioè un tipo di attività prevalentementemaschile nella quale le officine si trovano più o menoagglomerate in un contesto urbano.21

Quanto la forza coesiva della Società fosse importanterisulta dal momento in cui essa fu abolita. Dopo l’inten-sa produzione che caratterizzò gli anni della secondaguerra mondiale, quando l’isolamento in cui si trovò laSardegna fece salire sensibilmente la richiesta di pro-dotti, il calo della domanda si sentì come crisi. Contem-poraneamente cominciava ad avvertirsi l’effetto dei mu-tamenti sociali ed economici in atto nel dopoguerra.Nel tentativo di salvare l’arte, nel 1953 fu sciolta la So-cietà che si riteneva istituzione ormai antiquata. Questafu sostituita con una più moderna forma organizzativa,la Cooperativa. Evidentemente però i tempi non eranoancora maturi perché da quel momento il forte spiritodi rivalità prevalse causando lo sgretolamento del grup-po. La Cooperativa fu infatti sciolta nel 1963, i terrenidelle cave furono lottizzati e divisi tra i maestri (a quel-l’epoca 17), decretando la fine di ogni obbligo sociale edunque anche della tradizione. Alla metà degli anni Settanta del Novecento i figoli ori-stanesi ancora attivi erano quattro, all’inizio degli anniNovanta, dopo la morte prematura dell’ultimo di essi, laproduzione della terracotta tradizionale si estinse. Il fat-to che la Sardegna dalla metà del secolo non fosse piùisolata e unilaterale creò nuove prospettive di lavoro per

123

185

186

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:28 Pagina 123

i giovani, ivi compresa l’emigrazione. D’altra parte lenuove leggi sociali in favore di aiutanti e apprendisti fe-cero sì che i maestri facessero a meno di essi. Così, ladivisione del lavoro nei laboratori e la presenza dei ser-vizi ausiliari vennero meno, mentre, come ho detto, erasvanito l’obbligo della mutua assistenza. I figoli eranoormai soli di fronte a un compito pressante e multifor-me, tanto più che in genere la manifattura dei vasi avve-niva sempre secondo i modi manuali “antichi”. Ciascu-no di essi ha cercato le proprie soluzioni tecniche persopravvivere e accontentare la propria clientela. Que-st’ultima varia da quella tradizionale agropastorale isola-na, alle imprese statunitensi e giapponesi. Tale forma diproduzione viene definita dal Peacock individual wor-kshop, laboratorio individuale.22

La tecnica di manifatturaNelle non molto numerose fonti scritte che fanno men-zione della produzione ceramica popolare sarda c’è latendenza a definire le tecniche di lavorazione usate daifigoli oristanesi, e da quelli sardi in genere, come primi-tive nei procedimenti e rozze nei mezzi, anche se tal-volta non si può fare a meno di riconoscere l’abilità de-gli artigiani.23 Questo può sembrar vero a prima vista,specie se i confronti si fanno con la produzione dellaceramica colta, come per esempio la maiolica, oppurese i termini di paragone sono forme organizzative dellaproduzione di livello superiore, come le industrie mani-fatturiere. Se però si guarda al quadro complessivo del-lo stesso tipo di produzioni in tutto il Mediterraneo,compreso il Nord-Africa, si vedrà che non c’è ragione diconsiderare la produzione sarda particolarmente “primi-tiva”. Si tratta sì di tecniche senza alcuna sofisticazione,praticate a un livello empirico, particolare che in generecaratterizza la manifattura di vasi con funzioni per cosìdire di base in società di tipo pre-industriale.24 Vero èperò che in generale i figoli oristanesi rimasero attaccatialle tecniche tradizionali manuali, anche quando la mu-tata struttura sociale ed economica dell’Isola esigeva unadeguamento ai tempi, il che a mio avviso fu determi-nante per il loro declino. In questo mancato rinnova-mento tecnico la Società, conservatrice, come ogni istitu-zione di tipo gremiale, ebbe un ruolo importante seppurnon esclusivo.25

Non intendo descrivere qui nei particolari la tecnicadi manifattura dei vasi oristanesi. Mi soffermerò sol-tanto in breve su alcune fasi essenziali: la cavatura ela preparazione dell’argilla, la tornitura, la rifinitura ela cottura dei manufatti. La prima e l’ultima fase dellalavorazione dimostrano come, oltre all’esperienza in-dividuale, fosse qui necessaria la presenza di una certa

124

187 188

187. Brocca, Oristano, inizio sec. XXterracotta parzialmente ingobbiata e invetriata, h 34 cm, Nuoro, collezione privata.

188. Donna con brocca di Oristano, primi anni Cinquanta sec. XX (foto Marianne Sin-Pfältzer).

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:29 Pagina 124

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:29 Pagina 125

189 190

191

189. Brocca, Oristano, prima metà sec. XXterracotta parzialmente ingobbiata e invetriata, h 39 cm, Nuoro, collezione privata.La brocca per il trasporto e la conservazione dell’acqua è il manufatto più diffuso in tutta l’Isola; costituisce la partepiù consistente della produzione dei figoli.

190. Brocca, Oristano, prima metà sec. XXterracotta parzialmente ingobbiata e invetriata, h 30,7, Busachi, Su collegiu, collezione Civica di Etnografia.Nelle brocche di uso quotidiano la presenza della vetrinasi limita alla bocca e parte dei manici. La brocca assolvealla funzione di conservazione dell’acqua, con la specificafunzione di purificarla e di mantenerla o renderla fresca,grazie a uno scambio di ioni tra parete argillosa del vaso e contenuto e alla permeabilità del medesimo.

191. Brocca, Oristano, anni Ottanta sec. XXterracotta parzialmente ingobbiata e invetriata, h 38 cm, Oristano, collezione Istituto Statale d’Arte “C. Contini”.Si tratta di una brocca realizzata da uno degli ultimi figoli oristanesi Piero Pani.

192. Brocca, Oristano, prima metà sec. XXterracotta parzialmente invetriata, h 35 cm, Nuoro, collezione privata.

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:03 Pagina 126

192

127

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:29 Pagina 127

infrastruttura e l’aiuto collegiale. Dalla foggiatura deivasi al tornio veloce è facilmente deducibile l’abilità deisingoli artigiani.26

La cavatura dell’argilla era sotterranea e, anche se ingenere la lunghezza delle gallerie (tanas) non supera-va i 4 m, questa era operazione faticosa e impegnativache chiaramente il vasaio non poteva svolgere da solo,ma per la quale, oltre che di braccianti, si serviva an-che dell’assistenza dei colleghi.27 La scelta dell’argillaesigeva grande perizia. I vasai ne distinguevano tre dif-ferenti qualità: una di base (terr’e coru) che si trovavaal centro del sedimento, una più grassa (srebestia, chia-mata anche drucci) che giaceva superiormente ad essa,e una sabbiosa (arenosa) che giaceva al di sotto di es-sa. Le due ultime venivano usate come correttivi dell’ar-gilla di base. La qualità della terr’e coru stabiliva quantasrebestia o arenosa si dovesse aggiungere per ottenerela miscela desiderata, che era connessa alla funzionedel vaso: differente, ad esempio, per i vasi da acqua eper le conche. In questa operazione nessuno potevasostituirsi al maestro.28

Dalle cave l’argilla arrivava nei laboratori quasi asciuttae sommariamente pulita. Qui veniva ammassata al co-perto, in ambiente apposito, dove si lasciava per qual-che tempo. Le diverse qualità si tenevano separate. Se-guiva la miscelatura, la completa asciugatura al sole, lafrantumazione e l’ulteriore pulitura su apposito impian-tito nel cortile. Essa si deponeva quindi dentro dellefosse scavate nel cortile (oripetzus) dove si mescolavaad acqua impastandola coi piedi.29 Quando era abba-stanza solida da poter essere sollevata con le mani, sistendeva ad asciugare all’aperto (spraxi sa terra), oppu-re, se il tempo era umido, all’interno del laboratorio,isolandola dal pavimento con dell’argilla asciutta setac-ciata (farra). Asciugata al punto giusto veniva quindiaccuratamente lavorata coi piedi (cazzigai sa terra),per meglio amalgamarla e degassarla, e messa a riposa-re coperta di sacchi umidi perché non si asciugasse.Un’ulteriore energica lavorazione al banco (ciuexi) epoi ancora un’ultima tra le mani, immediatamente primadi esser messa sul tornio, permettevano di eliminareanche le ultime impurità e le bolle d’aria.30

193

193. Brocca, Oristano, anni Ottanta sec. XXterracotta parzialmenteingobbiata e invetriata, h 32,5 cm,Oristano, collezione IstitutoStatale d’Arte “C. Contini”. Questa brocca è stata realizzatadal figolo oristanese Piero Pani.

128

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:47 Pagina 128

194

195

194. Vendita di brocche per strada, Oliena, 1956 (foto Marianne Sin-Pfältzer).

195. Le quattro misure delle brocche adibite al trasportodell’acqua dalla fonte all’abitazione, Oristano, 1980 (foto Herman Geertman, archivio M.B. Annis).Si tratta della brocca da 30 (15 litri), da 40 (10 litri), da 60 (6 litri) e da 100 (3 litri); il numero indica l’unitàdi vendita per i grossisti: 30, 40, 60, 100 pezzi cheavevano un unico prezzo. Queste brocche sono staterealizzate dal figolo Carmine Incani.

196. Alla fonte, Ogliastra, 1956 (foto Marianne Sin-Pfältzer).Si può facilmente notare dall’osservazione di questaimmagine la varietà tipologica delle brocche peracqua utilizzate in uno stesso paese.

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:29 Pagina 129

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:29 Pagina 130

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:29 Pagina 131

Quando nel 1949 ci si spostò con le cave dalla zonaOrtu Busachi alla zona San Nicolò, dove l’argilla era diqualità inferiore e in più conteneva dei temutissimi gra-ni di calcare, si introdusse la grigliatura con acqua. Conquesto sistema – probabilmente appreso da Asseminidove era in uso già da anni – una certa quantità di ar-gilla asciutta si mette in una griglia a maglie relativa-mente strette sospesa a una carrucola. La griglia si calain una vasca di cemento piena d’acqua agitandolaavanti e indietro sul pelo dell’acqua in modo da scio-gliere completamente l’argilla che si deposita nella va-sca, mentre le impurità rimangono nella griglia. Con ciòsi facilita e si snellisce notevolmente la lunga e faticosapreparazione della terra sopra descritta.Il tornio veloce (arroda) era interamente fatto di legno(olivo stagionato o leccio). Alla base, l’asse appuntitoruotava in una cavità praticata in una grossa pietra dibasalto (padruedda) sistemata a circa 8 cm sotto il vo-lano e ben fissata nel terreno, senza malta. Il lubrifican-te era l’olio d’oliva. In alto, subito sotto il piatto, l’asseera legato con una corda a una tavola di supporto tra-sversale. Un pezzo di cotenna di maiale serviva da cu-scinetto.31 Va da sé che un tale strumento era soggettoa deformazioni ed era difficile da far ruotare a velocitàalta e costante. L’allentarsi della corda costringeva inol-tre a frequenti interruzioni del lavoro. Questo fatto, ag-giunto alle non ideali proprietà dell’argilla oristaneseper la foggiatura al tornio, metteva in evidenza la de-strezza degli artigiani.32

Per la tornitura dei vasi il figolo non si serviva di stru-menti ausiliari. Soltanto nella fase di foggiatura della for-ma egli usava delle stecche di legno d’olivo (tabeddas).Durante il lavoro il vasaio non era seduto, ma si appog-giava a una tavola fissata obliquamente alla parete e,con la schiena contro il muro, tenendo rigida la gambadestra, imprimeva col piede sinistro gli impulsi al vola-no (figg. 227-231). I vasi venivano torniti con grande ce-lerità: in un giorno di lavoro di circa 10 ore un tornitoreabile ed esperto riusciva a foggiare 60 brocche (due se-rie) da 30 (capacità 15 litri). Per la modellazione dei vasipiccoli e delle anse si centrava sul tornio una grossa pal-la d’argilla e da questa si tiravano su le forme una dopol’altra, quasi senza interruzione (triballai de massa). Perstaccare il manufatto dal piatto del tornio si usava un fi-lo di refe e quando il vaso era rassodato la base venivaleggermente assottigliata e livellata con un pezzo di can-na tagliata a metà e appuntita (canna de arrai).33

Al momento in cui l’argilla era rassodata avveniva anchel’attaccatura delle appendici: anse, beccucci e eventualedecorazione plastica. Anse e beccucci venivano fatti altornio dalla massa, mentre la decorazione plastica veni-va ovviamente modellata a mano ed era in genere sog-getta a differenti canoni. Quando il manufatto era essic-cato sufficientemente si applicava l’ingobbio chiaro(stangiu) in soluzione acquosa e – previa nuova fase diessiccazione – la vetrina (ammesturamentu), i cui in-gredienti venivano prima macinati nel mortaio e passati

197. Profilo di brocche realizzate da diversi figoli oristanesi. Dal differente modo di foggiare la spalla, il collo, il labbro dellabrocca e dalla proporzione tra altezza della spalla e massimodiametro del ventre si riconosce l’artefice di un manufatto: sonoqueste le “firme” di una produzione per il resto anonima.

198-199. Riduzione della capacità della brocca oristanese (foto Herman Geertman, archivio M.B. Annis). La brocca, serie da 30 con capacità di 15 litri, realizzata dal vasaioEfisio Pani nella prima metà del secolo XX (fig. 198) e quellarealizzata dal figlio Piero (fig. 199) dopo gli anni Cinquanta, quandola capacità della serie venne proporzionalmente ridotta.

197

198 199

132

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:29 Pagina 132

al setaccio di seta. Prima della cottura i vasi dovevanoessere perfettamente secchi (siccaus) e perciò si cerca-va di esporli al sole per qualche ora. A tutte queste fasisi dedicava molta cura perché da ciascuna di esse di-pendeva il buon esito del lavoro. Durante l’essiccatura,per esempio, si evitavano le correnti e soprattutto iventi caldi per non rischiare deformazioni e distacchi e,per la stessa ragione, i vasi dovevano essere girati ditanto in tanto; nell’attacco delle appendici e nell’ingob-biatura e invetriatura era d’obbligo la tempestività, que-ste operazioni dovevano cioè aver luogo nei momentigiusti e non prima o più tardi. Importanti erano pure lapreparazione e la giusta densità delle soluzioni che siottenevano empiricamente.Il forno verticale senza cupola era di pianta circolare eaveva una camera di combustione infossata (sa forada),preceduta da un prefurnio dove si apriva la bocca (saucca). La camera di combustione era divisa in due lobida un muretto sottile (s’anta) che partiva dalla pareteposteriore e si estendeva per circa tre quinti del diame-tro. Il muretto faceva da sostegno alla grata, costituitada una serie di elementi curvi disposti radialmente anotevole distanza l’uno dall’altro (proceddus). Erano glistessi vasai, aiutati da manovali, che costruivano il for-no. Questo era fatto in massima parte di mattoni crudi,rinforzati con qualche pietra e alcuni laterizi, e rivestitodi un impasto refrattario di argilla mista a limo, sabbia epaglia. La parte superiore della camera di cottura nonera fissa: essa veniva edificata ogni volta disponendo,attorno al carico, dei mattoni crudi, piatti e di notevoleformato, pure confezionati dai vasai (ladiri mannu). Sulcarico, a mo’ di cupola, si sistemavano dei grossi cocci(tistivillus), in genere scarti di fornace. Come combusti-bile si usavano arbusti della macchia mediterranea, deiquali di gran lunga il preferito era il cisto (murdegu).Nell’ultima fase della cottura non si escludevano l’asfo-delo (arrideli), il mirto (murta), il lentischio (moddizzi)e il corbezzolo (oîoî ). La cottura era unica e molto rapi-da: a seconda della capacità del forno, da 5 a un massi-mo di 8 ore. Essa cominciava facendo il segno dellacroce e si svolgeva secondo le tre fasi canoniche: il ri-scaldamento (callentai) lento e a fuoco basso nel pre-furnio per togliere i resti di umidità dei vasi, l’alimenta-zione a un ritmo calmo, ma gradualmente crescente(affummai), la fase più delicata durante la quale avvie-ne la trasformazione della materia da argilla a ceramica,e infine il raggiungimento della massima temperatura edel calore bianco (coi) con colpi di fuoco (cardas) incui l’alimentazione del forno a un ritmo veloce è forte econtinua. Per la costruzione del forno, e in momenti

200

201

200. Brocca, Oristano, ante 1908terracotta parzialmente ingobbiata e invetriata, h 18,5 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.

201. Brocca, Oristano, ante 1908terracotta parzialmente ingobbiata e invetriata, h 42 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:29 Pagina 133

134

202

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:29 Pagina 134

203

204

202. Brocca, Oristano, prima metà sec. XX terracotta parzialmente invetriata, h 41 cm, Cagliari, collezione privata.

203. Brocca, Oristano, metà sec. XX terracotta parzialmente invetriata, h 33 cm, Nuoro, collezione privata.Nella Barbagia era molto richiesta questatipologia di brocca, bassa e particolarmentepanciuta con collo poco sviluppato detta a faîa bascia; non tutti gli artigiani erano in grado di foggiare questo tipo di manufatto, che infatti smise di essere prodotto alla finedegli anni Cinquanta.

204. Brocca, Oristano, ante 1908terracotta parzialmente invetriata, h 37,5 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.Si tratta di una brocca con pancia pronunciata ecollo poco sviluppato detta a faîa bascia,diffusa nell’area del nuorese.

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:52 Pagina 135

cruciali come il carico e la cottura del vasellame, aiuti eassistenza collegiale erano nuovamente necessari.Nel periodo preso in considerazione, le grandi fornacicomuni di via Figoli, che avevano una capacità di circa10 m3, scompaiono e nei singoli laboratori si osservauna progressiva riduzione della capacità dei forni: da5-4 m3 nel periodo pre-bellico e bellico, fino a 1,50-2 m3

negli ultimi anni. La caratteristica grata radiale va inoltresoggetta a delle modifiche, mentre la camera di combu-stione si costruisce via via a un livello sempre menoprofondo, fino a edificarla del tutto sopra terra. Negli ul-timi anni dell’attività le diverse varianti si trovano con-temporaneamente e sono legate alle mutate condizionidi lavoro dei singoli vasai.34

I manufattiLa produzione tradizionale di Oristano è la terracotta.I manufatti di color bruno-rossiccio venivano rifiniti convetrina piombifera verde o bruna applicata più o menoestesamente sopra uno strato di ingobbio chiaro.35

I figoli distinguono tre categorie di vasi: faîa de maîga;faîa obetta; faîa istangiada, detta anche faîa bidri o ar-robb’e festa. La prima comprende i vasi da acqua (broc-cas, frascus e stangiadas, dette anche giattas), le giare(brunnias) e i boccaletti (congius); la seconda le con-che (sciveddas) e le ciotole (discus). Questi manufatticostituiscono la produzione ordinaria di serie. In essi lapresenza della vetrina, limitata alla parte superiore, op-pure alla parete interna del recipiente, è strettamente le-gata alla funzione del vaso. La terza categoria è quelladella produzione straordinaria, manufatti cioè non pro-dotti in serie che, come dicono i nomi, vengono fatti inoccasione di sagre o feste e che, per essere estesamenteinvetriati all’esterno, hanno un colore verde. Alcuni manufatti rivelano una forma di specializzazio-ne, sono cioè prerogativa di alcuni vasai appartenentia famiglie di antica tradizione: tra questi i tubi di noria(tuv’e moîu), i doccioni di gronda (cannoî) e le qua-drelle invetriate per le cupole dei campanili (ragiolla),che nel quadro della produzione rappresentano l’aspet-to per così dire “industriale”.36

Un prodotto a sé stante infine è la brocca ornata (broc-ca a quattru maîgas o brocca pintada), riccamente or-nata di una decorazione plastica con soggetti di diversanatura. Anch’essa prerogativa di pochi artigiani costitui-sce un prodotto eccezionale e ha una funzione, per cosìdire, cerimoniale: generalmente non è oggetto di com-mercio, ma viene donata a “persone di riguardo”. Ciò si-gnifica che appartiene alla sfera del dono, con tutto ciòche questo comporta riguardo a valenze sociali e simbo-liche. Gli studiosi che ne hanno sinora scritto37 non sem-brano distinguere tra questi oggetti e sa brocca de sasposa, vaso, pure ornato (pintau), ma più modesto, cheil vasaio, quando gli veniva commissionato un ricco cor-redo, poteva anche aggiungere come omaggio. La con-fezione della brocca a quattru maîgas era invece prero-gativa di poche famiglie di vasai di antica stirpe che,

136

205

206

205. Brocca, Oristano, ante 1908terracotta parzialmente ingobbiata e invetriata, h 34 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.Questa tipologia di brocca, con la bocca più stretta adatta ad esserechiusa da un tappo, era prodotta per la zona del sassarese.

206. Trasporto dell’acqua, Ittiri, 1956 (foto Toni Schneiders).La donna di Ittiri trasporta sulla testa una brocca oristanese con ilcollo stretto chiuso da un tappo, solitamente ceramico o in sughero.

207. Donna con brocche, Campidano di Oristano, 1955 (foto Mario De Biasi).Una delle due brocche è mancante di un manico, il punto piùdebole del manufatto, che a volte si staccava già durante la cottura.Le brocche difettose venivano comunque vendute, erano anzi moltoambite dalle acquirenti per il loro prezzo esiguo.

208. Donna alla fonte, Tonara, 1955 (foto Mario De Biasi).

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:59 Pagina 136

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:30 Pagina 137

138

207

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:30 Pagina 138

139

208

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:30 Pagina 139

140

209

210

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:30 Pagina 140

141

211

209. Le fiasche nelle diverse dimensioni, Oristano, 1980 (foto Herman Geertman, archivio M.B. Annis).Si tratta delle quattro capacità correnti delle fiasche: 30 (7 litri), 40 (5 litri), 60 (3 litri) e 100 (1 litro). Le fiasche in figura sono staterealizzate dal figolo Carmine Incani.

210-211. Fiasca, Oristano, anni Venti-Trenta sec. XX terracotta parzialmente ingobbiata e invetriata, h 27,5 cm, Pattada, collezione privata.

Questo manufatto è denominato stangiada, dall’invetriatura a basedi galena piombifera (stangiu), che ricopre la parte della bocca edei manici, oppure giatta per la forma piatta del lato opposto allapancia. Tale forma continuò a essere prodotta anche in tempirecenti perché la sua fattura comportava poco rischio e nel forno di ridotta capacità non occupava molto spazio. Essa veniva ancorarichiesta nelle zone più tradizionali dell’interno; la sua forma larendeva attraente anche per cacciatori e gitanti.

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:35 Pagina 141

come per le quadrelle verniciate, possedevano anchedegli appositi stampi. A tali oggetti venivano dedicatemolte ore di lavoro nelle serate invernali e momentanea-mente essi potevano anche non avere un destinatario, fi-no all’occasione in cui si decideva di donarli. Natural-mente tale dono poteva anche esser fatto in occasionedi nozze. Le brocche ornate venivano solitamente espo-ste nella camera “buona” e non nella camera da letto co-me pare accadesse per la brocca della sposa.38

I vasi da acqua sono il prodotto oristanese per eccellen-za e come tali meritano particolare attenzione.39 Essi co-stituiscono insieme circa il 60% dell’intera produzione,con punte stagionali che possono arrivare anche al70%. Questi vasi vengono usati per il trasporto e la con-servazione dell’acqua, con la specifica funzione di puri-ficarla e di mantenerla o renderla fresca, grazie a unoscambio di ioni tra parete argillosa del vaso e contenutoe alla permeabilità del medesimo.40 Ciò è connesso afattori in parte climatici e in parte storici: la siccità e laprecaria situazione idrografica dell’Isola.41 In questo sen-so detti vasi possono considerarsi un prodotto “ecologi-co”, vale a dire che così rappresentano la relazione tral’uomo e il suo ambiente, fisico e sociale.42 Tale aspettosi riflette infatti nella vastità dell’area di diffusione di talimanufatti, nella densità della distribuzione e nell’uso diessi in tutti gli strati sociali. È in questa categoria inoltreche si trovano la maggior varietà di forme e capacitàcorrispondenti ai diversi usi cui sono destinati i vasi; al-la configurazione geografica delle diverse regioni; alladiversa fonte da cui si attinge l’acqua (fiume, fonte opozzo); al modo di trasporto: sulla testa o sul fianco,oppure sul carro, o a dorso d’animale. Anche il tipo dieconomia di una regione, prevalentemente agricola opastorale, e l’organizzazione domestica si riflettono nel-la distribuzione. La brocca ha un posto fisso nelle casesarde, denominato, a seconda della sua forma, s’istradade sas broccas; sa pedra de sas broccas; sa fentana desa brocca.43 La brocca è legata alla donna cui nella so-cietà sarda tradizionale spetta la mansione dell’approv-vigionamento dell’acqua, un compito ambivalente, co-me spiega l’antropologa Maria Gabriella Da Re, ma ingenere gravoso anche perché esso è cura essenziale equotidiana.44 Ciò spiega il posto importante che questivasi hanno nel cerimoniale nuziale di alcuni paesi e ilperché della presenza della brocca de sa sposa nel cor-redo della sposa agiata.45

Dal punto di vista artigianale per i vasai la foggiaturadella brocca, in particolare di quella da 30 (circa 15 li-tri, la più grande tra quelle da trasporto), costituiva ilmezzo per giudicare la qualità dell’argilla; il grado diperizia di un apprendista; il rendimento di un torniantee in genere l’abilità di un artigiano. Inoltre dal modo difoggiare la spalla, il collo, il labbro della brocca e dallaproporzione tra altezza della spalla e massimo diame-tro del ventre si riconosce l’artefice di un manufatto:sono queste le “firme” di una produzione per il restoanonima.

212

213

212. Fiasca, Oristano, ante 1908terracotta invetriata, h 27,6 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.È un manufatto realizzato per uso festivo, come attesta l’invetriaturadell’intero corpo (quelle quotidiane presentano l’invetriatura soloalla bocca e ai manici).

213. Fiasca, Oristano, ante 1908terracotta parzialmente ingobbiata e invetriata, h 15,5 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.

142

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:35 Pagina 142

214

Anche la produzione straordinaria o occasionale meritaqualche considerazione. Questa ha funzione quasiesclusivamente decorativa, come dimostrano l’invetriatu-ra estesa e le forme non molto funzionali, talvolta addi-rittura bizzarre. Realizzata per esser venduta in occasio-ne di sagre e feste religiose, che, come è noto, avevanoanche funzione di fiera, ha un’area di diffusione mag-giore di quella dei prodotti ordinari, anche se la distri-buzione è rada. Da un punto di vista quantitativo quindiquesti manufatti di “lusso” sono di assai minore portata,ma da un punto di vista economico sono importanti:vengono venduti a pezzo, spesso direttamente dai vasaie il loro prezzo è da due a tre volte quello di un vasoordinario; inoltre, assieme ai vasi cerimoniali, sono quel-li che vengono esportati e esposti in mostre e grazie aiquali Oristano è conosciuta anche al di fuori dell’Isola.46

La produzione straordinaria e eccezionale, non essendodi primaria importanza, fu completamente abbandonatadurante la seconda guerra mondiale.

La distribuzioneIl modo di distribuzione dei manufatti è consono almodo di produzione descritto sopra. La vastità dell’areada servire, unita a una difficoltosa situazione viaria,rendeva indispensabile l’opera di grossisti intermediari.Questi potevano essere venditori ambulanti o anchenegozianti. Il mezzo di trasporto era il carro a buoi o ilcarro a cavallo. C’era però anche un contatto diretto traproduttori e clienti, sia nel laboratorio, sia in occasionidi feste popolari religiose, quando i figoli portavano laloro merce in un raggio di circa 50 km affittando perl’occorrenza carri a buoi dai contadini. Questi contattidiretti, anche se comportavano dei sacrifici, erano mol-to graditi agli artigiani perché offrivano loro la possibili-tà di un guadagno notevolmente più alto. I manufattipiù richiesti in tali occasioni erano ovviamente s’arrob-b’e festa, ma anche i vasi ordinari si potevano venderea pezzo per un prezzo al dettaglio e non in serie comeai grossisti.

214. Fiasca, Oristano, anni Quaranta sec. XX terracotta parzialmente ingobbiata e invetriata, h 21 cm,Cagliari, collezione privata.Questo manufatto è denominato nella parlata locale frasku. La tipologiacon il fondo largo, fundu ladu, erarealizzata su imitazione di quellaasseminese, per una vendita nelCampidano di Cagliari, dove erapreferita questa forma.

143

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:29 Pagina 143

144

215

216

215. Fiasca, Oristano, ante 1908 terracotta parzialmente ingobbiata e invetriata, h 30 cm, Roma, MuseoNazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.Questa fiasca, frasku, con il fondo stretto èquella tipica di Oristano.

216. Fiasca, Oristano, anni Ottanta sec. XXterracotta parzialmente ingobbiata e invetriata, h 24 cm, Oristano, collezione Istituto Statale d’Arte “C. Contini”.Frasku realizzato dal figolo oristanese Piero Pani.

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:35 Pagina 144

145

217

217. Fiasca, Oristano, prima metà sec. XXterracotta parzialmente ingobbiata e invetriata,h 33 cm, Nuoro, collezione privata.

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:35 Pagina 145

146

218

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:31 Pagina 146

la più capiente (dai 18 ai 20 litri), alla serie da 250, lapiù piccola (circa 1/4 di litro). Brocca era il nome ge-nerale per indicare questo tipo di vasi, ma se ne distin-guevano diverse categorie (tav. I). I vasi appartenentialla seconda categoria, quella da trasporto, si chiamava-no più propriamente brutticcus. Tra essi quelli da 40 eda 60 portavano la denominazione di strexiu de mazzache derivava dal posto ad essi riservato nel forno, al-l’interno, nell’“addome” del carico, tra le brocche piùgrandi collocate sotto e quelle più piccole sopra. Labrocca da 30 aveva il nome di brutticcu ’e funi alluden-do al fatto che questo vaso da trasporto si calava nel-l’acqua del fiume legato a una fune. Le brocche piùpiccole erano denominate brocchitteddas o mallittus(piccole forme).Tutte le serie avevano lo stesso prezzo, calcolato in ba-se alla quantità delle materie prime impiegate, al temponecessario per la manifattura, allo spazio occupato nel

Oristano esportava i suoi prodotti in tutta la parte cen-tro-settentrionale dell’Isola.47 Le regioni meridionali eorientali erano invece servite piuttosto da altri centri,particolarmente da Assemini e Decimo, Nurallao, Villa-putzu e Tortolì, Siniscola e Dorgali. Questa delimitazio-ne dei territori, dettata in massima parte dalla situazionemorfologica e viaria dell’Isola, non deve però conside-rarsi una divisione rigida o definitiva: prodotti oristanesi,per esempio, si trovano anche in zone generalmenteservite da altri centri, e viceversa.48

L’unità della vendita all’ingrosso era la serie (tav. I).Questa consisteva in un certo numero di vasi tutti dellastessa forma e capacità. Il numero dei vasi dava il nomealla serie. Per esempio: serie da 20, 30, 40 ecc. (pezzi).Anche i singoli vasi recavano il nome corrispondente alnumero della serie a cui appartenevano. Per esempio:brocca da 20, da 30, da 40 ecc., per indicare una deter-minata capacità. Le brocche andavano dalla serie da 20,

219

218-219. Orcio, Oristano, anni Trenta sec. XXterracotta invetriata internamente, h 38 cm, Cagliari, collezione privata.Questo manufatto, brunnia, erautilizzato come contenitore di cibi: olive, grasso di maiale, conserve.

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:35 Pagina 147

forno, al rischio di perdita in cottura (tavv. I-II). Perciò,quanto più piccolo era il vaso, tanto maggiore il nume-ro dei pezzi componenti la serie. Il prezzo del vaso sin-golo si stabiliva dividendo il prezzo base per il numerodella serie.49 Nel periodo tra le due guerre il valore del-la serie era di 5 lire, corrispondente a quello di uno sta-rello di grano o di 5 kg di formaggio, beni con cui i va-si potevano anche essere barattati. I brutticcus da 100si chiamavano anche dus un soddu e quelli da 150 tresun soddu. Una tale razionalizzazione mostra ancorauna volta come non corrisponda al vero la “primitività”di questa produzione (tav. I).50

MutamentiIn questo paragrafo alcuni dei mutamenti quantitativi equalitativi constatati nei prodotti saranno spiegati allaluce delle recenti trasformazioni della società sarda. Come ho già esposto, i vasai oristanesi dedicavanoparticolare cura alla selezione dell’argilla di cui distin-guevano tre qualità che venivano opportunamente mi-scelate. Le tre argille sono state sottoposte ad analisitecnologiche e archeometriche e i risultati ottenuti han-no rivelato una stretta relazione tra le proprietà dellamateria prima – che poneva delle chiare restrizioni al-l’artigiano –, la tecnica di manifattura e le caratteristicheformali del prodotto.51 L’argilla oristanese raggiunge ilsuo punto di saturazione molto presto ed è, in gergoceramologico, un’argilla “corta”, non molto elastica. Ciòha delle conseguenze per la manifattura e per la formadei vasi. La rapida saturazione, che può portare in bre-ve tempo alla perdita della coesione, è una notevole220

ORISTANO: BROCCAS

Unità di vendita e capacità Prezzi in lire

Cate

goria

Num

ero

pezz

ide

lla se

rieAu

men

to d

el

num

ero

per s

erie

Capa

cità

del

lebr

occh

e in

litri

Dim

inuz

ione

in

litri

per

bro

cca

Capa

cità

tota

le

della

serie

in li

triPr

ezzo

per

serie

in

lire

Prez

zo p

er b

rocc

a in

cent

esim

iPr

ezzo

per

litro

in

cent

esim

i

Particolari

I. Br

occa

s

20 18/20

360/400 5 25,00 1,40/

1,25 eccezionale, provvista

II. B

rutti

ccus 30

40

60

100

+10

+10

+20

+40

15

10

6

3

-3/-5

-5

-4

-3

450

400

360

300

5

5

5

5

16,66

12,50

8,33

5,00

1,10

1,25

1,40

1,70

ordinario,

trasporto

dus unu soddu

III.

Mal

litus 150

200

250

+50

+50

+50

1

1/2

1/4

-2

-1/2

-1/4

150

100

75

5

5

5

3,33

2,50

2,00

3,33

5,00

8,00

tres unu soddu piccolo,

fatto dalla

giocattoli massa

TAVOLA I. Oristano, periodo tra le due guerre: unità di vendita, capacità e prezzi delle brocche (broccas, brutticcus, mallitus).

ORISTANO: FRASCUS E STANGIADAS

Unità di vendita e capacità Prezzi in lire

Cate

goria

Num

ero

pezz

ide

lla se

rie

Aum

ento

del

nu

mer

o pe

r ser

ie

Capa

cità

del

lebr

occh

e in

litri

Dim

inuz

ione

in

litri

per

bro

cca

Capa

cità

tota

le

della

serie

in li

tri

Prez

zo p

er se

rie

in li

re

Prez

zo p

er b

rocc

a in

cent

esim

i

Prez

zo p

er li

tro

in ce

ntes

imi

Particolari

I 20 10 200 5 25,00 1,40/1,25 eccezionale

II

30

40

60

100

+10

+10

+20

+40

7

5

3

1

-3

-2

-2

-2

210

200

180

100

5

5

5

5

16,66

12,50

8,33

5,00

1,10

1,25

1,40

1,70

ordinario

III150

200

+50

+50

1/2

1/4

-1/2

-1/4

75

50

5

5

3,33

2,50

6,66

10,00piccolo

TAVOLA II. Oristano, periodo tra le due guerre: unità di vendita, capacità e prezzi di barilotti e fiasche (frascus e stangiadas).

148

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:35 Pagina 148

difficoltà nella foggiatura al tornio, tecnica che, come ènoto, richiede l’uso di acqua. I vasi devono pertanto es-sere modellati con grande rapidità, mentre la materia,se da un lato è docile – non offre cioè la resistenza diun’argilla veramente plastica –, dall’altro non sopportabene le tensioni. L’allargamento del ventre deve pertan-to aver luogo in modo graduale e durante la foggiatural’argilla deve essere piuttosto spinta verso l’alto pressan-dola tra le nocche anziché tirata.52 Colpisce infatti la for-ma un po’ tozza della brocca oristanese, in particolarese la si confronta con quella della brocca asseminese.Realizzare vasi di grande capacità non è facile, speciese particolarmente panciuti. A questo proposito ho piùvolte sentito dire dai figoli che non tutti gli artigiani era-no in grado di foggiare un tipo di brocca richiesta nellaBarbagia, bassa e particolarmente panciuta con collopoco sviluppato (faîa bascia) (figg. 203-204). Questa èla ragione per cui, quando per via di un cambiamentodelle cave, nel 1949, l’argilla si scoprì di povera qualità,i vasai eliminarono praticamente questa variante dallaproduzione. Quando poi, dopo lo scioglimento dellacooperativa, essi non avevano più alcun controllo sullaqualità della terra, la brocca di maggiore capacità (serieda 20, capacità 18-20 litri) veniva fatta solo a richiesta ela capacità delle serie venne proporzionalmente ridotta(figg. 198-199).53 I mercanti grossisti, non trovando piùciò che cercavano, si rivolsero ai vasai di Assemini, cheper essersi tempestivamente modernizzati e adeguati aitempi, resistevano meglio.54 Con i nuovi mezzi di loco-mozione le distanze non costituivano più un problema.In un contesto archeologico si potrebbe pensare che unprodotto di migliore qualità, cioè più resistente controgli urti e l’usura, ne abbia sostituito uno più scadente.Le cause invece, come vedemmo, sono di altra natura eanzi, per quanto riguarda la funzione, i vasi da acqua diOristano venivano considerati di qualità superiore. La forma che resistette meglio è la fiasca (sa stangiada)(fig. 209). Questa continuò ad esser prodotta perché lasua manifattura comportava poco rischio e nel forno diridotta capacità non occupava molto spazio. Essa veni-va ancora richiesta nelle zone più tradizionali dell’inter-no, e inoltre ben si prestava ad essere trasportata suinuovi mezzi di locomozione di cui ormai fanno uso pa-stori e contadini “moderni”. La sua forma la rendeva at-traente anche per trasportatori, cacciatori e gitanti. La drastica riduzione della capacità dei forni e lo svilup-po del turismo portarono alla creazione di una nuova

221

222

220. Orcio, Oristano, anni Trenta sec. XXterracotta invetriata, h 24 cm, Cagliari, collezione privata.Si tratta di una brunnia biansata, solitamente usata per conservare le olive.

221. Orcio, Oristano, anni Trenta sec. XXterracotta ingobbiata e invetriata internamente, h 26 cm, Nuoro, collezione privata.

222. Orcio, Oristano, ante 1908terracotta ingobbiata e invetriata internamente, h 22,5 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.

149

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:04 Pagina 149

150

223 224

serie (serie da 400) di vasetti in miniatura (giogus) chevenivano venduti specialmente ai negozi cittadini rica-vandone un buon introito. Con ciò si ha un rovescia-mento delle quantità rispetto al passato: i vasi grandi co-stituivano allora il grosso del carico e i piccoli eranouna quantità trascurabile, quasi un di più. Dagli anniCinquanta del Novecento in poi si ha un graduale slitta-mento in senso contrario, finché negli anni Settanta lequantità sono ribaltate. Oltre al capovolgimento quanti-tativo se ne ha anche uno qualitativo. La produzionestraordinaria e eccezionale diviene ordinaria e viceversaquella ordinaria acquista le connotazioni del preziosoperché ormai raro. Questi ribaltamenti non furono peròsenza conseguenze tecniche. Nel forno a legna infatti imanufatti si trovavano a contatto l’uno con l’altro il che,per la fusione della vetrina, causava molte attaccature erelative perdite. A tutto ciò poteva ovviarsi ai tempi incui il grosso del carico era costituito da manufatti ordi-

nari con una piccola percentuale di faîa stangiada. Giàall’inizio degli anni Settanta, però, quando la produzio-ne invetriata cresceva rapidamente, si avvertirono deiproblemi. Staccare i manufatti l’uno dall’altro senza dan-neggiarli al momento dello scarico del forno era opera-zione che richiedeva tempo e perizia ed era esclusivacompetenza del maestro. Allo stacco si aggiungeva inol-tre il lavoro di limatura e di ritocco per il quale nonsempre si poteva contare sull’aiuto della famiglia. Se ciòera in qualche modo compensato dal prezzo che iclienti erano ora disposti a pagare, i vasai cominciaronotuttavia a rendersi conto che nella nuova società il valo-re del tempo era completamente mutato. Ma c’era dipiù. La presenza di molto materiale invetriato nella par-te superiore del carico creava nel forno un’atmosferaparticolarmente ricca di gas riducenti che come è notoinfluiscono sulla temperatura; non solo, ma i vasi inve-triati attaccandosi l’uno all’altro formavano una specie

223. Boccale, Oristano, anni Venti-Trenta sec. XXterracotta parzialmente ingobbiata e invetriata, h 13,7 cm, Cagliari, collezione privata.

224. Boccale, Oristano, anni Venti-Trenta sec. XXterracotta ingobbiata e invetriata, h 11,2 cm, Nuoro, collezione privata.

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:36 Pagina 150

di cupola che impediva sia ai gas che al calore di sfia-tare. Non poche volte pertanto la parte inferiore del ca-rico, costituita di vasi ordinari, risultava “bruciata” o ad-dirittura irrimediabilmente danneggiata.

InnovazioniAll’inizio dello scorso secolo, grazie all’iniziativa e alleopere di Francesco Ciusa, Oristano, sede della nuovaScuola d’Arte Applicata, di cui Ciusa divenne direttorenel 1925, fu coinvolta nell’introduzione della ceramicaartistica realizzata con tecniche consone a questo tipodi oggetti non strettamente utilitari e destinata a un nuo-vo pubblico.55 Scuola e Società della SS. Trinità si igno-reranno a vicenda e i maistus continueranno a produrrenei modi di sempre. Ma non tutti rimangono insensibilial rinnovamento. Nell’ambito della grande bottega diTziu Sisinni dove, come ho detto sopra, assai meno sisente l’oppressione del bisogno, due giovani nipoti del

225 226

151

225. Boccale, Oristano, anni Venti-Trenta sec. XXterracotta ingobbiata e invetriata esternamente, h 23,5 cm, Nuoro, collezione privata.Questo manufatto a Oristano è chiamato congiu.

226. Boccale, Oristano, anni Venti-Trenta sec. XXterracotta ingobbiata e invetriata esternamente, h 20 cm, Nuoro, collezione privata.

227-231. Tornitura di una conca (scivedda), Oristano, 1975 (foto Herman Geertman, archivio M.B. Annis).Le immagini sintetizzano le fasi di foggiatura di una grandescivedda. Il figolo Giovanni Sanna è poggiato a una tavola fissataobliquamente e, tenendo la schiena contro il muro, fa leva con lagamba destra, che tiene rigida, mentre con il piede sinistro imprimegli impulsi al volano del tornio facendolo ruotare in senso antiorario.

232-233. Conca, Oristano, anni Trenta-Quaranta sec. XXterracotta invetriata internamente, Ø 58,5 cm, Busachi, Su collegiu,collezione Civica di Etnografia.Questa grande conca (scivedda), aveva molteplici funzioni, venivautilizzata per impastare il pane, per il trasporto dei panni al fiume,per il bagnetto dei bambini ecc.

234-235. Conca, Oristano, anni Trenta-Quaranta sec. XXterracotta invetriata internamente, Ø 56,5 cm, Nuoro, collezione privata.

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:43 Pagina 151

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:36 Pagina 152

227

228

230

229

231

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:36 Pagina 153

154

232

233

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:36 Pagina 154

234

235

155

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:36 Pagina 155

236

237

238

236. Conca, Oristano, prima metà sec. XXterracotta invetriata, Ø 35 cm, Bosa, collezione privata.

237. Ciotola, Oristano, inizio sec. XXterracotta invetriata internamente, Ø 14 cm, Cagliari, collezione privata.

238. Ciotola, Oristano, ante 1908terracotta ingobbiata e invetriata internamente, Ø 31,7 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.Questo tipo di manufatto ad Oristano è chiamato discus, ed era la prima prova al tornio dell’aspirante figolo.

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:45 Pagina 156

239

240

239. Scolapasta, Oristano, ante 1908terracotta ingobbiata e invetriatainternamente, Ø 27 cm, Roma, MuseoNazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.

240. Scolapasta, Oristano, fine sec. XIXterracotta ingobbiata e invetriatainternamente, Ø 24,5 cm, Nuoro, collezione privata.

157

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:52 Pagina 157

158

241

242

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:37 Pagina 158

159

243

proprietario, Raffaele e Giovanni, si cimentarono connuovi modi di fare ceramica.56 Specie Raffaele, il più an-ziano di essi, dotato di un temperamento artistico e in-cline all’esperimento, vorrebbe scuotere il giogo dellafatica e dedicarsi a una forma d’arte meditativa. Ma i col-leghi della Società lo tacciarono di “pigrizia” e lo isolaro-no dal gruppo. Di sanzioni ancor più gravi soffrì il piùgiovane dei due, Giovanni, quando, messosi in proprionegli anni Quaranta, modificò la grata del forno e il cari-co per ridurre le perdite. I suoi colleghi ruppero i rap-porti con lui e con la sua famiglia: nell’economia di unaproduzione anche il fattore perdita gioca un ruolo e nonpuò essere eliminato senza creare squilibri nel gruppo.

241-242. Conca, Oristano, fine sec. XIXterracotta ingobbiata, graffita e invetriata internamente, Ø 33 cm, Assemini, collezione privata.

243. Piatto, Oristano, fine sec. XIXterracotta ingobbiata, graffita e invetriata internamente, Ø 40,5 cm, Nuoro, collezione privata.

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:37 Pagina 159

Ciò tuttavia non scoraggiò il giovane il quale, oltre chedi notevole abilità artigianale, era dotato di uno spiritoimprenditoriale.57 Alla metà degli anni Settanta e ancorpiù negli anni successivi quella di Giovanni era l’unicabottega ancora attiva dove, accanto ai vecchi strumenti,si trovavano l’impastatrice per la terra, il tornio elettrico,il forno a gas e dunque anche le vetrine compatibili coinuovi materiali e adatte ai nuovi strumenti e modi di cot-tura (doppia). Per effettuare le innovazioni tecniche Gio-vanni, oltre che impegnarsi e prendere notevoli rischi,dovette guardare ad Assemini e ricorrere spesso al consi-glio di colleghi ceramisti della Scuola d’Arte. La sua pro-duzione rimase, salvo poche eccezioni, ligia ai canoniformali della tradizione oristanese: terracotta, forme ordi-narie e da festa, ma tutte distinte da un’abbondante ve-trina verde. Con questi adattamenti egli fu in grado divenire incontro alle richieste di un nuovo mercato na-zionale e internazionale, di partecipare a mostre otte-nendo diversi riconoscimenti e creando per sé e per lasua famiglia una vita agiata.Dagli anni Cinquanta in poi fiorisce a Oristano la Scuo-la Statale d’Arte, che si avvale della presenza nella dire-zione di due ceramisti non sardi di rinomata scuola,Vincenzo Urbani e il suo successore Arrigo Visani, per iquali la Sardegna e il suo patrimonio culturale furonofonte di ispirazione. Specie il Visani introdurrà nellascuola la ricerca progettuale e sperimenterà con argilleda cuocere ad alte temperature e nuovi smalti dandoun vero impulso innovatore all’insegnamento. Questisviluppi continuano ad essere ignorati dalla maggioranzadei figoli che persistono nel rifiutare le innovazioni tec-niche. Chi invece ne trae vantaggio è Antonio Manis ilquale, pur cresciuto nella bottega di un vasaio oristane-se, si forma poi alla scuola di Urbani e di Visani acqui-stando pratica di nuove materie prime e delle tecnichedegli smalti e del decoro. Fondata la propria bottega,58

egli nelle sue opere “tornerà” in certo modo alla tradi-zione oristanese realizzando i suoi manufatti – spessoforme dell’antico repertorio – in argilla comune rivestitadi ingobbio sotto vetrina. In un contesto che tratta dellaproduzione della terracotta campidanese può sembrareimproprio ricordare anche Angelo Sciannella, nato aCastelli d’Abruzzo, formatosi in scuole della Penisola,docente per anni di progettazione ceramica all’Istitutod’Arte e da anni «caparbio autore di numerosi tentativiverso la realizzazione di grès e porcellane».59 Ma egli èanche «attento classificatore e indagatore della tradizionelocale»60 che ha molto contribuito a far conoscere pressoun vasto pubblico ottenendo prestigiosi riconoscimenti.Ai figoli egli si è avvicinato con rispetto collegiale, ne hafrequentato le botteghe con umiltà e curiosità, traendoispirazione dalla tradizione per la sua opera nella qualespesso “rivisita” con gusto sicuro le antiche forme, rea-lizzandole sia con la terra oristanese, sia con argille più“nobili” come grès e porcellana – rigorosamente da suo-li sardi – e decorandole con grande varietà di smalti coiquali egli ama sperimentare.61

160

244

245

246

244. Brocchetta, Oristano, ante 1908terracotta ingobbiata einvetriata, h 13 cm, Roma,Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.Questi vasetti in miniatura(giogus), realizzati in serie da400 pezzi, venivano vendutispecialmente durante le feste ele sagre paesane, con un buonguadagno da parte dei figoli.

245. Brocchetta, Oristano,inizio sec. XXterracotta ingobbiata einvetriata, h 9,7 cm, Roma,collezione privata, già partedella raccolta popolare diDuilio Cambellotti.

246. Boccaletto, Oristano, metà sec. XXterracotta ingobbiata e invetriata,h 10,5 cm, Cagliari, collezioneprivata.

07 Annis Oristano 8-11-2007 17:37 Pagina 160

161

247

249 250

248

247. Brocchetta, Oristano, metà sec. XXterracotta ingobbiata e invetriata, h 13,7 cm, Nuoro, collezione privata.

248. Brocchetta, Oristano, metà sec. XXterracotta ingobbiata e invetriata, h 14 cm, Nuoro, collezione privata.

249. Sisinnio Cau, Anforetta, Oristano, inizio sec. XXterracotta ingobbiata e invetriata, h 9,7 cm, Roma, collezione privata,già parte della raccolta popolare di Duilio Cambellotti.Sul fronte è inciso il nome dell’autore: Cau Sisinnio. Si tratta del proprietario del laboratorio oristanese più importantenegli anni Trenta e Quaranta (cinque torni e due forni).

250. Brocchetta, Oristano, ante 1908terracotta ingobbiata e invetriata, h 12 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:19 Pagina 161

251

252

251. Versatore, Oristano, inizio sec. XXterracotta ingobbiata e invetriata, h 23 cm,Sassari, collezione privata.Questo manufatto è chiamato pizzudu.

252. Versatore, Oristano, inizio sec. XXterracotta ingobbiata e invetriata, h 24,7 cm,Dorgali, collezione privata.

253. Versatore, Oristano, fine sec. XIXterracotta ingobbiata e invetriata, h 35 cm,Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.

162

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:19 Pagina 162

253

Oggi sono numerosi i ceramisti attivi nella città e nel-l’oristanese formatisi presso l’Istituto Statale d’Arte “CarloContini” di Oristano, che tra i suoi progetti ha fortunata-mente anche il recupero della tradizione.62 Il loro mododi produzione è quello del laboratorio individuale o del-la cooperativa63 e i manufatti appartengono alla sferadella ceramica detta “artistica”, destinata a una societànella quale il rapporto uomo-oggetto è completamentemutato.64 Materiali, tecniche e prodotti pertinenti all’anti-

ca tradizione oristanese appartengono al passato. Tutta-via nel repertorio formale e decorativo si avvertono al-cuni specifici richiami a un patrimonio culturale che sievolve, come è naturale, ma non va perduto. La custo-dia di esso, oggi che la scuola ha sostituito la bottega, ècompito dell’insegnamento, mentre la protezione socialeed economica dei ceramisti non è più cura e responsa-bilità del Gremio o della Società della SS. Trinità, madelle autorità locali e regionali competenti.65

163

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:19 Pagina 163

164

254

255

254. Versatore, Oristano, ante 1908terracotta ingobbiata e invetriata, h 13,5 cm, Roma,Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.L’invetriatura estesa e la forma non moltofunzionale, denunciano questi manufatti come prividi funzione, esclusivamente o quasi decorativi.

255. Versatore, Oristano, ante 1908terracotta ingobbiata e invetriata, h 22 cm, Roma,Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.Questo particolare tipo di versatore, utilizzato nelleoccasioni festive per il vino, è chiamato caragou.

256. Anfora anulare, Oristano, anni Venti sec. XXterracotta ingobbiata, graffita e invetriata, h 26 cm,Mamoiada, collezione privata.

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:19 Pagina 164

165

256

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:19 Pagina 165

257

258

257. Fiasca, Oristano, inizio sec. XXterracotta ingobbiata e invetriata, h 24,3 cm,Mamoiada, collezione privata.

258. Fiasca, Oristano, anni Trenta-Quaranta sec. XXterracotta ingobbiata e invetriata, h 22 cm, Cagliari, collezione privata. I manufatti invetriati, chiamati per questo motivofaîa istangiada o anche faîa bidri, venivano utilizzatifuori dall’ambito quotidiano in occasioni festive (daqui l’ulteriore denominazione arrobb’e festa).

166

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:19 Pagina 166

259

260

259. Fiasca, Oristano, anni Trenta-Quaranta sec. XXterracotta ingobbiata e invetriata, h 34,8 cm, Nuoro, collezione privata. Si tratta di un manufatto appartenutoall’artista Melkiorre Melis.

260. Fiasca, Oristano, ante 1908terracotta parzialmente ingobbiata e totalmente invetriata, h 19,5 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.

167

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:19 Pagina 167

168

261

262

261. Brocca, Oristano, ante 1908terracotta ingobbiata e invetriata, h 27 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.

262. Brocca, Oristano, prima metà sec. XXterracotta ingobbiata e invetriata, h 31 cm, Nuoro, collezione privata.

263. Brocca, Oristano, ante 1908terracotta ingobbiata e invetriata, h 27,5 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:20 Pagina 168

263

169

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:20 Pagina 169

264

264. Raffaele Cau, Brocca della sposa, Oristano, anni Cinquanta sec. XXterracotta con aggiunte plastiche,ingobbiata, graffita e invetriata, h 56 cm, Oristano, collezione privata.È una brocca ornata (pintada), che il vasaio poteva aggiungere,anche come omaggio, quando gliveniva commissionato un riccocorredo per un matrimonio. Latornitura e la cottura sono staterealizzate da Giovanni Sanna.

170

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:20 Pagina 170

265

265. Raffaele Cau, Brocca della sposa, Oristano, anni Cinquanta sec. XXterracotta con aggiunte plastiche,ingobbiata, graffita e invetriata, h 42,3 cm, Oristano, collezioneIstituto Statale d’Arte “C. Contini”. Raffaele Cau e Giovanni Sanna,entrambi formatisi nella bottegadi Sisinnio Cau, collaboraronostrettamente. Sanna era infatti un ottimo torniante e Cau, chenon possedeva una sua bottega,collaborava spesso con lui.

171

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:28 Pagina 171

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:20 Pagina 172

266 267

266-267. Brocca della festa, Oristano, fine sec. XIXterracotta con aggiunte plastiche,ingobbiata, graffita e invetriata, h 65 cm, Sassari, Museo Nazionale“G.A. Sanna”.Questo particolare manufatto era detto brocca a quattru maîgas obrocca pintada. Il tappo della riccabrocca, raffigurante l’Ultima Cena, è trattenuto alle anse con dei nastricolorati. Uno dei quattro manici è solitamente privo di decorazioniper consentire la presa.

173

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:20 Pagina 173

174 268

268-269. Brocca della festa, Oristano, ante 1908terracotta con aggiunte plastiche,ingobbiata e invetriata, h 58 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.Si tratta di un manufatto particolarmentericco di decori, sul tappo è rappresentatal’Ultima Cena (tema piuttosto diffuso inquesto genere di manufatti) mentre sulleanse e sulla pancia si trovano figure dianime penitenti (legate alle catene) efiori di melograno.

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:20 Pagina 174

269

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:20 Pagina 175

176 270

270. Giovanni Solinas, Broccadella festa, Oristano, 1931terracotta con aggiunte plastiche,ingobbiata, graffita e invetriata, h 64,7 cm, Oristano, collezioneIstituto Statale d’Arte “C. Contini”.La brocca è firmata: Solinas 1931.Il figolo non sembra esserepratico nella realizzazione diquesto genere di manufatto, cheera solitamente prerogativa dipoche famiglie di vasai di anticatradizione che possedevano degliappositi stampi per le plastiche.Appare insolito anche il soggettodel tappo, Cristo benedicente.

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:35 Pagina 176

177271

271. Brocca della festa, Oristano, ante 1908terracotta con aggiunte plastiche,ingobbiata e invetriata, h 64 cm,Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari. Sul tappo è raffigurata Eleonorad’Arborea, emblema oristanese,unico soggetto “laico” a comparirenel repertorio iconografico diquesto genere di manufatti.

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:20 Pagina 177

272

272-273. Brocca della festa, Oristano, ante 1908terracotta con aggiunte plastiche,ingobbiata e invetriata, h 27,7 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.La brocca ornata (brocca a quattrumaîgas o brocca pintada), con riccadecorazione dai soggetti di diversanatura, era prerogativa di pochi artigianie costituiva un prodotto eccezionale.Aveva una funzione, per così dire,cerimoniale e generalmente non eraoggetto di commercio ma veniva donataa “persone di riguardo”.

178

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:20 Pagina 178

273

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:20 Pagina 179

274 275

274-275. Brocca della festa, Oristano, ante 1908terracotta con aggiunte plastiche,ingobbiata e invetriata, h 51 cm,Roma, Museo Nazionale delleArti e Tradizioni Popolari.Le figure angeliche (di probabilederivazione bizantina) sono tra imotivi decorativi più utilizzati inqueste brocche, insieme ai fiori di melograno. Alcune delleplastiche (i fiori) sono infilate in appositi fori lasciati nel corpodella brocca.

180

07 Annis Oristano 8-11-2007 18:21 Pagina 180

07 Annis Oristano 9-11-2007 9:05 Pagina 181

276

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:08 Pagina 182

183

277 278

276-278. Giuseppe Pinna, Brocca della festa, Oristano, ante 1908terracotta con aggiunte plastiche, ingobbiata, graffita e invetriata, h 70 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.Sul fronte è incisa in pasta la firma: Pinna Giuseppe Oristano figolo.Solo alcune famiglie di figoli si dedicavano alla realizzazione diquesto tipo di brocche, i Pinna erano tra queste. In loro possessoerano gli stampi per la realizzazione delle parti plastiche, come ivolti classici applicati alla base dei manici. Particolarmente benrealizzata la figura di Sant’Efiso, rivela un artigiano abile con unaqualche pratica nella realizzazione di piccole plastiche.

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:09 Pagina 183

184279

279-280. Brocca della festa, Oristano, ante 1908terracotta ingobbiata e invetriata, h 55,7 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.Il tappo, frammentario, sembra raffigurarel’arcangelo Michele che schiaccia il drago.

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:09 Pagina 184

280

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:09 Pagina 185

281

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:09 Pagina 186

282

281-282. Brocca della festa, Oristano, ante 1908terracotta ingobbiata e invetriata, h 70 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.Sul tappo la corona mariana.

187

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:09 Pagina 187

188 283

283. Brocca della festa, Oristano, inizio sec. XXterracotta con aggiunte plastiche,ingobbiata e invetriata, h 20 cm, Nuoro, collezione privata.Inciso in pasta: P. Oristano.Alla confezione della brocca a quattrumaîgas venivano dedicate molte ore di lavoro nelle serate invernali. Essemomentaneamente potevano anche nonavere un destinatario, finché non sipresentava l’occasione di donarle.

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:09 Pagina 188

189284

284. Raffaele Cau, Brocca della festa, Oristano, inizio sec. XXterracotta con aggiunte plastiche,ingobbiata, graffita e invetriata, h 29,5 cm, Nuoro, collezione privata.La brocca ha inciso in pasta: Cau Raffaele.Probabilmente la brocca è statarealizzata da Raffaele Cau, eccellentedecoratore, in collaborazione conGiovanni Sanna, abile torniante, che sipotrebbe essere occupato della fatturae della cottura della brocca.

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:09 Pagina 189

285

285-286. Brocca della festa, Oristano, metà sec. XXterracotta graffita, ingobbiata e invetriata,h 62,5 cm, Sassari, collezione privata.Negli anni Cinquanta i soggetti folklorici,ballo sardo, suonatori, coppie a cavallo,sostiutiscono i soggetti sacri.

190

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:10 Pagina 190

286

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:10 Pagina 191

192

287 288

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:47 Pagina 192

289 290

193

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:47 Pagina 193

194

291

292

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:10 Pagina 194

195

293

287. Scaldino in forma di frate, Oristano, inizio sec. XXterracotta parzialmente ingobbiata e invetriata, h 34 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.

288. Scaldino in forma di suora, Oristano, inizio sec. XXterracotta parzialmente ingobbiata e invetriata, h 30 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.

289. Scaldino in forma di frate, Oristano, anni Ottanta sec. XXterracotta invetriata, h 25 cm, Oristano, collezione privata.

290. Scaldino in forma di frate, Oristano, anni Ottanta sec. XXterracotta invetriata, h 26 cm, Oristano, collezione Istituto Stataled’Arte “C. Contini”.

291. Cavallo e cavaliere, Oristano, ante 1908terracotta ingobbiata e invetriata, lungh. 21 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.Si tratta di un oggetto a valenza apotropaica, interamente realizzato al tornio, che veniva collocato sul colmo del tetto per scacciare gli influssi malefici.

292. Cavallo e cavaliere, Oristano, ante 1908terracotta ingobbiata e invetriata, lungh. 25,5 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.

293. Cavallo e cavaliere, Oristano, ante 1908terracotta ingobbiata e invetriata, lungh. 28,5 cm, Oristano, collezione Istituto Statale d’Arte “C. Contini”.

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:10 Pagina 195

196

294

295

297

296 298

294. Quadrelle, Oristano, 1980 (foto Herman Geertman, archivio M.B. Annis).Si tratta della produzione di tegole invetriate(ragiollas), realizzate per la copertura dellacupola del campanile della chiesa di Terralba dalfigolo Giovanni Sanna. Si incontravano notevolidifficoltà nella realizzazione, in quanto le tegoletendevano a spaccarsi o deformarsi durante lacottura. La confezione delle quadrelle, così comeper la brocca a quattru maîgas, era prerogativa di poche famiglie di vasai di antica stirpe chepossedevano gli appositi stampi.

295. Quadrella, Oristano, sec. XIXterracotta ingobbiata e invetriata, h 26 cm, Cabras, collezione privata.La tegola veniva fermata sulla copertura con

della malta (essa aveva un leggero incavo peraccoglierla sul lato non invetriato) e assicurataulteriormente con un chiodo.

296. Elemento per costolone, Oristano, sec. XIXterracotta invetriata, h 47 cm, Cabras, collezione privata.Si tratta di un elemento di copertura utilizzatoper segnare gli “spicchi” della cupola.

297. Quadrella, Oristano, sec. XIXterracotta ingobbiata e invetriata, h 29 cm, Oristano,collezione Istituto Statale d’Arte “C. Contini”. È una delle quadrelle di copertura della chiesa di Santa Sofia a San Vero Milis.

298. Torre campanaria della cattedrale di SantaMaria, Oristano, sec. XVIII.

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:11 Pagina 196

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:11 Pagina 197

198

299 300

301

302

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:11 Pagina 198

199

303 304

305

299. Tegola, Oristano, inizi sec. XXterracotta, h 35 cm, Sanluri, collezione privata.

300. Tegola, Oristano, sec. XIXterracotta con tracce di ingobbio, h 33 cm, Oristano, collezione privata.

301. Condotta, Oristano, metà sec. XXterracotta parzialmente invetriata, lungh. 42 cm,Nuoro, collezione privata.Alcune tipologie di manufatti sono prerogativa solo di certi vasai appartenenti a famiglie diantica tradizione: tra questi i tubi di noria (tuv’emoîu), i doccioni di gronda (cannoî ) e lequadrelle invetriate per le cupole dei campanili(ragiolla), che nel quadro della produzionerappresentano l’aspetto per così dire“industriale”.

302. Recipiente per la noria, Oristano, inizio sec. XXterracotta, lungh. 27,6 cm, Cagliari, collezione privata.

303. Fornello, Oristano, fine sec. XIXterracotta, h 13 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.Sul bordo interno è applicata una rosa.

304. Fornello, Oristano, ante 1908terracotta, h 18,5 cm, Roma, Museo Nazionaledelle Arti e Tradizioni Popolari.

305. Fornello, Oristano, fine sec. XIXterracotta, Ø 17 cm, Sassari, Museo Nazionale“G.A. Sanna”.

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:11 Pagina 199

200

306

07 Annis Oristano 8-11-2007 19:11 Pagina 200

201

307

308

306. Pitale, Oristano, prima metà sec. XXterracotta ingobbiata e invetriatainternamente, h 27,2 cm, Nuoro, collezione privata.

307. Pitale, Oristano, ante 1908terracotta parzialmente ingobbiata einvetriata, h 16,5 cm, Roma, MuseoNazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.

308. Pitale, Oristano, ante 1908terracotta graffita, ingobbiata e invetriatainternamente, h 15,5 cm, Roma, MuseoNazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.

07 Annis Oristano 9-11-2007 17:50 Pagina 201

ASSEMINI

Il centro produttoreAssemini era negli anni Venti e Trenta dello scorso se-colo un grosso borgo agricolo del Campidano meridio-nale che, per essere dotato di terreni irrigui e colturespecializzate come l’orticoltura e la viticoltura, godevadi notevole prosperità in un contesto isolano dove laceralicoltura e la pastorizia dominavano. La pesca nellevicine lagune e la produzione di sale erano altre fonti diintroito che favorivano l’economia del villaggio.66 Anchead Assemini, come in tutta la Sardegna, si assiste nelcorso di due generazioni a una notevole crescita dellapopolazione: da circa 4000 anime nel 1920 a circa 7000nel 1951, a 16.727 nel 1984.

Le materie prime: provenienza e caratteristicheSecondo le testimonianze raccolte, fino alle soglie deglianni Trenta dello scorso secolo i vasai di Assemini cava-vano l’argilla dentro il paese (terra de aintr’e Assemini)e tutti sono d’accordo nell’affermare che quella era ma-teria di ottima qualità, così come quella di colore rossoche si otteneva in zona Piri Piri in direzione di Iglesias.Successivamente, sotto la spinta della crescita dell’attivi-tà, si cercarono e si acquistarono terreni per nuove ca-ve nella zona Su Carroppu, tra Assemini e Decimo. Quiperò la qualità dell’argilla era inferiore, soprattutto perla presenza in essa di grossi grumi di calcare, che infat-ti costrinsero a introdurre nella preparazione dell’impa-sto la fase della grigliatura con acqua. In genere, comeper ogni materia prima, la qualità dell’argilla non è co-stante neanche nello stesso sedimento e l’artigiano divolta in volta giudica le miscele da fare se l’argilla è trop-po grassa o troppo magra, in relazione agli oggetti chevuole realizzare. Più recenti sono alcune cave in dire-zione di Uta dove però per trovare argilla ben lavorabi-le bisogna spesso scavare non solo oltre i tre metri dicappellaccio durissimo, ma anche oltre il primo stratodi argilla grassa che, avendo un ritiro di circa 13%, nonpuò usarsi da sola per la manifattura dei vasi.67 Pure re-lativamente recente, forse da mettere in relazione con lenuove cave dove l’argilla prevalentemente grassa è mol-to plastica, è l’uso di una terra di un colore rosso vivaceche si trova in giacimenti superficiali a ovest del paesee che, essendo magra, cioè siltosa e sabbiosa, funge dadegrassante. Le proporzioni delle miscele sono di 3/4 diterra di base e 1/4 di degrassante. Gli artigiani più ligialla tradizione però preferiscono non ricorrere a tale mi-scela e per il resto c’è un generale consenso sulla buonaqualità dell’argilla asseminese. Questa ha un’ottima pla-sticità, il che se da un lato permette di modellare dellegrandi forme, dall’altro esige dall’artigiano particolare

202

309

309. Laboratorio ceramico, Assemini, 1956 (foto Marianne Sin-Pfältzer).Brocche ad asciugare dopo la formatura; a questa operazione segue l’attaccamento delle appendici e poi l’essiccazione che esige una particolare attenzione e ha luogo all’interno.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 17:55 Pagina 202

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 17:55 Pagina 203

204

310

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 17:55 Pagina 204

311 312

310-311. Tornitura di una brocca, Assemini, 1958. Il torniante Giovanni Andrea Usai sta completando l’esecuzione di una brocca con la realizzazione del collo (su tutturigu).

312. Brocca prima della cottura, Assemini, 2007, Collezione Comunale Ceramiche Artistiche.Quando il manufatto è sufficientemente asciutto riceve una parziale invetriatura a base di silice e galena in soluzione di acqua di farina a cui talvolta si aggiungono l’ossido di rame o di ferro per dare colore (ingavantsai, da gavanza, galena). Il miscuglio si applica direttamente sull’argilla. La brocca è stata realizzata da Giuseppe Locci.

205

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 17:55 Pagina 205

313

315

317

314

316

318

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 17:55 Pagina 206

207

319

321

320

322

313-322. Cottura dei manufatti nel forno a legna, Assemini, laboratorio Deidda, 1979 (foto Herman Geertman, archivio M.B. Annis).Il carico, opera sapiente guidata dal maestro, ma alla quale tutta lafamiglia collabora, si effettua in gran parte entrando nella camera dicottura dalla porta, solo l’ultima parte (cuccuru), che puòsopravanzare l’altezza della camera, si carica dall’alto e si copre congrossi cocci che fungono da cupola. La cottura comincia e finisce conun segno della croce e si svolge nelle tre fasi canoniche: ilriscaldamento (accallentai) lento e a fuoco basso; l’alimentazione inun ritmo crescente (assidai), durante la quale avviene latrasformazione ceramica; il raggiungimento della massima temperatura

e del calore bianco mediante colpi di fuoco (cardas) ravvicinati, inquesta fase l’alimentazione del forno è forte e continua. A secondadella qualità dell’impasto la cottura può durare fino a 12 ore e sieffettua in genere nelle ultime ore della giornata e nelle prime dellanotte. Il combustibile preferito è il cisto, ma non si escludono altri tipidi legna come il lentischio, il corbezzolo e l’asfodelo, il cui uso è peròlimitato all’ultima fase della cottura perché bruciando a fiamma altasarebbero pericolosi nelle prime fasi, mentre nell’ultima cacciano via il fumo dal forno e dai manufatti (asciummai). Lo scaricamento delforno avviene con grande ordine e attenzione; le brocche che – peressere state in basso nel forno dove l’atmosfera è fortementeriducente – diventavano scure venivano chiamate fiudas (vedove).

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 17:55 Pagina 207

323

324

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 17:55 Pagina 208

209

325

323. Produzione di brocche, Assemini, anni Quaranta sec. XX.La foto ritrae Raimondo Collu nel suo laboratorio, in primo piano la figlia Rosa (futura moglie di Gaetano Deidda).

324. Il controllo delle brocche dopo lacottura, Assemini, 1979 (foto HermanGeertman, archivio M.B. Annis).Rosa Collu controlla le brocche dopo lacottura. Era questo uno degli incarichinormalmente svolti dalle donne.

325. Brocca, Assemini, metà sec. XXterracotta parzialmente invetriata, h 35 cm, Cagliari, collezione privata.Si tratta di una brocca d’uso quotidiano,mariga, invetriata al collo e ai manici,senza prima essere ingobbiata, adifferenza di come era uso a Oristano.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 17:56 Pagina 209

210

326

326. Brocca festiva, Assemini, inizio sec. XXterracotta graffita eparzialmente invetriata,h 38 cm, Sassari, collezione privata.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 17:56 Pagina 210

211

327

327. Brocca festiva, Assemini, inizio sec. XXterracotta graffita eparzialmente invetriata, h 34 cm, Roma, collezioneprivata, già parte dellaraccolta popolare di DuilioCambellotti.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 17:56 Pagina 211

212

328

328. Brocca festiva, Assemini, prima metà sec. XXterracotta graffita e parzialmenteinvetriata, h 35 cm, Assemini,collezione privata.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 17:56 Pagina 212

destrezza e anche determinate caratteristiche fisiche.68

Non tutti infatti sono in grado di modellare questa ma-teria assecondandone le qualità in modo da sfruttarnetutto il potenziale. Nelle parole di un vasaio di Asse-mini: «Per domare la terra non bisogna farle violenza,bisogna ascoltarla. La terra è come la musica, se laascolti la “senti” e allora puoi farne ciò che vuoisenza sforzo». Un’argilla con queste proprietà esigeanche grande cura durante l’asciugatura e la cot-tura: entrambe devono essere lente e regolari. Seusata pura, cioè non miscelata con l’argilla rossa,la terra di Assemini assume una volta cotta uncolore arancio tendente al giallo che denunciauna composizione ferroso-calcarea. Le analisi mineralogico-petrografiche effettuatesu alcuni campioni attestano nell’argilla di Asse-mini, come anche in quelle di Oristano e Pabil-lonis, la presenza di inclusi che ben si accorda-no per la loro qualità non molto varia con lalitologia del Campidano.69 Le argille di Asseminicontengono però un numero di inclusi minoree di inferiore granulometria rispetto a quellipresenti nei frammenti di Oristano e Pabillonis.Soprattutto le prime si differenziano dalle secon-de per una massa di fondo di grana finissima epriva di inclusi e per la presenza di pori allungatiindicativi di una materia plastica.70 Le analisi tec-nologiche confermavano la maggiore plasticitàdell’argilla asseminese che inoltre, a differenza del-le altre due, non è tixotropica. Un’altra differenza èche, mentre le argille oristanesi e pabillonesi rigetta-no gli smalti, quelle di Assemini invece li accettano,grazie alla presenza di carbonato di calcio nella suacomposizione. Quest’ultima proprietà si rivela fonda-mentale per lo sviluppo, a partire dagli anni Trentadel Novecento, di una produzione di ceramica smaltatae decorata accanto a quella della terracotta tradizionale.

I manufatti Fino agli anni dei profondi mutamenti sociali della metàdel Novecento quella di Assemini è una produzione uti-litaria. Realizzata in serie e rifinita con applicazione divetrina parziale e funzionale, essa è volta a soddisfare lenecessità di base di una società agropastorale e non co-nosce spazio per il superfluo. Sotto questo aspetto latradizione si differenzia da quella oristanese, dove la ca-tegoria della faîa bidri o arrobb’e festa rappresenta lostraordinario non necessario, mentre sa brocca a quat-tru maîgas simboleggia l’aspetto cerimoniale-religioso.

213

329

329. Brocca festiva, Assemini, 1956 ca.terracotta graffita, parzialmente ingobbiata e invetriata, h 41 cm,Assemini, collezione privata.Si tratta di una brocca realizzata da Basilio Mameli, regalataall’attuale proprietaria in occasione delle nozze. A questo manufattosi dedicava una cura particolare che si esprimeva con delle semplicidecorazioni, incise sulla spalla e sul ventre delle brocche con ungiunco o una canna tagliata, e abbondando con la vetrina.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 17:56 Pagina 213

Ad Assemini come a Oristano il prodotto per eccellenzaè la brocca, sa mariga, di diverse misure, destinata allaprovvista e al trasporto dell’acqua nelle abitazioni, men-tre barilotti (frascus) e fiasche (stangiadas) si usavanoin campagna per dissetarsi, specie nei mesi caldi. Innumero considerevole si producevano, principalmentein autunno, le giare (brugnas) per la conservazione deicibi, in particolare le olive in salamoia, e le conche (sci-veddas), adibite, come è noto, a diversi usi, dalla prepa-razione del pane e di altri cibi al lavaggio della bian-cheria. Tipica di Assemini è una variante di sciveddabassa con delle incisioni sul fondo che si usa per faresa fregua (figg. 351, 354).71 Ciotole, scodelle, boccali,bottiglie, scolapasta, vasi da fiori, salvadanai, scaldini fa-cevano pure parte dei corredi domestici. Per usi edili sifacevano le mattonelle per la copertura delle cupole(tebia ’e campanili ) e i doccioni di gronda (tuvus),mentre per l’irrigazione degli orti erano molto richiestidai contadini i tubi di noria (tuvus de moîu). In parti-colare dalle carceri, infine, c’era una forte domanda divasi da notte (bassinus). In caso di corredo nuziale sidedicava a su strexiu una cura particolare che si espri-meva con delle semplici decorazioni, incise sulla spalla esul ventre delle brocche con un giunco o una canna ta-gliata, e abbondando con la vetrina. Nel caso di un cor-redo ricco per una sposa benestante si aggiungeva unabrocchetta ornata con una decorazione plastica a uccel-lini (sa marighedda pintara a pilloneddus in pitzus),72

motivo del pane decorato (coccoi pintau) usato per lenozze e per le feste.73

ASSEMINI: MÀRIGAS

Unità di vendita e capacità Prezzi in lire

Cate

goria

Num

ero

pezz

ide

lla se

rieAu

men

to d

el

num

ero

per s

erie

Capa

cità

del

lebr

occh

e in

litri

Dim

inuz

ione

in

litri

per

bro

cca

Capa

cità

tota

le

della

serie

in li

triPr

ezzo

per

serie

in

lire

Prez

zo p

er b

rocc

a in

cent

esim

iPr

ezzo

per

litro

in

cent

esim

i

Particolari

I

2

3

4

+1

+1

25

22

20

-3

-2

50

66

80

1

1

1

50,00

33,00

25,00

2,00

1,50

1,25

eccezionale

provvista

II

5

6

8

10

+1

+1

+2

+2

18

14

10

5

-2

-4

-4

-5

90

84

80

50

1

1

1

1

20,00

16,66

12,50

10,00

1,10

1,20

1,25

2,00

ordinario

trasporto

III20

30

+10

+10

2

1

-3

-1

40

30

1

1

5,00

3,33

2,50

3,30

“2x1 soldo” piccolo, fatto

“3x1 soldo” dalla massa

TAVOLA III. Assemini, periodo tra le due guerre: unità di vendita, capacità e prezzi delle brocche (màrigas). Numeri e prezzi delle serie sono equivalenti a un quinto di quelle di Oristano (Tav. I).

214

330

330. Luigi Mameli, Brocca della sposa, Assemini, anni Quaranta sec. XX terracotta graffita e invetriata, h 32 cm, Nuoro, collezione privata.Inciso in pasta: Mameli Luigi Assemini prov. Cagliari.Nel caso di un corredo ricco per una sposa benestante si aggiungevaquesto tipo di brocchetta ornata con una decorazione plastica auccellini (sa marighedda pintara a pilloneddus in pitzus), motivodel pane decorato (coccoi pintau) usato per le nozze e per le feste.Questa brocca proviene dalla collezione del pittore Giuseppe Biasi.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 17:56 Pagina 214

La tecnica di manifatturaLa tecnica di manifattura non si differenzia se non inalcuni particolari da quella oristanese e, più in genera-le, gli strumenti e i procedimenti sono quelli noti, espesso descritti, in questo tipo di produzioni nel baci-no del Mediterraneo.74 Pertanto, come già per Orista-no, la mia esposizione si limiterà ai punti più rilevantidella sequenza operativa, sottolineando piuttosto quelliche, grazie anche alle analisi archeometriche e tecno-logiche, mettono in evidenza certe caratteristiche del“dialetto” rappresentato in Sardegna dalla tradizioneasseminese.L’argilla si cava con scavo a galleria (sa grutta) per ilfabbisogno annuale, si ammassa nei cortili delle case-laboratorio o anche presso le cave dove avviene unaprima asciugatura delle zolle e un primo processo didepurazione naturale grazie agli agenti atmosferici. Essasi ammucchia quindi al coperto e al momento dell’uso sifanno le miscele e se ne separa una certa quantità chesi sparge in uno spiazzo, precedentemente ben nettato,perché asciughi completamente. Si pulisce quindi concura prima di essere messa in ammollo in acqua, origi-nariamente dentro fosse profonde una sessantina dicentimetri scavate nel cortile (oripetzus), dove si lasciaper almeno una notte. Un apprendista, calandosi nellafossa, la lavora accuratamente coi piedi. Al momento incui la materia è della giusta consistenza si solleva e sistende ad asciugare per essere poi calpestata a lungo(accracangiada) per ben amalgamarla e renderla liberadalle bolle d’aria. Si raccoglie quindi in una massa e silascia riposare, coperta da sacchi di juta inumiditi per-ché rimanga omogeneamente umida. Poco prima dellamessa in opera c’è la fase della lavorazione al banco diporzioni d’impasto per togliere le ultime impurità rima-ste ancora nascoste nella massa. Infine viene il momen-to importante della preparazione delle palle da centraresul tornio. Si separa dal mucchio una certa quantità dimateria e mediante strappi, torsioni e colpi battuti colpugno e con manate schioccanti si degassa l’impastoprima della messa in opera sul tornio (fai su cuccu).Questi cuccus vengono accatastati su un ripiano accan-to al tornio perché il torniante possa utilizzarli uno do-po l’altro senza perdere tempo. Il modo in cui preparasu cuccu mette in evidenza la capacità dell’aiutante e lepalle, misurate a occhio, sono di una sorprendente pre-cisione.75 Quest’ultima fase non esisteva ad Oristanodove le porzioni di materiale necessarie non potevanoessere preparate in anticipo, ma dovevano essere impa-state di volta in volta, in quanto l’argilla magra e tixotro-pica oristanese si sarebbe asciugata troppo assumendouna consistenza collosa.76

Presumibilmente intorno agli anni Trenta dello scorsosecolo s’introduce ad Assemini la grigliatura a umido.Come ho già spiegato e illustrato nel capitolo dedicatoa Oristano, dove la grigliatura viene introdotta più tar-di pure in relazione a un’argilla di qualità inferiore perun cambiamento di cave, questa operazione facilita e

215

331

331. Saverio Farci, Brocca della sposa, Assemini, 1981terracotta invetriata, Assemini, collezione privata.L’autore, Saverio Farci, ha tornito la brocca secondo l’antica forma tradizionale asseminese. Si tratta di una marighedda pintara a pilloneddus in pitzus.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 17:56 Pagina 215

snellisce notevolmente la lunga e faticosa preparazio-ne della terra.77

La foggiatura al tornio (triballai de arroda) è descritta inmodo eccellente, assieme alle caratteristiche dello stru-mento asseminese, da Maria Gabriella Da Re. Di questadescrizione minuta e sapiente cito la prima parte cheesprime l’essenza della tecnica: «La foggiatura con il tor-nio è un processo complesso, una veloce sequenza diazioni diverse, in ognuna delle quali si combinano va-riamente la posizione del corpo, la velocità del tornio,le azioni a mano nuda (interdigitali e digitopalmari) e leazioni a mano attrezzata (mano in motilità diretta). Ognitipo di oggetto richiede una gestualità pertinente allasua forma ed è perciò sempre diversa, anche se esisteuna sequenza di base comune».78 Anche ad Assemini glioggetti di grande e medio calibro si modellano da unasola palla d’argilla, mentre quelli piccoli si tirano su dal-la massa e così pure le anse e le appendici. Come aOristano, il vasaio sta semiseduto su una tavola fissataobliquamente al muro e appoggia la schiena contro ilmuro. In genere egli imprime gli impulsi al volano colpiede sinistro facendolo ruotare in senso antiorariomentre la gamba destra è tesa e ferma. La brocca è laprova di abilità sia per chi apprende l’arte, sia per giu-dicare il bravo maestro. Quest’ultimo però, come negli

216

332

333 334

332-333. Fiasca, Assemini, anni Cinquanta sec. XXterracotta invetriata, h 27 cm, Assemini, collezione privata.Questo manufatto, stangiada, è statorealizzato da Gaetano Deidda.

334. Donna con fiasca asseminese, 1959 (foto Marianne Sin-Pfältzer).

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 17:56 Pagina 216

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 17:56 Pagina 217

altri centri produttori, deve anche conoscere le terre eammaestrare il fuoco.Alla foggiatura segue l’attaccamento delle appendici epoi l’essiccazione, che, come ho già detto, con l’argillaasseminese esige una particolare attenzione e ha luo-go all’interno. Quando il manufatto è sufficientementeasciutto, esso riceve una parziale invetriatura con unavetrina a base di silice e galena in soluzione di acqua difarina a cui talvolta si aggiungono l’ossido di rame o diferro per dare colore (ingavantsai, da gavanza, galena).Il miscuglio si applica direttamente sull’argilla. In meri-to, i vasai giudicano non necessario e addirittura pec-cato frapporre un ingobbio chiaro tra corpo ceramicoe vetrina, come fanno a Oristano, perché «l’argilla e la

vetrina devono fare all’amore creando sempre nuovieffetti di colore».Il forno verticale senza cupola, costruito dagli stessi va-sai in mattoni crudi con qualche rinforzo di laterizi e ri-vestito di un impasto grossolano di argilla, limo, sabbiae paglia, consta di una camera di combustione con pre-furnio (lavantera) seminterrata, separata dalla sovrastan-te camera di cottura cilindrica da una grata forata i cuielementi arcuati si appoggiano a un pilastro. La cameradi cottura è dotata di una porta (s’ecca) che si chiudemurandola a carico terminato.79 Il carico, opera sapien-te guidata dal maestro, ma alla quale tutta la famigliacollabora, si effettua in gran parte entrando nella came-ra di cottura dalla porta, solo l’ultima parte (cuccuru),

218

335

335. Fiasca, Assemini, prima metà sec. XXterracotta parzialmente invetriata, h 31 cm,Cagliari, collezione privata.Questa tipologia di fiasca (frasku), a fondo largo, tipica di Assemini, era particolarmente apprezzata in Campidano; anche i figoli oristanesi copiarono la forma per far fronte alle richieste del mercato.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 17:56 Pagina 218

che può sopravanzare l’altezza della camera, si caricadall’alto e si copre con grossi cocci che fungono dacupola (fig. 314). Il forno, una volta costruito, si fa du-rare a lungo, anche 20 anni, e si ripara e si miglioracontinuamente perché un forno vecchio si conoscemeglio e funziona meglio. «Io, quando sogno, sogno ilforno a legna – dice un vasaio asseminese – quelloelettrico me lo dimentico».La cottura è unica. Essa comincia e finisce con un se-gno di croce e si svolge nelle tre fasi canoniche: il ri-scaldamento (accallentai) lento e a fuoco basso, l’ali-mentazione in un ritmo crescente (assidai), durante laquale avviene la trasformazione ceramica, il raggiungi-mento della massima temperatura e del calore biancomediante colpi di fuoco (cardas) ravvicinati in cui l’ali-

mentazione del forno è forte e continua (figg. 315-316).A seconda della qualità dell’impasto la cottura può du-rare fino a 12 ore e si effettua in genere nelle ultimeore della giornata e nelle prime ore della notte. Anchequesto è un particolare legato alle proprietà dell’argillaasseminese. Il combustibile preferito è anche ad Asse-mini il cisto, ma non si escludono altri tipi di legna co-me il lentischio, il corbezzolo e l’asfodelo il cui uso èperò limitato all’ultima fase della cottura perché bru-ciando a fiamma alta sarebbero pericolosi nelle primefasi, mentre nell’ultima cacciano via il fumo dal forno edai manufatti (asciummai).Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, quandoper la prima volta visitai Assemini, la macchina avevasostituito l’uomo nella cavatura e in tutta la preparazione

219

336

336. Fiasca, Assemini,anni Venti-Trenta sec. XXterracotta parzialmenteinvetriata, h 22 cm,Assemini, collezioneprivata.Si tratta di un manufattorealizzato dallo stovigliaio(strexiaiu) Efisio Carboni.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 17:56 Pagina 219

337 338

339

337. Orcio, Assemini, inizio sec. XXterracotta ingobbiata e invetriatainternamente, h 20 cm, Assemini,collezione privata.

338. Orcio, Assemini, 1905terracotta invetriata internamente, h 15 cm, Assemini, collezione privata.Si tratta di un piccolo recipienteutilizzato per la raccolta dellosgocciolamento del vino sotto le botti;con il vino raccolto si faceva l’aceto.Realizzato dallo stovigliaio LuigiCorona.

339. Orcio, Assemini, 1905terracotta ingobbiata internamente einvetriata, h 19,7 cm, Assemini,collezione privata.Questo contenitore era utilizzato per laconservazione dei pomodori secchi.

340. Orcio, Assemini, prima metà sec. XXterracotta graffita e invetriatainternamente, h 26 cm, Assemini,collezione privata.

341. Orcio, Assemini, 1905terracotta invetriata, h 33 cm,Assemini, collezione privata.Recipiente per la conservazione delcibo, denominato brugna. È statorealizzato dallo stovigliaio Luigi Coronaper un corredo di nozze, come attestaanche l’invetriatura completa.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 17:56 Pagina 220

della terra e alcuni artigiani addirittura non disdegna-vano l’argilla pronta industriale di provenienza toscana.I torni venivano azionati da un motorino elettrico e performare i manufatti più andanti, come i vasi da fiori, siusava la pressa; i forni a nafta, a gas e elettrici si trova-vano nei laboratori accanto alla fornace a legna, spessosoppiantandola del tutto. L’ingresso della macchina nel-la produzione asseminese comincia negli anni Trenta esi sviluppa nel tempo con nuove acquisizioni entrandoin tutti i laboratori, anche in quelli che continuano aprodurre la terracotta tradizionale. Sulle origini di que-sto sviluppo c’è un consenso tra gli informatori: questosi deve al vasaio, Giuseppe Farris, che fu attivo princi-palmente tra le due guerre. In particolare i due fratelliceramisti Vincenzo e Saverio Farci, ma con loro anchela maggioranza dei vasai da me intervistati, non esitanoa definire il Farris “un gigante” nell’arte ceramica e coluialla cui enorme inventiva Assemini deve la sua fortunae la sua importanza in Sardegna. Nelle parole di Vincen-zo Farci: «Si semina per avere un prato verde con i filid’erba tutti uguali, ma può capitare che per caso nascaun fiore che spunta su tutti gli altri». Da vero innovatoreegli avrebbe introdotto la griglia azionata elettricamen-te, il motorino per il tornio, la macina per macinare lasilice, di cui cominciò anche a fare un piccolo commer-cio. Fu lui a cambiare la griglia del forno modificandoil tipo “a ragno” in una grata a buchi e fu lui ad antici-pare il riscaldamento del vasellame già durante il cari-co. Sembra che al Farris si debba il mutamento dellaforma della brocca perché meglio rispondesse alle mo-

difiche che egli apportò al carico. La brocca ottocente-sca aveva le anse a nastro, era meno panciuta dell’at-tuale e col suo lungo collo che fluiva in una spalla nontroppo accentuata aveva una forma assai più fluida esnella, esteticamente più bella, ma meno adatta alla si-stemazione nel forno come la voleva il Farris per ridur-re le perdite. Egli pensò di addossare le brocche allaparete del forno, inclinandole leggermente con la basecontro la parete e il collo verso il centro e disponen-dole torno torno un giro sull’altro. Spalla e ventre pro-minenti danno maggior sostegno che una forma snellacome era quella della vecchia brocca. Il centro del cari-co, su pilloni, così denominato perché poggiava sul pi-lone della camera di combustione, si doveva “inventare”ogni volta. Il Farris aveva chiaramente colto e raccolto lasfida dei tempi nuovi in una Sardegna che negli annisuccessivi alla prima guerra mondiale entrava a far partedi un contesto più vasto e diveniva sensibile alla moder-nizzazione. Un adattamento tempestivo che portò uncambiamento di mentalità con una percezione assai mi-nore del rischio e che progredì in una sempre più avan-zata meccanizzazione del lavoro e nella sofisticazionedegli strumenti e dei mezzi consoni alla produzione del-la ceramica smaltata e decorata che oggi domina nellaproduzione asseminese. La tecnica della maiolica fece ilsuo ingresso ad Assemini nel 1927 con “La bottega d’ar-te ceramica” di Federico Melis il quale, come è noto, as-sociò alle sue sperimentazioni il giovane vasaio assemi-nese Vincenzo Farci.80 Inizialmente i produttori dellaceramica artistica e quelli della terracotta si ignorarono,

221

340 341

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:00 Pagina 221

i primi per convinzione,81 gli altri per diffidenza nei con-fronti dello sconosciuto. Gli strexiaius chiamavano ironi-camente Federico Melis su tziu de is santixeddus, lo “ziodei santocchi”, alludendo evidentemente alla produzio-ne di statuette a stampo dell’artista.82 Vincenzo Farcisuccessivamente fondò ad Assemini una manifatturamoderna, dove varie tecniche venivano impiegate per laformazione e la cottura di manufatti di diverso tipo.

Organizzazione della produzione e condizioni di lavoroIntorno alla metà dell’Ottocento, quando Vittorio Angiusscrive le sue relazioni sui paesi sardi per il Dizionariocurato da Goffredo Casalis, trattando di Assemini egliqualifica il paese come industrioso e dice che i suoi abi-tanti, al tempo 2025, erano dediti all’agricoltura, alla pa-storizia, alla pesca e alla caccia e aggiunge che «una piùpiccola parte fanno da vasellai. Questi fabbricano conqualche arte delle stoviglie grossolane, brocche, scodel-le, fiaschi, tegami, casseruole ed altri vasi. Ne provvedo-no i villaggi vicini; ma la maggior vendita si fa in Caglia-ri nella vigilia delle festività della Vergine del Carmine,

342

343

342. Orcio, Assemini, anni Trenta sec. XXterracotta invetriata internamente, h 38 cm,Assemini, collezione privata.

343. Giara, Assemini, 1956-57terracotta invetriata internamente, h 65,5 cm,Assemini, collezione privata.Si tratta di una grande giara (ziru) senza manicisul tipo di quelle importate da Marsiglia,realizzata da Luigi Nioi nella bottega paterna.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:01 Pagina 222

dove concorrono coi decimesi, che in gran numero so-no applicati a questi lavori. Se avessero metodi miglioripotrebbe scemar di molto in loro profitto il quantitativo,che ogni anno si sborsa per terraglie straniere». Lo stessoautore, trattando di Decimomannu, che all’epoca conta-va 1194 abitanti, riferisce che questo era un centro difabbricazione di «terraglie grossolane, a che danno ope-ra circa settanta persone». Secondo l’Angius questi ma-nufatti vengono smerciati in tutto il Campidano e nellacapitale Cagliari, dove se ne tiene un deposito e «dovene portano sempre grandissimi carichi, per la solennitàdella Vergine del Carmine».83

Nel primo quarto del XX secolo, negli anni in cui Fede-rico Melis riceveva dalla Società Ceramica Industriale diCagliari l’incarico di creare una sezione artistica che perun certo periodo ebbe sede ad Assemini, i vasai assemi-nesi avevano decisamente soppiantato quelli decimesi econtavano trenta artigiani contro i due-tre di Decimo.84

Alla luce di queste notizie sembra di poter affermare chealla metà dell’Ottocento ad Assemini solo pochi vasaicon le loro famiglie si dedicavano all’arte figulina. La lo-ro attività si svolgeva accanto all’agricoltura, alla pesca ealla caccia, probabilmente solo stagionalmente, ed eracomplementare a quella assai più importante di Decimo.

223

344

344. Orcio, Assemini, anni Trenta sec. XXterracotta invetriata internamente, h 36 cm, Cagliari, collezione privata.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:01 Pagina 223

L’argilla, come abbiamo visto, si prendeva dentro il pae-se e i cortili delle case di coloro che esercitavano l’arteerano i luoghi della produzione. Una forma organizzati-va che David Peacock classifica come nucleated part-time rural workshop industry,85 cioè un tipo di artigia-nato rurale, con una certa agglomerazione di botteghe,in un villaggio dove gli artigiani, avendo altre fonti direddito, non lavorano a tempo pieno, vengono aiutatidai familiari e possono usufruire di certi servizi ausiliaridisponibili nel paese. Dopo tre generazioni la situazio-ne Assemini-Decimo è ribaltata. Come abbiamo vistoad Assemini gli artigiani sono trenta, a Decimo solodue-tre.86 L’attività tanto cresciuta dei figoli asseminesiprende ovviamente uno spazio molto più rilevante nel-l’economia del paese e sembra probabile, anche se diciò non abbiamo testimonianze, che l’importanza del-l’arte sia cresciuta anche nella vita dei vasai stessi esten-dendosi presumibilmente a tutte le stagioni, pur con lasolita flessione invernale. Questa forzata inattività perònon crea problemi agli artigiani i quali possono contaresu altre fonti di reddito. Qui è d’obbligo una riflessione

sulla differenza tra questa situazione e quelladei vasai oristanesi i quali, non possedendoaltro “bene” che l’arte, spesso nella bassa sta-gione avevano difficoltà a sbarcare il lunario.87

Il vasaio asseminese è inoltre proprietario deiterreni dai quali si procura la terra, è abbastan-za benestante da potersi permettere investimentiin tecnologia, dispone di danaro liquido e il suostatus sociale non è basso. Tutto ciò ha delle con-seguenze per la sopravvivenza, ancora oggi, di As-semini come vivace centro di produzione ceramica,anche se il numero degli artigiani è fortemente dimi-nuito e il modo di produzione è diventato “individua-le”, nel senso che ogni vasaio cerca le proprie soluzionitecniche e commerciali.88 All’inizio degli anni Ottantadel secolo scorso, quando a Oristano solo pochi mae-stri erano ancora attivi e a Pabillonis l’attività era estintada anni, ad Assemini troviamo ancora 10 laboratori in-dividuali con 15 artigiani attivi e una “manifattura”89 conl’impiego di operai salariati e una netta divisione deicompiti. Poche sono le case-bottega rimaste nel paese.

224

345

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:01 Pagina 224

225

345-346. Conca, Assemini, prima metà sec. XXterracotta invetriata internamente, Ø 68 cm, Nuoro, collezione privata.

346

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:01 Pagina 225

347

348

347-348. Conca, Assemini, prima metà sec. XXterracotta invetriata internamente, Ø 60 cm, Assemini, collezione privata.Si tratta di una scivedda utilizzata per l’impasto del pane.

226

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:01 Pagina 226

349

350

349-350. Conca, Assemini, anni Trenta sec. XXterracotta invetriata internamente, Ø 47 cm,Assemini, collezione privata.Questa scivedda bassa veniva utilizzata per farela fregola e dunque denominata freguera.

227

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:01 Pagina 227

228

351

351. Conca, Assemini, 1972terracotta graffita e invetriata, Ø 47 cm, Assemini, collezione privata.Scivedda istoriata per fare la fregola (freguera), solitamente inclusanei corredi nuziali, realizzata dallo stovigliaio Gaetano Deidda.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:01 Pagina 228

352 353

354

352. Invetriatura delle sciveddas, Assemini, 1930 ca.Il figolo Raimondo Collu, la figlia Greca e due aiutanti.

353. Invetriatura delle sciveddas, Assemini, 1937.Il figolo Raimondo Collu provvedeall’invetriatura interna delle sciveddascoadiuvato dalla figlia Greca.

354-355. Conca, Assemini, inizio sec. XXterracotta graffita e invetriata, Ø 51 cm,Sassari, collezione privata.Sul fondo è graffita la scritta: Medda AnnaGarau Daniele.Si tratta di una scivedda istoriata per fare lafregola (freguera). Vi sono incisi i nomi deidue sposi; infatti questo tipo di manufattosolitamente era incluso nel corredo nuziale.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:01 Pagina 229

355

230

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:02 Pagina 230

231

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:02 Pagina 231

232

356

357

358

359. Imbuto, Assemini, prima metà sec. XXterracotta, h 18,5 cm, Assemini, collezioneprivata.

360. Fiscella, Assemini, metà sec. XXterracotta ingobbiata e invetriata, Ø 17,5 cm,Assemini, collezione privata.Si tratta di una forma per il formaggio,solitamente realizzata in legno, ma per unconsumo interno al paese prodotta anche inceramica dagli stovigliai e denominata discu.

361. Fiscella, Assemini, metà sec. XXterracotta invetriata, Ø 13,5 cm, Assemini,collezione privata.

356. Scolapasta, Assemini, prima metà sec. XXterracotta invetriata, Ø 23,5 cm, Assemini,collezione privata.

357. Scolapasta, Assemini, prima metà sec. XXterracotta invetriata, Ø 26,5 cm, Assemini,collezione privata.Manufatto realizzato dallo stovigliaio EfisioCarboni.

358. Scolapasta, Assemini, 1972terracotta invetriata internamente, Ø 30 cm,Assemini, collezione privata.Manufatto realizzato dallo stovigliaio Gaetano Deidda.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:02 Pagina 232

Madonna del Carmine a Cagliari rimase a lungo fre-quentata – portavano la loro mercanzia. In genere peròil vasaio era legato alla sua bottega e al lavoro e dovevaricorrere a intermediari. Questi erano diversi e di diver-so calibro. C’erano delle donne che venivano dal cir-condario a piedi o con un carrettino tirato da un asinel-lo per portar via qualche serie da rivendere al paese.Queste ambivano molto le stoviglie appena sbeccate(strexiu inzimmiau) che i vasai dovevano vendere apoco prezzo o quelle brocche che, per essere state inbasso nel forno dove l’atmosfera è fortemente riducen-te, diventavano nere e si chiamavano fiudas, vedove.90

Anche coloro che riparavano le stoviglie (acconcia cos-su) venivano a portar via i vasi guasti che aggiustavanoe rivendevano a maggior prezzo. C’erano poi i vendito-ri ambulanti e i negozianti che compravano all’ingrossoe trasportavano il materiale con il carro o, più tardi, colcamioncino (fig. 322).

Più ambite sono le località fuori paese, lungo le stradeprovinciali, talvolta in prossimità delle cave, dove nonsi hanno limiti di spazio e dove si è più facilmente rag-giungibili dai clienti. Colpisce tuttavia che in un conte-sto così mutato rispetto al passato, i protagonisti sianoancora tutti vasai di vecchia tradizione familiare e chel’organizzazione domestica del lavoro sia sempre viva.

La distribuzioneFino agli anni Quaranta del Novecento Assemini distri-buiva i suoi manufatti di terracotta in modo particolarenel Campidano meridionale, nell’Iglesiente, nel Sulcis,nel Sarrabus e nel Gerrei anche se, come ho già dettoaltrove, le zone di distribuzione non erano rigide. Nelperiodo bellico la richiesta era tale che, non riuscendoi vasai oristanesi a soddisfarla del tutto, spesso gli inter-mediari dovevano far ricorso ad Assemini e quindi iprodotti asseminesi cominciarono a diffondersi di più inzone per tradizione servite da Oristano. Fu nello stessoperiodo che, sempre a causa della carenza di stoviglie, ivasai di Assemini e di Oristano cominciarono a cimen-tarsi nella manifattura di pentole e casseruole le qualiperò, per ammissione degli stessi artigiani, non poteva-no competere con quelle di Pabillonis. Quando poi, acominciare dalla metà del Novecento, la produzioneoristanese andò diminuendo fino ad avere un crollodrammatico negli anni Settanta, i grossisti si rivolsero adAssemini dove la produzione era ancora viva. Fu cosìche le stoviglie asseminesi si diffusero in zone prima“oristanesi” come la Marmilla, la Trexenta, la zona delleGiare e la Barbagia.I prodotti asseminesi, in particolare le brocche, si ap-prezzavano per la loro capienza e la resistenza agli urti,ma meno per la funzione di raffreddare l’acqua o man-tenerla fresca e per la sua depurazione che permettevadi conservarla a lungo.La vendita poteva aver luogo direttamente a pezzo sin-golo, quando i clienti venivano alla bottega, o quandoi vasai in occasione di feste religiose – la festa della

359

360 361

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:02 Pagina 233

362

363

364

362. Coperchio, Assemini, seconda metà sec. XXterracotta invetriata, Ø 32 cm,Assemini, collezione privata.

363. Coperchio, Assemini, prima metà sec. XXterracotta ingobbiata e invetriata, Ø 23,3 cm, Assemini, collezioneprivata.

364. Padella, Assemini, inizio sec. XXterracotta invetriata internamente, Ø 29,7 cm, Assemini, collezioneprivata.Manufatto realizzato dallostovigliaio Luigi Corona.

234

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:02 Pagina 234

365

366

365. Pentola, Assemini, metà sec. XXterracotta invetriata internamente, h 27 cm, Assemini, collezione privata.

366. Pentola, Assemini, prima metà sec. XXterracotta invetriata internamente, h 30 cm, Assemini, collezione privata.

235

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:03 Pagina 235

Le serie asseminesi hanno delle capacità superiori aquelle di Oristano. Per esempio, la brocca più grandedi Oristano ha una capacità massima di 18 litri, quelladi Assemini di 25 litri o più. Se però si guarda ai nume-ri, che rappresentano la quantità dei pezzi costituenti laserie, si vedrà che questi sono molto più bassi. Questidue fenomeni sono, a mio avviso, da mettere in rap-porto rispettivamente alle doti di lavorabilità dell’argillae alla zona della distribuzione assai più ridotta di quellaoristanese. Quando, nel dopoguerra, il calo rapido delladomanda si sentì come crisi, due vasai, considerati “tra-ditori”, per accattivarsi i clienti alzarono i numeri delleserie per lo stesso prezzo così che, per esempio, il nu-mero sei delle brocche (14-15 litri) divenne otto (circa

20 litri) e via salendo. Ciò corrisponde a un vero de-prezzamento perché non solo materiale e lavoro sonosuperiori, ma, quel che più conta, il posto preso nelforno dalle nuove serie è molto maggiore.Oggi un’azione del genere sarebbe impossibile perchécome è mutato il modo di produzione, così non sonopiù validi i canoni della vendita e i modi di distribuzio-ne. La produzione della ceramica artistica predomina,essa ovviamente non è più anonima e le mostre, le fieree i premi sono determinanti per la fortuna di un cerami-sta le cui opere varcano facilmente i confini dell’Isola edella Penisola. Anche il vaso di terracotta, prodotto or-mai solo in piccole quantità, è soggetto alle stesse rego-le di mercato della ceramica d’arte.

236

367

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:03 Pagina 236

368

369

367. Foggiatura dei vasi, Assemini, 1960 (foto Marianne Sin-Pfältzer).Il figolo Luigi Nioi al lavoro nel laboratorio paterno.

368. Asciugatura dei vasi, Assemini, 1960 (foto Marianne Sin-Pfältzer).Il laboratorio della famiglia Nioi.

369. Vaso, Assemini, seconda metà sec. XXterracotta graffita, h 17 cm, Cagliari, collezione privata.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:03 Pagina 237

238

370

371

372

370. Quadrella, Assemini, metà sec. XXterracotta invetriata, h 33,5 cm, Assemini, collezione privata.

371. Quadrella, Assemini, metà sec. XXterracotta invetriata, h 22 cm, Assemini, collezione privata.

372. Figura acroteriale, Assemini, sec. XVIII-XIXterracotta invetriata, h 27 cm, Assemini, collezione privata.Manca della parte inferiore. Il corpo, realizzato al tornio,è riempito di malta.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:03 Pagina 238

373

375

376

374

373. Tetto di un’abitazione con cavallo acroteriale, Assemini, anni Ottanta sec. XX.

374. Cavallo acroteriale, Assemini, fine sec. XIXterracotta invetriata, Assemini, collezione privata.Il cavaliere sembra assumere la posizione di sa remada, compiuta da su componidori durante la sartiglia di Oristano.

375-376. Cavallo acroteriale, Assemini, fine sec. XIXterracotta invetriata, lungh. 25,5 cm, Assemini, Collezione Comunale Ceramiche d’Arte.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:03 Pagina 239

PABILLONIS

Il centro produttoreTra gli anni Venti e l’inizio degli anni Settanta delloscorso secolo91 Pabillonis era ancora considerato in Sar-degna il centro produttore di ceramica da fuoco per an-tonomasia: sa bidda de is pingiadas. Il villaggio è situatoal centro del Campidano su terrazze quaternarie e suolialluvionali recenti, fiancheggiati a est dalle montagnedell’Iglesiente e a sud dalle colline della Marmilla. Spe-cie prima delle opere di bonifica del comprensorio Gu-spini-Pabillonis, la natura acquitrinosa del luogo, attra-versato da diversi corsi d’acqua, offriva un ambienteadatto alla crescita di una folta vegetazione palustre.92

Questa caratteristica, assieme alla presenza di suoli argil-losi e limo-argillosi e di una rigogliosa macchia mediter-ranea da usare come combustibile, creava le condizioninaturali per il sorgere di due piccole industrie: la lavora-zione di fibre palustri e la produzione ceramica di vasida fuoco, tegole e mattoni. Introiti e rapporti di lavoroderivanti da queste due attività erano importanti da unpunto di vista economico e sociale, non solo per gli ar-tigiani, ma per l’intero villaggio, la cui base economicaderivava da un’agricoltura in massima parte cerealicola,che ancora in tempi recenti si fondava su sistemi arcaicidi sfruttamento comunitario delle terre.93

Le materie primeUno dei principali interrogativi della ricerca su Pabillo-nis riguardava le qualità compositive e artigianali dellematerie prime usate nella manifattura dei vasi alle qua-li si doveva l’eccezionale resistenza al fuoco dei manu-fatti che rendevano questo centro unico nell’Isola.94 Larisposta alle diverse domande poteva venire da un’ac-curata analisi tecnologica che mettesse in luce le rela-

zioni tra le proprietà delle materie prime, la tecnica dimanifattura e la funzione dei prodotti.95

I campioni e il loro reperimentoAl momento in cui iniziava lo studio, la produzione fitti-le di Pabillonis si era estinta da diversi anni.96 Non es-sendoci più laboratori attivi, per risolvere il problema delreperimento dei campioni da analizzare fu fondamentalela possibilità di accedere a uno dei due più importantilaboratori del paese, chiuso da anni, ma conservato daiproprietari praticamente intatto, quello di Giuseppe Pi-ras. Qui, in una sorta di situazione semi-archeologica,furono rinvenuti e campionati, oltre a un certo numerodi frammenti di vasi, anche una balla di argilla prontaper la modellazione e una miscela di minio e silice perla vetrina. L’importanza di questo rinvenimento fu com-pletata grazie all’eccezionale cortesia di due persone,entrambe un tempo direttamente attive nella produzio-ne, che procurarono sufficienti quantità di argilla e de-grassante per effettuare i nostri esperimenti.97

Avendo in passato già fornito tutti i dettagli tecnici delleindagini,98 in questa sede mi limiterò per ovvie ragionia un resoconto abbreviato riportando i risultati più si-gnificativi.

Le analisiDue erano le “terre” adoperate per la confezione dipentole e tegami, le quali in termini artigianali veniva-no denominate terra de orbezzu o terra de istrexiu eterra de pistai. La prima era l’argilla di base e la secon-da veniva aggiunta alla prima come degrassante, ondeottenere i miscugli idonei sia alla manifattura che allafunzione dei vasi.L’analisi tecnologica da noi effettuata fu focalizzata, ol-tre che sul cosiddetto contenuto mineralogico qualitati-vo e quantitativo delle due sostanze,99 sul grado di pla-sticità e lavorabilità dell’impasto, la resistenza a rotture edeformazioni in fase di essiccatura, il ritiro e il compor-tamento in cottura e infine la resistenza a shock e stresstermici, cioè a esposizione diretta al calore e successivoraffreddamento e a ripetuti cicli di riscaldamento e raf-freddamento. Anche sulla vetrina vennero eseguiti deitest per stabilirne sia la compatibilità col corpo cerami-co che il comportamento termico. Di alcuni frammenticeramici infine si esaminò il contenuto mineralogico, furicostruita la tecnica di modellazione e vennero stabilitela porosità e la temperatura di cottura.

Legami tra materie prime, manifattura e funzioneI risultati ottenuti furono interessanti in primo luogo daun punto di vista strettamente tecnologico, in quanto fu-rono effettivamente definiti quei legami che si cercavanotra le proprietà delle materie prime, la tecnica di mani-fattura e la funzione dei vasi. Ma non solo. Un confrontotra le informazioni raccolte e quanto risultava dalle inda-gini, oltre a confermare l’attendibilità degli informatori,spiegava anche i “perché” della sequenza operativa e

377

240

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:03 Pagina 240

377. Pentolino, Pabillonis, prima metà sec. XXterracotta invetriata internamente, h 10 cm, Nuoro, collezione privata.

378. Pentola, Pabillonis, prima metà sec. XXterracotta invetriata internamente, h 19,1 cm, Nuoro, collezione privata.

379. Pentola, Pabillonis, prima metà sec. XXterracotta invetriata internamente, h 17,3 cm, Nuoro, collezione privata.

379

378

241

apriva inoltre una finestra su certi fenomeni di naturasociale e economica che verranno illustrati in seguito.L’analisi mineralogico-petrografica eseguita su alcuniframmenti di vasi e su argilla e degrassante mostrava lapresenza in essi di minerali e rocce di tipo comune, pro-pri di una litologia non molto variata quale è quella delCampidano.100 Le prove al forno eseguite sull’argilla in-dicavano per questa un’ideale temperatura di cottura tragli 850 e i 900 °C fino a un massimo di 950 °C, tempera-tura intorno alla quale cominciava la sua fusione. Questecaratteristiche corrispondono perfettamente a quelle del-le cosiddette “argille rosse comuni”, di larga diffusione innatura, che non esigono alte temperature di cottura eche perciò vengono usate per la manifattura di ceramicachiamata comunemente “terracotta”.101 Le doti “speciali”dei prodotti per le quali sa bidda de is pingiadas era no-ta nell’Isola non erano dunque attribuibili a proprietà ec-cezionali della materia prima e dovevano essere spiegatepiuttosto attraverso la tecnica di manifattura.102

Secondo le informazioni, le due terre dovevano essereammassate all’asciutto, in ambienti il cui nome indicavaappunto una precisa funzione: sa domu de sa terra deorbezzu e sa domu de sa terra de pistai. Le analisi indi-cano che ciò era necessario perché entrambe le materienon dovevano inumidirsi per poter essere meglio fran-tumate, ripulite e setacciate. In questo modo le varie im-purità e molti dei più grossi granuli di sabbia venivanoeliminati. L’argilla di base veniva quindi immersa in ac-qua in quantità sufficiente per un giorno di lavoro e ri-maneva nella vasca di sedimentazione dalla sera allamattina seguente, quando era sufficientemente solida dapoter esser tirata su con le mani e stesa per terra, isolan-dola dall’impiantito con uno strato di terra de pistai,perché perdesse l’eccesso di umidità. La preparazionedel degrassante, prima frantumato con una mazza di le-gno e quindi setacciato fino a ridurlo in polvere fine,veniva considerata un’operazione particolarmente pe-sante e malsana anche perché, data la presenza di argil-la nella sua composizione, doveva svolgersi all’internodove la polvere silicea si inalava in dosi massicce congravi danni per la salute.103 Il degrassante veniva quindigradualmente aggiunto all’argilla umida. Per 50 kg diargilla si aggiungevano 10 kg di degrassante.104 Le duesostanze venivano accuratamente amalgamate lavoran-dole coi piedi e la massa di impasto così ottenuta si la-sciava riposare per qualche ora. Si tagliavano quindidei pezzi che, a uno a uno, si mettevano su un bancodi legno di castagno per essere ulteriormente lavorati.L’operazione della lavorazione al banco era lunga estancante perché si trattava di rimuovere a mano i gra-nuli troppo grossi ancora presenti nell’impasto. Unapiccola parte del pezzo reciso dalla massa veniva spin-ta in avanti col palmo della mano e quindi ritirata in-dietro a poco a poco con la punta delle dita per elimi-nare le inclusioni indesiderate. Ciò per due o tre volte.Dalla quantità d’impasto così pulito si tagliavano quin-di delle fette che a loro volta si dividevano in salamini,

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:25 Pagina 241

i quali poi si tagliavano a pezzetti. Questi ultimi veniva-no con mossa energica battuti sul tornio e accurata-mente allisciati per eliminare eventuali bolle d’aria, perarrivare a una quantità di circa 20 kg, fino a un massi-mo di 25 kg, di materiale pronto per la modellazione. Al momento dell’esame al microscopio dei frammentidei vasi ci si era domandati perché nell’impasto fosserocontenuti dei granuli di dimensioni e forme tali che sianella tornitura di pareti relativamente sottili che in cottu-ra potevano creare dei problemi.105 Le analisi dell’argillaresero chiaro che la presenza di questi inclusi era dovu-ta a una specifica proprietà dell’argilla di base la quale èaltamente tixotropica. Essa cioè, messa in acqua, formain stato di riposo una sorta di densa fanghiglia gelatino-sa nella quale gli inclusi rimangono in sospensione in-vece che depositarsi sul fondo della vasca, come avvie-ne di norma.106 Ciò spiega il lungo e faticoso lavoro di

pulitura a mano dell’impasto, nonostante il quale perònon si riusciva ad eliminare completamente i grossi in-clusi di cui l’argilla era naturalmente ricca.107

I vasi venivano modellati al tornio veloce tirandoli sul’uno dopo l’altro da un unico blocco d’argilla.108 Essivenivano torniti capovolti, cioè con l’orlo in basso e ilfondo in alto, il che consentiva di ottenere delle paretidi spessore uniforme e una base senza angoli, qualitàefficaci dal punto di vista funzionale. Oltre che uniformile pareti erano sottili, carattere anche questo importan-te non solo per la funzione109 ma anche per il peso edunque il trasporto dei vasi. Le pentole di Pabilloniserano infatti note anche per la loro leggerezza: una se-rie di quattro pentole di diverse misure non dovevasuperare i 2 kg di peso, e questo è il motivo per cui glispessori variavano pochissimo nelle diverse misure dipentole e tegami. Dagli esperimenti è risultato che per

242

380

380-381. Pentola, Pabillonis, inizio sec. XXterracotta invetriatainternamente, Ø 29,5 cm,Bitti, collezione privata.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:25 Pagina 242

ottenere spessori così sottili con un materiale comequello di Pabillonis, le pentole di misure più grandi(10-12 e 8 litri) dovevano essere tornite con un impastopiù asciutto possibile, aiutandosi con la stecca per evi-tare di raschiare troppo l’interno delle mani contro lasuperficie ruvida. Le misure inferiori potevano inveceanche essere modellate con argilla più morbida, ma inogni caso nel tornire si doveva evitare il più possibilel’uso dell’acqua in quanto l’impasto raggiungeva prestoil suo punto di saturazione. Per questo motivo, oltreche per tenere un ritmo regolare e rapido, le pentole sitornivano una appresso all’altra, misura per misura einoltre il torniante guadagnava ancora tempo modellan-do in una giornata solo pentole o solo casseruole. Il vaso, separato dalla massa con un filo di refe,110 veni-va sollevato dal tornio nella stessa posizione capovoltae si appoggiva su una tavola di legno dove cominciavaa rassodarsi. Poiché l’impasto asciugava rapidamente,poche ore dopo era già possibile battere leggermente ilfondo dei vasi con una larga spatola. Nella buona stagione, dopo circa dodici ore il vaso erapronto per la rifinitura, operazione che in genere veni-

va effettuata come prima, la mattina di buon’ora. Rivol-tato il vaso col fondo a terra, facendo pressione con unsasso di fiume, o un pestello di legno per le misurepiccole, se ne appiattiva accuratamente il fondo al finedi rinforzarlo, cancellando così quella sorta di “ombeli-co” formatosi al momento della chiusura. Il vaso torna-va quindi sul tornio dove si incuneava entro un cilindrodi argilla fresca isolandolo con delle strisce di tela dicotone onde evitare attaccature. A questo punto se nerifiniva l’orlo e si attaccavano le anse o i manici, pureformati al tornio. La completa asciugatura del vaso, chenella stagione umida poteva durare fino a una settima-na, veniva seguita con molta attenzione. Questa dovevainfatti essere lenta e omogenea, al riparo da correnti edunque il più possibile all’interno.111

I manufatti si infornavano due volte e, tra la prima(s’iscottadura) e la seconda cottura (sa cottura), si ri-paravano i vasi con dei piccoli guasti e si applicava lavetrina. A quest’ultima operazione seguiva la terza fasedi asciugatura.112 La seconda cottura aveva una duratadoppia e la quantità di legna necessaria era tre voltemaggiore.113 I nostri esperimenti mettevano in evidenza

381

243

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:25 Pagina 243

che per trasformare l’argilla di Pabillonis in un prodottosufficientemente ceramico e allo stesso tempo abbastan-za assorbente per essere poi invetriato, una temperaturadi circa 500 °C sarebbe già stata sufficiente. Probabil-mente però la temperatura raggiunta durante la biscotta-tura era superiore, tuttavia empiricamente i vasai sape-vano quando dovevano sospendere il fuoco per nonsprecare legna, tempo e fatica. La perizia in questo sen-so risulta nella seconda cottura, quando si doveva tocca-re ma non superare una temperatura di circa 850 °C perportare la vetrina a fusione senza che si liquefacesse.L’ultima fase della lavorazione era la limatura delle at-taccature causate dalle colature di vetrina.Tornando alla resistenza al fuoco dei manufatti, tutti gliartigiani erano d’accordo nell’affermare che l’operazionelunga, faticosa e dannosa alla salute che caratterizzava lapreparazione della terra de pistai era assolutamente ne-cessaria per ottenere le pentole e i tegami per i quali ilpaese era famoso. Condizione, pienamente confermatadai nostri esperimenti, era un miscuglio di giuste pro-porzioni: 50 kg di argilla per 10 di degrassante. L’argillabase rivelava a crudo una resistenza a rotture e defor-mazioni ottima per un’argilla comune. Tale resistenzaimplica che essa, una volta cotta, potrà essere esposta aforti sbalzi di temperatura e inizialmente resisterà beneagli shock termici, ma, col ripetersi dei cicli di riscalda-mento e raffreddamento (stress termico), si aprirannopresto delle fratture profonde e lunghe che renderannoil manufatto inservibile. Per ottenere la resistenza allostress termico l’argilla di Pabillonis doveva dunque esse-re corretta, paradossalmente rendendola più debole conl’aggiunta del degrassante. La terra de pistai, col suocontenuto di sabbia fine e molta mica, aumentava la po-rosità dell’argilla, favorendo le minifratture, cioè dellepiccole filature che si interrompono al momento in cuitrovano un ostacolo e che quindi sono funzionali per la

resistenza agli stress termici in quanto evitano la propa-gazione delle rotture.114 L’aggiunta del degrassante eraun’operazione delicata: la frazione dei granuli dovevaessere fine e le proporzioni precise. Come ho già detto,dei granuli troppo grossi sarebbero stati di intralcio nellatornitura e pericolosi in cottura e inoltre una quantitàeccessiva di degrassante avrebbe ridotto la plasticità del-l’argilla di base – che risultava buona ma non eccellente– e indebolito il vaso.115 Gli artigiani affermavano chesenza l’aggiunta di oru e pratta la resistenza al fuoco deivasi sarebbe stata assai minore.116 La mica infatti, graziealla sua sfaldatura lamellare, era importante nella model-lazione perché favoriva la coesione dell’impasto e, inol-tre, per la sua refrattarietà, l’alto coefficiente di elasticitàe la proprietà di attutire gli urti, era ideale sia nella ma-nifattura che, successivamente, nell’uso dei recipienti.117

Un’ultima osservazione riguarda la vetrina. Questa, vi-sta la porosità del corpo ceramico, era necessaria. Unalto grado di porosità del recipiente al momento dellasua esposizione al fuoco porta all’evaporazione dei li-quidi contenuti in esso attraverso i pori della parete im-pedendo al contenuto di giungere a bollore. La vetrinainterna, chiudendo i pori, promuove la conduzione ter-mica118 e inoltre nell’uso facilita la pulitura del vaso. Riassumendo, la proverbiale resa sul fuoco delle pento-le e dei tegami di Pabillonis non era dovuta alle partico-lari doti compositive delle materie prime. Al contrario,argilla di base e degrassante mostrano caratteristichecompositive molto comuni, analoghe a quelle degli altridue centri di produzione del Campidano, Oristano e As-semini. La preparazione e la miscelatura delle terre, laforma fluida e senza angoli, gli spessori sottili dei vasi eil rivestimento vetroso, in altre parole la tecnica di mani-fattura e la destrezza degli artigiani, sono le qualità allequali sa bidda de is pingiadas doveva la sua fama in tut-ta la Sardegna.

244

382

382. Padella, Pabillonis,prima metà sec. XXterracotta invetriatainternamente, Ø 29 cm,Pabillonis, collezioneprivata.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:25 Pagina 244

I manufattiLa produzione di Pabillonis non era articolata, comequella di Oristano, in diverse categorie di vasi per diversiscopi e occasioni. In effetti si producevano quasi sola-mente pentole (pingiadas) e casseruole (tianus) ed era-no questi gli unici manufatti oggetto di scambio e dicommercio. Ciò si accorda con la funzione base del pro-dotto e la sua qualità che nell’Isola non aveva rivali, fat-tori che erano alle origini di una domanda forte e co-stante proveniente da una vasta area. La pressione delmercato era tale che non si aveva tempo di dedicarsi allamanifattura di gioghittus, come venivano chiamati dagliartigiani i manufatti diversi da quelli ordinari, non pro-dotti in serie. Pentole e casseruole venivano invece fattee vendute in serie. La serie, sa cabiddada,119 era costitui-ta da quattro o cinque pezzi di diverse capacità e deno-minazioni. La produzione era razionalizzata e dunque lecapacità dei vasi costituenti la serie erano fisse, anche sepotevano variare a seconda della mano. Le misure conmaggiori variazioni si riscontrano nelle pentole di mag-giore capienza: sa manna o sa prima, dai 10 ai 12 litri, esa secunda o coia dusu, dai 6 agli 8 litri. Seguivanoquella da 3 litri (sa terza o coia tresi), quella da 1 litro,sa quarta o coia quattru. A richiesta si faceva anche

245

quella da 1/4 di litro, sa quinta o coia cinqui.120 La ra-zionalizzazione e la standardizzazione risultano anchedal peso complessivo dei vasi che non doveva superarei 2 kg e dal fatto che le pentole stavano perfettamentel’una dentro l’altra, mentre le casseruole, avendo lunghimanici, venivano accatastate a due a due: la terza dentrola prima e la quarta dentro la seconda. Questo sistema diaccatastamento era efficace nel carico del forno, nel tra-sporto e nelle cucine. Su ordinazione si facevano pento-le e tegami di misure eccezionalmente grandi: sa pingia-da a quattru maigas e su tianu a quattru maigas chepotevano contenere fino a 18 litri. Anche su tianu ciattuo a fundu ladu, tegame con fondo particolarmente lar-go, che si usava in genere per friggere sas zippuas, ave-va un prezzo elevato perché la sua modellazione com-portava più tempo, maggior abilità e maggior rischio.I coperchi erano considerati una rifinitura che si aggiun-geva a richiesta. La doppia invetriatura interna e esternae qualche decorazione incisa si riservavano ai corredi dasposa: queste pentole non venivano usate, ma solo mes-se in mostra nelle cucine sopra sa taba de is pingiadas. Una forma di pentola più panciuta ma di capacità infe-riore, più stretta alla bocca e con l’orlo rivoltato, le an-se più larghe e più curvate aveva il nome di “Sicilia” o

383

383. Padella, Pabillonis, anni Quaranta-Cinquanta sec. XXterracotta invetriata internamente, Ø 31,5 cm, Oristano, collezione privata.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:25 Pagina 245

“Siciliana”. L’uso di questa si attesta dopo la metà deglianni Trenta a imitazione di pentole di importazione.121

Questa forma divenne di moda e conobbe molta fortu-na specie in certi villaggi come Gonnosfanadiga, nono-stante fosse più cara delle pabillonesas: la serie corren-te era di tre pezzi (cominciava con una capacità di 6litri) con una quarta a richiesta e aveva inoltre lo svan-taggio di non potersi accatastare, ma solo appaiare(duas in duas) come le casseruole, così che prendevapiù spazio nel forno e nel trasporto. Manufatti non di serie e destinati piuttosto ad uso loca-le erano le giare (bronias), che si usavano per la con-servazione delle olive in salamoia o dello strutto; inmomenti di necessità si producevano anche fiasche daacqua (arillas).122

Seppur molto ridotta, esisteva anche una produzione“speciale” a cui sporadicamente e nei pochi momentiliberi si dedicavano in genere i proprietari di bottega:pentoline in miniatura per bambini, servizi da caffè,boccaletti per scaldare il vino, bottiglie in forma di pre-ti, bicchierini per liquore, zuppiere, vasi da fiori, salva-danai. Questi erano pezzi singoli, destinati a un merca-to locale, ma più spesso offerti in dono.

Aspetti sociali ed economiciForme organizzative della produzione: 1920-1970 123

Fino alla metà circa degli anni Venti del Novecento aPabillonis, che allora contava circa 1800 anime, eranoattivi 13 laboratori a conduzione familiare divisi in due

246

categorie: quelli con un solo tornio e quelli con due tor-ni.124 Nei primi il capobottega, su mestu, lavorava da so-lo aiutato dalla famiglia e talvolta da un apprendista ad-detto prevalentemente alla preparazione delle terre; neisecondi a questi aiuti si aggiungeva quello di un aiu-tante, in genere un familiare, che conosceva l’arte, mail cui compito principale era piuttosto la tornitura deivasi. Conoscere l’arte significava avere competenza del-le terre e della loro preparazione e ammaestrare il tor-nio e il fuoco. Particolarmente l’uso del tornio veloce,che in genere è segno di specializzazione del vasaio,esigeva a Pabillonis, come si è visto, una notevole de-strezza e infatti i tornianti godevano nel gruppo di uncerto prestigio di cui andavano fieri.125 Le altre opera-zioni, come la lunga e faticosa preparazione delle terree degli ingredienti per la vetrina, la sorveglianza del-l’asciugatura e varie altre mansioni erano invece lavorinon specialistici che venivano svolti in gran parte dadonne, fossero esse familiari o aiutanti. In termini gene-rali questa forma organizzativa della produzione puòdefinirsi come un’attività rurale prevalentemente ma-schile, svolta a tempo pieno in officine che costituisco-no un complesso industriale più o meno agglomerato ela cui produzione è destinata a un mercato.126 Le duecategorie di laboratori riflettono le diverse condizionieconomiche dei proprietari. Per i vasai che lavoravanoda soli l’arte costituiva in pratica l’unica fonte di guada-gno e nella stagione umida, quando l’attività scemava,si era spesso costretti ad integrare gli introiti andando a

Laboratori in Pabillonis anni 1920 25 1930 35 1940 45 1950 55 1960 65 1970 73

1

2

mestu pingiadaiu - meri

mestu pingiadaiu - meri

num

ero

torn

iat

tivi

due t

orni

o p

3

4

5

6

7

mestu pingiadaiuimprenditore A

mestu pingiadaiuimprenditore B

mestu pingiadaiuimprenditore C

mestu pingiadaiuimprenditore D

imprenditore F

due t

orni

89

10111213141516

mestu pingiadaiumestu pingiadaiumestu pingiadaiumestu pingiadaiumestu pingiadaiumestu pingiadaiumestu pingiadaiumestu pingiadaiumestu pingiadaiu

un t

orni

o

Numero totale dei torni in Pabillonis 18 17 16 15 14 17 18 19 17 13 9 6 5 4 2 1

Produzione annua approssimata: x 1000 pezzi (± 8%) 267,5 270 230 320 150 87,5 16,5

TAVOLA IV. Pabillonis, numero torni attivi e produzione annua negli anni 1920-1970.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:25 Pagina 246

lavorare a giornata. I proprietari dei laboratori più gran-di invece possedevano anche un po’ di terra e di be-stiame così che la loro dipendenza dall’arte non eracompleta, anche se non avrebbero potuto fare a menodi essa. Ogni officina era in genere organizzata su basifamiliari e costituiva un’unità autonoma nel senso chenon c’erano forme fisse di collaborazione o obblighi vi-cendevoli nell’esercizio dell’attività tra gli artigiani. Que-sta autonomia delle botteghe è rispecchiata dalla loroubicazione sparsa, cioè senza stretta agglomerazione, eciascuna con un proprio forno. Per l’acquisizione dellematerie prime e la loro raccolta, per ottenere il combu-stibile e per la distribuzione dei prodotti i vasai dipen-devano invece dai proprietari di terreni e da altri serviziausiliari presenti nel paese. Le ceramiche da fuoco daessi prodotte erano destinate a una popolazione isola-na, in essenza agropastorale, che viveva concentrata invillaggi distribuiti sul vasto territorio dell’Isola.127

Nel periodo 1925-35 cinque piccoli laboratori smettonol’attività, mentre nello stesso decennio due dei vasaiproprietari di laboratori con due torni si espandono ag-giungendo un terzo tornio e aumentando la capacitàdei forni di una volta e mezzo. Essi, investendo in ter-reni e bestiame, si erano resi indipendenti per l’argilla einoltre non dovevano più fare uso dei servizi ausiliariperché, possedendo carri e potendo prendere personea servizio, provvedevano da sé alla raccolta e al tra-

247

sporto di terre e combustibile. Per aumentare la produ-zione anche nella stagione umida (da novembre adaprile) i forni, che tradizionalmente erano scoperti, fu-rono dotati di una cupola.Le premesse per questi cambiamenti sono da ricercarsinella crescente integrazione della Sardegna con il restodell’Italia che caratterizzò gli anni successivi alla primaguerra mondiale quando ci fu non solo un progressivoaumento della popolazione, ma anche un miglioramentodelle condizioni di vita e dunque anche un certo cam-biamento di mentalità. Ciò portò inizialmente a una cre-scita della domanda.128 In genere si può dire che tutti ipaesi della Sardegna occidentale crebbero divenendomercati interessanti per grossisti e negozianti. Poiché sirichiedevano quantità maggiori di prodotti durante tuttol’anno, per poter soddisfare il nuovo tipo di domanda,era necessaria una maggiore efficienza nella manifattura.Così, coloro che erano in grado di investire in mezzi diproduzione, strumenti di lavoro e forza lavoro poteronorafforzare sensibilmente la loro posizione, mentre quellieconomicamente più deboli che non erano in grado diconcorrere sui prezzi dovettero chiudere bottega impie-gandosi nei laboratori grandi o cercando lavoro nell’agri-coltura o in miniera, due settori all’epoca in espansione.Nella seconda parte degli anni Trenta ci fu un calo nelladomanda nonostante che la popolazione continuasse acrescere. Questo fatto sembra sia da attribuire al pro-gresso dell’integrazione culturale con la Penisola cheportò alla diffusione di moderni strumenti di cottura percui materiali quali il ferrosmalto, l’alluminio e le pentole

384

384. Manufatti della produzione del laboratorio Piras, Pabillonis, 1979 (foto Herman Geertman, archivio M.B. Annis).

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:25 Pagina 247

di argille refrattarie erano più adatti. C’è da notare chein questo periodo il più forte aumento di popolazioneebbe luogo nelle città, Cagliari, Sassari e Nuoro, doveappunto le novità venivano introdotte, e che si assistet-te inoltre a fenomeni migratori dalle zone periferiche aicentri più importanti.Venne quindi la seconda guerra mondiale, che per l’Iso-la significò un severo isolamento. Se a ciò si aggiungeche si ebbe una migrazione inversa della popolazionedalle città alle campagne per paura dei bombardamen-ti, non fa meraviglia che a Pabillonis, come del resto intutti i centri produttori di terracotta, si registrasse unforte aumento della domanda. Fu allora che in uno deidue laboratori più grandi si aggiunse un quarto tornio ein tutti e due i grandi laboratori fu costruito un secondoforno più piccolo e al coperto, in modo da poterlo usa-re più spesso stando al riparo dalla pioggia, mentre lospazio antistante si utilizzava per asciugare i vasi.129 An-che la superficie delle due grandi officine si era estesa

e comprendeva ora numerosi ambienti intorno a unacorte, la funzione dei quali rifletteva il nuovo status delproprietario: vasaio e contadino. L’appellativo dei pro-prietari non era più mestu, ma meri, padrone.Nel frattempo, negli anni 1939-40, due piccoli commer-cianti del paese rilevarono due dei laboratori con duetorni. Questa iniziativa fu seguita nel periodo bellico daquattro altri imprenditori, spronati dalla grande domandadi stoviglie, ma che nulla avevano a che fare con l’arte.In queste botteghe tutti i mezzi di produzione venivanoforniti dagli impresari e inoltre erano stabilite le ore dilavoro, le quantità di produzione e la divisione dei com-piti. I vasai impiegati dovevano soltanto produrre il piùpossibile: si ha dunque una forma di organizzazione ca-pitalistica che potrebbe definirsi “manifattura”.130 È indi-cativo che il tornio azionato da un motorino elettricos’introduce per la prima volta in una di queste officine.Nel periodo post-bellico tale forma organizzativa, cheera sorta a causa di una situazione accidentale e nonper motivi strutturali, sparisce contemporaneamente alcrollo della domanda appena torna la normalità. NellaSardegna degli anni Cinquanta, quando cominciano aprendere forma le profonde trasformazioni sociali edeconomiche interrotte dalla guerra, rimangono ancoraattivi quattro laboratori, due grandi e due con un solotornio. Questi chiudono l’uno dopo l’altro tra l’inizio de-gli anni Cinquanta e i primi anni Settanta, non perchémancassero le richieste, al contrario, gli artigiani, rimastiormai in quattro, non riuscivano a soddisfare il mercato,ma per mancanza di successori e di aiuti. I giovani pre-ferivano optare per le possibilità di lavoro offerte dallasocietà che si rinnovava o per l’emigrazione. La formaorganizzativa più “resistente” risulta quella del laborato-rio individuale, la singola officina in cui il vasaio prov-vede da solo a tutto, un modo di produzione che, es-sendo meno complesso, è più flessibile.131

La distribuzioneLe principali fonti per ricostruire i modi di distribuzionedelle stoviglie furono senza dubbio le informazioni for-nite dagli artigiani e dai distributori. Esse non furono pe-rò le uniche fonti informative. Nel laboratorio Piras furinvenuta infatti una parte dell’amministrazione tenutada Giuseppe Piras, fabbricante di stoviglie in terracotta,gentilmente messa a nostra disposizione da sua figliaAusilia.132 Si tratta di fatture rilasciate agli intermediari trail 1930 e il 1947 e dell’amministrazione del personale edelle loro retribuzioni tra il 1940 e il 1943. Le fatture so-no quasi 300, messe in ordine numerico in tre libri, eper la maggior parte rilasciate a venditori ambulanti,grossisti e negozianti. Questa amministrazione è assai la-cunosa133 e non può quindi dare un’idea precisa dellaproduzione giornaliera del laboratorio e delle relativevendite, tuttavia dall’attento studio di essa si sono potutidedurre alcuni dati indicativi sulla distribuzione e l’orga-nizzazione interna del laboratorio a cui si farà cenno nelcorso di questa parte del contributo.

248

385

385. Fiasca, Pabillonis, ante 1908terracotta invetriata, h 15,3 cm, Roma, Museo delle Arti e Tradizioni Popolari.

386. Fiasca, Pabillonis, anni Quaranta-Cinquanta sec. XXterracotta parzialmente invetriata, h 21,3 cm, Pabillonis, collezione privata.Si tratta di una sorta di borraccia che i lavoratori portavano incampagna, soprattutto nel periodo della mietitura; veniva avvoltacon uno straccio bagnato e messa al riparo dal sole all’ombra dicespugli o covoni per conservare l’acqua fresca.

387. Fiasca, Pabillonis, prima metà sec. XXterracotta parzialmente invetriata, h 19,2 cm, Busachi, Su collegiu, collezione Civica di Etnografia.

388. Fiasca, Pabillonis, anni Quaranta sec. XXterracotta graffita e invetriata, h 15 cm, Nuoro, collezione privata.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:25 Pagina 248

Unità di venditaL’unità di vendita di pentole e casseruole era sa cabid-dada. Questo termine indica due diverse unità a secon-da degli ambienti in cui viene usato e a seconda deglianni ai quali ci si riferisce.Originariamente si trattava di una serie di 5 pezzi di di-verse capacità:

Pingiadas (pentole)

10-12 litri sa prima – sa manna6-8 litri sa secunda – coia dusu

3 litri sa terza – coia tresi1 litro sa quarta – coia quattru

1/4 di litro sa quinta – coia cinqui

Tianus (casseruole)

8 litri su primu6 litri su secundu2 litri su terzu

3/4 di litro su quartu1/4 di litro su quintu

A un certo punto – quasi certamente si trattò di unamisura amministrativa – fu stabilito che i distributoridel paese avessero un trattamento di favore: l’unità divendita divenne per loro una doppia serie, cioè diecipezzi, ma il nome rimase sempre cabiddada. Fu pro-babilmente a questo punto che i produttori ridusserola serie da cinque a quattro pezzi rendendo la quintanon compresa nel prezzo. Per ambulanti e grossisti pa-billonesi sa cabiddada era dunque una doppia serie diotto pezzi e poteva constare di tutte pentole, tutte cas-seruole oppure di quattro pentole e quattro casseruole.Ciò era diverso per i distributori forestieri per i qualisa cabiddada era una serie di quattro pezzi che essipagavano due terzi del prezzo pagato dai distributoripabillonesi per una serie doppia. Così era anche pergli acquirenti privati. Per i tornianti sa cabiddada era pure di otto pezzi edessi venivano rimunerati in base a questa unità. In senoa questo gruppo sorse infatti un secondo termine, sacroba, per indicare una serie di quattro pezzi.Nel periodo bellico, quando sempre più si vendeva acommercianti forestieri, sa cabiddada da otto divennesempre meno usuale e nel dopoguerra cabiddada indi-cava di norma una serie di quattro pezzi.

OrganizzazionePentole e casseruole venivano vendute sia in modo di-retto che attraverso intermediari. La vendita diretta nonera limitata agli abitanti del paese o dei paesi limitrofi.Pastori transumanti e abitanti delle zone montane del-l’interno, che usavano scendere in Campidano coi carriper offrire i loro prodotti e comprare cereali, eranoclienti che acquistavano direttamente dai vasai. Alcuni diessi compravano spesso una certa quantità di vasi con loscopo di rivenderli al paese. I produttori distinguevano

386

387

388

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:25 Pagina 249

250

389 390

389-391. Fiasca, Pabillonis, anni Cinquanta sec. XXterracotta parzialmente invetriata, h 14 cm, Cagliari, collezione privata.Frascus e ariglias non venivano realizzati in grande quantità e inmaniera abituale ma solamente dietro specifica richiesta per unesclusivo mercato interno al paese.

due categorie di intermediari: gli abitanti di Pabillonis e iforestieri, questi ultimi erano per lo più negozianti cheavevano delle rivendite nel loro paese d’origine. Comeho appena detto al paragrafo precedente, i due gruppiavevano un diverso trattamento per quanto riguardava iprezzi e gli abitanti di Pabillonis venivano sensibilmentefavoriti.134 Un altro vantaggio che i distributori pabillone-si avevano sugli altri era il modo di pagamento. Essi po-tevano pagare “a merce venduta”, seppure con una cer-ta scadenza, trattamento che, come risulta dalle fatturedel Piras, era riservato anche agli importanti grossisti pa-billonesi Francesco Fanari e Battista Montis.135 I com-mercianti forestieri dovevano invece saldare il conto “al-l’arrivo della merce”.Gli intermediari di Pabillonis non erano tutti dello stes-so calibro. Le quantità più modeste di vasi venivano di-stribuite da un certo numero di donne che viaggiavanoa piedi. Nel periodo considerato il loro numero variavada 20 a 30. Esse, generalmente in coppia, compravanoall’ingrosso per approfittare del prezzo più vantaggioso,depositavano la merce nelle loro case e la distribuivanoa poco a poco in un raggio di 12-15 km che eccezional-mente poteva toccare i 20 km. Uscendo in genere agiorni alterni esse si muovevano in piccoli gruppi eportavano in una cesta o dentro un sacco una cabid-dada e mesu, cioè due serie di quattro pentole e una di

casseruole.136 Questo tipo di distribuzione diminuiva,ma non si fermava, nei mesi invernali, mentre era parti-colarmente intenso da maggio a luglio, in concomitanzacon la vendita del raccolto e la stagione dei matrimoni,e in autunno, specie quando si avvicinava l’uccisionedel maiale. Le differenze nelle quantità distribuite si de-vono a diversi fattori. Le due regioni meglio servite sonole colline dell’Iglesiente e quelle della Marmilla: la pri-ma, zona mineraria caratterizzata da centri abitativi nonnumerosi ma relativamente grossi; la seconda squisita-mente agricola e punteggiata di numerosi piccoli villag-gi. Le quantità diminuiscono, oltre che con la distanzadal centro produttore, anche in relazione all’altezza deidiversi paesi sul livello del mare. I villaggi nelle imme-diate vicinanze del paese risultano relativamente pocoserviti in quanto si fornivano direttamente a Pabillonis.Le stoviglie venivano, oltre che vendute, spesso baratta-te con cereali e legumi, farina, lardo, formaggio, polla-me e olio d’oliva, quest’ultimo molto ambito.La seconda categoria di intermediari era costituita divenditori ambulanti: 25-30 uomini che per il trasporto siservivano di carri a cavallo, quasi sempre presi in affittodai contadini. Un carro con le sponde rialzate e al di so-pra di esse sa cerda137 conteneva tra 100 e 120 cabidda-das di quattro pezzi, il che corrisponde più o meno alcontenuto di un forno di media grandezza. Più frequen-te sembra fosse però un carico di 50-60 serie di quattropezzi. La proporzione era in genere 3 pentole per 1 te-game. Gli ambulanti potevano affittare il carro per unsolo giorno tornando al paese la sera e limitandosi avendere in villaggi relativamente vicini. Tragitti abituali

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:49 Pagina 250

251

sta del periodo bellico, quando alcuni negozianti fore-stieri cominciarono a venire al paese per acquistaremolta merce e rivenderla al loro paese. Per il trasportodei vasi grossisti e negozianti usavano in genere i pro-pri carri, ma talvolta li prendevano in affitto. Durantela guerra, e specie negli anni successivi, i carri vennerosostituiti da autocarri o dal treno. Questi mezzi di tra-sporto però erano considerati troppo cari ed erano allaportata di pochi.

DensitàConfrontando quanto ho potuto ricostruire del sistemadella distribuzione negli anni Trenta e Quaranta del No-vecento con la densità media abitativa delle varie regio-ni nel 1936, si vede che, per quanto riguarda il raggio ela densità della distribuzione, il fattore positivo delladomanda e il bisogno dei distributori giocavano un ruo-lo molto più determinante che il fattore negativo delladistanza e del precario stato viario dell’Isola.139 Le zonemeglio servite risultano quelle più densamente popola-te. Delle tre capitali di provincia Sassari era diventata ilpiù importante centro di ridistribuzione nel Nord, men-tre Cagliari e Nuoro praticamente non venivano servite.Perché Nuoro non costituisse un mercato non è chiaro.Per quanto riguarda la capitale, sappiamo che Cagliariera un centro di ridistribuzione verso la metà dell’Otto-cento,140 mentre nel periodo qui preso in esame le coseerano evidentemente mutate. Una delle ragioni delcambiamento potrebbe essere l’introduzione nella capi-tale isolana prima che in altri luoghi di cucine modernee dunque l’importazione di tegami fatti di materiali piùadatti alle nuove tecniche.

Considerazioni conclusiveAlcuni aspetti della produzione ceramica di Pabilloniscolpiscono particolarmente e il loro esame contribuiscea spiegare le ragioni del declino e infine del tramontodi questa lunga tradizione. Innanzi tutto la forte pres-sione alla quale gli artigiani erano sottoposti nello svol-gimento del loro lavoro, la fatica e i rischi per la saluteche questo comportava. Evidentemente, per soddisfarela quantità della domanda il numero dei vasai sarebbedovuto essere maggiore, ma il fatto che un vaso di ter-ra, in quanto soggetto a rompersi, non era consideratooggetto di pregio e quindi veniva pagato poco impedivala crescita del gruppo: il guadagno era appena sufficien-te per pochi e anzi nella bassa stagione si doveva spes-so integrare il magro bilancio con altri lavori. Lo statussociale dei figoli era basso: essi erano considerati nelpaese gente che “aveva soldi” e li spendeva permetten-dosi nella vita quotidiana più di quanto un contadino,sempre a corto di liquidi, poteva permettersi, ma ciònon contribuiva alla loro posizione sociale. Perciò essiconsideravano il loro mestiere quasi transitorio e la loroaspirazione era di acquistare terre e bestiame e diveniremessaiu. Per diminuire la fatica e i rischi del lavoro al-cuni accorgimenti tecnici sarebbero stati sufficienti,141

391

erano, per esempio, Sanluri, Furtei, Segariu, Guasila,Selegas, oppure Ortacesus, Senorbì, San Basilio, Goni.Quando invece le destinazioni erano distanti, si viag-giava col carro fino al paese più lontano scaricando lun-go il viaggio, a mano a mano, le pentole in case amiche– che ricevevano un compenso in natura o in merce –dove spesso si trovava anche ospitalità per la notte.Giunti a destinazione, il carro tornava a Pabillonis e perchi restava cominciava il ritorno a piedi ripercorrendo iltragitto paese per paese, portando a spalla nella bisacciatre serie di 4 pentole e due di tegami, e smerciando ivasi anche nei dintorni dei diversi centri. Ciò fino adesaurimento della merce, il che poteva durare anche unintero mese. Questo modo di distribuzione era dunquea piedi, includeva anch’esso il baratto e si differenziavada quello femminile solo per il fatto che era a tempopieno, mentre le donne lo esercitavano accanto agli im-pegni familiari e domestici. Acquistando dal vasaio ca-biddadas di 8 pezzi che rivendevano in serie di 4 pezzi,o anche a pezzo singolo, i venditori pabillonesi faceva-no un profitto lordo almeno del 100%.138

La terza categoria di intermediari erano i grossisti, unnumero esiguo di abitanti di Pabillonis, che sembra sia-no comparsi sul mercato intorno al 1925. Questi eranoeconomicamente e socialmente superiori agli altri in-termediari e avevano stabilito dei depositi di vasellamein paesi della Sardegna centrale e settentrionale – i piùimportanti erano Macomer, Anela e Sassari – dai qualiridistribuivano la merce. Si può affermare che fino aglianni della guerra l’intera distribuzione era in mano aipabillonesi. Le cose cambiarono con la grande richie-

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:25 Pagina 251

ma il cambiamento avrebbe comportato un investimen-to di tempo, danaro e rischio che gli artigiani non si po-tevano permettere. Sullo sfondo il contesto sociale: unapiccola comunità agricola che nella coltivazione dellaterra impiegava ancora metodi arcaici ricavandone scar-si proventi. Condizioni tutte queste che non favorisconoun’attitudine innovativa. L’innovazione tecnica inveceavrebbe permesso ai vasai di liberarsi degli aspetti piùingrati del lavoro adeguandosi anche dal punto di vistadei tempi alle esigenze della nuova società industriale.In questo modo avrebbero potuto continuare la produ-zione tradizionale, per la quale c’era ancora sufficientedomanda, e inoltre far fronte alle nuove richieste di unasocietà che cambiava. Non solo, ma rendendo l’arte piùconsona alle condizioni di vita dei tempi nuovi non sisarebbero privati dei successori, che in essa avrebberotrovato gratificazione economica e sociale, e della ma-nodopera esterna, che invece non si poteva più impie-gare a causa delle nuove leggi sociali e della scuolad’obbligo. Un tale adeguamento non poteva natural-mente aver luogo senza i consigli di tecnici esperti142 el’aiuto materiale delle istituzioni amministrative e finan-ziarie che invece furono assenti.

EpilogoSu becciu no intendiat ca moriat cantu ca imparau no aiat

(Efisio Pani, anziano vasaio oristanese)

All’inizio dello scorso secolo i centri di produzione dellaterracotta in Sardegna erano approssimativamente unadecina. I tre più importanti erano situati nel Campidanoe la loro produzione constava di vasi per diversi usi do-mestici, tegole e mattoni destinati alla popolazione es-senzialmente agro-pastorale dell’Isola. La porcellana e laceramica da tavola, così come i grandi orci per la con-servazione delle derrate e parte dei materiali da costru-zione venivano importati, nonostante la presenza in Sar-degna di argille di ottima qualità e i diversi tentativi diintrodurre la manifattura della ceramica fine da mensa edi quella artistica.143 Nei tre centri le forme organizzativedella produzione variarono nel tempo relativamente aicontesti ambientali e socio-economici. Oggi la produ-zione secondo i canoni “tradizionali” della ceramica det-ta popolare può considerarsi scomparsa, mentre sononumerosi i laboratori, in prevalenza individuali, che sidedicano alla manifattura di diversi tipi di ceramica “ar-tistica” o comunque “colta”.144

Abbiamo visto, seppur schematicamente, alcune dellepossibili cause all’origine di questo profondo mutamentoche, cominciato negli anni immediatamente successivialla prima guerra mondiale, assunse una velocità dram-matica a partire dagli anni Cinquanta del Novecento. A conclusione della mia esposizione vorrei dedicarequalche riflessione al significato di “tradizione ceramica”,termine frequentemente usato in riferimento a modi ri-petitivi di produrre, trasmessi di generazione in genera-zione, che si costituiscono in regole. L’approccio a lun-

252

go termine, sia del mio lavoro etnografico che dei mieistudi archeologici,145 mi ha portato a riflettere sul signifi-cato del termine e sul concetto di tradizione, sia da unpunto di vista generale che da quello specifico dellaproduzione ceramica. Cominciando con la definizionedel termine, l’Oxford Latin Dictionary146 dà per il verbolatino tradere e il sostantivo traditio due significati: unopiù attivo, “dare”, “consegnare” cose materiali e immate-riali come beni, possedimenti, conoscenza, e uno piùpassivo come “tramandare”, “trasmettere”, generalmenteriferito a cose immateriali come qualità, convinzioni eanche retaggi spirituali. Questo consegnare, trasmettere,affidare viene spesso visto come continuità di comporta-mento quasi in opposizione all’innovazione. Ma le tradi-zioni come noi le percepiamo oggi non sono “tutto” ilpassato, sono solo frammenti di esso. Le scelte che iprotagonisti fanno continuamente, siano esse consce oinconsce, vengono fatte in situazioni particolari, tra variepossibilità a disposizione, pensando non solo al presen-te, ma anche al domani. Gli artigiani che lavorano nelpresente in una località specifica, con un’arte ereditatadal passato e pensando al futuro, fanno delle selezioniche sono in relazione al loro tempo e luogo e che quin-di come tali hanno significato storico. L’antropologo Pie-tro Clemente giustamente afferma che in questo proces-so di selezione anche i “pezzi scartati”, vale a dire ciòche è stato abbandonato, sono ugualmente importantie, specie nel caso di contatti tra differenti culture, comeconquiste e colonizzazioni, sono rilevanti anche quei fe-nomeni che Clemente definisce in senso metaforico“pezze”, “rimasugli”, “giunture”147 in quanto essi indica-no co-presenza e generano nuovi valori e nuove prati-che.148 Parlare quindi di tradizione è parlare di processidinamici, ma questi vengono spesso trascurati per met-tere in rilievo una supposta “stabilità”. Facendo riferi-mento alle mie esperienze in Sardegna, più volte hosottolineato che nella ricerca di continuità o di cambia-menti nell’ambito di una tradizione ceramica, anche diquella popolare, non si deve guardare soltanto alle si-tuazioni ambientali e materiali, ma anche a fattori di na-tura economica, sociale, politica e addirittura ideologica.In merito ho avuto più volte occasione di segnalare cheho riscontrato delle forti analogie tra la produzione dellaterracotta sarda e quella spagnola contemporanea, nonsolo in termini di forme, tecnologia e strumenti di lavo-ro, ma anche nella razionalizzazione della produzione enel sistema della distribuzione in unità di vendita. Ciònon pare si debba a una sorta di koiné mediterranea,ma a determinate cause storiche legate alle preferenze oanche alle imposizioni dei ceti dominanti. In merito so-no interessanti le osservazioni stilistiche e le ricerchesulle fonti scritte di Marco Marini e Maria Laura Ferru re-lative alle ceramiche, datanti dalla metà del XIV all’iniziodel XVIII secolo, rinvenute nel convento di Santa Chiaraa Oristano.149 Durante il governo giudicale la ceramicaoristanese mostra delle strette relazioni, nelle forme eancor più nella decorazione – i cui contenuti hanno un

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:25 Pagina 252

Tornando ai tre centri del Campidano esaminati, pensoche per essi si possa parlare di un’unica tradizione, perlo più trasmessa da padre in figlio. Per quanto riguardale proprietà delle materie prime e la loro preparazione,la manifattura dei vasi, il repertorio formale e funzionaledei manufatti e il loro modo di distribuzione, la terracot-ta campidanese differisce poco nei tre centri. Tuttaviaalcuni dettagli, sui quali di volta in volta mi sono soffer-mata nella mia esposizione, variano e sono indicativi diparticolari strategie, quelle che Gloria London e RüdigerVossen153 definiscono “dialetti” di una lingua comuneche ci permettono di distinguere una certa tradizione daun’altra e che trovano anche dei parallelismi nella ter-minologia tecnica. Come ho fatto rilevare, le argille al-luvionali del Campidano sono assai omogenee per laloro composizione mineralogica e, per quanto riguardale loro proprietà artigianali, esse non si differenzianonell’essenza. La più grande diversità sta nel loro gradodi plasticità: a Oristano e Pabillonis le argille sono piut-tosto “corte” e tixotropiche, ad Assemini sono invece“lunghe” e, per la loro capacità di assorbire acqua, piùadatte per la lavorazione al tornio veloce. Chiaramente

253

394392

392-394. Laboratorio Piras di Pabillonis, 1979 (foto Herman Geertman, archivio M.B. Annis).Pianta dell’azienda con funzioni degli ambienti (rilievo F. Annis);cortile (ambiente n. 25 della pianta) e laboratorio principale con tre torni (n. 12). Le immagini attestano la situazione del 1979.

chiaro significato simbolico-religioso –, con la tradizionebizantina. I giudici arborensi si sentono diretti e legittimieredi di Bizanzio e guardano, anche esplicitamente, aquelle origini, pur essendo aperti a contatti con diverseregioni dell’Italia tardo medievale.150 Dopo il definitivoimporsi della dominazione spagnola nell’Isola e l’assor-bimento del marchesato di Oristano nella Corona diAragona e Castiglia, nell’ultimo quarto del XV secolo, siassiste all’introduzione di modelli spagnoli nella mani-fattura ceramica i quali nel XVI secolo soppiantaronoquasi del tutto gli antichi modelli greci e italici.151 Fu aquell’epoca che la terracotta oristanese divenne cerami-ca “rustica” in quanto i dominatori preferivano per le lo-ro tavole la maiolica ligure e montelupina decorata inturchino e quella lustrata ispanica,152 una cesura che siprotrasse per secoli anche a causa delle proprietà del-l’argilla oristanese che rifiuta gli smalti.

LEGENDA:

1 deposito dell’argilla

2 deposito per la paglia

3 rimessa del carro

4 magazzino per i vasi cotti;spazio per la preparazionedel formaggio

5 camera per due servi concaminetto

6 deposito del degrassante

7 mucchio di vasi scartati ecocci

8 portico per l’invetriatura

9 forno grande

10 ripostiglio (ex-camera dicombustione del forno perle tegole; rifugio di guerra

11 ripostiglio per la legnaasciutta (ex-camera di cot-tura forno per le tegole)

12 laboratorio principale con3 torni; ingresso dalla casad’abitazione

13 forno per il pane

14 vasca

15 pozzo

16 forno piccolo

17 deposito per la legna

18 ambiente per l’essiccatura

19 ambiente per essiccatura einvetriatura

20 attrezzi per la coltivazionedella vite e per la produzio-ne del vino

21 laboratorio con 1 tornio

22 porcile

23 stalla per il puledro

24 stalla per il cavallo

25 cortile dell’azienda, coningresso dalla strada co-munale

26 orto

393

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 10-11-2007 9:42 Pagina 253

395. Caffettiera con coperchio, Pabillonis, 1908 terracotta invetriata, h 17,2 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.

396. Caffettiera con coperchio, Pabillonis, 1908 terracotta graffita e invetriata, h 14,6 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.

254

ciò influenza tutta la sequenza operativa e, come è nor-ma nell’esercizio di ogni arte, la materia prima non solooffre delle possibilità, ma pone anche dei limiti che de-vono essere superati con metodi specifici per ottenere iprodotti desiderati. A parte tali metodi specifici, che so-no quelli che caratterizzano ogni tradizione,154 nella miaindagine ho potuto stabilire che ciascun vasaio aveva inun certo senso le proprie soluzioni tecniche dipendentidalle proprie caratteristiche fisiche e mentali, il caratte-re, la situazione lavorativa e socio-economica. Nei di-versi centri lo spazio per le innovazioni imposte dainuovi tempi variava. Ad Oristano un freno al rinnova-mento fu il ruolo conservatore della Società della SS.Trinità che sanzionava chi voleva rinnovarsi; a Pabillonisera la condizione lavorativa e sociale dei vasai che nonincoraggiava il rischio; ad Assemini invece la maggiorelibertà dei singoli e la loro relativa prosperità in un con-testo dinamico e innovatore favorivano la modernizza-zione. Illustrative in tal senso sono le parole di un gio-vane artigiano asseminese erede di una famiglia divasai: «Io amo il mio mestiere che mi dà benessere e ri-spetto. Sono libero dalla fatica della preparazione dellaterra perché ho le macchine; non sono legato alla broc-ca come era mio padre, ma posso decidere io gli articolida realizzare e da offrire ai clienti. La brocca è bella eancora richiesta, ma nel forno elettrico prende troppospazio e al suo posto possono starci tanti altri oggettiche si accatastano meglio e rendono di più. Anche l’uvada tavola è bella, ma rende poco, quella da vino inveceè meno bella ma rende meglio. È come con i vestiti:l’uomo moderno si veste come vuole, gli antichi eranolegati al costume». La conclusione è dunque che conti-nuità e mutamenti in una tradizione sono strettamentelegati ai contesti sociali e perché si verifichino delle es-senziali trasformazioni nei modi di produzione, oltre al-la necessità, deve essere presente anche la possibilità.

395

396

Ringraziamenti

Uno studio come quello condotto non può portarsi a buon fine senzal’aiuto di molti: a tutti va la mia più viva riconoscenza.Al mio collega e compagno di vita Herman Geertman devo la documen-tazione grafica e fotografica. Discussioni e incoraggiamento devo anchea Henk Franken, fondatore dell’Istituto di Tecnologia Ceramica dell’Uni-versità di Leiden, al collega Abraham van As e al ceramista Loe Jacobs. Desidero ricordare i figoli oristanesi: Domenico Carta, Carmine Incani,Giovanni Manca, Efisio e Piero Pani, Giovanni Sanna; e anche i cerami-sti Antonio Manis e Angelo Sciannella. A Pabillonis ricordo e ringrazio:Ausilia Piras, il marito Giuseppe Frau e la figlia Annarella; il vasaio Anto-nio Pinna e, inoltre, Francesco e Peppina Porcu, Dario Frau, PinuccioCaboni, Virginia Cara, Enrico Casula, Germina Cherchi, Giovanna Frau,Giorgio Galliero, Germano Grussu, Giuseppe (Pino) Mamusa, FernandoMarroccu, Franco e Graziella Massa, Giovanni Melis, Maria Annica Melis,Assunta Montis, Angelo Murgia, Vitalia Murgia, Elisa Onali, Luigia Pia,Anna Pilloni, Antonio Pisanu, Pinuccio (Ugo) Porcu, Nicolangelo Saba,Fiorenzo Serpi, Mena Serra, Luciano Sois, Giuseppe Steri, Giovanni Vin-ci, le socie della “Cooperativa Ceramisti”.Ad Assemini, con affetto ricordo la famiglia Deidda: Gaetano, sua moglieRosa Collu e i figli Giorgio, Giovanni e Teresa, Salvatore e Antonio Carbo-ni, Efisio Carboni, Giuseppe Locci e suo padre Anton Efis, Efisio Usai, ElvioUsai, Giordano Usai, Saverio Farci e suo figlio Francesco, Vincenzo Farci,Luigi Nioi.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:25 Pagina 254

255

Note

1. La ricerca si è svolta presso il Department ofPottery Technology Faculty of Archaeology,Leiden University (Paesi Bassi) dove hannoavuto luogo le indagini archeometriche e tec-nologiche sulle materie prime. I risultati dellostudio sono stati regolarmente pubblicati nellarivista Newsletter Department Pottery Technolo-gy Leiden e, occasionalmente, altrove.

2. Per una rassegna dei principali studi di et-no-archeologia ceramica vedi C. Kramer, “Ce-ramic ethnoarchaeology”, in Annual Review ofAnthropology, a cura di B.J. Siegel, vol. 15, Pa-lo Alto 1985, pp. 77-102. Vedi anche P.M. Rice,Pottery Analysis. A Sourcebook, Chicago 1987,pp. 274-306 e Ceramic Ethnoarchaeology, acura di W.A. Longacre, Tucson 1991.

3. Per una relazione sullo scavo, la storia, laproblematica e gli studi sui reperti ceramici ve-di H. Geertman, M.B. Annis, “San Sisto Vec-chio: indagini topografiche e archeologiche”, inRoma dall’antichità al medioevo II: contesti tar-doantichi e altomedievali, a cura di L. Paroli, L.Vendittelli, Milano 2004, pp. 517-541.

4. M. Brigaglia 1976; M. Brigaglia 1987.

5. Negli ultimi decenni l’importanza di un ap-proccio antropologico allo studio della ceramicaviene messo sempre più in evidenza: A. Appa-durai 1986; C.C. Kolb, “The current status of ce-ramic studies”, in Ceramic ecology: Current rese-arch on ceramic material, a cura di C.C. Kolb,BAR Int. Series 513, Oxford 1989, pp. 377-421;H.L. Loney, “Society and technological control:a critical review of models of technologicalchange in ceramic studies”, in American Anti-quity, n. 65, Washington 2000, pp. 646-668; B.Mater, M.B. Annis, “Some reflections on themeaning of pottery within landscape and settle-ment archaeology”, in New Developments inItalian Landscape Archaeology, BAR Int. Series1091, Oxford 2002, pp. 155-168. In Italia nel1997 si è costituita a Roma l’Associazione Italia-na di Etnoarcheologia con lo scopo di promuo-vere questi studi nelle università e in altre isti-tuzioni coinvolte nella ricerca archeologica.

6. Cfr. P. Lemonnier, Technological choices,London-New York 1992. I concetti di milieutechnique e di technologie culturelle furono in-trodotti da A. Leroi-Gourhan, Evolution et Te-chnique, Paris 1943-45 e sono stati adottati esviluppati dalla sua scuola: H. Balfet, “Ethno-graphical observations in North Africa and ar-chaeological interpretation: the pottery of theMaghreb”, in Ceramics and Man, a cura di F.R.Matson, Chicago 1965, pp. 161-177; P. Lemon-nier, Technological cit. Esempi di studi più re-centi su una problematica analoga: M.A. Do-bres, Technology and Social Agency. Outlininga Practice Framework for Archaeology, Oxford2000; H.L. Loney, “Society” cit.

7. Un modello sui modi di produzione da ap-plicare allo studio della ceramica di età roma-na è stato sviluppato da D.P.S. Peacock (1982)e precedenti proposte si devono a H. Balfet,“Ethnographical” cit., e a S.E. van der Leeuw,“Towards a study of economics of potterymaking”, in Ex Horreo, a cura di B.L. van Beek,R.W. Brandt, W. Groeman-van Waateringe,Amsterdam 1977.

8. Un ampio quadro su Oristano e la sua pro-vincia si trova nella pubblicazione curata daA. Oppo (La Provincia di Oristano 1991).

9. Il periodo al quale risale la ricerca sul cam-po per questo studio.

10. Nella Sardegna agro-pastorale il valore dellecose dipendeva dalla loro durata. Ciò aveva ad-dirittura delle implicazioni etiche: pagare un al-to prezzo per qualcosa destinata a rompersi co-me un vaso di terra sarebbe stato “immorale”(vedi B. Bandinu, G. Barbiellini Amidei 1976, p.70). Per un genere di prima necessità come laceramica d’uso vi era inoltre il controllo delleautorità. Si conosce una lettera del 1906 inviatadalla Società dei figoli al sindaco di Oristanonella quale si chiedeva di poter aumentare iprezzi per Oristano e i borghi. Il Comune rifiutae pubblica un manifesto confermando i vecchiprezzi che erano uguali a quelli convenuti nel1777 (F. Virdis, I gremi di Oristano, tesi di lau-rea, Cagliari, Università degli Studi, a.a. 1959-60,p. 59). Controversie tra autorità e vasai sui prez-zi dei manufatti si conoscono anche nel Sette-Ottocento: vedi M. Marini, M.L. Ferru 2003, pp.164-167.

11. Sono conservati gli statuti dei ferrari (1524),dei sarti (1608), dei muratori (1615), dei vasai(1692), dei falegnami (1693), degli scarpari(1721): G. Dore 1991, p. 70.

12. Sul gremio dei figoli di Oristano e il suo sta-tuto: F. Loddo Canepa 1961, pp. 254-256; vedianche M. Marini, M.L. Ferru 1993, pp. 130-136,162; M. Marini, M.L. Ferru 2003, pp. 155-161.Dopo l’abolizione dei gremi nel 1864 si sentì lanecessità di istituzioni sostitutive che tutelasserola produzione e continuassero l’attività assisten-ziale (F. Virdis, I gremi cit., pp. 58-59, 73-74).

13. M. Marini, M.L. Ferru 1993, p. 80 e nota 92a p. 84; M. Marini, M.L. Ferru 2003, pp. 39-40 enota 1 a p. 63. Precedente alla redazione delloStatuto del Gremio dei Figoli, nel 1692, è an-che la testimonianza del Fara, corografo del se-colo XVI, secondo il quale a Oristano si trova-va un «suburbiulum figulorum ubi fiunt operafigulina» (J.F. Fara 1838, p. 73). Nel Seicentofonti d’archivio confermano l’esistenza rispetti-vamente di un «borgo dels congiolarios» e nelSettecento menzionano un «borgo dels alfare-ros» (M. Marini, M.L. Ferru 2003, p. 40 e note 9-10 a p. 63). Alla metà del secolo scorso VittorioAngius parla del quartiere “Vasai” e di «officinetutte in fila rimpetto alla chiesa di S. Sebastiano»(V. Angius, 1833-56, s.v. Oristano, vol. XIII,1845, pp. 248, 269). Negli stessi anni il DellaMarmora: «I fabbricanti di queste terraglie sichiamano congiolargius; essi occupano un po-sto in uno dei sobborghi» (1860, p. 286). In me-rito vedi anche M. Marini, M.L. Ferru 2003, pp.39-40 e nota 1 a p. 63.

14. Sono incline a pensare che la forte nuclea-zione di via Figoli rispecchiasse ancora la situa-zione dell’antico quartiere “Vasai” menzionatodalle fonti. Le numerose case-bottega sparsenei sobborghi potrebbero indicare una situazio-ne di maggior libertà creatasi dopo l’abolizionedel gremio nel XIX secolo (M.B. Annis 1985,“Resistance”, p. 253; 1988, “Modes”, pp. 53-56),tanto più che a quell’epoca il quartiere del Bor-go fu oggetto di una certa attenzione urbanisti-ca: M. Falchi, “Oristano, la traccia urbanistica”,in Oristano, la Storia le Immagini, Oristano1994, pp. 88-89. Ciò però dovrà essere dimo-strato da opportune ricerche. Diversi documenti

datanti dal periodo Sabaudio ai giorni nostriesaminati e citati da M. Marini, M.L. Ferru (2003,pp. 163-173, 175-191) tacciono in merito.

15. Il toponimo si trova nelle mappe catastalidel 1849 e del 1926 conservate al Municipio diOristano. Il Cav. Giuseppe Maria Carta (Brevinotizie sulla città d’Oristano (in Sardegna) e lesue adiacenze, Torino 1869; edizione anastati-ca, Bologna 1983, p. 55) ci dice che tali cave sitrovavano appunto nella zona tra la chiesa be-nedettina di S. Nicolò, il Camposanto e la chie-sa di S. Giovanni detto dei Fiori. Tra il 1929 e il1949 le antiche cave furono in parte abbando-nate e l’argilla si prendeva in zona Ortu Busa-chi dove essa era di ottima qualità. Esauritiquei terreni, nel 1949 si tornò in zona S. Nico-lò, dove però la qualità dell’argilla si rivelò in-feriore.

16. Ciò significa che, nonostante una crescitapiù che raddoppiata della popolazione sarda eun significativo incremento economico tra il1921 e il 1941 (Atlante della Sardegna 1980,pp. 163-167, tavv. 52-53), il numero dei vasai ri-mase pressoché inalterato. Ciò può interpretarsicome stabilità della domanda, ma, visto nelquadro generale dell’Isola, si tratta piuttosto diun ristagno dell’attività che solo nel periodobellico conobbe una certa rifioritura. Anche ilfatto che secondo le antiche regole gremiali ilnumero degli artigiani venisse tenuto sotto con-trollo dalla Società che favoriva l’ammissione al-la professione dei figli dei maestri e scoraggiavaquella di estranei, non è forse da sottovalutare.Ancora nel 1949 in una seduta del consigliodella Società, datata 20 settembre, si delibera«dopo animata discussione» che la «tassa di me-stiere» che deve pagare alla società un appren-dista «non figlio di maestro» per essere ammes-so all’esercizio dell’arte sia di lire 12.000 rispettoalle lire 1000 dovute da un «figlio di maestro».Anche l’Angius (1833-56, s.v. Oristano, vol.XIII, 1845, p. 269) parla di un numero di 30 va-sai, ma la popolazione cittadina era allora di6041 anime (censimento 1845), mentre la po-polazione isolana non arrivava alle 500.000 ani-me (Atlante della Sardegna 1980, p. 163).

17. Ciò non è caratteristico di Oristano e dellacomunità dei vasai, è fenomeno noto nell’ap-prendimento di mestieri in genere nelle societàpre-industriali (cfr. G. Angioni 1984). Eloquentein proposito è la confessione di un vasaio asse-minese: «Quando ero bambino mio padre miha buttato in un mucchio di terra senza direuna parola e oggi sto ancora là cercando ognivolta di migliorare la mia tecnica e il mio lavo-ro». In merito vedi anche l’aneddoto citato daM.G. Da Re 1983, p. 188 nel suo lavoro sui ce-ramisti di Assemini.

18. Rimaneva l’uso gremiale dell’esame, seppurmolto semplificato, cfr. M. Marini, M.L. Ferru2003, p. 156.

19. L’ingobbio (stangiu), un’argilla bianca dicui i figoli ricoprivano le parti del vaso chedovevano poi ricevere la vetrina, veniva porta-to da Nurallao e spesso scambiato con vasi. Lagalena (cabanza) veniva acquistata dal “mag-giorale” – nome antico gremiale rimasto uffi-cialmente in uso per indicare il presidente del-la Società – e tutti i maestri erano tenuti adacquistarla da lui per un prezzo di poco mag-giorato. Il ricavato era per la cassa della Socie-tà. Alla raccolta della selce (pedr’e fogu) – altroingrediente base della vetrina – pensava cia-scun maestro nei mesi invernali di inattività.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:25 Pagina 255

256

20. L’“invidia” sembra una caratteristica delle so-cietà contadine in genere, come risulta dalla va-stissima letteratura antropologica in merito. Uncompendio della discussione sulle cause del fe-nomeno con riferimento al gruppo sociale deivasai si trova in D.A. Papousek, The peasant-potters of Los Pueblos; stimulus situation andadaptive processes in the Mazahua region inCentral Mexico, Assen 1981.

21. D.P.S. Peacock 1982, pp. 38-43.

22. D.P.S. Peacock 1982, p. 31.

23. Commenti noti e spesso citati sono, nell’Ot-tocento, quelli di V. Angius 1833-56, s.v. Ori-stano, vol. XIII, 1845, p. 269; A. Della Marmora1860, p. 286. Nel Novecento A. Imeroni 1928,p. 57; G.U. Arata, G. Biasi 1935, p. 96, parlanodi arretratezza di tecniche e di rozzezza deimanufatti. Una rassegna dei commenti di autoriitaliani e stranieri dal XVI al XX secolo sull’arteceramica oristanese si trova in M. Marini, M.L.Ferru 2003, pp. 257-269.

24. Basterà citare in merito, a mo’ di esempio,gli ormai classici R. Hampe, A. Winter, Bei Töp-fern und Töpferinnen in Kreta, Messenien undZypern, Mainz 1962; R. Hampe, A. Winter, BeiTöpfern und Zieglern in Süditalien, Sizilienund Griechenland, Mainz 1965 e J.L. Combès,A. Louis, Les Potiers de Djerba, Tunis 1967. Stu-di più recenti sono: R. Vossen, Töpferei in Spa-nien, Hamburg 1972; R. Vossen, N. Seseña, W.Köpke, Guía de los alfares de España, Madrid1981; N. Cuomo di Caprio, Ceramica rusticatradizionale in Puglia, Galatina 1982; R. Vos-sen, Reisen zu Marokkos Töpfern, Hamburg1990; R. de Sousa Martins, A cerâmica modela-da feminina dos Açores, Cascais 1999; G. Lon-don, Töpfrei auf Zypern damals-heute. Traditio-nal Pottery in Cyprus, Mainz am Rhein 1990; I.Ionas, Traditional Pottery and Potters in Cyprus.The disappearance of an ancient craft industryin the 19th and 20th centuries, Aldershot 2000.

25. Ovviamente questa non fu l’unica causa deldeclino dell’arte. La situazione è come sempreassai più complessa e sfumata e in ogni casoda situare nell’intero contesto sociale. Vedi inproposito l’analisi fornita in M.B. Annis 1985,“Ethnoarchaeological”, pp. 72-89.

26. La foggiatura dei vasi al tornio veloce esi-ge, come è noto, oltre a un periodo di appren-dimento della tecnica, anche un continuo eser-cizio, grazie al quale è possibile mantenere esviluppare quegli automatismi motori che ga-rantiscono il rendimento, cioè una foggiaturacelere dei manufatti. Si vedano in merito, peresempio, gli articoli di H. Balfet, “A propos dutour de potier, l’outil et le geste technique”, inL’homme hier et aujourd’hui. Recueil d’etudesen homage à André Leroi-Gouran, Paris 1973;1984. Una profonda indagine etnoarcheologicasu questo aspetto condotta in India (V. Roux,The potter’s wheel. Craft specialization andtechnical competence, Oxford-New Delhi-Bom-bay-Calcutta 1989) dimostra che, non solo nontutti gli individui hanno le doti fisiche adatte al-l’uso efficace del tornio veloce, ma anche chein ogni caso l’uso di questo strumento esigededizione e continuo esercizio. Ciò implica unambiente sociale nel quale deve esserci lo spa-zio economico necessario al mantenimento diartigiani specialisti.

27. Gli strumenti usati erano il piccone (piccu)per la cavatura, e la cesta (crobi de cadrilloî)

per la raccolta dell’argilla cavata. La pala a la-ma larga (marroî ladu) si usava per la spargi-tura e la frantumazione delle zolle. Cfr. perquesto tipo di cavatura J.L. Combès, A. Louis,Les Potiers cit., pp. 35-36.

28. Il nome terr’e coru indica appunto chequesta stava nel cuore del sedimento; srebestiasignifica invece che tale argilla “selvatica” eradifficile da domare: le nostre indagini di labo-ratorio (M.B. Annis, L. Jacobs 1986) hanno di-mostrato che essa non può essere usata da solaa causa di un ritiro eccessivo in asciugatura ecottura. Tuttavia, se aggiunta in giuste quantità,quest’argilla, essendo grassa (drucci), potevaessere un buon correttivo di quella di base chespesso era troppo magra. La terra arenosa era,come dice il termine, ricca di sabbia finissima.Anch’essa veniva usata come correttivo per ot-tenere dei miscugli più adatti alla manifatturadi certi prodotti.

29. Questa operazione particolarmente fatico-sa (cfr. R. Hampe, A. Winter, Bei Töpfern undZieglern cit., p. 27, fig. 16) fu eliminata quan-do, alla fine degli anni Trenta, le fosse furonosostituite con vasche di cemento.

30. L’argilla oristanese era tixotropica (per ladefinizione di questo termine vedi p. 242 e no-ta 106), una proprietà che essa condivideva,sebbene in grado assai inferiore, con l’argilla diPabillonis. A causa di questa caratteristica essadiviene presto “collosa” e per ridarle la giustaconsistenza deve essere lavorata energicamentepoco prima di essere modellata. La tornituradei vasi deve inoltre avvenire usando una mi-nima quantità d’acqua e con rapidità.

31. Cfr. J.L. Combès, A. Louis, Les Potiers cit.,p. 49; R. Hampe, A. Winter, Bei Töpfern undZieglern cit., tavv. 1, 4.

32. La letteratura sul tornio veloce (tipi e fun-zionamento) è vasta. Lo studio di V. Roux (Thepotter’s wheel cit.) è un’ampia trattazione chemenziona anche studi precedenti. Proprietà es-senziali del tornio veloce sono lo sviluppo disufficienti forza centrifuga, momento d’inerziae la rotazione regolare. Di particolare impegnoper il torniante è la fase iniziale in cui egli devevincere l’inerzia dello strumento e contempora-neamente centrare l’argilla. Il tornio usato daifigoli oristanesi fino al secondo dopoguerraera, come si è detto, assai rudimentale. Nono-stante ciò, neanche nel periodo bellico in cui illavoro fu intensissimo si pensò di adottare untornio più evoluto. Ciò avvenne soltanto dopola seconda guerra mondiale sebbene non soloil tornio metallico con cuscinetti a sfera, ma ad-dirittura quello elettrico, fossero noti in Sarde-gna dalla seconda metà degli anni Venti (M.G.Da Re 1983, p. 178; M. Marini, M.L. Ferru 1993,pp. 215-221). Sulle possibili cause per cui inno-vazioni tecnologiche possono essere accolte orespinte esiste una vasta letteratura antropologi-ca. Classico in merito è il lavoro dell’antropolo-go statunitense G.M. Foster, “The sociology ofpottery: questions and hypotheses arising fromcontemporary Mexican work”, in Ceramics andMan cit. Più recenti alcune importanti conside-razioni di D. Arnold che sono basate su un va-sto numero di ricerche (1985, pp. 202-224) e diD. Papousek (“Technological change as socialrebellion”, in What’s New? A Closer Look at theProcess of Innovation, a cura di S.E. van de Le-euw e R. Torrence, London 1989, pp. 140-166).

33. Su arraidori era la verga che si passava

sulle misure per aridi per livellare il contenuto.In questo modo si misurava arrasu, cioè rasoall’orlo. Si poteva anche misurare a cuccuru,cioè con la misura colma a monticello (vedi G.Angioni 1976, pp. 131-135).

34. Sulla costruzione del forno tradizionale e sul-le modifiche che esso subì e in quali circostan-ze vedi M.B. Annis 1985, “Resistance”, p. 247.

35. Il verde si otteneva con la ramina (iscattade arramini), fornita in passato dai ramai diIsili, il bruno con la ferraccia (iscatta de ferru),fornita dai fabbri. L’ingobbio (stangiu) eraun’argilla chiara di Nurallao che aveva un’otti-ma compatibilità con quella oristanese (M.B.Annis, L. Jacobs 1986, pp. 76-78). Questa siscioglieva in acqua, si filtrava due volte attra-verso un crivello di giunco (cibiru) e la giustadensità si giudicava a occhio provandola sullamano o su un coccio. La galena (cabanza),solfuro di piombo, veniva invece dalle minieredi Monteponi o da quelle di Montevecchio,l’ultima era preferita. Dopo l’abolizione dellacooperativa essa fu sostituita dal minio, ossidodi piombo, che si acquistava nei negozi citta-dini. La composizione della vetrina (ammestu-ramentu) constava di tre parti di galena (o mi-nio) e una parte di silice (perd’e fogu) a cui siaggiungevano i colori e come collante si usavala farina di frumento lungamente bollita in ac-qua (acqua de scetti). L’argilla di Oristano ri-gettava gli smalti, come hanno sempre affer-mato i vasai e come hanno dimostrato alcuniesperimenti da noi fatti in laboratorio.

36. Di queste stesse specialità parlano sia l’An-gius (1833-56, s.v. Oristano, vol. XIII, 1845, p.269) che il Della Marmora (1860, p. 286). Nelperiodo da me considerato la produzione delletegole aveva luogo nella vicina Silì. Nella fab-brica fondata da Diego Contini, che prosperònei primi anni del secolo, si fabbricavano tego-le e specialmente mattoni. Nel 1926 sorse aOristano un’industria meccanica di laterizi chefu iniziativa lombarda, finanziata con capitalilombardi.

37. Cfr. M. Marini, M.L. Ferru 1993, pp. 224-232.

38. Anche M.G. Da Re 1983, p. 179, cita que-st’uso per la brocca ornata. Cfr. M. Marini, M.L.Ferru 1993, p. 227.

39. La trattazione non può qui essere completa.Per una esposizione più ampia vedi M.B. Annis1985, “Ethnoarchaeological”.

40. Su questa reazione chimica vedi particolar-mente M.B. Annis 1984, pp. 36-38 e M.B. An-nis 1985, “Ethnoarchaeological”. Per assolverequeste due funzioni i vasi da acqua oristanesivengono considerati dai consumatori di granlunga i migliori. Contro gli urti e l’usura invecesi prediligevano i prodotti asseminesi.

41. La problematica dell’acqua in Sardegna è daanni oggetto di studi di varia natura e compren-de un’ampia letteratura. Qualche esempio: M.Le Lannou 1941, pp. 27-56; Atlante della Sarde-gna 1980, pp. 226-248, tavv. 72-73; G. Angioni,A. Sanna 1988, pp. 101-112.

42. D.E. Arnold 1985, pp. 1-19, 225-237; D.E.Arnold, Ecology and ceramic production inan Andean community, Cambridge 1993, pp.236-240.

43. Cfr. Le opere e i giorni 1982, fig. 218; V. Mos-sa 1957, p. 70; G. Angioni 1976, tav. 23, p. 187.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:25 Pagina 256

257

44. M.G. Da Re 1990, pp. 101-105.

45. A Seneghe, paese del Montiferru, nell’ordi-ne prescritto per trasportare il corredo alla casadei promessi sposi, le brocche stavano al pri-mo posto, precedute solo da alcune offertesquisitamente simboliche di un canestro condel grano, un bicchiere di vino e una gallinabianca pronta a far l’uovo. Un analogo corteo ètestimoniato ad Arbus dove le brocche veniva-no inghirlandate di fiori di pervinca, erba con-nessa a riti propriziatori della pioggia (A. Cuc-cu 2003, p. 17, note 11-12).

46. Si pensi alle mostre nazionali e interna-zionali alle quali dall’Ottocento a oggi i vasaioristanesi parteciparono esponendo general-mente questo genere di prodotti (cfr. M. Mari-ni, M.L. Ferru 1993, pp. 198, 201, 212; M. Ma-rini, M.L. Ferru 2003, pp. 175-226).

47. Le regioni particolarmente servite, quellecioè dove la distribuzione era regolare e inten-sa erano, fino al dopoguerra, oltre al Campida-no settentrionale e centrale, parte dell’Iglesien-te, la Marmilla, il Sarcidano, il Mandrolisai, laBarbagia, il Nuorese, il Montiferru, la Planar-gia, il Marghine, il Goceano, il Logudoro e ilSassarese.

48. Indicativo il fatto che per alcune zone, ser-vite generalmente da Assemini, Oristano pro-ducesse una forma di barilotto, frascu a funduladu, che riproduceva la forma del frascu as-seminese.

49. Per un’analisi approfondita delle serie eper il loro significato nella classificazione deivasi, vedi M.B. Annis 1985, “Ethnoarchaeolo-gical”, pp. 58-69.

50. La razionalizzazione della produzione trovadei significativi paralleli in analoghe manifatturecontemporanee spagnole, che anche dal puntodi vista morfologico e delle tecniche mostranodelle strette analogie con la produzione sarda.Vedi, per esempio, J. Llorens Artigas, J. Corre-dor-Matheos, Cerámica popular española ac-tual. Spanish folk ceramics of today, Barcelona1974; R. Vossen, Töpferei cit.; R. Vossen, “Prinzi-pien der Benennung sowie Bewertungsystemespanischer Gebrauchskeramik”, in Mitteilungenaus dem Museum für Völkerkunde Hamburg,vol. 4, Bonn 1974; R. Vossen, N. Seseña, W.Köpke, Guìa cit.; R. Vossen, “Towards buildingmodels of traditional trade in ceramics: casestudies from Spain and Morocco”, in The ManyDimensions of Pottery. Ceramics in Archaeologyand Anthropology, a cura di S.E. van der Leeuw,A.C. Pritchard, Amsterdam 1984. Le ricerche diMarini e Ferru riconducono infatti nomi e formedella terracotta sarda a tradizioni catalane (M.Marini, M.L. Ferru 1993, p. 207; M.L. Ferru, “I fi-goli oristanesi dal XVI al XX secolo”, in La ce-ramica 1995).

51. Ricerche condotte in collaborazione con L.Jacobs, ceramista addetto alle ricerche di labo-ratorio presso l’Istituto di Tecnologia Ceramicadell’Università di Leiden (M.B. Annis, L. Jacobs1986) e col geologo Geerten Blessing (M.B.Annis 1996-97). Sugli obiettivi e i metodi di ri-cerca dell’Istituto vedi: H.J. Franken, “Scopeof the Institute’s research work. A short intro-duction”, in Newsletter Department Pottery Te-chnology University of Leiden, vol. 1, Leiden1983; L. Jacobs, “A summary of the researchmethods”, in Newsletter cit.; A. van As 1984;A. van As 1992.

52. M.B. Annis, L. Jacobs 1986, pp. 70-76. Glistudiosi Marini e Ferru, basandosi su una pre-cisa descrizione del 1885 e su alcune immaginidell’epoca, deducono un cambiamento nellaforma della brocca oristanese che ebbe luogonegli ultimi anni dell’Ottocento (M. Marini,M.L. Ferru 1993, p. 187 e figg. 116, 120 e 132;M. Marini, M.L. Ferru 2003, pp. 176-178). Laforma allungata e spigolosa, ancora in uso perquasi tutto il secolo XIX, ben si addiceva alleproprietà dell’argilla descritte sopra per cui ilproblema maggiore, come si è detto, era l’al-largamento del ventre.

53. Negli ultimi anni non potendo più cavarepersonalmente l’argilla per mancanza di aiuti,alcuni vasai utilizzavano argilla proveniente dascavi effettuati in cantieri edilizi.

54. M.B. Annis 1985, “Ethnoarchaeological”, pp.83-88.

55. A. Cuccu 2003, pp. 29-35.

56. Si tratta di Raffaele (noto Liccu) Cau e diGiovanni Sanna.

57. Indicativo per questa mentalità intrapren-dente è che Giovanni Sanna non era figlio diun vasaio, ma di un commerciante.

58. Oggi la società “Ceramiche Manis” assiemeai figli che lo hanno seguito nell’arte.

59. A. Cuccu 2003, p. 14.

60. A. Cuccu 2003, p. 14.

61. M.L. Ferru 1999.

62. B. Casagrande, “Oristano: dalle bottegheartigiane all’istituzione delle scuole di istruzio-ne artistica”, in La ceramica 1995; A. Cuccu2003, p. 144; M. Marini, M.L. Ferru 2003, pp.215-217.

63. A. Cuccu 2003; Il tornio di via Figoli 2005.

64. Sul cambiamento nelle relazioni uomo-og-getto nelle ultime generazioni vedi B. Bandinu,G. Barbiellini Amidei 1976, pp. 93-106. Sul si-gnificato e il ruolo dell’arte popolare nella so-cietà industriale e postindustriale da un puntodi vista socio-antropologico vedi A. Giarrusso2002-03.

65. Nel 2001, per richiesta del Comune, Orista-no ha ottenuto dal Ministero dell’Industria, delCommercio e dell’Artigianato l’attestato di “zo-na di affermata tradizione ceramica” al fine ditutelare col marchio di “ceramica artistica e tra-dizionale” sia le ceramiche prodotte secondo icanoni del proprio “patrimonio storico e cultu-rale”, sia quelle realizzate secondo “innovazio-ni ispirate alla tradizione” (M. Marini, M.L. Fer-ru 2003, pp. 227-229).

66. M. Le Lannou 1941, pp. 240-247, tav. XXIVA. Alla fine degli anni Settanta del Novecentol’industria chimica entra a far parte dell’econo-mia del paese.

67. Questa argilla grassa viene denominata sa-poi santu e veniva utilizzata per il bucato inmancanza di sapone e anche per curare certeirritazioni della pelle, specie dei bambini.

68. V. Roux, The potter’s wheel cit. VincenzoFarci considerava di non possedere queste dotifisiche e nella sua manifattura affidava la mo-dellazione di grandi forme a tornianti dotati perquesto lavoro.

69. Cfr. più avanti p. 242 e nota 106.

70. M.B. Annis 1996-97.

71. Sa fregua è un tipo di pasta, una sorta dicuscus.

72. M.G. Da Re 1983, p. 179.

73. Pani tradizionali arte effimera in Sardegna,a cura di A.M. Cirese, Cagliari 1977; Pani 2005.

74. L’antropologa M.G. Da Re (1983) descrivecon precisione la tecnica di manifattura e glistrumenti del lavoro dei vasai asseminesi ag-giungendo delle interessanti riflessioni di tiposocio-antropologico.

75. I migliori aiutanti erano conosciuti e neilaboratori ci si disputava il loro aiuto.

76. La produzione giornaliera del vasaio asse-minese è sensibilmente superiore a quella del-l’oristanese: in una giornata di circa 10 ore dilavoro, un bravo torniante asseminese riuscivaa modellare dalle 80 alle 100 brocche da 5 (ca-pacità 18 litri), mentre il torniante oristanesefaceva 60 brocche da 30 (capacità 15 litri).

77. Quanto descritto per la preparazione dellaterra è basato unicamente sulle testimonianzedei figoli. Alla fine degli anni Settanta-inizio Ot-tanta la preparazione della terra era già com-pletamente affidata alle macchine (vedi oltre eM.G. Da Re 1983).

78. M.G. Da Re 1983, p. 187.

79. M.G. Da Re (1983) presenta nel suo articoloun’assonometria del forno asseminese con laterminologia delle diverse parti (p. 181, fig.248) e una precisa descrizione del procedimen-to della cottura (p. 188). Il forno asseminese èmolto simile a quello di Pabillonis quandoquest’ultimo era ancora scoperto. I vasai di As-semini considerano “primitivo” il forno orista-nese perché non ha una camera di cottura fis-sa. La grata “a ragno”, che ho potuto ancoradocumentare a Oristano, era quella originale intutt’e tre i centri e fu dovunque modificata per-ché causava troppe perdite.

80. M. Marini, M.L. Ferru 1990.

81. M.G. Da Re (1983, p. 178) riporta un’affer-mazione di Dionigi Scano contenuta nella pre-sentazione dell’opera di Federico: «La ceramicain Sardegna non ha tradizioni alle quali possa-no ispirarsi i nostri artisti».

82. A. Cuccu 2003, pp. 55-74.

83. Cfr. V. Angius 1833-56, s.v. Assemini, vol. I,1833; s.v. Decimomannu, vol. VI, 1840.

84. M. Marini, M.L. Ferru 1993, pp. 202-203.

85. D.P.S. Peacock 1982, pp. 3, 38-42.

86. Suppongo si tratti, come sempre, di capi-bottega, quindi in questo numero non sonocomprese le famiglie e gli aiutanti e apprendi-sti. In un paese di circa 4000 abitanti si puòparlare di village industry (S.E. van der Leeuw,“Towards” cit.).

87. Ho spesso sentito dire dai vasai assemine-si che i loro colleghi oristanesi erano “poveri”.

88. D.P.S. Peacock 1982, pp. 3, 31.

89. D.P.S. Peacock 1982, pp. 9, 43-46.

90. In certi paesi, per esempio San Vito nelGerrei, queste erano considerate porta sfortuna.

91. Nel 1973 l’ultimo vasaio, Antonio Pinna,chiudeva bottega.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:25 Pagina 257

258

92. Negli anni Venti del secolo scorso il nume-ro degli abitanti era di circa 1800 anime; neglianni Trenta oscillava tra 1900-2000; nel 1951era di 2539; nel 1967 di 2674; nel 1971 di 3100e così ancora nel 1984. Notizie generali sulla litologia del Campidanosi trovano in G. Pecorini 1971, pp. 9-11 e R.Exel 1986. I lavori di bonifica comprendenti un’area di34.290 ettari di territorio iniziarono nel 1934 efurono completati dopo la guerra. Una delleopere fu la canalizzazione dei corsi d’acquache in tempi di piena straripavano procurandodanni al paese: M. Le Lannou 1941, pp. 311-314; A. Terrosu Asole 1982, pp. 69-72.

93. M. Le Lannou 1941, pp. 188-199. Il signifi-cato che l’arte dell’intreccio e l’industria cerami-ca avevano per la comunità risulta tra l’altro dauna serie di documenti conservati nell’archiviocomunale datanti a partire dall’inizio del secoloXIX: D. Frau 1979-80, pp. 149-162, 400-446. Fi-no a questo momento non si dispone di notizied’archivio precedenti l’inizio del XIX secolo nédi dati archeologici. Le diverse delibere comu-nali citate dal Frau indicano tuttavia una produ-zione organizzata e sviluppata per agire su unlargo mercato esterno. Non si esclude pertantoche più ampie ricerche storiche e archeologi-che possano fornire ulteriori dati su questa atti-vità ceramica in un passato più lontano.

94. I vasi da fuoco di Pabillonis non solo resi-stevano al calore, ma, se trattati con cura, du-ravano a lungo: una pentola di media capacità(3-4 litri) usata quotidianamente poteva durarefino a dieci mesi e, eccezionalmente, un anno.Più normale era però una durata di sei mesicirca.

95. Le analisi si sono svolte presso l’Istituto diTecnologia Ceramica (Department of PotteryTechnology) della Facoltà di Archeologia del-l’Università di Leiden (Paesi Bassi), e sonofrutto di una collaborazione dell’autrice col ce-ramista Loe Jacobs ed il geologo Geerten Bles-sing. Al primo si devono gli esperimenti sullematerie prime, al secondo un’indagine al mi-croscopio ottico polarizzatore delle sezioni sot-tili di alcuni frammenti di vasi provenienti daOristano, Pabillonis e Assemini. Sui metodi e irisultati vedi M.B. Annis, L. Jacobs 1989-90;M.B. Annis 1996-97.

96. Nel 1977, quando feci la prima visita a Pa-billonis, il grande laboratorio di Giuseppe Pirasaveva cessato l’attività da 10 anni (1967) e ilpiccolo laboratorio di Antonio Pinna da quattro(1973).

97. I campioni furono procurati da GiuseppeFrau, il quale a suo tempo era stato aiutantedel suocero Giuseppe Piras, e da Antonio Pin-na, ultimo vasaio di Pabillonis. Ausilia Piras,moglie del Frau, era stata in gioventù aiutantedel padre e aveva imparato l’arte del tornio. Lesue precise informazioni sono state molto im-portati per la ricerca.

98. M.B. Annis, L. Jacobs 1989-90.

99. Tipo, grandezza, forma e frequenza di mi-nerali e rocce costituenti il contenuto non pla-stico delle argille, sono dati indicativi sia perquanto riguarda la geolitologia della regione,sia per le proprietà artigianali delle materieprime (in particolare: preparazione, formazio-ne, essiccatura e cottura), sia per la funzionedei vasi.

100. Dominano i quarzi, i feldspati e le miche eaccessoriamente sono presenti basalto, concre-zioni di ossido ferrico e rocce scistose; dal pun-to di vista qualitativo sono presenti gli stessiminerali che si riscontrano nelle argille orista-nesi e asseminesi (vedi M.B. Annis 1996-97, pp.105-107). Allo stato grezzo le terre di Pabillonismostravano una notevole percentuale di inclusila cui granulometria troppo elevata (2 mm finoa eccezioni di 4,50 mm) era una proprietà ne-gativa sia per la manifattura che per la funzionedei prodotti. La totale assenza di granuli calca-rei riscontrata sia nel materiale grezzo che neimanufatti di Pabillonis si deve all’estrema curacon cui i vasai o gli addetti alla cavatura dellaterra evitavano rigorosamente le zolle che con-tenevano calcare (pedra de moi) per paura deifamigerati “calcinelli” che avrebbe danneggiatole stoviglie. Sulla decomposizione del carbona-to di calcio in cottura e gli effetti sui vasi vediO.S. Rye, “Keeping your temper under control:materials and manufacture of Papuan pottery”,in Archaeology and Physical Anthropology inOceania, vol. 11, Sydney 1976, pp. 106-137;P.M. Rice, Pottery cit., p. 98.

101. Si tratta di argille secondarie, come tali ric-che di impurità, alle quali l’ossido di ferro con-ferisce loro il tipico colore rossiccio. Per le pro-prietà di questo tipo d’argilla vedi P.M. Rice,Pottery cit., pp. 5, 82, 86, 106, 400; D. Rhodes,Clay and glazes for the potter, Philadelphia1973, p. 22.

102. Nella letteratura archeologica ed etnografi-ca vengono descritti esempi di centri specializ-zati nella produzione di determinati manufattiper i quali la presenza di materie prime condelle proprietà eccezionali fu fattore decisivo,anche se non unico, per la specializzazione. Ci-terò qualche esempio: A.O. Shepard, “Rio Gran-de glaze-paint pottery: a test of petrographicanalysis”, in Ceramics and Man cit., pp. 62-87;D.E. Arnold, “Ethnomineralogy of Ticul, Yuca-tan potters: etics and emics”, in American Anti-quity, n. 36, Washington 1971, pp. 20-40; D.P.S.Peacock 1982, pp. 98-103.

103. Il degrassante era composto in massimaparte di materiale non plastico e, in misura mi-nore, di argilla. Il materiale non plastico ha uncontenuto mineralogico qualitativamente ugua-le a quello dell’argilla di base, ma con una gra-nulometria più ridotta e una percentuale di mi-ca notevolmente più alta. Sulle pareti delladomu de sa terr’e pistai riscontravo ancora do-po anni tracce abbondanti di polvere di questomateriale.

104. La proporzione 80:20 è precisa e piena-mente convalidata dai nostri esperimenti: M.B.Annis, L. Jacobs 1989-90, pp. 118-120. Più ap-prossimativa è invece la proporzione espressain carri di materiale: 15 carri di argilla e 2 di de-grassante uguale alla provvista stagionale di unpiccolo laboratorio. C’è da dire però che que-st’ultimo rapporto è espresso in volume e chele due sostanze sono di struttura assai diversa.

105. La presenza di granuli di dimensioni supe-riori a 1 mm rende ovviamente difficoltosa latornitura di pareti sottili al tornio veloce e inol-tre quarzo e selce alla temperatura di 573 °C sidilatano considerevolmente per restringersipoi in raffreddamento alla stessa temperaturacon pericolo di crepature nel vaso (L. Jacobs,“A summary” cit.).

106. Per tixotropia vedi: R.W. Grimshaw, Thechemistry and physics of clays and allied ce-ramic materials (IV ed.), New York 1980, pp.473-475; F. Hamer 1983, p. 295; G. Bronitsky1986.

107. Dei setacci a maglie più strette sarebberostati più efficaci nell’eliminazione dei granuli,ma avrebbero molto rallentato la setacciaturae perciò probabilmente non vennero adottati(Cfr. O.S. Rye, Pottery technology: principlesand reconstruction, Washington 1981, pp. 17,36-37). L’aggiunta di alcali solubili (per esem-pio cenere di legna) all’acqua avrebbero po-tuto ovviare all’inconveniente della tixotropiaagevolando la preparazione dell’impasto, maevidentemente questo accorgimento non eranoto a Pabillonis.

108. Nel dopoguerra (1948) il tornio ligneo fusostituito da quello metallico.

109. La ceramica è un cattivo conduttore di ca-lore. Con pareti sottili questa proprietà negati-va viene attenuata.

110. Il vasaio Giuseppe Steri quando lavoravanella bottega Massa-Marroccu (cfr. il contributodi D. Frau in questo volume) usava solamentefilo di rete da pescatore, l’unico che secondolui gli permetteva di tagliare orizzontalmente ilmanufatto.

111. Specie nella stagione umida i vasi si met-tevano ad asciugare in prossimità del forno persfruttarne il calore.

112. La vetrina era una miscela di silice (pietrafocaia) e minio (ossido di piombo) in soluzio-ne di acqua di crusca che fungeva da collante.La silice si pestava nel mortaio e poi si passavaattraverso un setaccio di seta. Fino agli anniTrenta al posto del minio si usava la galena(solfuro di piombo) che doveva essere pestatanel mortaio e setacciata come la silice. L’inala-zione di entrambe le polveri era dannosa allasalute. La miscela era in proporzione 2 (minio):1 (silice), ma si conoscevano miscele più “ma-gre”, cioè con meno minio, e più “grasse”, usa-te rispettivamente per casseruole e pentole.

113. La durata delle due fasi di cottura e laquantità di legna necessaria dipendevano dallemisure del forno. Secondo le informazioni rac-colte, s’iscottadura durava dalle 4 alle 6 ore esa cottura dalle 8 alle 12 ore. La capienza delforno grande del laboratorio Piras era di circa4,50 m3, quella del piccolo di circa 3 m3. In unforno grande ci stavano da 150 a 180 serie di 4pezzi (600-720 pezzi), in uno medio-piccoloda 100 a 120 serie (400-480). Prima che il for-no si potesse scaricare dovevano passare circa24 ore.

114. Negli anni Ottanta del Novecento numero-si furono gli studi e gli esperimenti, in partico-lare da parte di archeologi e archeotecnologistatunitensi, sulle proprietà che favoriscono laresistenza al fuoco di manufatti ceramici. Studifondamentali furono: O.S. Rye, “Keeping” cit.,R.W. Grimshaw, The chemistry cit., pp. 934-943;D. Braun 1983; V. Steponaitis, “Technologicalstudies of prehistoric pottery from Alabama:physical properties and vessel function”, in TheMany Dimensions of Pottery cit., pp. 79-127; G.Bronitsky, R. Hamer 1986. Presso l’Istituto diTecnologia Ceramica di Leiden si condusserocontemporaneamente le ricerche sul materialedi Pabillonis e quelle di Josine Schuring (J.M.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:25 Pagina 258

259

Schuring, “The Roman, Early Medieval and Me-dieval coarse kitchen ware from the San SistoVecchio in Rome”, in Babesch, vol. 61, Leiden1986, pp. 158-207) sul materiale archeologicodi San Sisto Vecchio in Roma.

115. Il deterioramento del materiale sopraggiun-ge molto prima: P.M. Rice, Pottery cit., p. 407.

116. Le lamelle di mica hanno delle iridescenzeargentate o dorate. Dean Arnold (Ecology cit.,pp. 73-80) in Perù constatava una situazioneanaloga: i vasai cercavano argille “con particel-le dorate” per ottenere vasi resistenti al fuoco.

117. Mica è nome generico di un gruppo di sili-cati alcalini molto diffusi in natura i quali, es-sendo ricchi di alluminio, hanno qualità refratta-rie, vedi M.B. Annis, L. Jacobs 1989-90, p. 120.

118. Ciò fu dimostrato dai nostri esperimentiche trovavano poi riscontro in quelli di M.B.Schiffer, “The influence of surface treatmenton heating effectiveness of ceramic vessels”,in Journal of Archaeological Science, vol. 17,San Diego 1990, pp. 373-381. La miscela usataa Pabillonis aveva un’ottima compatibilità conla parete dei vasi.

119. Cabiddada non indica sempre una seriedi quattro pezzi: vedi oltre al paragrafo Unitàdi vendita. Quanto al significato del termine,secondo V. Porru (1832) il termine cabiddadasignificherebbe grandu cantidadi de algunacosa, o semplicemente cantidadi. Il terminelatino capitatio, da cui potrebbe derivare il ter-mine sardo, indica il diritto annonario per ognicapo di bestiame di proprietà pubblica. Devoquesta piccola ricerca sul termine a HermanGeertman che ringrazio.

120. Usata in genere per bollire il latte o fareil caffè. Si faceva su ordinazione, spesso percorredi di nozze, decorandola con semplicimotivi graffiti e invetriandola anche all’esternoin omaggio alla sposa. Era molto ambita dallevenditrici che la vendevano bene alla famiglia.

121. Gli informatori riferiscono di pentole chearrivavano in Sardegna, specie sul mercato diCagliari, dalla Sicilia o da Savona e resisteva-no ai nuovi metodi di cottura. Piras e Caboni,i capibottega dei due grandi laboratori, si re-carono a Savona per vedere come si facevanole pentole in quel luogo. Dalle descrizionisuppongo si trattasse di vasellame prodotto adAlbisola (cfr. M. Marini, M.L. Ferru 1993, p.188, fig. 143).

122. Queste, per poter essere utilizzate ovvian-do all’eccessiva porosità dei vasi (vedi sopra),dovevano essere esposte nel forno a tempera-ture che portassero l’argilla quasi al punto difusione. Per i vasi da acqua Pabillonis si servi-va dei prodotti oristanesi (spesso scambiaticon pentole) e, più tardi, di quelli asseminesiche però venivano assai meno apprezzati.

123. Alla tav. IV vengono raffigurati schemati-camente gli sviluppi registrati in questi anni aPabillonis e qui appresso esposti. La produzio-ne annuale dei vasi è stata calcolata in base alnumero totale di ore effettivamente impiegateal tornio ogni anno e in base alla formazionegiornaliera di vasi al tornio, le quali variano dauna officina all’altra in relazione al modo diproduzione. I risultati ottenuti sono poi staticonfrontati col contenuto medio dei forni e la

frequenza delle cotture. L’inevitabile approssi-mazione dei risultati varia tra 100% ± 8%.

124. Il numero dei laboratori è uguale a quelloregistrato nel 1850, ma inferiore ai 20 laborato-ri del 1837 (cfr. D. Frau in questo volume).

125. A Pabillonis un torniante, qualificato co-me “figolo”, modellava in otto ore di lavoro 60pezzi, ossia 15 serie di 4 pezzi. Spesso però lagiornata non era di sole otto ore e la produ-zione poteva arrivare a un massimo di 80 pez-zi al giorno (10 cabiddadas da 8 pezzi).

126. Il modello sui modi di produzione è diD.P.S. Peacock 1982, pp. 6-11, particolarmentepp. 9, 38-43. S.E. van der Leeuw, “Towards”cit., definisce questo modo di produzione “vil-lage industry”, un tipo di attività non singola mache coinvolge una notevole parte del villaggio.

127. Nel 1921 la densità abitativa dell’Isola eradi 36 anime per km2 contro una media di 135nella Penisola. La popolazione attiva era alloracostituita per circa il 60% di pastori e contadinii cui modi di vita erano considerati “arcaici”: M.Le Lannou 1941, pp. 276-289; M. Brigaglia1976, pp. 313-321. I dati sulla popolazione (nu-meri, densità e variazioni) provengono in mas-sima parte da Atlante della Sardegna 1980, vol.II, pp. 163-167, tavv. 52-54; pp. 188-198, tavv.63-65; pp. 207-214, tav. 69.

128. A questo proposito è importante sottolinea-re che l’aumento della popolazione della Sarde-gna da 859.000 anime nel 1921 a 1.036.000 nel1936, non fu dovuto a una crescita delle nasci-te, ma piuttosto a una diminuzione dei deces-si. Se a ciò si aggiunge la politica governativache ostacolava l’emigrazione e stimolava i ma-trimoni, si arriva a una crescita considerevoledi nuclei familiari i quali avevano inoltre un te-nore di vita più alto che nel passato. In Sarde-gna tradizionalmente ogni famiglia costituisceun nucleo indipendente.

129. Cfr. per situazioni analoghe R. Hampe, A.Winter, Bei Töpfern und Zieglern cit., p. 73; N.Cuomo di Caprio, Ceramica cit., pp. 313-314;D.P.S. Peacock 1982, p. 39.

130. D.P.S. Peacock 1982, pp. 9-10.

131. D.P.S. Peacock 1982, pp. 8-9. Per un’analisipiù completa sul grado di resistenza delle for-me organizzative in contesti che si trasformanovedi M.B. Annis 1985, “Ethnoarchaeological”.

132. Queste furono ordinate e sistematicamen-te analizzate da H. Geertman, archeologo eesperto nello studio di antiche fonti: vedi M.B.Annis, H. Geertman 1987, pp. 171-188.

133. L’amministrazione meno incompleta èquella dei 28 mesi dal gennaio 1941 all’aprile1943.

134. Le misure prese dall’amministrazione co-munale per proteggere gli interessi degli abi-tanti del paese nel XIX secolo (D. Frau 1979-80, p. 445) rimasero evidentemente sempre invigore.

135. Dal 1930 al 1941 nell’amministrazione delPiras figurano fatture rilasciate a sette donne ea nove uomini, venditori ambulanti di modestocalibro. Ciò, oltre al fatto che presumibilmentele fatture non venivano in genere rilasciate perpiccole quantità di merce, si deve anche allapreferenza di questi commercianti per i labora-

tori più piccoli dove il contatto col vasaio erapiù diretto e anche il pagamento in natura piùfacile. Negli anni 1942-44 queste categorie spa-riscono dall’amministrazione: solo i grossistiFrancesco Fanari e, dopo la morte di Battistanel 1936, Francesco Montis continuano a com-parire assieme a parecchi grossisti e negoziantiforestieri. I nomi di 3 donne e 7 uomini vendi-tori ambulanti compaiono negli anni 1945-46.

136. Nella casa di Virginia Cara, una delle ven-ditrici, ho visto e fotografato la cesta di cui leisi serviva: diametro massimo 50 cm, minimo28 cm e altezza 19 cm. In questa si sistemavaal centro una cabiddada di quattro o cinquepezzi (una dentro l’altra capovolte), sopra que-sta si sistemava a croce la seconda serie diquattro e lateralmente le casseruole (tianus),accoppiate a due a due e messe di taglio.

137. Per la descrizione del carro vedi D. Frauin questo volume.

138. Il venditore Angelo Murgia ricordava ilprezzo di 5 lire per una cabiddada di ottopezzi che poi lui rivendeva a Iglesias a 10 lire,o anche a 15 per una serie da quattro.

139. M. Brigaglia 1976, p. 320.

140. D. Frau 1979-80, p. 162.

141. Una semplice macina per evitare la malsa-na frantumazione del degrassante e l’aggiuntadi una sostanza alcalina per ovviare all’incon-veniente della tixotropia dell’argilla avrebberogià molto alleggerito la fatica della preparazio-ne delle materie prime.

142. In proposito è chiarificatore l’esempio del-l’introduzione del forno a nafta nel grande la-boratorio di Giovanni Caboni (dopo il suo de-cesso nel 1949) per cercare di ovviare alla crisi.Si pensava che col nuovo forno le ore di cottu-ra necessarie dovessero essere uguali a quelleche s’impiegavano nel forno a legna col risulta-to della totale fusione dei vasi.

143. M. Marini, M.L. Ferru 1993, pp. 198-222;M.L. Ferru 1999, pp. 21-29.

144. A. Cuccu 2003.

145. M.B. Annis, P. van Dommelen, P. van deVelde 1996; M.B. Annis 1996-97.

146. Oxford Latin Dictionary, a cura di P.G.W.Glare, Oxford 1982, s.v. tradition.

147. P. Clemente 1999, pp. 16, 41-68.

148. P. van Dommelen 1998, pp. 15-36.

149. M. Marini, M.L. Ferru 1998, pp. 11-43, figg.pp. 46-193.

150. M. Marini, M.L. Ferru 1998, p. 13.

151. Solo poche forme dell’antica tradizionesopravvivono. Tra queste sa discu (dal sostan-tivo greco diskos, piatto), una ciotola che costi-tuiva il primo lavoro al tornio dell’apprendistae che si faceva in diverse fogge a seconda del-l’uso a cui era destinata.

152. M. Marini, M.L. Ferru 1998, pp. 27-29.

153. G. London, Töpfrei auf Zypern cit., p. 72;R. Vossen, Reisen cit., pp. 26-27.

154. H.J. Franken, “Theory and practice of ce-ramic studies in archaeology”, in Newsletter De-partment Pottery Technology Leiden Universityof Leiden, vol. 13, Leiden 1995, pp. 81-102.

08-09 Annis Assemini e Pabillonis 9-11-2007 18:25 Pagina 259

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 18:54 Pagina 260

261

A differenza degli altri “luoghi della ceramica”, in cui ilpercorso storico, nonostante momenti di difficoltà, pro-cede sostanzialmente ininterrotto per secoli, Tortolìmostra uno sviluppo discontinuo, in cui a fasi di so-spensione ne seguono nuove di ripresa. In questo cen-tro, soprattutto per sopperire alle necessità del territorio– l’Ogliastra, regione naturalmente isolata e di difficileraggiungimento – si torna puntualmente a lavorare l’ar-gilla ed a costruire nuove fornaci a intervalli più o me-no regolari. La prima testimonianza documentabile relativa alla pre-senza di un’attività figulina risale al secolo XIX: nel Di-zionario l’Angius riferisce la presenza di un ceto di fi-goli che riforniva tutta l’Ogliastra di brocche, scodelle,tegami, e stoviglie in genere.1 Tuttavia già nei primi an-ni Ottanta dell’Ottocento non si ha più notizia dellapresenza di questi artigiani.Giuseppe Corona, autore di una monografia storico-sta-tistica sull’industria ceramica in Italia, nel 1885 riporta lapresenza di uno stabilimento ceramico in via Garibaldifondato nel 1881 dal continentale Antonio Calvelli.La fornace venne costruita sul modello di quelle tosca-ne con maestranze che provenivano esclusivamente daquella regione. Lo stabilimento non si occupava dellafabbricazione di stoviglie ma produceva «vasi da giardi-no, mensole, cornici a bastone ed a ovolo, capitelli, or-ci per olio verniciati internamente di varia capacità e fi-no da litri 500, tubi di diversi diametri per conduttureverniciati internamente e con una resistenza di pressio-ne fino a 10 atmosfere, mattoni, tegole, quadrelli, verni-ciati e non, imbuti, ecc.».2

La ripresa della fabbricazione delle «terraglie e stovigliecomuni»3 è attestata nel 1928 da Imeroni nel suo lavorosulle Piccole industrie sarde, confermata poi nella Pian-ta topografica dell’arte rustica e dell’artigianato ruraledella Sardegna4 del 1940, in cui De Danilowicz segnalaTortolì tra i centri produttori di terraglie.

Nella seconda metà del Novecento si colloca il mo-mento più difficile attraversato da tutti i centri ceramicidella Sardegna: a questa circostanza sfavorevole, dovutaanche ad una radicale trasformazione della tecnologiae dell’economia mondiale, solo alcuni di essi riusciro-no a reagire, dando vita a nuove attività che, in seguitoad un momento d’incertezza, seppero reinventare latradizione attraverso un rinnovamento della fabbrica-zione della ceramica da cui scaturirono nuove tipolo-gie di forme e colori.Nel capoluogo ogliastrino il grave tracollo causato dalprogresso industriale condusse, negli anni Sessanta delNovecento, alla scomparsa della vivace attività cerami-ca che nell’Ottocento aveva avuto grande importanzaper l’economia locale.

I materialiIl territorio di Tortolì vanta la presenza di argille di otti-ma qualità e plasticità. Sa terra ’e stregiu (l’argilla), dicolore bianco-grigio, veniva estratta dalla località dettaIs Tanas, distante 400 metri dal centro di Tortolì in di-rezione della frazione Girasole, dagli stessi figoli o da-gli operai che lavoravano alle loro dipendenze, e tra-sportata nei laboratori con il carro trainato dai buoi; laraccolta non seguiva una cadenza stagionale ma era le-gata alle richieste del mercato. I minerali usati per l’invetriatura venivano acquistati aldi fuori del territorio comunale: sa galanza (la galena),da cui si otteneva la vetrina, proveniva dai bacini mi-nerari di Monteponi, mentre sa bianchitta (l’ingobbio)da Ilbono. Per la produzione di tegole e mattoni si impiegava unaltro tipo di argilla, di colore grigio scuro, scavata inprossimità dei fiumi.

La lavorazione dell’argillaNel laboratorio l’argilla veniva lavorata a lungo per eli-minare le impurità: dapprima pestata con una grossapietra, quindi setacciata con su cilivru; i residui che nonpassavano al setaccio venivano sistemati in una vasca eamalgamati con l’acqua. Mentre l’impasto veniva calpe-stato si aggiungeva pian piano l’argilla in polvere. Dopoaver ben lavorato il composto con i piedi si impastava

Tortolì: nel ricordo della tradizioneMichela Sardo

397. Produzione dei figoli Antonio Marongiu e Graziano Casula,Tortolì, seconda metà anni Cinquanta (foto archivio eredi Marongiu).La foto d’epoca testimonia una particolare produzione (decorata “afreddo”) dei ceramisti Antonio Marongiu e Graziano Casula, realizzataper una fiera di Sassari (alla quale non parteciparono a causa dellamorte dell’organizzatore che ne aveva commissionato i manufatti).397

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 18:59 Pagina 261

ancora con le mani, stirando più volte il panetto d’argillanello stesso modo in cui si manipola la pasta del pane. La quantità d’argilla da utilizzare era calcolata in base alnumero di manufatti che si potevano lavorare in unagiornata, solitamente dai 30 ai 50 pezzi e variava in re-lazione alla tipologia che si decideva di realizzare. Unavolta raggiunta la consistenza voluta, si sistemava l’ar-gilla necessaria al centro del piattello del tornio e, ba-gnando ripetutamente le mani, si procedeva alla forma-tura dell’impasto, modellando così la forma desiderata.S’orroda (il tornio) era costituito da un cilindro ad asseverticale girevole (su tubu) provvisto, all’estremità supe-riore, di un piattello in metallo su cui veniva poggiatol’impasto e, a quella inferiore, di una ruota di legno(s’orroda de basciu), disposta poco più in alto del pavi-mento, su cui l’artigiano imprimeva una spinta con i pie-di per far ruotare il cilindro e quindi anche il piattello.Successivamente, con l’ausilio di una spatola di legnosottile, si rifiniva meglio la forma. Il pezzo veniva co-struito “a bocca in su” e si staccava dal disco con l’aiu-to di un filo di ferro sottile. A durezza cuoio venivaeseguita la rifinitura o ritornitura, si attaccavano i manicie infine gli eventuali decori. Il manufatto veniva quindiadagiato su una tavoletta di legno e lasciato ad essiccare.

398 399

400 401

398. Boccale, Tortolì, fine sec. XIX-inizio XXterracotta invetriata, h 17,2 cm, Baunei, Museo Etnografico Sa dommu baunesa.Questo manufatto è definito nella lingua locale buccale o congiu.

399. Boccale, Tortolì, fine sec. XIX-inizio XXterracotta invetriata internamente, h 16,7 cm, Baunei, collezione privata.Boccale, buccale o congiu, fornito di ansa a sezione sinusoidale e orlo tronco conico estroflesso.

400. Fiasca, Tortolì, prima metà sec. XXterracotta parzialmente invetriata, h 26,7 cm, Baunei, Museo Etnografico Sa dommu baunesa.Questo recipiente, denominato frasku, ha una capienza di 3-4 litri.Veniva usato soprattutto dai contadini quando andavano a lavorarein campagna, trasportato sulle spalle come uno zaino.

401. Orciolo, Tortolì, fine sec. XIX-inizio XXterracotta invetriata, h 18 cm, Baunei, Museo Etnografico Sa dommu baunesa.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 18:59 Pagina 262

chiamata anche scivedda de impastai: si tratta di unaconca, invetriata internamente, con pareti leggermentesvasate, utilizzata per impastare, per rigovernare i piattie per l’igiene personale.Per la cottura dei cibi si utilizzava sa pingiada cun islorigas, una grossa pentola con pareti alte e piccoleanse impostate verticalmente, e su tianu cun sa mani-ga, un tegame da fuoco con un lungo manico a can-none a sezione circolare, entrambi rivestiti con la vetri-na. Nelle case non mancavano mai orci e giare per laconserva: sa giarra, a 2 o 4 manici, era più grande del-la brocca ma più piccola di su ziru, impiegato solita-mente per contenere l’olio o il vino, entrambi adegua-tamente impermeabilizzati all’interno con un invetriatomolto spesso per evitare la trasudazione.

A questo punto i pezzi erano pronti per la decorazionecon l’ingobbio e la galena. Per la preparazione dellavetrina l’acqua veniva messa a bollire con la crusca, supòddini, per alcune ore; in seguito si colava e si me-scolava con la galena ridotta in polvere.Il collo e le anse delle brocche comuni si immergevanoin un grosso recipiente contenente la vetrina da cui siattingeva a mani nude per rivestire i manufatti. Per gliesemplari più elaborati si applicava un velo di ingobbiosu cui, una volta asciutto, si passava la vetrina.

I forni e la cotturaUna volta asciutti i manufatti venivano sistematinel forno: era prevista un’unica cottura perl’argilla e le decorazioni.Il forno per le stoviglie poteva contenere cir-ca 200 pezzi; era di forma cilindrica, senzacopertura e con un’apertura alla base perl’inserimento del combustibile.Questi forni erano composti da due parti: lacamera di cottura e la camera di combustio-ne. Nella prima venivano caricati i manufatticapovolti, nella seconda, completamente inter-rata, si accendeva il fuoco che raggiungeva confiamme altissime la pila di stoviglie. I due am-bienti erano separati da una grata, creata da unaserie di archi disposti a raggiera e distanziati l’unodall’altro. Dopo aver sistemato le brocche, tra le qualivenivano inseriti dei cocci per evitare che durante lacottura si saldassero tra loro, si passava agli altri oggettiper finire con le grandi conche; quindi si copriva tutto ilcarico con mattones de teulacciu, cioè frantumi di terra-cotta. A questo punto si accendeva un piccolo fuocoper caentare, riscaldare, spingendo dalla bocca del for-no le fascine di legna con sa forcidda, forcone di ferroa due denti. Trascorse un paio d’ore, aveva inizio la se-conda fase di cottura con fiamme più alte alimentatecon su murdegu, il cisto. Prima di far raggiungere al for-no temperature altissime occorrevano almeno tre ore.Questa fase si ripeteva per un paio di volte finché la ce-ramica non assumeva il colore voluto. Dopo aver mura-to la bocca del forno si lasciava consumare il combusti-bile e si attendeva l’indomani per scaricare.Oltre ai due forni per la cottura delle stoviglie, ormaiandati persi, ve n’erano alcuni per la fabbricazione dimattoni e tegole. Di questi quello meglio conservato sitrova in via Siotto Pintor; gli altri, di cui rimangono so-lo le rovine, si trovano alla periferia del paese.

I manufatti: su stregiu de terragliaLa produzione era principalmente incentrata sugli uten-sili domestici di uso quotidiano; non mancano, tuttavia,alcuni esemplari di brocche decorate in cui la funzioneestetica prevale su quella pratica. Tra i manufatti più richiesti vi erano i vasi per fiori e ipiatti, ormai completamente scomparsi, mentre in moltecase si conserva ancora s’impastera (manna o pittica)

263

402

402. Fiasca, Tortolì, sec. XIXterracotta ingobbiata e invetriata, h 33,2 cm, Loceri, collezione privata. Particolare fiasca, pistone, che presenta sei anse a manigliasemicircolare decorate con solcature. A Loceri questo particolarebottiglione veniva regalato in occasione dei matrimoni, riempito dibinu cottu (sapa). Questo esemplare venne donato alla famigliadegli attuali proprietari in coppia con una brocca (di cui si è persatraccia) nella quale era inciso: Pisana Francesca 1660.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 18:59 Pagina 263

264403

403. Orcio, Tortolì, fine sec. XIX-inizio XX, terracotta invetriata internamente, h 36,5 cm, Baunei, Museo Etnografico Sa dommu baunesa.Orcio fornito di quattro anse a nastro costolate. Questo tipo di contenitore,denominato giarra, veniva utilizzato per conservare gli alimenti (lardo,pomodori secchi, salsicce, olive ecc.) sotto sale o ricoperti di grasso animale;l’olio di oliva era infatti un bene pregiato e troppo costoso per essere usatonella conserva.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 18:59 Pagina 264

265404

404. Orcio, Tortolì, fine sec. XIX-inizio XXterracotta invetriata internamente, h 34 cm,Baunei, Museo Etnografico Sa dommu baunesa.L’orcio (sa giarra), con due anse a maniglia legate tra loro con filo di ferro, testimonial’usanza di appendere i contenitori per alimenti al soffitto e proteggerli dagli insetti o dagli animali domestici.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 18:59 Pagina 265

266

405

405. Orcio, Tortolì, fine sec. XIX-inizio XXterracotta ingobbiata internamente e invetriata,h 23,5 cm, Baunei, collezione privata.

406. Orcio, Tortolì, fine sec. XIX-inizio XX terracotta invetriata internamente, h 33 cm,Mamoiada, collezione privata.

Accadeva spesso che questi oggetti subissero la con-correnza dei manufatti di Montelupo Fiorentino, acqui-stati dalle navi che sbarcavano ad Arbatax.I recipienti per l’acqua si distinguevano per capienza efunzione. Sa brocca, usata per attingere l’acqua dallafontana, veniva portata in equilibrio sulla testa con sutirilli; era provvista di anse a nastro e raggiungeva unacapienza di 14-15 litri. Sa cungialedda, più piccola del-la brocca, conteneva circa 7 litri, mentre su cungiali ocungialeddu era grande la metà di sa cungialedda econteneva 3-4 litri. Quest’ultimo era usato dalle donneper la riserva d’acqua quando si allontanavano da casaper andare a lavare i panni al fiume o a lavorare incampagna, mentre i contadini portavano su frasku, di3-4 litri di capienza, simile ad una brocca rigonfia daun lato e piatta sull’altro per essere facilmente traspor-

tata sulle spalle come uno zaino, e sa corcoriga, unasorta di borraccia a forma di zucca.Oltre alle stoviglie i figoli producevano anche is tuvulus,contenitori in terracotta con cui si pescava l’acqua nellanoria.5 Di forma cilindrica, con una leggera strozzaturaal centro per essere legati saldamente con una fune, istuvulus avevano una bocca ampia e un foro alla baseche permetteva di scorrere più rapidamente sott’acqua.

La venditaLa mattina presto arrivavano in città le donne dei paesivicini, come Girasole e Lotzorai, per acquistare su stre-xiu de terraglia (espressione con cui si indicano in ge-nerale le stoviglie in ceramica) per se stesse o per la ri-vendita. La qualità del manufatto si riconosceva dalsuono emesso dall’oggetto quando veniva “bussato”: le

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 18:59 Pagina 266

donne esperte riconoscevano in questo modo il gradodi cottura dell’argilla.Il trasporto nelle altre località del circondario (Loceri,Ilbono, Tertenia, Baunei) avveniva per mezzo dei carria buoi su cui si disponeva sa gerda, una stuoia di can-ne o paglia che poggiava sui ripari laterali di legno,per evitare la caduta del carico, e si inseriva della pa-glia tra le stoviglie.

A volte i negozianti degli altri paesi si accordavanocon i figoli per l’aquisto di un carro carico di stoviglieche avrebbero poi rivenduto al dettaglio. Spesso la vendita si risolveva nel baratto: in alcuni casii manufatti venivano pagati con il corrispettivo in de-naro di generi alimentari, ma più spesso si barattavasenza considerare il valore effettivo dell’oggetto. A Lo-ceri ad esempio si acquistava una brocca in cambio di

267

406

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 18:59 Pagina 267

un imbudu di fichi equivalente a due chili e mezzo, op-pure una giarra con otto imbudos, cioè 20 chili. Si ri-cordano anche scambi tra terracotta e materiale per lacombustione dei forni: una bisaccia carica di fascinedi legna, codinna ’e moddizzi, era scambiata con duebrocche o una giarra. Si stima che negli anni Quaran-ta e Cinquanta del Novecento una brocca dovesse co-stare dalle 50 alle 100 lire, mentre il prezzo più altopagato per una brocca decorata negli anni Cinquantaè stato di 200 lire.

Gli ultimi figoliPrima della chiusura definitiva delle botteghe artigia-nali erano attivi due laboratori per la produzione distoviglie.6

Nel rione Concia si trovava lo storico laboratorio appar-tenuto ai fratelli Antonicu, Peppi e Giuanni Casula, cheoccupava tutta l’area tra via Marsala, via Palestro e viaIosto. L’ultimo proprietario fu il figolo Graziano Casula,che aveva appreso l’arte figulina in famiglia. La bottegaera un’azienda affermata da diversi anni che poteva av-valersi del lavoro di alcuni operai.Il secondo laboratorio era situato in via Amsicora. Il pro-prietario, Antonio Marongiu, fu allievo del Casula: all’etàdi sedici anni iniziò a lavorare come operaio alle sue di-pendenze e dopo alcuni anni di apprendistato (intornoagli anni Quaranta) decise di mettersi in proprio. La suaera un’attività a conduzione familiare: la moglie, la si-gnora Angela Puncioni, vi lavorava come aiutante, tra isuoi compiti vi era quello di preparare sa galanza.Nelle due botteghe si lavorava l’argilla secondo i detta-mi tradizionali. La produzione si basava in prevalenzasu oggetti di uso comune come brocche, pentole, cio-tole, vasi, piatti, fiasche, orci. Si realizzavano inoltre, inquantità limitata, singolari tipologie di vasi e brocchedi varie dimensioni, caratterizzate da fantasiose aggiun-te plastiche (colombe, rose, serpenti, ecc.), alcune di-pinte a freddo con colori sgargianti, che venivano do-

nate in occasioni festive come matrimoni o ricorrenze.7

I due artigiani furono gli ultimi depositari di quest’ar-te: un lavoro duro e non sufficientemente remunerati-vo per le nuove generazioni.La fine del XX secolo costituisce il periodo più infelicedella tradizione ceramica di Tortolì: le antiche botteghechiudono i battenti e i vecchi forni si riducono, con ilpassare del tempo, in rovine. La produzione ceramica, in passato parte integrantedell’economia locale, è ormai un ricordo rievocato nelracconto, nostalgico e amaro, della vita di coloro chehanno avuto la fortuna di vedere gli artigiani al lavoro.Una tradizione secolare, quella della ceramica di Torto-lì, il cui epilogo coincide con la scomparsa delle ultimebotteghe artigiane negli anni Sessanta del Novecento.

Note

1. Cfr. V. Angius 1833-56, s.v. Lanusei (provincia di), vol. IX, 1841, es.v. Tortolì, vol. XXIII, 1853.

2. G. Corona 1885.

3. A. Imeroni 1928.

4. C. de Danilowicz 1940.

5. Mulini ad acqua usati per l’irrigazione dei campi. I cavalli giravanoattorno alla bocca del pozzo, dal fondo del quale veniva pescata l’ac-qua per mezzo di contenitori di terracotta (is tuvulus) che una voltagiunti in superficie riversavano l’acqua su un’apposita vasca o canale,da dove veniva distribuita per l’irrigazione dei solchi destinati alle col-ture (cfr. V. Nonnis, Storia e storie di Tortolì, Cagliari 1988).

6. La chiusura delle ultime botteghe artigianali negli anni Sessanta delNovecento e la conseguente scomparsa dei figoli ha reso difficoltosoil reperimento dei manufatti e la raccolta delle informazioni. Un dove-roso ringraziamento va alla signora Angela Puncioni, vedova del figo-lo Marongiu, e alle figlie del figolo Casula, Maria e Antonietta. Per leinformazioni su Loceri ringrazio la famiglia Asoni.

7. Questo tipo di manufatti erano piuttosto richiesti in occasione dellegrandi feste o sagre che si svolgevano in Sardegna.

268

407

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 19:00 Pagina 268

408

407-408. Conca, Tortolì, prima metà sec. XXterracotta invetriata internamente, Ø 37 cm, Baunei, Museo Etnografico Sa dommu baunesa.Conca con ampia bocca, pareti leggermete svasate e bordo smerlettato. S’impastera (manna o pittica) veniva anche chiamata scivedda de impastai: si tratta di un recipiente, invetriato internamente, utilizzato perimpastare, per rigovernare i piatti e per l’igiene personale.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 19:00 Pagina 269

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 19:00 Pagina 270

409

410

411

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 19:00 Pagina 271

412

413 414

409. Rifinitura al tornio, Tortolì, 1956 (foto Marianne Sin-Pfältzer).Il figolo Graziano Casula leviga la superficie del manufatto conl’ausilio di una piccola spatola di legno sottile, dotata di un foro al centro per la presa.

410-411. Formatura di un piccolo vaso, Tortolì, 1956 (foto Marianne Sin-Pfältzer).Il vaso, a tornitura ultimata, viene tagliato dal resto dell’argilla conl’ausilio di un sottile filo di ferro e si prosegue con la lavorazione di altri oggetti fino ad esaurire la quantità di argilla sul tornio.

412. Invetriatura delle brocche, in T. Carta, Artigianato, Handicraft,Artisanat, Handwerk in Sardegna, a cura dell’ENAPI, Roma 1976.Il collo e le anse delle brocche comuni venivano immerse in unaconca (impastera) contenente la galena da cui il figolo (nella fotoGraziano Casula) attingeva a mani nude per rivestire i manufatti. Per gli esemplari più elaborati si applicava un velo di ingobbio sucui, una volta asciutto, si passava la vetrina.

413. Brocca, Tortolì, inizio sec. XX, terracotta parzialmenteinvetriata, h 35 cm, Baunei, Museo Etnografico Sa dommu baunesa.I recipienti per l’acqua si distinguevano per capienza e funzione. Sa brocca, usata per attingere l’acqua dalla fontana, veniva portata inequilibrio sulla testa con su tirilli (cercine); era provvista di anse anastro e raggiungeva una capienza di 14-15 litri. Sa cungialedda, piùpiccola della brocca, conteneva circa 7 litri, mentre su cungiali ocungialeddu era grande la metà di sa cungialedda e conteneva 3-4 litri.

414. Vaso da fiori, Tortolì, metà sec. XX terracotta graffita e invetriata esternamente, h 28 cm, Tortolì, collezione privata.

415. Produzione dei ceramisti Antonio Marongiu e Graziano Casula,seconda metà degli anni Cinquanta (foto archivio eredi Marongiu).

416. Brocca, Tortolì, metà sec. XX terracotta ingobbiata e invetriata, h 51,5 cm, Tortolì, collezione privata.Questa produzione del figolo Antonio Marongiu era destinataprevalentemente alla vendita nelle fiere che si svolgevano durante le sagre paesane.

417. Brocchetta zoomorfa, Tortolì, metà sec XXterracotta dipinta “a freddo”, h 28,2 cm, Tortolì, collezione privata.In aggiunta alle tipologie più comuni Antonio Marongiu realizzavavasi e brocche di varie dimensioni, caratterizzate da fantasioseaggiunte plastiche (colombe, rose, serpenti, ecc.), alcune dipinte “a freddo” con vernice sintetica dopo la biscottatura.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 19:23 Pagina 272

416 417

415

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 19:00 Pagina 273

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 19:00 Pagina 274

A Dorgali è stata così forte l’adesione degli artigiani allaproduzione di ceramiche turistiche da cancellare e per-sino far dubitare dell’esistenza di una ceramica d’usoquotidiano: molto poco, infatti, è documentato della ce-ramica dorgalese precedente gli anni Venti. L’elaboratabrocchetta con tappo (fig. 435) appartenuta a GavinoClemente, oggi custodita al Museo Nazionale “G.A. San-na” di Sassari, reca alla base, inciso in pasta, il toponi-mo Dorgali. Di medesima provenienza e uguale fatturasono le brocchette e i versatori conservati al Museo Na-zionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma. Un no-me che emerge tra i figoli di allora è quello di GiovanniAntonio Sotgia (Dorgali 1885-1959) al quale sono tutta-via attribuibili con certezza il solo versatore zoomorfo(fig. 427), ancora del museo di Sassari, simile ad un al-tro custodito dagli eredi, e un boccale (fig. 426) reperi-to sul mercato antiquario di Roma negli anni Novanta.A questo ceramista si dovevano i due vasi, oggi perduti,posti a decoro della fontana comunale di Dorgali. Tuttioggetti in terracotta graffita, ingobbiata e invetriata congalassa (galena), a tracciare una continuità che arriva si-no a Michele Sotgia (Dorgali 1939), ultimo della fami-glia a usare ancora la fornace a legna (presso la sua vi-gna in località Oddoène) nella cottura dei suoi versatori.La forma aggiornata, colta, di questi ultimi (fig. 450), ri-manda a Ubaldo Badas e all’eredità lasciata da costui aSalvatore Sotgia (Dorgali 1912-1970), la cui popolarescaproduzione era commercializzata dall’ISOLA. L’argillaimpiegata «veniva estratta nei dintorni del paese, localitàIlóghe, dopo avere individuato il filone “giusto”; il sedi-mento si presentava a strati. A estrarre l’argilla era il ce-ramista Salvatore Sotgia che la prendeva per se stesso eper gli altri. Il materiale era già buono per l’uso e spessonon si filtrava».1

Un “vuoto” di memoria dunque dal quale emergonopoche figure di ceramisti. Fra queste troviamo quella diGiovanni Cucca (Dorgali 1872-1963), anche pellettiere– i cui discendenti manterranno una bottega –, e quelledei Lovicu.2

Sulla rarefatta tradizione popolare, retta da poche for-me – spesso puri volumi di sola terracotta –, si è inne-stata a Dorgali, nella seconda metà degli anni Venti,grazie alla figura dell’intagliatore Ciriaco Piras (Dorgali1891-1955), una nuova maniera di fare ceramica. Que-sta, nell’intento iniziale, avrebbe voluto essere modernama, con differente qualità a seconda dei diversi artefici,non superò la forza del passo d’avvio. Tale maniera,oggi estinta, ha avuto tanta parte nella più ampia cultu-ra ceramica della Sardegna.La terracotta decorata “a freddo” con vernici sintetiche,sino a tutti gli anni Settanta del secolo XX, diffondendoil made in Dorgali, ha costituito il marchio di un’incon-fondibile tipologia ceramica sarda, folklorica e popola-re, affermatasi senza ombra di dubbio come la più dif-fusa anche oltre i confini regionali.I caratteri della “nuova” ceramica dorgalese, soprattuttodai primi anni Cinquanta del dopoguerra, agli occhiesterni e turistici, hanno coinciso con l’immagine di unaSardegna esotica, variopinta, arcaica, popolare. Adesso che questo tipo di ceramica non è sopravvissutoall’incalzare della maiolica dai caratteri massificati; orache “non fa più paura” agli stessi sardi per tutto ciò chedi negativo rappresentava, si può finalmente leggerecon l’attenzione dovuta. Per essa, che fu uno degli spec-chi in cui il riflesso identitario ha riverberato più forte e,come tale, fu oggetto di grande interesse per la comple-tezza del mosaico che compone la memoria collettivaisolana, urgerebbe semmai un provvedimento di salva-guardia delle testimonianze superstiti.La terracotta decorata “a freddo”, se guardata come re-siduo di una cultura appartata, si apparenta con altreproduzioni similari d’ambito popolare quali ad esempioquella greca, turca, balcanica o rumena. Tuttavia si dif-ferenzia radicalmente dalle altre per un suo tratto pecu-liare, rintracciabile invece nell’antico, dovuto alla suarealizzazione mediante stampo (piatti, anfore, scatole,piccole plastiche) che, autonomamente dal successivodecoro, ne consentiva la ripetizione seriale: questo il da-to di modernità. Il suo carattere principale, anche il maggiore fascino,stava nella secca geometria dei decori, ottenuti sempre arilievo, desunti dal ricorrente alfabeto segnico metaforico

275

La “Scuola di Dorgali”: l’intagliatore diventa ceramistaAntonello Cuccu

418

418. Ciriaco Piras nel suo laboratorio, Dorgali, febbraio 1950 (foto Wolfgang Suschitzky, archivio eredi Piras).

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 19:00 Pagina 275

che impregna l’intera tradizione sarda e mediterranea,rintracciabile peraltro in tutti i manufatti che accompa-gnano le differenti declinazioni (panificazione, orefice-ria, ricamo, tessuto, intaglio, cestineria ecc.). Si potreb-be ulteriormente osservare che, anzi, laddove subentral’elemento o l’espressione più narrativamente figurati-va, l’oggetto perda di tensione, sfuggendo alle capacitàdell’artigiano, impreparato al controllo dell’immaginepiù libera. È il germe grafico innestato da SalvatoreFancello, rimasto ovviamente senza seguito.E c’è stato chi, vedendone la grande diffusione, ha pen-sato persino di clonarla (si è trattato di copie scadentiperché ottenute dal calco del multiplo) fuori dalla Sar-degna, venduta addirittura in una importante rivendita,il negozio Avallone, del centro ceramico campano diVietri sul Mare. Ma anche nella stessa Sardegna si è assi-stito a fenomeni di emulazione, nati certamente sull’on-da del favore di mercato, come ad esempio i piatti della“Vincenzo Farci e Figli” di Assemini o i piatti o vasi mol-to più rudimentali di Tortolì, realizzati da Antonio Ma-rongiu (fig. 417). Gli stessi manufatti iniziali di FedericoMelis (figg. 507-508), formatosi anch’egli nella cerchia diFrancesco Ciusa, sono realizzati in terracotta da stampopatinata “a freddo”.La controversa vicenda della ceramica “tipo Dorgali”ha registrato anche fenomeni di costume, sfociati nellaperdita di molti lavori letteralmente gettati col pattumea seguito di un furore di negazione verso una memoriaculturale sinonimo di arretratezza e incrollabile zavorrafolklorica, quando non venduti sulla bancarella e neimercatini come cineserie (sorte che non ha risparmiatoneppure la produzione consimile di Ciusa, per la qualeoggi si è aperta una caccia affannosa e spietata da par-te dei collezionisti).Lo smacco più doloroso è tuttavia la sistematica mancatacommercializzazione da parte dell’ISOLA della ceramica“a freddo”, fatta eccezione per l’originario interessamen-to di Eugenio Tavolara, che personalmente curava aDorgali l’esecuzione di piatti progettati dagli artisti AldoContini (fig. 449) e Mauro Manca, lavori fatti liberamen-te realizzare dalla bottega di Paolo Loddo (Orani 1903-Dorgali 1983). I disegni al vero venivano portati dallostesso Tavolara; la loro realizzazione e interpretazione,nel passaggio alla terza dimensione, era interamente af-fidata a Loddo, mentre il decoro era compito di sua fi-glia Anna, precisa nel tratto. Anna Loddo ricorda come,a proposito della decorazione, Mauro Manca, che vi so-vrintendeva direttamente, chiedesse apposta di “sbaglia-re”, di oltrepassare con disinvolta sicurezza i confini delrilievo. Il raffinato e consapevole Manca voleva citarecon ciò “il segno popolare nel manufatto popolare”.In un mondo dove la cultura dominante è filoindustria-le in maniera impositiva, sbilanciata a favore della sem-plificazione, con dichiarata guerra al decoro (troppo co-stoso e d’inciampo alla produzione; oggi si potrebberorealizzare tre piatti ceramici “a freddo” contro i venti-venticinque maiolicati, prassi che andrebbe a incidere

419

425276

420

421

422

423

424

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 19:19 Pagina 276

419. Brocchetta senza manici, Dorgali, ante 1908terracotta, h 13,5 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.

420-425. Tappi per brocca, Dorgali, anni Dieci sec. XXterracotta, terracotta invetriata, terracotta graffita e invetriata, Ø max 7 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.La semplice ma intenzionale pennellata di galena, rintracciabile su alcuni, è da intendersi quale elemento di decoro.

426. Giovanni Antonio Sotgia, Boccale, Dorgali, anni Dieci sec. XXterracotta graffita, ingobbiata e invetriata esternamente, h 18 cm,Nuoro, collezione privata.

427. Giovanni Antonio Sotgia, Brocchetta zoomorfa, Dorgali, anni Dieci sec. XX terracotta con aggiunte plastiche, graffita, ingobbiata e invetriata, h 28 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.

277

426

427

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 19:19 Pagina 277

428

429

428. Brocchetta zoomorfa, Dorgali, ante 1908terracotta con aggiunte plastiche, graffita,parzialmente ingobbiata e invetriata, h 27 cm,Roma, Museo Nazionale delle Arti e TradizioniPopolari.

429. Brocchetta zoomorfa, Dorgali, ante 1908terracotta con aggiunte plastiche, graffita,parzialmente ingobbiata e invetriata, h 26 cm,Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 19:00 Pagina 278

279

430

430. Brocchetta zoomorfa, Dorgali, ante 1908terracotta con aggiunte plastiche,graffita, parzialmente ingobbiata e invetriata, h 24 cm, Roma,Museo Nazionale delle Arti eTradizioni Popolari.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 19:00 Pagina 279

431 432

433 434

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 9-11-2007 19:00 Pagina 280

281435

431. Versatore, Dorgali, ante 1908terracotta graffita, parzialmente ingobbiata e invetriata, h 21,5 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.

432. Versatore, Dorgali, ante 1908terracotta con aggiunte plastiche, graffita, parzialmente ingobbiata e invetriata, h 24 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.

433. Brocchetta biansata, Dorgali, ante 1908terracotta con aggiunte plastiche, graffita,parzialmente ingobbiata e invetriata, h 22,5 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.

434. Brocchetta biansata, Dorgali, ante 1908terracotta con aggiunte plastiche, graffita,parzialmente ingobbiata e invetriata, h 29 cm,Roma, Museo Nazionale delle Arti e TradizioniPopolari.

435. Brocchetta biansata con tappo, Dorgali, ante 1908terracotta con aggiunte plastiche, graffita,parzialmente ingobbiata e invetriata, h 32 cm,Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”. Inciso in pasta alla base: Dorgali.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 17:50 Pagina 281

sul prezzo di vendita), per la ceramica di Dorgali il ter-mine ultimo non poteva che essere fissato. Ma i suoi natali avevano invece segnato una conquistaculturale in ambito artistico, riflesso di una nuova con-dizione sociale raggiunta dalla Sardegna che, a cinquan-t’anni dall’Unità italiana, iniziava a perdere quei caratteridi stretta sopravvivenza che attanagliavano la sua gente.Lo scultore Francesco Ciusa, già prima del 1914, avevarealizzato le prime opere di piccola plastica ceramica(figg. 502-503). Lo aveva fatto “da scultore” col ricorsoalla formatura mediante stampo. L’esperimento riesce eda Nuoro rimbalza a Cagliari, qui strutturato in forma dipiccola industria, la SPICA. Sarà Ciusa a fissare, alto,l’avvio e l’alfabeto dell’intera produzione a venire, ov-vero la trasposizione sulla ceramica – che andava a per-dere così i suoi caratteri esclusivamente pratici, arric-chendosi di una parte creativa – di un ricco repertoriotratto dai segni ricorrenti nel linguaggio visivo tradizio-nale e, come questi, schematici e geometrici.Per la realizzazione di quel tipo di manufatti, più che iltorniante, era necessaria l’esperienza dell’intagliatore.Ciusa chiama a Cagliari, da Dorgali, Ciriaco Piras. Saràl’avvio di un sodalizio durato circa un quinquennio e

282

436

437

436. Ciriaco Piras, Il bacio, Dorgali, seconda metà anni Venti sec. XXterracotta da stampo dipinta “a freddo”, h 34,9 cm, Quartu Sant’Elena, collezione privata.

437. Ciriaco Piras, Donna al lavoro, Dorgali, seconda metà anni Venti sec. XXterracotta da stampo dipinta “a freddo”, h 25 cm, Quartu Sant’Elena, collezione privata.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 17:50 Pagina 282

terminato con il trasferimento dello scultore a Oristanoe il definitivo rientro di Piras nel paese d’origine.Tornato a Dorgali intorno al 1925, Piras è l’uomo dellasvolta locale, un vero e proprio capostipite che portacon sé quanto appreso con Ciusa: la tradizione “moder-na” della forma a stampo decorata “a freddo”. La sua bottega, che offriva cuoi, legni, ceramiche, nelloscorcio della fine degli anni Venti, registra la presenzadel giovanissimo Salvatore Fancello (che la lascerà nel1931) e di Simeone Lai (Dorgali 1907-Cagliari 1984) e,dal 1930, di Paolo Loddo. Le ceramiche di Piras, azzar-date nei soggetti (Il bacio, fig. 436, l’Anfora con nudiniai manici), presentano una decorazione spesso impre-cisa perché dovuta alla manodopera infantile, l’unicaallora possibile per le misere condizioni sociali del vil-laggio. Mantengono tuttavia un grande fascino per laieraticità statuaria e monumentale dei soggetti, sempreaccompagnati da un ricchissimo contorno di simboligeometrizzati, tratti dalla tradizione, come il bellissimocuore con la croce interna.Piras si innestava in una tradizione caratterizzata da po-che figure di ceramisti, ma la sua dovette essere unaformula considerata vincente se Giovanni Cucca, di cuipochissimo resta di certo, è noto soprattutto per un piat-to dai caratteri a stampo appresi da Ciusa-Piras, conser-vato dagli eredi Loddo.A far rinascere la manifattura di Ciriaco Piras sarà suofiglio Simeone (Dorgali 1936-1996) che, alla fine degli

283

438

439

438. Ciriaco Piras, Vecchio barbaricino, Dorgali, seconda metà anni Venti sec. XXtondo a rilievo, terracotta da stampo dipinta “a freddo”, Ø 20,8 cm, Quartu Sant’Elena,collezione privata. Timbro in pasta sul retro: C. Piras / Dorgali.

439. Ciriaco Piras, Cacciatore, Dorgali, seconda metà anni Venti sec. XXterracotta da stampo dipinta “a freddo”, h 31 cm, Oliena, Hotel Ristorante Su Gologone. Sul fronte della base la scritta: Isteddu acurzuassa / luna / tristu chie deponne.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 17:50 Pagina 283

anni Sessanta, mediante il supporto finanziario del fa-coltoso Nino Marongiu, potrà vantare il primo forno agas impiantato a Dorgali.Simeone Lai, figlio della sorella di Ciriaco Piras, ha aper-to una sua bottega intorno al 1927, dove, come pure inquella dello zio, si lavorava il cuoio per realizzare cusci-ni, cinture, borse. Nel 1932 ha ricevuto una medagliad’oro all’Esposizione dei Littoriali di Bologna. La Rina-scente è stata tra i suoi clienti. A partire dal 1935, il gio-vane cognato Salvatore Fancello disegna per lui una li-nea marchiata Creazioni Fancello che avrà un grandesuccesso, sottolineato anche da passaggi sulla rivistaDomus. Lai, esempio raro per i tempi, ha improntato lasua attività ad una moderna comunicazione, realizzandoun catalogo con tanto di cedola per gli ordini, una cartaintestata della “Fabbrica Terrecotte Artistiche”, insommaha avuto, forse spinto in questo da un Fancello residen-te a Milano, una chiara visione dell’identità aziendale. Tra i decoratori di Simeone Lai il più costante e capaceè stato Francesco Sale (Dorgali 1925); costui, poi an-che ceramista autonomo con un proprio marchio, de-corava i piatti col noto soggetto dell’Abbeverata, a in-chiostro di china “in punta di pennino”. Paolo Loddo, servo pastore, già intagliatore presso laditta Fratelli Clemente di Sassari, arriva ventisettenne aDorgali, nel 1930 circa, dove presta la sua opera pressola bottega di Ciriaco Piras. Successivamente, appresi i

284

440

441

442

440. Antonio Lovicu, Figura maschile sul nuraghe, Dorgali, seconda metà anni Venti sec. XXplacchetta, terracotta da stampo dipinta “a freddo”, 20,6 x 12,3 cm, Quartu Sant’Elena, collezione privata.Timbro in pasta sul retro: Lovicu / Antonio / Dorgali.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 17:50 Pagina 284

rudimenti ceramici, si mette in proprio. A vendere e di-stribuire i manufatti, dal 1957 commercializzati soprat-tutto dall’ISOLA (con rapporti settimanali attraverso Eu-genio Tavolara che arrivava a Dorgali per gli ordini e ilcontrollo delle produzioni), è stata sua moglie MariaBoeddu, che li portava imballati in scatole con il pul-lman a Nuoro e Macomer; era lei a imbastire rapportipersonali con i rivenditori sparsi nel territorio. Allievi diPaolo Loddo sono stati i ceramisti Giuseppe Mula (Dor-gali 1924) e Lorenzo Loi (Dorgali 1924) del quale sipubblica una bella scatola (fig. 445) realizzata però nellaboratorio aperto successivamente in proprio e condot-to con sua moglie, la ceramista Maddalena Lovicu (Dor-gali 1922-1983), attività proseguita dal figlio Tonino(Dorgali 1949-1993) e dai fratelli.

285

443

441. Antonio Lovicu, Figura femminile in cammino, Dorgali, seconda metà anni Venti sec. XXplacchetta, terracotta da stampo dipinta “a freddo”, 20,5 x 12,3 cm,Quartu Sant’Elena, collezione privata.Timbro in pasta sul retro: Lovicu / Antonio / Dorgali; inciso in pastasul fronte: Lovicu Antonio.

442. Simeone Lai, Vaso con uccelli, Dorgali, seconda metà anni Trenta sec. XXterracotta da stampo dipinta “a freddo”, h 26 cm, Oliena, Hotel Ristorante Su Gologone. Timbro in pasta alla base: Simeone Lai / ceramiche sarde / Dorgali(Nuoro) / Creazioni Fancello.

443. Simeone Lai, Vendemmia, Dorgali, seconda metà anni Venti sec. XXpiatto, terracotta da stampo dipinta “a freddo”, Ø 37,5 cm, Oliena, Hotel Ristorante Su Gologone. Timbro in pasta alla base: Simeone Lai / ceramiche sarde / Dorgali(Nuoro) / Creazioni Fancello.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 17:50 Pagina 285

444. Laboratorio ceramico, Dorgali, anni Cinquanta sec. XX (foto René Gardi).

445. Lorenzo Loi, Scatola con coperchio, Dorgali, anni Quaranta-Cinquanta sec. XXterracotta da stampo dipinta “a freddo”, Ø max 16,8 cm, Bosa, collezione privata.Timbro in pasta sotto il coperchio: Ceramiche / Loi / Dorgali.L’interno è dipinto con una tonalità rosso vivo.

Nel 1947-48, un commerciante di cioccolato, incontratoda Loddo a una Fiera dell’Artigianato di Milano, ha ordi-nato al ceramista 5000 uova pasquali con un pulcino insommità (fig. 447). Un altro soggetto singolare realizzatodalla bottega era stato una coppia di zoccoli olandesi,ordinato sempre da un committente del Nord Italia. Ne-gli anni Settanta, il laboratorio ha collaborato anche conCostantino Nivola. Nell’ultimo periodo, ormai anziano,Paolo Loddo è ricorso al decoro della terracotta con ipastelli a cera, definitivamente fissati al biscotto median-te una vernice trasparente, ancora applicata “a freddo”.Ad adottare tale tecnica, probabilmente, la manifatturaLoddo è stata la prima fra le dorgalesi.Francesco Pisanu (Dorgali 1923-1982), con bottega a Ca-la Gonone, è l’ultimo dei primitivi-moderni nella realiz-zazione di fantastiche forme di animali (cervo, cinghiale,cavallo) presenti nella tradizione. Forse per questa suavena espressiva fu inizialmente preferito da Nivola, qua-le coadiutore nella realizzazione, a metà anni Sessanta,dei primi Letti in terracotta realizzati in Sardegna.La massiccia quanto definitiva virata verso le produzio-ni “continentali”, ovvero il fissaggio in seconda cotturadegli smalti sul biscotto, quindi l’abbandono del decoro“a freddo”, è avvenuta per Dorgali nel 1984 con Serafi-no Loddo (Dorgali 1938), imitativa della più recente ce-ramica Cerasarda a fondo bianco.Svolta che ha avuto quali precedenti la manifattura DelCarmen, allora con sede a Nuoro, fondata però già ne-gli anni Quaranta a Dorgali da Giuseppe Mula e imple-mentata successivamente dal figlio Giovanni e da Anto-nio Lovicu. Ma la smaltatura a caldo, fissata in secondacottura, era stata affrontata nel secondo dopoguerra an-che da Gian Luigi Mele, residente oggi a Cala Gonone,figlio del pittore dorgalese (anche ceramista) Pietro.I primi torni elettrici, così come pure i forni a gas e poianche elettrici, sono arrivati nei laboratori di Dorgalinella seconda metà degli anni Sessanta.

Note

1. Questa testimonianza, del 14 aprile 2007, è del ceramista SerafinoLoddo. Molte delle informazioni contenute in questo contributo sonostate fornite dalla stessa fonte, presso il laboratorio di via Lamarmora240. Serafino Loddo è subentrato quale responsabile dell’attività pa-terna nel 1948 e sino al 2004, seguito dai fratelli Sebastiano (Dorgali1940) e poi Giovanni (Dorgali 1951); quest’ultimo vi lavora tutt’ora egestisce anche il punto vendita.

2. La famiglia Lovicu ha dato numerose figure di ceramisti: i fratelli An-tonio (Dorgali 1908-1998), anche pellettiere, Maria (Dorgali 1916-1975),Maddalena, già menzionata e sposata con Lorenzo Loi, Sebastiano(Dorgali 1925) e Giovanni Antonio (Dorgali 1927-2001) che ha mante-nuto sino agli anni Novanta un negozio di ceramiche a Nuoro. Le nuo-ve generazioni proseguono oggi l’attività familiare.

286

444

445

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 17:50 Pagina 286

287

446

447 448

446. Paolo Loddo, Maternità, Dorgali, 1947piatto, terracotta da stampo dipinta “afreddo”, Ø 36,4 cm, Quartu Sant’Elena,collezione privata.L’anno di datazione è segnato sul retro.

447. Paolo Loddo, Uovo pasquale, Dorgali, 1947-48scatola, terracotta da stampo dipinta “a freddo”, h 16 cm, Oliena, Hotel Ristorante Su Gologone.Soggetto singolare realizzato in ben 5000 esemplarisu richiesta di un rivenditore nazionale di cioccolato,secondo una prassi di diffusione dolciaria avviata ingrande scala dalla Perugina.

448. Paolo Loddo, Busto femminile con canestro,Dorgali, primi anni Cinquanta sec. XXscatola, terracotta da stampo dipinta “a freddo”, h 21,5 cm, Quartu Sant’Elena, collezione privata.Il soggetto è noto in diverse varianti cromatiche e lievi modificazioni nella forma dei capelli.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 17:50 Pagina 287

288

449449. Paolo Loddo su disegno di Aldo Contini,Piatto, Dorgali, anni Sessanta sec. XXterracotta da stampo dipinta “a freddo”, Ø 39,7 cm, Nuoro, collezione privata.L’artista sassarese Aldo Contini ha disegnatoper l’ISOLA una serie di piatti a soggettosimile, realizzati dalla bottega Loddo.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 17:50 Pagina 288

289

450

451

452

450. Michele Sotgia su disegno di Ubaldo Badas, Versatore zoomorfo, Dorgali, anni Novanta sec. XXterracotta graffita, ingobbiata e invetriata esternamente, h 25,5 cm, Mamoiada, collezione privata.

451. Francesco Pisanu, Cervo, Dorgali, anni Settanta sec. XXterracotta graffita con aggiunte plastiche, ingobbiata e invetriata, h 22 cm, Cala Gonone, collezione privata.Firmato in pasta nel sottopancia.

452. Francesco Pisanu, Cinghiale, Dorgali, anni Settanta sec. XXterracotta graffita, ingobbiata e invetriata, lungh. 27,7 cm, Cala Gonone, collezione privata. Firmato in pasta nel sottopancia.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 17:50 Pagina 289

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 17:50 Pagina 290

291

La scoperta della ceramica e la realizzazione di manu-fatti in terracotta da parte dell’uomo preistorico ha se-gnato un fondamentale cambiamento nei modi di vitafino allora conosciuti, consentendo all’umanità di rag-giungere stadi importanti del suo progresso: in partico-lare per quanto riguarda la conservazione e la cotturadegli alimenti. La produzione di oggetti di uso quotidiano, indispensa-bili e importantissimi nell’ambito domestico, ha caratte-rizzato l’economia, il lavoro, la struttura stessa della vi-ta comunitaria di Pabillonis nel corso della sua storia.Il paese era infatti conosciuto, nel passato e fino a qua-rant’anni fa, in tutte le comunità isolane come sa biddade is pingiadas (il paese delle pentole), per la vastaproduzione di pentole e manufatti in terracotta vendutiin gran parte della Sardegna.1 Sicuramente la tradizionee la professionalità dei figoli e degli artigiani pabillonesirisaliva ad un passato remoto, ma in queste pagine verràtrattata, confortata da documenti di archivio, la produ-zione che va dai primi decenni del secolo XIX fino aglianni Sessanta del Novecento, quando chiude l’ultimamanifattura di ceramica tradizionale, ma anche la storiadella commercializzazione di questi prodotti. I venditoriambulanti con i carri e le donne a piedi si recavano inpaesi anche lontani per vendere porta a porta is pin-giadas e is tianus pabillonesi, contribuendo allo svilup-po di un’attività che per secoli ha caratterizzato il pic-colo paese del Campidano.

Cenni storiciPer comprendere l’importanza delle attività artigianaliper l’economia di Pabillonis, citiamo una preziosa testi-monianza – tratta dalla documentazione dell’archiviocomunale e datata ai primi decenni del 1800 – che regi-stra le lamentele rivolte dagli amministratori alle “Auto-rità Superiori” per essere tutelati dagli “usurpatori” chesi appropriavano con prepotenza dei terreni comunalidove i poveri si recavano a raccogliere le materie primenecessarie per la realizzazione di manufatti prodotti perl’autoconsumo e la vendita «non solo ai circostanti vil-

laggi, ma eziandio ad altri lontani». Una produzione ecommercio, quello di ceste, setacci, stuoie, recipienti ingiunco ecc., che garantiva “somme vistose”, come affer-mato dal sindaco, nella delibera inviata ai rappresen-tanti del Governo, per avere giustizia nei confronti de-gli “usurpatori”. Senza dubbio il settore artigianale piùimportante e caratteristico di Pabillonis, con una pro-fessionalità tramandata da padre in figlio, era quelloche faceva capo alle corporazioni dei pentolai, dei te-golai e fabbricanti di mattoni, che costituivano l’“indu-stria” più rilevante per l’economia del paese. La lavorazione dell’argilla a Pabillonis aveva origini an-tichissime anche se poco si può rilevare dalla docu-mentazione scritta. Da alcune delibere comunali deiprimi anni del secolo XIX si desume che questa attivitàprogrediva nella produzione e nella commercializza-zione, provocando qualche preoccupazione negli am-ministratori a causa delle grandi quantità di legname dicui questi artigiani necessitavano, «i quali consumanopiù legna loro nelle rispettive professioni che il Comu-ne in tutto l’anno per proprio uso».2

I forni per la cottura dei manufatti di terracotta doveva-no infatti raggiungere una temperatura molto elevata,per mantenere la quale era necessario l’impiego digrandi quantitativi di combustibile. Si stabilì pertanto,come si evince da una delibera del 1827, che fosseproibita agli artigiani la raccolta della legna della strovi-na3 comunale e venne proposto che essi prendesseroin appalto a questo scopo un appezzamento di terrenonei boschi di Gonnosfanadiga e Guspini. La decisione comunale aveva lo scopo di impedire ladistruzione della riserva di legna nei terreni di uso co-munitario anche perché un altro fattore ne metteva a ri-schio la salvaguardia: l’Editto delle Chiudende del 1820,che permetteva la chiusura, con siepi e fossi, anche diterreni comunali, precludendo quindi l’utilizzo colletti-vo (soprattutto per pascolo e approvvigionamento dilegname) di questi beni. I pentolai e tegolai erano descritti come «individui dipessima qualità, inutili per ogni sorta d’impieghi».4 Que-sto giudizio era dettato probabilmente dal fatto che gliartigiani – riuniti in corporazione e legati tra loro damotivi di interesse – erano consapevoli dell’importanza

I pentolai di PabillonisDario Frau

453. La manifattura di Giuseppe Piras, Pabillonis 1931, (particolare della fig. 454).453

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 19:15 Pagina 291

454. La manifattura di Giuseppe Piras, Pabillonis 1931, Pabillonis(foto archivio eredi Piras).Questo eccezionale documento fotografico testimonia la produzioneceramica della manifattura Piras in termini di quantità e tipologie. Il proprietario, Giuseppe Piras, è l’uomo in alto al centro; le altrepersone sono collaboratori e familiari coinvolti nella produzione,come la moglie Emilia Garau che tiene in braccio il figlio Alfredo. La donna sulla destra porta un’intera serie di pentole, sa cabiddada.

economica che la loro produzione rivestiva e dunque siritenevano superiori a chi svolgeva attività legate all’agri-coltura e alla pastorizia. Pur appartenendo infatti alleclassi sociali più basse, in un’economia basata soprattut-to sullo scambio e il baratto, loro venivano pagati in da-naro, cosa che gli garantiva un certo benessere, certa-mente superiore a quello di cui godevano i lavoratori diambito agropastorale. L’essere considerati «inutili perogni sorta di impieghi» era dettato sicuramente dal me-tro di giudizio che si aveva nella comunità agricola deltempo: il vero lavoratore era il contadino, su messaiu.A parte queste premesse, almeno fino agli anni Quaran-ta dell’Ottocento, nonostante le disposizioni del sindaco,i tegolai e pentolai non desistettero dal procurarsi la le-gna per il forno dalle strovine comunali. Nel 1837, sicontavano 20 pentolai,5 a questi bisognava aggiungeregli aiutanti, perlopiù ragazzi e donne, che davano unamano a preparare l’argilla, i carrettieri che trasportavanola materia prima dalle cave, i legnaioli che procuravanole fascine per il forno e i venditori che si recavano neglialtri paesi per vendere il prodotto finito. Per poter ri-spondere a un Reale decreto richiesto dall’IntendenteProvinciale, il consiglio comunale dovette comunicare inominativi «degli individui esercenti gli uffici pubblici efacoltà d’arti», e da questo documento si evince che nel-l’anno 1850 il “terziario”, nel villaggio di Pabillonis, eraben sviluppato. Dalla lista compilata dagli amministratoririsultavano: 4 negozianti al minuto (“merciai”), 4 “ferre-ri”, 3 “maestro di muro”, 5 “osti”, 5 “fabbricanti di acquavite”, 5 “falegnami in grosso”, 4 “fabbricanti di mattoni etegolai”, e ben 13 “fabbricanti di vasellame” nelle per-sone di: Raimondo Porcu, Stefano Melis, Antonio Mur-gia, Luigi Erdas Sida, Pietro Casula, Giov’Antonio Fenu,Antonio Casula, Sisinio Ollosu Fanari, Salvatore Serra,

292

454

455

455-456. Tegame, Pabillonis, 1920-30terracotta graffita e invetriata internamente, Ø 38,3 cm; coperchio in terracotta invetriata esternamente, Ø 37,3 cm, Pabillonis, collezione privata.Questo manufatto è tradizionalmente denominato tianu.Dotato di quattro manici, questo esemplare è straordinario per dimensioni.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 19:15 Pagina 292

456

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 17:51 Pagina 293

Antonio Tenas, Antonio Casti, Luigi Troncia e GiuseppeArdu.6 Come si vede, il numero degli artigiani dediti allaproduzione di pentole, insieme a quella dei tegolai efabbricanti di mattoni, rappresentava un’importante real-tà sociale ed economica per il paese. Nel 1853 si giunse a stipulare un importante contrattotra alcuni artigiani e l’Amministrazione comunale per re-golare l’attività manifatturiera.7 Furono convocati davantial sindaco i tegolai Giuseppe Melis, Francesco Accossu,G. Pinna ed Isidoro Dessì per la firma di un contrattoconcernente la concessione di un pezzo di terreno percostruire un forno e alcune clausole per il commercio ditegole e mattoni. Il Comune concedeva un appezza-mento di terreno per il periodo di 10 anni, con la garan-zia che se qualcuno degli artigiani avesse abbandonato

il mestiere restava comunque possessore della parte delforno costruito. Si stabiliva che gli abitanti del villaggioavessero la precedenza per l’acquisto di mattoni e tego-le; passati quattro giorni dallo “sfornamento” il materialepoteva essere smerciato negli altri paesi. La precedenzaaccordata alla comunità era necessaria per evitare even-tuali abusi da parte dei tegolai che, spinti dall’interessedi vendere ai paesi vicini a prezzi più alti, avrebberopotuto trascurare i compaesani. Uno dei problemimaggiori riguardava l’approvvigionamento del legnameper l’alimentazione del forno: quasi sempre gli artigianilo acquistavano nei paesi limitrofi, in particolare Guspi-ni e Gonnosfanadiga, pagandolo con tegole e mattoni.Questa prassi era in effetti sancita da una clausola delcontratto sopra citato, in cui si stabiliva che i tegolai non

294

457

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 17:51 Pagina 294

295

458

459

457. Pentola, Pabillonis, 1940-50terracotta graffita e invetriatainternamente, Ø 36 cm, Pabillonis, collezione privata.La pentola, chiamata pingiadamanna (pentola grande), èinvetriata anche sui manici. Presenta il timbro in pasta dellamanifattura Floris Giovanni e LivioCois: FGLC stoviglie Pabillonis.

458. Pentola (pingiada), Pabillonis, inizio sec. XXterracotta invetriata internamente, Ø 26,5 cm, Busachi, Su collegiu,collezione Civica di Etnografia.La pentola è timbrata in pasta:FGLC stoviglie Pabillonis.

459. Pentola, Pabillonis, 1940-50terracotta invetriata internamente, Ø 23,5 cm, Pabillonis, collezione eredi Piras.La pentola di questa misura (sa segunda), leggera e sottile ma molto capiente, era la piùutilizzata: veniva infatti impiegataper la cottura dei legumi, per ilbollito e per riscaldare l’acqua.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 18:08 Pagina 295

461

460

462

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 17:51 Pagina 296

297

463 464

465 466

460. Pentola, Pabillonis, 1940-50terracotta invetriata internamente e sui manici, Ø 29 cm, Pabillonis, collezione eredi Piras.Si tratta di una pingiada manna, secondo la denominazione locale.

461. Pentolino, Pabillonis, inizio sec. XXterracotta invetriata internamente, Ø 13,4 cm, Pabillonis, collezione eredi Piras.È la misura più piccola, chiamata sa quinta o coia cinqui de sa cabiddada.

462. Pentolino, Pabillonis, inizio sec. XXterracotta invetriata, Ø 14,5 cm, Pabillonis, collezione privata.Si tratta della misura più piccola, manufatto realizzato solo surichiesta e a volte “impreziosito” dall’invetriatura anche esterna.

463. Pentolino, Pabillonis, inizio sec. XXterracotta invetriata internamente, Ø 16,5 cm, Pabillonis, collezione eredi Piras.

464. Pentolino, Pabillonis, inizio sec. XXterracotta invetriata internamente, Ø 13 cm, Pabillonis, collezione privata.

465. Pentola, Pabillonis, 1940-50terracotta invetriata internamente, Ø 23,5 cm, Pabillonis, collezione eredi Piras.

466. Pentolino, Pabillonis, 1940-50terracotta invetriata, Ø 16,3 cm, Pabillonis, collezione privata.Questa piccola pentola, realizzata solo su richiesta, è invetriataanche esternamente.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 17:51 Pagina 297

potevano vendere quantitativi di materiali superiori alvalore della legna avuta. Scrupolosi controlli da partedell’Amministrazione soprintendevano le operazioni discambio per verificarne la correttezza: ai trasgressori ve-niva applicata una multa di lire 1 ogni cento mattoni etegole in più della quantità consentita. È evidente chequesti accorgimenti e regolamentazioni dell’Amministra-zione comunale se da un lato servivano a favorire l’inte-resse della comunità, dall’altro frenavano le vendite,vincolate da restrizioni che soffocavano un più ampioliberismo commerciale. Non tutto il contratto contene-va clausole limitanti per gli artigiani: l’Amministrazionecomunale garantiva loro sostegno e aiuto in caso diproblemi nello smercio dei prodotti. Al tegolaio potevaaccadere infatti di trovarsi con qualche grossa scortainvenduta; in quel caso si poteva recare, per avere qual-che aiuto, dal sindaco che, tramite bando pubblico aspese del Comune, informava le comunità dei paesi vi-cini della disponibilità del materiale. Il prezzo era cosìstabilito: lire 2 e centesimi 88 per ogni cento tegole e li-re 2 e centesimi 40 per ogni 100 mattoni. La convenzio-ne stipulata dal Comune riguardava esplicitamente i te-golai e i fabbricanti di mattoni, ma anche i pentolai e ilavoratori al tornio lavoravano a pieno ritmo. Un’attività,in effetti, che aveva i suoi buoni margini di profitto egarantiva una certa agiatezza e una buona disponibilitàdi contanti, come ampiamente riscontrato dai documen-ti comunali del periodo.8

Testimonianze letterariePer tutto l’Ottocento e i primi del Novecento l’attivitàdei pentolai non conobbe sosta e oltre alle testimonian-ze dell’archivio comunale si ha qualche notizia dai gior-nali del tempo. Vittorio Angius, compilatore delle vociinerenti la Sardegna nel Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sarde-gna di Goffredo Casalis, nel 1846 scrive: «In Pabillonis,come ne’ prossimi paesi di s. Gavino e Guspini e inquello di Pau, si fabbricano tevoli, mattoni, quadrelle,brocche, pentole e altre sorta di stoviglie, delle qualiopere, che sono domandate da tutte le terre d’intorno,si ha un lucro notevole, sebbene le medesime sieno dimolta rozzezza … Quello che si ottiene dalla venditadegli articoli agrari e pastorali, e dalla industria dellegrossolane stoviglie, non si può nell’ordinario calcolarea più di lire nuove 40000. Vendesi più spesso a’ terral-besi, che ad altri negozianti».9

Ma già nel 1839 il Della Marmora così scriveva a pro-posito del vasellame all’epoca prodotto nell’Isola: «Daalcuni anni si è cominciato a fabbricare vasellame gros-solano: i luoghi dove si fa questo lavoro sono Nurallao,Oristano, Pabillonis, Decimo, Assemini; negli ultimiquattro luoghi si usa la terra del Campidano, apparte-nente al terreno alluvionale: queste fabbriche non ba-stano affatto al consumo della popolazione dell’isolache continua a trarre da Napoli e dalla riviera di Geno-va la maggior parte degli utensili di terra anche i più

grossolani: questa industria potrebbe prendere in Sarde-gna uno slancio considerevole se si mettessero a profit-to le diverse qualità di terra di cui l’isola è fornita in ab-bondanza».10 Nella seconda metà dell’Ottocento alcuniautori italiani offrono la Sardegna alla conoscenza gene-rale nei suoi molteplici aspetti economici e sociali, tra iquali l’attività dei figoli. «A Nurallao, Oristano, Pabillo-nis, Assemini si formano stoviglie grossolane; ma la ter-ra che si usa è suscettibile di un vasellame più fino»,scrive Giuseppe Torchiani nel 1856 in L’isola di Sarde-gna e le sue naturali produzioni.11

Qualche riferimento all’attività ceramica si trova poi inLe cento città d’Italia, supplemento mensile illustratodel Secolo del giugno 1899: «Oristano non è un paeseindustriale … Fiorenti abbastanza sono invece le picco-le industrie … come la ceramica. Le stoviglie arcaica-mente foggiate, ma di un eccellente materiale, di Ori-stano e Pabillonis sono ricercatissime in tutta l’Isola esarebbero ben a ragione apprezzate anche fuori se in-dustriali di buona volontà sapessero smuovere l’inerziaaccidiosa ed impiantare delle vere fabbriche con meto-di moderni e razionali».12 Ancora il catalogo dell’Esposi-zione romana del 1911 – dove tra i manufatti seleziona-ti per la mostra vi era anche un significativo nucleo diceramiche pabillonesi – riporta: «La fabbricazione delleterraglie rustiche è diffusa in tutta l’isola, ma più spe-cialmente a Oristano, Dorgali, Assemini, Pabillonis, De-cimo, San Sperate, Nurallao. L’argilla sarda è eccellentee di diversi colori. Imeroni rileva che “le argille di Asse-mini e Oristano hanno la tinta rosso-bruna, Pabillonisrosso vivo, Tortolì e Nurallao, ecc. … bianche e Dorgalidi varie tinte. I forni per le terraglie semplici sono an-cora molto antichi, sono riscaldati a legna. Ad Asseminisi fa una cottura unica con vasi già verniciati, mentread Oristano e Pabillonis si fa una prima cottura e dopola verniciatura si fa la ricottura definitiva”».13

Una tradizione plurisecolare?Le sopramenzionate citazioni testimoniano senza om-bra di dubbio l’importanza acquisita da Pabillonis nelsettore della produzione delle terrecotte di uso comu-ne, rimarcata dalla fama che questa aveva nell’Isola edal numero consistente degli operatori del settore; ri-mane ancora da chiarire a quando risale questa tradi-zione. Elementi importanti come la qualità e l’abbon-danza della materia prima, l’abilità degli artigiani e lepeculiarità delle pentole e dei tegami particolarmenteresistenti al fuoco fanno pensare che questa tradizionerisalga a un lontano passato.Da recenti studi si evince infatti che Pabillonis nel perio-do tardo romano fosse addirittura il centro di produzio-ne mediterranea della ceramica da cucina. O almeno,sono queste le ipotesi che stanno prendendo forma se-condo le ricerche sul campo condotte nel 2006 da alcunistudiosi che hanno compiuto delle indagini sui campio-ni d’argilla prelevati dal territorio del paese, su antichimanufatti e sulla documentazione storica in possesso

298

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 17:51 Pagina 298

del Comune e di privati cittadini. Un lavoro puntualesviluppato all’interno di un progetto bilaterale italo-spa-gnolo, finanziato dai rispettivi ministeri competenti(MIUR e MEC), che ha come oggetto lo studio della ce-ramica da cucina tardo-antica (V-VII secolo d.C.), mo-dellata a mano o al tornio lento e commercializzata nelMediterraneo occidentale (Spagna, Africa settentrionale,Baleari, Francia, penisola italiana, Corsica, Sardegna, Si-cilia). Il progetto è coordinato per la Spagna dal prof.Miguel Angel Cau Ontiveros (ICREA – Università di Bar-cellona) e per l’Italia dalla prof.ssa Sara Santoro (Univer-sità di Parma, parte archeologica) e dal prof. GiuseppeMontana (Università di Palermo, parte archeometrica edanalisi di laboratorio). Secondo il ricercatore spagnolo«tra le produzioni di ceramica da cucina nella tardo-anti-chità vi sono almeno tre tipologie per cui le analisi dilaboratorio sinora effettuate consentono di ipotizzareche una delle possibili aree di produzione sia localizzatain Sardegna». Studi più recenti hanno proposto per il ti-po di pentola dal profilo semisferico con manico ad“orecchio”, caratterizzata da finitura superficiale a stecca,l’area corrispondente all’entroterra del Golfo di Oristano,prossimo al Monte Arci, grazie alla presenza nell’impa-sto di abbondanti frammenti di ossidiana (e altri minera-li e granuli litici di natura magmatica) che le microanalisichimiche al microscopio elettronico hanno permesso diattribuire con certezza al sopraccitato complesso vulca-nico. Il territorio di Pabillonis, frequentato sin dal Neoli-tico, è cosparso di ossidiana, soprattutto nelle cave diDomu e Campu per l’estrazione dell’argilla. Sulla base di queste premesse, inoltre, gli stessi studio-si, prendendo spunto dalla nota produzione locale diceramica da fuoco, intendono intraprendere un artico-lato percorso “etno-archeologico” che al tempo stessoconsenta, attraverso analisi mineropetrografiche e chi-miche, di contraddistinguere le caratteristiche prevalentidella composizione dei manufatti e della materia primalocale. Il professor Montana ha infatti dichiarato che«l’intento è quello di verificare l’esistenza, al momentosolo ipotizzata, di una corrispondenza tecnologica perciò che riguarda la manifattura di impasti refrattari tral’importante tradizione ceramica di Pabillonis e una, an-cora più antica, che trova le sue radici nella tardo-anti-chità sarda».

I pentolai del NovecentoFino agli anni Sessanta del secolo appena trascorso, esi-stevano a Pabillonis diversi laboratori di pingiadaius(pentolai). Alcuni di questi – Giuseppe Caboni, Peppi Pi-ras, Tigellio Lisci e Giovanni Floris – gestivano un’azien-da affermata, con solidi capitali finanziari e operai alleloro dipendenze. Più numerosi erano però coloro cheavevano un’attività a conduzione familiare: l’uomo dicasa si occupava della preparazione dell’argilla, dei la-vori al tornio, della verniciatura o smaltatura e della cot-tura degli oggetti, mentre la moglie e i figli fungevanoda aiutanti di laboratorio. Questo tipo di produzione era

abbastanza diffusa nel paese: bastava avere un tornio,un forno e dei piccoli locali (magazinus o stabis in lar-diri) per avviare un’azienda di pentole.14

Luigino Steri, nato nel 1893, aveva appreso il mestieredal padre Cesarino nel vecchio laboratorio, situato trala via Umberto I e la via Carducci, che comprendeva: lacasa di abitazione, un locale per il tornio e spazi perconservare sa de orbezzu (argilla di cava da mettere inammollo in una vasca)15 e la legna. Steri aveva 6 figli,cinque maschi e una femmina, un unico figlio, Giusep-pe noto Pino, seguì le orme paterne e si specializzò altornio. Il sistema di lavorazione delle pentole era ugua-le a quello degli altri artigiani: si prelevava l’argilla nelmese di settembre (perché era più asciutta) nelle cavedi Domu e Campu (nel terreno di Pasqualino Saba) cheveniva trasportata in paese con un carro e sistemata inun locale, sa domu de sa terra, in modo di avere laprovvista per tutto l’anno. Nel laboratorio il sistema diproduzione era ben collaudato: mestu Luigino prepara-va l’argilla, lavorava al tornio e si occupava della verni-ciatura e della cottura delle pentole e tegami. I figli aiu-tavano sistemando gli oggetti ad asciugare, mentre lamoglie, Rosa Putzolu, mescolava sa stangiadura (l’ossi-do di piombo con sa perda de fogu ridotta in polvere).

299

467

467. Interno del laboratorio della manifattura di Giuseppe Piras a Pabillonis, 1979 (foto Herman Geertman, archivio M.B. Annis).La donna all’interno del laboratorio è Ausilia, figlia di GiuseppePiras, abilissima torniante.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 17:51 Pagina 299

L’ossido di piombo veniva acquistato a Cagliari, giàpronto in panetti da 15 chilogrammi e bastava per 150pezzi. Il laboratorio aveva un solo forno e in un mesel’artigiano faceva 2-3 infornate (per ciascuna era neces-sario l’acquisto di tre carri di legna), sufficienti per ga-rantire il sostentamento della famiglia. Anche la venditaseguiva le consuetudini delle altre botteghe paesane:erano le donne (si ricordano in modo particolare As-sunta Atzori, Giovannica Pilloni e Anna Sulcis) ad ac-quistare le cabiddadas e rivenderle. Periodicamente uncarico di pentole e tegami, ben preparato in appositeceste di canne e vimini, veniva inviato, in treno, a Sas-sari presso un commerciante di origini pabillonesi,Francesco Montis. Luigino Steri era un fornaciaio parti-colarmente abile, veniva infatti chiamato spesso da altripentolai che, per quanto abili al tornio, non eranoesperti nella fase di cottura che richiedeva attenzione ecapacità, pena, al minimo errore, la perdita dell’inforna-ta. Nel 1933 l’artigiano si trasferì con tutta la famiglia aCagliari sotto le dipendenze di Onorio Gallus, un riccoimprenditore che aveva fatto costruire un forno a legnaper produrre pentole in via Sant’Avendrace. Restò quidue anni, insieme ai compaesani Renato Cherchi e Pie-trino Serpi e, sebbene fosse ben retribuito per il lavoroche svolgeva, nel 1935 tornò in paese e riaprì la suabottega. In particolari situazioni e quando le richieste dimercato erano maggiori, nel laboratorio di Steri lavora-vano anche Giovanni e Luciano Vinci; oltre alle pentolee ai tegami, su richiesta venivano prodotte anche altrestoviglie: servizi da caffé, ciotole varie, vasi e tegamiparticolari, come quello per cuocere le zeppole. L’attivi-tà di Luigino Steri si concluse nel 1956;16 proseguita so-lo per pochi anni dal figlio Pino.17

Tra i laboratori artigiani a carattere familiare esistenti aPabillonis quello di Antonio Ghiani (nato nel 1902), atti-vo in via Umberto I, si discostava dalla produzione abi-tuale realizzando oggetti diversi da pingiadas e tianus.Sicuramente il motivo di tale peculiarità produttiva eradovuta al periodo da lui trascorso ad Oristano tra glianni Venti e Trenta, nel laboratorio di ceramica di Fran-cesco Montis, artigiano di origini pabillonesi che avevachiamato presso di sé alcune maestranze del suo paese. Un campionario della produzione di Ghiani è attestatoda una vecchia foto degli anni Trenta (1935) dove sonoriconoscibili marigas e cungiobeddus con manici deco-rati, servizi da caffé e statuine di santi. Il figlio Luigiconserva, della vasta produzione paterna, qualche pen-tola del tipo “Sicilia” (pentola smaltata dentro e fuori edi forma allungata). Questo tipo di particolari manufatti,fuori dalla produzione tradizionale di Pabillonis, erasupportato da una buona fortuna di mercato: erano nu-merosi i clienti, soprattutto di altri paesi, che venivanoad acquistare direttamente in bottega. L’attività del Ghia-ni a Pabillonis durò fino al 1939 poi, a causa di traver-sie famigliari, fu trasferita a Guspini, dove continuò consuccesso la produzione fino al 1963 quando si stabilìad Oristano.18

Giovanni Caboni, nato a Pabillonis il 1892, era uno deipiù grandi pentolai operanti in paese nella prima metàdel Novecento. Il suo laboratorio nella via Lamarmoracomprendeva varie e vaste strutture (tra cui due fornipiccoli e uno grande) in cui lavoravano diversi dipen-denti. Sposato con Giuseppina Spiga, ebbe quattro figli:Virginia, Iole, Pierino e Franceschino noto Chichino. Giovanni Caboni era un torniante esperto e capace e so-printendeva a tutte le fasi più importanti della produzio-ne; la moglie si occupava prevalentemente della prepa-razione della stangiadura e Chichino insieme ad alcunidipendenti (Pietrino Serpi, Aurelio e Giannetto Montis,Virgilio Frau) lavorava al tornio. Gli operai (MaurizioManca, Pietro Piras, Francesco Serra) trasportavano epestavano l’argilla e procuravano la legna per il forno.Un carrettiere inoltre, Francesco Figus, si occupava deltrasporto delle pentole che venivano consegnate neinegozi di diversi paesi dell’Isola. L’attività di pentolaioprocurò benessere e prosperità a Giovanni Caboni; lasituazione però cambiò repentinamente nel dopoguer-ra: su mestu morì nel 1948 e il figlio Chichino volle mo-dernizzare l’azienda sostituendo il forno a legna, diven-tato antieconomico, con uno a nafta. Diversi fattoricontribuirono al declino dell’attività: il nuovo sistema dicottura, il mercato che non tirava più come un tempo ei debiti contratti per ristrutturare e modernizzare l’azien-da portarono presto alla chiusura. Per far fronte ai cre-ditori furono venduti alcuni immobili e i fratelli Cabonidovettero lasciare il paese per cercare lavoro.19

Antonio Giuseppe Cossu svolgeva l’attività di pentolaioalternandola con quella di agricoltore. Aveva il suo la-boratorio e un forno nel cortile della casa di via Argio-las. Solo la moglie Desolina l’aiutava nella preparazionedel forno e nella verniciatura delle pentole e tegami.Un’infornata al mese bastava per tirare avanti la fami-glia. Nella stagione invernale, dopo la cottura dellepentole, come capitava anche negli altri laboratori, ipoveri del vicinato chiedevano la brace e il carbone re-sidui. Lo smercio del prodotto seguiva la stessa consue-tudine delle altre botteghe: la moglie Desolina con altredonne si spostava nei diversi paesi e tornava a casa so-lo dopo aver venduto l’ultima pentola. Antoi Pepi con-tinuò l’attività fino al 1939 quando, all’età di 70 anni, locolse un ictus mentre lavorava.20

Una società vera e propria per produrre pentole fucreata nei primi anni Quaranta da Giovanni Floris di Pa-billonis e Livio Cois di Cagliari. Il primo mise a disposi-zione i locali, i magazzini, il forno e tre torni; Cois il ca-pitale finanziario di 100.000 lire. Non essendo espertinella lavorazione dell’argilla assunsero nell’azienda Au-relio Montis, uno dei più bravi tornianti del paese, alcu-ni operai per trasportare l’argilla, pistai sa terra e procu-rare la legna per il forno ed altri operai specializzatinella stangiadura e nella cottura dei manufatti. L’inizia-tiva funzionò a meraviglia e le pentole prodotte, con ilmarchio “FGLC (Floris Giovanni Livio Cois) stoviglie Pa-billonis”, venivano smerciate con facilità nel mercato

300

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 17:51 Pagina 300

468

469

470

468. Tegame, Pabillonis, 1940-50terracotta invetriata internamente, Ø 22 cm, Pabillonis, collezione eredi Piras.La forma di questo tegame è di derivazione ligure; in Sardegna ci fu una larghissima diffusione di ceramiche provenienti dallaLiguria, soprattutto piatti e pentole.

469. Tegame, Pabillonis, 1940-50terracotta graffita e invetriata internamente, Ø 27 cm, Pabillonis, collezione eredi Piras. Il tegame, su tianu, presenta una fascia centrale decorata con unarotella; questa dimensione è indicata come coia dusu (cottura due).

470. Tegame, Pabillonis, 1940-50terracotta invetriata internamente, Ø 34,5 cm, Busachi, collezione privata.Questo particolare manufatto, utilizzato esclusivamente a Busachiper la preparazione di una pietanza, su succu, a base di pasta cottanel brodo, stufata con formaggio acidulo e condita con zafferano,testimonia la consuetudine delle manifatture di Pabillonis direalizzare ceramiche esulanti dalla normale produzione, suparticolare richiesta della clientela.

isolano. Il Floris morì nel 1945 ma il laboratorio noncessò di produrre: il sovrintendente Emidio Matta presein mano l’azienda e mandò avanti la produzione consuccesso fino alla metà degli anni Cinquanta – come di-mostrano anche i libri contabili conservati dagli eredi –,quando, con il “boom economico”, il ferro smalto, l’al-luminio e soprattutto la plastica decretarono la fine del-le stoviglie in terracotta.21

Anche Tigellio Lisci, classe 1902, non era un esperto altornio ma possedeva un avviato laboratorio artigiano distoviglie. La sua attività ebbe inizio nel cortile della vec-chia casa padronale situata nel centro storico, in vicoCicerone, ora vico San Giovanni. Per mandare avanti illaboratorio assunse un ottimo torniante, Demetrio Ona-li e diversi operai (tra i quali Ugo Porcu che vi lavoròper parecchi anni). Gli affari andavano a gonfie vele,perciò il Lisci decise di prendere in gestione un labora-torio più grande, di proprietà di Francesco Montis, neipressi della strada che portava alla stazione ferroviaria.La produzione continuò con successo, tanto che furonoassunti nuovi dipendenti: Aurelio Montis, Antonio Pin-na e Narciso Fanari. Alla fine degli anni Quaranta peròl’attività ebbe termine e Tigellio Lisci si trasferì a Caglia-ri per cercare lavoro come dipendente.22

L’ultimo pentolaioGeneralmente gli artigiani del paese si tramandavano laprofessione di padre in figlio, ma qualche torniante piùabile degli altri, pur non avendo capitali, riusciva a met-tersi in proprio aprendo una sua manifattura. È il casodi Costantino Piras, meglio conosciuto come Giuseppe,uno dei più grandi imprenditori nel settore della terra-cotta, con produzione di pentole, tegami, boccali e te-gole, che per circa cinquant’anni – dai primi anni Ventie fino a metà degli anni Sessanta – monopolizzò questaattività, creando a Pabillonis un polo produttivo che ri-chiamava acquirenti da ogni parte della Sardegna. Natonel 1897, fin da giovanissimo apprese l’arte nella bottegadella famiglia Caboni, dove, assunto inizialmente comeservo pastore, si dilettava a realizzare qualche oggetto altornio osservando e imitando gli artigiani. Stupito dallabravura del ragazzo, il Caboni lo tenne con sé nel labo-ratorio e gli insegnò i segreti del mestiere. Ben prestoPiras divenne un abilissimo torniante e un esperto nelciclo lavorativo degli oggetti in terracotta. Allo scoppiodella prima guerra mondiale il promettente artigiano do-vette partire al fronte dove fu decorato con la medagliadi bronzo al valore e la croce al merito. Una volta rien-trato in paese Piras decise di mettersi in proprio; graziead alcuni prestiti, ottenuti da persone di fiducia, acqui-stò un terreno (tra l’attuale via Roma e la via Rinascita)con una piccola casetta dove costruì il forno per le pen-tole e i locali da adibire a laboratorio. I primi tempi nonfurono certamente facili, con pochi mezzi a disposizionedovette infatti sacrificare alquanto per avviare la nuovaattività, e inoltre la giovane moglie, una parente del Ca-boni, morì di parto alcuni mesi dopo il matrimonio.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 18:39 Pagina 301

302

471

472

471. Tegame, Pabillonis, 1930-50terracotta invetriata internamente, Ø 23,3 cm, Cagliari, collezione privata.Manufatto molto sottile nei bordi, terza misura, sa terza, utilizzatosoprattutto per preparare il sugo. Presenta il timbro in pasta sigla della manifattura Floris Giovanni e Livio Cois: FGLC stoviglie Pabillonis.

472. Tegame, Pabillonis, 1930-50terracotta invetriata, Ø 23 cm, Cagliari, collezione privata.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 18:39 Pagina 302

303

473

474

473. Tegame, Pabillonis, 1930-50terracotta invetriata internamente, Ø 29 cm, Pabillonis, collezione privata.Tegame (su tianu mannu), utilizzato per la preparazione de sa cassoba (spezzatino) e del sugo.

474. Tegame, Pabillonis, 1930-50terracotta invetriata internamente, Ø 23,3 cm, Cagliari, collezione privata.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 18:39 Pagina 303

Nel giro di alcuni anni, grazie alla tenacia e alle sor-prendenti capacità di imprenditore, l’attività di pentola-io incominciò a dare i suoi frutti; i lutti però funestaro-no ancora la sua vita privata: anche la seconda moglie,Elvira Melis, morì di parto. Alla fine degli anni Venti Pi-ras contrasse un nuovo matrimonio con Emilia Garau,che nel 1929 diede alla luce un figlio, Alfredo, che mo-rì all’età di un anno.L’azienda nel frattempo aveva raggiunto una dimensio-ne considerevole e nei primi anni Trenta contava quat-tro tornianti, dieci lavoranti che aiutavano a prepararel’argilla, a smaltare, ad infornare, ed un’altra decina fralegnaioli ed aiutanti vari. I carri provenienti da moltipaesi della Sardegna, insieme a quelli dei venditori lo-cali, si mettevano in fila per attendere il loro carico, e“Mestu Peppi”, così veniva chiamato da tutti, presiede-va personalmente a questa operazione, coadiuvato dal-la moglie Emilia, “Sa Sennoredda”. In questo periodo,oltre alla produzione di pentole e tegami, era in pienaattività anche la produzione delle tegole che, grazie al-l’apporto dell’artigiano Maurizio Manca, raggiunse unbuon livello di specializzazione e un giro d’affari rag-guardevole. Gli anni Trenta segnarono due avvenimentimolto importanti: la nascita delle figlie Emma (1931) edAusilia (1934), e la malattia del Piras, che fece rallentarela produzione dell’azienda, che fu addirittura sospesa

per due anni nel settore delle tegole. L’utilizzo frequen-te del minio (ossido di piombo) e della pedra di fogu(silice) nelle operazioni di smaltatura o invetriatura (sastangiadura), effettuata per rendere pentole e tegamilucidi e impermeabili, minava inesorabilmente la salutedei figoli. Questa delicata operazione era riservata agliartigiani più competenti e capaci; Piras la effettuavaquasi sempre in prima persona, assistito da una colla-boratrice che gli versava con un mestolo il minio all’in-terno della pentola o del tegame mentre lui con un ra-pido e preciso movimento rotatorio spargeva il liquidoall’interno e lungo i bordi del manufatto. La malattiaprofessionale provocata dall’ossido di piombo più tardicolpì anche le figlie – fin da bambine inserite nel fatico-so ciclo produttivo dell’azienda –, abilissime coadiuvan-ti ed espertissime al tornio. Piras conosceva il mestiere in tutte le sue fasi e addirit-tura sapeva individuare, da piccole particolarità, chiaveva realizzato, fra i vari tornianti, le pentole e i tega-mi che al momento della cottura nel forno si spaccava-no, e li redarguiva aspramente. Un uomo dal caratteredifficile, sicuramente indurito dalle numerose traversiepersonali, e consapevole della complessità del suo la-voro, che richiedeva massima attenzione nelle diversefasi operative e capacità imprenditoriali non indifferenti.Lui stesso presenziava ed effettuava il carico del forno,

304

475 476

477 478

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 18:39 Pagina 304

stabiliva la quantità di legna che occorreva e verificavail punto di cottura delle pentole, il periodo di raffredda-mento e il ritocco (effettuato con polvere di argilla eminio) degli oggetti eventualmente resi difettosi dalfuoco. La sua abilità era manifesta anche in oggetti cherealizzava solo su richiesta o per suo diletto: servizi dacaffé, vasi, statuine di santi e tanti altri manufatti che ri-velavano anche una certa primitiva sensibilità artistica.E fu per l’insieme di queste caratteristiche che l’attivitàproduttiva di Peppe Piras garantì sempre la massimaqualità e perfezione, assicurandogli profitti altissimi. I tor-nianti che stavano alle sue dipendenze erano i meglioretribuiti, motivo per il quale gli artigiani più abili sce-glievano di lavorare per Piras. Fra i tanti ricordiamo Au-relio Montis, il fratello Giannetto, Demetrio Onali e Vir-gilio Frau che venivano pagati a cabiddada (una seriedi quattro pentole o tegami di diversa misura). Il Piras una volta accumulato un certo capitale iniziò ainvestire in altri settori, tra cui l’agricoltura e l’alleva-mento. Acquistò infatti diversi ettari di terreno e assun-se alle sue dipendenze braccianti agricoli per lavorare icampi e alcuni pastori per accudire diverse centinaia dicapi, tra ovini e bovini. I suoi affari spaziarono anchein altri settori: va menzionata la costruzione di un mo-lino e di un caseificio, che però non ebbero la stessafortuna commerciale della manifattura delle pentole.

479

480

475. Tegame, Pabillonis, 1930-50terracotta invetriata internamente, Ø 28 cm, Busachi, Su collegiu, collezione Civica di Etnografia.

476. Tegame, Pabillonis, 1930-50terracotta invetriata internamente, Ø 21,4 cm, Pabillonis, collezione eredi Piras.

477. Tegame, Pabillonis, 1930-50terracotta invetriata internamente, Ø 18 cm, Pabillonis, collezione privata.

478. Tegame, Pabillonis, 1930-50terracotta invetriata internamente, Ø 18,4 cm, Cagliari, collezione privata.

479. Scolapasta, Pabillonis, 1940-50terracotta ingobbiata e invetriata internamente, Ø 27 cm, Pabillonis, collezione privata.Il manufatto è definito nella parlata locale scobamaccarronis.

480. Coperchio, Pabillonis, ante 1908terracotta invetriata, Ø 18,7 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 18:39 Pagina 305

Alla fine degli anni Cinquanta la produzione degliutensili di terracotta incominciò ad entrare in crisi e ilsopraggiungere di problemi familiari spinse il Piras arallentare la produzione. Nel 1967, alla morte della pri-mogenita Emma, preceduta dal matrimonio di Ausilia,Peppi Piras, fortemente minato nella salute, si arrese echiuse definitivamente l’attività. Nove anni dopo, nel1976, morì a 79 anni di età.

Il commercio delle pentoleL’industria delle pentole coinvolgeva un gran numerodi persone. Quasi tutte le famiglie di Pabillonis ruota-vano intorno a questa attività. Oltre ai tornianti, al per-sonale addetto ai forni, al trasporto dell’argilla e dellalegna, un settore importante era rappresentato dall’in-dotto inerente la commercializzazione dei manufatti.Per soddisfare la richiesta del mercato isolano e riforni-re le famiglie di questi indispensabili utensili da cucinauna buona parte della comunità pabillonese era mobili-tata ed organizzata nel settore della vendita: addiritturaanche i bambini erano coinvolti e racimolavano qual-che soldo con la raccolta de su preimentu, il materialevegetale indispensabile per l’imballaggio delle pentoledurante il trasporto, che avveniva con i carri o con leceste e i sacchi. Le donne avevano una parte prepon-derante nel settore delle vendite, rappresentando, insie-me a is carrettoneris (i venditori con i carri), il punto di

306

481

riferimento di un commercio che copriva le esigenze diquasi tutta la Sardegna. Se per quanto riguarda il passa-to si hanno sporadiche notizie di questa forma di com-mercio, testimonianze più consistenti si hanno dagli an-ni Trenta agli anni Sessanta del Novecento. Il raccontoorale di testimoni che hanno vissuto nelle proprie fami-glie questa forma di attività rappresenta un preziosocontributo per ricostruire questo scenario. In paese era-no numerose le donne impegnate nel commercio: al-meno una quarantina, secondo le testimonianze raccol-te, sia orali che scritte, in quaderni nei quali i pentolaielencavano minuziosamente la quantità e il prezzo del-le pentole consegnate alle venditrici. Un gruppo didonne (tre o quattro), per lo più madri di famiglia, sirecavano dagli imprenditori del paese (i più importantitra gli anni Trenta e Sessanta erano Peppi Piras, Gio-vanni Caboni, Giovanni Floris, Tigellio Lisci, ma c’eranoanche quelli piccoli, con un laboratorio a conduzionefamiliare, Luigino Steri, Antonio Ghiani, Antonico Pin-na, Giovanni Vinci, Enrico Casula e Antonio PeppeGrussu) e acquistavano alcune cabiddadas di pingia-das (pentole) e di tianus (tegami) per venderle fuoridal paese. L’imprenditore dava loro la merce sulla fidu-cia, il pagamento avveniva infatti dopo la vendita, nonavendo la possibilità di anticipare le somme necessarieall’acquisto. Tutte le botteghe dei pentolai attuavanoquesto sistema che permetteva di smerciare con più fa-cilità i pezzi prodotti. Le donne non si spostavano maisole: generalmente si mettevano d’accordo in due o tree qualcuna si faceva accompagnare dai figli più piccoli,spesso il fratello più grandicello doveva portare inbraccio il neonato che necessitava di essere allattato eche la giovane mamma con il peso delle pentole nonpoteva tenere.23

Il sodalizio che si formava era duraturo e affiatato e an-cora oggi gli anziani si ricordano di questi gruppi didonne: Anna Sulcis, Faustina Pia, le sorelle Matiglia eRosa Sitzia, Vitalia e Loretta Murgia, Maria Pascalis, Ele-na Pala, Caterina Ennas, Ernestina Vinci, Filomena Ser-ra, Vittoria Pia, Teresa, Maria Rosa e Palmeria Serpi,Luigia Pia, Giovanna Casti, Assunta Atzori, Petronilla Pi-bi e tante altre che per portare qualche soldo a casaesercitavano questa forma di commercio. Si partiva apiedi di mattina presto: alle due, massimo alle tre. Il ca-rico per ciascuna era generalmente di due cabiddadasde pingiadas (quattro-cinque pentole) e una cabiddadade tianus (otto-dieci tegami), in tutto dodici-quindicipezzi che venivano messi uno dentro l’altro dopo esse-re stati avvolti, per evitare la rottura durante il viaggio,con su preimentu, l’imballaggio ricavato da una partico-lare erba palustre (feisceddu o spaduedda) molto ab-bondante nelle zone umide e paludose delle campagnepabillonesi. Dentro la pentola più grande, sa pingiadamanna, veniva messa sa segunda (la seconda misura),dentro questa sa terza e così via via fino alla più picco-la, come le matrioske russe. Il carico veniva sistematodentro sa crobi manna (la cesta piatta in giunco e fieno)

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 18:39 Pagina 306

o in uno speciale cestino (su cadinu) di vimini e can-ne, da portarsi sulla testa poggiati su un fazzoletto arro-tolato (su titibi); oppure dentro un sacco, la cui estre-mità si fissava in fronte con un cappio (a lia conca) dimodo che esso poggiasse sulla schiena: si tratta di unsistema di trasporto umano ancora oggi usato dallecontadine di certi paesi del Sud America (Bolivia, Perùe Colombia), dell’Africa e dell’Indocina. Il camminocon questo carico prezioso, in equilibrio sulla testa, osulla schiena, era faticoso e bisognava fare delle fre-quenti tappe prima di arrivare, dopo alcune ore, alleprime luci dell’alba, nei paesi dove avrebbero vendutole pentole, soprattutto località della Marmilla e dellaTrexenta: Mogoro, Masullas, Forru, Simala, Lunamatro-na, ma anche Selegas, Segariu, Villanovafranca e Fur-tei; e i più vicini Sardara, Guspini, Villacidro, Gon-nosfanadiga, San Gavino, Sanluri. Generalmente siaveva un punto d’appoggio dove scaricare la mer-ce; dopo si andava casa per casa a chiedere allemassaie del posto se volevano acquistare le pen-tole. Le trattative erano spesso lunghe e quandonon si riusciva ad ottenere soldi in contanti, si ac-cettavano prodotti in natura: su lori (ceci, lentic-chie, grano), che poi veniva rivenduto in paese.A Villacidro e Gonnosfanadiga generalmente lepentole erano scambiate con l’olio d’oliva che aPabillonis era scarso e quindi molto ricercato.Alcune delle donne erano munite di regolare li-cenza per svolgere l’attività di ambulanti. AssuntaAtzori era una di queste e per circa quarant’annisvolse la sua attività utilizzando il treno comemezzo di trasporto. Arrivata ad Oristano vendevale pentole e i tegami in piazza Mariano, oppure dalì, spostandosi a piedi, arrivava nei paesi del cir-condario (Santa Giusta, Cabras, Simaxis, Nurachi,Solarussa, Siamanna).Una volta vendute o barattate le pentole, si tornavaa casa a piedi, quasi sempre in giornata: raramente cisi tratteneva qualche giorno per terminare la vendita.Anche gli uomini andavano a piedi a vendere le pen-tole sistemate dentro un’ampia bisaccia, sa bertula obetua, e, al pari delle donne, passavano di casa in casaal grido “Funti arribadas is pingiadas de Pabillonis”(sono arrivate le pentole di Pabillonis).Il commercio delle pentole avveniva in quantità piùconsistente con i carri, erano infatti numerosi coloroche svolgevano questa attività: alcuni in forma saltuaria,altri in modo costante come Ignazio Melis, Pietrino Pic-cioni, Antonio Dessì, Vincenzo Floris, Giovanni Floris.

482

481. Orciolo, Pabillonis, 1940-50terracotta invetriata internamente, h 35,3 cm, Pabillonis, collezione eredi Piras.Il manufatto, sa bronnia a duas maghias, era comunementeutilizzato per la conservazione di olio e strutto.

482. Orciolo, Pabillonis, 1940-50terracotta graffita e invetriata internamente e sui manici, h 35,3 cm, Pabillonis, collezione eredi Piras.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 18:39 Pagina 307

Paulilatino. Il commercio delle pentole per alcuni fuun’attività lavorativa a tempo pieno: Vincenzo Floris,per esempio, con il suo carro, girò tutta la Sardegna fi-no al 1967, data della sua morte. I fornitori, come si de-duce anche dai registri di vendita, erano Giuseppe Pirase Giovanni Floris; le condizioni erano quelle consuete:il carrettiere li avrebbe pagati dopo lo smercio dellepentole. Con il suo carro, stracolmo di pingiadas etianus caricate fino al colmo di sa cedra, oltre 200 ca-biddadas, intraprendeva il suo lungo viaggio verso ledirettrici di: Bultei, Bono, Benetutti, Nule, Bitti, Lula,Buddusò, Pattada, Ozieri e quelle di Macomer, Torral-ba, Florinas fino a Sassari. Fuori casa restava anche unmese e mezzo, fino a che non aveva venduto tutte lepentole. Negli ultimi anni Sessanta, invece del carrocon traino a cavallo, alcuni utilizzavano dei camionciniche venivano noleggiati in paese.

La ceramica, quale futuroDopo la chiusura dei forni di Giuseppe Piras l’attivitàceramica a Pabillonis cessò definitivamente: da allora sisono susseguiti diversi tentativi per rilanciare un settoredi grande importanza economica per il paese. Alla finedegli anni Settanta Franco Massa, un insegnante di edu-cazione artistica, e Fernando Marrocu, diplomato all’Isti-tuto d’Arte di Oristano, decisero di rilanciare l’antica artepabillonese. La loro produzione era prevalentemente ar-tistica e solo in parte riproponeva le pentole e i tegamitradizionali. L’argilla, abbandonata quella locale a causadegli alti costi di lavorazione, era acquistata confezionatain pani già pronti. Nei primi anni Ottanta Massa e Mar-rocu invitarono a lavorare nel loro laboratorio un anzia-no pentolaio, Giuseppino Steri, per il quale venne co-struito un tornio in legno con movimento a piede, ma lasua produzione, data l’età, durò solo alcuni mesi. Dopoalcuni anni l’impresa di Franco Massa e Fernando Mar-rocu si sciolse e quest’ultimo realizzò un nuovo labora-torio nella zona industriale di Villacidro dove tutt’ora la-vora insieme a Gianpaolo Porcu, un giovane (figlio diun anziano pentolaio) che propone, insieme alla cera-mica artistica, anche i manufatti tradizionali.

A metà degli anni Ottanta nacque laCooperativa Ceramisti, composta tuttada donne, che affiancava alla produ-zione tradizionale la ceramica moder-na. Anche questa però ebbe breve du-rata: si sciolse dopo alcuni anni. Oltre alle singole iniziative dei privati,in questi ultimi anni l’Amministrazionecomunale è scesa in campo per rilancia-re l’antica arte pabillonese, realizzandonella zona industriale un laboratorio per

Decine di cabiddadas (anche duecento) venivano siste-mate sui carri con le sponde rialzate con sa cedra (un’al-ta sovrasponda confezionata con pertiche di olivastro ocanne intrecciate). I carrettieri restavano fuori quindicigiorni, talvolta anche un mese: finché non si vendevatutto il carico. Quasi sempre si aveva una casa di appog-gio, presa in affitto, dove scaricare la merce: le donne,partite insieme al carico, si occupavano della vendita neipaesi più vicini e gli uomini in quelli più lontani. Alcuni carrettieri erano dipendenti dei pentolai e conse-gnavano le pentole e i tegami a bottegai e commercian-ti che avevano stipulato un contratto d’acquisto con gliimprenditori pabillonesi. I paesi più frequentati24 erano:Calasetta, Buggerru, Sinnai, Pula, Cagliari, Ales, PauliArbarei, Abbasanta, Cuglieri, Bosa, Santu Lussurgiu,

483

483. Registri di vendita e consegna, libro paga della manifattura Piras, archivio eredi Piras.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 18:39 Pagina 308

la lavorazione della ceramica. Guglielmina Mugnai, gio-vane artigiana con una significativa esperienza presso laCooperativa, ha vinto l’appalto indetto dal Comune perla gestione del laboratorio. La sua produzione è basatasu due differenti tipologie, da un lato quella dedicata avasi, paralumi, centrotavola, bomboniere, piatti, e dal-l’altro quella legata alla tradizione di Pabillonis. La nuo-va struttura è stata ideata con un sistema a “cascata”, unlocale per raccogliere l’argilla, un altro per la sua lavo-razione al frantoio, torni e presse, un reparto per la de-corazione, i forni di cottura e infine la sala esposizioneper le opere finite. Numerose incomprensioni con l’Am-ministrazione comunale ed esigenze familiari hanno pe-rò convinto Guglielmina Mugnai a lasciare la strutturapubblica e a continuare il lavoro in un locale privato,comprensivo di laboratorio e spazio espositivo.Intanto anche i giovani hanno capito che il settore dellaceramica può offrire qualche alternativa alla disoccupa-zione. Riccardo Salis, con una qualifica di ceramista ac-quisita all’Istituto d’Arte di Oristano e l’esperienza fattain alcuni laboratori del paese, ha scelto di aprire unasua attività assieme all’ex compagno dell’Istituto d’ArteCosma Secchi, dando il via alla produzione con il mar-chio “Ceramiche Artistiche e Tradizionali Salis-Secchi”.Dopo appena alcuni mesi di lavoro sono arrivati i risul-tati in termini di commesse e ordinazioni: i prodottidella tradizionale ceramica pabillonese, tianus e pin-giadas, sono ancora molto richiesti, e possono rappre-sentare un interessante prodotto per il mercato.

Note

1. Ringrazio tutti gli informatori, gli artigiani e i collezionisti che hannocontribuito a questa ricerca, in particolare: Antonia Muru, GiuseppeGhiani, Amabilia Manca, Giovanna Frau, Giulio Floris, Maria Carta,Giuseppe Frau, Fulvio Cossu, Francesco Figus, Laboratorio GuglielminaMugnai, Laboratorio Riccardo Salis, Alberto Pianu, Annarella Frau e Cri-stian Erdas per aver messo a disposizione la collezione ceramica e ladocumentazione relativa all’Antico Laboratorio Giuseppe Piras. E inol-tre Vittorio Frau, Franceschino Accossu, Maria Grussu, Gerardo Lisci,Ugo Porcu, Piero Pibi, Alfredo Cara, Francesco Cossu, Paola Cossu.

2. Delibera comunale del 14/05/1827, Archivio Comunale di Pabillonis.

3. Questo termine indica una parte del territorio comunale compostoda terreni poco fertili dove generalmente crescono arbusti spontaneicome cisto e lentischio. La parte del territorio comunale costituita daiterreni fertili coltivati a grano e legumi era chiamata vidazzoni.

4. Delibera comunale del 14/05/1827, Archivio Comunale di Pabillonis.

5. Delibera comunale del 1837, Archivio Comunale di Pabillonis.

6. Delibera comunale del 13/05/1850, Archivio Comunale di Pabillonis.

7. Delibera comunale del 15/12/1853, Archivio Comunale di Pabillonis.

8. Nel 1855, essendosi recato il sindaco con alcuni consiglieri a Ca-gliari per mettersi in contatto con l’avv. Carboni, affinché tutelasse gliinteressi del Comune per la lite che aveva con alcuni usurpatori diterreni comunali, tra cui il Barone Rossi, detto avvocato si rifiutò didare il suo patrocinio, se prima non veniva pagato degli arretrati do-vutigli. I poveri amministratori non avevano denaro ed erano già sco-raggiati, quando per fortuna incontrarono il pentolaio Antonio Fenudi Pabillonis, che si era recato a Cagliari con un carico di pentole eprestò loro, subito, la somma di lire 200.

9. V. Angius 1833-56, s.v. Pabillonis, vol. XIV, 1846.

10. A. Della Marmora 1826.

11. Citato in M. Marini, M.L. Ferru 2003.

12. Le cento città d’Italia. Supplemento mensile illustrato a Il Secolo.Gazzetta di Milano, a. 34, n. 11922, Milano, 30 giugno 1899.

13. Catalogo della mostra 1911, p. 21.

14. Tra coloro che avevano questo tipo di produzione – i pentolaiesperti, anche se di modeste condizioni economiche –, si ricordano:Luigino e Pino Steri, Angelo e Antonico Pinna, Giuseppino Vinci, An-tonio Giuseppe Grussu, Antonio Ghiani, Francesco Cossu e Modesti-no Mamusa.

15. Orbezzu era la vasca dove si metteva l’argilla in ammollo.

16. La moglie si era ammalata di saturnismo a causa del diretto contat-to con l’ossido di piombo, lo stesso era accaduto a quasi tutti gli altrilavoratori di questo particolare tipo di artigianato pabillonese.

17. Informatore la figlia Giovannina Steri.

18. Informatore il figlio Giuseppe Ghiani.

19. Informatori vari anziani del paese.

20. Informatore la figlia Maria Grussu.

21. Informatore il figlio Giulio Floris.

22. Informatore il nipote Gerardo Lisci e il dipendente Ugo Porcu.

23. Testimonianza di Alfredo Cara, figlio della venditrice Vitalia Murgia.

24. Secondo la testimonianza di Francesco Figus, 98 anni, carrettieredi Giuseppe Piras.

484

484-485. Giuseppe Piras, Asino, Pabillonis, 1940 ca.terracotta, rispettivamenteh 11 e 9,2 cm, Pabillonis,collezione eredi Piras.

485

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 13-11-2007 18:39 Pagina 309

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 14-11-2007 12:04 Pagina 310

311

Gli stovigliai di Assemini1Ines Ruggeri

PremessaLa storia della ceramica ad Assemini è stata sino ad oggitrattata in maniera generalista. Con il presente contributoci si propone di ricostruire le vicende degli stovigliai diquesto centro nel periodo tra il XIX e il XX secolo;2 at-traverso le storie di ciascun artigiano si intende infattitracciare un percorso evolutivo e produttivo che ha avu-to un ruolo assai rilevante nella vita materiale dei sardi edella Sardegna. Una produzione di oggetti d’uso quoti-diano, dunque, non certo destinata a essere salvaguar-data; emblematico il fatto che i manufatti conservatisi si-no ad oggi siano stati custoditi prevalentemente dalledonne, che gli hanno attribuito un valore affettivo legatoal ricordo del proprio vissuto familiare e personale, con-tribuendo in tal modo alla ricostruzione di una memoriastorica collettiva. D’altra parte le donne, coinvolte piena-mente nel lungo e faticoso processo produttivo delle ce-ramiche e nel contempo nella cura della casa e dei figli,erano le detentrici dei saperi e delle consuetudini chetrasmettevano ai figli come preziosa eredità culturale.3

Le bottegheIl laboratorio dello stovigliaio era solitamente ricavatonel cortile dell’abitazione, costituito da un piccolo am-biente in mattoni crudi, organizzato in modo rudimenta-le ed essenziale. Al suo interno, in un angolo si trovavail tornio (sa roda), affiancato da un bancone su cui siamalgamava con le mani la creta (ciuexìai) per renderlapiù elastica ed eliminare le bolle d’aria. Sul banconenon mancava il catino con l’acqua, il filo di ferro per ta-gliare l’argilla e una tavoletta (sa tabèdda) per stirarla,un contenitore per i residui della lavorazione (sa stibi-dura) e un pezzo di canna o di giunco per eseguire idecori. Diversi dischi di legno (is fundus) costituivano ilsupporto per i manufatti appena realizzati.

Il laboratorio era polifunzionale: fungeva anche da de-posito de sa pai (cumulo dell’argilla già predisposta perfare is cuccus o pani); sull’incannicciato pensile eranosistemati i manufatti per l’essicazione e quelli da amma-nicare (cundrèxi). La bottega creava una coincidenza tra lo spazio dome-stico e quello del lavoro con il conseguente coinvolgi-mento di tutto il nucleo familiare nelle differenti fasidella produzione: il capofamiglia lavorava al tornio, lamoglie e i figli preparavano l’argilla, procuravano la le-gna per l’alimentazione del forno che aiutavano anche acaricare e vuotare. Dunque la formazione professionaledei ceramisti iniziava solitamente sotto l’egida paterna,4

secondo la consuetudine di un apprendistato piuttostoimpegnativo che aveva termine solo quando si era ac-quisita l’abilità di tornire e cuocere la brocca (il pezzopiù difficile da realizzare) e si padroneggiavano tutte lefasi della produzione. Capitava anche di ricevere delle commesse importanti,soprattutto relative alla fornitura di pianelle, grondaie etegole, da un altro paese o da Cagliari; in tal caso l’arti-giano improvvisava una bottega in loco, erigendo unforno in mattoni crudi e lavorando la creta trasportatada Assemini. Per le cupole delle chiese di Cagliari e din-torni si realizzavano delle tegole piatte, smaltate in ver-de o con ossido di ferro che dava una sfumatura rossa.5

Le condizioni di vita di questi lavoratori erano assaiprecarie,6 il solo guadagno derivato dall’attività dellabottega raramente garantiva un introito sufficiente allasopravvivenza della famiglia; quando in inverno non sipotevano cuocere le ceramiche7 gli stovigliai erano co-stretti agli impieghi più disparati.

VenditaIn questo contesto sociale ed economico, in cui si pro-duceva per i bisogni della vita quotidiana, gli stessi stre-xiàius cercavano di rendere utilizzabili quei manufattiche per qualche ragione non riuscivano perfettamente.Tra i vari compiti delle donne c’era infatti anche quellodi impibài: quando un manufatto ancora crudo presen-tava una piccola frattura si tosava un pezzetto della pel-liccia di agnello o coniglio, o si prendeva della stoppa,si sminuzzavano i peli con le forbici e si mischiavano

486. Da sinistra a destra, dall’alto in basso: Fedele Nioi con lafamiglia e gli aiutanti nel cortile del laboratorio con le brocche ad essiccare prima dell’infornata, 1937; Fedele Nioi mentre tornisce,anni Cinquanta sec. XX; Tornitura di un piccolo vaso, 1957 (fotoMarianne Sin-Pfältzer); Dopo lo scarico del forno le figlie e la mogliedi Fedele Nioi ritirano la carbonella, fine anni Cinquanta sec. XX;Gaetano Deidda ammorbidisce sa pai (blocco d’argilla), 1979 (foto Herman Geertman, archivio M.B. Annis).486

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 14-11-2007 11:57 Pagina 311

con un po’ di argilla morbida contenente anche una pic-cola percentuale di galena. La frattura si inumidiva perottimizzare l’amalgamatura e si stuccava con il miscuglioottenuto. Il manufatto si lasciava asciugare un po’, si in-gabanzàda ed era pronto per la cottura. Talvolta i con-tenitori per liquidi si filavano, a causa di uno sbalzo ditemperatura o fiammate eccessive, per renderli di nuovofunzionali le donne li stuccavano con un impasto otte-nuto polverizzando cocci di terracotta e amalgamandola polvere ottenuta con ollu ’e seu (sego). In questo mo-do si rendeva il contenitore impermeabile e non si ave-va fuoriuscita di liquidi.Quando un manufatto si spaccava dopo la cottura, veni-va aggiustato da s’accòncia còssiu, che utilizzava su fu-su o girobacchìnu, con il quale si realizzavano i fori peraccogliere i punti di sutura in ferro.8

Le occasioni più importanti per la vendita delle stoviglieerano rappresentate dalle feste religiose di Uta, Decimo-mannu, Villasor, Sestu ecc. che richiamavano una granfolla di fedeli dai paesi vicini. In queste sagre paesane sivendevano molto bene le marighèddas per trasportarea casa l’acqua benedetta del pozzo attiguo alle chiese,giocattoli per le bambine (pentoline, casseruole ecc.). Lo stovigliame veniva portato con i carri per la venditanei paesi del circondario, ma commercianti venivanoda tutta la Sardegna, in particolare dai paesi del Campi-dano, Iglesiente, Trexenta e Sarrabus. I rivenditori dellazona di Oristano preferivano le brocche di colore scu-ro, mentre quelli del Sarrabus prediligevano i manufattirossicci, di conseguenza la cernita si faceva cercando disoddisfare le richieste dei clienti.Ai commercianti non si vendevano i pezzi singoli ma leserie, ed il prezzo era unico per tutti gli oggetti che nefacevano parte. La clientela era formata dagli asseminesie da molti arragatèris (commercianti) che, col carro trai-nato da cavallo o asino, arrivavano da fuori e caricava-no su strèiu nella xèrda: per evitare che si rompessero, imanufatti si sistemavano isolati tra loro con del fieno odella paglia. Si utilizzavano invece i vagoni merci permandare i prodotti a Sassari. Dalla zona dell’Ogliastravenivano con i più lenti carri a buoi. Diversi negoziantiarrivavano col vaporetto da Carloforte e Sant’Antioco alporto di Cagliari, dove caricavano le stoviglie che com-pravano dai vasai.Una venditrice di Assemini, Giulia Follesa, compravabrocche che rivendeva a Cagliari; per trasportare i pezzi

487

489

488

487. La preparazione delle brocche, Assemini, 1920.Luigi Carboni, mentre lavora al tornio “a piede”, con il figlio, la moglie e il fratello Efisio.

488. Cartolina della serie “Visioni di Sardegna”, Fabbrica di brocche,Assemini, 1923 (foto Alfredo Ferri).Tommaso Farris mentre tornisce una brocca nel suo laboratorio,accanto la moglie Giustina Porcu e i figli Eligio e Mariuccia.

489. Fedele Marras, Vaso con piede, fine sec. XIXterracotta invetriata, h 34,5 cm, Assemini, collezione privata.Nel 1970, quando il vaso fu rinvenuto dagli eredi, venne affidato al ceramista Saverio Farci che lo restaurò usando punti di sutura e dandogli il colore verde.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 14-11-2007 12:11 Pagina 312

aveva acquisito una tecnica particolare: si metteva su ti-rìbi in testa e su questo appoggiava 4 brocche legate fraloro per i manici, poi una per parte sotto braccio, quin-di si faceva porgere e ne teneva in entrambe le mani al-tre due o tre. Era uno spettacolo vederla così carica.In paese c’erano diverse venditrici, donne che per man-tenere la famiglia compravano stoviglie che poi rivende-vano nel capoluogo e nei grossi centri cittadini, comeIglesias, San Gavino ecc.

Gli artigianiIl primo ceramista di cui si hanno notizie precise è Fede-le Marras (Assemini 1839-Cagliari 1909), che nel 1862partecipò all’Esposizione Internazionale di Londra.9 Tom-maso Farris (Assemini 1880-1954), ritratto con la famigliain un angolo del suo laboratorio in una notissima foto-cartolina del 1923, è il primo volto conosciuto (fig. 488),colui che rappresenta, soprattutto fuori dal paese, l’inte-ra categoria “rivelandola” al mondo.Un evento significativo per l’ambiente degli stovigliaifu, intorno al 1919, l’arrivo dello scultore Federico Melis.Egli, dopo una formazione nella cerchia di FrancescoCiusa e una costante presenza in importanti mostre re-gionali e nazionali, giunse ad Assemini con l’intento diapprendere le pratiche dei figoli locali e in particolaredi trovare la collaborazione di un bravo torniante; iniziòquindi a lavorare presso la bottega dello stovigliaio Efi-sio Carboni che lo aiutò a individuare i materiali e lemodalità produttive più adatti per le sue esigenze: ilcaolino di Capoterra come materia prima e l’utilizzo, infase di cottura nella fornace, di grandi conche d’argillacon il coperchio, per proteggere i manufatti dalle esala-zioni di fumo e cenere che procuravano variazioni nelcolore. Intorno al 1925 divenne socio di Ennio Dessy,con il quale aprì la Bottega d’Arte Ceramica presso il la-boratorio di via Piave (figg. 491-492), e prese a lavorarecon sé due bravi tornianti: Vincenzo Farci e Luigi Grus-su, che lo seguirono anche nei successivi spostamentiprima a Cagliari e poi a Roma.Durante il ventennio fascista, venne istituito l’Ente Na-zionale dell’Artigianato che contribuì a far nascere inSardegna piccole fabbriche di ceramiche, in quanto so-steneva che la valorizzazione della produzione popola-re potesse rivelarsi uno sbocco, seppur limitato, per ladisoccupazione; fatto che portò all’apertura di una se-zione di ceramica artistica – a capo della quale fu no-minato Melis – presso la Società Ceramica Industriale diCagliari (SCIC), la cui sede era in viale Trieste (fig. 495),sino a quel momento fabbrica di refrattari e grès.

CARMELO CABBOI (Assemini 1904-1956)Figlio di Giuseppe (1877), stovigliaio, ha iniziato l’apprendistato dabambino e già a 15 anni lavorava al tornio. Esercitava l’attività di sto-vigliaio da aprile fino a novembre, gli altri mesi li dedicava alla lavo-razione della vigna, all’orto e alla semina. Ha lavorato con sa rodafino al 1946-47, quando l’elettricista Antonio Usai gli ha realizzato iltornio elettrico.

Da un terreno in località Su Carropu aveva comprato un certo numerodi metri da cui veniva estratta l’argilla dai suoi aiutanti, Pasquale eCarmine Stara, pagati a giornata e non assicurati. La moglie Giovannae i figli collaboravano in varie fasi del lavoro. Le figlie avevano il com-pito di recarsi in campagna a cercare sa perda ’e fogu che, sfarinata,veniva miscelata alla galena con l’acqua del pozzo. La galena si versa-va con una cìccara (scodella) nel tutturìgu delle brocche, come an-che all’interno delle scivèddas. Cuoceva una volta alla settimana utiliz-zando sempre solo il forno a legna. Produceva brocche, scivèddas, brugnas, frascus e stangiàdas che siusavano nel periodo della mietitura, vasi, pisciaiòus, dìscuas per fareil formaggio. Nel mese di ottobre, interi carichi di forno erano dedicatia is brognas per la provvista delle olive e dell’olio.Faceva anche sa màriga pintàda con i due manici attorcigliati e la de-corava utilizzando un pezzo di legno con cui faceva brevi incisionima tanto profonde da farle sembrare pizzichi, fasce di smerli, qualchefiorellino sparso sulla superficie fino a metà pancia, e poi ingabanzà-da dalla bocca all’attaccatura inferiore dei manici. La clientela era for-mata da commercianti che venivano col carro da Cagliari, Pirri, Villaci-dro, Guasila ecc. Nessuno dei figli ha continuato il suo lavoro.

PIETRO CARBONI (Assemini 1838)Figlio dello stovigliaio Paolo, allievo fin da bambino del padre cheaveva il laboratorio in via Municipio, incominciò a lavorare in modoautonomo da giovanissimo; si sposò, nel 1879 circa, con Teresa Ma-meli da cui ebbe tre figli: Luigi (1880), Vitalia (1886), Efisio (1888). I fi-gli furono suoi allievi.Pietro lavorava spesso fuori Assemini: a Uta presso un compare e aCagliari, qui aveva una clientela benestante per la quale realizzavapianelle, fornelli, grondaie, tegole e stoviglie. Aiutanti esterni svolgevano le mansioni di cavare l’argilla, grigliarla,predisporla per la lavorazione in sa roda e collaborare durante la cot-tura. Le cave da cui si riforniva si trovavano in is axrobèddas (piccoleaie), allora nella periferia del paese, o nelle campagne circostanti. Perla galena si recava a cavallo a Monte Pisanu, a Iglesias, mentre per ilsolfato di rame e altri minerali si recava a Fluminimaggiore.Eseguiva la brocca grande della sposa e la decorava ad incisione;mentre quella piccola, con quattro manici, la arricchiva con uccelliniapplicati in su timpàngiu (spalle), vicino e sopra i manici, e con untappo sormontato da un uccellino-fischietto. Realizzava anche i caval-lini acroteriali su ordinazione.

LUIGI CARBONI (Assemini 1880-1938)Allievo sin da bambino del padre Pietro, messosi in proprio, smisequando partì per la prima guerra mondiale. I figli e la moglie furonopienamente coinvolti nell’attività produttiva.Prendeva l’argilla dai pozzi e dalle gallerie che si scavavano in paese:nella zona di via Piave si trovano infatti diversi pozzi per l’estrazionedell’argilla dai quali si dipartono una serie di gallerie.10

Luigi lavorava solo con sa roda, utilizzando gli stessi metodi e stru-menti del padre: sa perda ’e ciuèxi dove is cuccus venivano manipola-ti per eliminare le bolle d’aria e rendere elastica l’argilla, un catino conl’acqua, sa tabèdda per stirarla. Metteva ad asciugare i manufatti soprasu fundu, una tavola rotonda che consentiva anche di trasportarli piùagevolmente. Faceva le brocche invetriando solo la parte superiore erealizzava anche su forrèddu de terra ’e strèxiu (il fornello di terracot-ta) per la cottura del cibo. Ha insegnato il mestiere ai tre figli maschi; Pietro ha portato avanti illavoro del padre, avvalendosi della collaborazione dei fratelli Efisio eGiuseppe.

EFISIO CARBONI (Assemini 1888-1972)Allievo del padre, incominciò a lavorare in modo autonomo nel 1908,quando si trasferì in via San Cristoforo; utilizzando su làdiri (mattonicrudi) ingrandì la casa adibendone una zona a magazzino, e vi instal-lò il tornio di legno a pedale, che utilizzò sino al 1938, quando si fecefare il tornio elettrico da un meccanico di Elmas. Ebbe diversi allievi:Francesco Scalas (Peifrìttu), Amanzio Farris e Luigi Murtas.Tutta la famiglia collaborava: la moglie Chiara faceva is cuccus, porge-va le brocche al marito per cundrèxi (attaccare i manici) e le ritirava,le esponeva al sole il giorno della cottura, aiutava nell’invetriatura, acaricare e scaricare il forno, era addetta all’accensione del fuoco; i fi-gli, maschi e femmine, grigliavano, spargevano la terra e l’indomani laportavano dentro a lastre con le mani nude.Efisio produceva brocche, tuvus, conche, giare, frascus, grandi quantitàdi tegole per le cupole delle chiese di Cagliari e dintorni; i manufatti

313

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 14-11-2007 11:57 Pagina 313

più venduti erano brocche e catini. Su richiesta realizzava anche i ca-vallini acroteriali, che per la credenza popolare erano un simbolo dibuon augurio e di abbondanza. I decori che incideva nei manufattierano ottenuti con l’uso di una canna spezzata con le mani, che risul-tava seghettata in modo irregolare; nelle brocche della sposa e nellescivèddas per fare la fregola disegnava soli, uccellini ecc.Committenti importanti erano l’Orto Botanico e la Stazione ferroviaria,che acquistavano molti vasi; negozianti come Angelo Sbressa e PietroBrogula, ai quali mandava i manufatti col carro di sua proprietà o tra-mite carrettieri compaesani. Il carrettiere Salvatore Schirru di Decimo-mannu riforniva i clienti di Iglesias e di tutto il Sulcis. Smise l’attività nel 1953, ma continuò ad assistere i figli, così come altricompaesani, nella delicata fase della cottura. I figli, Salvatore e Antonio,portano avanti l’attività paterna. Dal 1984 non eseguono le cotture colforno a legna che hanno sostituito con un forno turbo a gas, col quale imanufatti non si possono invetriate con la galena, ma con una cristallinaapiombica. Grazie anche alla loro maestria nella produzione al torniosono stati presenti alla mostra di Sassari del 1959 e a diverse Biennali diSassari (1960, 1981, 1984, e dal 1991 al 1995) con stoviglie tradizionali.

PIETRO CARBONI (Assemini 1904-1996)Allievo del padre Luigi, ha iniziato a lavorare autonomamente quan-do aveva 16 anni. Si è sposato nel 1927 con Livia Atzeni e ha avuto 8figli: Teresina (1928), Vittorina, Maria Rosa (1934), Ida (1937), Ofelia(1941), Luigi (1943), Efisio (1946), Laura (1949).Tutti i componenti della famiglia aiutavano in bottega; un lavorante,Francesco Marini (retribuito a giornata), grigliava la terra e la lavoravafino alla predisposizione dei cuccus, aiutava a caricare il forno e adalimentare il fuoco durante la cottura. Fino al 1946 ha utilizzato il tor-nio a piede che si era costruito personalmente. L’argilla che utilizzava proveniva dalla località Su Carropu; da is funtà-nas (pozzi) che i privati scavavano nel cortile per approvvigionarsid’acqua; dai mobìus (grandi pozzi) che si scavavano in campagna perl’irrigazione dei campi. Prima che si usasse decorare la brocca della sposa con aggiunte plasti-che, Pietro era solito pintài (decorare) con la canna ed il giunco facen-do dei semplici graffiti, come faceva il padre, ma nella brocca della spo-sa lo smalto arrivava da su tutturìgu fino alla pancia, a differenza dellebrocche usate nella quotidianità, che smaltava solo nel collo e nella par-te superiore dei manici. Pietro e il figlio Efisio producevano piccolebrocche decorate con i fiorellini per venderle nelle sagre paesane. Una particolarità della sua produzione consisteva nel riuscire ad otte-nere una tonalità di verde ingobbiando il manufatto prima con argillabianca e poi dandogli sopra la galena.È stato attivo fino a quasi 80 anni; solo il figlio Efisio ha continuato ilsuo lavoro.

RAIMONDO COLLU (Serramanna 1876-1941)Fu allevato da una sorella del padre, Rosica Collu, sposata con lo stovi-gliaio Fedele Palmas del quale fu apprendista sin da ragazzino. Si spo-sò nel 1901 con Teresa Scano, figlia dello stovigliaio Ignazio Scano. Lavita della famiglia venne segnata dalla perdita dei primi tre figli nell’ar-co di una settimana. La coppia ebbe altri 3 figli: Vincenzo (1910), Rosa(1913), Greca (1922). Dei familiari lo aiutavano la moglie (morta nel1925) e le figlie. Collu ideò la griglia per eliminare scorie e impurità presenti nell’argil-la. L’acqua utilizzata nelle operazioni di grigliatura doveva essere pu-lita e fresca di pozzo, perché se fosse stata sporca avrebbe lasciatoun odore puzzolente nell’argilla che si sarebbe percepito poi nell’ac-qua contenuta dalla brocca.Gli aiutanti esterni, Luigi Murtas ed Efisio Carboni, regolarmente retri-buiti, non avevano mansioni specifiche ma collaboravano in tutte leprocedure. Se pioveva prima della cottura, gli stovigliai Giovanni An-drea Usai, Fedele Palmas e Luigi Carboni aiutavano a completare il cari-co e coprire il forno; oppure davano una mano se qualche manufattoposizionato alla base del forno si rompeva: il carico infatti poteva crolla-re causando la rottura di molti pezzi e una grossa perdita del guadagno.Lavorò solo col tornio a pedale. Produceva màrigas, tuvus, scivèddas,frascus ecc. La brocca più richiesta era quella con capacità 10 litri, perle sagre si vendeva molto bene quella da 20 litri, mentre d’estate era-no molto richiesti is frascus e is marigheddas. Eseguì dei vasi per igiardini pubblici di Cagliari. Fu suo allievo Gaetano Deidda, che di-venne suo genero sposando Rosa.

LUIGI CORONA (Decimomannu 1873-1956)Iniziò l’apprendistato da ragazzino e incominciò a lavorare in modoautonomo a 25 anni. Il suo laboratorio, in via Bainsizza, era costituitoda un loggiato aperto con un pozzo adiacente; vicino alla murèdda(parapetto) aveva sistemato due grandi catini dove si metteva la terraa decantare e nei pressi si trovava il magazzino per l’essiccazione,mentre in un angolo del loggiato c’era il suo tornio di legno e quellopiccolo dei nipotini Angela e Luigi che realizzavano piattini, salvada-nai e casseruole.Si sposò nel 1900 circa con Teresa Palmas, dalla quale ebbe tre figli:Greca (1901), Efisio (1904), Maddalena (1912). Rimasto vedovo, si ri-sposò nel 1920 con Mariangela Melis. Produceva scivèddas, tuvus, màrigas, frascus e stoviglie d’uso quoti-diano e realizzava anche la conca della sposa per preparare la fregola:piatta, col bordo basso per essere maneggevole, e decorata. Quandola conca era a durezza cuoio col compasso di legno incideva due cer-chi distanti tra loro circa 10 cm, tanto da poter comprendere all’inter-no un decoro che eseguiva utilizzando la sagoma di uccelli che si al-ternavano a foglie, di cui incideva il contorno con la punta di unchiodo. Al centro si sviluppava una corolla di foglie, mentre la pareteinterna era disegnata con un festone, il bordo veniva inciso a pizzi-còrrus. La brocca della sposa era caratterizzata dal fatto che veniva in-gabanzàda de sa ucca (dalla bocca) fino sotto l’attaccatura dei duemanici, e da sa màiga attrotoxiàda (a torchon), realizzata eseguendoquattro incisioni profonde su una lastra di argilla morbida che venivaritorta su se stessa, ed attaccata alla brocca quando questa aveva rag-giunto la durezza cuoio. Il decoro consisteva in un primo cerchio dipizzichi, incisi con la testa di un chiodo, alla base del collo; seguivauna scanalatura fatta con la punta del chiodo, gli smerli fatti col giun-co e infine un’altra serie di pizzichi. Smise l’attività a 84 anni, ma negliultimi anni eseguiva solo piccoli oggetti come piatti e casseruole chela nipote Angela decorava a pizzicòrrus.

GAETANO DEIDDA (Assemini 1914-1983)Fu allievo di Roberto Usai e di Raimondo Collu. Iniziò a lavorare auto-nomamente prima di compiere 20 anni. Si sposò nel 1937 con RosaCollu, con la quale ebbe 9 figli, Candido, Giorgio, Alessio, Teresa, Gio-vanni, Assunta, Adelaide e due morti neonati. Solo nel 1947 iniziò ad usare il tornio elettrico, grazie alla modifica chei meccanici Lazzaroni e Popolini apportarono al suo a pedale. Gaetanoideò la macchina per lavorare l’argilla, formata da due rulli entro i qua-li si faceva passare la creta, prendendo a modello quella che si usavaper lavorare la pasta per fare il pane. La macchina venne realizzata daltornitore meccanico Spinacci di Cagliari. L’argilla passava nell’impasta-trice una prima volta per essere frantumata, e una seconda impastatacon acqua. La si lasciava riposare per una notte e quindi si rimpastavaalmeno tre volte con i rulli sempre più stretti per renderla ben compat-ta e frantumare i grumi e i sassolini. Si calpestava poi con i piedi pereliminare le bolle d’aria e prepararla per la lavorazione al tornio.

314

490

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 14-11-2007 11:57 Pagina 314

315

491

492

493

494

Produceva tutti gli utensili per la preparazione e cottura del cibo: pin-giàdas, cassaròllas, scivèddas ecc., contenitori per liquidi come fra-scus, stangiàdas, fraschèras, màrigas. Una peculiarità delle brocche diGaetano era data dal modo in cui la staccava dal piatto dopo avereseguito al tornio la rifinitura de su pei (la base): la spatola venivaspinta alla base un po’ verso l’interno, in tal modo si formava un gra-dino o piedino, e la brocca era pronta ad essere staccata dalla ruotacon un filo d’acciaio, tecnica che lasciava un piccolo bordo, chiamatos’azza de su fundu de sa màriga. Per invetriare preparava una miscela di galena, silice, acqua in cuiaveva bollito la crusca o la farina (aqua ’e sceti), quest’ultima si usavasoprattutto d’inverno per impermeabilizzare is brògnias che venivanosmaltate a durezza cuoio, altrimenti stasonànta, si spaccavano. Sa per-da ’e fogu dava brillantezza e facilitava la fusione della galena. Quan-do le scivèddas avevano uno smalto opaco, perché la galena non ave-va raggiunto il giusto punto di fusione, venivano definite scivèddasdrucànas (rustiche). Dei figli solo Giovanni ha continuato l’attività; gestisce un suo labora-torio e usa di preferenza la tecnica del graffito su ingobbio ricopertoda vetrina trasparente.

VINCENZO FARCI (Assemini 1905-1989)Allievo dello stovigliaio Giuseppe Mostallino, aveva appena incomin-ciato a lavorare autonomamente quando, nel 1925, fu ingaggiato daFederico Melis, del quale divenne collaboratore fino al 1929, finché simise in proprio per produrre stoviglie tradizionali. In questo periodosi cominciò a sentire la concorrenza delle importazioni da Albisola(Savona) e divenne sempre più difficile vendere stoviglie grezze; purtra tante difficoltà, riuscì comunque ad ingrandire l’attività prendendoa lavorare un abilissimo torniante di Pabillonis, con il quale collaboròfino al 1943.Ebbe sei figli, il primo deceduto piccolo, Salvatore (1930), Gianfranco(1932), M. Rosaria (1935), Giuseppe (1937), Rita (1939), Gaetano (1942). Nel 1945, mettendo a frutto l’esperienza fatta nella bottega di Melis, co-minciò a fare ceramica artistica con la muffola. Per la produzione deipiatti si preparava le forme in gesso ed usava il caolino provenientedal continente e da Nurallao. Nel 1954, traslocò nel nuovo laboratoriodi via Carmine, realizzato in società con lo stovigliaio Antonio EfisioLocci, proprietario del terreno. La società si sciolse rapidamente conl’acquisto da parte di Vincenzo del 50% appartenente al socio.Ormai i tempi erano maturi per impostare la produzione ad un livelloquasi industriale. Il personale era formato da circa quindici persone ad-dette alla decorazione, dal torniante Giuseppe Mandas e dagli operaiche miscelavano le argille convogliate da un nastro trasportatore finoall’impastatrice e quindi alla degassatrice. Due persone erano addetteal forno continuo a tunnel che lavorava 24 ore al giorno e funzionavaa gasolio. La produzione tradizionale era acquistata da commerciantilocali e provenienti da tutta la Sardegna, mentre per quella artistica laclientela era diversificata: continentali, architetti e benestanti che pote-vano permettersi i pezzi unici. Il laboratorio era aperto agli amici artisti,tra questi anche Emilia Palomba che aveva inizialmente cotto qui lesue creazioni. Partecipò alle prime biennali dell’Artigianato di Sassaridel 1957-59 e a quelle dal 1960 al 1973. Alla Biennale del 1960 si pre-sentò come autore di una rielaborazione dei cavallini in terracotta, nel-la cui produzione fu seguito da Eugenio Tavolara.

490. Forni a muffola, Assemini, prima metà sec. XX.

491. Federico Melis, la moglie Elisa Casano e il socio Ennio Dessy,nel loggiato della casa-laboratorio di via Piave, Assemini, 1926 circa.

492. Produzione della Bottega d’Arte Ceramica, Assemini, 1927-28.

493. Federico Melis, Boccalino, 1924terraglia dipinta e invetriata, h 5,6 cm, Assemini, collezione privata.Poiché Federico Melis non sapeva tornire, Efisio Carboni realizzavaper lui gli oggetti; tra questi i piccoli boccali che Melis decorò eregalò nel 1924 alle figliolette Mariuccia e Teresina.L’amicizia e la stima fra i due si cementò ulteriormente quando nel1926 Federico e la moglie Isa Casano tennero a battesimo Piera, laterzogenita di Efisio. In questa occasione Melis regalò alla signoraCarboni una scatola.

494. Federico Melis, Scatola, 1926terracotta dipinta e invetriata, Ø 10 cm, Assemini, collezione privata.Marcata in pasta: Melis.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 14-11-2007 12:18 Pagina 315

SAVERIO FARCI (Assemini 1927-2000)La frequentazione della bottega del fratello Vincenzo gli consentì diimparare l’arte, pur dedicandosi ad altre attività. Nel 1950 si sposò conAmelia Girau e poco dopo si mise in proprio, aprendo bottega in viaTrieste. La sua produzione consisteva nelle stoviglie d’uso quotidiano,ma già sperimentava sulla possibilità di usare la galena miscelata ad al-tri ossidi. Per i manufatti tradizionali usava le argille alcaline o calcareeche invetriava usando la galena mista alla silice e s’aqua ’e pòddini;per le produzioni innovative, le argille selezionate erano preferibilmen-te ferrose, trattate con smalti a base di galena che veniva data su unsupporto di bianchetto (caolino o argilla bianca). Alla cristallina ag-giungeva degli ossidi per ottenere miscele che, assieme all’uso sapientedella fornace, costituivano la peculiarità della sua produzione. Nel periodo precedente le sagre, il laboratorio era impegnato nellarealizzazione di nuovi modelli, anche decorati “a freddo”, diversificatirispetto alla produzione degli altri stovigliai. La moglie Amelia suppor-tava il suo lavoro: grigliava l’argilla, esponeva i manufatti al sole, se-guiva la fase di carico e scarico del forno, andava a vendere gli ogget-ti a Cagliari in piazza del Carmine. Ubaldo Badas, responsabile regionale dell’ENAPI, andava in cerca diartigiani per avviare rapporti di collaborazione; Saverio era già un in-novatore, pronto ed aperto ad una fattiva collaborazione con Badascon il quale instaurò un rapporto forte in cui non c’era subalternità:l’uno forniva i disegni per i nuovi modelli, l’altro eseguiva le direttive erielaborava, variandola, l’esecuzione. Il modello base delle gallinelle furielaborato in modo personale ed autonomo, così come il cinghiale, iltorello, il bue bardato a festa, il muflone ed il cervo. Un’altra tematicaseguita era quella religiosa, fatta di crocefissi, palme pasquali, candelie-ri. Con questa produzione si presentò alle varie biennali di Sassari do-ve nel 1966 venne premiato per la ceramica Pane. Nel 1962 Giò Ponti,gli architetti Luigi Massoni e Luciano Buttura frequentavano la bottega.Nacquero nel tempo varie collaborazioni: con il pittore Foiso Fois, conl’architetto Angelo Mangiarotti e con il designer Piero Zedde. In questomodo si aprì un canale in negozi specializzati, come Myricae a Roma.Saverio smise di lavorare verso il 1986, ma continuò a produrre spora-dicamente con i figli. Antonio produce seguendo con fedeltà i modulipaterni; Francesco è proiettato verso la ricerca contemporanea.

GIUSEPPE FARRIS (1901-1979)Fu un valente torniante, noto ed apprezzato per aver escogitato un si-stema per aumentare la sua produzione. Costretto da una famiglia nu-merosa a massacranti ore di lavoro per produrre un notevole numerodi manufatti, nel 1930, per alleggerire il lavoro e incrementare la pro-duzione, pensò di applicare un motore al tornio. Espose la sua idea eil modo per concretizzarla al direttore della Marelli, ottenendo la rea-lizzazione di un motore con un albero per la puleggia più lungo, chesuperasse il volano del tornio il quale, con l’ausilio di un carrello pog-giato su un binario, agiva con un movimento in avanti e indietro perregolarne la velocità. Applicò dunque un albero verticale con un vo-lantino che consentiva il movimento desiderato, inoltre sistemò unaleva congiunta ad un pedale per l’estrazione del manufatto ceramicodal tornio mentre il motore restava acceso. Questo tornio elettricovenne usato da Farris per circa dieci anni, durante i quali il motore futenuto nascosto agli altri tornianti che ne conoscevano l’esistenza, mane ignoravano le modalità di realizzazione. Con il tornio così modifi-cato fu in grado di produrre pezzi più precisi perché la rotazione era

costante, con meno fatica e in numero maggiore rispetto ai colleghi.Farris si recava a Monteponi per acquistare la galena da rivendere aglialtri stovigliai dopo averla macinata; per la macinazione applicò unmotore riduttore, sostitutivo degli asini, alla tradizionale mola sarda.Comprò inoltre un frantoio rotante per sbriciolare la silice.

LUIGI GRUSSU (Assemini 1900-1984)Quando Federico Melis aprì la Bottega d’Arte Ceramica presso il labo-ratorio di via Piave prese a lavorare con sé due bravi tornianti: Vincen-zo Farci e Luigi Grussu, che lo seguirono prima a Cagliari e poi a Ro-ma. Quando Melis, nel 1932, si spostò a Roma, lo accompagnaronoGrussu e Valerio Pisano; dopo pochi mesi questi ultimi tornarono inSardegna e nel 1933 cercarono di impiantare ad Assemini una loro bot-tega con una produzione marcata “Ceramiche d’arte Sardegna, Pisano– Esec. Grussu”. Dopo lo scioglimento del sodalizio, durato pochi me-si, Pisano continuò a Cagliari l’attività per circa un quinquennio, Grus-su venne assunto dalla SCIC, dove restò fino al 1943, quando la fabbri-ca dovette chiudere per i bombardamenti aerei. Dal 1943 al 1944 Grussu lavorò nel suo piccolo laboratorio: lo aiutava-no nella foggiatura dei pezzi ceramici Pietrina ed Ottavia Lecis. Neglianni non aveva perso il piacere di creare oggetti che non fossero solodi uso comune, anzi rompeva il lavoro di routine producendo per usofamiliare piatti che decorava con fiori policromi, zuppiere, vasetti epiccoli oggetti decorati (fig. 498).Nel 1946 il grosso della sua produzione consisteva in utensili per usodomestico, per la lavorazione dei quali si avvaleva della collaborazionedi Neruccio Palmas, che era addetto alla lavorazione dell’argilla, e diSilvia Deidda e Carmela Mostallino che, con gli stampi che lo stessoGrussu realizzava grazie all’esperienza acquisita alla SCIC come forma-tore, producevano stoviglieria da cucina. Nel 1947 si trasferì in un locale alla periferia di Decimomannu. Nel1951 costruì un piccolo laboratorio con annesso forno ad Assemini, do-ve traslocò con la famiglia. Nel 1954 alle fornaci Scano di Assemini,una fabbrica di laterizi, ebbero dei problemi tecnici: il mattone cheproducevano si spaccava, Grussu trovò la soluzione del problema.Grazie alla sua perizia gli venne offerto un posto di lavoro, poiché vo-leva che la sua professionalità fosse giustamente retribuita, chiese unostipendio che non gli venne accordato, e di conseguenza rinunciò al-l’assunzione. Quando smise di fare il ceramista, comprò un motocarroe praticò il commercio ambulante (fig. 496).

ORESTINO LECCA (Assemini 1928-1995)Allievo di Fedele Nioi, iniziò l’apprendistato all’età di 14 anni, retribui-to in base a quanto produceva. Incominciò a lavorare in modo auto-nomo nel 1948 nella casa-laboratorio di via Coghe; si sposò nel 1956con Maria Cerchi da cui ebbe 3 figli: Giampiero, Delia e Cenza. Nel1962 si risposò con Enedina Cerchi dalla quale ebbe 2 figli: Mario eMassimo. Aveva come aiutanti Giulio Mattana, Pietro Marini e Giovan-ni Sanna che lavoravano la terra, preparavano is cuccus e collaborava-no alla cottura. Tutti venivano pagati a giornata ed erano assicurati co-me apprendisti. Usava il tornio elettrico e aveva comprato la macchinaa rulli per impastare.Produceva brocche, vasi, brugnas; nelle scivèddas per fare la fregolaeseguiva decori a pizzicato nel bordo, nella parete interna e nel fondoincideva dei festoni usando uno strumento con l’estremità dentellata;la moglie Enedina eseguiva i decori plastici per decorare le brocchepiccole: fiorellini e pulcini. Per attaccare i manici alle brocche era soli-to usare l’argilla un po’ morbida, che faceva aderire con la pressionedelle dita, senza usare barbottina. Smise l’attività nel 1973; ebbe come allievo Gino Mostallino.

LUIGI LOCCI (Assemini 1876-1966) Allievo del padre, incominciò a lavorare in modo autonomo nel labo-ratorio paterno. Si sposò nel 1903 con Assunta Carboni, ebbe sette figli(Pietrina, Mario, Giuseppe morto bambino, Antonio Efisio, Giuseppe,Francesco, Maria) dei quali solo Antonio Efisio ha continuato il suo la-voro. Tutti i componenti della famiglia venivano coinvolti nel lungo efaticoso processo produttivo dei manufatti: zirus, tuvus, brocche, sci-vèddas, e tutte le stoviglie di uso quotidiano.Usò solo il tornio a pedale ed esclusivamente il forno a legna. Abbandonò il suo lavoro a causa delle vessazioni alle quali riteneva diessere sottoposto: negli anni Venti una tassa sulla ricchezza mobilecolpiva il reddito presunto, Luigi subì un accertamento fiscale per unreddito maggiore rispetto a quello reale e dichiarato. Presentò un ri-corso che venne rigettato e dovette pagare la maggiore imposta accer-tata con le sanzioni e gli interessi, riducendosi quasi in rovina.

316

495

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 14-11-2007 11:57 Pagina 316

495. Maestranze della SCIC, Cagliari, anni Trenta sec. XX.Tra le maestranze della SCIC, gli asseminesi erano molto numerosi.

496. Luigi Grussu mentre vende le stoviglie acquistate dai suoicompaesani, Campidano, anni Cinquanta-Sessanta sec. XX.

497. Luigi Grussu, Cavaliere, 1930-33scatola, terraglia dipinta e invetriata, h 19,5 cm, Assemini, collezione privata.Firmata sul fondo: Grussu.

498. Luigi Grussu, Zuppiera, anni Quaranta sec. XXterracotta dipinta e invetriata, h 22,5 cm, Assemini, collezione privata.

ANTONIO EFISIO LOCCI (Assemini 1910-1996) Iniziò l’apprendistato dall’età di 10 anni, allievo prima del padre e poidi Fedele Nioi. Dopo aver edificato la casa-laboratorio in via Carmine,si sposò con Carmela Carboni da cui ebbe 8 figli: Lucia (1939), Pietri-na (1941), Giuseppe (1943), Giulia (1945), Maria (1947), Luigi (1952)Giovanni (1955), Ottavio (1957). Azionò il tornio a pedale fino al 1946, quando Angelo Lazzaroni gli pre-parò quello elettrico. Il figlio Giuseppe lo aiutava al tornio; la moglie era addetta a cundrèxie partecipava alla cottura, che avveniva anche tre volte la settimana; lefiglie Pietrina e Lucia setacciavano l’argilla e aiutavano a caricare e sca-ricare i manufatti nel forno per la cottura, che seguivano anche nellafase iniziale. Nel 1961 comprò una pressa per costruire vasi, un lamina-toio e una impastatrice, pur continuando a cuocere sempre a legna; atutte le figlie erano affidate delle mansioni alle macchine. Verso il 1963prese un forno dotato di un’unica camera, alimentato a olio combusti-bile, chiamato forno Toscano, nel quale si potevano cuocere solo i vasiper fiori, mentre si continuavano a cuocere nel forno a legna i conteni-tori per alimenti. Nel 1975 il figlio Giuseppe e i fratelli comprarono ilprimo forno elettrico, ma alcuni manufatti tradizionali vengono ancoraoggi cotti in un forno a legna in campagna.Si produceva di tutto: brocche, catini, tegole per il restauro dei cam-panili delle chiese, giare, per una clientela fatta prevalentemente divenditori ambulanti e negozianti che venivano dal circondario ma an-che da Sassari e Nuoro. Decorava a graffito con un giunco, per abbel-lire le brocche faceva il manico attrotosciàu: predisponeva al torniosei lunghi colombini che si legavano attorcigliandosi. Ha interrottol’attività nel 1973, quando il figlio Giuseppe si è messo in proprio.

ISIDORO MAMELI (Assemini 1886-1942)Usò solo il tornio a pedale; per smaltare utilizzava gabànza (galena),perda ’e fogu o perda bianca (silice), aqua ’e pòddini (acqua in cui èstata fatta bollire della crusca).Tra i familiari lo aiutavano tutti i figli: Maddalena era addetta alla lavo-razione dell’argilla; la moglie dava una mano soprattutto durante lacottura. Assunta Nioi, vicina di casa e amica della figlia Regina, raccon-ta che andava a dare una mano d’aiuto quando si esponevano al sole imanufatti e si caricava il forno. Aveva acquisito abilità e si divertiva nellanciare i manufatti a Isidoro che li sistemava all’interno. Aveva ancheaiutanti esterni, retribuiti a giornata, che si occupavano dello scavo del-la terra fino alla lavorazione dei cuccus. Produceva brocche, catini, fra-scus, tuvus, e tutti gli altri utensili di uso quotidiano; i manufatti più ri-chiesti erano le brocche e i catini che decorava usando un pezzo dilamiera con cui faceva le incisioni.Hanno continuato il suo lavoro i figli Basilio (1913), Raffaele (1915), An-tonio, Luigino (1923), Maddalena (1920). Luigino e Maddalena hannocontinuato a fare i vasai in società, Antonio ha fatto lo stovigliaio aDecimo, Basilio e Raffaele hanno abbandonato presto l’attività.

496

497

498

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 14-11-2007 11:57 Pagina 317

LUIGI MURTAS (Assemini 1906-1953)Allievo di Efisio Carboni, iniziò l’apprendistato dopo i 10 anni, retribui-to con qualche soldo per le spese personali. Incominciò a lavorare inmodo autonomo a 18 anni; si sposò nel 1927 con Lucia Mattana dallaquale ebbe 9 figli: Domenica (1928), Pinuccio (1929), Pietro (1931),Efisia (1935), Vittorio (1938), Mario (1940), Bonaria (deceduta), Gio-vanni (1946), Bonaria (1949). Produceva tutto ciò che si può realizzare con l’argilla, ma i manufattipiù richiesti erano le stoviglie da tavola, quelle indispensabili per la pa-nificazione, oltre ai recipienti che servivano per la conservazione deicibi. Alle brocche realizzate al mattino si attaccavano i manici di sera:si lavorava un rotolo di colombino che veniva tagliato della dimensio-ne occorrente e lo si faceva aderire al collo e alle spalle della broccafacendo pressione e contemporaneamente levigando con le dita, senzal’utilizzo della barbottina per facilitare l’attacco. Talvolta, per abbellirela brocca, il colombino si avvolgeva a torchon. Pinuccio e Pietro collaboravano anche durante la lunga e faticosa fasedella cottura, ma non avevano una retribuzione e per avere qualche

318

499

500

soldo Pinuccio nel 1942 si mise in società con Giovanni Andrea Usaicon il quale realizzava piatti. Pinuccio aveva solo 24 anni quando ilpadre morì, per cui entrò in società con Orestino Lecca dal 1953 finoalla metà del 1954. Quando divenne difficile andare avanti facendo sustrexiàiu, iniziò a collaborare con Dolores Demurtas e a partecipare(1956-58) alle prime biennali di Sassari con le produzioni di stoviglierustiche; dal 1969 ha lavorato alla Silius.Pietro ha preferito lavorare da Emilia Palomba, Mario ha collaboratocon Claudio Pulli fino a 55 anni.

FEDELE NIOI (Assemini 1904-1960)Allievo di Giuseppe Farris, condusse un apprendistato durato ben 5anni; dopo un periodo iniziale, gli venne riconosciuto un piccolo sti-pendio in base alle stoviglie prodotte. Incominciò a lavorare in modoautonomo nel 1925; si sposò nel 1929 con Federica Foddis dalla qualeebbe 9 figli, di cui i primi due morirono piccoli, poi Peppina (1933),Giovanna (1934), Luigi (1936), Argentina (1938), Angelina (1939), Mari-sa (1943), Graziella (1944). Nel 1936 si trasferì nella casa-laboratorio divia Sassari.Le figlie svolgevano i compiti più leggeri come girare e spostare i ma-nufatti durante l’essiccazione, la moglie curava la vendita dei manufat-ti ed i rapporti con la clientela. Aveva diversi aiutanti esterni. Fedele produceva di tutto: imbuti, sa misùra (una serie di recipientiche servivano per vendere il vino), còssius, giare per l’olio e le olivein salamoia e anche quelle per la conservazione dei cereali. I manufat-ti più richiesti erano brocche e catini per l’impasto del pane. Decoravala brocca della sposa, sa màriga pintàda, con simboli del benessere,le palline che rappresentavano le uova, uccellini, gallinelle, e motiviispirati alla vita agro-pastorale, fiorellini, fichi d’India.D’inverno, poco prima di Natale, la famiglia Nioi interrompeva la pro-duzione e si dedicava alla provvista della creta, alla manutenzione delforno e a quant’altro serviva perché tutto fosse pronto per la ripresadell’attività, ai primi di febbraio.Abilissimo nell’imprimere la giusta velocità con la spinta del piede scal-zo sul volano, usò il tornio a pedale fino all’anno 1935 quando, venutoa conoscenza del tornio elettrico che Giuseppe Farris teneva sottochiave, con l’aiuto del meccanico e vicino di casa “Giacchetta”, riuscì arealizzarlo anche per sé. Ebbe diversi allievi: Orestino Lecca, Luciano Foddis, Pietro Carboni,Antonio Efisio Locci.Il figlio Luigi ha continuato l’attività paterna ed ha conseguito livellidi esecuzione che gli hanno consentito di essere presente alle bien-nali di Sassari dal 1977 al 1995 e di partecipare alle gare internazio-nali di Faenza per i tornianti qualificandosi primo per molti anni.

FEDELE PALMAS (Assemini 1846-1932)Aveva la casa-laboratorio in via Fara; si sposò nel 1873 con Rosa Colluche gli diede tre figlie: Lucia, Emilia, che si sposerà con Giovanni An-drea Usai nel 1909 e della quale si dice che sapesse lavorare in sa ro-da, e Rita. Le donne di casa lo aiutavano in tutte le fasi della prepara-zione della creta, tranne nella predisposizione de su muntòi alla qualeprovvedeva il nipote ed allievo Raimondo Collu. Produceva màrigas,tuvus, frascus, scivèddas, pentole e tegami.

GIOVANNI ANDREA USAI SENIOR (Assemini 1874-1943)Allievo del padre Efisio, iniziò a lavorare in modo autonomo nel 1894.Si sposò tre volte: nel 1898 con M. Efisia Bandu da cui ebbe 2 figli, Ro-berto ed Efisio; nel 1909 con Emilia Palmas che gli diede 3 figli: Ame-deo, Lidia ed una bimba, morta neonata; sposò quindi Vitalia Mattanadalla quale ebbe 10 figli (Egidio, Dario, Celeste, Firminio, Edelmina,Antonino, Maria, Bernardina, e due morti). Lo aiutavano i figli più grandi, Roberto, Efisio, Amedeo, ma anche ifigli della terza moglie collaboravano: Firminio andava a scavare eDario trasportava la terra dalla loro cava. Con sa roda produceva su còssiu (grande vaso che serviva anche dacatino per il bucato), ischiscionèras (tegami), pentole, brocche e altriutensili di uso quotidiano che vendeva in tutto il Campidano. Smise l’attività nel 1935 circa, quando preferì acquistare cavallo e carroe dedicarsi al commercio ambulante; si recava perfino nella zona delSulcis per vendere i manufatti del figlio Roberto e di altri compaesani.I figli più grandi Roberto ed Efisio hanno continuato il suo lavoro.

GIUSEPPE MARIA USAI (Assemini 1883-1945)Figlio dello stovigliaio Efisio, ha iniziato l’apprendistato da bambinoe, messosi in proprio, ha comprato casa e aperto il laboratorio in viaPrincipe di Piemonte. Si è sposato con Rosa Collu nel 1907.

499. Scarico del forno, Assemini, 1980 (foto Hermann Geertman, archivio M.B. Annis).Salvatore Carboni controlla il risultato della cottura.

500. Brocca della festa, anni Settanta sec. XXterracotta graffita e invetriata, h 42 cm, Assemini, Collezione Comunale Ceramiche d’Arte.La brocca è stata realizzata da Salvatore Carboni e cotta con la tradizionale fornace a legna.

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 14-11-2007 11:58 Pagina 318

Dei familiari lo aiutavano: la moglie, Giovanni (1908), l’unico figliomaschio, e le figlie Pelagia (1914), Onorina (1917), Adalgisa (1919),Adelinda (1922), Olimpia (1925). Era loro il compito di grigliare laterra, preparare is cuccus, esporre ad asciugare i manufatti, seguirela cottura. La figlia Adalgisa ricorda che il padre, affinché i commercianti che arri-vavano dai comuni limitrofi potessero agevolmente individuare il suolaboratorio, realizzò dei cavallini acroteriali che fungevano da insegnae li sistemò nel colmo del tetto in modo che fossero facilmente visibilidagli acquirenti; quando la casa è stata venduta, sono stati smontati edue sono stati donati al Comune.Ha rallentato l’attività nel 1933 perché il mestiere di stovigliaio era du-ro e poco redditizio.

ROBERTO USAI (Assemini 1905-1978)Il padre Giovanni Andrea S. aveva il laboratorio in via XX Settembre,e qui iniziò il suo apprendistato dall’età di 8 anni. Come tutti i figlidegli artigiani, non era retribuito perché l’incasso veniva gestito dalpadre. Cominciò a lavorare in modo autonomo nel 1926, quando sisposò con Costantina Cocco. Lo aiutavano il fratello Efisio, al qualedava il 25% dell’incasso e i 5 figli: Giovanni Andrea J. (1927), Gior-dano (1930), Gemiliano (1932), Tarquinio (1939), Efisio (1942).Gianni Sanna, Peppino Scalas e Pinotto Pani prestavano la loro mano-dopera come aiutanti esterni, retribuiti a giornata, e aiutavano in tuttele mansioni: dallo scavo dell’argilla alla sfornata dei manufatti. Lavorò al tornio a pedale fino al 1946, quando Lazzaroni gli predispo-se quello elettrico.Possedeva un terreno in località Su Carropu da cui estraeva l’argillache serviva per il suo fabbisogno e quella da rivendere ad altri cera-misti. Produceva màrigas, scivèddas, tuvus, cungiàbis, pingiàdas. Ha avuto per allievi tutti i figli, Gaetano Deidda, il nipote Elvio Usaied Orestino Lecca. Roberto cessò l’attività nel 1963; il figlio Efisio continua tuttora a pro-durre manufatti al tornio e ha raggiunto livelli di abilità tali che glihanno valso l’attribuzione della corona di principe dei tornianti in di-verse edizioni delle gare internazionali di Faenza.

EFISIO USAI (Assemini 1907-1973)Figlio dello stovigliaio Giovanni Andrea S., di cui è stato allievo, iniziòa lavorare in modo autonomo in società con il fratello Roberto. In se-guito collaborò con i nipoti Giovanni Andrea J., Giordano e AntonioEfisio Locci. Lo aiutavano la moglie, Carmelina Lecca (sposata nel1935), nella fase della cottura, e i figli, Elvio (1940), Egidio (1944) eGiovanni (1947), in tutte le fasi della produzione. Ha sempre cotto imanufatti col forno a legna, mentre il figlio si è dotato di un forno agas nel 1972. Produceva tuvus, màrigas, pingiàdas, crubettòris (coper-chi per le pentole), brugnas, cìccaras, tassas, testus (vasi) ecc.; i ma-nufatti più richiesti erano brocche, catini, giare, vasi per fiori. Negli anni Sessanta iniziò una collaborazione con Ubaldo Badas chegli forniva i disegni e lo seguiva nella fase produttiva e di commercia-lizzazione, proponendo i suoi manufatti in varie mostre. Quando ci fuuna ripresa del settore, Efisio preferì realizzare brocche per la zonadell’Ogliastra che in quegli anni ancora non era dotata di una reteidrica capillare. Smise l’attività nel 1968-69 quando iniziò a lavorare inmodo sporadico con i figli per poi dedicarsi interamente alla cura diun orto-giardino di sua proprietà. I figli Elvio e Giovanni hanno conti-nuato il suo lavoro.

GIOVANNI ANDREA USAI JUNIOR (Assemini 1927-1967)Figlio di Roberto, di cui era allievo, incominciò a lavorare in modoautonomo nel 1951-52 nella casa-laboratorio di via Carmine. Si sposònel 1955 con Antonina Nioi ed ebbe tre figli.Poiché era velocissimo e bravissimo al tornio aveva bisogno di diversiaiutanti che predisponessero il materiale. Il fratello Efisio lavorava co-me suo dipendente ed era regolarmente stipendiato con 750 lire algiorno, i manovali Ignazio Foddis, Antonio Pani, Giovanni Mereu ve-nivano pagati a giornata, Francesco Mereu (Chiccu Batalloi) a percen-tuale (25%). Produceva brocche, vasi, scivèddas, brognas per olive e olio, frascus ealtri utensili. Per smaltare usava gabànza, silice e l’acqua in cui avevabollito del pane duro, quando la crusca era diventata cara. Nel 1963 si trasferì a Genova, qui fu prima ingaggiato da RodolfoGaudenti (un artista, pittore), poi venne assunto da Tonette, una fab-brica di vasi, ciotole ed utensili vari, che aveva rivendite in tutta la Li-guria. Dopo tre anni, ammalatosi, decise di rientrare in Sardegna do-ve, dopo 10 giorni, morì improvvisamente.

Note

1. Si ringraziano tutti coloro che a vario titolo hanno collaborato a que-sto lavoro, in particolare: Cabboi Zita, Carboni Antonio, Carboni Efisio,Carboni Salvatore, Cardia Mameli Delia, Cherchi Enedina, Collu Greca,Defraia Gigi, Deidda Candido, Deidda Giorgio, Deidda Giovanni, Deid-da Teresa, Dessì Pasqualina, Farci Francesco, Farci Lidia, Farci Salvato-re, Farris Tanino, Foddis Ignazio, Girau Argentina, Grussu Mimina, LaiVitalia, Lasio Marcello, Locci Giuseppe, Lussu Assunta, Mameli CarboniMaddalena, Mameli Irene, Mameli Luisella, Marongiu Angela, MeddaBasilio, Murtas Giannetto, Murtas Mario, Murtas Pinuccio, Nioi Antoni-na, Nioi Assunta Busalla, Nioi Attilio, Nioi Carmelo, Nioi Luigi, NioiPodda Luciana, Nioi Sanna Melina, Picciau Clelia, Porceddu Carolina,Sanna Luciano, Sanna Melis Carmela, Scalas Annetta, Tronci MameliMaddalena, Usai Alda, Usai Dina, Usai Efisio, Usai Elvio, Usai Emilio,Usai Roberto, Usai Tarquinio.

2. Uno dei periodi di maggiore attività risulta essere quello della pri-ma metà del ’900, durante la seconda guerra mondiale erano attivi 30-40 laboratori, cfr. M.G. Da Re 1983, p. 179.

3. La signora Rosa, moglie di Gaetano Deidda, tramandava ai figli nonsolo le conoscenze sull’arte figulina acquisite dal padre stovigliaio, maanche le tradizioni che riguardavano le credenze legate alla loro attivi-tà. Il figlio Candido ricorda che la madre, quando usavano una nuovabrocca, ordinava ad uno dei maschi di casa di bere per la prima voltadirettamente dal collo, se vi avesse bevuto per prima una femminal’acqua contenuta in quella brocca avrebbe avuto sempre un odore edun sapore poco gradevoli.

4. Coloro che non appartenevano ad una famiglia di stovigliai condu-cevano il loro apprendistato presso artigiani esperti, che con il tempodavano loro una piccola paga, proporzionata alle acquisite capacitàproduttive.

5. Fino al 1950 erano in vigore is cumandàras (gli obblighi): il Comu-ne chiedeva ai cittadini 2 o 3 giornate di lavoro gratuito per eseguiredei lavori nel paese; ai ceramisti veniva richiesta una fornitura di tego-le. Nel 1945, dopo la partenza dei tedeschi, realizzano le tegole per ilrestauro della chiesa di Santa Lucia.

6. Su 30 stovigliai di cui si sono ricostruite le vicende 11 hanno persofigli in età infantile; essi stessi, a causa delle condizioni in cui lavora-vano (freddo ed umido, caldo durante le cotture, esposizione al piom-bo) morivano piuttosto giovani. I familiari degli stovigliai intervistatihanno quasi unanimemente dichiarato di non aver amato il lavoro deipadri, “sporco” e faticoso, così come di non aver conservato i manu-fatti perché non li consideravano “preziosi”.

7. La produzione veniva sospesa durante l’inverno perché le argille,prima di essere ingabanzàdas e cotte, andavano asciugate e scaldateal sole.

8. Si ricordano due artigiani dediti a questo mestiere: una donna so-prannominata sa zoppèdda, che si recava di casa in casa con una borsacontenente tutti gli attrezzi per dare i punti di sutura, che ancora lavo-rava negli anni Quaranta; e Antonio Stara (1942) che ha esercitato que-sto mestiere fino al 1957, a fianco al padre Giulio (1914) che invece hacontinuato fino agli anni Ottanta. Giulio e Antonio, prima con un so-maro, poi con un triciclo e infine con una lambretta, si recavano neipaesi del circondario; i clienti, casalinghe e stovigliai, che avevano bi-sogno delle loro prestazioni erano dei poveri diavoli, e pagavano inbase al numero dei punti eseguiti. Talvolta gli Stara, per arrotondare imagri affari, vendevano anche stoviglie dei compaesani.

9. Secondo la testimonianza dei familiari aveva presentato un manufattoche rappresentava i sovrani d’Italia su una carrozza trainata da cavalli.

10. I testimoni che le hanno visitate parlano della presenza nel suolo divari argini di creta, alti 30-40 cm e distanti fra loro circa 2 m. Si presu-me che le “vasche” così create fungessero da raccolta dell’acqua, inmodo da evitare che gli scavatori lavorassero immersi nell’umidità. Nel-la galleria principale, dopo vari metri, si aprono grandi vani da cui sidiramano altre gallerie formatesi dallo scavo dei vari filoni di creta. Unlabirinto che si estende per centinaia di metri in tutte le direzioni, masoprattutto verso il centro storico.

319

10-13 Tortolì, Dorgali, Pabillonis, Assemini 14-11-2007 11:58 Pagina 319

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 12:06 Pagina 320

321

Il rapporto tra ceramica e scultura, spesso sottovalutatonelle ricognizioni storiche condotte dal punto di vistadella seconda, costituisce in realtà uno degli assi por-tanti dell’arte italiana del Novecento: basti pensare aDuilio Cambellotti, Arturo Martini, Lucio Fontana, Mari-no Marini, grandi ceramisti che sono stati protagonistidell’arte senza aggettivi.1 In Sardegna questo legame èforse ancora più stretto; fino alla seconda guerra mon-diale, i registri locali della scultura apparirebbero quasitotalmente sguarniti se ne togliessimo i nomi di Fran-cesco Ciusa, Federico Melis e Salvatore Fancello, il pri-mo attivo nella ceramica per un periodo limitato maintenso, gli altri due quasi interamente dediti ad essa.2

Accanto ai ceramisti-scultori, non va però dimenticatoil contributo dei ceramisti-illustratori, come MelkiorreMelis, Nino Siglienti, Edina Altara, Tarquinio Sini; figu-re provenienti da quell’ambito decorativo che in Sarde-gna ha riscosso una vivace attenzione da parte degliartisti, e che hanno dato origine a una vasta produzio-ne di mattonelle, placchette e piatti ornamentali. In uncaso e nell’altro, la continuità tra i due versanti di atti-vità (scultura e ceramica, illustrazione e ceramica) ap-pare evidente.A voler scegliere una data simbolica per la nascita del-la ceramica artistica in Sardegna bisognerebbe forsepartire dal 1917: è in quell’anno che i due artisti isolanidi maggiore spicco, lo scultore Francesco Ciusa e ilpittore Giuseppe Biasi, con l’aderire al manifesto Rin-novandoci rinnoviamo lanciato da Galileo Chini, Filip-po Cifariello e Plinio Nomellini, pongono le premesseteoriche per lo sviluppo di un movimento sardo dellearti decorative in grado di tener dietro a quanto nel-l’Isola si faceva, da non più di un decennio, nel campodell’arte cosiddetta “pura”.3

Intento del manifesto di Chini era promuovere l’affer-mazione delle arti applicate italiane, e particolarmentedi quelle «derivanti da caratteri etnografici», cioè ispiratealla produzione popolare delle diverse regioni, da piùparti indicata come valida alternativa all’imitazione de-gli stili esteri.4 Un programma che da un lato anticipava

(di poco) i temi del dibattito nazionale intorno alle in-dustrie artistiche e all’artigianato che avrebbe accompa-gnato il sorgere delle Biennali di Monza, dall’altro si ac-cordava con le aspirazioni degli artisti sardi. Infatti,analogamente a quanto accadeva negli stessi anni invarie altre situazioni europee, anche in Sardegna la co-struzione di un’identità culturale passava, sul piano fi-gurativo, attraverso il recupero della tradizione rurale.Col sottoscrivere il manifesto del 1917 Biasi e Ciusa sierano impegnati, come gli altri firmatari, a tradurne inpratica gli assunti. È così che Biasi allaccia dei contatticon la SCIC (Società Ceramica Industriale Cagliari), fab-brica produttrice di refrattari con i caolini di Serrenti, diFurtei e del Sarcidano, allo scopo di fondare una Socie-tà Sarda di Arti Applicate destinata a produrre cerami-che, oggettistica in legno e tessuti. In quel momentol’artista ha già cominciato a cimentarsi nella ceramica, agiudicare da quanto scrive nel maggio 1919 all’amico emecenate Arturo Bucher, dandogli notizia dell’inziativa:«Quelle mattonelle che hai nella tua sala da pranzo, tidanno un’idea non certo del meglio ma della via che sisegue».5 L’unica mattonella di Biasi finora rintracciata,prodotta verso il 1920 dalla ditta Primo Tricca di Sanse-polcro, riprende – semplificandolo leggermente – il mo-tivo di una sua xilografia del 1915. L’esperimento avvia-to con la SCIC, in ogni caso, non sembra essere andatooltre la fase iniziale; l’improvvisa marcia indietro dei fi-nanziatori avrebbe chiuso per circa vent’anni i rapportidel pittore con la ceramica. Di maggior portata sarà l’impegno in questo campo diFrancesco Ciusa. In quello stesso 1919, lo scultore fon-da a Cagliari la manifattura SPICA (Società Per l’Indu-stria Ceramica Artistica),6 che resterà in funzione fino al1924 circa. Sembra che già nel periodo in cui seguiva icorsi dell’accademia di Firenze Ciusa avesse appreso amodellare piccole figure “di moda” per l’industria cera-mica,7 occupazione che, come avveniva per altri giova-ni artisti squattrinati,8 gli offriva una modesta fonte direddito, permettendogli di integrare il magro sussidiocon cui il comune di Nuoro lo manteneva agli studi.Alcuni anni dopo, ormai scultore affermato, si era vol-to nuovamente ad esplorare la possibilità di una pro-duzione seriale: una foto databile al 1912-13 lo ritrae

La ceramica degli artisti nella Sardegna del primo NovecentoGiuliana Altea

501. Salvatore Fancello, La grotta dei cinghiali rossi, 1938(particolare della fig. 534).501

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 15:56 Pagina 321

accanto all’amico Sebastiano Satta mentre mostra il mo-dello del piatto Il Golfo degli Angeli, che, se differiscedalla successiva oggettistica SPICA per il tono mitologi-co del motivo centrale (una sirena) ne anticipa perònegli ornati della tesa il repertorio decorativo, ispiratoalle arti popolari.9

Il piatto nella foto è probabilmente in gesso, ma in se-guito Ciusa lo avrebbe tradotto in terracotta decorata afreddo. Con questa tecnica è infatti realizzata l’interaproduzione della SPICA: l’artista non sperimentò maila maiolica, per la difficoltà di superarne i problemitecnici,10 ma anche, presumibilmente, perché la sentivain contrasto con i risultati estetici di cui andava in cer-ca. La superficie opaca e delicatamente “imperfetta”della terracotta era più adatta del luccichio degli smaltia rendere la nota di intimità raccolta e sorridente chel’artista mostra di inseguire nelle piccole plastiche enell’oggettistica SPICA. Il nome della società e il marchio adottato (un cerchiodi formiche, ciascuna con un chicco di grano), entrambidi sapore cambellottiano,11 rinviano al tema ispiratore diCiusa: il mondo contadino sardo, già fulcro della suaopera di scultore e qui espresso con una nuova grazia edelicatezza. Dal laboratorio cagliaritano escono dappri-ma cofanetti echeggianti le cassapanche rustiche, bom-boniere che ripetono la forma dei bottoni dell’abito tra-dizionale, dei cesti intrecciati o delle zucche incise daipastori, scatole adorne di graziose figurine muliebri e dimotti (Cantu prus mannu est s’amore tantu prus tristaest sa bida), testine di bimbi e fanciulle, qualche piccolobassorilievo, come Mammina che lega la cuffia, di unagrazia vagamente donatellesca. Nel maggio 1921, in oc-casione della Mostra d’Arte Sarda promossa a Cagliaridal Circolo Universitario Cattolico, Ciusa presenta questimodelli (24 in tutto) in una sala personale, affiancata aun’altra di sculture. Oggetti e basi delle figure sono ri-vestiti da una profusione di motivi – cuori, croci, losan-ghe – tratti dal repertorio dell’artigianato locale. Curiosamente, l’artista evita di ricorrere alle forme eagli ornati della ceramica popolare, che pur contavaqualche tradizione in centri come Oristano, Assemini,Pabillonis.12 Il fatto è che la secca geometrizzazione ela gamma vivace delle tinte, propri della tessitura e delfilet, si accordano molto meglio alla semplificazioneformale e alle audacie coloristiche che il Déco avevamutuato dalle avanguardie. Nello speziatissimo cocktaildéco il folklorismo di Ciusa rientra certamente comeuno dei molti esotismi che concorrono a insaporirne lamiscela. La sua opera si distingue tuttavia – lo ha nota-to Rossana Bossaglia – per la «mancanza di intellettua-lismo», per una «generosa sincerità» estranea a quellostile,13 e che, si può aggiungere, non è senza rapportocon le forti motivazioni etiche sottese al suo lavoro,difficile da comprendere pienamente al di fuori dell’at-mosfera di esaltato fervore regionalista nella quale vi-vevano gli artisti sardi del primo Novecento.14 In unapiccola plastica come Sposina di Nuoro (1922), déco è

322

502

502. Francesco Ciusa, Cantu prus mannu est s’amore tantu prus trista est sa bida, 1919-21contenitore con coperchio, terracotta da stampo dipinta “a freddo”, h 28,5 cm, Nuoro, collezione privata.Marchiata in pasta, sul fondo: SPICA.

503. Francesco Ciusa, Sposina di Nuoro, 1922 circaterracotta da stampo dipinta “a freddo”, h 32,5 cm, Sassari, collezione privata.Marchiata in pasta, sul fondo: SPICA.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 15:56 Pagina 322

la cadenza geometrica del motivo ornamentale (il vo-lume colonnare, volutamente accentuato in altezza,della gonna scavata dalla pieghettatura), ma non il gar-bo affettuoso dell’aneddoto (la giovane sposa incintasorride nello scoprire che non può più allacciarsi ilcorsetto). In generale, mancano alle ceramiche SPICAla levigata freddezza, il tono frivolo e scintillante deldéco: grazie al morbido splendore delle patine e allacura minuziosa dell’ornamentazione riescono invece atrasmettere – pur nell’ambito di una concezione forma-le tutt’altro che ingenua o incolta – un senso di caldamanualità, forse più vicino alle creazioni popolari chead altre vistose e brillanti produzioni coeve ispirate alfolklore. Un esito al quale, come abbiamo già accenna-to, contribuisce la tecnica usata: l’assenza di smaltismorza gli squillanti accordi di colore (prediletti il gial-lo, rosso e blu, tinte del costume tradizionale di Desulo,su fondi dapprima verde bronzo, poi rossastri, infineneri), restituendo il carattere a un tempo sfarzoso e au-stero dell’arte popolare sarda. Al clima déco Ciusa mostra a suo modo di rispondereanche nella scultura: i due ambiti di lavoro appaionoinfatti strettamente connessi. Non soltanto i temi dellastatuaria tornano, svolti in modo più sciolto e corsivo,nella ceramica (Il pane, 1919 ca.), ma gli sviluppi stilisti-ci più interessanti del decennio si avvertono forse conmaggiore chiarezza in quest’ultima. In terracotta nasco-no infatti, nel 1922, due tra i lavori di Ciusa più felici inassoluto, che come diversi altri verranno più tardi tra-dotti in stucco: i gruppi Il ritorno e La campana, in cuila forma, chiusa in un contornare fermo e asciutto, sideclina in ritmi avvolgenti, trovando una nuova essen-zialità. Se ancora nel primo si coglie qualche residuonarrativo, il secondo ha una fissità ieratica che dà risaltoall’insolita iconografia: il mantello a forma di campanadel padre racchiude il figlio che poggia i piedi sul dor-so di due pecore, e nasconde completamente la figuradella madre, la cui presenza è rivelata solo dalle maniche reggono il bambino. In terracotta sembra sia statoinizialmente concepito anche Sacco d’orbace (1922),vertice degli sforzi di Ciusa verso una sintesi formaleche lasci cadere ogni residuo narrativo, oggi noto nelleversioni successive in stucco colorato.Mentre l’accento sofferto delle tre opere, incentrate sultema della famiglia e della paternità, nasce dalla perdi-ta del figlio Gian Giacomo, profondamente sentita dal-l’artista,15 la fluida continuità delle superfici che saldainsieme i corpi delle figure deriva dagli esempi diWildt (di cui Ciusa aveva appena visto la sala persona-le alla Biennale di Venezia)16 e di Cambellotti (che co-nosceva fin dai primi del secolo e di cui non dovevaignorare i recenti esiti scultorei).17 Di Wildt è debitoreanche il tondo La famiglia protetta, memore di scultu-re come Maria dà luce ai pargoli cristiani (1918), macon un accento di più sana sensualità.La ceramica, peraltro, registra anche episodi creativi disapore diverso: ancora a una data intorno a quel fervido

323

503

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 15:56 Pagina 323

1922 (che registra opere impegnative come L’ucciso,esposto a Venezia, e i bozzetti per il monumento ai ca-duti di Iglesias e per La deposizione) deve risalire lapiccola plastica Vibrazioni di violino, in genere pococitata negli studi sull’artista, forse per la sua esplicitaintonazione erotica, che può imbarazzare in uno scul-tore grave e solenne come Ciusa, ma che in fondo nonfa che portare alla luce una vena presente in tutta lasua produzione. A ben guardare, la terracotta scaturi-sce dallo stesso concetto del monumento di Iglesias.Quest’ultimo – una delle maggiori realizzazioni dell’ar-tista – deriva dalla citazione rodiniana del Pensatore,trasformata in blocco plastico compatto dall’aggiuntadi un’altra figura che posa sulle ginocchia dell’uomoseduto; nella terracotta ritorna la stessa soluzione, soloche, al posto del soldato morto dal dorso muscoloso inevidenza, troviamo un corpo femminile offerto.18

Resi con una lavorazione “a bugnato” che punta adanimare le superfici con una sottile vibrazione lumi-nosa, ma che appesantisce un po’ la resa delle figure,Il ritorno e La campana figurano nella sala sarda allaBiennale di Monza del 1923, in cui Ciusa compie laprima importante apparizione pubblica come cerami-sta, mentre il movimento isolano delle arti applicate vitrova il suo battesimo del fuoco.19 La partecipazionedei sardi alla mostra monzese si tiene all’insegna delpiù disinvolto accostamento e contaminazione tra crea-zioni colte e manufatti popolari. Saranno soprattuttoquesti ultimi a raccogliere i consensi della critica, an-che se Ciusa riceverà apprezzamenti positivi e un di-ploma d’onore. L’impiego esclusivo della terracotta ri-chiama tuttavia più d’un rimprovero: in nome dell’ideadella fedeltà alla tecnica e ai materiali impiegati, Ro-berto Papini gli consiglia di abbandonare «patine, ver-nici e colorazioni crude» e di attenuare con gli smalti«le durezze legnose della modellazione».20 E altri, menocompetenti recensori tratteranno la scelta della terra-cotta policroma addirittura alla stregua di un difettod’esecuzione.21

In ogni caso, al successo di stima non si accompagna ilsuccesso economico, almeno nella misura sperata; e,stando alle affermazioni dello stesso Ciusa, è questo ilmotivo per cui nel 1924 la SPICA dovrà chiudere i bat-tenti. Anche dopo questa data, comunque, l’artista nonabbandona del tutto la ceramica, e nel 1925 assume ladirezione della Scuola d’Arte Applicata di Oristano, chetra i suoi corsi ne comprende l’insegnamento. Basatasu programmi ancora fedeli all’idea di un’arte regionali-sta e folklorista (Oristano, lo abbiamo già ricordato, èuno dei centri sardi con maggiori tradizioni in questocampo) la scuola rimarrà in piedi fino al 1929.L’esperienza della SPICA ha intanto contribuito a for-mare alcuni giovani artisti, allievi diretti dello scultore ocomunque attratti dalla sua personalità e sensibili alsuo esempio. Tra questi spiccano i fratelli Federico eMelkiorre Melis, autentici protagonisti nel campo dellaceramica nella Sardegna degli anni Venti.22 Si deve aloro la creazione di un genere di maiolica inequivoca-bilmente caratterizzato come “sardo”, destinato a unalarga fortuna. Melkiorre ha appreso già nell’anteguerrai rudimenti dell’arte ceramica frequentando a Roma uncorso tenuto alle scuole di San Michele da Duilio Cam-bellotti. Il rapporto con Cambellotti resterà fondamen-tale, non solo per l’influsso esercitato sul piano stilisti-co, ma anche – soprattutto – nel suggerire l’interesseper una tradizione contadina miticamente trasfigurata enel prospettare l’idea di un’attività artistica volta ad in-vestire l’intero ambito del quotidiano.23 Pittore, illustra-tore e decoratore, Melkiorre non riprende a sperimen-tare la ceramica fino al 1919, anno in cui ricorda d’averrealizzato i primi pezzi a gran fuoco; lavori che possia-mo supporre vicini al gusto delle illustrazioni e coperti-ne eseguiti nello stesso momento per la Rivista Sarda,in cui Melkiorre adotta, con impaginati simmetrici eviolenti contrasti di tinte, una schematizzazione spigo-losa e asciutta, immediatamente derivante dai motivigeometrizzanti dell’arte popolare sarda, dalla tessitura edal filet.24 Questa cifra stilistica dal netto timbro déco,

324

504 505

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:13 Pagina 324

325

506

504. Francesco Ciusa, Corbula, 1919-21terracotta da stampo dipinta “a freddo”, Ø 8,4 cm, Cagliari, collezione privata.In pasta, sul fondo: G.B. Ciusa.Questo esemplare, così come indica la firma sul fondo, è stato realizzato dal figlio di Francesco Ciusa, Giovanni Battista, con gli stampi del padre.

505. Francesco Ciusa, Bomboniera, 1919-21terracotta da stampo, Ø 9,5 cm, Nuoro, collezione privata.Marchiata in pasta, sul fondo: SPICA.La forma è desunta da un bottone sardo in filigrana.

506. Francesco Ciusa, La famiglia protetta, 1922 circaterracotta da stampo patinata, Ø 22,6 cm, Sassari, collezione privata.Marchiata in pasta, sul fondo: SPICA.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 15:56 Pagina 325

raffinata nel suo primitivismo, costituirà in ogni caso iltratto saliente della ceramica dei Melis negli anni Venti.A differenza di Ciusa, i due fratelli affrontano il proble-ma della smaltatura: chi per primo non è dato saperecon certezza, poiché ciascuno rivendicherà per sé ilmerito d’aver «creato le prime ceramiche sarde a granfuoco». Una sorta di pathos dell’origine caratterizza il cli-ma artistico nella Sardegna dell’epoca, dove ogni artistasi sente iniziatore e ogni tecnica (accade per la cerami-ca come per la xilografia) sembra dover essere scopertacome per la prima volta. Melkiorre affermava, abbiamodetto, di aver sperimentato la maiolica nel 1919, manon risulta che ne abbia esposto qualche esemplare pri-ma del 1926. In quell’anno, nella mostra romana degliAmatori e Cultori, ne presenta una serie in una delle sa-le del Lazio (la XXIII, dove figura accanto a Cambellottie altri artisti, tra cui il ceramista Virgilio Retrosi),25 eun’altra nella sala sarda (la XXX), della quale è commis-sario ordinatore.26 È in questa occasione che, scrivendoal giornalista Pasquale Marica per sollecitare un articolo,Melkiorre mette avanti la priorità dei suoi risultati: «Ti

prego soprattutto parlare delle ceramiche incorniciate edei piatti decorativi perché essendo questa una produ-zione che dovrà darmi da vivere voglio che sia cono-sciuta e lanciata. Tu che hai visto potrai ben dire cheoltre al gusto che può essere discusso quanto vuoi, laparte tecnica è stata superata felicemente dopo moltistudi e ricerche. Dirai che io ho fatto per primo le cera-miche sarde a gran fuoco tanto è vero che conservodue esemplari con la data a fuoco del 1919».27

Istruzioni che Marica, nella sua cronaca su L’Unione Sar-da, segue puntualmente, suscitando le appassionate ri-mostranze di Federico.28 Questi (che figura nella mostraromana con una serie di terrecotte decorate a freddo)29

gli scrive a sua volta per chiedergli una rettifica: «I mieiprimi esperimenti sulla ceramica risalgono al 1916-17 edurarono fino al 1925. Tanto è vero che l’anno scorso– nell’Esposizione regionale sarda che si tenne al Palaz-zo Municipale di Cagliari io feci una Mostra personalecon circa un centinaio di pezzi di maioliche a gran fuo-co – ed erano costituiti da: mattonelle e piatti decorativi– da statuine – vasi – anfore e servizi da the e da caffè.

326

507

508

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 15:56 Pagina 326

509 510

507-508. Federico Melis,Donna stele-Priorissao Sposa antica, 1920-25terracotta da stampo dipinta “a freddo”, ciascuna h 8,5 cm,Nuoro, collezione privata.Dipinto, all’interno: MelisSardegna.

509-510. Federico Melis,Desulese con cesto, secondametà anni Venti sec. XXterracotta da stampo dipinta einvetriata, h 46,3 cm, QuartuSant’Elena, collezione privata.Marchiata all’internosottovetrina: Bottega d’ArteCeramica Cagliari.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 15:56 Pagina 327

511

512 513

511. Federico Melis, Su puntorzu, 1928-31terraglia da stampo dipinta e invetriata, h 21 cm, Ferrara, collezione privata.Dipinto, sul fondo: SCIC Cagliari Sardegna Melis.

512-513. Federico Melis, Venditore ambulante, seconda metà anni Venti sec. XXterraglia da stampo dipinta e invetriata, h 33,5 cm, Quartu Sant’Elena, collezione privata.Probabilmente questa ceramica è stata realizzata come gadget per il quotidiano L’Unione Sarda.

328

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 15:57 Pagina 328

515

514

514. Federico Melis, Kaika, 1928 circaterraglia da stampo dipinta e invetriata, h 11 cm,Cagliari, collezione privata.Dipinto sul fondo sottovetrina: SCIC CagliariSardegna Melis.

515. Federico Melis, Donna in preghiera, 1927terraglia da stampo dipinta e invetriata, h 23 cm,Oliena, Hotel Ristorante Su Gologone.

329

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 15:57 Pagina 329

Come vede un saggio di tutto ciò che può abbracciarel’arte ceramica – non solo – ma oltre i soggetti eranosardissime la maggior parte delle materie prime da mestudiate e valorizzate».30

Se Melkiorre, prosegue la lettera, «à potuto a Romaesporre le maioliche nelle quali di suo e di sardo nonc’è che il disegno – perché non s’intende di tecnica ce-ramica e – tanto meno – di cottura – molto lo deve ame perché ha potuto servirsi della mia… zampa per to-gliere dal fuoco le… castagne». È possibile che all’approdo dei fratelli alla smaltaturaavesse concorso anche il ricordo del vecchio tirociniodi Melkiorre presso Cambellotti; ma dei due è Federicoquello che sembra aver condotto con maggior costanzae dedizione i propri esperimenti in questo ambito. For-matosi come scultore sulle orme di Ciusa, di cui avevafrequentato negli anni Dieci il laboratorio cagliaritano,Federico era stato spinto verso la ceramica dall’interesse

per la plastica colorata. In un articolo del marzo 1917,una delle voci critiche in Sardegna più attente agli svi-luppi di un’arte volta all’affermazione di valori identita-ri, quella del poeta Salvator Ruju, aveva incitato gliscultori locali a introdurre la policromia nelle loro ope-re: «Io penso che, nelle figurazioni sarde in cui ha tantaparte il costume dai colori smaglianti, la plastica a colo-ri debba essere incoraggiata. Non farlo significherebbeessere ancora schiavi di un pregiudizio che ha domina-to dal Cinquecento all’età nostra. Oltre ai tentativi mo-derni, si sa bene che dalla scultura preellenica fino alMedioevo e al Quattrocento toscano la scultura era co-lorata … Lo ricordino gli artisti sardi che vogliono esse-re artisti rappresentativi della propria terra».31

Idee che Federico Melis dichiara, in una lettera a Ruju,di condividere: «Pensando anch’io che la plastica sardanon è completa se manca l’armoniosa bellezza del co-lore – il quale è così bello e così ardente nella vita dinostra gente – e completa e rivela così bene il caratteresardo che è tutta una magnifica intonazione delle lineesevere e pure coi colori ardenti e cupi – ò creduto dicongiungerlo alla scultura e di farne un’unica completabellezza. Tanto è vero che già da parecchio mi sonmesso all’opera e credo e spero di aver fortuna».32

Il mese prima Melis aveva infatti inviato alla mostra mi-lanese del Lyceum una serie di «scenette della vita sar-da – fatte con gusto semplice e primitivo», in «gesso eterra»; ma, ad eccezione di una, le piccole «sculture in-fantili colorate» si erano rotte durante il viaggio.33 Pocodopo, alla Mostra Sarda di Milano nelle sale del Cova,l’artista presenterà i nuovi sviluppi della sua ricerca,che si è sforzato di elevare stavolta al rango di «manife-stazioni… di arte vera e propria». Alla mostra, cui parte-cipava anche Melkiorre con dei dipinti, e il terzo deifratelli, il giovanissimo Pino, con una serie di mattonel-le in terracotta dipinta (Canti di Sardegna),34 la miglio-re critica diede ampio risalto. La Sarfatti ebbe parole dielogio per Federico, chiamando in causa i lapicidi goti-ci e addirittura la «prisca tradizione etrusca».35 A giudica-re dall’unica riproduzione pubblicata (Il cantore nostal-gico),36 l’artista aveva fatto tesoro della lezione di Ciusamettendoci, di suo, un che di più ruvido e agreste, unaforma più aspra ed incurante di classiche eleganze: in-somma un primitivismo che non era mai stato di Ciusa,emotivamente troppo coinvolto per accostarsi con in-tellettualistico distacco ai modelli popolari. È il primiti-vismo, invece, l’atteggiamento culturale da cui nascetutta la produzione ceramica dei Melis.Dopo il 1917, anche per influsso del fratello, Federicoprocede sulla via di una sempre più decisa semplifica-zione formale. Nel 1923 la sua produzione in terracotta,nota più che altro da foto d’epoca,37 mostra già definitialcuni temi e soluzioni che troveranno ampio spazio inseguito, ma appare caratterizzata da una modellazioneancora tondeggiante, per quanto concisa ed asciutta;poco dopo, l’artista abbandonerà questo tipo di soluzio-ni, aprendo la via al furor geometricus delle maioliche

330

516

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 15:57 Pagina 330

517331

516. Federico Melis, Sposa antica, 1930terraglia dipinta e invetriata, h 100 cm, Cagliari, Università degli Studi, Rettorato.

517. Federico Melis, Anfora sardesca, 1927-31terraglia dipinta e invetriata, h 57 cm, Cagliari, collezione privata.Sul fondo, dipinto sottovetrina:Bottega d’arte ceramica Cagliari / F. Melis.Sono note le diverse varianti diquesta ceramica, solitamente interraglia con decori a rilievo neri.Questo esemplare è appartenuto al pittore Giuseppe Biasi.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 15:57 Pagina 331

518

519

518. Melkiorre Melis, Donna di Aritzo, 1926-29mattonella, terracotta dipinta e invetriata, h 16 cm, Bosa, collezione privata.

519. Melkiorre Melis, Vedova di Sardegna, 1926terracotta dipinta e invetriata, Ø 14,5 cm, Nuoro, collezione privata.Questa ceramica è inserita in unmobile-libreria progettato daMelkiorre Melis.

520. Melkiorre Melis, Donna con velobianco – Graziarosa, 1930-33mattonella, terracotta dipinta e invetriata, h 30 cm, Nuoro,collezione privata.

332

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:19 Pagina 332

520

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 15:57 Pagina 333

334

521

522

521. Melkiorre Melis, Acquaiolaafricana, ante 1930scatola, terraglia da stampo dipinta e invetriata, h 26,4 cm, Nuoro, collezione privata.

522. Melkiorre Melis, Giraffa, 1933portacenere, terraglia da stamposmaltata, h 29 cm, Bosa, Raccolta Melis.

523. Melkiorre Melis, Donna sarda con cesto, fine anni Cinquanta sec. XXterracotta smaltata e riflessata, h 37,6 cm,Bosa, Raccolta Melis.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 15:57 Pagina 334

del 1925-27, tutte angoli acuti e spigoli taglienti. Questaspiccata geometrizzazione contraddistingue il suo lavoronell’ambito della Bottega d’Arte Ceramica di Cagliari, lacui direzione gli viene affidata alla fine del 1926 dall’En-te di Coltura e di Educazione della Sardegna. La Botte-ga, istituita con finanziamenti del Governo e della localeCamera di Commercio allo scopo di creare maestranzeesperte nella lavorazione delle argille e di favorire l’af-fermazione della ceramica sarda in campo nazionale,diverrà presto polo d’attrazione per pittori come StanisDessy e Carmelo Floris, che si cimenteranno occasio-nalmente nella decorazione dei pezzi, e confluirà suc-cessivamente nella sezione artistica della già ricordataSCIC di Cagliari. Nella produzione del laboratorio cagliaritano – ampia-mente diffusa sullo scorcio degli anni Venti grazie an-che all’attività promozionale dell’Ente di Coltura – i mo-tivi del filet e della tessitura tradizionale campeggianosu piatti e ciotole, ricoprono scatole e anfore, posace-nere e calamai. Non sono più i cuori prediletti da Ciu-sa, ma ossessive teorie di danzatori, ispidi cervi e uccel-li, minacciosi cavalieri armati, tracciati con una cromiaelementare o ridotta al solo bianco-nero; motivi chenon si limitano a svolgere, come nel repertorio dellaSPICA, la funzione di semplice rivestimento decorativo,ma finiscono per determinare la forma degli oggetti: leanse dei vasi assumono l’aspetto di stilizzati galletti, icoperchi dei contenitori diventano piccoli totem rigidi espigolosi; le statuine hanno contorni spezzati, volti fissie schematici come maschere lignee; si sfrutta la valenzadecorativa di elementi quali la plissettatura di una vesteo l’andamento a zigzag di una fisarmonica; figure dicontadine con cesti o in ginocchio hanno la ieratica so-lennità di offerenti e oranti dell’antico Egitto.38

Presentata alla Bottega d’Arte Clemente di Sassari neldicembre 1926, questa serie di lavori viene segnalatasulla stampa da Silvio Prunas de Quesada, che mette inguardia l’artista dal proseguire sulla via della stilizzazio-ne a oltranza. Mentre liquida come semplici abbozzi ipezzi più sintetici, sul tipo di Sposa antica o Donna in-ginocchiata, ha parole di elogio per quelli dalla model-lazione relativamente più distesa e naturalistica, comeBalloeddu, L’offerente e Il dono, capaci di «rallegrarci ilcuore con la dolcezza delle linee ondulate».39 Anche aseguito dei rilievi critici di Prunas, Melis riserverà d’orain poi ai piatti e al vasellame le sue più estreme abbre-viazioni geometriche; e darà spazio, all’interno dellapropria attività di ceramista, a esperienze di tono scul-toreo, come Donna di Barbagia (1927), una testa fem-minile in cui la sola concessione alla geometria è datadalle ritmiche pieghe e dai decori del fazzoletto, o co-me l’altra testa di donna Armonie e il più naturalisticoPastore in terraglia invetriata, entrambi esposti alla pri-ma Mostra sindacale sarda nel 1930.Come si è detto, Federico era stato preceduto dal fratel-lo sulla strada della stilizzazione geometrizzante: leschematiche file di danzatori e di cavalieri che, simili 523

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 15:57 Pagina 335

agli indiavolati manichini di Depero, ornano la tesa deipiatti e il ventre dei vasi di Federico erano già apparsenelle illustrazioni di Melkiorre e, nel 1921, sulle paretidella Sala Sarda, decorata da questi nella Casa d’ArteBragaglia a Roma. Era una strada che, se percorsa finoin fondo, avrebbe potuto condurre a soluzioni interes-santi, sottraendo definitivamente il regionalismo figura-tivo all’ambito della descrizione folklorica per portarloa reagire con ricerche di timbro più sintetico, se nonpropriamente astratto: verso uno sbocco alla Depero,appunto. Tuttavia né Federico né – malgrado le suetangenze con le cerchie del futurismo romano – Mel-kiorre Melis si spingeranno mai così lontano.Per Melkiorre l’attività di ceramista si situa in strettacontiguità con la pittura, l’illustrazione, i progetti di ar-redo. L’artista individua nella decorazione di ambientila propria sfera d’intervento: «La maiolica colorita nonfu concepita come fine a se stessa – si legge su La ca-sa bella in un articolo del 1928 dedicato al suo lavoro –.Il giovine pittore sardo la considerò subito come unsemplice elemento della complessa decorazione dellacasa. E perché l’armonia fra le piccole mattonelle e imodesti tondi fosse assicurata, passò presto a disegnaremobili e arredi, a concepire camini e seggiole, a dipin-gere fregi e a scegliere tappeti; a tentare insomma ilcomplesso ammobigliamento della casa e della sala daesposizione con notevole successo».40

Mattonelle e piatti ripetono i temi dei dipinti, elementiin ceramica vengono utilizzati nell’allestimento di mo-stre o nella creazione di mobili. Inizialmente, l’artistasembra interessato, nell’elaborazione dei pezzi, all’aspet-to pittorico più che a quello plastico (quando invece èquest’ultimo a prevalere, riemerge nettissima l’influenzadi Cambellotti, come nel Vaso con gli agnelli e nel Vasocon gli asinelli del 1927 ca.). Tipici di questi anni sono ipiatti e le piastrelle con volti maschili e femminili, un“genere” di largo successo intensamente praticato ancheda Federico. Nell’ambito di un impianto stilistico e diuna concezione formale sostanzialmente identici, que-st’ultimo si caratterizza per una certa ripetitività del dise-gno, che attinge a un limitato repertorio di espressioniarcigne o ieratiche; nelle creazioni di Melkiorre, gene-ralmente più variate, ma soprattutto più fini e dettaglia-te nella resa pittorica, si affaccia una nota ironica e unadichiarata consapevolezza dell’inattualità del mondopopolare oggetto della rappresentazione. Le figure fem-minili addobbate con lusso di ornamenti paesani hannopose ed espressioni desunte dal repertorio delle divedel muto, con le quali condividono anche il pesantemake-up. D’altronde, l’artista è in questi anni impegna-to in alcune collaborazioni cinematografiche, in qualitàdi scenografo e cartellonista; il ritratto dell’attrice Car-men Boni in abito regionale sardo, che disegna nel1929 per il lancio pubblicitario del film La Grazia di Al-do de Benedetti, avrebbe potuto tranquillamente com-parire tale e quale in una delle sue mattonelle; su unadi queste figura invece un’altra attrice, l’algherese Rina

de Liguoro, che presta la sua maschera tragica – occhibistrati e bocca sanguinante – all’immagine di una con-tadina sarda dal capo velato.Melkiorre, in questo periodo ben inserito nel contestoromano, si mostra consapevole del tramonto – sensibileormai da alcuni anni – del regionalismo nelle arti appli-cate, così come delle varianti più ornamentali del Déco,incalzate dal nascente razionalismo che chiede formeesatte, limpide ed essenziali, che esige costruzione enon decorazione. Già nel 1926, nel presentare in cata-logo la Sala Sarda agli Amatori e Cultori, aveva presoposizione per la «modernità» contro le «vecchie forme ele ripetizioni ornamentali sorpassate dell’arte popolare-sca»;41 qualche tempo dopo, avvertendo come sia di-ventato difficile far ricorso al folklore se non in terminidi umorismo strapaesano, comincia ad affiancare ai te-mi sardi nuovi soggetti: nudi (il nudino rosa, inquadra-to come frammento entro una mattonella a fondo nero)e figure femminili accompagnate da motivi di gabbiani,come quelle che espone nel 1929 in una personale alTeatro Quirino. D’altronde, a chiarire i nuovi orientamenti del gusto ave-va provveduto fin dal 1927 la terza Biennale di Monza,con il suo rifiuto delle rappresentanze regionali. A Mon-za Melkiorre Melis aveva ottenuto un buon successocon una sala personale di ceramiche; era però l’unicosardo fra gli espositori, insieme al giovane Nino Siglien-ti, presente in mostra con una propria “bottega d’arte”,in cui proponeva lavori in ceramica oltre a figurini tea-trali, mobili, giocattoli e scialli ricamati. Artista di squisi-to talento decorativo, nella rassegna monzese Siglientiappare al culmine della sua vicenda breve ma intensa(morirà a ventisei anni nel 1929). Formatosi come auto-didatta, a partire da un secessionismo d’impronta regio-nalista era approdato, dopo il trasferimento a Milanonel 1925, a un Déco di timbro internazionale, nutritodegli umori culturali più svariati.42 L’eredità secessioni-sta, filtrata inizialmente dall’esempio di pittori sardi co-me Giuseppe Biasi e Mario Delitala, ispira una serie dipiatti in terracotta decorata con vernici a freddo, dei pri-mi anni Venti, e di mattonelle e piatti smaltati, eseguitiverso il 1925 e distinti dal marchio “Nino Siglienti” conuna candela che si spegne. Li ornano gracili figurettepaesane, compresse contro il fondo ad arabeschi vege-tali da una capricciosa stilizzazione lineare; gli inevitabilirichiami ai motivi rustici di tappeti e cestini sono relegatisulla tesa o lungo i bordi. Niente a che vedere, in ognicaso, con la Sardegna neoegizia o neobizantina dei Me-lis: il tono è lieve, quasi fiabesco, pervaso d’una graziaincantata, lievemente malinconica; il disegno si snoda inmorbide cadenze curvilinee, si sofferma ad annotare mi-nuti dettagli; le cromie, meno aggressive di quelle deiMelis, trovano accostamenti di tinte insoliti e preziosi;

336

524. Federico Melis, Vaso delle sirene, anni Cinquanta sec. XXterracotta smaltata a lustro, h 36 cm, Roma, collezione privata.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 15:57 Pagina 336

337

524

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 15:57 Pagina 337

525. Produzione ceramica Lenci per Cau, Cagliari, fine anni Trenta sec. XX.

526. Giuseppe Biasi, Mattonella decorativa, anni Venti sec. XXterracotta dipinta e invetriata, h 19,5 cm, Cagliari, collezione privata.Marcata in rilievo, sul retro: Primo Tricca Sansepolcro.

Siglienti guarda alle vetrate e alle oreficerie medievali,all’arte peruviana e orientale.43 Una più asciutta sche-matizzazione distingue altri lavori, di una fase forse ap-pena successiva, in cui compaiono motivi della corren-te iconografia déco, mentre gli stessi soggetti paesanisembrano perdere ogni connotazione regionalista nel-l’assottigliarsi degli elementi descrittivi.Uscito di scena Siglienti (la ditta sassarese Margelli faràancora realizzare qualcuno dei suoi disegni), la finedel decennio vede ugualmente cessare l’attività dei Me-lis in Sardegna. Nel 1931 Federico abbandona la SCIC,a quanto sembra per contrasti insorti con la direzioneaziendale.44 Su di lui il contatto con la nuova atmosferanovecentista sembra aver prodotto effetti contraddittori:la grande statua in ceramica Sposa antica – esposta nel1931 alla I Quadriennale romana, dove non mancò dicolpire per la qualità dell’esecuzione tecnica – mostral’artista intenzionato a “far grande” e a rivendicare la va-lenza scultorea del mezzo impiegato. Il contrasto tra lafrontalità e staticità della posa, che chiude la figura en-tro un volume geometricamente definito, e la resa mi-nuziosa dei dettagli riecheggia soluzioni del suo mae-stro Ciusa (il gesso Dolorante anima sarda, del 1911, ela stessa Madre dell’ucciso del 1907); su tutto trionfa pe-rò l’ossessiva attenzione per il particolare, che da nota-zione veristica, com’era in Ciusa, diventa elemento de-corativo. Congelata in una immobilità da idolo arcaico,lo sguardo sigillato dalle palpebre chiuse, la sculturaappare, come scrisse un critico, «più scritta che modella-ta»;45 e finisce per richiamare soprattutto l’inerte fissità

338

525

526

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 15:57 Pagina 338

527. Nino Siglienti, Ragazza con cuffietta, 1927 ca. terracotta dipinta e invetriata, 15 x 15 cm, Sassari, collezione privata.Sul retro, dipinto sottovetrina, il marchio: Nino Siglienti, con una candela che si consuma e il bollino “R. Margelli, oggettid’arte, Sassari”. Nel rinomato punto vendita era possibile reperireanche le ceramiche di Edina Altara.

528. Tarquinio Sini, Uomo con bisacce, 1927-33terraglia dipinta e invetriata, 13,7 cm , Cagliari, collezione privata.

delle immagini di Cesare Cabras, un pittore che agli oc-chi della critica ufficiale incarna felicemente, in questomomento, l’ethos ruralista del regime.Se Sposa antica – un’opera la cui attrattiva richiede peressere apprezzata una certa predisposizione colta al-l’ironia – realizzava indubbiamente le aspirazioni delsuo autore alla “plastica colorata”, lo faceva però in mo-di decisamente lontani dalla sensibilità estetica in quelmomento dominante; non stupisce perciò che sia rima-sta un esempio isolato nella carriera di Federico Melis.Se anche questi realizzerà di nuovo saltuariamente del-le sculture (ad esempio un busto di Sebastiano Satta ealcune figure in terracotta, esposti alla Sindacale sardadel 1933 a Cagliari) il suo impegno prevalente conti-nuerà ad essere, com’era stato fino a quel momento, laproduzione di serie. Stabilitosi nel 1932 a Roma, l’artista apre un laboratorioa Centocelle; ma le difficoltà incontrate nella capitale lospingono presto a trasferirsi a Urbino, dov’è chiamatoad insegnare nella Scuola del Libro dall’allora direttore,il conterraneo Mario Delitala. Quando gli viene propo-sto di tornare in Sardegna per prendere la cattedra diceramica nella neonata Scuola d’Arte di Sassari, si vedequindi costretto a rifiutare, mettendo avanti il compitodi «riattivare una scuola in completo abbandono e cheora vogliono far risollevare a nuova vita» e la missionedi essere degno continuatore della tradizione urbinate.46

La produzione di quegli anni non si distingue però perparticolari impennate creative. L’artista passa a modidéco più convenzionali nell’oggettistica e affronta nelcontempo la tematica sacra in alcune opere di commis-sione (l’altorilievo con Cristo re per la chiesa di Orsaio-la, 1940); nei soggetti sardi – mai del tutto abbandonati– adotta invece un tono di rude primitivismo, la cuipremeditata sgradevolezza prelude agli sviluppi che ilsuo stile conoscerà più tardi, dopo il trasferimento aUrbania. Qui (dove fonda nel 1945 la Ceramica d’ArteDurante, e quindi la Scuola Artigiana di Ceramica Me-tauro) il suo lavoro lascerà gradualmente emergere unavena di espressionismo fantastico e visionario, dagli ac-centi aggressivamente naïf. Federico Melis non farà più ritorno in Sardegna. Lo stes-so vale per Melkiorre, che aveva spesso collaborato conla SCIC e che negli anni Trenta, pur continuando aesporre nelle mostre sindacali sarde, concentra la pro-pria attività a Roma. Nella capitale fonda il MIAR – Im-presa Artistica Artigiana Melis-Alessandrini – nel cui am-pio raggio d’interessi (dalla decorazione all’arredamento)la ceramica occupa un posto preminente. Sentendo ilvento novecentista, Melkiorre accantona le geometriedel suo déco di sapore folklorico per far posto a ricer-che nuove tanto sul piano dei temi che su quello dellostile. Compaiono ora soggetti religiosi e zoomorfi, e so-prattutto un repertorio di sapore esotico che attinge al-l’immaginario coloniale. Se la ceramica “sarda” avevatrovato il suo campo privilegiato nella decorazione disupporti bidimensionali come piatti e mattonelle, ora

339

527

528

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:20 Pagina 339

l’artista punta sulla modellazione di soprammobili, con-tenitori e piccole sculture con figurine di donne africa-ne e di animali. I volumi mantengono nella loro elegan-te scheggiatura il ricordo delle secche geometrie deglianni Venti, ma la sintesi formale – a tratti molto accen-tuata, come nella Beduina (1929) chiusa entro la massagialla del mantello, o come nella Testa di africana inca-stonata nell’aureola déco dell’acconciatura – è senz’altroquella del nuovo decennio.È probabilmente la notorietà conquistata con questi la-vori che procura a Melis l’importante incarico di diretto-re della Scuola Artigiana di Ceramica Libica a Tripoli, af-fidatogli nel 1934 da Italo Balbo. Nell’ambito dellascuola, la cui attività proseguirà fino all’inizio degli anniQuaranta, nasce una produzione ceramica che declinain senso déco l’eredità della tradizione ispano-araba, so-vrapponendovi reminiscenze egizie e suggestioni “pri-mitive”. I rivestimenti in piastrelle, come quello docu-mentato in una foto del caffè concerto di Suk-el-Muscir(1937),47 sembrano averne rappresentato l’aspetto piùcaratteristico; ma in essa rientrano anche gustose varia-zioni su un repertorio nègre, come la sontuosa bambolain ceramica, cuoio, legno e tessuto, realizzata in dueversioni intorno al 1938. Con il distacco – tanto fisico che culturale – dei fratelliMelis dalla Sardegna si chiude nei primi anni Trenta lastagione iniziale della ceramica sarda del Novecento (so-lo nel dopoguerra, in un clima completamente mutato,entrambi ritroveranno nell’Isola una fonte di ispirazione,all’insegna della riscoperta della preistoria nuragica).Come abbiamo visto, questa prima fase si caratterizzaprincipalmente per la diffusione di un Déco d’improntafolklorica cui erano sottese forti ragioni ideologiche disegno regionalista e sardista. Tramontate, col consolidar-si del regime fascista, quelle premesse ideali, del folklo-rismo non resta che il richiamo esotico, pronto a trasfor-marsi in colorata attrattiva turistica. La ceramica vede ora l’intervento di artisti dediti princi-palmente ad altri ambiti di ricerca, pittori come Giusep-pe Biasi o illustratori come Tarquinio Sini ed Edina Al-tara,48 attratti dalle sue ampie possibilità di diffusionecommerciale. Per Biasi si tratta di un impegno episodi-co: dopo gli esperimenti compiuti nei primi anni Venti,il pittore si accosta nuovamente alla ceramica nel 1939,con una serie di disegni per piatti raffiguranti scenepaesane, eseguiti per la Bottega d’Arte Cau di Cagliari.L’idea era quella di far realizzare i bozzetti dall’amicoAlessandro Pandolfi, apprezzato ceramista attivo a Vare-se, ma il progetto non sembra aver avuto seguito; concertezza si sa invece che almeno uno di essi fu realizza-to dalla Lenci.49 Quanto a Sini, del suo interesse per laceramica sono indizio, già negli anni Venti, alcune terre-cotte dipinte in color bronzo, di sapore cubo-futurista,opere nate forse dal contatto con le cerchie del secondoFuturismo romano, da lui frequentate ai primi del de-cennio, o dal rapporto con gli ambienti di Albisola, ri-cordato da alcune testimonianze.50 Incerte e confuse

nella composizione, rivelano tutta l’approssimazionecon cui l’artista si era accostato ai temi dell’avanguardiae, sebbene ne attestino la volontà di aggiornamento,certo non contano tra le sue cose migliori. Una gustosacaricatura strapaesana è invece l’Uomo con bisacce, cheattesta il passaggio di Sini per il laboratorio cagliaritanodi Federico Melis, mentre una serie di mattonelle consoggetti sardi disegnata negli anni Trenta per la Esseviriprende lo stile sciolto e pieno di verve che aveva a suotempo condotto l’artista ad affermarsi in qualità d’illu-stratore alla guida del foglio umoristico torinese Pasqui-no, e di cartellonista negli ambienti del cinema romano. Illustratrice di successo è anche Edina Altara, attiva inquesto periodo a Milano ma costantemente presente inSardegna proprio attraverso la sua produzione ceramica.I suoi bozzetti per piatti e mattonelle (realizzati, su com-missione della ditta Margelli, dalla manifattura Cerami-che Faentine di Minardi, e occasionalmente dalla Lenci)raffigurano snelle fanciulle e coppie imbrillantinate, ve-stite di costumi paesani che paiono disegnati e tagliatida un sarto di grido, con uno stile che ripete quello,mutuato dal figurino di moda e neutro fino all’imperso-nalità, che l’autrice impiega nelle sue tavole illustrate.Per qualche verso più interessanti, malgrado la povertàdella tecnica, sono le mattonelle decorate a freddo cheAltara comincia a realizzare nei primi anni Quaranta,quando la penuria di materiali dovuta alla guerra rendedifficile la smaltatura dei pezzi. Recuperando una prati-ca a lei cara fin dal tempo degli esordi, quella del col-lage, l’artista crea bozzetti la cui sommaria schematiz-zazione geometrica dà luogo a immagini dal decisoimpatto visivo, e per la cui esecuzione viene messa inpiedi una piccola industria domestica che vede arruola-te le sorelle Iride e Lavinia.Le mattonelle dipinte a freddo dell’Altara arrivano ultimein un mercato locale che fin dai primi anni Trenta hacominciato ad essere invaso da una schiera di produzio-ni consimili nella tecnica e goffe e dilettantesche nellostile, destinate ai turisti, contro le quali si scaglia a più ri-prese un osservatore attento della scena delle arti appli-cate come Eugenio Tavolara.51 Nella sua condanna delleterrecotte decorate a olio con le «eterne donnette di De-sulo in primo piano, due casette di sfondo, visi da gior-nale di mode», e le immancabili cornici tipo filet,52 Tavo-lara ha di mira soprattutto le botteghe di Dorgali, paesedove l’esempio di un allievo di Ciusa, Ciriaco Piras,53 hagenerato uno stuolo di seguaci dall’ispirazione stucche-volmente ripetitiva e di un’imperizia tecnica spesso pri-va persino del fascino dell’ingenuità.Proprio da Dorgali, tuttavia, prende le mosse in questoperiodo un autentico talento: Salvatore Fancello, artistache, trovando nella ceramica il mezzo più congeniale alsuo lavoro di scultore, ne farà veicolo di un’esperienzacreativa di rara intensità e freschezza, consumata nel gi-ro brevissimo di un decennio;54 esperienza che sorpren-dentemente, malgrado gli studi ad essa dedicati a par-tire dalla monografia di Salvatore Naitza, che nel 1988

340

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 15:57 Pagina 340

341

529

529. Edina Altara, A convegno, 1935piatto in terraglia dipinta e invetriata mat, Ø 33,2 cm, Oliena, Hotel Ristorante Su Gologone.Siglato, sul retro: Lenci Torino Italy.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:09 Pagina 341

342

530

531

530. Ceramiche realizzate da SalvatoreFancello all’ISIA di Monza, 1934.

531. Salvatore Fancello, Gatto con gattini, 1934-37terra refrattaria graffita e colorata con diverse tonalità di ingobbio, lungh. 20 cm,Nuoro, collezione privata.

532. Salvatore Fancello, Capre, 1938vaso, terracotta graffita, smaltata, dipinta con cristallina, h 25,3 cm, Oliena, Hotel Ristorante Su Gologone.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:44 Pagina 342

343

532

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:09 Pagina 343

ne avviò la riscoperta,55 continua ad essere poco cono-sciuta.56 A rigore, l’opera di Fancello non dovrebbecomparire nel contesto di un esame della ceramica inSardegna, perché la sua attività si svolse sostanzialmentenell’ambiente milanese; tuttavia il forte legame affettivointrattenuto con l’Isola, per lui indissolubilmente legataal mondo incantato dell’infanzia, e la costante presenzadi questa come motivo ispiratore della sua opera, ren-dono impossibile ignorarne qui la vicenda.Gli anni fra il 1930 e il 1941 – quando scomparirà, appe-na venticinquenne, sul fronte albanese – vedono Fancel-lo transitare dapprima nella bottega di Ciriaco Piras co-me giovanissimo apprendista, quindi spostarsi all’ISIA diMonza, dove compie la sua formazione, e subito brucia-re le tappe di un precoce successo. All’ISIA studia sottola guida di maestri di prim’ordine: Arturo Martini, quasisubito sostituito da Marino Marini, per la scultura, KarlWalter Posern, Virigilio Ferraresso e Umberto Zimelli perla ceramica, senza dire della presenza nella scuola, a di-verso titolo, di figure come Guido Andlowitz, MarcelloNizzoli, e soprattutto Edoardo Persico e Giuseppe Paga-no. Se Ferraresso gli è prodigo di preziosi consigli anche

fuori delle aule scolastiche (dal 1934 gli apre le portedel suo laboratorio padovano, fucina di ricerche e speri-mentazioni tecniche), Pagano ne sosterrà il lavoro, chia-mandolo a partecipare, fin dal 1936, alle Triennali mila-nesi in cui l’artista avrà modo di segnalarsi. Fancello parte da lavori di accentuata densità plastica,come alcune terrecotte memori dell’esempio martiniano(Il citaredo, del 1934), altre con buffe figure di animali,più liberamente divaganti tra i meandri di un immagi-nario carico di affettuosa ironia, o come la sinteticaDonna con cerbiatto e paesaggio del 1935. Ma il suo di-scorso si sviluppa presto in direzioni nuove, in tangen-za con le ricerche compiute contemporaneamente nellagrafica e presto trasferite in lavori decorativi: del 1936 èil pannello murale a piastrelle realizzato insieme a Co-stantino Nivola ed esposto in quell’anno alla Triennaledi Milano, grande fantasia coloniale evocata da un se-gno fluido e da trasparenti stesure cromatiche, che por-terà Pagano a indicare nei giovani autori due «tra i piùpromettenti artisti italiani».57 Da questo momento Fan-cello andrà progressivamente accentuando il dinami-smo delle forme, nei tenui rilievi di piatti e vasi e nelle

344

533

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:09 Pagina 344

534

533. Salvatore Fancello, Cinghiali, 1938-39terracotta ingobbiata e smaltata con partinon cristallinate, lungh. 30,5 cm, Nuoro, MAN.

534. Salvatore Fancello, La grotta deicinghiali rossi, 1938terracotta smaltata, lungh. 28 cm, Nuoro, collezione privata.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:50 Pagina 345

346

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:09 Pagina 346

347

535

535. Salvatore Fancello, Cinghiali, 1938-39terracotta smaltata con ritocchi di colore sottovetrina, lungh. 34 cm, Milano, collezione privata.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:09 Pagina 347

plastiche dai volumi scavati, torti e allungati, illuminatida un gioco mutevole di riflessi. Dopo la fine degli stu-di, la sua maturazione artistica è estremamente rapida, everrà prontamente sancita, nel 1940, dal successo ripor-tato nuovamente alla Triennale milanese, in cui il suonome viene accoppiato a quello di Leoncillo da Sini-sgalli nella definizione di enfants terribles della mostra,il primo caratterizzato da un esaltato lirismo, il secondoda un racconto favoloso, dalla «prosa articolatissima, mi-nuta e aneddotica».58

Sebbene il suo immaginario figurativo – incentrato sulsogno di una natura primordiale e straniata, colta comeall’indomani della creazione, popolata di curiose belvemansuete, di mucche sognatrici, di ruvidi e bonari cin-ghiali e di cento altri animali esotici e domestici – affon-di chiaramente le radici nell’esperienza infantile e nel ri-cordo trasfigurato della sua terra, l’arte di Fancello non èil frutto esclusivo della fantasia nostalgica e di uno spon-taneo talento, non nasce dall’istintiva effusione di unanimo incolto; al contrario, sarebbe difficilmente conce-pibile senza la ricchezza di apporti culturali assimilatinell’ambiente milanese, per quanto ovviamente rielabo-rati da una personalissima visione poetica. Il dialogo trafluidità del segno e valori plastici, che innerva tutta la ri-cerca dell’artista, nasce dalla varietà di stimoli offertiglidalla cultura milanese degli anni Trenta: dalla concezio-ne di una forma franta e corrosa, agli antipodi dalle so-de volumetrie novecentiste; dal contagio esistenziale delvitalismo e romanticismo del gruppo di Corrente e dallapolemica di questo contro il monumentalismo e la reto-rica prevalenti nell’arte ufficiale del regime; dalle apertu-re ancora di Corrente e prima ancora dei chiaristi allacultura francese, i cui maestri (Matisse, Dufy, Marquet,Modigliani, ma anche Ensor e Van Gogh) l’amico diFancello, Nivola, avrebbe ricordato di aver copiato avi-damente insieme ai suoi compagni dalle riviste.L’accanito scandaglio della superficie nei suoi valorimaterici e chiaroscurali, il liquefatto splendore del colo-re, il grafismo insistito e delicato insieme, sono tuttiportati dell’esperienza milanese, e in particolare, comeè stato più volte rilevato, dalla tangenza con Lucio Fon-tana, la cui scultura in ceramica doveva toccare cordesensibili nel giovane artista. Con Fontana, figura benpresente nel contesto delle Triennali, Fancello entra incontatto diretto nel 1937-38 ad Albisola, quando en-trambi lavorano nel laboratorio di Tullio Mazzotti; ed èdifficile non vedere un legame tra quell’incontro e leultime ricerche del sardo, presto troncate dalla morte.Più in generale, il mondo di Fancello, nel suo stupefat-to candore, attinge al clima primitivista, di colta naïvetéche aleggia nel capoluogo lombardo, e che trova nel-l’insegnamento di Persico il suo epicentro e il suo sti-molo. Se, come è stato ricordato, non sussistono provedi un’influenza diretta di questi su Fancello,59 è anchevero che – fatta salva l’inclinazione spiritualista che nonsembra di poter riscontrare nel suo tenero universo pa-gano – la visione dell’artista sardo collima per molti

aspetti con quella del critico, interessato come si sa allevalenze luministiche della scultura, e particolarmenteattento alla ceramica, nonché sostenitore di una linea dicultura francesizzante che faceva perno sugli stessi no-mi cari a Fancello.60

La vicenda di Fancello si svolge, come si è detto, pres-soché interamente fuori della Sardegna; nell’Isola pro-duce comunque qualche conseguenza, attraverso l’epi-sodio della collaborazione, verso la metà degli anniTrenta, col cognato Simone Lai, alla cui bottega di Dor-gali l’artista fornisce dei disegni che verranno alquantoimpoveriti nella trasposizione ceramica, e nei quali(concessione non tanto al gusto locale quanto al mer-cato turistico) fa capolino il tema folkloristico con per-sonaggi in costume sardo.

Note

1. Cfr. P.G. Castagnoli, F. D’Amico, F. Gualdoni 1989.

2. Un altro scultore che fu anche valente ceramista, Gavino Tilocca,avrebbe iniziato il suo percorso nella ceramica dopo la seconda guer-ra mondiale, in un periodo che esula dal tema di questo saggio.

3. La Sardegna rappresenta infatti il caso singolare di una regione chesolo a partire dai primi anni del Novecento ha sviluppato una produ-zione figurativa autoctona di tono “colto”, in sintonia con la ricercaidentitaria avviata dalle cerchie politiche e intellettuali. Cfr. G. Altea,M. Magnani 1995.

4. Cfr. Galileo Chini, a cura di F. Benzi e G. Cefariello Grosso, Milano1988, p. 198.

5. Lettera di G. Biasi a A. Bucher, Cagliari, 12 maggio 1919, in G. Al-tea, M. Magnani 1998, p. 334.

6. Su Ciusa cfr. R. Bossaglia 1990; G. Altea 1989; Francesco Ciusa1998; G. Altea 2004.

7. «Ritornato alla bella Firenze per frequentare il secondo corso, unpo’ meno preoccupato della vita aiutandosi nel modellare figurine dimoda per ceramiche», si legge in un appunto inedito di Ciusa (Archi-vio Ciusa, Cagliari). Un accenno al documento è in R. Branca, La vi-ta nell’arte di Francesco Ciusa, Cagliari 1975, p. 96.

8. Oltre al caso di Andreotti ricordato da Branca, si può citare l’esem-pio di Domenico Baccarini, a Firenze negli stessi anni di Ciusa, e chedal 1903 avvia una collaborazione con la fabbrica di ceramiche deifratelli Minardi a Faenza. Cfr. S. Dirani, “Domenico Baccarini. Il rac-conto di una vita”, in Domenico Baccarini, catalogo a cura di S. Dira-ni e C. Spadoni, Milano 2007, p. 324.

9. La foto, più volte pubblicata, è riferibile a una data anteriore di di-versi mesi al novembre 1914, data che vedeva Sebastiano Satta spe-gnersi, consunto dalla malattia.

10. È quanto sembra emergere dalla stampa dell’epoca e dalla testi-monianza tra gli altri di Valerio Pisano, artista che conobbe Ciusa alprincipio degli anni Trenta.

348

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:09 Pagina 348

11. Fin dal 1908 Duilio Cambellotti usava firmare con le proprie ini-ziali seguite da una spiga di grano. Per il ricorrere del tema della spi-ga nelle sue opere, cfr. G. Frantone, “Per un’analisi del ‘ruralesimo’nella Collezione Wolfson. Da Cambellotti alla ‘mistica rurale’ fascista”,in La visione del prisma. La Collezione Wolfson, catalogo a cura di S.Barisione, M. Fochessati, G. Franzone, Milano 1999, p. 85.

12. Ricordiamo ancora, fra i paesi di antica tradizione nella ceramicapopolare, Decimomannu, Pau e Villaputzu. Cfr. M.G. Da Re 1983 (laDa Re fa pure osservare come Dorgali, centro attivissimo nel Nove-cento, non risulti invece mai citato dalle fonti ottocentesche).

13. R. Bossaglia 1990, p. 20.

14. Cfr. G. Altea 1991.

15. Cfr. G. Altea, “Francesco Ciusa: gli anni delle Biennali (1907-1928)”, in Francesco Ciusa 2007.

16. Wildt aveva una sala alla Biennale del 1922 insieme a Mazzucotel-li; Ciusa vi era a sua volta presente con L’ucciso. Al ritorno in Sarde-gna dopo la visita a Venezia avrebbe trovato ad attenderlo la notiziadella morte del figlio.

17. Per l’accostamento tra Ciusa e Cambellotti, cfr. G. Altea 1989. CheCiusa e Cambellotti si conoscessero personalmente è confermato dairicordi del figlio di Cambellotti, Lucio, e dalla presenza in casa Cam-bellotti di un piccolo rilievo di bronzo di Ciusa. Cfr. A. Cuccu 2000,p. 11 e nota 19.

18. Cfr. G. Altea, “Francesco Ciusa” cit.

19. Per la partecipazione degli artisti sardi alla I Biennale di Monza,cfr. G. Altea, “Arte decorativa in Sardegna 1919-1929”, in G. Altea, M.Magnani 1989, pp. 24-26; G. Altea, M. Magnani 1995, pp. 208-209.Per il contesto della mostra cfr. O. Selvafolta 2003.

20. R. Papini, “La mostra delle arti decorative a Monza. III. Le arti del-la terra”, in Emporium, LVIII, n. 343, Bergamo, luglio 1923, p. 16.

21. “L’inaugurazione della Fiera Campionaria di Padova. Il successodel Padiglione Sardo”, in L’Unione Sarda, Cagliari, 16 giugno 1924;M. Riccio, “I giuocattoli ‘Atte’ e l’arte sarda alla fiera internazionale diarte decorativa di Parigi”, in La Tribuna, Roma, 24 aprile 1925.

22. Cfr., sui due artisti, M. Marini, M.L. Ferru 1997 (molto lacunoso perquanto riguarda la bibliografia recente); A. Cuccu 1989; A. Cuccu 2004.

23. Cfr. Duilio Cambellotti e la ceramica a Roma dal 1900 al 1935, acura di M. Quesada, Firenze 1988. Su Melkiorre Melis, A. Cuccu 2004.

24. Per la Rivista sarda, cfr. G. Altea, M. Magnani, Le matite di un po-polo barbaro. Grafici e illustratori sardi 1905-1935, Milano 1990, p. 84.

25. Società Amatori e Cultori di Belle Arti. Roma MCMXXVI – XCIIEsposizione di Belle Arti, Roma-Milano 1926, p. 77.

26. Società Amatori e Cultori di Belle Arti cit., p. 82.

27. Lettera di M. Melis a P. Marica, non datata, ma riferibile all’aprile1926.

28. “Un artista che ha trovato il suo stile. Alla Sala Sarda degli Amato-ri e Cultori”, in L’Unione Sarda, Cagliari, 21 aprile 1926.

29. Federico Melis attribuisce vagamente il fatto di essersi presentatoagli Amatori e Cultori del 1926 con delle terrecotte e non con dellemaioliche a «un complesso di circostanze che mi sono state contrarie»;lettera a P. Marica, Assemini, 22 aprile 1926 (archivio Marica, Cagliari).

30. Lettera di F. Melis a P. Marica, Assemini, 22 aprile 1926 (archivioMarica, Cagliari).

31. S. Ruju, “Arte sarda in tempo di guerra. Gli scultori”, in Il Giorna-le d’Italia, Roma, 14 marzo 1917.

32. Lettera di F. Melis a S. Ruju, Cagliari, 19 marzo 1917.

33. Lettera di F. Melis a S. Ruju, Cagliari, 19 marzo 1917.

34. Pino Melis (Bosa 1902-Roma 1985), illustratore e decoratore, si èdedicato anch’egli alla ceramica sotto la guida di C. Cagli, dopo esser-si trasferito a Roma nel 1921. Benché abbia esposto saltuariamente inSardegna (nel 1929 alla Mostra della Primavera Sarda di Cagliari e alle

due mostre Sindacali del 1930 e 1931), il suo rapporto con l’Isola èstato assai meno stretto di quello intrattenuto dai due fratelli.

35. M. Sarfatti, “Alcuni artisti sardi”, in La fiaccola accesa (polemiched’arte), Milano s.d. (1917), pp. 102-103.

36. La riproduzione è in M. Sarfatti, “Battaglie d’arte. La Mostra sardainaugurata a Milano”, in Il Mondo, a. III, n. 22, Milano, 3 giugno 1917,p. 8.

37. Una foto datata 4 giugno 1923, conservata al museo di Urbania, mo-stra una serie di sei modelli di plastiche in terracotta, tra cui la Sulcitanagià datata al 1925 in M.L. Ferru, M. Marini 1997, p. 115. Uno dei primiesperimenti di stilizzazione radicale rappresenta la terracotta dipinta afreddo Donna con rosario, scheda n. 205 in G. Altea, M. Magnani 1995.

38. Qualità ben evidenziate in alcuni fogli di disegni (Roma, collezio-ne privata) dove la svelta essenzialità della resa grafica sottolinea laconcisione plastica e la ricerca di effetti esotici e arcaizzanti.

39. S. Prunas de Quesada 1926.

40. “Arte rustica nella casa moderna”, in La casa bella, a. I, n. 3, Mila-no 1928, pp. 18-19.

41. Società Amatori e Cultori di Belle Arti cit., p. 81.

42. Totalmente dimenticato dopo la sua scomparsa (anche per la dif-ficile reperibilità delle opere) l’artista è stato riscoperto nel 1989 conuna mostra e un catalogo: G. Altea, M. Magnani 1989. Una scheda gliè dedicata da M. Marini, M.L. Ferru 1990, la cui bibliografia curiosa-mente ignora il testo precedente.

43. G. Altea, M. Magnani 1989, pp. 43-67.

44. Così riferiva Vincenzo Farci, collaboratore dell’artista. Cfr. M. Ma-rini, M.L. Ferru 1990, p. 252.

45. R. Delogu, “La Seconda Mostra sindacale Sarda”, in L’Italia lettera-ria, Roma, 24 maggio 1931.

46. Federico Melis, lettera al direttore della Scuola d’Arte di Sassari,Filippo Figari, Urbino, 8 novembre 1935, Sassari, archivio dell’IstitutoStatale d’Arte “F. Figari”.

47. Cfr. A. Cuccu 2004, fig. 152.

48. Su questi artisti, cfr. G. Altea, M. Magnani 1998; P. Pallottino 1998;A. Pau 2004; G. Altea 2005.

49. Il piatto è pubblicato senza data e senza indicazione dell’autorein A. Panzetta 1992, p. 249.

50. Cfr. A. Pau 2004, p. 114.

51. E. Tavolara, “Appello al buon senso”, in Bollettino trimestrale Sin-dacato Regionale Fascista Belle Arti della Sardegna, a. I, n. 2, Genova,agosto 1932, pp. 20-22; E. Tavolara, “Arti popolari ed artigianato arti-stico in Sardegna”, in L’Artigiano, Roma, 12 febbraio 1937; L’UnioneSarda e La Tribuna, 24 febbraio 1937; L’Isola, Sassari, 3 marzo 1937.

52. E. Tavolara, “Arti popolari ed artigianato artistico in Sardegna” cit.

53. Su Ciriaco Piras, cfr. il saggio di Antonello Cuccu dedicato alla ce-ramica di Dorgali in questo volume.

54. Su Fancello cfr. la pionieristica monografia di S. Naitza, I. Delogu1988; e ora A. Crespi 2005.

55. S. Naitza, I. Delogu 1988; B.T. Mele 2002; Nivola Fancello Pintori.Percorsi del moderno 2003; R. Cassanelli 2003; A. Crespi 2005.

56. È sintomatico che il nome di Fancello non compaia in un testoquale Edoardo Persico e gli artisti. Il percorso di un critico dall’impres-sionismo al primitivismo, catalogo a cura di E. Pontiggia, Milano 1998,in cui sarebbe stato logico inserirlo.

57. G. Pagano, “Arte decorativa italiana”, in Quaderni della Triennale,Milano 1938, p. 26.

58. L. Sinisgalli, “Leoncillo e Fancello”, in Domus, n. 151, Milano, lu-glio 1940, p. 70.

59. Cfr. R. Cassanelli 2003, p. 28.

60. Cfr. Edoardo Persico e gli artisti cit.; R. Cassanelli 2003.

349

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:09 Pagina 349

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:09 Pagina 350

351

Nell’Europa del dopoguerra la ceramica conosce unmomento di grande successo, in relazione al rinnovatointeresse per le arti decorative e ad esperienze di ricercaartistica (come quelle di Pablo Picasso, Lucio Fontana eTullio d’Albisola) che in parte derivano ed in parte de-terminano questo clima.In Sardegna un forte impulso è dato dal risveglio d’in-teresse per la civiltà nuragica, in un contesto favorevolealla valorizzazione delle culture mediterranee e grazie afondamentali campagne di scavo.1 Per l’Isola è l’occa-sione per catalizzare su di sé l’attenzione nazionale.L’eredità nuragica passa dall’essere parte (inerte) delpaesaggio rurale a protagonista archetipica di una cul-tura che si vuole antica ed incontaminata eppure adattaalla modernità.2

Melkiorre Melis (Bosa 1889-Roma 1982) coglie questoclima culturale3 con le Interpretations ceramiques del’Art Nouragiques Votif de l’Île de Sardaigne del 1949.Prendendo spunto dai bronzetti e dagli idoli fittili, l’arti-sta trasferisce modelli formali e carica simbolica nel me-dium ceramico, con un’operazione tutt’altro che scontata.Le sue Interpretazioni, dai colori squillanti ed azzardati,poggianti su basi in ceramica ad imitazione del legno(un accento kitsch ironicamente evocato), con i loro ri-chiami identitari, la loro piacevolezza estetica e l’umori-smo sotteso, sembrano contenere in nuce gli effetti del-l’arte nuragica sul panorama artistico ed artigianalesardo, che si approprierà della tematica spingendola avolte sino agli eccessi dello stereotipo.Anche Federico Melis (Bosa 1891-Urbania 1969), purtrasferitosi stabilmente ad Urbania dal 1944, si ispira al-l’antica cultura autoctona della Sardegna, mantenendocosì un legame simbolico con la sua terra, nella qualenon farà più ritorno. Il suo approccio al tema è menodidascalico: la cultura nuragica è un passato mitico dalquale emergono mostri leggendari e guerrieri come in-trappolati o trasformati in oggetti d’uso (vasi e brocche).Figure che negli anni Sessanta tenderanno ad attenuarei riferimenti regionalistici per attingere ad un repertoriofantastico di spauracchi, in cui la tecnica virtuosistica è

al servizio di un registro stilistico grottesco, interpretatocon efficacia ed originalità.Il filone nuragico è precocemente frequentato anche daGavino Tilocca (Sassari 1911-1999), altro innovatore del-la ceramica sarda post-bellica. Scultore prima e poi an-che pittore, nei primi anni Cinquanta trova nella cerami-ca la sintesi tra le due arti maggiori. I Guerrieri nuragicie i Cavalli, nei quali è determinante l’influsso dell’operadi Marino Marini, si caricano di un pathos espressivo incui pari valore hanno il modellato, giocato sulle con-trapposizioni di pieni e vuoti, e il colore, che esplodesulla superficie come la lava di un vulcano o sottolineadettagli, mimando in altri casi superfici bronzee. Lo scultore, docente di ceramica all’Istituto d’Arte diSassari, avvia una produzione seriale di alto artigianato,in cui emerge l’amore per i soggetti, soprattutto nelletematiche predilette della donna sarda (ritratta in diver-se fasi, come aggraziata contadina o nell’essenzialitàdelle Vedove di fine anni Ottanta)4 e degli animali (ilcinghiale in particolare, che appare il precipitato sim-bolico di una “sardità” difesa con convinzione ma an-che bonaria ironia).L’esperienza di Tilocca dimostra quanto, nel contestodella ceramica sarda, sia frequente e fecondo lo scam-bio di conoscenze e ruoli tra artisti, artigiani e designer. La figura chiave per comprendere questo fenomeno èEugenio Tavolara (Sassari 1901-1963), che già nell’im-mediato dopoguerra utilizza la terracotta nel suo lavorodi scultore, per bozzetti preparatori (Il risparmio ed illavoro, 1943), per opere religiose in cui si riflette ladrammaticità della situazione storica (Flagellazione,1944; Deposizione coi cani, 1946),5 e per interventi dimaggior respiro come il rilievo L’Agricoltura collocatonel 1952 nell’ICAS di Sassari.6 L’opera, notevole per lacomplessità compositiva ed il dinamismo contenuto inuna visione elegiaca, mostra un uso caratteristico dellapatina che richiama le tarsie lignee. In questi anni Tavo-lara assume un ruolo di primo piano nella rivitalizzazio-ne dell’artigianato tradizionale, come rappresentantedell’ENAPI e, dal 1957, come guida, insieme ad UbaldoBadas, dell’ISOLA. Lavora come promotore e designerper la produzione artigiana ed al contempo avvia colla-borazioni con gli artisti. L’interesse per la ceramica, nato

La ceramica degli artisti dal dopoguerra ad oggiAntonella Camarda

536. Gavino Tilocca, Notte e Giorno, anni Settanta sec. XX(particolare della fig. 539).536

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:09 Pagina 351

in lui durante la docenza all’Istituto d’Arte di Sassari, siconcretizza nel 1960 nei progetti per Vincenzo Farci, ri-visitazioni delle figure apotropaiche proprie della tradi-zione popolare di Assemini. Un ruolo in prevalenza di designer ha anche MauroManca (Cagliari 1913-Sassari 1969), collaboratore di Ta-volara all’ISOLA e dal 1959-60 direttore dell’Istituto d’Ar-te di Sassari, nel quale chiama ad insegnare le miglioripromesse dell’arte sarda. Tra le sue molteplici esperien-ze di design vi è la collaborazione con il ceramista Pao-lo Loddo a Dorgali (piatti decorativi che richiamanoFancello) e la realizzazione, anche con l’aiuto degli stu-denti dell’Istituto, di pezzi unici o in serie limitate, di gu-sto neo-cubista.La tradizione per Manca «non è un bagaglio, non è unaremora, né una divinità astratta a cui bisogna sottomet-tersi, è semplicemente una forza ed un mezzo che ciaiutano nel nostro cammino»,7 pensiero che spiega lacompresenza di soluzioni ispirate al mondo sardo e al-l’arte nazionale ed internazionale.8

Tra i docenti chiamati da Manca all’Istituto d’Arte c’èPaola Dessy (1937), designer per l’ISOLA e, come arti-sta, fine interprete del mezzo ceramico. Le sue sonoopere intime, autoriflessive, che affondano le radici nel-la memoria (intesa come tradizione ma anche come da-to biografico). Nelle sue realizzazioni sensibilità e rigo-

re si uniscono nell’atto creativo, annullando o compo-nendo i conflitti tra controllo tecnico e formale e ispira-zione poetica.La Sardegna rimane fonte di ispirazione anche per gliartisti che scelgono di lasciare l’Isola. La ceramica (osemplicemente la terracotta), con il suo carattere ele-mentale di unione tra acqua, terra, aria e fuoco, sem-bra poter evocare negli esuli un legame ancestrale conla terra di origine.Maria Lai (Ulassai 1919) si forma a Roma con MarinoMazzacurati e poi a Venezia con Arturo Martini. L’usointensivo della terracotta e della ceramica (di cui padro-neggia bene le tecniche, in omaggio ad una concezio-ne dell’arte che è innanzitutto “fare” e “materia”) puòforse derivare dalla sfiducia di Martini nella sculturamonumentale. La ceramica, pur nel suo statuto ambi-guo, a metà strada tra arte ed artigianato, è comunquemeno compromessa rispetto ad un materiale “nobile”come il marmo.Il presepio, un tema la cui prima realizzazione si deve alfecondo incontro con Tavolara e che viene poi esplora-to negli anni, è «uno spazio che si offre alla creatività ditutti, a tutte le abilità artigianali e tecnologiche, alla me-moria di culture popolari, fiabe e realtà di ogni tempo»;9

veri e propri mondi in cui sacro e profano si incontra-no, evocano il paesaggio antropizzato della Sardegna,

352

537

537. Gavino Tilocca, Uomo sul toro, 1959terracotta smaltata, lungh. 54 cm, Faenza, MIC (Museo Internazionaledelle Ceramiche, inv. 9868).Opera vincitrice del primopremio dell’Ente Provincialeper il Turismo di Ravenna(opere a decorazione plastica),nell’ambito del XVII ConcorsoNazionale della Ceramica diFaenza.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:09 Pagina 352

538

scenario ideale per una rappresentazione religiosa nonin quanto connessa ad un culto specifico ma perchéanelante all’infinito. Le figure, solide e allo stesso tempovibranti, modellate con tagli geometrizzanti («donne chesembrano obelischi»),10 rese con rigore formale (anchein questo memore della lezione martiniana),11 che non acaso l’artista stessa associa alla serietà dei giochi infanti-li, sono spesso completate da un paesaggio di carta che,anziché limitarle, le immerge in un’atmosfera di comu-nione cosmica.

Una comunione che Maria Lai trova anche con le figu-re dell’immaginario magico femminile della Sardegna:le janas (fate) e Maria Pietra, la maga che con lacrimee farina impasta bambini di pane, nel vano tentativo dicolmare il vuoto lasciato dal figlio perduto.Questa figura, tratta da un racconto di Salvatore Cambo-su12 e ispiratrice di diverse opere di Maria Lai, può esse-re vista come un alter ego dell’artista che, per recuperareun’assenza (il suo distacco dalla Sardegna, doloroso manecessario), plasma figure di pane, in cui confluiscono

538. Gavino Tilocca, Battaglia,anni Settanta sec. XXterracotta smaltata e riflessata,h 50 cm, Sassari, collezioneprivata.

353

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:09 Pagina 353

sentimenti e memorie. E tra la creta, il pane e la memo-ria vi è un legame molto stretto, quasi un’identificazio-ne: «Anche manipolare la creta mi deriva dalla visione ditante donne che facevano il pane, infatti prima ancoradi scolpire la creta ho manipolato il pane e dietro di mequante donne con i pani speciali delle feste».13

Il parallelismo tra pane e ceramica, che si esplicita neipani, ad esempio nella Mensa del 2002, è uno dei traitd’union che lega Maria Lai e Costantino Nivola (Orani1911-Long Island 1988), accomunati anche dalla condi-zione di esuli e da un rapporto di amicizia testimoniatoda un epistolario14 e dall’omaggio che nel 1989 Mariatributerà all’amico scomparso.15

Anche per Nivola dunque il gesto di impastare la cretarimanda all’atto della preparazione del pane. Compito ecompetenza delle donne sarde, si carica nel ricordo disignificati sacri e comunitari, ed è accomunato alla ter-racotta anche dalla presenza del forno, che trasfigura lamateria iniziale in qualcosa di semplice ed al tempostesso prezioso.La prima esperienza di Costantino Nivola con la cerami-ca si svolge però all’ISIA di Monza, dove stringe amici-zia con Salvatore Fancello. La parete a piastrelle in lito-ceramica realizzata a quattro mani per la Triennale del1936, popolata da esseri fantastici in un’atmosfera rare-fatta e fluida, si iscrive nella temperie culturale italianadel momento, favorevole alla ricerca di un’integrazionetra le arti ed in particolare tra arte ed architettura. Manelle numerose opere rispondenti a questa esigenza,che Nivola realizza negli Stati Uniti, l’opzione ceramicaè scartata in favore di tecniche (il sand-casting, di suainvenzione,16 o il graffito) e materiali, il cemento soprat-tutto, meno connotati artigianalmente e più in simbiosicon l’architettura.La terracotta, invece, ha un ruolo importante nella vi-cenda creativa dell’artista a partire dagli anni Sessanta:contrappunto intimistico alla monumentalità degli inter-venti pubblici, gli permette di esprimere sentimenti, sen-

sazioni e pulsioni che lo accompagnano nella vita ditutti i giorni. Nivola esegue diverse serie: i Ritratti, i Letti, le Spiagge,le Placche, le Piscine, da cui si staccano solitarie le Fi-gure, infine i Vasi e i Piatti. Se nella prima serie dei Letti e nei piccoli ritratti dell’ini-zio degli anni Sessanta si può leggere una certa inquie-tudine (il Ritratto di Frederick Kiesler del 1961 rimandain qualche modo a Francis Bacon), in seguito si avverteun rilasciarsi delle tensioni ed un abbandonarsi alla pia-cevolezza, a volte al divertimento, della modellazione. Nei Letti assume un ruolo fondamentale la coppia, inda-gata nelle diverse dinamiche, mentre le Piscine mostra-no un’umanità varia, sessualmente individuata, che af-folla piccoli spazi in una sarcastica visione della vitacontemporanea; nelle Spiagge infine si rinnova il contat-to dell’uomo con la natura, pervasa da un denso mistici-smo ed un senso del divino che trascende ogni riferi-mento ad una religione codificata.17

354

539

540

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:10 Pagina 354

Terra, Sardegna, Donna, Madre, Pane sono concetti chesi susseguono, concatenati, nella mente dell’artista. «Èdifficile sopravvalutare il peso della figura materna nel-l’immaginario di Nivola»18 e quello della donna, in unavisione fortemente connotata dal punto di vista del ge-nere: lo sguardo e la mano maschili sul corpo femmini-le, come nelle grandi Vedove e Madri, opere della ma-turità, in cui l’uomo è presupposto dalla condizione dilutto e da quella di gravidanza.Il tema della donna-vaso, in cui avviene la trasmutazio-ne della materia (il concetto mistico ed alchemico diMaria come Vas electionis), si esplicita nelle creazionidegli anni Ottanta, in collaborazione con il ceramistaasseminese Luigi Nioi: bastano pochi gesti per trasfor-mare un’anfora realizzata con perfetta tecnica artigianain un corpo femminile, attraverso i gesti virili del preme-re e dell’incidere, per un risultato che rimanda alle crea-zioni delle culture del Mediterraneo antico.Un terzo artista, non propriamente esule ma “continen-tale d’occasione”,19 è Aligi Sassu (Milano 1912-Pollença2000) che, verso la fine degli anni Trenta, raggiungeTullio Mazzotti ad Albisola, conquistando in un lungoapprendistato la maestria tecnica necessaria alla sua esi-genza di conoscere e dominare la materia: una ricercaespressiva parallela ma non sovrapponibile a quellaportata avanti nella pittura. Nel dopoguerra nascono i Cavalli, straordinari per laforza della modellazione e l’intensità del colore, che an-ticipano soluzioni informali, non a caso accostabili alla

355

541

542

539. Gavino Tilocca,Notte e Giorno, anniSettanta sec. XX altorilievo, terracottasmaltata, h 72 cm, Sassari, collezione privata.

540. Mauro Manca, Vaso, 1962terracotta smaltata ecristallinata, h 42 cm,Roma, collezione privata.Modello ISOLA, eseguitoda Canu e Careddu.

541. Maria Lai, Tre donne, fine anniCinquanta sec. XXterracotta smaltata, h 16 cm, Sassari,collezione privata.

542. Maria Lai, Libro,seconda metà anniOttanta sec. XXterracotta parzialmentesmaltata con interventi di patinatura “a freddo”,lungh. 31,5 cm, Bosa,collezione privata.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:10 Pagina 355

fuori dell’Isola, nel 1964 vi si trasferisce definitivamen-te, adottando il tema della pecora sarda, ironico em-blema dell’importanza, anche ideologica, del pastorali-smo in Sardegna. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta c’èun momento di crisi: morti Tavolara nel 1963 e MauroManca nel 1969, ritiratosi Badas alla fine del decennio eterminata quasi d’improvviso22 l’esperienza ceramica diGavino Tilocca nel 1972, anche il contesto nazionaleperde parte dell’interesse per il medium ceramico, ed inSardegna si ripetono repertori ormai stanchi. Pur nella

ceramica di Lucio Fontana.20 Negli Arlecchini all’ispira-zione picassiana si uniscono la passione per il circo e ilricordo delle esperienze di decorazione teatrale. Ancheil mito, altro leitmotiv della poetica dell’artista, è reinter-pretato in piatti, interessanti connubi tra plasticismo epittoricismo (Il bagno di Diana, 1953).Della ceramica di Sassu Tullio d’Albisola dirà che «fi-nalmente, la ceramica italiana ha raggiunto opere discultura assoluta e di pittura assoluta».21

Altro artista in rapporto di “tangenza” con la Sardegnaè Antonio Amore (1918) che, nato e formatosi al di

356

543

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:10 Pagina 356

544

545

543. Personale di Costantino Nivola alla Galleria dell’Ariete, Milano 1962 (foto Ugo Mulas).L’artista alloggiava i Letti in ceramica sopra una superficie ottenuta dai germogli di grano.

544. Costantino Nivola, La donna come stagione e l’uomo come stronzo. Antine, 1971terracotta, lungh. 22,3 cm, Nuoro, collezione privata.L’opera fa parte della serie “I Letti”.

545. Costantino Nivola, Brocca, 1980terracotta invetriata, h 38 cm, Nuoro, collezione privata.Inciso in pasta, sul lato: Nivola 1980.L’opera è stata realizzata ad Assemini in collaborazione con Luigi Nioi.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:10 Pagina 357

continuità di esperienze significative, l’aria è cambiata esembra lecito poter parlare di un filo spezzato.Ripartiamo dal 1987, anno in cui Pinuccio Sciola (SanSperate 1942) realizza un’ampia serie di terrecotte, attrat-to dalla possibilità di plasmare una materia umile e lega-ta fortemente al mondo naturale. Scultura che nasce “pervia di porre”, contrariamente alle opere su pietra “per viadi levare”, l’opera in terracotta permette a Sciola un mo-dellato rapido che raggiunge un alto livello di introspe-zione psicologica soprattutto nella serie Genti de biddamia (gente del mio paese), mentre nelle Figure sembraemergere l’influenza degli uomini di pietra di Nivola.Oggi, mentre continua l’attività degli artisti più maturi,una nuova generazione utilizza la ceramica come mez-zo espressivo. Alcuni continuano ad esplorare, da puntidi vista differenti, “l’eterno femmineo”, in cui cultura ar-caica e tradizionale si incrociano, spesso in connessionecon elementi psicanalitici o notazioni di genere. CosìLes demoiselles de Mamojada di Antonello Cuccu mate-

rializzano lucide e perfette dee madri in veste contem-poranea, mentre i busti realizzati in terracotta da Cristia-na Carta sono scudi appuntiti potenzialmente fragili maserrati e minacciosi. Il femminile si declina in forme ani-coniche nei Licuccos di Caterina Lai, che convoglianotemi come la memoria, il gioco, gli elementi naturali.L’arte nuragica continua ad essere fonte di ispirazione eriappropriazione identitaria (Ferdinando Medda) non pri-va di una certa attenzione al commerciale. Pochi hanno

546

547

548

546. Lavinia Altara, Salomè, seconda metà anni Cinquanta-primi anni Sessanta sec. XXbassorilievo, terracotta, lungh. 71,5 cm, Cagliari, collezione privata.

547-548. Pinuccio Sciola, Figure sdraiate, anni Ottanta sec. XXterracotta, rispettivamente lungh. 12 e 12,5 cm,San Sperate, collezione privata.

549. Paola Dessy, La campagna di zia Anna, 1984terracotta smaltata a gran fuoco, lungh. 38 cm,Sassari, collezione privata.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:10 Pagina 358

549

rinnovato le esperienze di design (Gianfranco Pintus, direcente Giorgio Podda), mentre per altri la ceramica re-sta mezzo espressivo autonomo, che si avvale di unasintassi classica di ascendenza martiniana (Maria Teresadi Martino), di modellati tormentosi di memoria espres-sionista (Pietro Costa) o di un gusto eclettico con accen-ni popolareschi e naïf (Antonio Porru).Una situazione fluida, in progress, che attende di evol-versi o decantare.

Note

1. Massimo Pallottino ricorda quel periodo pionieristico nella premessaa La Sardegna nuragica, del 1950 (ora in M. Pallottino, La Sardegnanuragica, Nuoro 2000). Protagonista anche l’archeologo Giovanni Lil-liu che avvia nel 1951 la campagna di scavi nel complesso “Su Nuraxi”a Barumini.

2. Evento spartiacque è la Mostra di arte sarda e nuragica patrocinatadalla Regione Sardegna e svoltasi nel 1949 a Venezia (FondazioneBevilacqua-La Masa) e nel 1950 a Roma (Galleria Nazionale di ArteModerna).

3. Approfondito nel campo pittorico da Mauro Manca.

4. Dodici piccole figure, la cui prima concezione risale alla fine deglianni Sessanta, oggi conservate in parte al MAN, Museo d’Arte contem-poranea di Nuoro, e in parte in collezione privata.

5. Cfr. G. Altea, M. Magnani 1994, pp. 117-120.

6. Oggi Banco di Sardegna.

7. M. Manca, “Valore della tradizione nelle forme più attuali dell’artigia-nato sardo”, relazione al convegno Produzioni e materiali tipici sardinell’architettura e nell’arredamento moderno, Sassari 1959 (dattiloscrit-to dell’Archivio Tavolara, Sassari).

8. Anche il fotografo Mario De Biasi, fine interprete della realtà sarda,si presta al design realizzando negli anni Sessanta, per l’industria cera-mica Cerasarda, quattro Soli di ispirazione picassiana che diventeran-no uno degli emblemi della Costa Smeralda.

9. M. Lai, Come un gioco, catalogo della mostra, Cagliari 2002, p. 26.

10. V. Fiori, “Maria Lai scultrice e pittrice”, in Il Convegno, a. 9, n. 7,Cagliari, luglio 1956, p. 13.

11. Ricordando gli insegnamenti di Martini, Maria Lai si esprime così:«Quando una statua è vera scultura – diceva – chi la guarda è portatoa dire, mentre l’occhio scorre lungo i suoi piani, qui è verticale e qui èorizzontale, qui è pieno e qui è vuoto. Il ritmo è costituito da questasuccessione di orizzontale e di verticale di pieni e di vuoti», in G. Cuc-cu, M. Lai, Le ragioni dell’arte, Cagliari 2002, p. 13.

12. S. Cambosu, “Cuore mio”, in Miele Amaro, Nuoro 2004, pp. 123-124.Lo scrittore, figura cardine nella vita di Maria, professore, amico e men-tore, rielabora in questo racconto una figura dell’immaginario popolare.

13. Conversazione con Maria Lai registrata a Cardedu il 7 luglio 1994,in R.M.D. Bonomo, Maria Lai. Seguendo il filo di un racconto, Accade-mia di Belle Arti di Sassari, a.a. 1994-95 (tesi di diploma, relatriceprof.ssa Emanuela Settimi).

14. Pubblicato in C. Nivola, Ho bussato alle porte di questa città mera-vigliosa, Cagliari 1993.

15. Maria Lai, ad un anno dalla scomparsa di Nivola, presenta unascultura in formelle modulari (oggi in collezione privata) in cui, signifi-cativamente, sono accostati cemento e terracotta, emblemi della produ-zione pubblica e privata dello scultore di Orani.

16. «Si trattava di modellare l’immagine in negativo sulla sabbia (sand)posta in un contenitore per poi ottenere il positivo per mezzo di unagettata o colatura (cast), nella forma così predisposta, di gesso o ce-mento impastati con l’acqua e con l’aggiunta di colori in polvere: unprocesso flessibile, che consentiva di fissare la finezza della modella-zione in manufatti resistenti … anche di vaste dimensioni», in L. Cara-mel, C. Pirovano, Costantino Nivola, Milano 1999, p. 37.

17. «I Letti sono lo specchio della condizione umana, come le Piscinene sono la caricatura, o le Spiagge la versione sublimata» (S. Forestier2004, p. 169).

18. G. Altea, “Nivola e il tema del femminile”, in Museo Nivola, Nuoro2004, p. 49.

19. M. Penelope, “Aligi Sassu. Vita, opere, fortuna critica”, in Sassu Scul-ture, Milano 1991.

20. Suo sodale nel soggiorno ad Albisola. Nel 1971 alla Galleria 32 diMilano si terrà una rassegna delle opere ceramiche dei due artisti, nona caso dal titolo “I Maestri del Gran fuoco”.

21. Tullio d’Albisola, “Le opere a gran fuoco di Aligi Sassu”, introdu-zione al catalogo della mostra personale alla Galleria dell’Illustrazioneitaliana, Milano, 1948, in Sassu Sculture cit., p. 175.

22. Lo scultore riprenderà sporadicamente la ceramica solo alla fine de-gli anni Ottanta, realizzando le Vedove.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:10 Pagina 359

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 12-11-2007 16:10 Pagina 360

361

550

551

552

550. Antonio Amore, ComentePaolina, 1991terra refrattaria, lungh. 157 cm,Oristano, collezione privata.Realizzata nel laboratorio diAntonio Porru a Sanluri. Amore ha modellato lascultura, con tecnica acolombino, sulla dormeuseche attualmente la ospita.

551. Antonio Porru,Asciugamano, 2001terracotta e argilla refrattariabianca con ingobbio bruno, lungh. 40 cm, Sanluri,collezione privata.Inciso in pasta: Anonimu.

552. Pietro Costa, Guerra, 2003terra refrattaria biancaparzialmente cristallinata,cottura raku, lungh. 79,5 cm,Nuoro, collezione privata.Inciso in pasta: P. Costa 2003.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 17:49 Pagina 361

362

553 554

555

555. Caterina Lai, Licuccos, 1999-2007terraglia graffita, Ø max 12 cm,Cagliari, collezione privata.

553. Gianfranco Pintus, Vaso, 2002terracotta graffita e smaltata, h 35,5 cm, Faenza, collezione privata.

554. Gianfranco Pintus, Vaso, 2002terracotta ingobbiata e graffita, h 36 cm, Cagliari, collezione privata.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:42 Pagina 362

363

556

557

556. Antonello Cuccu, Puppuài, 2002terracotta smaltata, h 66 cm, Nuoro, MAN.Realizzato in collaborazione con il laboratorio Manis di Oristano. L’opera fa parte del ciclo Les demoiselles de Mamojada.«Il soggetto rappresentato è quello dell’arcaica dea-uccello,rintracciabile su numerose rappresentazioni anche della culturaarcaica sarda; rossa in memoria del potere ch’ella esercitava». Così come per le altre demoiselles, la forma è stabilita a partire da quella panciuta e gonfia, “lievitata”, della brocca tornita.

557. Giorgio Podda, Petonciani, 2007vaso, terracotta ingobbiata e dipinta sottovetrina, h 33 cm, Nuoro, collezione privata.Realizzato in collaborazione con il laboratorio Raku di Cagliari.Il titolo ricalca la definizione della melanzana usata da PellegrinoArtusi nel suo ottocentesco ricettario.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 17:49 Pagina 363

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:07 Pagina 364

365

La ceramica sarda della seconda metà del XX secolo sipresenta più eterogenea e variegata rispetto al passato.E se da un lato si arricchisce mediante l’immissione dipiù liberi e numerosi apporti creativi, dall’altro si inde-bolisce e svilisce a ruolo accessorio.Cambia proprio il modo di far ceramica, non solo perl’abbandono della fornace a legna in favore di fornielettrici o a gas che modificano l’esito di patine e super-fici, ma per una complessa rete di dinamiche che ora-mai vedono anche la Sardegna destinata all’ineluttabileinserimento nel mondo della globalizzazione. Non chela ceramica fatta in precedenza mancasse di influenzeesterne, anzi. Si direbbe piuttosto che essa, ora, accom-pagni i continui e velocissimi mutamenti sociali, dandovita a un’offerta orientata da una domanda che non èpiù solo strettamente locale. Certo, in una regione ricca di argille e caolini, si fa faticaa credere che gli stessi organi regionali preposti non ab-biano mai ritenuto necessaria, in un periodo crucialeper la storia sarda – che adesso direttamente si va a con-frontare con un mercato più ampio –, la realizzazione diuna struttura che, facilitando l’approvvigionamento in-terno della materia prima, evitasse agli addetti di settore,con le difficoltà immaginabili e come di conseguenza atutt’oggi accade, di importare l’argilla dalla Toscana(Montelupo Fiorentino) o dal Veneto (Bassano del Grap-pa), di modo che il marchio di “ceramica sarda” risultas-se vero anche in virtù delle componenti intrinseche. La consolidata prassi odierna di importare un prodottonon locale, maggiormente raffinato e rispondente alleattuali “regole” di settore, equivale alla consapevolezzache l’argilla sarda, depurata in modo tradizionale, malesi adatta al nuovo modello di perfezione materica im-posto dall’industria (levigatezza di superfici prive diimpurità, idonee ai nuovi smalti o vetrine) per meglioconfrontarsi sul mercato. Orientamento, quello imitati-vo di modelli industriali, che invece per molti versi ha

portato confusione fra gli artigiani, a tutto vantaggiodella concorrenza, laddove invece la differenza andavasalvaguardata.Nel corso di poco più di cinquant’anni, la ceramica rea-lizzata in loco ha smesso definitivamente di risponderealla domanda di un utilizzo pratico (quello della quoti-dianità, innanzitutto domestica), perdendo irrimediabil-mente centralità nel sociale. È nato e si è fortemente svi-luppato al suo posto il mercato tutto nuovo del souvenira scopo turistico. Motivato da un più vasto coinvolgimento, che risponde-va al programma fortemente voluto dalle forze politichee sociali della regione,1 tale fenomeno aveva trovato ter-reno fertile nel processo avviatosi con Francesco Ciusanegli anni Dieci, che nel settore ceramico tradizionalevedeva l’innesto di valenze decorative di matrice squisi-tamente artistica ovvero sbilanciate sul piano dell’appor-to creativo. Con Ciusa era nata la nuova figura del cera-mista, non più solo artigiano ma nemmeno totalmenteartista, una figura mediana fra mestiere e innovazione. Con la ripresa economica degli anni Cinquanta, quasitutta la ceramica sarda – caratterizzata appunto come“artistica” – risponde all’unica richiesta del settore turisti-co e si orienta perciò – con grave discapito per la ricer-ca, l’azzardo poetico ma anche lo studio di un re-designa fini pratici – verso superficiali cliché identitari: dai nu-raghi a mitologie mediterranee, dalla dolciaria alla pani-ficazione, dal mare alla caccia al cinghiale, alle masche-re ecc., scadendo inevitabilmente nel folklore tranneche per rarissimi casi. «Altre ceramiche poi, vasi, coppe,brocche, ecc. sembrano essere più nuove; eppure i mo-tivi ornamentali e la loro stessa forma, o il modo di trat-tare la superficie ceramica, fa sì che esse richiamino – civenga perdonato il paragone – certi dolci e certi paniche le donne di Sardegna usano fare ancora in certe oc-casioni, o gli intagli su legno o certa oreficeria tradizio-nale: si tratta in questo caso di un’analogia di gusto,perché c’è lo stesso amore per la decorazione sovrab-bondante ed un po’ trita».2

L’iniziale indicazione a virare verso il souvenir dai carat-teri nuragici, e con esso al via libera verso la clonazionedell’intera cultura tradizionale e popolare della Sardegna,era stata fornita dal successo di una delle due mostre

Tra un barbarico horror vacui e una sintesi di gusto modernoAntonello Cuccu

558. Ceramiche realizzate nel 1956 durante il Corso d’istruzioneprofessionale ENAPI, svoltosi presso il laboratorio di GiuseppeSilecchia. L’immagine è stata pubblicata nel frontespizio della rivista Domus (n. 328, marzo 1957) in occasione della recensionealla I Mostra dell’Artigianato Sardo del 1957 a Sassari.558

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 17:50 Pagina 365

che la Sardegna esporta a Venezia nel 1949, quella sullasua cultura preistorica, a discapito dell’altra che presen-tava una significativa selezione della più recente arte fi-gurativa.Anche nell’intervista3 rilasciata nel 1998 dallo scultore eceramista Gavino Tilocca (Sassari 1911-1999), tra i pochia mantenere alti gli standard, si avverte un rammarico intal senso: di aver subito troppo a lungo il fascino delmercato del souvenir (che aveva il significato umanissi-mo di lavoro costante appagato da soddisfazioni econo-miche) a svantaggio di un possibile altro impegno nellapura ricerca. E mercato, per lui come per gli altri, ha si-gnificato colore, piccolo formato trasportabile, soggettifolklorici, insomma andare incontro alla richiesta di unacquirente massificato e distratto. Con la ceramica artistica si è andato affermando nonpiù il manufatto rappresentativo di un gruppo sociale,pur nella differenziazione dovuta al diverso operatore(brocca di Oristano, si diceva, e non brocca di Tizio odi Caio, i cui nomi erano sconosciuti al consumo), bensìceramiche dovute alla personalità del singolo, riconosci-bili dunque “dallo stile” del loro creatore (pertanto ri-chieste come “di Tilocca” piuttosto che “di Scassellati”).Naturalmente esistevano delle differenze rilevabili frauna brocca asseminese realizzata dai Carboni e quelledei Nioi o dei Deidda, ma tutte rientravano nella tipolo-gia primaria della brocca, strutturata mediante gli ine-quivocabili canoni d’area.Nei primi anni Novanta, le singole espressioni cerami-che sono arrivate – sintomatica, a riguardo, l’esposizionevoluta dall’ISOLA (Istituto Sardo Organizzazione LavoroArtigiano), denominata Firmato, del 1991 – a dare liberosfogo all’abitudine di apporre in modo vistoso il proprionome e cognome sul fronte degli oggetti (fig. 566).Orientamento teso a far uscire il manufatto ceramico dauna fascia dimessa, “minore” come si diceva, per essereequiparato all’opera d’arte, ritenuta espressione creativa“maggiore”. Prassi che, diseducando il pubblico, è arriva-ta oggi a rendere meno vendibili gli oggetti non firmati.Si assiste anche all’inevitabile “ribaltone” che vede inantitesi designer e artigiani, conseguenza del radicatomodo di pensare poca cosa l’opera dell’artigiano. Se illavoro dei ceramisti era valutato poco o nulla, si arrivaadesso a ritenerlo impraticabile per le fasce medio-bas-se. Se la manodopera di un tempo non aveva voce nédiritto a un volto, di pari passo con la misera retribuzio-ne, si è arrivati all’esatto contrario, dove, per alcuni og-getti ceramici di successo, si cita con orgoglio l’artigianorealizzatore mentre se ne cancella totalmente l’ideatore:è il caso delle Galline (nuragica, portafiori, matta), perle quali si menziona il pur eccellente ceramista SaverioFarci ma nessuno le associa all’altrettanto meritevole de-signer Ubaldo Badas. Oggi è pratica diffusa che, non potendo le botteghe ar-tigiane vendere a basso costo ovvero svendere i proprimanufatti, le grandi catene di distribuzione (centri com-merciali, nodi di grande flusso turistico) si forniscano di

oggetti ceramici realizzati altrove industrialmente, seb-bene marcati Sardegna con tanto di ricorso al reperto-rio dei più abusati decori tradizionali.Momento cardine del secondo cinquantennio del Nove-cento, fondamentale per la storia intera dell’artigianatodella Sardegna, è il varo ufficiale dell’ISOLA nel 1957.Questo Istituto, la cui presenza ha fortemente sostenutoma anche condizionato le produzioni, era sorto per as-solvere al ruolo, sentito necessario, di un ENAPI più at-tento, strettamente sardo. ENAPI stava per Ente Nazio-nale Artigianato e Piccole Industrie, organo statale chedal 1925, e sino alla soppressione nel 1977, ha tutelatolo specifico comparto. Fortemente voluto dai due commissari regionali del-l’ENAPI, Eugenio Tavolara (Sassari 1901-1963) e UbaldoBadas (Cagliari 1904-1985), sostenuti da tutti coloro cheguardavano alle produzioni artigiane come al vero per-no identitario della cultura isolana (Francesco Alziator,Salvatore Cambosu, Giuseppe Dessì ecc.) e pertanto dasalvaguardare, l’ISOLA dei propositi iniziali muore in re-altà prestissimo, nel 1963, con la prematura scomparsadi Tavolara, laddove il solo Badas non si è mostrato poicapace di far fronte alle pressioni del nuovo scenario.Da quel momento, l’impegno di responsabilità civile sulquale era stato strutturato l’Istituto viene frantumato dascelte di natura politica, estranee alla sua sostanza cultu-rale, pertanto non adeguate al diretto impegno con gliartigiani. Tuttavia, se questo è adesso additato qualecausa principale della sua caduta, a un’analisi odiernanon può più essere considerato se non una concausa.4

Sul piano operativo, il grande “errore”, se tale è definibi-le col senno del poi, è stato il criterio selezionatore deimanufatti cosiddetti innovativi marchiabili ISOLA. In no-me di una malintesa volontà statutaria di preservare laqualità dei lavori attraverso i loro caratteri tradizionali(preferiti se immediatamente riconoscibili ai fini di unamera destinazione turistica), si è soffocata la via dellavera spinta al nuovo: quella di “tradire la tradizione” perattuarne un vero sviluppo. Gli osannati Presepi di MariaLai, della fine degli anni Cinquanta, furono ideati perl’ISOLA ma mai messi in produzione; le coeve figurefemminili di Emilia Palomba, che la stessa autrice ricor-da «piacevano solo a Badas», riscuotono la medesimaconsiderazione; le figure di terracotta realizzate da Salva-tore Fois nei primi anni Settanta erano sì presenti nell’of-ferta ISOLA ma poco sostenute, penalizzate dall’assenzadel colore e perciò poco appetibili al largo pubblico.

366

559-560. Corso d’istruzione professionale ENAPI presso il laboratorio di Giuseppe Silecchia, Sassari, 1956.Il ceramista è riconoscibile, in piedi sulla sinistra (fig. 559).

561-562. Corso d’istruzione professionale ENAPI presso il laboratorio di Gavino Tilocca, Sassari, 1956.

563. Sezione sarda alla Mostra Mercato Nazionale dell’Artigianato,Firenze, 1956.In primo piano, nella vetrina, Donnina e Guerriero sul muflonedi Tilocca, Asinelli e Cinghiale di Silecchia.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 17:50 Pagina 366

367

559 560

561 562

563

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 17:50 Pagina 367

Se poi, con lo straordinario e purtroppo unico Tavolara,i nuovi manufatti nascevano dal dialogo incessante fradesigner e artigiano – meglio, la realizzazione del pro-getto del designer attraverso la messa in campo delleinsostituibili capacità tecniche dell’artigiano –, quest’ulti-mo si è sempre più trovato da solo a dover decideredelle proprie scelte espressive, ottenendo esiti moltospesso deboli sul piano delle competenze compositive.Realtà ancora oggi drammaticamente immutata, nellaquale si assiste a un panorama di sprechi imperdonabilidove non si può non rilevare come la gran parte dei ce-ramisti risulti evidentemente eccellente sul sapere tecni-co (tornitura, formatura, smaltatura o invetriatura) madesolatamente insufficiente sul piano della struttura crea-tiva. L’ISOLA è stato soppresso dall’Amministrazione re-gionale nel 2006, in attesa di essere sostituito da un or-gano meglio rispondente alle nuove esigenze.Nel corso del cinquantennio avviene la cancellazionedefinitiva di alcune storiche produzioni (Decimoman-nu, Villaputzu, Tortolì, altre minori), ma il controbilan-ciamento, ultimo passaggio significativo nel panoramaceramico, sembra essere quello avvenuto nell’ultimadecade del secolo XX, con lo spostamento o meglio

368

564

565

564. Mario Casu, Contenitore, anni Novanta sec. XXterracotta con aggiunte plastiche, graffita e invetriata con spruzzi di verderame, h 40,8 cm, Bosa, collezione privata.La forma di questo contenitore per pompia, tipico dolce di Siniscola,è ereditata dal ceramista Ignazio Casu, padre di Mario. Il laboratorioCasu, uno degli ultimi in Sardegna, ricorre ancora alla cottura alegna dei pezzi ceramici. Anche le argille sono estratte nel territoriodi Siniscola, località Pirastreri.

565. Giovanni Sanna, Pizzudu, anni Cinquanta sec. XXterracotta graffita, parzialmente ingobbiata e invetriata, h 37 cm, Mamoiada, collezione privata.Non è da escludere che i decori graffiti possano essere opera di Raffaele (Licu) Cau.

566. Luigi Nioi, Catino, 2003terracotta smaltata e dipinta, Ø 34 cm, Assemini, collezione privata.

567. Luigi Nioi, Brocca della festa, anni Ottanta sec. XXterracotta graffita e parzialmente invetriata, h 41,5 cm, Mamoiada, collezione privata.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 17:50 Pagina 368

l’insediamento di botteghe ceramiche non più solo neiluoghi di antica tradizione (Oristano, Assemini, Dorgaliecc.) ma, grazie alle nuove possibilità e a una mobilis-sima cultura, che viaggia anche via internet, oramaiovunque (Nuoro, Luogosanto, Macomer, Bitti ecc.). Talepasso, vicino a dinamiche internazionali da tempo con-solidate, costituisce l’allargamento di quella movimenta-zione cominciata sessant’anni prima, che aveva vistouna serie di ceramisti d’ambito nazionale (Mario Scas-sellati, Giovanni Pulli, Arrigo Visani, Angelo Sciannella),per differenti motivazioni, trasferirsi a far ceramica inSardegna. Migrazione tuttora in atto, agevolata dallapresa in servizio delle cattedre nell’ambito degli specifi-ci Istituti Statali d’Arte (Oristano per tutti).E saranno proprio le scuole d’arte che, sostituendo l’ac-quisizione del mestiere da padre in figlio, allargherannole possibilità di apprendimento a ogni interessato.Nuove forme di dinamicità, queste, che contemplanoanche il caso di alcune botteghe – com’è da anni perGiampaolo Mameli – che, per seguire flussi estivi dimaggiore passaggio turistico e perciò di vendita, sposta-no stagionalmente la propria attività dall’entroterra versoil mare, ambientandola all’interno di un polo turistico.Se nella prima metà del XX secolo isolamento e precariecondizioni economiche attanagliavano il settore – per laqual cosa era possibile ai soli Richard Dölker o IreneKowaliska, ceramisti e viaggiatori curiosi, di attingereunivocamente alla cultura sarda –, ecco che nella secon-da metà un torniante come Luigi Nioi di Assemini, fol-gorato dagli ingobbi e dai colori delle ceramiche campa-ne di Vietri sul Mare,5 ne importa “l’atmosfera”, facendodel noto “rosato” il suo cavallo di battaglia (fig. 566).Nel ripercorrere lo scenario della moderna prassi cera-mica non si può trascurare quel tessuto connettivo cheespande, ibrida, trasforma e certamente tiene vivo l’inte-ro comparto. Si fa riferimento al fiorire, nell’arco tempo-rale in analisi, dei tanti corsi di ceramica, all’inserimentodi essi spesso anche nelle attività didattiche della scuoladell’obbligo, dei musei, dei centri sociali comunali (arri-vando ad esempio in luoghi come Mamoiada, altrimentilontanissimi dai circuiti di settore) e naturalmente dellebotteghe. E proprio queste ultime, seguendo aggiornateforme di comunicazione, allestiscono al proprio internomostre a tema o ospitano eventi che rilanciano sul mer-cato i manufatti ceramici, non solo i propri (si pensi perCagliari l’intensa attività della bottega Raku di Maria Cri-stina Di Martino e Salvatore Farci). Non poche sono sta-te inoltre le occasioni di scambio frontale col pubblico,legate a bandi di concorso e premi, catalizzatori di un’at-tenzione che spesso ha travalicato i confini regionali. Anche gli studi storici hanno dato un contributo signifi-cativo all’intero settore con la riscoperta di figure di ce-ramisti scomparsi, per i quali si è sentita la necessità diuna rilettura e giusta ricollocazione culturale, attraversoesposizioni e pubblicazioni: per tutti il caso di SalvatoreFancello.

566

567

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 17:50 Pagina 369

Il generale dibattito isolano ha portato infine alla volontàregionale di varare la progettazione di una specifica rac-colta museale permanente, inserita nella struttura del-l’ISRE (Istituto Superiore Regionale Etnografico), anchein virtù del fatto che le ceramiche dei Fratelli Melis, Sal-vatore Fancello, Edina Altara, Gavino Tilocca, AngeloSciannella, sono da tempo parte di collezioni musealiquali quella del Museo Internazionale delle Ceramiche diFaenza, del Museo Civico di Urbania (Marche), dei Mu-sei Provinciali del Salernitano, delle Fondazioni Wolfsondi Malibu (California) e Genova, del MAN di Nuoro. Ri-conoscimenti, soprattutto esterni, confermati dalla ormaicostante presenza dei sardi in importanti esposizioni na-zionali e internazionali come quella del Victoria and Al-bert Museum di Londra (2003), nella quale, a documen-tare il Déco italiano in un contesto internazionale, eranopresenti tre figure: Gio Ponti, Pietro Melandri e il sardoFederico Melis.A completamento del quadro non si può tacere dell’im-ponente ondata di collezionismo, soprattutto per le ce-ramiche di autori oramai storicizzati, additata come fe-nomeno in ambito peninsulare. Collezionismo che nonè solo una richiesta finalizzata a un possesso ma unmodo benefico di valorizzare e preservare manufatti al-trimenti destinati a perdersi.

La moderna ceramica sardaAll’indomani della riorganizzazione seguita al secondoconflitto mondiale, una fotografia dall’esterno avrebbemostrato il panorama ceramico sardo arcaico per tecni-

che o modelli e inesistente sul piano dell’innovazione,se confrontato con quello di altre regioni italiane.Un osservatore, affrontando alcune fondamentali que-stioni, a seguito di un’impressione ricavata dalla visita aidiversi centri di produzione, scriveva: «Le arti del tappe-to, dell’oreficeria, dell’intaglio del legno, della cestineria,e persino del ricamo e del filet, sono state coltivate inSardegna con un amore particolare, anzi in determinateepoche hanno raggiunto una grande raffinatezza, unaricca varietà di forme e di motivi ornamentali. La stessacosa non può dirsi per la ceramica. Anzitutto, secondo idocumenti di cui si è attualmente in possesso, essa co-minciò ad essere praticata largamente solo verso la se-conda metà del Seicento e soprattutto nei villaggi diDorgali, di Villa Putra [Villaputzu], di Assemini e di Ori-stano; in secondo luogo, i figuli sardi furono sempreper lo più interessati alla produzione di ciotole, di broc-che, di anfore e di altri oggetti di uso corrente. La formadi queste antiche ceramiche, derivata dalla produzionefittile italiota e romana, è abbastanza simile a quella del-le ceramiche diffuse in tutta l’Italia meridionale. Pochesono le ceramiche che rivelano negli antichi figuli sardila volontà e la capacità di abbandonarsi ad un’estrosacreazione di forme, utili sì come è quasi ogni cosa cheappartenga all’arte popolare, ma pur ravvivate da unaccento di fantasia. Tanto poche, che quasi si possonoenumerare sulle dita di una mano».6

E proseguiva: «I pochi pezzi … sono indubbiamente inte-ressanti, ed hanno un gustoso sapore paesano grazie an-che alla tecnica d’esecuzione, assai povera di espedienti:

370

568

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 17:50 Pagina 370

un rivestimento stagnifero alla buona, qualche macchiadi giallo e di verde qua e là per ravvivare il rosso delcotto. Essi debbono essere tenuti presenti da chi voles-se farsi un’idea dell’attuale produzione ceramica dellaSardegna».7

Ad avere consapevolezza dell’assenza della voce “cera-mica” nel comparto delle arti applicate sarde e, conse-guentemente, della carenza di competitività sul mercatonazionale ma, soprattutto, della totale mancanza di unrinnovamento avviato attraverso l’innesto di nuove fi-gure, sembrerebbe essere stato il pittore Filippo Figari,allora direttore dell’Istituto d’Arte di Sassari, sua creatu-ra e prestigiosa fucina di talenti, specchio di una culturadinamica e propositiva del capoluogo del Nord Sarde-gna in quegli anni.

371

569

568. Istituto d’Arte di Sassari, Il cocchio di Sant’Efisio, 1956terracotta smaltata e dipinta, h max 23 cm, Roma, Museo Nazionaledelle Arti e Tradizioni Popolari.

569. Alessandro Mola, Donna di Sennori, anni Cinquanta sec. XXterraglia da stampo, dipinta sottovetrina, rifinita al terzo fuoco, h 34 cm, Sassari, collezione privata.Di lato, sottovetrina: A. Mola.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 17:50 Pagina 371

Figari, da sempre legato alle tradizioni della regione estrenuo difensore delle arti applicate popolari,8 nella se-conda metà degli anni Quaranta spinge il giovane allie-vo d’Istituto, Giuseppe Silecchia (Porto Azzurro, Elba,1927), a stabilirsi dopo il diploma, nel 1947, a Faenzaper frequentarvi corsi specifici, perfezionati poi ad Albi-sola, e in tal modo, una volta tornato nell’Isola (1952),reggere una cattedra per l’insegnamento della materiaceramica. A questa data l’artista sassarese Gavino Tiloc-ca aveva modellato in argilla alcune delle sue opere,perciò era in grado di interloquire con Figari in materia;costui, attraverso Silecchia, pensava però diversamente:non già di rafforzare l’espressione artistica su tale decli-nazione bensì di rinfocolare una tradizione figulina cheripensasse l’oggettistica e le piccole plastiche, lavori ar-tigianali da diffondere a basso costo. D’altronde neppu-re il designer per l’artigianato Eugenio Tavolara, padreindiscusso dell’intero rinnovamento artigiano del dopo-guerra, si era interessato più di tanto della materia cosìcome invece aveva fatto per tessitura, cestineria o perfi-no intaglio. Analoga scarsità di apporto era riscontrabi-le, alla fine degli anni Quaranta, nell’altro eccellentedesigner per l’artigianato, Ubaldo Badas, attivissimo in-vece negli anni a venire. Noncuranza motivata anchedalle difficoltà oggettive di accedere al comparto cera-mico. Se infatti tessitura e cestineria erano “lavori didonne”, domestici, isolati e affatto strutturati, i ceramistifacevano capo a una corporazione con rigide regole etanto di strutture gerarchiche.

Melkiorre e Federico Melis, ceramisti ormai maturi, era-no pensati come lontani maestri residenti di là dal mare,il primo a Roma, l’altro a Urbania nelle Marche, perciòesclusi dal dibattito interno, pur essendo vivissimi pro-positori di idee e manufatti (il secondo anche oggetto diriconoscimenti internazionali), esito di una grande vitali-tà intellettuale. Lavori che in ogni caso erano da lorosempre mantenuti entro la serialità limitata, se non inpezzo unico, mai rinunciatari del piano (e dei costi) delmanufatto d’arte.Nel contesto, immutato dagli anni Trenta, i figoli – anco-ra numerosi nei grandi centri ceramici di antica tradizio-ne, Oristano e Assemini – proseguivano per inerzia (aparte il solo Giovanni Sanna, autore di diverse innova-zioni nella prassi tradizionale del far ceramica, e perciòmalvisto dai “colleghi”)9 la produzione tradizionale, tan-to che ancora nel 1963 Ubaldo Badas serenamente scri-veva: «La Sardegna non ha abbandonato quei modelli[antichi], né il modo di farli: il tornio, vecchio di migliaiad’anni, gira tale e quale sotto il piede del “figulo” d’oggiche, in un mondo tutto rinnovato, continua a produrre,con perfetta naturalezza orci, brocche, conche di un’erapreistorica … Ovunque si ripetono i modelli antichi inumiltà, preoccupati di non profanarli, con una imitazio-ne senza riserve. È un prendere con rispettosa discre-zione quanto è indispensabile ai bisogni della vita: uncerchio inciso attorno al collo delle brocche, le anse acordone, una pennellata di vernice basta a soddisfare lasete di grazia che accompagna anche i pezzi più mode-sti di questa produzione artigiana … Quest’arte ha nellesue ingenue forme un tale profumo di naturale bontà edi casalinga pace ché, vicino al vasaio, è la giovane suadonna che allatta il piccino, che sorride nella certezza diun’eternità d’amore e all’opera fantasiosa che vede na-scere sul tornio e caricarsi lietamente di plastiche ric-chezze, facendosi bella ai suoi occhi così come lei lo è,ed ineguagliabilmente, agli occhi del suo uomo».10

E sempre sull’argomento M.U. Bigi incalzava: «La rinasci-ta dell’artigianato sardo è avvenuta dunque secondo uncriterio assai diverso da quello seguito sul continente:mentre qui l’E.N.A.P.I., la C.N.A. od altre associazioni in-caricate di tutelare l’artigianato e le piccole industrie, sisono preoccupate di tentare nei vari settori, della cera-mica, del vetro, della paglia, ecc. vie decisamente nuo-ve, orientando gli artigiani verso un gusto francamentemoderno, in Sardegna, gli artigiani più volonterosi sonostati incoraggiati a riprendere le forme tradizionali giàabbandonate, ed essi generalmente si sono limitati amodernizzarle.Nei laboratori di Dorgali, di Assemini, di Oristano, nelleaule di istruzione professionale a Sassari ed a Oristano,sono rinate così ceramiche più o meno arieggianti quel-le antiche: anfore a quattro anse, bottiglie per l’acquacalda a forma di frati e di suore, brocchette zoomorfe.Non sempre, naturalmente, l’attaccamento alla tradizioneè così evidente: altre ceramiche, ad esempio, riprendo-no iconografie e motivi ornamentali cari alla tradizione

570

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 17:50 Pagina 372

isolana: guerrieri protosardi, asinelli, mufloni e cinghia-li, donne e uomini nei tipici costumi sardi … Tuttavia… la maggior parte di queste ceramiche così delibera-tamente “sarde” riescono a suscitare un interesse chenon va oltre alla curiosità folcloristica … Raramente, al-meno sinora, i ceramisti sardi hanno tentato temi e for-me più distaccate dalla tradizione della propria terra edecisamente moderne, ed ancor più raramente questitentativi, dovuti allo sforzo di pochi e non seguiti daipiù, hanno raggiunto un risultato positivo: anzitutto nonli sostiene una moderna sensibilità per la materia cera-mica; inoltre si ha l’impressione che certe forme ripeta-no “ad orecchio” modelli creati da artisti ed artigiani

571

572

570. Gavino Tilocca, Coppia a cavallo, 1959terracotta smaltata a lustro, h 24 cm, Sassari, collezione privata.

571. Ceramiche di Gavino Tilocca esposte con altre di Pablo Picassonella Galleria Gizzi, Torino, 1961 (foto archivio eredi Tilocca).

572. Gavino Tilocca, Donna con brocca e cesto, 1960terracotta graffita, ingobbiata e verniciata, rifinita al terzo fuoco, h 26,5 cm, Nuoro, collezione privata.Sullo smalto, all’interno: Tilocca / Sassari.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 17:50 Pagina 373

continentali dopo un lungo e meditato processo di se-lezione … Questa, in breve, è l’impressione ricavata dauna visita ai vari centri di produzione della Sardegna:dappertutto si può notare un palese attaccamento allatradizione regionale, e non solo per ciò che riguardal’iconografia, ma per quello che riguarda il gusto: ungusto ingenuo e che dissolve le forme nel decorativi-smo, un barbarico “horror vacui” esattamente antiteticoal gusto del giorno d’oggi.La ceramica sarda soffre d’isolamento. Aiutarla ad usci-re da questo isolamento per imboccare una strada sin-ceramente nuova è un problema estetico, un problemaeconomico, ed anche un problema umano».11

Forse le fotografie di Mario De Biasi sulle prime esoticis-sime turiste arrivate in charter dall’Inghilterra ad Algheropossono fornire un prezioso indizio di una Sardegnache cambia, perciò del bisogno di mettere mano al set-tore artigiano, quindi anche al comparto ceramico, perriplasmarlo, rinnovandolo. Esigenza impostasi bruciantea molti intellettuali isolani, in differenti luoghi e ambiti,in diverse sedi operative. Certamente un tappeto, un purbellissimo ma costoso tessuto, un gioiello, un ingom-brante cesto, una pesante cassapanca non erano voca-zionalmente predisposti a diventare oggetti di agevolescambio nella richiesta di un turismo pre-Costa Smeral-da, non ancora radicato nell’Isola. Di contro brocche escivedde erano totalmente disadatte a una nuova vita ur-bana, visto che anche nei paesi sardi cominciavano giàa prendere la via di orti e giardini, novelli vasi da fiore. Nei primi anni Cinquanta, era diventato dunque impel-lente, così come per l’intero settore artigiano, chiarire eorientare il destino della ceramica in Sardegna. Se Figari guardava a Silecchia, non tutti i figoli potevanoessere spediti a Faenza né potevano essere depositari, abrevissimo termine, di una cultura di carattere proget-tuale che ne disciplinasse la creatività, arricchita pergiunta da cognizioni storiche. Ecco quindi: «il provvi-denziale intervento dell’Ente Regione e dell’E.N.A.P.I. e… l’appassionato interessamento del prof. Badas e delprof. Eugenio Tavolara» chiamati a risolvere «il problemadi ringiovanire l’ormai languente artigianato sardo».12

Nel 1951 Eugenio Tavolara risulta incaricato dall’Ente divarare a Sassari “corsi di istruzione professionale” pergiovani ceramisti, mentre viene chiesto a Ubaldo Badasdi attestarsi in tal senso su Cagliari.All’inizio del decennio, il primo forno ceramico ad ac-censione elettrica viene installato a Sassari presso l’Istitu-to d’Arte. Il dono che l’Istituto sassarese (Figari-Silecchia)invia nel 1956 all’erigendo Museo delle Arti e TradizioniPopolari di Roma,13 per la sua sede definitiva all’EUR,è probabilmente il primo esempio di “moderna” cera-mica sarda.Si tratta di due piccoli curiosi gruppi a carattere religio-so: Il cocchio di Sant’Efisio di Cagliari (fig. 568) e La Ma-donna dei Sette Dolori di Sassari, realizzati con un mo-dellato volutamente ingenuo e popolaresco. Essi nonrappresentano né una matrice tipica locale, né i caratteri

della ricerca artistica degli autori-committenti; sono dun-que probabile frutto di un impegno corale consumatosiall’interno della didattica di classe, orientato da Figari sumodelli vietresi, orecchianti il “periodo tedesco” di quel-la ceramica, ch’egli ben conosceva per le sue frequenta-zioni nella Costiera Amalfitana.Risulta significativa dunque l’iniziale volontà del diretto-re di formare un nuovo ceramista come Giuseppe Silec-chia, piuttosto che sollecitare lo scultore Gavino Tilocca,suo conoscente, se non proprio amico, da lunga data.È evidente che quest’ultimo – in città era peraltro giàpresente anche Mario Scassellati (ceramista di origineumbra) – era una personalità già formata anche se nonnello specifico ceramico, perciò di difficile orientamen-to e inclusione nel preciso programma istituzionale dicui Figari intendeva mantenere saldamente la regia.Tilocca, rispondendo tacitamente a Figari, nel 1954 siattrezza autonomamente:14 recatosi a Firenze, acquistaun forno elettrico e si fa guidare dai fornitori nei primirudimenti.15 Tavolara può inserire così la sua bottega,con quella di Silecchia e Scassellati, fra quelle ospitantii corsi ceramici finanziati dall’ENAPI. Corsi professionalifurono attivati in seguito a Oristano con Antonio Corri-ga (Atzara 1923), a Cagliari con Emilia Palomba (Caglia-ri 1929).Alla sbarra del 1956, costituita dall’inaugurazione delPadiglione dell’Artigianato a Sassari, entusiasmante pro-getto di Ubaldo Badas, si assiste al conferimento: di unaltorilievo a Tilocca per gli esterni;16 di una fascia di co-ronamento esterno, dipinta su piastrelle, alla giovanecagliaritana Emilia Palomba; di una fontana nel patio in-terno del corpo più basso a “u” del complesso architet-tonico, a Silecchia. È l’atto ufficiale per un avvio in grande stile della nuovaceramica sarda: le grandi statue di Tilocca (consegnatenel 1957) spiccano isolate sul fondo di piastrelle smalta-te col rosso selenio; la fontana di Silecchia si presentacome un vero e proprio “monumento” ceramico; l’operadi Palomba è un fregio decorativo, forse un poco diffe-rito in una scelta non casuale (la ceramista è agli esordi,come attesta il suo ricordo che parla di “disastro”, aven-do dovuto rifare più volte le piastrelle che si rompevanoin cottura a causa della loro dimensione). A Silecchia ilcompito di entrare nel merito delle arti applicate, evo-cando lo stile ricco e fiorito della festa; a Tilocca dielencare con vigore le diverse specialità dell’artigianatoregionale; a Palomba, in quanto donna, di citare, conuna trasposizione diretta e bidimensionale, la tessitura.C’è da chiedersi che cosa ne sia stato dei vari giovani al-lievi dei corsi ENAPI: alle cronache è rimbalzato solo ilnome di Tina Careddu, scomparsa però all’attuale rico-gnizione storica.Sta di fatto che, a guardare l’orientamento delle impac-ciate e ingenue produzioni iniziali, non si capisce benechi facesse cosa, ovvero tutti i protagonisti, pur impe-gnati a individuare una personale maniera espressiva,mostravano uno stile unitario. Sembravano concordare

374

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 17:50 Pagina 374

375

573

575

574

573. Giuseppe Silecchia, Pastore che munge, 1957terracotta smaltata e riflessata, h 16 cm, Sassari, collezione privata.Sul fondo, dipinto: G. Silecchia 57.

574. Giuseppe Silecchia, Pastore, 1975terracotta smaltata, dipinta e riflessata, h 25 cm, Sassari,collezione privata.Sul fondo, dipinto: G. Silecchia 75.

575. Giuseppe Silecchia, Coppia a cavallo, 1956terracotta smaltata e riflessata, h 26 cm, Sassari, collezione privata.Esposta alla Mostra MercatoNazionale dell’Artigianato diFirenze nel 1956.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 17:50 Pagina 375

576

577

su un punto: bisognava ripartire dalla brocca oristanese“della festa”, dalla sua ricchezza decorativa. Così, le sa-cre rappresentazioni che fino a ieri adornavano questomanufatto, in cui tutte le aggiunte plastiche rispondeva-no a precisi parametri e altrettanto inderogabili metafo-re, ora si trasformano in un agglomerato stracarico espesso caotico di scene con fiori, animali, personaggi,nella convinzione che la formula della sovrabbondanza“pasticcera”, in quanto ricca e appariscente, fosse la piùadatta al nuovo mercato turistico, dove “ricco è bello”.Con differenti sfumature, così è stato inizialmente perTilocca, Silecchia, Corriga (con tanto di foto vicino allesue brocche sulla rivista L’Illustrazione Italiana) e an-che per Palomba, seppure la sua ricerca del momentofrantumasse la miriade di segni e di colori dell’alfabetotradizionale in monumentali rosari ceramici. La dinamica è assai frequente e nota: l’esempio più espli-cito sta nell’abito tradizionale che, con l’arrivo dell’era tu-ristica, man mano si è riempito di decori e accessori sinoquasi a esplodere. Questo per “impressionare meglio” eavere maggiore enfasi verso l’ignaro forestiero.Al tutto andava la felice benedizione di Figari, il grandecantore dell’epica sardo-fascista, ex presidente regionaledel Sindacato Fascista Artisti, uomo di potere che, puranziano, è lecito pensare abbia orientato, nell’appaltoper la decorazione in maiolica della chiesa di San Marcoa Fertilia, città di fondazione, la scelta su Silecchia. MaFigari, e con lui la superata copia priva di interpretazio-ne della faccia più superficiale della cultura sarda, staper essere spazzato via da un vero e proprio ciclone. Il 1957 non è infatti solo l’anno della I Mostra dell’Artigia-nato Sardo di Sassari, è anche l’anno della I Biennale Na-zionale d’Arte di Nuoro, nella quale trionfa con clamore

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 17:50 Pagina 376

377

578

579

580

576. Emilia Palomba, Donna di Oliena, seconda metà anni Cinquanta sec. XXterracotta patinata, h 53 cm, Bosa, collezione privata.

577. Emilia Palomba, Donna di Oliena, fine anni Cinquanta-2004terracotta con ingobbio leggero, h 21,5 cm, Mamoiada, collezione privata.È la ripresa di un modello ideato agli esordi.

578. Emilia Palomba, Centro oro antico, anni Ottanta sec. XXcentrotavola, terracotta smaltata, rifinita al terzo fuoco, Ø 42 cm,Cagliari, collezione privata.Sul fondo, dipinto: E.P.

579-580. Emilia Palomba, Dolce sardo, anni Novanta sec. XXportacandela, terracotta smaltata e rifinita al terzo fuoco, ciascuno Ø 18 cm, Cagliari, collezione privata.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 17:50 Pagina 377

un’opera astratta dipinta da Mauro Manca. Quest’ultimo,artista simbolo del rinnovamento culturale ad ampio rag-gio chiesto da tutte le parti sociali, viene indicato comeil successore di Figari nella direzione dell’Istituto d’Artedi Sassari, scuola nella quale viene insediato, con questoruolo, nel 1959. Manca forma all’interno dell’Istituto unanuova squadra, composta da giovani insegnanti e, man-co a dirlo, Tilocca è dal 1960 il nuovo responsabile dellaboratorio ceramico, lasciato da Silecchia nel 1958.Il rinnovamento di cui Manca è specchio, un gustoorientato verso la libera astrazione, stabilisce uno statopositivo di crisi su tutti. “Sperimentazione” è la parolache apre i nuovi anni Sessanta, decennio in cui si colpi-sce simbolicamente al cuore la brocca della festa – riaf-fiorata in seguito a Oristano, negli anni Ottanta, con laCMA (Cooperativa Maestri d’Arte) – e cala un macignosull’intera produzione di tipo artigiano, impossibilitata acompetere sul piano creativo. Sta per nascere il Consorzio Costa Smeralda, la cui esi-stenza ha un intrinseco legame con la pianificazioneurbanistica e lo sfruttamento di un’area costiera che di-verrà esemplare: se la voce turismo era fin qui disorga-nizzata e puntiforme, ora, per la Sardegna, è la vigiliadel varo di una machina agognata e terribile che tra-sformerà l’avventura turistica nella più formidabile delleindustrie isolane, coinvolgendo, com’è naturale, seppu-re in minima parte rispetto al tutto, la ceramica.Nel frattempo, a Cagliari, la bottega fondata da Alessan-dro Mola (Monti 1903-Cagliari 1957), grazie all’apportodi suo figlio Stelio, prosegue l’attività cominciata negli

anni Trenta (e chiusasi nel 2003 circa) in concomitanzacon gli epigoni della rinomata manifattura torinese Len-ci, mantenuta sulla scia di quel gusto. Se in quegli anniSessanta, fra le opere più significative dei Mola figurava-no i sorprendenti (per dimensioni: quasi al vero) bustifemminili (fig. 569) di donne vestite del costume tradi-zionale (Atzara, Sennori, Desulo), per altri versi notevolifra i piccoli e medi souvenir diffusi a migliaia dal labora-torio Mola si segnalano le bottiglie zoomorfe e antropo-morfe destinate all’esportazione in veste di contenitoridi bevande. Era una delle “offerte complete” di mag-gior successo, che associava la ceramica a un “saporedi Sardegna”.L’apertura di una bottega ceramica sul viale Umberto aSassari, che allora «era una campagna», documentata nel1956 dal fotografo Mario De Biasi, porta a Tilocca frottedi turisti dirottati dalle guide pressate dalla richiesta disouvenir. Nel laboratorio collaborano, per la cottura esmaltatura, il giovane «abilissimo» Claudio Pulli (Lecce1927-Selargius 2004) e tre allieve. È lo stesso Tilocca aricordare la poca concorrenza sulla piazza di Sassari e,inoltre che, con sua meraviglia, le richieste maggiori siappuntavano sul soggetto della Donnina, al quale l’au-tore aveva attribuito il costo di 4000 lire, non esiguo peri tempi (1959-61). Da un esordio sbilanciato nella narra-zione più figurativa e caratterizzato da smalti multicolorie iridescenti, negli anni Sessanta questo ceramista affinala personale espressione, arrivando a trasfigurare le for-me con una applicazione astratta degli smalti, stesi me-diante pistole a spruzzo. Una colorazione, dunque, au-tonoma rispetto alla forma. Tilocca, pur nella piccoladimensione, ha mostrato di essere un ceramista coltonel controllo compositivo della forma, talvolta anche az-zardata nella reinvenzione delle parti. Il corpo del suoMuflone mancava addirittura della testa: per il mercatodi oggi, massificato e regredito, sarebbe improponibile.“L’altra” bottega sassarese del momento era quella delgià citato Giuseppe Silecchia, eterno secondo rispetto aTilocca, in un gioco di rivalità tacito e proficuo, delquale la città ha beneficiato. A Silecchia, non posse-dendo il peso specifico dell’arte, non veniva perdona-to, dalla sofisticata quanto ingrata intellighenzia locale,il suo essere appieno ceramista per il turismo (e Figariin questo era stato assai lungimirante!): leggerezza evelocità di tocco, nessun bisogno di approfondimentospeculativo a giustificazione del soggetto. Silecchia saràil più perfetto confezionatore di souvenir artistici: il suoAsinello rosa è un capolavoro nel genere, i suoi Pasto-ri (figg. 573-574), vera fotografia di quegli anni, nullahanno delle oscurità barbariche, attingevano semmai aun’origine universale. Silecchia vivrà e leggerà la Sarde-gna senza memorie, cancellando il peso del passato,rappresentando il presente con gioia (dal momento poi,che il fine era di realizzare souvenir!). La sua più attualeproduzione è affiancata e proseguita dall’attività dei figliGianroberto e soprattutto Marco, che ha reso più visibi-le il suo contributo.

378

581

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 17:50 Pagina 378

La storia del laboratorio di Emilia Palomba comincia aCagliari dal 1956. Affascinata dalla nuova ondata di sin-tetismo grafico, la sua attenzione si sposta su figurefemminili di straordinaria essenzialità (ch’ella riconducea personali ricordi di Oliena). Ma non sarà ancora lasua strada, non avendo per questi manufatti un positivoriscontro di mercato. Tardiva e inconsapevole emuladel francese cinquecentesco Bernard Palissy, la sua ri-cerca l’ha portata presto a individuare nelle concrezionidei fondali marini, con i loro abitatori, soggetti più ade-guati alla sua dirompente personalità, lasciati unicamen-te per dare spazio a forme aggressive e allusive del cor-po femminile, altro filone costante nella sua poetica.Palomba ha mostrato un temperamento da grande cera-mista, completa anche nel ricorso alla terza cottura deipezzi, con l’oro e il platino. A questa attività ha affian-cato quella di arredatrice, creando una stretta relazionefra le due e dando vita a una allargata “azienda Palom-ba”. Salto che naturalmente l’ha spostata sul ruolo didesigner e di supervisore (ha lavorato alcuni anni perlei anche Saverio Farci in veste di torniante, mentreClaudio Pulli l’ha saltuariamente affiancata in qualità dismaltatore). Da qui la consapevolezza di una scelta cheselezionasse un proprio target, un pubblico giusto a cuidestinare i suoi costosi manufatti (pur mantenendo alcontempo anche una produzione di formato ridotto,appena più accessibile, reperibile nella più ampia distri-buzione). Ciò l’ha spinta coraggiosamente ad affrontare,

379

582

583

581. Paola Dessy, Grande vaso giallo, anni Sessanta sec. XXterracotta smaltata, h 30 cm, Sassari, collezione privata.Dessy, pur ventenne, ha aperto un suolaboratorio a Sassari dal 1957, orientando il suointeresse verso forme decisamente moderne comequelle riprodotte nel catalogo della VI Mostradell’Artigianato Sardo di Sassari del 1962.

582. Dolores Demurtas, Fiasca decorata, 1991terraglia invetriata, h 38,5 cm, Assemini,Collezione Comunale Ceramiche d’Arte.Marcata in pasta: Dolores Demurtas / CeramicaSarda / Italia. Con quest’opera Demurtas hapartecipato alla VI edizione del ConcorsoNazionale della Ceramica Artistica di Assemini; a fine gara il lavoro è stato acquistato dalla localeamministrazione comunale.

583. Maria Licheri, Anguria, 1979terraglia smaltata, al picciolo h 24,7 cm, Cagliari, collezione privata.Licheri ha presentato Cubature di angurie (treangurie a dimensioni scalari, delle quali questa è la più grande) alle selezioni per il ConcorsoInternazionale per la Ceramica di Faenza del 1979.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 17:50 Pagina 379

malista su vasi, piatti e contenitori fondati sull’ordine esul poco; scelte intese quali sinonimo di modernità.In area cagliaritana, volendo qui completare un corpusomogeneo di figure al femminile, sono da annoverarealtre due ceramiste.Partita da presupposti differenti rispetto a Palomba, la ri-cerca di Dolores Demurtas (San Gavino Monreale 1935),documentata già nella seconda metà degli anni Cinquan-ta con terrecotte ad applicazioni plastiche di soggetto lo-cale, è rimasta ancorata all’ambito di rinnovamento deimodelli popolari, mettendo in pratica e portando alleestreme conseguenze il sapere manuale femminile – dasempre muto coadiutore nelle botteghe ceramiche fami-liari –, in lei specificatamente desunto dalla panificazione.Uno spazio più personale è quello ritagliatosi da MariaLicheri (Santulussurgiu 1940), che dagli anni Sessanta,allieva a Cagliari del grande ceramista Pietro Melandri,sperimenta, nella sua maniera più diffusa, forme ottenu-te dalla sovrapposizione di strati associabili ad altrettantipezzi di tessuto. Spesse volte questi lavori coniugano lastruttura ceramica con fili, colorati o grezzi, di lana, co-tone, spago o lurex, quasi a stringerne o sottolinearne lecomponenti. Partita in questa ricerca da motivi orfici vi-cini a quelli di Sonia Delaunay, applicati a piatti e cioto-le, Licheri effettua di volta in volta delle originali sortite,come quella sorprendente tratta da un fatto di costume.Realizzata per concorrere a Faenza nel 1979, l’Anguriacubica (fig. 583) voleva esprimere lo shock della cerami-sta nell’apprendere che, ai fini di un più agevole stoc-caggio con risparmio di spazio e risorse, i giapponesi,violentando la natura a fini commerciali, avevano colti-vato le angurie in appositi contenitori quadrati “a perde-re”, condizionandone la crescita.Le iniziali innovazioni formali sono arrivate a Oristano– cittadella della ceramica in Sardegna – su diversi fron-ti. Uno era costituito dal canale isolato attivato dal pit-tore Antonio Corriga, l’altro dalla Scuola Professionaleper la Ceramica.Formatosi a Sassari con Figari e forte di una iniziale spe-cifica esperienza acquisita in Toscana, Corriga si stabili-sce a Oristano nei primi anni Cinquanta, avviando, a se-guito dell’ottenimento di un forno elettrico fornitogli daBadas tramite l’ENAPI, una personale produzione esau-ritasi negli anni Sessanta ma mai del tutto abbandonata.Quel poco che oggi si conosce permette di osservarecome l’artista abbia dato vita almeno a tre differenti re-gistri espressivi. Intorno al 1955, si è concentrato nellarilettura della brocca oristanese “della festa” – e in que-sto solco vanno ascritti alcuni lavori con sovrabbondan-za di aggiunte plastiche arieggianti il repertorio popola-re (fig. 584) – mentre, negli anni Sessanta, a prevaleresono forme più astratte e patine sperimentali affatto le-gate al figurativismo. Infine, in parallelo, dando liberosfogo alla sua più profonda indole da pittore, che in luipoi ha prevalso, egli ha piegato la ceramica (piatti, vasi)a superficie che genericamente accoglie la trasposizionenarrativa dei suoi tipici soggetti narrativi.

ma le era stata congeniale da subito, la grande dimen-sione: i suoi sono forse gli oggetti più grandi della pro-duzione ceramica sarda, richiesti dalle fasce abbienti allequali ella si è innanzitutto rivolta (Grace Kelly, principes-sa di Monaco, verrà a Cagliari ad acquistare le sue cera-miche). Arriva addirittura a realizzare arredi come spec-chiere dalle cornici rococò per abitazioni veneziane, vasio basi per lampade che sono vere e proprie sculture in-crostate di suggestioni marine. Palomba è stata anchel’ideatrice di tonalità di smalto che hanno creato filoni digusto, come il bianco alabastrino accostabile alla glassadi alcuni dolci isolani. Certo la sua nota Patella ricordada vicino per materia e smalti le ciotole di Fausto Melot-ti, ma in lei il guardarsi attorno, il prendere il meglio diquanto trovi affine alla sua ricerca si direbbe lineare conl’incessante viaggiare per obblighi lavorativi. Al ritornodal Giappone ha, ad esempio, dato vita al filone dei vasifoggiati nella maniera di quel paese: mobilità e varietànon riscontrabile in altri ceramisti sardi.È ancora all’interno dell’Istituto d’Arte di Sassari che sisitua l’opera iniziale, poi autonoma dal 1957, di PaolaDessy (Sassari 1937), figura d’artista che ha affiancato lasua ricerca pittorica e incisoria a quella ceramica, elabo-rando, prima di sbilanciarsi completamente su una piùlibera creatività, un personale codice di riduzione mini-

584

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 17:50 Pagina 380

584. Antonio Corriga, Vaso, fine anni Cinquanta sec. XXterracotta con aggiunte plastiche, ingobbiata, dipinta e invetriata, h 25 cm, Atzara, collezione privata.

585. Arrigo Visani, Piccoli scolari, 1964 (particolare)pannello decorativo, terracotta smaltata, dipinta e cristallinata, totale 115 x 77 cm, Oristano, Scuole Elementari di via Bellini, “II Circolo”.

586. Arrigo Visani, Storie di Pinocchio, 1964pannello decorativo, piastrelle in terra refrattaria ossidata, disegnate a pennello con bianco a rilievo, smaltate, 119 x 195 cm, Oristano, Scuole Elementari di via Bellini, “II Circolo”.

381

586

585

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:35 Pagina 381

588 589

587. Istituto Statale d’Arte “C. Contini” di Oristano, Variazioni sulla pavoncella, 1966-67 (particolare)pannello decorativo, terracotta smaltata e dipinta in manganese,ciascuna piastrella 12,3 x 12,3 cm, totale 49,5 x 99 cm, Oristano, Istituto Statale d’Arte “C. Contini”.Il pannello è composto da 32 piastrelle.

588. Istituto Statale d’Arte “C. Contini” di Oristano, Zuppiera, 1986-87terracotta ingobbiata e graffita sottovetrina, h 38 cm, Oristano,Istituto Statale d’Arte “C. Contini”.

589. Istituto Statale d’Arte “C. Contini” di Oristano, Orcio per olio, 1983-84terracotta smaltata, h 79,5 cm, Oristano, Istituto Statale d’Arte “C. Contini”.

590-591. Istituto Statale d’Arte “C. Contini” di Oristano, Bottiglia, 1971grès da stampo smaltato, al tappo h 20,7 cm, Oristano, Istituto Stataled’Arte “C. Contini”.

587

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:35 Pagina 382

Con l’apertura dell’Istituto Statale d’Arte e la precedentecessazione della privata Scuola Professionale per la Ce-ramica, della quale era responsabile Vincenzo Urbani –prima erede della Scuola d’Arte Applicata retta da Fran-cesco Ciusa nella seconda metà degli anni Venti –, nel1961 arrivava ad Oristano il nuovo direttore chiamatodall’incaricato del Ministero, Filippo Figari: l’affermatoceramista Arrigo Visani (Bologna 1914-Forlì 1987). Formatosi a Faenza, Visani aveva completato a Bolognai suoi studi presso l’Accademia di Belle Arti, allievo delpittore e incisore Giorgio Morandi e del pittore VirgilioGuidi. Sarà direttore dell’Istituto oristanese sino al 1969,quando lo lascerà per dirigere quello di Forlì. Questodirettore, impostando ex novo la scuola affidatagli, im-prontandola soprattutto verso lo specifico apprendimen-to ceramico, ha portato con sé anche un personale lin-guaggio visivo del tutto inedito per la Sardegna, fissabilenelle modalità vicine a quelle del pittore Franco Gentili-ni e, in parallelo, dei ceramisti Serafino Mattucci e Guer-rino Tramonti: una figurazione basata sul colore, nitida-mente arginato dal segno grafico. Scene prive di pause,filtrate da un racconto carico di memorie, ripropostocon ironia e senza mai rinunciare al dato onirico: l’esitoè un raffinato e intelligente decorativismo calligrafico.A guardare però le opere di Visani, oggi conservate nel-la bella collezione dell’Istituto, si comprende com’eglitenesse per sé l’espressione sopra descritta e propones-se nel dibattito scolastico le innovazioni da innestarenella forte tradizione locale, realizzate in grès. Col ricor-so all’eccellente torniante e formatore Antonio Manis,Visani volle suggerire, senza intervenire sulla forma, lareinvenzione di pentole, casseruole e coperchi, conchee ciotole, attraverso nuove colorazioni e soprattutto colmateriale cotto in alta temperatura (linguaggio e metodoche hanno costituito un riferimento decisivo per AngeloSciannella). Ecco dunque pentole o stoviglie azzurre,bianche o nere, dalle patine compatte e vellutate, ideateper una Sardegna aggiornata che forse oggi cominciaad assomigliare loro.Partecipano, seppure in misura minore, del nuovo dibat-tito oristanese sul rinnovamento il pittore Carlo Contini(Oristano 1903-Pistoia 1970) e Nicola Atzori (Oristano1924-1991), maestro elementare che frequentava la bot-tega di Giovanni Sanna. Il primo ha condiviso con Arri-go Visani la realizzazione di una serie di pannelli desti-

nati all’arredo dell’edificio che ospita le Scuole Elemen-tari di via Bellini a Oristano. Opere ad un certo punto ri-mosse e così in parte perdute, oggi riposizionate a se-guito di un recente adeguamento dello stabile. Le dueserie di pannelli mostrano le macro differenze fra Conti-ni, apprezzato artista locale, e Visani: uno, rimanendopittore, sfodera una narrazione (il gioco del pallone,scolari intenti a manipolare le costruzioni, la Madonnaattorniata dai bambini, datati robot, i numeri dell’aritme-tica ecc.) dalle curiose accezioni neorealiste e, talvolta,un poco ingenue, stentate nella tecnica; l’altro non ri-nuncia al suo intellettuale accattivante abaco espressivo,citando gli scolari in una serie di ritratti ideali ossessiva-mente reiterati (fig. 585), incisivi nel segno e per questoaffascinanti, consegnando infine alla scuola un capolavo-ro di tecnica e di composizione: la fiaba di Pinocchio, icui episodi, su fondo nero, sono tutti contenuti nel ven-tre della grande balena (fig. 586).Visani chiama nel 1962 una sua vecchia conoscenza,incontrata a Castelli durante l’insegnamento presso laScuola d’Arte, il ceramista Angelo Sciannella (Castelli,Abruzzo, 1938), già segnalatosi nel prestigioso concor-so ceramico di Faenza del 1959. In Sciannella, eccellen-te tecnico, Visani trova un valido collaboratore e la Sar-degna uno dei ceramisti più incisivi della sua storiarecente. Questo ceramista, trionfatore a Faenza nel 1975con un grande piatto da portata (insieme a Tilocca è si-nora l’unico dei “giovani” a essere presente in quelle

590 591

383

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:36 Pagina 383

prestigiose raccolte), è noto al grande pubblico per larealizzazione del Riccio di mare (fig. 609), formato in grèso porcellana (più raramente in terracotta) mediante stam-po. Sciannella infatti – ed è stato anche oggetto di unamostra monografica a Cagliari nel 1999 – caratterizza lapersonale produzione, inizialmente attenta alla com-prensione dei modelli locali tradizionali, mediante la co-stante sperimentazione materica, sondando le possibilitàdelle argille anche sarde alle alte temperature. Di recen-te, interpellato dal Museo delle Maschere Mediterraneedi Mamoiada, ha realizzato uno dei più begli oggetti dimerchandising appositamente pensato per un museosardo. Partito dal locale culto di Sant’Antonio Abate, fi-gura contraddistinta dal maialino e dal fuoco originatodal libro aperto tenuto in mano, il ceramista, anche sti-molato dall’illustratrice Chiara Rapaccini, ha isolato ilfuoco, proponendolo in grande dimensione, passaggioche rende l’oggetto, smaltato col vivido rosso al selenio,altro da sé, e gli conferisce rimandi visivi verso esserisottomarini, atmosfera congeniale all’autore.Si deve infine riconoscere all’Istituto di Oristano e aSciannella la formazione di numerose figure di giovaniceramisti che oggi lavorano in totale autonomia (adesempio Nicola Filia a Olbia). Scuola di grandi possibili-tà che alla boa del 2000 non naviga in acque serene mache, con una maggiore attenzione da parte degli organicompetenti, potrebbe veramente costituire il polo for-mativo ceramico dell’intera Isola, avendone tutti i pre-supposti.Dopo un primo periodo sassarese, consumato inizial-mente con Giuseppe Silecchia e poi con Gavino Tilocca,il giovane Claudio Pulli si è trasferito nel 1966 a Cagliari,forse seguendo un mercato più ampio e sicuro ma, qua-si certamente, ricercando un personale spazio d’azione,lontano dalle ingombranti figure con le quali aveva col-laborato in precedenza, anche se in un primo tempo,nel capoluogo, lo si ritrova nel laboratorio ceramico diPietro Mele. Pulli è il mago degli smalti, di quelle super-fici mielate e spesse, marrone o giallo oro, altre voltescabrose e violentemente corrugate, dalle gocciolatureeruttive, che forse hanno fatto il marchio della ceramicasarda anni Settanta. Negli ultimi decenni, le sue cerami-che, al terzo fuoco per via dell’immissione dell’oro, han-no conquistato una larghissima diffusione anche grazieall’iridescenza delle patine craquelizzate. Coadiuvato nellaboratorio di Selargius dai figli Giovanni e Roberto, ere-di dell’attività familiare, ha dato vita in epoca più recentea interessanti gruppi a stampo come quello dei mamu-thones e della bella coppia a cavallo, sculture risolte be-nissimo attraverso la decorazione a tratti cangiante. Mi-scuglio accattivante di grande piacevolezza della quale èben consapevole la bottega Pulli, che (unica nel settorea fare largo uso della pubblicità su quotidiani e rivisteturistiche) ha adottato lo slogan: «Ogni difetto di questaceramica è un pregio artistico naturale».Rimanendo in area cagliaritana, a ovest del capoluogo,Assemini è, insieme ad Oristano, il centro sardo inserito

384

592

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:36 Pagina 384

593

594

385

592. Claudio Pulli, Vaso-borraccia, 1983terracotta smaltata, h 31 cm,Mamoiada, collezione privata.Firmato alla base, “a freddo”: Claudio Pulli.

593. Claudio Pulli, Cinghiale, anni Sessanta sec. XXterracotta graffita, ingobbiata e invetriata, lungh. 32 cm, Bosa,collezione privata.Nel sottopancia, dipinto: C. Pulli.

594. Claudio Pulli, Ciotola bassa, anni Settanta sec. XXterracotta smaltata, Ø 35,6 cm,Selargius, collezione privata.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:36 Pagina 385

tra quelli riconosciuti come ad antica tradizione cerami-ca, dall’Associazione Italiana Città della Ceramica (33 co-muni di 15 regioni, con sede di coordinamento a Faen-za), sorta a seguito della legiferazione statale degli anniNovanta, «con lo scopo di creare una rete nazionaledelle città dove storicamente si è sviluppata una signifi-cativa attività ceramistica», a tutela dunque del settorema soprattutto delle produzioni alle quali attribuire ilmarchio DOC.Oggi Assemini guarda in maniera distratta alle proprieattività ceramiche (alcune delle quali note anche oltre iconfini regionali), abbandonandole a se stesse. Lo spa-zio che ospita la collezione civica permanente di cerami-che artistiche, acquisite dal 1984 al 2004 con l’assegna-zione dei premi nel Concorso Nazionale della CeramicaArtistica, tra i quali si annoverano significative presenzenazionali come Alessio Tasca, Carlo Zauli, Pompeo Pia-nezzola, Giuseppe Lucietti, Carlos Carlè, Vincenzo DiGiosafatte, Rosita De Simone, Bruno Gambone, GiulioBusti, Mirta Morigi, Enrico Stropparo, è specchio di quel-la ricchezza ignorata dagli amministratori che sinora nonhanno investito per farla conoscere, potenziarla, render-la attiva e propositiva.Una sezione della suddetta Collezione Comunale di Ce-ramiche d’Arte è specificatamente dedicata alle produzio-ni di Assemini. Vi sono ospitate opere di Vincenzo Farci(Assemini 1905-1989), figura qui non nella sua veste piùrecente, popolaresca e kitsch – piatti, grandi vasi, torceri,plastiche con scene di genere –, nella quale egli ha datosfogo alle sue reali possibilità espressive, rattrappite in

un primitivismo popolaresco, incapaci di controllo pro-gettuale, bensì come eccellente torniante (lo era statoper Federico Melis nella seconda metà degli anni Venti eprimi Trenta) al fianco di Eugenio Tavolara. Con que-st’ultimo, proprio a partire dalla bottiglia o, meglio, dallaforma di su tuvu (recipiente per la raccolta dell’acqua,fissato alla noria), rielabora con successo, in chiusura de-gli anni Cinquanta, il soggetto del cavallino acroteriale,eccezione plastica nella produzione asseminese. Meravi-glioso artefice se guidato dalla figura di un designer, Vin-cenzo Farci non ha mostrato altrettanta forza se autono-mo. Ed è purtroppo lo spirito di questa sua personalevena creativa, eterogenea e discontinua, a essere prose-guito attraverso i figli Giuseppe, Gianfranco, Gaetano.Più dotato di Vincenzo è stato suo fratello minore, Sa-verio Farci (Assemini 1927-2000), che ha saputo trarregrande profitto dalla collaborazione col designer UbaldoBadas. Di suo, a complemento delle nuove forme, hamesso a punto una materia ottenuta con una miscela,coprente sull’ingobbio, di smalto e vetrina. Tale rivesti-mento sperimentale – unito a un’attenta e costante ricer-ca sulle argille, sempre diverse – diviene ben presto ilprototipo della nuova modernità ceramica sarda, unasorta di “fattore di conciliazione” su cui tutti si trovanoconcordi. Quella tonalità ruvida, biancastra, opaca, talvol-ta ravvivata da vetrine di galena mielata (ferrosa), a rive-stire forme spesso zeppe di graffiti o applicazioni plasti-che, riporta sempre il manufatto a una sorta di “pulizia”che, salvando il linguaggio della tradizione, permettel’accettazione serena dei valori innovativi. La fotografia

386

595

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:36 Pagina 386

del suo laboratorio (fig. 597), del 1969, mostra uno spa-zio razionalmente diviso, ordinato e sacrale, quasi sitrattasse di una bottega rinascimentale fiorentina. Allepareti si notano due grandi bassorilievi realizzati in col-laborazione con Foiso Fois, finalizzati alla partecipazio-ne a un concorso per l’arredo di una scuola elementare.E Badas, “criptosuggeritore” di Farci, guardava comemolti altri a Gio Ponti. Ecco che i soggetti del Re e dellaRegina, in parte anche desunti da su para e sa mongia,bottiglie-scaldino caratteristiche di Oristano, orecchianoanche i famosi Scacchi ideati dall’architetto milanese emessi in opera dal ceramista Andrea Parini. Oggi, questie altri modelli della produzione di Saverio sono ancorareplicati dal figlio Antonio (Nino) e costituiscono senzadubbio gli oggetti più qualificati dell’offerta ceramicasarda in considerazione del rapporto prezzo-qualità. Adaffiancare Saverio, oltre i figli Francesco e Antonio, eraAmelia Girau (Assemini 1925), sua moglie; a lei era dipertinenza la modellazione delle aggiunte plastiche maanche, come in tutte le piccole aziende e come in moltealtre botteghe ceramiche, le più diverse mansioni chesorgevano “alla bisogna”.Francesco Farci (Assemini 1953), diplomatosi all’Acca-demia di Belle Arti di Firenze, è un innovatore. Unendole acquisizioni tecniche paterne a una grande sensibilitàe consapevolezza verso la cultura tradizionale sarda, in-dagata nei suoi più profondi aspetti etnoantropologici,ma soprattutto ricco di un sapere più ampio appresofuori dal contesto isolano, realizza inizialmente manu-fatti dove non si fa fatica a ritrovare le forme a sfogliadell’ultimo Guido Gambone, qui rese domestiche, perarrivare a esiti di grande poesia come la Gallina del2003 (fig. 602), che estremizza la fusione fra contenitoree allusione zoomorfa con l’immissione di elementi dav-vero minimali. La sua Arca di Noè (fig. 603), rispetto aquella paterna “badasiana” (fig. 601), costruisce unacomplessità di memorie: dagli animali bidimensionaliincastrabili progettati per Danese dal designer Enzo Ma-ri, ora forme ammassate su una forma-barca ovoidale,al fianco dell’imbarcazione, in cui, graffito, si evoca eracconta l’andar per mare.Ad Assemini ha dal 1983 la sua bottega Gianni Deidda(Assemini 1950), discendente anch’egli da una storica fa-miglia di ceramisti. Deidda deriva la sua abilità al tornio

596

595. Negozio della ditta “Vincenzo Farci e Figli”, Assemini, 1981(foto Herman Geertman, archivio M.B. Annis).

596. Vincenzo Farci su disegno di Eugenio Tavolara, Bue, 1960terracotta graffita con aggiunte plastiche, ingobbiata e invetriata,lungh. 35,5 cm, Assemini, Collezione Comunale Ceramiche d’Arte.È evidente come nella bellissima serie di animali ideata da Tavolara,della quale questo esemplare costituisce variazione, il designersuggerisca a Farci la ripresa del cavallino acroteriale asseminese,impostato al tornio nelle sue componenti, con minime aggiunteplastiche e radi segni graffiti. La rigidità causata dalla strutturazionedel manufatto ne rappresenta il fascino e l’interesse, assieme ai tonimielati e fondi dell’invetriatura con galena. Gli effetti riflessati inalcuni punti sono dovuti al piombo contenuto nella galena e allaparticolare posizione nel forno del manufatto.

da quella paterna (di cui era nota la leggerezza dellebrocche), eredità che gli ha consentito la realizzazione dipiatti e conche di rilevante diametro. Il suo lavoro si èandato connotando negli anni Ottanta con l’originaleadozione del decoro sull’ingobbio sottovetrina – dalle ri-conoscibili tonalità del verde o del blu, stesi con ritmi diassoluta precisione – e soprattutto con le stoviglie dal de-coro graffito sull’ingobbio chiaro, in risalto sulla terracot-ta. Anche qui il risultato meraviglia per la perizia tecnica.Ignazia Tinti (Elmas 1954), titolare della “Fantastica Bot-tega”, opera ad Assemini. È anche lei nota per la suacapacità tecnica profusa nella rappresentazione di for-me molto vicine a quelle dei pani tradizionali cerimo-niali, che la ceramista ripropone in bisquit. Con l’operaPudda pintara si è guadagnata nel 2003 il 2° Premioper l’Umorismo e la Ceramica Popolare al concorso cheAlbisola Superiore dedica al ceramista Eliseo Salino. Unsuo Cocchio di Sant’Efisio è stato acquistato nel 2004dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, SezioneGenerale per i Beni Librari, al fine di essere espostonella mostra, ospitata presso la Biblioteca Nazionale diRoma, dal titolo ConfraterSum.Dorgali, sulla costa est del nuorese, vanta una significa-tiva storia ceramica, accelerata negli ultimi ottant’anni,ricca di figure quali Ciriaco Piras, Simeone Lai, PaoloLoddo e soprattutto Salvatore Fancello. Qui è nato il pit-tore Pietro Mele (Dorgali 1914-1989). Questi, nel suo la-boratorio di Cagliari, ha affiancato l’espressione pittoricaa quella ceramica; i suoi lavori più significativi, nel do-poguerra, sono stati destinati a decorare alcuni alberghidell’ESIT (Ente Sardo Industrie Turistiche) dislocati aDesulo, Nuoro e Cagliari.17 Erede della tradizione pater-na, dapprima orientato su soggetti narrativi sardi o legatialla tradizione, è Gian Luigi Mele (Dorgali 1946), stacca-tosi poi definitivamente da riferimenti locali per affron-tare ritmi e forme di assoluta autonomia, legati semmaia geometrie biomorfe.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:36 Pagina 387

598599

597. Laboratorio di Saverio Farci, Assemini, 1981 (foto Herman Geertman, archivio M.B. Annis).Alla parete, sulla sinistra, sono visibili due grandi pannelli realizzatiin collaborazione col pittore Foiso Fois.

598. Saverio Farci su disegno di Ubaldo Badas, Gallina, primi anni Sessanta sec. XXterracotta graffita ingobbiata e invetriata con aggiunte di smalto,

h 21,2 cm, Mamoiada, collezione privata.Il rivestimento coprente usato da Farci, che tanto consenso continua a riscuotere, era costituito da una miscela di sua ideazionecomposta da smalto e galena (vetrina).

599. Saverio Farci su disegno di Ubaldo Badas, Gallina matta, primi anni Sessanta sec. XXterracotta graffita ingobbiata e invetriata con aggiunte di smalto, h 16,5 cm, Nuoro, collezione privata.

597

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:36 Pagina 388

389

600

600. Saverio Farci su disegno di Ubaldo Badas, Chioccia portafiori,anni Sessanta-Settanta sec. XXterracotta con aggiunte plastiche,graffita, ingobbiata e invetriata con aggiunte di smalto, h 40 cm, Nuoro, collezione privata.Il corpo di questa ceramica, tornito,nasce dallo sviluppo della pentola o del salvadanaio.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:36 Pagina 389

390

601

Dello stile di Ignazio Casu (Siniscola 1933-1999) – di-scendente del broccaio e vasaio Paolo – è prosecutoresuo figlio Mario (Siniscola 1972) autonomo dal 1990,impegnato a portare avanti le forme messe a punto conlargo successo negli anni Settanta. I contenitori e lebrocchette zoomorfe, vicine alla tradizione dorgalese,sono rivestite invariabilmente con la sola galena di tonoverde cupo.18

Dall’umbro Mario Scassellati (Gualdo Tadino 1915-Sas-sari 1999), artigiano di grande rigore tecnico eccezional-mente trasmesso ai figli, discendono Franco, Leandro eMauro. Franco Scassellati (Sassari 1942) dal 1973 haaperto un suo laboratorio, dimostrandosi da subito unvalente e capace tornitore, ricco anche di qualità tecni-che quale esperto fornaciaio: i suoi grandissimi piatti alustro risultano essere dei veri pezzi di bravura, che eglisegue dalla tornitura alla smaltatura. Leandro Scassellati(Sassari 1950), con un proprio laboratorio nel centrostorico di Sassari, ha scelto un’espressività dai caratterioccasionali, orientata dalla personale curiosità e dallecontingenze di mercato. Interessante l’opera presentata

nel 1990 alla Mostra Regionale di Ceramica d’Arte, Tec-nologia e incubo, che ricorda nell’esito finale il Rabbit,coniglio gonfiabile di Jeff Koons, del 1986. Più tortuosae selettiva la strada intrapresa attraverso una mirata ri-cerca da Mauro Scassellati (Sassari 1957) e dalla cerami-sta Anna Canu (Sassari 1960), sua moglie. La coppia hadato vita nel 1981 al laboratorio Terra Acqua & Fuoco,attualmente ubicato a Luogosanto. Risalgono ai primis-simi anni Ottanta le sintetiche forme in bucchero di cuisi ricordano Gocce, Conchiglia, Biconica, Vaso Conius,Bottiglia. La loro ricerca si sviluppa per razionali filonid’indagine: Domus coniuga in un unico oggetto parti inceramica bianca e bucchero o, ultimissimi, Bertula eNora. Il primo propone oggetti che hanno quale unicoparziale decoro una fascia che imita il tessuto spigato dialcune bisacce sarde, il secondo prende ispirazione da-gli antichi manufatti fenici.Italo Motroni (Sassari 1936), dalla seconda metà deglianni Settanta, conduce un’isolata ricerca quasi intera-mente orientata all’ottenimento di parti trafilate a com-porre dei sistemi anulari o altro, di grande effetto per

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:36 Pagina 390

dimensione, colore vivace degli smalti, trattamento del-le superfici. Spiccavano i suoi vasi dipinti sottovetrinafra le produzioni proposte dall’ISOLA, in quanto, il Mo-troni della fascia più commerciale, contrariamente adaltri, adottava forme e decori legati a una cultura ampiae internazionale, come l’alto vaso conico dai segni sot-tovetrina quasi desunti da ironici tessuti anni Cinquantao il vaso più schiacciato, a fondo nero ravvivato da se-gni geometrici a tinte vivacissime, vicino alla sensibilitàmessicana più che a quella sarda.Altra figura isolata e oggi dimenticata, formatasi nell’am-bito del restauro architettonico, è stata quella di Salva-tore Fois (Olbia 1949-Cagliari 2003) la cui produzione,realizzata ancora a Sassari, è stata negli anni Settanta eOttanta commercializzata in parte dall’ISOLA. Rigorosa-mente attestato su esiti della sola terracotta trattata a cal-do con il latte o mordenti terraombra (solo in ultimo hainserito aggiunte in metallo o tessuto), realizza all’ini-zio un filone che lo ha portato, primo fra i sardi, a ra-gionare e imitare tecniche neolitiche, come ad esempioquella adottata nella ceramica cardiale, su vasi e ciotole.

391

603

602

601. Saverio Farci su disegno di Ubaldo Badas, Arca di Noè, anni Sessanta sec. XXterracotta ingobbiata, lungh. 37,5 cm, Bosa, collezione privata.Sul lato, dipinto: S. Farci. In questo tipo di manufatti, Farci veniva coadiuvato da sua moglie,Amelia Girau, addetta all’inserimento delle parti plastiche.

602. Francesco Farci, Gallina, 2003terracotta smaltata, h 33,3 cm, Nuoro, collezione privata.

603. Francesco Farci, Arca di Noè, 2003terracotta da stampo graffita e smaltata, h 28,5 cm, Nuoro, collezione privata.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:36 Pagina 391

604

605

392

604. Franco Scassellati, Piatto, anni Novanta sec. XXterracotta smaltata e riflessata, Ø 50 cm, Sassari, collezione privata.

605. Franco Scassellati, Donna a cavallo, anni Sessanta sec. XXterracotta smaltata e riflessata, lungh. 33 cm,Orune, collezione privata.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:36 Pagina 392

Successivamente ha riletto, sempre in periodo non so-spetto, il segno geometrico e astratto del pittore Giu-seppe Biasi, artista allora tutto da riscoprire, nello speci-fico quello delle donne d’Osilo o Ittiri, ottenendoneDonne pinguino quali personali raffigurazioni di grandeforza poetica. La sua interpretazione della figura delMamuthone (figg. 616-617) resta insuperata.Il laboratorio Raku, nel quartiere Marina a Cagliari, so-stenuto dai due fondatori Maria Cristina Di Martino (Ca-gliari 1961) e suo marito Salvatore Farci (Cagliari 1953),è, oltre che laboratorio, una fucina che ospita costante-mente iniziative legate alla ceramica. Numerosi gli artistiche si sono rapportati alla bottega per la realizzazionedi opere: Giorgio Podda, Caterina Lai, Gianfranco Pin-tus, il gruppo russo dei Mitki, le illustratrici Pia Valenti-nis e Eva Rasano. Gli esiti più noti della ricerca marcatapropriamente Raku sono le sintetiche, piatte sagome diUccelli e di Bagnanti, queste ultime vicine alle Nana diNiki de Sain Phalle. Salvatore Farci, ricercato tornitore,sperimenta anche argille e forme (coppe, vasi) che col-locano questa produzione in un sicuro ambito di mo-derno design.È nelle strette vicinanze del capoluogo sardo che opera-no i ceramisti Massimo Boi (Carbonia 1958), a Fluminidi Quartu Sant’Elena, e Giampaolo Mameli (San Sperate1952), tra San Sperate e Villasimius. Boi, considerata chiusa l’esperienza oristanese presso laCMA, si è trasferito nel 1982 nel cagliaritano, trovandonella materia raku una personalissima vena espressiva,caratterizzata da una viva gamma di colorazioni rutilan-ti, risultata gratificante per l’autore che ne ha ottenutolarghi consensi di mercato. Mameli ha invece centrato la personale ricerca su motivilegati alla mitologia e alla tradizione etnoantropologicamediterranea. Il Toro (fig. 618), rossomarrone o più spes-so nero in bucchero, divenuto suo soggetto distintivo, èimpostato su una forma affinata a partire dal 1988, giun-gendo a sintetizzare le zampe da quattro a tre, propo-nendo un corpo circolare come di pane lievitato, carat-terizzato in superficie da un decoro inciso con un segnoconformato a spirale: antico simbolo del labirinto e diinfinito, perciò di vita eterna.Salvatore Cossu (Bosa 1945), con laboratorio a Decimo-mannu, ha dato negli ultimissimi anni una virata allasua produzione di oggettistica (noti i cavallini e le galli-nelle) con l’adozione di un robusto rosso selenio qualetonalità unica, in sostituzione del verde iniziale.Pier Paolo Argiolas (Elmas 1952) e Margherita Giovan-na Pilloni (Villaurbana 1958) hanno in comune la stessa

606 607

393

606. Terra Acqua & Fuoco (Mauro Scassellati, Anna Canu), Bottiglia, 1983bucchero, h 52 cm, Luogosanto, collezione privata.

607. Terra Acqua & Fuoco (Mauro Scassellati, Anna Canu), Vaso, 2006terracotta ingobbiata, smaltata e graffita, h 42 cm, Luogosanto, collezione privata.Fa parte della collezione “Bertula”.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:36 Pagina 393

394

608

609

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:36 Pagina 394

Dal 1996 è attiva a Bitti, nel Nuorese, la bottega di TerraPintada, condotta da Robert Carzedda (Bitti 1968), dasua moglie Simonetta Marongiu (Terralba 1970) e daGiulia Carzedda (Bitti 1961). Il gruppo, molto attento insenso contemporaneo a tutti gli aspetti della produzio-ne: dall’immagine coordinata aziendale all’arredo di par-te del laboratorio (quello adibito al pubblico, alla vendi-ta, alle esposizioni temporanee), dalla comunicazione alpackaging, mostra grande attenzione nella progettazio-ne dei manufatti, specialmente di ultima produzione,stoviglie e complementi d’arredo dalle forme pure e ra-dicali, smalti dai toni primari, dichiaratamente artificiali,colorazioni aggressive anni Settanta dalle curiose no-menclature in sardo.Infine, parlare di ceramica oggi significa anche guarda-re a un panorama ampio di offerte non solo legate aglioggetti d’uso o artistici. È il caso del laboratorio artigianoOPI (Ognuno Può Inventare), fondato a Cagliari nel 1986da Rosa Sotgiu (Nuoro 1936), che, facendo riaffiorarel’antica tecnica in uso presso gli architetti di realizzare iplastici in terracotta, porta avanti dal 1989 un’attività te-sa a riprodurre in scala edifici significativi della tradizio-ne regionale.

L’avventura della piccola e grande industriaLe note sino qui scritte contemplano esclusivamenteproduzioni di singoli o di singole botteghe artigiane;considerano quindi un’offerta limitata, di piccoli nume-ri, assolutamente non confrontabile a una realtà indu-striale retta da un consumo annuo capace di coinvolge-re migliaia di tonnellate di materia prima. Purtuttavia,come espresso in altro contributo di questo volume,19

anche la Sardegna del dopoguerra tenta la carta dell’in-dustria ceramica.

395

610

611

608. Angelo Sciannella, Piatto da portata, 1975terracotta smaltata e dipinta, lungh. 57 cm, Oristano, collezione privata.Si tratta del piatto grande di un servizio da pesce, lavoro che, in dimensioni appena più ridotte, valse al suo autore nel 1975 la medaglia d’oro al Concorso Internazionale per la Ceramica diFaenza, sezione “Prodotti d’uso”.

609. Angelo Sciannella, Riccio, anni Novanta sec. XXterracotta smaltata, Ø 60 cm, Oristano, collezione privata.

610-611. Angelo Sciannella, Riccio, 1997ciotola, porcellana smaltata, ciascuno Ø 23 cm, rispettivamenteOristano, collezione privata, e Lemont, Illinois, USA, collezione privata.Con Arrigo Visani, Sciannella è il ceramista che in Sardegna hamaggiormente sperimentato il grès e la porcellana. Quest’ultima,derivata da un impasto composto, mal si presta alla tornitura, perciòdiventa possibile lavorarla solo con gli stampi, tramite colaggioanche manuale o pressa.

maestria al tornio (per Pilloni appresa soprattutto conGiovanni Sanna) e nell’uso degli smalti. Entrambi mo-strano “spericolatezze” formali, lui con circonferenzeperfette ed estremamente sottili nel diametro delle nuo-ve anfore anulari, lei in vasi e piatti di grandi dimensio-ni. Il primo ha operato a Santa Giusta, periferia di Orista-no, sino al 2003, l’altra in città. Il loro lavoro si è centratosull’aggiornamento di modelli ereditati dalla tradizionefigulina locale. Pilloni, postasi in proprio nel 1984 (è sta-ta socia fondatrice della CMA), è anche impegnata qualeinsegnante nella sezione ceramica dell’Istituto Stataled’Arte oristanese (come pure Argiolas). Da questa città eda questa scuola proviene Valeria Tola (Oristano 1968).Allieva in Istituto di Pilloni e di questa erede nel tratta-mento delle superfici, realizza vasi, ciotole, piatti. Di re-cente ha messo a punto un originale presepe le cui fi-gure non sono che sagome, eredi dei Magi di TinoGambetti e Tullio d’Albisola del 1930. Lavora in proprioa Macomer dal 1992.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:36 Pagina 395

396

612 613

Il primo tentativo, nell’arco del secondo cinquantenniodel secolo XX, può essere quello messo in atto a Nuoroa partire dalla fine degli anni Quaranta e che ha avutovita breve. L’imprenditore Pietro Guiso Gallisai apre unamanifattura di stoviglie (terraglia bianca mista a caolino)in località Biscollai, tentando lo sfruttamento dei mate-riali estratti dalle cave di proprietà, aperte nella vicinaOrani. A seguire l’avvio della fabbrica sono stati chiama-ti anche tecnici tedeschi, ma ugualmente l’attività nonha avuto fortuna.Importante, ad Assemini, il lavoro della ditta “VincenzoFarci e Figli” compiuto a metà degli anni Cinquanta, perle cui vicende si rimanda ad altro saggio di questa pub-blicazione.20

Nasce invece ad Olbia nel 1963 Cerasarda, piccola in-dustria in grado di rispondere alle particolari esigenzedei nuovi insediamenti, sia nei caratteri artistici, sia nel-le quantità. Ad impostare la fabbrica viene chiamato ilceramista francese Robert Picault, collaboratore di Pa-blo Picasso a Madoura, presso Vallauris sulla Costa Az-zurra. Con lui nasce lo “stile Cerasarda”, perfettamenteallineato al gusto dei nuovi destinatari delle ceramiche:omogeneità di caratteri, nei motivi decorativi ceramici onelle forme, dovuta anche all’apporto degli stessi pro-

612-613. Gian Luigi Mele, Variazioni del cilindro, anni Ottanta sec. XXterracotta smaltata, rifinita al terzo fuoco, ciascuno h 37 cm, Cala Gonone, collezione privata.

614. Italo Motroni, Anfora, 1980terracotta smaltata, h 57 cm, Sassari, collezione privata.Selezionata ed esposta, quest’opera ha partecipato al 38° ConcorsoInternazionale per la Ceramica di Faenza, svoltosi nel 1980. Motroni aveva preso parte alla medesima manifestazione già nel1966, con un pannello.

gettisti come gli architetti Jaques Couelle e Luigi Vietti.Dagli anni Ottanta firma altri contributi alle produzioniil fotografo Mario De Biasi, che bene interpreta lo stileanni Sessanta e Settanta di Cerasarda con il suo soleimmaginario e le forme zoomorfe reinventate.Nel 1978, un gruppo di giovani oristanesi fonda unacooperativa (proseguita sino a oggi pur con l’avvicen-darsi dei componenti) che viene chiamata CMA (Cera-mica Maestri d’Arte), sottolineatura di una qualifica ac-quisita da molti di essi in qualità di ex allievi dell’IstitutoStatale d’Arte cittadino. L’intento è far rinascere la tradi-zione attraverso l’immissione di contenuti appresi con laconoscenza didattica. La produzione CMA, connotatainizialmente da una fitta e preziosa quanto debole deco-razione, si orienta successivamente verso la semplifica-zione. Il gruppo di ceramisti, nel quale si registrano di-versi avvicendamenti nel corso del tempo, èinteramente volto alla realizzazione di stoviglie e oggettid’uso, mettendo anche in produzione la grande cerami-ca, orgoglio dei figoli oristanesi, brocca della festa.Un significativo esempio, più recente dei precedenti, fat-to eccezionale per l’intera cultura sarda, in quanto inter-prete dell’aspirazione a valorizzare i caolini regionaliquasi esclusivamente destinati all’esportazione, è costi-tuito dalla nascita di Petra Sarda, azienda di lavorazionedel grès, sorta nel comune di San Pantaleo a Nord di Ol-bia. Petra Sarda, costituita da un organico di soli tre ele-menti, ha una produzione di circa tremila pezzi all’anno,esclusivamente indirizzati ad una pressante richiesta chearriva da oltre Isola e in molta parte dall’estero. Ideatricee animatrice è l’americana Anna Milliken Franchetti, cheprogetta personalmente i prototipi, talvolta chiedendoad altri ceramisti delle proposte progettuali, come quelledovute a Dodi Bortolotti. Sempre a Olbia, nella prima metà degli anni Ottanta,nasce la Ceramica Corallina. Voluta da un imprenditorepiemontese, committente di imponenti cantieri edili sul-la costa chiamata Corallina, costui fa impiantare unafabbrica in grado di soddisfare dapprima il fabbisognoedilizio interno di piastrelle in monocottura, ottenendorisultati anche di ottima qualità. L’azienda, pur in buonasalute (era anche impiantata in un’area favorevole per itrasporti), è stata chiusa alla fine degli anni Novanta inquanto legata ad altre fallimentari imprese della pro-prietà. I suoi macchinari sono stati acquistati e trasferitiin Nordafrica.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:36 Pagina 396

397

614

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:36 Pagina 397

615

616

617

Note

1. È quanto si afferma anche nel cinegiornale edito nel 1959 – realiz-zato da Fiorenzo Serra con testi di Luca Pinna e Manlio Brigaglia – daltitolo Artigianato e vita, nel commentare in chiusura le immagini dellaI Mostra dell’Artigianato Sardo di Sassari del 1957.

2. M.U. Bigi 1959, p. 20.

3. Conversazione filmata a Nuoro la mattina del 19 dicembre 1998,presso la sede della Ilisso Edizioni, azienda committente. Intervistato-re: Antonello Cuccu; operatore: Ignazio Figus; interventi fuori campo:Angelo Tilocca. Non sarà stato facile per Gavino Tilocca, nel tracciareun bilancio senile, constatare di essere stato più ceramista che sculto-re, avendo dedicato più tempo e probabilmente passione, certamentespinto da maggiore libertà e serenità, all’arte “minore” invece che aquella “maggiore”.

4. La forte personalità di Tavolara, infatti, accentrando su di sé l’interoventaglio di scelte legate alla comunicazione (grafica, allestimenti ecc.)e all’innovazione compositiva e formale dei manufatti (tessuto, cestine-ria, intaglio, ceramica ecc.), non intuì la necessità di dar vita a una“scuola” che formasse molteplici figure in grado di garantire la specifi-cità delle varie declinazioni. Oggi lo stesso Tavolara, con la forte spe-cializzazione dei settori e dei mercati, fallirebbe. L’ISOLA non potevadunque mantenersi a lungo come un’istituzione affidata a un solo re-sponsabile generale, anche se all’avvio questo era stato indispensabile.Anche in seguito si è adottata la prassi di nominare un generico diretto-re, spesso estraneo all’artigianato, coadiuvato da vari assistenti artisticile cui competenze non sono state certo quelle messe in campo da Ta-volara. Inoltre, fatto oggi non trascurabile, è stato sottovalutato un ele-mento di primaria importanza: la cura dell’aspetto commerciale. L’espe-rienza conferma che chi si occupa con capacità dei contenuti culturali edella loro realizzazione non è egualmente spostabile sul fronte econo-mico: competenze spesso antitetiche ma non inconciliabili. L’ISOLA dinuova fondazione dovrebbe quanto meno avere due teste complemen-tari: economica e creativa.

5. Località della Costiera Amalfitana, oggi alla periferia ovest di Saler-no, importante centro ceramico. Nioi ha più volte dichiarato di essere

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:37 Pagina 398

399

618

619

620

615. Salvatore Fois, Coppia a cavallo, primi anni Settanta sec. XXterracotta patinata, h 15,8 cm, Bosa, collezione privata.Firmato in pasta, nel sottopancia: Fois.

616-617. Salvatore Fois, Mamuthone, anni Settanta sec. XXterracotta patinata, h 19,2 cm, Bosa, collezione privata.

618. Giampaolo Mameli, Toro, 1988bucchero, h 25 cm, San Sperate, collezione privata.

619. Raku (Maria Cristina Di Martino, Salvatore Farci),Ciotola, anni Novanta sec. XXterracotta ingobbiata, invetriata internamente, Ø max 34,5 cm, Cagliari, collezione privata.

620. Massimo Boi, Vassoio, anni Novanta sec. XX raku, Ø 27,5 cm, Nuoro, collezione privata.

venuto in contatto con questa tradizione ceramica attraverso cocci emanufatti frammentari rinvenuti in contesti subacquei.

6. M.U. Bigi 1959, p. 18.

7. M.U. Bigi 1959, p. 19.

8. Con il saggio La civiltà di un popolo barbaro, del 1924, è tra i primia schierarsi apertamente in difesa dell’artigianato.

9. Cfr. in proposito il contributo di M.B. Annis, p. 160 in questo volume.

10. U. Badas, “Artigiani di Sardegna”, in Mostra dell’Artigianato diSardegna, catalogo, Galleria Bevilacqua La Masa, 16 luglio-9 agosto1963, pp. 15-17. Badas qui descrive la nota immagine del figolo di As-semini (fig. 488).

11. M.U. Bigi 1959, pp. 19-20.

12. M.U. Bigi 1959, p. 19.

13. Figari vi ha anche realizzato un grande cartone a pastelli colorati(mai tradotto su tela) raffigurante La Sagra di Sant’Efisio, quale arredoper il grande salone centrale dell’edificio.

14. Nell’intervista già citata, Tilocca racconterà con dovizia di partico-lari di essere stato spinto, essendo egli “preciso” nel mantenere le pro-messe, da un suo assenso seguito a una richiesta dell’architetto amicoVico Mossa, a comprare il forno ceramico oltre che a dare finalmentesfogo a una curiosità latente, ma è chiaro che questo non è che il pre-testo contingente.

15. Gavino Tilocca, nell’acquisto del forno elettrico, viene aiutato dal-l’ENAPI grazie all’interessamento di Badas col quale, essendo proget-tista in quel momento dell’erigendo “Palazzo” dell’Artigianato, intrat-teneva una stretta frequentazione.

16. Tilocca elabora due bozzetti, uno per la grande parete finale a estdell’edificio, l’altro per il sito attuale. Il primo, previsto in uno spaziopiù ampio, era naturalmente più completo anche se non avrà seguito.

17. M. Marini, M.L. Ferru 1990, scheda su P. Mele, p. 262.

18. Alla bottega Casu, una delle ultime a ricorrere alla fornace a legna,l’ISRE ha dedicato nel 2007 un documentario dal titolo Brokkarios.Una famiglia di vasai, le cui riprese sono cominciate nel 2000, per laregia di Ignazio Figus.

19. U. Angius, “Le argille”, pp. 415-421 in questo volume.

20. I. Ruggeri, “Gli stovigliai di Assemini”, pp. 311-319 in questo volume.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:37 Pagina 399

621

622

623

400

621. Salvatore Cossu, Gallina, 2004terracotta smaltata, h max 34,2 cm, Cagliari, collezione privata.

622. Pierpaolo Argiolas, Anfora anulare, anni Novanta sec. XXterracotta, ossidi opacizzanti con cristallina, h 56 cm, Nuoro,collezione privata.Inciso in pasta sulla base, esternamente: Argiolas.Questo modello di borraccia, raro in Sardegna, era invece frequentein Calabria, dove, nella sua misura grande, veniva portato incampagna dai contadini, infilandovi il braccio e sospendendolo allaspalla. Esso è tuttavia diffuso anche nel Nordafrica. Nessuno peròpresentava il piedistallo, introdotto nell’Isola da Giovanni Sanna,intraprendente figolo oristanese, negli anni Sessanta.L’anello di questa anfora è stato realizzato al tornio.

623. Valeria Tola, Centrotavola rettangolare, 2004terra refrattaria smaltata e invetriata, 53,5 x 44,5 cm, Macomer, collezione privata.

624. Gianni Deidda, Piatto “pizzo”, 2007terracotta ingobbiata, graffita e invetriata, Ø 61,3 cm, Assemini, collezione privata.

625. Ignazia Tinti, Il cocchio di Sant’Efisio, 1998bisquit, lungh. 50 cm, Assemini, collezione privata.Questo tema è stato per la prima volta affrontato da Tinti con lacommissione da parte dell’ESIT (Ente Sardo Industrie Turistiche) di cinque esemplari del soggetto.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 14-11-2007 18:52 Pagina 400

624

625

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 15-11-2007 17:04 Pagina 401

627

626

629628 630

631 632

626-627. Terra Pintada (Robert e Giulia Carzedda, SimonettaMarongiu), Sixteen, 2006portacandela, terracotta ingobbiata e smaltata con inserto metallico,7 x 7 x 5 cm, Bitti, collezione privata.Fa parte della collezione “Settanta”.

628-632. Cerasarda, Portacenere, anni Novanta sec. XXterracotta da stampo smaltata, rispettivamente 11,5 x 19, 10 x 10 e 17 x 13 cm, Olbia, collezione privata.

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 15-11-2007 17:21 Pagina 402

633 634

635

633. Margherita Pilloni, Brugna, 2007terracotta ingobbiata e invetriata, h 29 cm, Oristano, collezione privata.Inciso sulla pancia, nell’ingobbio sottovetrina:Margherita Pilloni.

634. CMA, Brocca della festa, anni Novanta sec. XXterracotta con aggiunte plastiche e smaltata, h 41 cm,Oristano, collezione privata.

635. Petra Sarda, Set da tavola, anni Novanta sec. XXgrès smaltato, lungh. vassoio 45 cm, San Pantaleo,collezione privata.Ciascun componente è marchiato in pasta alla base: P.S.

403

14-16 Artisti GA, Artisti AC, Contemparanei 15-11-2007 17:04 Pagina 403

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 15-11-2007 17:06 Pagina 404

Le testimonianze del rapporto tra ceramica e architetturain Sardegna risalgono almeno al XVIII secolo e si ricol-legano all’uso tipico della cultura islamica e più general-mente mediterranea. Nel meridione italiano questa pras-si appare già dal tardo Cinquecento, diventando poielemento caratterizzante del Barocco.1 Le cupole dellechiese settecentesche sarde ed in particolare le cupolinedelle torri campanarie presentano spesso, sul modellodi analoghe realizzazioni del Sud d’Italia, una coperturaa squame maiolicate policrome. Tegole a goccia dispo-ste in file concentriche o a coda di pavone, in alcunicasi ritmate da costoloni ottenuti mediante la sovrappo-sizione di pezzi semi-cilindrici, formano disegni geome-trici o campiture cromatiche uniformi che si staglianonel cielo per un effetto decorativo di semplicità ed ele-ganza. Esempi significativi sono nel Campidano e a Ori-stano (la cattedrale del 1733 e la chiesa conventuale delCarmine del 1776, oltre che il settecentesco Palazzod’Arcais – oggi Siviero –, che costituisce un unicum peril carattere laico e privato di dimora signorile). Questaconsuetudine costruttiva è mantenuta anche nella pri-ma metà dell’Ottocento, in chiese di nuova edificazioneo interessate da radicali ristrutturazioni (l’Immacolata diBosa all’inizio dell’Ottocento, Santa Maria Assunta aGuasila del 1839 tra le altre). È presente inoltre la va-riante delle mattonelle policrome, solitamente riggiolecampane, che ricoprono l’estremità della torre campa-naria, per esempio nel duomo di San Nicola di Sassari(1756), nella Beata Vergine di Monserrato a Barisardo2

(metà del Settecento) e nella parrocchiale di Santa Ma-ria ad Usini (seconda metà del Settecento). Diffusissimein tutta la Sardegna, le cupole maiolicate sono diventa-te nei secoli un elemento tipico del paesaggio urbano.Non a caso, negli anni Cinquanta del Novecento, Anto-nio Simon Mossa (Padova 1916-Sassari 1971), nell’ambi-to di una ricerca sulle componenti identitarie dell’archi-tettura sarda,3 proporrà una copertura di piastrellepolicrome per la cupola di San Michele ad Alghero, al-lora in restauro, affidandone il disegno geometrico alpittore Filippo Figari.4

In ambito popolare è da segnalare l’uso di antefisse interracotta smaltata, raffiguranti cavalli montati da piccolicavalieri. L’antefissa è un elemento decorativo che ca-ratterizza i tetti dei templi greci, etruschi e romani, main Sardegna è adottato in funzione apotropaica a prote-zione delle case, secondo un uso ancora documentatoall’inizio del Novecento5 ma rapidamente scomparso.A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, in Europa,la ceramica conosce un nuovo revival per mezzo delmovimento degli Arts and Crafts e, in seguito, di partedel Modernismo.6 Di questo momento di grande speri-mentazione tecnica e stilistica non resta praticamentetraccia in Sardegna, pure raggiunta dal gusto Liberty.7

Tra le poche realizzazioni è la facciata del corpo avan-zato di Casa Cugurra (1906) in via Roma a Sassari, inceramica d’importazione con un elegante decoro flo-reale sui toni del bianco, verde e marrone: interventonon certo paragonabile a precedenti europei,8 ma mag-giormente coerente rispetto ad altri realizzati nell’Isola.9

D’importazione sono anche le ceramiche utilizzate perla pavimentazione interna di case signorili.Le ragioni di tale scarsità di testimonianze risiedono nellivello tecnico della ceramica sarda alla metà del secoloXIX, piuttosto scadente e limitato a poche tipologie dimanufatti, regolate da statuti di marchio medievale.10

Questa situazione permane ad inizio del Novecento,nonostante i diversi tentativi compiuti per raggiungereun livello accettabile per la produzione industriale,sforzi che dimostrano come le idee circolanti nel restodell’Europa fossero penetrate almeno a livello di bor-ghesia colta cittadina.11 Ma l’attenzione dei pionieri del-la ceramica sarda, che nei primi decenni del Novecentoimpiantano con alterne fortune piccole attività cerami-che, è focalizzata sull’oggettistica per la grande fortunache in quel momento essa riscuote a livello nazionalema anche per l’assenza di un coordinamento con gli ar-chitetti locali.Sarà necessario aspettare la fine del secondo conflittomondiale per vedere un uso sistematico della ceramicain architettura, ma già in precedenza il problema si pre-senta all’attenzione di alcuni artisti sardi operanti nelcontesto nazionale. In Italia, tra le due guerre, il movi-mento di Novecento pone a livello teorico l’architettura

405

Ceramica e architetturaAntonella Camarda

636

636. Giuseppe Silecchia, Fontana, 1956 (particolare della fig. 639).

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 15-11-2007 17:06 Pagina 405

come guida delle arti sorelle nel processo di rinnova-mento.12 A partire dal 1930 questo movimento si orien-ta verso una pittura celebrativa su grandi superfici, ca-pace di parlare alle masse veicolando contenuti socialied ideologie. Protagonista di questa svolta è Mario Siro-ni (Sassari 1885-Milano 1961)13 che, nel suo Manifestodel Muralismo del 1933, afferma: «Nello Stato Fascistal’arte viene ad avere una funzione sociale: una funzio-ne educatrice … opera sull’immaginazione popolarepiù direttamente di qualunque altra forma di pittura, epiù direttamente ispira le arti minori».14 Queste indica-zioni si percepiscono all’ISIA15 di Monza, nata come co-stola della Società Umanitaria16 ed in breve portata suposizioni novecentiste, in cui si formano i sardi Salvato-re Fancello (Dorgali 1916-Bregu Rapit 1941) e Costanti-no Nivola (Orani 1911-Long Island 1988). I due artistirealizzano insieme una parete in litoceramica espostaalla VI Triennale di Milano nel 1936. Nella stessa occa-sione Fancello, su un ampio muro graffito che prende

spunto dal tema coloniale, incastona due mosaici dipiastrelle ceramiche, La partenza del Legionario e i La-vori Campestri.17 Qui e nei numerosi pannelli realizzatiin quegli anni, la componente fantastica si cala nellacontemporaneità affrontando tematiche legate alla fami-glia, al lavoro, al ruralismo, temi forti del Ventennio.Negli stessi anni Melkiorre Melis (Bosa 1889-Roma 1982),in Libia come direttore della Scuola Musulmana di Me-stieri ed arti indigene a Tripoli dal 1934 al 1941, a contat-to con la tradizione locale18 sperimenta l’uso della cera-mica nell’architettura d’interni, realizzando in particolarepannelli, fontane ed elementi di arredo, con una opera-zione di ricostruzione, a tratti fittizia, di un contesto loca-le interpretato con vena orientalista, che può ricordarel’opera di William De Morgan,19 oltre che le realizzazioni,a lui contemporanee, di Guido Gambone per la MACS.20

Ma, al ritorno dall’esperienza libica, Melkiorre perderàinteresse per la decorazione di interni, ritornandoci, co-me vedremo, in via episodica negli anni Sessanta.La seconda guerra mondiale costituisce un momento dirottura e al tempo stesso una pausa di riflessione. All’in-domani del conflitto, i problemi della ricostruzione (ma-teriale e ideale) vengono naturalmente in primo piano ela concorrenza di diversi fattori determina un notevolesviluppo dell’uso della ceramica in architettura.Nel 1945 Bruno Zevi fonda a Roma l’APAO, Associazio-ne Per l’Architettura Organica, proponendo un’architet-tura «modellata secondo la scala umana, secondo le ne-cessità spirituali, psicologiche e materiali dell’uomoassociato».21 L’esigenza di un’architettura inserita nel tes-suto sociale, capace di convogliare sistemi simbolici ecomunicare messaggi, porta facilmente a servirsi dellearti applicate e del design. Su questo fronte il gruppopiù attivo in Italia ha sede a Milano, e si raggruppa at-torno alla rivista Domus, diretta da Gio Ponti22 che ma-nifesta uno spiccato interesse per il settore, segnalandole punte di eccellenza nella produzione di oggettistica edi opere per l’architettura e ponendole a modello di unnuovo corso nel rapporto tra le arti. Attraverso le paginedel mensile è possibile seguire l’exploit della ceramicacome forma d’arte autonoma e, all’interno dell’architet-tura, non semplice componente dell’apparato decorati-vo, ma vera opera d’arte che dialoga con l’edificio chela ospita.23 Allo stesso tempo la ceramica è un ottimomateriale di produzione industriale per l’edilizia pubbli-ca e privata poiché, come scrive Ponti nel 1957, «l’archi-tettura ha semplificato le superfici, ma le va rivestendodi materiali incorruttibili … la litoceramica, il mosaico digres e di ceramica … Il rivestimento acquista, e fa ac-quistare all’architettura, nuovi valori – valori plastici».24

È fra questi due poli, intervento artistico e rivestimento,che il discorso tra ceramica e architettura si sviluppaanche in Sardegna, e tenere presente questi parametripermette di leggerne le vicende almeno fino agli anniSettanta.Gli enti pubblici danno il via ad una serie di interventidecorativi in cui la ceramica collabora alla ricostruzione

406

637

637. Casa Cugurra, Sassari, 1906.Particolare del corpo avanzato. Sottofinestra in piastrelle di gusto Liberty in terracotta smaltata. Queste piastrelle sono chiaramente d’importazione.

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 15-11-2007 17:06 Pagina 406

del tessuto sociale lacerato dal conflitto. Il pannellovuole educare il cittadino ad un rapporto più direttocon la città e le sue istituzioni, concentrandosi su icono-grafie che tendono a proporre una visione del mondoin cui i dissidi ideologici trovano infine una composi-zione. Questa esperienza in parte prosegue le modalitàcomunicative del sistema fascista, proponendo soluzio-ni stilistiche simili: un arcaismo di lontana ascendenzasironiana, la preferenza per ampie superfici in cui le fi-gure si dispongono, fluttuanti in uno spazio indefinito,incuranti dei rapporti prospettici. I temi proposti sonoperò depurati da intenti trionfalistici, ovviamente fuoriluogo, e tendono a proiettare la situazione del momen-to su uno sfondo metastorico. Si tratta dunque di un’ar-te sociale, ma non necessariamente espressa mediantegli stilemi realistici fortemente raccomandati a livellopolitico in quegli anni. In questo senso l’ornamento,lungi dal rappresentare un delitto,25 è una forma di co-municazione (con contenuti morali, civici o estetici) el’arte decorativa si identifica con l’arte tout court. Eugenio Tavolara (Sassari 1901-1963), artista, designer eartefice del rinnovamento dell’artigianato sardo nel do-poguerra, esemplifica al meglio questa tendenza.26 Il ri-lievo L’agricoltura, commissionatogli per la sede centra-le dell’Istituto di Credito Agrario per la Sardegna (ICAS)27

di Sassari e collocato nel 1952, è un’opera emblematicadi questa concezione artistica, oltre a segnare per l’arti-sta la maturazione di un decennio di ricerche.28 La vitanei campi è raccontata mediante il ricorso a personaggiche, pur nei puntuali richiami alle tematiche sarde (il pa-store con le pecore, la donna con il cestino sulla testa),hanno un valore iconico universalizzante. La dialetticatra natura e cultura, che in questi stessi anni è oggetto diuna profonda riflessione nel pensiero occidentale,29 si ri-solve qui in una continuità senza strappi, armonia cheindica anche una fusione fra antico e moderno.Il mondo tradizionale sardo, ispirazione per gli artistiisolani nel primo Novecento, fornirà ora ai ceramisti unrepertorio codificato di temi e soggetti, utilizzati in fun-zione identitaria nei luoghi più significativi della vitacomunitaria. Tra questi vi è uno degli edifici più inte-ressanti dell’architettura in Sardegna dal periodo post-bellico ad oggi, il Padiglione dell’Artigianato a Sassari.Realizzato da Ubaldo Badas nel 1956 e destinato ad ac-cogliere le grandi mostre-mercato dell’ISOLA,30 è la se-de e il centro propulsore della rinascita dell’artigianatosardo negli anni Cinquanta. Badas, responsabile del-l’ENAPI31 per la Sardegna dal 1936 e collega di Tavolaranella direzione dell’ISOLA sino al 1959, progetta un edi-ficio che unisce la matrice funzionalista (con richiamipuntuali a Le Corbusier e a Wright) ad un «gusto per ilmateriale usato artigianalmente».32 In questo sperimenta-lismo materico si collocano l’uso del legno, della steatitee soprattutto gli interventi affidati ad alcuni dei maggioriceramisti del tempo. Contenitore e contenuto (padiglio-ne e artigianato) si legano quasi per osmosi, con unacorrispondenza puntuale tra esterno ed interno, e «l’uso

della ceramica … sottolinea l’ideale accordo tra artimaggiori e minori».33 Esempio precoce di arte pubblica,l’edificio si armonizza con il suo contesto (il giardinodella città) ed al tempo stesso reclama su di sé l’atten-zione del fruitore. Di queste due opposte ma comple-mentari funzioni la ceramica costituisce un sostegno im-prescindibile. Per le piastrelle, d’importazione,34 chericoprono l’edificio si può parlare di mimetismo, benchécaricato di forza simbolica ed emozionale mediante i li-stelli verde acqua, evocativi del mare e della insularitàdella Sardegna. L’intervento di Emilia Palomba (Cagliari1929), perfetto esempio di integrazione del manufattoartistico nell’architettura, è un lungo fregio che, colloca-to nella parte alta del fianco nord dell’edificio, utilizza ilcolore per mediare tra costruzione e ambiente (una so-luzione compositiva che Badas riprenderà, in collabora-zione con Silecchia, nel Padiglione per l’agricoltura dellaFiera Campionaria di Cagliari). La grande parete affidataa Gavino Tilocca, oggi purtroppo perduta e nota da fotod’epoca, costituisce invece un elemento di contrasto. Suuno sfondo rosso acceso realizzato con piccole tesserequadrate, enormi figure, accostabili a quelle coeve diAgenore Fabbri, abitano uno spazio irreale in cui com-piono le attività artigianali, assistite tra l’altro dal cinghia-le che assurge al ruolo di nume tutelare della tradizionesarda. All’interno dell’edificio, in mezzo al patio, comeperno centrale del padiglione sta la fontana di GiuseppeSilecchia (Porto Azzurro 1927) da cui pare irradiarsi lacreatività che contraddistingue l’artigianato sardo: il nu-raghe-corallo-fontana, carico di simboli naturali ed eso-terici, costituisce un felice tentativo di conferimento diuna dimensione organica al manufatto ceramico. In unafoto del 1956, che mostra l’allestimento di Badas per lamostra inaugurale dell’ISOLA, la metafora marina è con-fermata dalla presenza della sabbia intorno alla fontana,con brocche sistemate con dissimulata noncuranza, qua-si ad evocare, oltre che le sabbie del tempo, la forza delmare. La triade tradizioni popolari, insularità e civiltà nu-ragica, cardine della costruzione dell’identità sarda deldopoguerra, trova qui una delle sue sintesi più efficaci. L’uso della ceramica in architettura al fine di veicolarecontenuti identitari si ritrova, con risultati formali diffe-renti, nell’opera dell’architetto di Alghero Antonio SimonMossa. Intellettuale sardista con forti legami con la Cata-logna, deriva da questa regione l’amore per le mattonel-le ceramiche,35 su modello degli azulejos, che ritroviamonelle numerose ville e strutture alberghiere da lui pro-gettate nel Nord Sardegna. Alte zoccolature, pavimentidecorativi e pannelli integrano le forme semplici ed imuri imbiancati di calce delle sue architetture “neo-me-diterranee”. Nel 1961 fa collocare nel centro storico diAlghero delle targhe stradali in ceramica,36 contenenti lostemma araldico della città e i nomi delle vie in catalano.Questa compresenza di immagine e parola sarà elemen-to presente anche nel Museo del Costume37 di Nuoroche, progettato nel 1957,38 si dispiega lungo il fianco delcolle Sant’Onofrio. L’idea che sottende la realizzazione

407

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 15-11-2007 17:06 Pagina 407

progettuale è quella di un paese sardo tipico (sa bidda)articolato per blocchi di bassi caseggiati collegati dapassaggi che, nella struttura e nei nomi, rimandano aglispazi comunitari della vita tradizionale sarda (la chiesa,la piazza, il forno, il lavatoio ecc.). Nei primi anni Ses-santa Giuseppe Silecchia è chiamato ad integrare l’edifi-cio con targhe ceramiche policrome contenenti il nomedelle vie in lingua sarda. Il tema è svolto mediante im-magini che richiamano la tradizione italiana delle maio-liche popolareggianti (spesso usate in funzione di ex-voto)39 o quella spagnola. Disinvoltamente collocati agaranzia del carattere “popolare” del finto paese, so-stengono un’idea totalizzante di “autenticità”: operazio-ne non priva di contraddizioni stilistiche ed ideologi-che, che avvicina questa esperienza ad un’altra a primavista agli antipodi,40 quella della Costa Smeralda.41

Difficile dare conto di tutti gli interventi di questo perio-do, molto eterogenei per struttura, intenti e qualità. Tra iprimi esempi di particolare interesse vi è il PreventorioTubercolare di Tempio, del 1952, in cui l’architetto VicoMossa chiama lo scultore Gavino Tilocca a decorare gliinterni con due bassorilievi: prima esperienza dell’artistasassarese con il medium ceramico e preludio di un im-pegno ventennale dell’artista in questo campo. Frequen-ti le illustrazioni della vita rustica sarda (come il bassori-lievo di Silecchia nell’hotel Grazia Deledda a Nuoro conscene di caccia). Nel centro per l’assistenza ai portatoridi handicap di San Camillo a Sassari, nel 1967 VittorioCalvi realizza un significativo compendio dei temi pre-valenti in quegli anni. Oltre alle immancabili figure incostume di pastori, cavalieri e fanciulle, l’artista proponeanche la pesca del tonno, coniugando così il tema socia-le del lavoro e quello paesaggistico del mare. Inoltreuna scena di caccia ad imitazione delle pitture primitiverupestri, anche se non si può collegare stilisticamente

all’arte nuragica, tuttavia la presuppone e la sottintende.L’Istituto d’Arte di Oristano negli anni Sessanta realizzaper alcune scuole della città (il liceo classico “De Ca-stro” e la scuola media “Leonardo Alagon”) dei pannellidi ceramica, tra cui alcuni su disegno di Carlo Contini,42

che illustrano con senso poetico il tema dell’infanzia edella serietà del gioco. L’importanza di questo interven-to sta nella volontà di portare la ceramica all’internodelle istituzioni deputate a fornire un’educazione com-pleta ai giovani individui. Anche nel campo dell’ediliziaprivata troviamo realizzazioni interessanti, come la fac-ciata del negozio Costa Marras a Cagliari, nata alla finedegli anni Cinquanta dalla collaborazione, ancora unavolta, tra Badas e Silecchia, o i bassorilievi di Nino Caru-so, artista e ceramista specializzato nella decorazione ar-chitettonica, collocati nei primi anni Settanta in alcunipalazzi all’ingresso di Sassari.Un capitolo a parte è rappresentato dall’utilizzo dellaceramica nelle chiese, molto diffuso per l’effetto di pre-ziosità e brillantezza degli smalti o per quello umile,semplice ed austero comunemente associato alla terra-cotta. Le Madonne quattrocentesche dei Della Robbia,in terracotta invetriata, sono spesso presenti alla memo-ria dei ceramisti, nella gamma cromatica e nelle sceltecompositive, mentre l’altro riferimento pregnante è airetabli ceramici spagnoli, altari pubblici collocati sullepareti esterne di edifici sacri e profani. Nella chiesa diSan Marco a Fertilia, Silecchia realizza non solo grandipannelli della Vergine e di santi, ma anche gli arredi,

408

638

639

638. Emilia Palomba, L’Artigianato sardo, 1956terracotta smaltata, Sassari, Padiglione dell’Artigianato, fianco nord.

639. Giuseppe Silecchia, Fontana, 1956terracotta smaltata, h 450 cm, Sassari, Padiglione dell’Artigianato,patio interno.

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 15-11-2007 17:06 Pagina 408

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 15-11-2007 17:06 Pagina 409

640. Gavino Tilocca, L’Artigianato sardo, 1957, Sassari, Padiglione dell’Artigianato, ingresso principale.L’altorilievo, oggi perduto e noto attraverso foto d’epoca, eracostituito da uno sfondo rosso acceso realizzato con piccole tesserequadrate, nel quale enormi figure abitano uno spazio irreale in cuicompiono le attività artigianali, assistite tra l’altro dal cinghiale cheassurge al ruolo di nume tutelare della tradizione sarda.

641. Gavino Tilocca, L’Artigianato sardo, 1957, Sassari, Padiglionedell’Artigianato, ingresso principale (foto Marianne Sin-Pfältzer).L’altorilievo è oggi perduto.

come le belle acquasantiere e le lampade. Anche Tiloccasi dedica alla ceramica “sacra”, realizzando un altorilievonella chiesa di San Leonardo a Santulussurgiu. Il temaformale della Via Crucis, le cui quattordici formelle rit-mano la navata delle chiese secondo una precisa scan-sione spaziale, sono spesso state oggetto dell’interesse diartisti e ceramisti, tra cui Federico Melis (Bosa 1891-Ur-bania 1969)43 e Maria Lai (Ulassai 1919).44

Elemento consueto del paesaggio sardo sono anche lestele con le Madonnine in ceramica che, collocate ne-gli anni Cinquanta, è ancora facile scorgere nei pressidegli insediamenti rurali dell’ETFAS.45 Realizzate da Si-lecchia su disegno di Tavolara, più che intervento este-tico sul territorio volevano essere un segno della pre-senza delle istituzioni, ed in questo senso la ceramica,anche in virtù della sua riproducibilità seriale, ben siprestava allo scopo.46

La varietà degli esempi citati, differenti per collocazio-ne, funzione ed esiti artistici, riesce forse a dare un’ideadelle declinazioni del rapporto tra ceramica ed architet-tura. Ma un elemento sin qui solo accennato, senza ilquale è impossibile comprendere appieno le dinamichedi questo rapporto, è lo sviluppo turistico iniziato inSardegna negli anni Cinquanta.47

Il Consorzio Costa Smeralda, istituito nel 1963 per sod-disfare una clientela facoltosa, in cerca di lusso e di

410

640

641

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 9:58 Pagina 410

esperienze “autentiche” nel contesto “selvaggio” dellaSardegna, dà vita ad una serie di imprese capaci di ge-stire quasi in autarchia tutti i bisogni dei nuovi comples-si edilizi, dalle fasi costruttive sino ai complementi d’ar-redo. L’uso della ceramica, già sperimentato da MicheleBusiri Vici, uno degli architetti progettisti, nella realizza-zione di ville in Campania negli anni Quaranta, e richie-sto dal momento storico ad essa favorevole, esige lacreazione di una azienda ad hoc, Cerasarda, che produ-ce pavimentazioni, piastrellature a parete e sanitari perle ville, i negozi e gli alberghi della costa.48 Si passa dauna concezione del pannello ceramico come pezzo uni-co pensato per un contesto specifico ad una realtà diproduzione seriale, adatta ad una molteplicità di conte-sti, che non rinuncia però alla caratterizzazione in sensotipico ed etnico dell’ambiente. Promuove infatti lineeproduttive ispirate genericamente alla cultura mediterra-nea, soprattutto nella gamma cromatica e nei pezzi spe-

ciali, decorati con motivi tratti dall’arte popolare (comele pavoncelle degli intagli lignei), e privilegiando tecni-che di smaltatura e cottura che mascherino al massimo iprocessi di standardizzazione industriale. È negli anni Ottanta che, anche a livello globale, si as-siste allo sviluppo di un modello differente. L’entratain scena del turismo di massa determina un aumentoesponenziale della domanda e una certa folklorizzazio-ne della cultura con il doppio obiettivo, solo in appa-renza contraddittorio, di rivendicare la propria diversitàe di rendersi più appetibili sul mercato delle vacanze.49

Mentre gli architetti preferiscono utilizzare materiali piùcompatibili con le architetture contemporanee, la cera-mica continua ad essere inserita soprattutto per inter-venti di carattere conservativo nei centri storici o di ca-rattere evocativo in contesti turistici, poiché è vissutacome organica all’architettura tradizionale. Così non èdifficile vedere nelle piazze dei paesi sardi bassorilieviceramici (come quello realizzato ad Oliena da Gian Lui-gi Mele nel 1999) e arredi urbani di diverso tipo. E nonsono pochi i punti di contatto con il muralismo che inSardegna, persa in gran parte la carica politica, è diven-tato elemento caratterizzante dei centri rurali. Dorgalirappresenta un esempio significativo: una grande fonta-na di Paolo Monni e pannelli ceramici disposti lungo levie del centro storico costituiscono da un lato un omag-gio a Salvatore Fancello, dall’altro la testimonianza della

411

642 643

642. Giuseppe Silecchia, Madonna, 1956ceramica smaltata, Fertilia, chiesa di San Marco.Nella chiesa di San Marco a Fertilia, Silecchia realizza non solograndi pannelli della Vergine e di santi, ma anche gli arredi, come le belle acquasantiere e le lampade dell’altare.

643. Giuseppe Silecchia, Fregio decorativo, fine anni Cinquanta sec. XXterracotta smaltata, Cagliari, largo Carlo Felice (foto archivio Silecchia).Il motivo che scandisce la superficie che accoglieva le formelle ogginon esiste più.

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 9:58 Pagina 411

tendenza dei centri di grande tradizione ceramica a ca-ratterizzarsi anche dal punto di vista urbanistico, sul-l’esempio, con le dovute proporzioni, di località comeAlbisola e Vietri sul Mare.Dunque percorrendo le strade delle città e dei paesi sar-di, visitando un edificio di culto o un palazzo pubblico,la presenza della ceramica è discreta ma continua: dallecupole settecentesche ad inserimenti recenti, a volte di-scutibili. Negli anni della ricostruzione e del difficilecammino verso lo sviluppo economico e sociale dell’Iso-la, in particolare nel periodo compreso tra il 1950 e il1970, la ceramica è un’opzione usuale per architetti co-me Badas e Simon Mossa, pensata già a livello proget-tuale e attuata con la collaborazione attiva dei ceramisti,in linea con analoghe esperienze portate avanti in queglianni nel contesto nazionale. Le specificità sono da ricer-care nelle iconografie ricorrenti: carattere peculiare dellerealizzazioni sarde è, infatti, l’espressione di contenutisimbolici legati all’appartenenza e alla definizione identi-taria, all’interno della complessa dinamica culturale tra“l’essere per sé” e “l’essere per gli altri”. Nel rapporto traceramica e architettura in Sardegna si legge la volontà,

coscientemente perseguita dai maggiori intellettuali deldopoguerra, di mediare fra tradizione e modernità: unamediazione che si realizza prevalentemente con l’acco-stamento fra opera ceramica (artistica, artigianale e loca-le) e linguaggio architettonico moderno e internaziona-le, e simbolicamente unisce nell’edificio contemporaneodue mondi ideali per altri versi inconciliabili.

Note

1. Tra gli esempi più interessanti, il chiostro del convento di SantaChiara a Napoli (1742), la cupola della chiesa del Carmine a Palermo(1681) e gli innumerevoli campanili e cupole del Meridione d’Italia.

2. L’edificio unisce le due tipologie, avendo il campanile a riggiole mala cupola a tegole smaltate.

3. Una ricerca portata avanti anche in altri campi.

4. S. Gizzi, “Le architetture di Antonio Simon Mossa nella cultura del-l’epoca”, in F. Francioni, G. Marras, Antonio Simon Mossa. Dall’utopiaal progetto, Cagliari 2004, p. 540.

5. Il Museo delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma conserva cinqueesemplari risalenti alla grande Mostra Etnografica di Roma del 1911, rac-colti da Gavino Clemente (mobiliere e figura importante della cultura

412

644 645 646

647 648 649

644-649. Cerasarda, Mattonelle, prima metà anni Sessanta sec. XXterracotta smaltata, ciascuna 20 x 20 cm, Pfaffenhofen Ilm, Germania(foto Hannelore Lopez).

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 15-11-2007 17:06 Pagina 412

sassarese dell’inizio del Novecento) e consegnati all’antropologo Lam-berto Loria, organizzatore dell’evento. Negli anni Sessanta, su iniziativadi Tavolara, il ceramista di Assemini Vincenzo Farci realizzerà una seriedi figure ispirata a questi prototipi popolari.

6. Si pensi in particolare all’opera dell’architetto spagnolo Antoni Gau-dí (1852-1926).

7. Cfr. F. Masala, Architettura dall’Unità d’Italia alla fine del ’900,Nuoro 2001 e, relativamente alla città di Sassari, Sassari tra liberty eDéco, Cinisello Balsamo 1987.

8. L’esempio più celebre è la Majolikehaus di Vienna, realizzata tra il1898 e il 1900 su progetto dell’architetto Otto Wagner, ma si veda an-che Casa Galimberti a Milano, opera di Giovan Battista Bossi ultimatanel 1905.

9. Per esempio a Cagliari in via Oristano o in corso Vittorio Emanuele.

10. A Oristano, ad esempio, lo statuto del gremio de Los Alfareros (dicui si conserva una copia del 1691, ma la cui stesura originale si puòfare risalire al Trecento), era ancora attivo a metà dell’Ottocento. Al-berto Della Marmora, ricordava che «la fabbricazione di piastrelle ver-niciate per pavimenti era privilegio esclusivo di un solo individuo,come anche la produzione di condutture in terracotta», fatto che su-scitava le proteste di diversi artigiani congiolarius (A. Della Marmora(1860) 1997, vol. II, p. 126).

11. Nel 1919, ad esempio, Giuseppe Biasi era coinvolto in un proget-to, poi sfumato, per una fabbrica di maioliche artistiche destinate alladecorazione architettonica. Cfr. G. Biasi, “Lettera ad Arturo Bucherdel 12 maggio 1919”, in G. Altea, M. Magnani 1998, p. 334.

12. R. Bossaglia, Il Novecento italiano, Milano 1979, p. 20.

13. Il Muralismo di Sironi è forse l’interpretazione artistica maggior-mente legata all’ideologia fascista, anche se proprio negli anni Trental’artista era attaccato dall’ala più conservatrice della cultura di regime,capeggiata da Roberto Farinacci, che accusava la sua pittura di deca-denza, esterofilia e “giudaismo”, in opposizione ad una vera “arte fasci-sta” a totale servizio della propaganda di regime. La complessità dellafigura di Sironi e dell’arte del Ventennio è analizzata in profondità daE. Brown, Mario Sironi e il modernismo italiano. Arte e politica sotto ilfascismo, Torino 2003.

14. M. Sironi, “Manifesto della pittura murale”, in La Colonna, dicem-bre 1933 (ora in R. Bossaglia, Il Novecento cit., pp. 155-156).

15. Istituto Superiore per le Industrie Artistiche, attivo dal 1922 al 1943.

16. La Società Umanitaria, nata a Milano nel 1893, si proponeva di aiu-tare i poveri ad uscire dal loro stato di indigenza mediante un’adegua-ta formazione professionale. Il gruppo di intellettuali, tra cui GuidoMarangoni, che si raccolsero intorno a questa istituzione vedeva nel-l’artigianato una fonte di rinnovamento per l’intera arte italiana.

17. Cfr. Nivola Fancello Pintori 2003.

18. Invero piuttosto decaduta a quel tempo.

19. Il più noto ceramista del movimento Arts and Crafts.

20. Manifattura Artistica Ceramica Salernitana. Cfr. il “Caffè arabo”pubblicato nel 1940 sulla rivista specializzata La Ceramica (immagineriprodotta nel volume a cura di G. Zampino, Gli Spazi della cerami-ca, Napoli 1995, p. 211). Melis si reca in effetti a Vietri sul Mare, sededell’azienda e rinomato centro di tradizione ceramica, nel 1939, inoccasione dei preparativi per la Triennale d’Oltremare di Napoli del1940, collaborando tra l’altro proprio con Gambone (cfr. A. Cuccu2004, p. 93).

21. “La costituzione dell’associazione per l’architettura organica a Ro-ma”, in Metron, n. 2, settembre 1945, riportato in C. De Seta, L’Architet-tura del Novecento, Torino 1981, p. 100. Programma che trova riscontricon le posizioni del Ciam, Congrès Internationaux d’Architecture mo-derne, per il quale si rimanda a E. Mumford, The Ciam discourse on ur-banism, 1928-1960, Cambridge Massachusset 2002.

22. Personalmente coinvolto nella realizzazione di ceramiche dal 1923al 1930 per la Richard Ginori di Doccia.

23. Per alcuni riscontri sul territorio nazionale si consideri la figura diLeoncillo, probabilmente il maggior artista-ceramista italiano del do-poguerra, che esegue bassorilievi per l’Ariston di Roma nel 1950, il

fregio per la sala del Teatro dei Satiri nel 1952 e la decorazione Arcadi Noè per la Clinica Mandel nel 1954.

24. G. Ponti, “Un rivestimento per l’architettura”, in Domus, n. 328,marzo 1957, pp. 45-46.

25. Secondo la definizione del celebre libello di Adolf Loos, Ornamentund Verbrechen (Ornamento e delitto), del 1908.

26. Cfr. G. Altea, M. Magnani 1994, p. 129.

27. Oggi sede centrale del Banco di Sardegna.

28. G. Altea, M. Magnani 1994, p. 134.

29. Il testo più noto e significativo che analizza il rapporto tra naturae cultura, scritto dall’antropologo Claude Levi Strauss, viene edito po-chi anni dopo la fine del conflitto, e sarà uno dei fondamenti dellescienze umane per almeno vent’anni (cfr. C. Levi Strauss, Les Structu-res Élémentaires de la Parenté, Paris 1949).

30. Istituto Sardo Organizzazione Lavoro Artigiano.

31. Ente Nazionale dell’Artigianato e delle Piccole Industrie.

32. F. Masala, Architettura cit., p. 262.

33. Cfr. G. Altea, M. Magnani 1994, p. 165.

34. Provengono infatti da Salerno, fabbricate dalla ditta D’Agostino.

35. G. Bertulu, A. Simon Mossa, “L’architetto”, in F. Francioni, G. Mar-ras, Antonio Simon Mossa cit., p. 554.

36. Realizzate da Giuseppe Silecchia.

37. Oggi Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.

38. Ma aperto al pubblico solo nel 1976. Per le vicende del Museo ve-di Il Museo Etnografico di Nuoro 1987.

39. Un esempio per tutti la suggestiva chiesa della Madonna dei Ba-gni a Deruta.

40. Una nata dalle esigenze espresse dall’interno, l’altra da interessieconomici esterni; una dedicata alla tradizione, l’altra orientata versoun nuovo tipo di società; una nel cuore della Barbagia, l’altra sulla co-sta della Gallura. Ma queste contrapposizioni non dicono tutto.

41. Per la quale Simon Mossa elabora inizialmente dei progetti, poinon realizzati.

42. Artista e docente di disegno all’Istituto Statale d’Arte di Oristanodal 1961 al 1969.

43. Cfr. M. Marini, M.L. Ferru 1997.

44. Maria Lai realizza una Via Crucis per la chiesa di San Domenico aCagliari, opera dell’architetto Raffaello Fagnoni. Le formelle, di cui dànotizia in toni entusiastici la stampa locale (V. Fiori, “Maria Lai scultricee pittrice”, in Il Convegno, a. 9, n. 7, Cagliari, luglio 1956, p. 13) eranopreviste nel progetto, tanto che per loro era stata pensata un’appositailluminazione, ma, rifiutate in seguito dai committenti, saranno acqui-state da un collezionista privato.

45. L’Ente per la Trasformazione Fondiaria ed Agricola per la Sardegna,fondato nel 1951 (27/04/1951 D.P.R. n. 265) in seguito alla riformaagraria del 1950, aveva il compito di espropriare, bonificare, trasforma-re ed assegnare i terreni incolti.

46. Non è forse un caso che identica funzione si possa attribuire alletarghe ceramiche poste ad indicare gli edifici del programma di edili-zia popolare del dopoguerra, INA Casa, diffuse su tutto il territorio na-zionale (Sardegna compresa).

47. Per una panoramica completa, anche se un po’ datata del turismoin Sardegna si veda R. Price, Una geografia del turismo: paesaggio edinsediamenti umani sulle coste della Sardegna, Sassari 1983.

48. Cerasarda realizzerà anche decorazioni d’interni fuori dalla CostaSmeralda, in strutture alberghiere che si caratterizzano per cura deidettagli e un’attenzione particolare alle arti figurative della Sardegna,come l’Hotel Su Gologone di Oliena che ospita nei bagni teorie di pa-voncelle blu (1968).

49. Cfr. N. Graburn, “Ethnic and Tourist Arts Revisited”, in R.B. Phil-lips and C.B. Steiner, Unpacking Culture: Art and Commodity in Colo-nial and Postcolonial Worlds, Berkeley 1999.

413

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 15-11-2007 17:06 Pagina 413

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 15-11-2007 17:06 Pagina 414

415

PremessaEsaminate con la “chiave di lettura” delle Scienze Natu-rali, le argille e le formazioni derivate testimoniano daalmeno 3,5 miliardi di anni la storia evolutiva del nostropianeta (consolidatosi circa 4 miliardi di anni fa). Sono rocce che, costituendo una parte preponderantedella crosta terrestre, svolgono un ruolo di vitale impor-tanza per l’uomo e per gli ecosistemi. L’estrema diffusio-ne, versatilità ed abbondanza le rende facilmente utiliz-zabili, per questo sono state fondamentali nello sviluppodelle civiltà. Ogni campo dell’attività umana è interessato dalle appli-cazioni tecnologiche delle argille (costruzioni, oggettisti-ca, ceramica, arti decorative, medicina ecc.). Non c’ènessuno al mondo che non conosca almeno alcuni de-gli usi più comuni di queste “terre” particolari.Le brevi note che seguono trattano, in termini divulga-tivi, dei materiali argillosi impiegati nella produzioneceramica, intesa come attività in grado di creare artifi-cialmente oggetti dalle forme e dagli usi più disparati,utilizzando argille foggiate a temperatura ambiente econsolidate a caldo, fino ad assumere un aspetto lapi-deo artificiale (simile alla pietra).

Cos’è un’argilla?La parola “argilla” indica principalmente lo stato fisicodi una roccia (la granulometria), lasciandone indefinitala natura (origine, chimismo e composizione mineralogi-ca). Per questo motivo non esiste tanto “l’argilla”, quantola “condizione argillosa” in cui possono trovarsi una opiù sostanze minerali. Questi materiali hanno una gra-nulometria estremamente fine (< 0,06 mm) e sono ilprodotto di molteplici processi: disgregazione, altera-

zione, trasporto, deposizione e litificazione dei sedimen-ti di una o più rocce primigenie. L’insieme di questeazioni (diagenesi) vede implicati fenomeni fisici (tempe-ratura, abrasione, pressione ecc.), chimici (piogge acide,carsismo ecc.) e biologici (licheni, muschi, alghe ecc.),che sinergicamente determinano lo stato argilloso, intempi generalmente non inferiori alle decine di migliaiadi anni. Le “fasi argillose” sono quindi conseguenti alla trasfor-mazione chimico-fisica della “roccia madre”, anche at-traverso adsorbimenti e scambi ionici con altre sostanze.Le argille sono presenti – in concentrazioni variabili – inogni ambito della superficie terrestre (suoli; rocce; fon-dali fluviali, lacustri, marini). Le rocce classificabili come argille sono sempre caratte-rizzate da un’accentuata compattazione naturale dei sin-goli clasti (sotto altri sedimenti e/o formazioni geologi-che), che si rivela reversibile mediante semplici azionimeccaniche (abrasione, schiacciamento, trizionatura) ese-guibili a secco o in presenza d’acqua. L’azione meccani-ca dell’acqua può dar luogo ad infiniti rimaneggiamenti(naturali o artificiali) delle argille. I granuli vengono tra-sportati in sospensione dalla corrente e, in presenza diparticolari condizioni chimico-fisiche delle acque, for-mano dei grumi (micelle) che precipitano e sedimenta-no più facilmente delle singole particelle (fenomenodella flocculazione). Dal punto di vista mineralogico le argille sono costituitequasi esclusivamente da fillosilicati (letteralmente, silicatia forma di foglia), prodotti dall’alterazione di altri silicati,che assumono una tessitura parallela alla stratificazione– ossia all’orientazione preferenziale delle fasi cristalline. Le frazioni più grossolane (sempre dell’ordine dei mil-lesimi di millimetro) possono contenere quarzo, feld-spato, miche ecc., inclusi nei cicli di sedimentazione otestimoni residuali della roccia madre. I cristalli dei minerali sono strutturati per aggiunta diatomi, secondo un modello geometrico regolare cheforma una serie di celle unitarie. Tali unità, definite tri-dimensionalmente nello spazio, rappresentano il reti-colo cristallino, che caratterizza ogni sostanza chimicacristallina. La stessa sostanza può però presentarsi indiverse forme (polimorfismo cristallino). Quest’aspetto

Le argilleUmberto Angius

650. Terra argillosa superficiale con presenza di radici e altrecomponenti organiche, Bitti.Da questa tipologia di materiali, con semplici lavaggi e filtrature osetacciature a secco, eliminando le componenti organiche e mineralipiù grossolane, si può ottenere un’argilla a strati misti carbonatico-magnesiaca, ricca in ossidi coloranti (prevalentemente di ferro),adatta alla fabbricazione di terrecotte (otri, brocche, stoviglie) o dimattoni (laterizi). Materiali argillosi similari venivano utilizzatisoprattutto in tempi arcaici, quando non era sostenibile un lungotrasporto della materia prima e ci si doveva adattare a ciò che offrivail territorio circostante.650

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 15-11-2007 17:06 Pagina 415

651. Miniera di Funtanamela, Laconi, argilla scavata e rimaneggiata,accumulata sopra la formazione carbonatica, con touvenant argillosodi riporto alla base.Da questa miniera venivano estratte diverse tipologie di argilleillitico-caolinitiche “chiare”, a contenuto in allumina variabile, dallepiù “magre” alle più “grasse” e refrattarie.

652. Miniera di Funtanamela, Laconi, particolare dell’argilla scavatarimaneggiata, con evidenti grossolani elementi carboniosiprovenienti dai livelli di stratificazione immediatamente sottostantialla spessa formazione carbonatica (“tacchi” del Sarcidano).

riveste una notevole importanza nelle applicazioni ce-ramiche delle argille, perché le varie forme sono stabilia diversi intervalli di temperatura.I minerali argillosi sono prevalentemente composti dasilicati idrati di alluminio e magnesio la cui formulachimica di base, estendibile a innumerevoli varianti, è:Al2.SiO2.2H2O. La maggior parte delle argille di uso co-mune deriva dal disfacimento e dall’alterazione dei feld-spati – prevalentemente potassici. I feldspati – silicati dialluminio – sono un’importante componente delle rocceignee o magmatiche (formatesi per cristallizzazione diun magma), costituenti circa il 95% della parte più ester-na della superficie terrestre (15 km).

I minerali argillosiAlla base di tutti i silicati vi è una struttura tetraedricaformata dalla combinazione del silicio con l’ossigenocon un catione di silicio al centro – ione a carica elet-trica positiva – circondato da quattro atomi di ossigeno.I tetraedri sono collegati in anelli esagonali che uniti traloro formano uno strato tetraedrico che può ripetersi in-definitamente. Un altro strato ha come motivo strutturale degli ottaedriformati da cationi di alluminio al centro, circondati dadue atomi di ossigeno e quattro ioni idrossido (OH).Anche gli ottaedri sono collegati e formano anelli esa-gonali, che uniti costituiscono uno strato ottaedrico. Dalla sovrapposizione di strati tetraedrici e ottaedrici, le-gati tra loro da un comune ione O, si ottiene il motivostrutturale fondamentale dei fillosilicati, comunementechiamato pacchetto. Questa è la struttura teorica dellacomposizione di una pura argilla di silicati, ma in real-tà le variazioni sono molteplici, perché silicio e allumi-nio possono essere sostituiti da altri elementi, comeMg2+, Fe2+, Fe3+, Al3+.A seconda della combinazione delle strutture cristallinesopradescritte, i minerali argillosi formano:– argille a due strati (caolinite, halloysite), composteda uno strato di tetraedri di silice ed uno strato di ot-taedri di alluminio;– argille a tre strati (smectite, vermiculite, illite), con unostrato di ottaedri di alluminio e due strati di tetraedri disilicio;– argille a strati misti, rappresentate da un gruppo etero-geneo di minerali variamente miscelati, genericamentechiamati “strati misti”, che vengono definiti con il nomedei due minerali predominanti: illite-smectite, illite-caoli-nite ecc.Le argille più diffuse e di impiego comune, a secondadella predominanza dei minerali contenuti, sono caoli-nitiche, smectitiche, illitiche, cloritiche. Questi minerali,fillosilicati idrati di alluminio, magnesio e ferro, per laloro stabilità nelle condizioni superficiali della crostaterrestre, sono i silicati più diffusi. Possono contenerecarbonati, solfuri, solfati, ossidi coloranti (di ferro, man-ganese, titanio), sostanze organiche e oligoelementi qua-li rame, stagno, mercurio, oro, argento, piombo, che ne

416

651

652

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 15-11-2007 17:06 Pagina 416

condizionano proprietà e reologia, specialmente in fun-zione della loro utilizzazione in ceramica. La strutturastratificata e le particolari capacità elettriche consentonoun significativo assorbimento di altre molecole, mentrele superfici piatte e lamellari, aderendo tra loro comedei fogli di giornale bagnati, conferiscono compattezza.In presenza di congrue quantità d’acqua, la “piattezza”delle aggregazioni cristalline incrementa la plasticità, in-tesa come capacità di formare una massa modellabile,conservando la forma impressale. I diversi punti di vistaprofessionali e l’interazione tra le complesse proprietà ecaratteristiche chimico-fisiche dei minerali argillosi ren-dono impossibile una univoca definizione e classifica-zione delle argille.Si dicono argille primarie (o residue) quelle che nonhanno subito sostanziali dislocazioni rispetto alla rocciamadre. Le argille secondarie si trovano invece in deposi-ti distanti dalle rocce di origine, trasportate da fenomeninaturali come onde, correnti, vento, erosione ecc. Que-ste argille, più diffuse di quelle primarie, hanno unacomposizione complessa, con più tipi di minerali, gra-nulometrie più fini ed un maggiore contenuto di sostan-ze carboniose (organiche). Si rinvengono in depositimarini, fluviali, lacustri, eolici e glaciali.Le argille primarie sono le più pure; la tipologia dettacaolino – dal cinese kao-ling, letteralmente “dossi dicollina” – le rappresenta quasi tutte. Pare che in Cinaabbiano cominciato ad usarle fin dal 1000 a.C. Di regola, i minerali argillosi per impieghi ceramici nonsubiscono particolari processi di purificazione (tuttalpiùsono omogeneizzati meccanicamente). Ciò non è vali-do per i caolini che, generalmente, vengono commer-cializzati dopo aver subito uno o più trattamenti di ar-ricchimento e/o depurazione.Il caolino è la componente principale della ceramica apasta bianca, in particolare della porcellana, l’espressio-ne più alta dell’arte ceramica, introdotta avventurosa-mente in Europa nel Settecento. È inoltre fondamentalenegli impasti per la fabbricazione del grès (piastrelle,oggettistica) e del vitreous china dei sanitari. Il mine-rale contenuto nell’argilla chiamata caolino è la caoli-nite. Avendo una composizione stabile ed inattaccabi-le dai reagenti naturali più diffusi, si presenta quasipura. Dal punto di vista strutturale appartiene al grup-po a due strati T-O (tetraedrico-diottaedrico) – formula(Al)4(OH)6Si4O10. Si distingue per il motivo reticolaredel doppio strato formato da un livello semplice di te-traedri SiO4 con uno di ottaedri Al2(OH)4.I legami tra i doppi strati sono rinforzati dai cosiddetti“ponti di ossidrile”, che conferiscono a quest’argilla unacerta tenacità.Generalmente è bianca. Può però avere colorazioni vi-vaci e varie, dovute alla presenza di ossidi coloranti (Fe,Mn, Ti ecc.). Il caolino si rinviene per lo più in depositi primari for-mati per alterazione dei più disparati tipi di rocce, daigraniti alle arenarie feldspatiche, dagli gneiss o da altre

argille. L’alterazione delle rocce madri può derivare davenute idrotermali (caolini sardi) o per interazione chimi-co-fisica con gli agenti atmosferici (depositi della Cechia).Si possono avere anche depositi secondari di caolinoproveniente da un giacimento primario, eroso, trasporta-to e risedimentato. In questo caso il grado di purezza e ilvalore commerciale del materiale tendono ad aumentare. Questa argilla pregiata ha un’importanza rilevante inmoltissimi processi industriali: ceramica – piastrelle, vi-treous china, stoviglieria, porcellana (tecnica, d’uso do-mestico o artistica) –, carta, gomma, plastiche, farmaceu-tica, chimica.I caolini utilizzati in ceramica non devono avere attitu-dine al rigonfiamento, mentre sono fattori positivi la re-sistenza a disperdersi in acqua, la debole capacità discambio ionico, la buona refrattarietà alle alte tempera-ture e la capacità di conservare una colorazione biancao chiara, dopo cottura a 1200 °C.Argille con alto grado di refrattarietà – resistenza alle altetemperature –, come le flint-clay, ball-clay ecc., costituiteanch’esse prevalentemente da caolinite, si differenziano

417

653

653. Serrenti, roccia caolinitica inglobata nel detrito di frana, nonlontano dalla formazione principale.Il caolino è associato a rocce vulcaniche trachitico-liparitiche. I costituenti mineralogici principali sono caolinite, quarzo,montmorillonite, illite e feldspati, residui del processo di alterazionedella roccia madre. Diffuse infiltrazioni di ossidi di ferro (limonite ed ematite) caratterizzano la formazione mineralizzata.

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 15-11-2007 17:07 Pagina 417

dal caolino per la loro origine sedimentaria. Inoltre sonoquasi sempre colorate (grigio-nerastro), hanno una frat-tura concoide e dopo l’esposizione agli agenti atmosferi-ci si disgregano in clasti piuttosto grandi. Si definiscono depositi caolinitici quelli che contengonouno o più minerali del gruppo della caolinite: la stessacaolinite, l’halloysite (“caolinite idrata”), la dikite e la na-crite. Vi sono depositi sedimentari, idrotermali e residua-li. I primi sottintendono la dislocazione della roccia pri-migenia attraverso corsi d’acqua, fino ad un bacino disedimentazione, con relativa selezione granulometrica eprocessi di costipazione e diagenesi. Quelli idrotermalicomprendono rocce vulcaniche o intrusive, che a segui-to della circolazione di fluidi di varia natura, composi-zione e temperatura, sono interessate da processi di ar-gillificazione. I depositi residuali si formano per effettodi azioni meteoriche (processo di weathering), preferen-zialmente in ambienti caldo-umidi, in presenza di so-stanze acide nel suolo. Oltre ai giacimenti cinesi, conosciuti e sfruttati da mil-lenni, altri importanti depositi di caolino residuale si tro-vano nella Carolina del Nord (USA), in Cornovaglia (lafamosa china clay inglese), in Germania (Zettlist) e nel-l’attuale Repubblica Ceca (Karlsbad).In Italia la maggior parte degli adunamenti caoliniticihanno origine idrotermale, legata a manifestazioni vul-caniche. Si distinguono i caolini piemontesi (Biella, Gat-tinara, Masserano, Bozzolo) e veneti (“caolino del Tret-to”, Schio). I caolini di Schio (VC), arricchiti attraversolavaggi, ciclonature ed ulteriori selezioni granulometri-che, hanno raggiunto ottimi standard qualitativi. Durantel’autarchia, tra le due guerre mondiali, sono stati moltoimportanti per l’industria ceramica italiana (la produzio-ne è cessata da decenni).

Argille caoliniche da grès e da porcellana in SardegnaNell’Isola sono state rinvenute e coltivate argille caolini-che a Furtei, Serrenti, Laconi, Mara e Romana. A causadelle modeste concentrazioni in caolinite, della presenzadi minerali accessori ed altre sostanze inquinanti (quar-zo, cristobalite, feldspati, ossidi coloranti, solfuri, carbo-nio ecc.), nessuno di questi caolini, usato tal quale, haavuto significative applicazioni industriali in ceramica.Nei primi decenni a cavallo dell’ultimo conflitto mondia-le, i caolini di Mara e Romana sono stati utilizzati soprat-tutto per la preparazione di cementi bianchi e di refratta-ri. Alcuni giacimenti possono vantare riserve per svariatimilioni di tonnellate. Le mineralizzazioni di Mara, Roma-na, Tresnuraghes, Furtei, Serrenti sono legate a fenome-ni di idrotermalismo che hanno alterato le preesistentivulcaniti. In questi contesti si evidenziano vari gradi ditrasformazione della roccia madre (prevalentemente tra-chi-andesite).I minerali estraibili, commercializzati allo stato naturale(non trattati), a causa degli eccessivi costi di trasporto(gli utilizzatori si trovano nella Penisola), del modestocontenuto in allumina (ossido di alluminio -Al2O3-), del-l’eccessivo tenore in feldspati, quarzo (“silice libera”) eossidi coloranti, sono da tempo andati “fuori mercato”.Inoltre la presenza di cristobalite (una delle forme dellasilice, distinguibile dal quarzo per la struttura molto piùaperta) risulta particolarmente penalizzante per gli im-pieghi nella moderna industria delle piastrelle, perchéin fase di raffreddamento rapido può causare lesioni almanufatto.Tra le situazioni sopra menzionate, con coltivazioni sal-tuarie, è ancora attiva la miniera “Castello di Bonvei”– SVIMISA S.p.A. Sestu –, situata nel comprensorio diRomana-Mara-Giave, nella Sardegna nord-occidentale.

418

654

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 15-11-2007 17:07 Pagina 418

I migliori caolini sono stati estratti a Laconi (miniere og-gi esaurite o chiuse per le eccessive diseconomie). Visono molti giacimenti filoniformi (Capoterra, Sarroch,Domus de Maria) o legati a formazioni sabbiose (Flori-nas, Mores, Ardara), dai quali si possono ottenere pro-duzioni di qualità con semplici processi di separazionee arricchimento (lavaggi, ciclonatura, decantazione).A Florinas la Sardasilicati S.p.A. ricava con dei vantaggieconomici una buona argilla caolinitica (ampiamenteutilizzata dai piastrellifici del Sassolese, in provincia diModena), grazie al fatto che i costi di processo sonocoperti dalla commercializzazione della “ganga” siliceaper vetro e ceramica, che costituisce il prodotto prima-rio della miniera.

Smectiti: il gruppo delle smectiti comprende compostidiversi, caratterizzati da una struttura con due strati te-traedrici Si-O tra i quali è contenuto uno strato ottaedri-co Al-O (schema strutturale T-O-T). I vari pacchetti T-O-T sono uniti gli uni agli altri trami-te molecole d’acqua e ioni Na, K e Ca => Bentonite.La formula tipo di una smectite è: Al2(OH)2Si4O10-nH2O.I tre strati sono disposti in modo tale che i vertici dei te-traedri risultano rivolti verso il centro dell’unità struttura-le, formando un unico livello con gli ossigeni e gli ossi-drili dello strato ottaedrico. Il legame tra le singole unitàstrutturali è molto debole e ciò consente l’interposizionedi molecole d’acqua o di altra natura.Bentonite: tra le argille smectiche è quella più importan-te. Il nome deriva da Fort Benton, nel Montana, USA. Sitratta di un’argilla costituita in prevalenza da montmoril-lonite (fu rinvenuta per la prima volta a Montmorillon,dipartimento di Viénne, Francia). Si tratta di una rocciacon grana finissima, derivata principalmente da cenerivulcaniche alterate dalla circolazione di fluidi idroter-mali. È abbastanza diffusa. Le bentoniti possono trovar-si in terreni argillosi formatisi dal disfacimento di granitio di rocce eruttive povere di silice (basiche). Hannosvariate possibilità d’impiego: ingegneria civile – imper-meabilizzazione di bacini, diaframmi, trivellazioni, palifi-cazioni –, carta, detergenza, agricoltura, enologia, man-gimistica, fangoterapia, fonderia, lettiere, ceramica ecc.Il loro vastissimo mercato è controllato da grandi societàmultinazionali. Importanti giacimenti si trovano in Nord America, Fran-cia, Grecia. In Italia sono presenti in Puglia, Veneto, La-zio e in Sardegna, dove si coltivano le situazioni piùconsistenti e pregiate. Nell’Isola è possibile distingueremanifestazioni bentonitiche in quasi tutte le vulcaniti,ma i giacimenti di interesse industriale vengono coltivatiesclusivamente nella Nurra, nel Sulcis e nel Sarcidano.In ceramica, le smectiti possono essere utilizzate solomarginalmente, per aumentare la plasticità dell’impastoe la resistenza meccanica a crudo del manufatto. In al-cuni processi ceramici (piastrelle) il loro impiego puòdeterminare un’eccessiva viscosità dell’impasto.

Illite: appartiene al gruppo cristallografico delle argillea tre strati T-O-T (tetraedrico-diottaedrico-tetraedrico) enon ha una formula definitiva che la può caratterizza-re. Il nome deriva dallo Stato dell’Illinois, USA. È unminerale argilloso-micaceo simile alla montmorillonite,ha la stessa unità strutturale, con la differenza che gliioni di silicio sono sempre parzialmente sostituiti da al-luminio. Tale sostituzione permette l’ingresso di ionipotassio, che si posizionano tra un’unità strutturale el’altra, al centro delle maglie esagonali. Possono essereconsiderate come “montmorilloniti con notevole assor-bimento di potassio” o come “miche con rilevante per-dita di potassio”. Una formula esemplificativa può es-sere KyAl2(OH)2(Si4-yAly)O10.L’illite non si trova mai pura in concentrazioni significa-tive, ma sempre associata ad altri minerali argillosi. Èpresente nella maggior parte delle argille e si forma peralterazione delle miche e dei feldspati, in ambiente alca-lino. Argille illitico-montmorillonitiche, illitico-cloritiche,illitico-caolinitiche sono massicciamente presenti negliimpasti delle produzioni ceramiche più comuni (laterizi,terrecotte, piastrelle ecc.). A livello extranazionale, igrandi giacimenti di argille illitiche (prevalentemente di

419

655

654. Nurallao, Sarcidano, escavazione “a gradoni” delle argilleillitico-caolinitiche sottostanti la formazione carbonatica dei “tacchi”.Gli strati superiori sono più “grassi” (ricchi in allumina), quelliinferiori sono più siltosi (ricchi in silice) e “magri”. Per motivicommerciali i diversi strati venivano variamente miscelati.

655. Nurallao, Sarcidano, particolare dello strato argilloso piùplastico, a contenuto medio-alto in allumina. Utilizzato per decenninella formulazione di impasti ceramici per mattoni refrattari,monocottura e grès ceramico (piastrelle). Questa argilla si presentacompatta, con scarsa presenza di inquinanti (solfuri, carbone, ecc.) e ossidi coloranti.

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 15-11-2007 17:07 Pagina 419

sedimentazione marina) sono numerosissimi. In Italia, lezone indiziate sono conosciute da millenni ed in tuttol’Appennino ed in parte delle Prealpi sono reperibili ca-ve di queste argille.Le tradizionali fonti di argille dell’industria emiliano-ro-magnola delle piastrelle, dislocate tra le successioni se-dimentarie marine dell’Eocene-Miocene (da 54 a 5 mi-lioni di anni fa), comprendono argille rosse plasticheillitiche-cloritiche (usate nella bicottura e nel grès ros-so) ed argille chiare carbonatiche oligoceniche (da 5 a1,8 milioni d’anni fa), utilizzate per la ceramica da rive-stimento (monoporosa). Nell’Italia centrale vengonoestratte da sedimenti pliocenici e pleistocenici “argillegrigio-azzurre”. Nel distretto dell’Impruneta (Firenze)per produrre il “cotto toscano” si utilizza un’argilla ros-sa locale del Cretaceo-Eocene (da 135 a 37 milioni dianni fa), denominata galestro o tegolina.

Argille refrattarie e da grès del SarcidanoIn considerazione del comportamento in cottura l’argillaviene suddivisa in tre gruppi: fusibile, vetrificabile e re-frattaria. Quelle fusibili fondono bruscamente a tempe-rature comprese tra 900-1000 °C, sono generalmentecarbonatiche. Sono vetrificabili le illiti-montmorilloniticon punto di fusione tra 950-1100 °C. Le argille caoliniti-che o illitico-caolinitiche con punto di fusione oltre 1500°C, richiedendo temperature non raggiungibili dalle anti-che fornaci, hanno avuto applicazioni specifiche solo intempi moderni col nome di “argille refrattarie” e vengo-no massicciamente utilizzate nella fabbricazione di grès,terraglia o cottoforte. In una vasta area della Sardegnacentrale (Sarcidano) e centro-orientale (Ogliastra), allabase delle successioni carbonatiche marine del Mesozoi-co che caratterizzano i cosiddetti “tacchi”, sono stati rin-venuti, e talvolta coltivati selettivamente, vasti giacimentidi argille illitico-caolinitiche meglio note come “argillerefrattarie del Sarcidano”. Lo spessore di queste forma-zioni oscilla da 2 a 18 metri, con alternanza di livelli sil-toso-arenacei grigi e livelli caolinitico-illitici plastici dagrigi a rossastri. Il tenore in minerali argillosi varia dal40% degli strati più arenacei, al 90% di alcuni livelli mol-to plastici (chiamati dai minatori “panettone”). Il proces-so di sedimentazione che va dal Carbonifero medio alTrias ha dato luogo anche a depositi residuali lateritici,depositi alluvionali a ciottoli di quarzo molto puro conintercalazioni di caolino e/o di argille smettiche (bento-nite). Il quarzo oscilla tra il 10 e il 35%. Purtroppo sonospesso presenti come minerali accessori, feldspati, mi-che, solfuri (pirite) e residui carboniosi e quasi sempresono coperti da rocce carbonatiche compatte, spessedecine di metri. Gli alti costi collegati a questi fattorihanno determinato in tempi recenti la progressiva chiu-sura delle miniere. Negli anni 1930-70, un importantegruppo industriale di rilevanza internazionale (SANAC)ha ampiamente estratto la parte più ricca in allumina(30-50% di Al2O3) nelle concessioni di “Funtanamela” aLaconi (una delle più importanti d’Italia, non più attiva)

e di “Pitzu Rubiu” a Nurallao (recentemente dismessa).Dall’unica miniera di rilievo ancora aperta, quella di“Funtana Piroi”, in agro di Escalaplano – SVIMISA S.p.A.Sestu –, si estraggono argille utilizzate in alcuni impasticeramici per la produzione di piastrelle, prevalentemen-te nel comprensorio di Sassuolo.

Argille a strati mistiSono argille costituite da combinazioni complesse (rego-lari e irregolari) dei minerali già descritti, raramente lasuccessione degli strati è regolare e periodica. Lo studioe la classificazione di queste argille è problematico acausa della loro estrema eterogeneità ed irregolarità reo-logica. Sono le più diffuse, nelle rocce sedimentarie enei suoli. Assumono la loro denominazione in base aiprincipali costituenti: illiti-montmorilloniti, caoliniti-mon-tmorilloniti, illiti-cloriti-montmorilloniti, cloriti-vermiculitiecc. Appartengono a questa categoria molte delle argillea più basso valore commerciale, utilizzate per la fabbri-cazione delle cosiddette “terrecotte”. Contengono sempreelevate quantità di ossido di ferro (6-14%). La compo-nente plastica (40-50% del totale) è costituita principal-mente da illite, montmorillonite e clorite mentre la caoli-nite è trascurabile. La parte non plastica è costituita daquarzo, scarsi feldspati, carbonati (prevalentemente cal-cite, dallo 0 al 30%). È spesso presente anche materialecarbonioso (fino al 3%). Il colore a crudo assume le va-rianti del grigio, verde-azzurro, rosso, giallo, mentre ilcolore del materiale cotto è determinato dalla naturadell’ossido di ferro e dalle sue reazioni con calcio e allu-minio, che possono apportare colori più chiari di quellidovuti alla sola presenza di ematite – Fe2O3 – o limonite– FeO(OH)·nH2O. Queste argille vengono impiegatenell’industria dei laterizi (mattoni, tegole), dell’oggettisti-ca comune, prevalentemente non smaltata (vasi per fio-ri, brocche ecc.), delle pavimentazioni (cotto), di ele-menti architettonici, decorativi, artistici ecc.Non è possibile citare in questa sede singoli giacimen-ti, tanto sono differenti e numerosi. Si ricorda solo chein Sardegna sono state aperte cave un po’ ovunque(Campidano meridionale, Guspinese, Sarcidano, Oglia-stra, Oristanese, agro di Siniscola, agro di Orosei, agrodi Dorgali, Barigadu, Gallura, Sassarese ecc.), ma le si-tuazioni coltivabili a fini industriali sono quelle compre-se nelle Formazioni del Cixerri, di Ussana, di Samassi enella zona tra Alghero e Porto Torres (cave di Canaglia).Queste cave alimentano nel Cagliaritano e nel Sassaresealcune industrie per la produzione di laterizi.

Consumo di argille di pregio in SardegnaA livello industriale, attualmente vengono utilizzate ar-gille di qualità esclusivamente in un piastrellificio delGuspinese che rappresenta ciò che resta di un’impor-tante e articolata iniziativa a partecipazione pubblica,nata per riassorbire la disoccupazione derivante dallachiusura della miniera di Montevecchio. Esauriti i contri-buti a fondo perduto, l’attività fu ceduta definitivamente

420

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 15-11-2007 17:07 Pagina 420

a privati, in uno stato pre-fallimentare. Solo pochi anniprima veniva indicata dai promotori come esempio di“verticalizzazione produttiva” (dalla materia prima almanufatto). L’insuccesso era facilmente prevedibile,perché i presupposti infrastrutturali, di mercato e cultu-rali erano e rimangono inadeguati o inesistenti – viabili-tà, costi energetici, continuità territoriale, industrie eservizi collaterali, qualificazione del personale. Fino acirca dieci anni fa era in produzione un analogo stabili-mento ad Olbia (privato). L’azienda esportava in tuttaEuropa e negli Stati Uniti, ma è fallita dopo quindici an-ni d’esercizio, lasciando 50 lavoratori a casa e le fornitu-re di decine di piccole ditte locali insolute. Nel breveperiodo in cui sono state in attività, ambedue le cerami-che (Ceramica Mediterranea di Guspini e Ceramica Co-rallina di Olbia) potevano utilizzare fino a 30.000 ton-nellate/anno di argille sarde, divise tra “refrattarie” diNurallao e di Escalaplano e fanghi caolinitici di Florinas. A Olbia la Cerasarda, fondata nel 1963 dal principe Ka-rim Aga Khan e recentemente acquisita dal gruppo Se-renissima CIR S.p.A., Casalgrande (RE), produce piastrel-le ed oggettistica artigianale di buon livello, ma nonrisulta che utilizzi materie prime locali, anche perché im-porta dalla Penisola il “biscotto” (ceramica già cotta, dasmaltare e/o decorare) e l’argilla cruda preconfezionata. Negli anni Settanta, vicino a Cagliari, si impiantò concospicui contributi pubblici una fabbrica di piastrelle(monocottura). Usava prevalentemente materie primelocali, ma non ha mai lavorato a pieno regime e dopoalcuni anni ha chiuso. I ruderi delle infrastrutture sonoancora ben visibili sulla SS 131.Salvo rare eccezioni (vasai di terrecotte non smaltate),gli artigiani della ceramica non usano più affinare le ar-gille partendo dalla roccia o dalla terra grezza. Le argil-le da cottoforte e da grès vengono pressoché totalmen-te acquistate già pronte all’uso da aziende continentalispecializzate.Le produzioni industriali necessitano di uniformità edomologazione del prodotto. Queste caratteristiche nonsono compatibili con l’artigianato di pregio, che deveinterpretare cultura e tradizioni regionali.In Sardegna è possibile ed auspicabile che vengano re-cuperate al loro potenziale utilizzo artigianale le argilleillitico-caolinitiche del Sarcidano, i caolini di Laconi ele altre materie prime ceramiche autoctone, ben cono-sciute sia in letteratura che nelle specifiche applicazioni.In concomitanza con un razionale ripristino ambientale,potrebbe risultare conveniente, anche economicamen-te, recuperare parte dei giacimenti e delle discariche dicave e miniere dismesse, dalle quali venivano estrattimateriali di buona qualità. L’impiego di materie prime locali come elemento carat-terizzante, insieme alla manualità e alla creatività dell’ar-tigiano, conferirebbe ai manufatti un ulteriore apprezza-bile valore aggiunto, capace di promuoverne l’uso ancheoltre i confini regionali.

Possibile mercato delle argille locali disponibiliNell’attuale contesto produttivo, il mercato interno diargille ceramiche di qualità è sostanzialmente inesisten-te, mentre quello extraregionale è sempre più limitato,a causa della concorrenza estera e per le insufficientigaranzie di fornitura che si possono offrire (da anninon si fa ricerca).Nonostante la presenza di importanti giacimenti mine-rari, gli indirizzi politico-amministrativi della Regione la-sciano poche possibilità alla ripresa delle produzioni,anche in presenza di adeguate garanzie di salvaguardiaambientale.Nell’ambito del già citato recupero e della messa in si-curezza di cave e miniere dismesse varrebbe comunquela pena di verificare la possibilità di fornire agli operato-ri locali (ceramisti artigiani e piccola industria) argilleprovenienti da coltivazioni marginali, finalizzate ad unariqualificazione ambientale.La recente globalizzazione dei mercati ha notevolmen-te accresciuto la tendenza alla standardizzazione dellematerie prime, uniformandole alle esigenze delle po-che società multinazionali che controllano i mercati deiprodotti di più largo consumo (piastrelle, sanitari, sto-viglieria).Molti minerali del “vecchio mondo” non sono più colti-vati perché troppo costosi rispetto a materie prime pro-venienti da Paesi dove mano d’opera, diritti umani egestione del territorio sono assai poco valutati. Impedi-re ricerca e coltivazione di materie prime nelle nazioni“ricche”, di lunga tradizione mineraria, con una moder-na regolamentazione ed un efficiente controllo ambien-tale, è demagogico ed eticamente inammissibile. Questiatteggiamenti pseudo-ecologici lasciano irrisolti i nostriproblemi e incentivano l’indiscriminato sfruttamento dirisorse naturali in quella parte del mondo esclusa dalbenessere, dove “controllo”, “efficienza” e “diritto” sonoancora mere astrazioni. In quest’ambito l’ambientalismo,che raccoglie più consensi in Occidente, causa gli stessidanni della “cultura consumistica” che contesta ma liconcentra altrove, lontano dai suoi fautori, che mai ri-nuncerebbero ai beni di consumo fabbricati con le ma-terie prime del terzo e quarto mondo.In Sardegna le miniere hanno formato operai, quadri edirigenti, dando un’impulso decisivo all’affermarsi di unacoscienza identitaria autonomistica, alla partecipazionepolitica, al progresso. Ricerca operativa e coltivazione dirisorse minerarie sono spesso ostacolate da atteggiamen-ti pregiudiziali e aprioristici, da parte dei media e delleamministrazioni locali.Nel rispetto delle norme ambientali per la tutela delterritorio, l’attività estrattiva e l’indotto che ne conse-gue (piccola industria, artigianato, servizi) possono an-cora costituire un orizzonte economico e culturale al-ternativo: la filosofia della ricerca, dell’intrapresa e delcommercio, contrapposta a quella della sopravvivenza,dell’attesa, dell’isolamento difensivo.

421

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 12:21 Pagina 421

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 12:21 Pagina 422

423

Potenzialità di sviluppo e limiti delle produzioni tipicheLa valorizzazione delle produzioni tipiche, anche graziealle sinergie sviluppabili con il settore turistico, è dive-nuta una parola d’ordine molto diffusa. Indubbiamentele potenzialità di sviluppo sono oggi superiori rispetto alpassato per diversi motivi. In primo luogo negli anni re-centi l’attenzione dei consumatori non locali per questotipo di prodotti è cresciuta considerevolmente. I prodot-ti tipici soddisfano bisogni di diversificazione dei consu-mi, soprattutto alimentari, nonché di genuinità e qualità.La standardizzazione dei modelli di vita e dei prodotti dimassa, unita ai timori dei consumatori per le sofisticazio-ni introdotte in alcuni di essi, ha accresciuto il bisognodi riconoscibilità dei prodotti e di informazione sulla lo-ro origine. Hanno avuto importanza anche la maggioremobilità della popolazione e lo sviluppo del turismo, sti-molando l’interesse per culture diverse e per i prodotti aesse legati. L’interesse del consumatore-turista si rivolgesoprattutto all’identità e tipicità dei beni. Vanno conside-rate inoltre la rivalutazione delle tradizioni locali collega-ta alla rinascita del localismo in molti aspetti della vitaculturale, che ha favorito la riappropriazione della tradi-zione di appartenenza, ma anche di tradizioni diversedalla propria e lo sviluppo di una coscienza ecologicache accresce la preferenza per il prodotto artigianale piùnaturale e genuino.Infine la crescita del reddito e la maggiore disponibilitàa pagare per consumi raffinati e per soddisfare bisognidifferenziati hanno attenuato l’incidenza di quello cheha rappresentato finora il principale problema di com-petitività dei prodotti tipici: il prezzo elevato, dovuto al-le tecnologie produttive prevalentemente artigianali ealle piccole dimensioni delle imprese. Il fattore di com-petitività più importante è divenuto quindi non tanto lariduzione dei costi, ma la capacità di soddisfare bisognidifferenziati e qualitativamente sofisticati.La differenziazione del prodotto può consentire una cre-scita, sia pure contenuta, di questi settori, anche indi-pendente da una trasformazione in senso industriale eun forte aumento nei volumi di produzione. Ciò può ac-cadere perché un prodotto differenziato assicura all’im-

presa un certo potere di mercato che, al crescere delreddito, si traduce in una più sostenuta dinamica deiprezzi rispetto ai prodotti standardizzati. Il settore quindicresce non tanto in termini di quantità fisiche prodottequanto, piuttosto, in termini di fatturato, grazie all’au-mento dei prezzi. In altri termini una strategia di nicchianon è necessariamente incompatibile con un certo dina-mismo di questi settori, tuttavia attribuire ad essi un ruo-lo trainante nell’economia regionale, come talvolta si ècercato di fare, appare quantomeno azzardato.

Il ruolo ambiguo dell’innovazione tecnologicaÈ importante ribadire che la condizione essenziale diquesta crescita è che il prodotto rimanga fortemente di-stinto e di qualità elevata. Deve essere capace di imporsiin segmenti di mercato di fascia medio alta e non esserefacilmente sostituibile nelle preferenze dei consumatori,né facilmente imitabile dal punto di vista del know how.In alcuni settori tale differenziazione è associata ad unforte radicamento nella tradizione produttiva locale checostituisce, di per sé, un fattore di diversificazione ri-spetto ad altre aree geografiche. Ma questo non è sem-pre vero. In altri casi la crescita e il successo sui mercatisono stati il risultato di un profondo processo innovati-vo, accompagnato da un quasi completo abbandonodelle tecnologie tradizionali. Ciò è accaduto per esem-pio in Sardegna (ma non solo) nel settore enologico,dove mancava un know how produttivo tradizionale diqualità elevata. I successi di alcune imprese negli ulti-mi decenni sono chiaramente legati all’introduzione diknow how importati dall’esterno. Questa trasformazioneha contribuito a migliorare significativamente la qualitàdel prodotto, che mantiene una certa specificità grazie apeculiarità di natura territoriale che permangono nono-stante l’adozione di tecnologie produttive diffuse a livel-lo internazionale.1

Il settore enologico rappresenta un caso molto partico-lare e un’esperienza difficilmente estendibile ad altreproduzioni tipiche, tuttavia esiste qualche affinità conil settore della ceramica. Anche in questo caso infatti latradizione produttiva locale è relativamente povera e silimita sostanzialmente ad oggetti in terracotta d’usoquotidiano. La produzione artistica attuale è il risultatodi un processo storicamente recente di rinnovamento

Il settore della ceramica artistica in Sardegna. Problemi e opportunitàSergio Lodde, Giovanni Sistu

656

656. Mostra dell’Artigianato, VIII Fiera Campionaria della Sardegna,Cagliari, 1956.

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 12:21 Pagina 423

del design, guidato da alcuni artisti locali nella primametà del secolo scorso che può quindi giocare in que-sto settore un ruolo più rilevante che in altri.In molte altre produzioni tipiche l’innovazione tecnolo-gica non è sempre un fattore di competitività o, comun-que, non è sufficiente ad assicurarne un livello soddi-sfacente. La preservazione di molti aspetti del knowhow tradizionale è importante per il mantenimento del-la qualità e differenziazione del prodotto. Nel settorealimentare esistono vari esempi di prodotti le cui carat-teristiche organolettiche si alterano in seguito all’uso ditecniche meccanizzate o di particolari forme di confe-zionamento.2 In altri casi la meccanizzazione di alcunefasi produttive ha condotto a un riposizionamento delprodotto sul mercato, ponendolo in competizione conbeni standardizzati a basso costo. I motivi sono due: laqualità e tipicità del prodotto, legata alla lavorazione amano, ha risentito del cambiamento tecnologico, inoltreil know how è divenuto più facilmente imitabile, favo-rendo l’ingresso sul mercato di produttori industriali odi prodotti contraffatti.3

Ciò non significa che non vi debba essere innovazionein questi settori. Anche le produzioni più tradizionalihanno subito continue modifiche nel corso del tempo,riguardanti sia il prodotto che i processi produttivi. Uncerto cambiamento tecnologico è necessario per miglio-rare le condizioni di lavoro, ridurre in qualche misura icosti e per rendere la produzione più flessibile e adatta-bile alle esigenze del mercato. Gli stessi prodotti hannosubito trasformazioni dando luogo a varianti del prodot-to tradizionale o, più raramente, a veri e propri nuoviprodotti che mantengono, comunque, legami con la tra-dizione locale. La questione importante è che l’equilibriofra tradizione e innovazione in questi settori è comples-so e dà luogo a esiti differenti e non sempre prevedibili.

L’importanza del mercatoLa possibilità di una crescita moderata in mercati di nic-chia sembra suggerire che l’ampliamento dei mercatisia un problema secondario per le produzioni tipiche.In realtà non lo è affatto per vari motivi. In primo luogo il mercato locale è di dimensioni moltolimitate ed è, inoltre, scarsamente dinamico per motividi saturazione. Al suo interno il prodotto è meno diffe-renziato perché è conosciuto e usato da sempre e nonrappresenta, pertanto, una novità, mentre su un mercatoesterno la diversità della tradizione produttiva rispetto aquella locale rappresenta un importante fattore di diffe-renziazione che risulta essere quindi una caratteristicanon esclusivamente intrinseca del prodotto, ma dipendedal mercato in cui viene commerciato.Anche sotto questo profilo si manifestano differenze frai settori. Nel caso di alcune produzioni alimentari il pro-blema della saturazione può assumere minore rilevanza.Si tratta di prodotti che vengono consumati abitualmen-te e possono avvantaggiarsi della fedeltà del consuma-tore locale. Le preferenze dei consumatori sono il risul-

tato di un lungo processo di apprendimento sia indivi-duale che culturale, grazie al quale il consumatore è ingrado di apprezzare meglio sottili differenze qualitativein un prodotto culturalmente vicino rispetto a uno piùlontano.4 A parità di altre condizioni, il consumatore lo-cale tende quindi a preferire il prodotto locale a quelliconcorrenti di provenienza esterna ed è in grado di va-lutarne meglio il livello qualitativo.5

Le cose cambiano se consideriamo prodotti che vengo-no acquistati più raramente o addirittura una tantum.Rientrano in questa categoria gli oggetti di arredamento,tra i quali la ceramica, i gioielli ecc. Spesso i consumato-ri locali posseggono questi prodotti perché li hanno ac-quistati o ereditati in quanto parte del patrimonio fami-liare. La domanda locale è pertanto molto limitata.La conclusione a cui portano le considerazioni prece-denti è che, sebbene questi settori operino per loro na-tura in mercati di nicchia, in molti casi la nicchia nonpuò coincidere con il mercato locale. È necessario quin-di aprire sbocchi sui mercati esterni, dove la specificitàdei prodotti è un fattore di competitività. Quando parlia-mo di mercati esterni intendiamo riferirci non solo aquelli geograficamente esterni al territorio regionale, maanche a quello turistico. Il problema di fondo è che la struttura produttiva è mol-to frammentata in un numero elevato di microimpresea carattere familiare, spesso costituite da un solo addet-to. Imprese di questo tipo hanno grosse difficoltà aoperare su mercati di grandi dimensioni o spazialmentedistanti. Raramente possono destinare risorse specifi-che, sia finanziarie che umane, alla soluzione dei pro-blemi di commercializzazione. Anche se dispongono diun prodotto di qualità, devono farlo conoscere ai con-sumatori e i costi di marketing possono essere moltoelevati. Inoltre hanno spesso a che fare con intermedia-ri, come la grande distribuzione, dotati di un forte pote-re di mercato. Si crea così una tenaglia: a costi elevatinon corrisponde una capacità di spuntare sul mercatoprezzi sufficienti a coprirli, perché l’intermediario si ap-propria di buona parte del margine fra prezzo al consu-mo e costo di produzione. D’altra parte la grande distri-buzione rappresenta una fetta talmente importante delmercato che non può essere trascurata, anche quandosi tratta di prodotti di nicchia. In alcuni casi le difficoltàderivano da problemi di indivisibilità della domanda.Molto spesso una piccola impresa non è in grado disoddisfare da sola nemmeno commesse di entità relati-vamente limitata.6

Questi problemi possono essere risolti grazie a forme dicooperazione che permettano alle imprese di fronteggia-re collettivamente mercati così impegnativi. Per esempioun marchio collettivo consente di ridurre i costi pubblici-tari per ciascuna impresa e di accrescere la flessibilitàdell’offerta, per il semplice motivo che più imprese, in-sieme, sono in grado di rispondere meglio di una solaalle mutevoli esigenze del mercato. Una strategia comu-ne, inoltre, rafforza il potere di mercato nei confronti

424

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 12:21 Pagina 424

degli intermediari commerciali. Purtroppo la cooperazio-ne non è facile in questi settori, non tanto e non soloper le ben note ragioni di carattere socio-culturale, sucui molti studiosi si sono a lungo soffermati,7 quanto permotivi legati a caratteristiche strutturali, come la fram-mentazione produttiva e la differenziazione dei prodotti. Molte forme di cooperazione fra imprese sono possibiligrazie all’esistenza di un centro di coordinamento, costi-tuito in genere da una grande impresa. Tale funzione èessenziale sia nel coordinamento dell’attività produttivache nella fase di penetrazione sui mercati esterni. È at-traverso i contatti creati da queste imprese guida che lepiccole imprese satelliti dei distretti industriali hanno po-tuto ampliare il proprio mercato e agire come un bloccocompatto nei rapporti commerciali. In alcuni settori tra-dizionali la presenza di imprese di una certa dimensione– anche se non propriamente definibili come impreseguida – ha avuto un ruolo importante nel favorire la pe-netrazione su mercati non locali. In Sardegna questo èavvenuto nei settori del vino e dei formaggi, gli unici avantare un’esperienza storica di esportazioni su mercatiinternazionali che, ancora oggi, rimane quasi esclusiva.In altre produzioni tipiche questo ruolo guida è moltodebole o manca del tutto, favorendo la formazione di

interessi contrapposti fra le imprese e di disincentivi allacooperazione.Se esistono significative differenze qualitative fra i pro-dotti di imprese diverse che operano all’interno di unostesso marchio collettivo, si creano le condizioni percomportamenti opportunistici. Quando il mercato è lo-cale il consumatore conosce il singolo produttore diqualità ed è in grado di distinguerlo dagli altri. Nel mo-mento in cui il mercato si amplia la tracciabilità del pro-dotto diviene più difficile e il consumatore tende a iden-tificarlo con il territorio d’origine e a valutarne la qualitàsulla base delle informazioni che quest’ultimo convoglia.Il prodotto gode, in altri termini, di una reputazione col-lettiva che coinvolge tutte le imprese operanti in quelparticolare territorio. Così l’impresa che produce beni dibassa qualità non è più individualmente sanzionabiledal mercato. Aumenta quindi l’incentivo per ogni impre-sa ad abbassare la qualità del prodotto (e i costi) senzaridurre il prezzo, sfruttando la reputazione collettiva as-sociata al marchio ma, al tempo stesso, danneggiandola. Ciò spiega in buona misura le difficoltà di cooperazionee la paura dei produttori che l’omologazione in un mar-chio collettivo oscuri la specificità e differenziazionequalitativa del proprio prodotto, esponendo l’impresa alrischio di essere coinvolta nella perdita di reputazionecollettiva a causa del comportamento opportunistico dialcuni partner.

425

657

657. Laboratorio di Giovanni Sanna, Oristano, 1979 (foto Herman Geertman, archivio M.B. Annis).

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 12:21 Pagina 425

Date queste difficoltà, il mercato turistico può rappre-sentare un’alternativa più facile. Indubbiamente si trattadi un mercato cruciale per le produzioni tipiche che, an-che se non è sempre in grado di garantire una domandasufficiente a sostenerne la crescita, presenta alcuni van-taggi non trascurabili. Esso è spazialmente “vicino”, nelsenso che può essere raggiunto con costi di trasporto edi marketing accessibili anche a imprese di dimensionimolto piccole che costituiscono, in questo senso, unasorta di prolungamento del mercato locale. Per altri aspetti esso è simile a quello di esportazione.I turisti hanno preferenze legate alla cultura di apparte-nenza, esprimono quindi tipologie di domanda diverseda quella locale e vicine a quelle dei mercati dai qualiprovengono. Queste caratteristiche della domanda turi-stica hanno contribuito a stimolare l’innovazione di pro-dotto in alcuni settori.8 Inoltre i turisti rappresentano unimportante veicolo di marketing sui mercati dei paesi diprovenienza e agiscono come un fattore di stimolo al-l’apertura verso i mercati esterni.Tuttavia questo mercato non è esente da limiti. In unaregione come la Sardegna, in cui le presenze turistichesono concentrate in alcuni mesi dell’anno, la domandaha un andamento fortemente stagionalizzato ed è, perlo stesso motivo, limitata dal punto di vista quantitativo.Inoltre le caratteristiche del prodotto turistico della Sar-degna, basato su una risorsa naturale non riproducibile,sono incompatibili con una crescita sostenuta delle pre-senze turistiche nel tempo.9 È improbabile quindi chetale segmento, pur importante, possa sostituire comple-tamente i mercati extra regionali.

La struttura del settoreL’analisi della struttura del settore della ceramica artisticaè impresa non facile, poiché i dati ufficiali disponibilisulle imprese e gli addetti non raggiungono un livello didisaggregazione tale da consentire di isolare con preci-sione le produzioni artistiche all’interno del più ampiosottosettore dei prodotti in ceramica. Le fonti ufficiali so-no due: i censimenti dell’industria effettuati dall’ISTAT eil database dell’Unioncamere Movimprese, che rilevacon cadenza trimestrale il movimento anagrafico delleimprese, ovvero le iscrizioni e cancellazioni dal registrodelle Camere di Commercio e le imprese attive (il data-base non fornisce dati sugli addetti). I dati provenientida tali fonti si basano sulla classificazione ATECO10 epermettono di individuare un comparto denominato“fabbricazione di prodotti in ceramica per usi domesticie ornamentali”. Questo comparto non comprende esclu-sivamente imprese produttrici di manufatti della cerami-ca artistica in senso stretto.11 Tuttavia è quello che mag-giormente si avvicina alle produzioni qui esaminate.La tabella A riporta l’andamento della popolazione delleimprese e degli addetti nel comparto menzionato fra il1991 e il 2007. I dati fino al 2001 provengono dai censi-menti dell’industria e dei servizi. La fonte dei valori re-lativi agli anni 2005 e 2007 è invece il database Movim-

prese. Le due serie non sono direttamente comparabili,tuttavia sono state riportate entrambe perché permetto-no, pur con le dovute cautele, di fare qualche conside-razione sull’andamento del settore nel tempo. L’ultimaindagine sul campo che fornisca dati specifici sul settoreè stata condotta dall’ISOLA (Istituto Sardo di Organizza-zione del Lavoro Artigiano) e risale al 1991. Confrontan-do i dati del censimento del 1991 con quelli risultantidall’indagine menzionata è possibile verificare l’attendi-bilità dei dati qui riportati. Dall’indagine dell’ISOLA risul-tano 55 imprese attive nel settore della ceramica artisticacontro le 67 rilevate dal censimento. Se si considera cheil dato dell’ISOLA si riferisce al 1990 e si tiene conto an-che dei normali errori di rilevazione, la differenza fra idue dati appare molto contenuta e non tale da alterarein modo sostanziale il quadro ricavabile dai censimenti.Esiste infine un elenco di imprese nel sito Artigianato-Sardegna,12 in base al quale la popolazione del settoreconsta attualmente di 60 imprese. Questo dato è proba-bilmente più vicino alla reale consistenza del comparto,ma è assolutamente non confrontabile con le altre serie,pertanto può essere utilizzato come fotografia dello sta-to attuale soprattutto in termini di distribuzione geografi-ca (si veda più avanti il paragrafo dedicato alla geografiadel tessuto produttivo) ma non permette alcuna analisidella dinamica nel tempo. Il numero delle imprese censite è cresciuto significativa-mente tra il 1991 e il 2001. Nell’intero territorio regionalesi passa da 67 a 103 imprese con un tasso di crescita del53,7% nel decennio (si veda la tabella B). È interessan-te osservare che questa dinamica supera di gran lunga

426

Tab. A. Imprese e addetti nel settore della ceramica per usi domestici eornamentali. Anni 1991, 1996, 2001 (fonte: ISTAT, censimenti dell’indu-stria), 2005, 2007 (fonte: UUCCIIAA; Movimprese).

1991 1996 2001 2005 2007

Imprese Addetti Imprese Addetti Imprese Addetti Imprese Imprese

Cagliari 32 60 39 56 48 76 79 87

Nuoro 16 34 18 36 24 46 35 37

Oristano 7 11 10 19 8 11 13 13

Sassari 12 16 17 19 23 26 36 40

Sardegna 67 121 84 130 103 159 163 177

Italia 2505 9672 2859 8474 3047 8792

Tab. B. Tassi di crescita delle imprese e degli addetti. Anni 1991, 1996,2001 (fonte: ISTAT, censimenti dell’industria).

Imprese Addetti

1991-1996 1996-2001 1991-2001 1991-1996 1996-2001 1991-2001

Cagliari 21,9 23,1 50,0 -6,7 35,7 26,7

Nuoro 12,5 33,3 50,0 5,9 27,8 35,3

Oristano 42,9 -20,0 14,3 72,7 -42,1 0,0

Sassari 41,7 35,3 91,7 18,8 36,8 62,5

Sardegna 25,4 22,6 53,7 7,4 22,3 31,4

Italia 14,1 6,6 21,6 -12,4 3,8 -9,1

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 12:21 Pagina 426

quella registrata a livello nazionale, che risulta inferiorealla metà (21,6%). La differenza è più accentuata nel se-condo quinquennio, in cui il tasso di crescita della po-polazione di imprese subisce una netta contrazione (piùche dimezzato) su base nazionale, mentre si riduce inmisura assai più contenuta nel territorio regionale.I dati di Movimprese sono molto interessanti sotto que-sto profilo. Si può osservare come il numero di impreserilevate dalla Camera di Commercio sia nettamente mag-giore rispetto al dato censuario,13 ciò conferma che nonsi possono trarre informazioni attendibili dal confrontofra le due serie. Tuttavia la dinamica positiva registratafra il 2005 e il 2007 mostra chiaramente che la crescitadegli anni Novanta è proseguita negli anni più recenti enon si può escludere che si sia perfino rafforzata.La divaricazione fra le dinamiche nazionale e regionalenello scorso decennio è più chiaramente percepibile nel-la figura A, in cui si fa uso di numeri indice che con-sentono una comparazione fra l’andamento nazionale equello regionale. Se si pone uguale a 100 il valore del1991, nel 2001 l’indice è pari a 154 per la Sardegna e adappena 122 per l’Italia.Ancora più divergente appare la dinamica degli addetti,che risulta negativa a livello nazionale (-9,1%) tra il 1991e il 2001. Al contrario, in Sardegna, essa è nettamentepositiva (31,4%).I dati disponibili non consentono di fornire una spiega-zione univoca delle differenze di comportamento delleimprese del settore nell’ambito regionale e nazionale.Tuttavia è possibile avanzare qualche ipotesi. Secondo alcuni osservatori (per esempio l’Associazionecittà della ceramica e la Confederazione Nazionale Arti-gianato), a partire dagli anni Novanta nel settore dellaceramica artistica ha avuto inizio una crisi che perduratuttora. I dati censuari nazionali riflettono tale crisi, so-prattutto per quanto riguarda la dinamica dell’occupa-zione e, in misura minore, con riferimento alla natalitàdelle imprese. L’impressione che si ricava è che si siamesso in moto un processo di ristrutturazione, che hadato luogo a una contrazione dell’occupazione e a unariduzione della dimensione media delle imprese.

427

Fig. A. Dinamica della popolazione di imprese. Sardegna e Italia. Anni1991, 1996, 2001. Numeri indici 1991=100 (fonte: ISTAT, censimentidell’industria).

160

150

140

130

120

110

1001991 1996 2001

SardegnaItalia

Fig. B. Dinamica degli addetti. Sardegna e Italia. Anni 1991, 1996, 2001(fonte: ISTAT, censimenti dell’industria).

140

130

120

110

100

90

80

70

60

1991 1996 2001

SardegnaItalia

La tabella C mostra chiaramente questo processo a livel-lo nazionale: la dimensione media delle imprese si ridu-ce significativamente (circa il 25%) fra il 1991 e il 2001.Il fenomeno interessa anche il territorio regionale siapure con intensità minore. In questo caso la spiegazio-ne della differenza è abbastanza ovvia: in Sardegna ladimensione media di partenza era molto più piccola,pertanto i margini di ristrutturazione erano molto minori.Tuttavia, il fatto che la popolazione delle imprese siacresciuta anche a livello nazionale fa ritenere che la crisiabbia colpito soprattutto imprese di dimensioni maggiorie abbia avuto, invece, effetti meno drammatici sulle im-prese artigiane.

Una possibile interpretazione di questa dinamica è chele imprese di maggiori dimensioni, che hanno una pro-duzione di tipo industriale (quindi più standardizzata epiù facilmente imitabile), abbiano subito maggiormentegli effetti della competizione internazionale legata alprocesso di globalizzazione. Viceversa le strategie dinicchia delle micro imprese artigiane, basate su un pro-dotto fortemente differenziato e di qualità elevata, sem-brano avere retto meglio alle sfide della globalizzazione.Questa interpretazione offre una possibile spiegazionedel perché i segni della crisi siano molto meno percepi-bili a livello regionale. Presumibilmente la struttura pro-duttiva imperniata soprattutto su micro imprese di nic-chia ha avuto un ruolo positivo in questo senso.

Tab. C. Dimensione media delle imprese. Sardegna e Italia. Anni 1991,1996, 2001 (fonte: ISTAT, censimenti dell’industria).

1991 1996 2001

Cagliari 1,9 1,4 1,6

Nuoro 2,1 2,0 1,9

Oristano 1,6 1,9 1,4

Sassari 1,3 1,1 1,1

Totale Sardegna 1,8 1,5 1,5

Italia 3,9 3,0 2,9

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 12:21 Pagina 427

Nel caso sardo un altro fattore potrebbe avere rafforzatoquesta tendenza. Ci riferiamo al credito alle imprese arti-giane e, in particolare, alla politica di incentivazione re-gionale. La tabella D riporta l’incidenza dei finanziamentiagevolati sul totale dei finanziamenti alle imprese artigia-ne in Sardegna, Mezzogiorno, Centro-Nord e Italia. Il da-to, riferito al 2004, è tratto dal Rapporto sul credito e sul-la ricchezza finanziaria delle imprese artigiane, redattonel 2005 dall’Artigiancassa. Balza immediatamente agliocchi l’incidenza di gran lunga superiore dei finanzia-menti agevolati in Sardegna rispetto alle altre aree. Il da-to risulta circa 6 volte superiore alla media italiana e aquella delle altre regioni del Mezzogiorno. Dalla figura C si può notare come nel 2000 si determiniun vero e proprio salto nell’incidenza dei finanziamentiagevolati, che raddoppia in un solo anno passando dal16% al 34%. Non è possibile disaggregare il dato persettore, tuttavia è lecito ipotizzare che l’andamento delfenomeno nel settore della ceramica non si discosti so-stanzialmente dalla tendenza complessiva a livello regio-nale. È probabile che questa esplosione dei finanziamen-ti agevolati, conseguente all’approvazione della LeggeRegionale del 1997 sulle “Provvidenze a favore dell’arti-gianato sardo”, abbia influito significativamente sulla di-versa dinamica delle imprese artigianali ceramiche inSardegna rispetto al Mezzogiorno e all’Italia.

La geografia delle impreseLe peculiari caratteristiche geologiche della Sardegna e laricchezza dei giacimenti di argille hanno fatto sì che laproduzione di ceramica in Sardegna abbia avuto originiantichissime, anche se non ha avuto da sempre uno stiletutto suo. Le localizzazioni storiche di questi giacimentisono quelle dei bacini del Sarcidano, del Campidano me-ridionale, del Guspinese e del Sassarese. In particolareun valore industriale storico hanno avuto le argille refrat-tarie del Sarcidano, i cui maggiori giacimenti sono pre-senti fra Laconi, Nurallao e Escalaplano. Una delle lorocaratteristiche principali è la forte azione legante, fonda-mentale per mantenere la forma del manufatto prima edurante la cottura. La loro lunga storia industriale legataall’industria metallurgica continua ancora con l’utilizzazio-ne negli impasti ceramici per piastrelle, materia prima peril ricco distretto produttivo emiliano e per le più modesteesperienze regionali, fra Olbia, Guspini e Villacidro.Viceversa, un ruolo economicamente meno rilevante, maessenziale per l’evoluzione del sistema insediativo regio-nale, hanno avuto le argille per laterizi, concentrate nelCampidano meridionale, nel Guspinese e nel Sassarese,e oggi utilizzate da meno di dieci impianti distribuiti inprossimità dei giacimenti. Infine, un impatto residualehanno i giacimenti di caolino del basso Logudoro, inpassato largamente utilizzati per refrattari e ceramica fine.Nella prima metà del Novecento, la creazione della pri-ma Scuola d’Arte Applicata ad opera dello scultore Fran-cesco Ciusa ha reso più evidenti le possibili relazioni fradisponibilità delle materie prime e sviluppo di laboratoridi ceramica artistica, al di là della già esistente tradizio-ne produttiva della ceramica comune.Questa relazione si è andata consolidando nei decennisuccessivi, favorita anche dalle scelte localizzative di alcu-ni dei maggiori capiscuola (Francesco Ciusa ad Oristano,Federico Melis ad Assemini e poi a Cagliari, Ciriaco Pirasa Dorgali), in modo da definire un sistema di micropola-rità intorno ad Assemini, Siniscola, Dorgali e Sassari.Come evidenziato in altra parte del volume, la successi-va evoluzione del quadro produttivo è stata condizio-nata sia dalla capacità di adattamento alle esigenze delmercato, sia dall’intervento di azioni istituzionali volte afavorire il consolidamento del patrimonio di saperi. In questo senso, un’importante modifica alla geografiae all’innovazione di prodotto è derivata dalla creazionedella Cerasarda, “la Ceramica della Costa Smeralda”, cheinizia ad operare a Olbia nel 1963. Le lavorazioni, affina-tesi con il miglioramento delle tecniche e con gli investi-menti in macchinari modernissimi, consolidano ancora lafilosofia della grande “bottega artigiana” ove la manuali-tà, con la cura straordinaria nella rifinitura di ogni pezzo,è privilegiata.Il modello Cerasarda, se da un lato avvia un importantepercorso nella ricerca della qualità e dell’unicità dellaproduzione, dall’altra apre la strada all’utilizzazione dimaterie prime e di semilavorati non di provenienza re-gionale.

428

Tab. D. Quota percentuale dei finanziamenti agevolati artigiani sul to-tale dei finanziamenti artigiani in Sardegna, Mezzogiorno e Italia nel2004. Milioni di euro correnti (fonte: Artigiancassa, Rapporto sul cre-dito e sulla ricchezza finanziaria delle imprese artigiane, 2005).

Finanziamenti agevolati

Totale finanziamenti artigiani

Incidenza % dei finanziamenti agevolati

Sardegna 427 1.090 39,2

Mezzogiorno (esclusa Sardegna)

533 6.910 7,1

Centro-Nord 2.350 46.000 5,2

Italia 3.310 54.000 6,1

Fig. C. Incidenza percentuale dei finanziamenti agevolati su quelli totalialle imprese artigiane. Sardegna, altre regioni meridionali, Italia. Anni1997-2004 (fonte: Artigiancassa, Rapporto sul credito e sulla ricchezzafinanziaria delle imprese artigiane, 2005).

45.0

40.0

35.0

30.0

25.0

20.0

15.0

10.0

5.0

0.0

1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004

Sardegna

Altre reg. Mezzogiorno

Italia

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 12:21 Pagina 428

Se le più recenti esperienze regionali nell’ambito dellaproduzione industriale di piastrelle hanno puntato forte-mente sulle materie prime locali, incontrando, viceversa,le maggiori difficoltà nel costo dell’energia e nell’assen-za di sinergie fra competenze, proprie del distretto emi-liano, nel caso della ceramica artistica le criticità appaio-no rovesciate.Il caso di Assemini può essere significativo in questo sen-so. Una delle due realtà sarde (con Oristano) facente par-te dell’Associazione delle Città della Ceramica ha vistocrescere il proprio ruolo nell’arco di tre generazioni diproduttori, anche grazie alle innovazioni nelle forme enegli stili introdotte negli anni Cinquanta e Sessanta dallacollaborazione dei maestri ceramisti con artisti qualiUbaldo Badas, Eugenio Tavolara e Costantino Nivola. Diquella esperienza resta un segno profondo in molte pro-duzioni, così come dell’incontro con le forme e le tecni-che di Vietri sul Mare (Salerno) e di altre città di anticatradizione. La realtà odierna indica sedici produttori stori-ci, in parte formatisi nelle scuole d’arte regionali, cui siassocia il lento emergere di nuovi giovani artigiani, alcunidei quali provengono dalle scuole d’arte del continente.Da questo scenario deriva una tendenza all’innovazio-ne modesta, limitata a pochi maestri, capaci di misurar-si anche con l’estrusione, e all’estro di qualche giovane.Prevale di conseguenza la logica del prezzo migliorepossibile per produzioni fortemente legate alle singolebotteghe. Una vetrina di grande importanza come ilCentro della Ceramica Asseminese, visitato ogni annoda oltre diecimila persone, ospita creazioni di solo diecidelle botteghe storiche. Nella stessa area, la progressiva rarefazione dell’attivitàformativa dell’ISOLA lascia spazi per nuove tipologie di-dattiche e la creazione di nuovi attrattori, come il picco-lo Museo della Ceramica Italiana recentemente inaugu-rato. Iniziativa quest’ultima ancora più giustificata dallanetta prevalenza del mercato regionale come destinata-rio finale delle produzioni, seppure il buon successo ot-tenuto con la partecipazione a fiere e mercati nazionali,sponsorizzata dall’amministrazione comunale, abbia fa-vorito l’avvio di nuove reti di vendita nazionali, che tut-tavia necessitano di un’azione maggiormente sinergicafra i produttori.La difficoltà a collaborare stabilmente si esprime anchecon la mancata creazione di consorzi d’acquisto dellematerie prime e dei macchinari: ogni produttore acqui-sta sia modeste quantità di materie prime locali da raffi-nare sia pani d’argilla e altre materie prime provenientidal continente e commercializzate da un unico puntovendita, presente nello stesso comune. Non diversamen-te l’acquisto dell’energia elettrica, che incide per il 35-40% sui costi totali e gode di agevolazioni regionali percirca un quinto del costo complessivo, non si realizzaattraverso forme consortili, pure favorite dalla liberaliz-zazione del mercato.Questo quadro pare esprimere una realtà comune amolte delle aree di produzione dell’Isola, prime fra tutte

Dorgali e Oristano, anche laddove esistono significativeesperienze di botteghe cooperative.Ma qual è la geografia complessiva delle produzioni?In realtà possono scegliersi descrittori diversi e, tenutoconto della funzione crescente che vanno assumendole diverse forme di marketing e di comunicazione tele-matica, risulta interessante confrontare la geografia uffi-ciale dei produttori, ricavabile dalle statistiche di Union-camere aggiornate al 2007, con la geografia di una basedi informazione visitabile in rete, quale il sito Artigia-natoSardegna, ripreso in alcuni dei siti più visti di pro-mozione turistica della regione.Giova ricordare che le aziende promosse dall’ISOLA, at-traverso il proprio sito istituzionale, erano poco più ditrenta, mentre il sito ArtigianatoSardegna comprendesessanta produttori ed il dato Unioncamere arriva a 177,seppure in quest’ultimo caso il livello di aggregazionedella categoria ATECO 26.21 ricomprenda anche produ-zioni affini alla ceramica artistica.L’incrocio fra le fonti riportate nelle figure D-E, seppu-re basato su un’informazione solo parzialmente confron-tabile, fornisce comunque un quadro sufficientementeindicativo della geografia del comparto. La polarità dimaggiore consistenza risulta essere ancora quella meri-dionale, che intorno ai centri trainanti di Cagliari e Asse-mini, vede la presenza di botteghe artigiane in almeno14 altri centri. Confrontando i dati di Movimprese relativial 2005 e al 2007 si può osservare una maggiore artico-lazione delle presenze nel Sulcis-Iglesiente, seppure conla prevalenza dei due centri capoluogo, e la persistenzadi micropolarità nella Marmilla e nel Sarrabus.Verso nord, nella provincia di Oristano, l’aggregazionericomprende il comune capoluogo e altri cinque centridi prima e seconda cintura intorno ad esso. Ancora mo-deste, seppure interessanti, le presenze in Marmilla, nelMontiferru e nella Planargia. Più equilibrata la configurazione del sistema produttivonella provincia di Nuoro, equidistribuito fra il comunecapoluogo, Dorgali e Siniscola, intorno ai quali gravita-no altri centri delle Baronie e delle Barbagie. Interessan-te l’emergere di una serie di realtà puntuali in sei centridell’Ogliastra e nel Marghine.Infine, nelle province più settentrionali risultano ben in-dividuabili il polo storico del comune di Sassari, intornoal quale si consolida la presenza di attività in altri ottocentri, mentre restano più isolate le attività in Goceano.Viceversa, va ampliandosi il peso relativo delle realtàgalluresi che, intorno al polo principale di Olbia, com-prendono ormai altri dieci centri. In sintesi si può notare come persistano e, in parte, sirafforzino le polarità storiche legate alle vecchie e nuovescuole d’arte, e come vadano emergendo realtà più pros-sime alle località trainanti del sistema turistico regionale.

Criticità e punti di forzaIl quadro che emerge dai dati rilevati è quello di un si-stema di piccole o micro-imprese artigiane, molto spesso

429

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 12:21 Pagina 429

coincidenti con le famiglie, caratterizzate da forme orga-nizzative molto semplificate e imperniate sulla figuradell’imprenditore factotum che accentra su di sé tutte lefunzioni produttive, organizzative e commerciali. Le com-petenze manageriali sono minime e talvolta persino in-sufficienti a risolvere problemi gestionali di base. A ciò siaggiungono spesso difficoltà di accesso al credito chesi traducono in una relativa scarsità di risorse finanzia-rie, da cui derivano limitate capacità di investimento, so-prattutto per quanto riguarda gli aspetti della commer-cializzazione e del marketing. I mercati di sbocco sonolimitati a quello regionale e turistico, con una penetra-zione minima su quello nazionale e internazionale. Nes-suna di queste imprese (con la possibile eccezione dellaCerasarda) ha mai attuato campagne pubblicitarie, né èin grado di destinare risorse umane e finanziarie alle at-tività di marketing. Normalmente non si servono di unarete distributiva ma provvedono direttamente alla conse-gna dei propri prodotti in alcuni punti vendita sul terri-torio regionale. L’atteggiamento verso il mercato è in ge-nere passivo, esprimibile con la tendenza ad “esserecomperati” piuttosto che ad andare a caccia dei compra-tori. L’attività promozionale si limita, nella maggior partedei casi, alla partecipazione ad alcune fiere.

L’ampliamento dei mercati è reso difficile anche dallascarsa disposizione delle imprese all’associazionismoconsortile, che contribuirebbe certamente al superamen-to di alcuni ostacoli. Le difficoltà di collaborazione simanifestano anche nei confronti del mondo del laterizioe della ceramica industriale, in particolare in tema di ma-terie prime, innovazione tecnologica e risparmio energe-tico ma anche di formazione professionale.Un ulteriore limite è costituito dalla scarsa riconoscibilitàdel prodotto regionale. Nonostante le difficoltà di pene-trazione nei mercati, prodotti come i tappeti, i coltelli oalcuni prodotti alimentari godono di una certa notorietàsul mercato turistico e nazionale grazie alla loro marcatacaratterizzazione identitaria. Nel settore della ceramicaartistica il prodotto risulta più difficilmente identificabileanche perché, come si è già avuto modo di osservare,le sue attuali caratteristiche sono solo in parte riconduci-bili ad una tradizione storicamente consolidata.Tuttavia, nonostante le criticità appena descritte, il setto-re presenta potenzialità non trascurabili, soprattutto sulpiano delle competenze produttive incorporate in alcu-ne imprese. Il rinnovamento delle forme verificatosi nelsecolo scorso, reso possibile dall’attività di alcuni artistie scuole d’arte, ha favorito la formazione di un know

430

Fig. D. La geografia delle produzioni secondo Movimprese. Fig. E. La geografia delle produzioni secondo ArtigianatoSardegna.

Valori assoluti11

2-3

4-5

>5

Valori assoluti11

2-3

4-5

>5

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 12:21 Pagina 430

how diffuso di buon livello sotto il profilo della creativi-tà nel design, che si riflette nell’elevata qualità di alcuniprodotti. Prova ne sia il fatto che, nonostante la genera-le flessione della domanda verificatasi nel settore a livel-lo nazionale, alcune imprese regionali con prodotti difascia high end hanno registrato una dinamica del fattu-rato abbastanza positiva.

Le politiche di interventoQuantunque sia stato oggetto di minori attenzioni ri-spetto al tessile, quello della ceramica artistica rientra frai settori dell’artigianato tipico seguiti nel passato dal-l’ISOLA. L’attività dell’Istituto si è concentrata da un latosu interventi miranti alla salvaguardia, al rinnovamentoe alla diffusione dei saperi produttivi e, dall’altro, all’am-pliamento delle opportunità di mercato.Il primo obiettivo è stato perseguito mediante la creazio-ne di Centri Pilota per la lavorazione della ceramica a cuisono attribuite funzioni di laboratori di produzione e dipunti vendita.14 L’ISOLA ha contribuito al miglioramentoe alla diffusione delle competenze fornendo supportotecnico-artistico all’attività produttiva delle cooperative,alle quali è affidata la gestione del centro, e organizzan-do corsi di formazione professionale. I Centri Pilota isti-tuiti per la ceramica artistica sono soltanto 2 (contro gli11 attivati per il settore della tessitura) situati ad Assemini(in fase di progressiva dismissione) e Oristano.Soprattutto nella prima fase della sua attività l’Ente hacercato di inserirsi nel processo di rinnovamento già inatto nel settore, promuovendo l’introduzione di innova-zioni di design con la collaborazione di artisti e desi-gner. In un settore privo di una tradizione produttiva dielevata qualità, in cui la raffinatezza del design è un im-portante fattore di competitività, questo approccio anda-va certamente nella giusta direzione.Per quanto concerne l’ampliamento dei mercati l’Istitutosi è impegnato sia in un’attività promozionale con la par-tecipazione a fiere e mostre, sia nella commercializzazio-ne diretta attraverso cinque punti vendita nel territorioregionale, situati nei quattro capoluoghi di provincia e aPorto Cervo. Sotto questo profilo l’ISOLA ha svolto unafunzione di vero e proprio intermediario commercialenel senso che acquistava una parte della produzionedelle imprese per poi rivenderla nei propri punti vendi-ta. Gli effetti di questa politica sono ambivalenti. Da unlato essa ha rappresentato per le imprese un sostegnonon indifferente, e ha consentito ad alcune di esse dipermanere sul mercato anche in situazioni di forte con-trazione della domanda. Dall’altro ha offerto uno sboccogarantito, favorendo la diffusione di atteggiamenti di-storti e finendo, di fatto, per avere un effetto disincenti-vante rispetto all’apertura di canali commerciali diretti ealla creazione di strutture associative destinate alla com-mercializzazione. L’esperienza dell’ISOLA può considerarsi ormai conclu-sa con la prevista costituzione dell’Agenzia GovernativaRegionale Sardegna Promozione istituita dalla Legge re-

gionale 11 maggio 2006, n. 4. Nelle intenzioni dell’at-tuale Giunta regionale tale agenzia dovrebbe riunire insé le competenze relative alla promozione di tutte le at-tività produttive regionali: agricole, industriali, turistichee artigianali. La creazione dell’agenzia risponde a un’esigenza di co-ordinamento generale delle attività promozionali regio-nali, inoltre si accompagna, almeno nelle dichiarazioniufficiali, a un mutamento di approccio ai problemi del-l’artigianato. Viene enfatizzata la necessità di superare lalogica assistenziale dell’esperienza precedente, lascian-do maggiore spazio all’iniziativa spontanea dei produt-tori e limitando l’azione pubblica a interventi più gene-rali e di contorno, quali azioni territoriali, di supporto almarketing e di salvaguardia della tradizione.Nel luglio del 2007 è stato inoltre approvato dalla Giuntaregionale il “Piano di azioni per l’artigianato artistico”che prevede uno stanziamento di 5 milioni di euro de-stinato a finanziare la realizzazione di un archivio digita-le delle competenze, la Biennale dell’artigianato, la Fieradel Mediterraneo, la creazione di scuole civiche e la pro-mozione di marchi di qualità per i prodotti artigianali.Le linee di intervento della politica regionale relativa-mente ai settori dell’artigianato tipico si articolano nelleseguenti direttrici generali:– informazione, sensibilizzazione e animazione;– sostegno agli investimenti di singole imprese e alla

creazione di reti aziendali;– servizi alle imprese;– innovazione tecnologica;– formazione.All’interno di queste direttrici generali sono incluse di-verse misure per lo più di incentivazione finanziaria e,in qualche caso, consistenti nell’erogazione di servizireali alle imprese. Si va dalla creazione di marchi di qua-lità all’incentivazione dello start-up di nuove imprese,dalla promozione di strutture associative con compiti dicommercializzazione alla creazione di sistemi di monito-raggio, volti a mantenere le produzioni in linea con leesigenze della domanda.Gli obiettivi che tali azioni si propongono sono abba-stanza ambiziosi, probabilmente troppo, in rapporto allerisorse stanziate per conseguirli. La varietà degli obiettiviperseguiti è, in una certa misura, giustificata perché, co-me si è già osservato, i settori dell’artigianato tipico pre-sentano esigenze non sempre omogenee. D’altro cantoquesto approccio si espone al rischio di produrre risul-tati insoddisfacenti, perché nessuno degli obiettivi pre-fissati viene perseguito con la necessaria determinazionee, soprattutto, con un’adeguata disponibilità di risorse fi-nanziarie e umane. Meglio sarebbe stabilire alcune prio-rità da affrontare immediatamente, tra le quali sarebbeopportuno includere, a nostro giudizio, la questione del-le reti associative fra le imprese e quella, strettamente le-gata, della commercializzazione sui mercati esterni. Men-tre minore importanza ha, nell’immediato, il problemadello start-up, sia perché le barriere all’entrata in questi

431

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 12:21 Pagina 431

settori sono molto basse sia perché, in assenza di unaprecedente azione promozionale, è difficile ipotizzareche i mercati presentino una dinamica compatibile conl’ingresso di nuove imprese.Non si può inoltre fare a meno di rilevare come nellafilosofia di fondo della politica regionale verso questisettori siano ancora presenti risvolti di stampo pater-nalistico, un tempo molto diffusi ma oggi, forse, menocomprensibili alla luce delle esperienze passate. L’ideasottostante è che le imprese non dispongono di com-petenze e abilità adeguate a muoversi con adeguatacompetitività sul mercato e devono essere quindi preseper mano e aiutate a conoscere meglio i mercati, le tec-nologie e quant’altro un’impresa deve sapere per essereefficiente. Questo modo di vedere le cose ha qualchefondamento se si limita a oliare i meccanismi che favo-riscono i contatti delle imprese fra loro, con i mercati ocon le istituzioni dove si generano conoscenze tecnolo-giche, organizzative e commerciali rilevanti, ma rischiadi perdere molto del suo senso quando pretende di ri-velare alle imprese le giuste soluzioni per migliorare lapropria efficienza. All’interno del pacchetto predispostodall’amministrazione regionale alcune misure lascianotrasparire un atteggiamento del secondo tipo.Per esempio, che cosa significa incentivare «l’acquisizio-ne di servizi reali finalizzati alla realizzazione di un siste-ma di monitoraggio delle produzioni, affinché risultinoin linea con le esigenze della domanda e quindi dei di-versi mercati»? Si intende forse che le imprese dovrebbe-ro essere messe in condizioni di giovarsi della consulen-za di società di servizi capaci di monitorare il mercato eindicare alle imprese quali forme e motivi nel design deivasi in ceramica sono preferiti dai consumatori? È lecitodubitare che esistano organismi in grado di svolgerequesto ruolo, fornendo alle imprese informazioni mi-gliori di quelle che esse stesse possono procurarsi attra-verso il contatto diretto con il mercato. Peggio ancora sel’idea sottostante è che questa funzione possa esseresvolta da una struttura pubblica creata ad hoc. Sottoquesto profilo le strade percorse in passato sono lastrica-te di buone intenzioni e di altrettanti insuccessi.Venendo ai problemi specifici della ceramica artistica,alcune misure potrebbero avere un impatto positivo.Per esempio, con riferimento all’innovazione tecnologi-ca, l’enfasi sull’innovazione di prodotto e di design, piut-tosto che su quella di processo, è certamente in lineacon le esigenze del settore. Così come potrebbe darequalche buon risultato l’idea di incentivare la creazionedi un “sistema artistico sardo” attraverso reti di collega-mento tra scuole delle belle arti, accademie, e artisti sar-di. Nel caso della ceramica questo aspetto riveste parti-colare importanza per i motivi esposti in precedenza. Inmancanza di connotazioni identitarie e di tipicità moltoforti che contribuiscano a differenziarli e renderli rico-noscibili sul mercato, la competitività dei prodotti dellaceramica artistica sarda dipende in misura maggiore, ri-spetto ad altre aree più caratterizzate, dalla capacità di

offrire un prodotto di elevata qualità e raffinatezza stili-stica sul piano del design. Le esperienze passate di inte-razione fra imprese e artisti anche nel settore tessile nonsono particolarmente confortanti sul piano dei risultatidi mercato. Tuttavia quell’insuccesso può essere dovutoalla mancanza di connessioni fra innovazione e marke-ting; una maggiore integrazione e coordinamento fra ledue strategie potrebbe migliorare le cose.Apprezzabile è anche l’enfasi sulla necessità di stimola-re la formazione di strutture associative e di marchicollettivi per la commercializzazione. Il problema dellaframmentazione dell’offerta e la debolezza che ne con-segue per le imprese è un problema cruciale in tutti isettori dell’artigianato tipico, e quello della ceramicanon fa eccezione. Tuttavia, anche in questo caso, i risul-tati possono essere molto diversi a seconda di come lestrategie di intervento vengono realizzate. L’aspetto im-portante è che alla base di partenza devono esserci pic-coli gruppi di imprese molto omogenee, soprattutto sot-to il profilo della qualità del prodotto, altrimenti il rischiodi comportamenti opportunistici (con le conseguenzedescritte in precedenza) è molto elevato. Inoltre, se esi-ste un’impresa leader, l’affermazione di tale leadershipdeve essere favorita e non contrastata, poiché può rap-presentare un elemento di coordinamento e di coesioneimportante.Qualche dubbio suscita invece l’introduzione di incenti-vi finanziari per lo start-up di nuove imprese. L’idea cheil motore dello sviluppo sia costituito nella maggior par-te dei casi dalla nascita di nuove iniziative è fondamen-talmente corretta ma, proprio per questo motivo, tendea essere applicata in modo acritico. In alcuni casi que-sta apparentemente ovvia verità va perlomeno discussa.In un mercato stagnante o in contrazione l’ingresso dinuove imprese non fa altro che accrescere le già notevo-li difficoltà di quelle esistenti; inoltre fa aumentare lacompetizione fra le imprese locali e tende a far prevalereuna tendenza a sopravvivere a scapito dei concorrenti.Tutto ciò può ridurre i già scarsi incentivi alla coopera-zione e all’associazionismo che, a loro volta, sono fattoriindispensabili per l’ampliamento dei mercati. Al momen-to attuale la priorità non è tanto la nascita di nuove im-prese, quanto la crescita e il consolidamento di quelleesistenti attraverso l’espansione dei mercati.Infine la politica della formazione va qualificata. Uno de-gli obiettivi dichiarati è quello di salvaguardare la tra-smissione alle nuove generazioni delle tecniche tradizio-nali che rischiano di scomparire. Questo obiettivo puòessere ritenuto meritorio in sé, indipendentemente daconsiderazioni di tipo economico (anche se nel settoredella ceramica lo è forse meno che in altri) ma è indub-bio che separare la sopravvivenza delle tecniche dal loroutilizzo produttivo ha il sapore di una sconfitta più chedi una vittoria della cultura tradizionale. La trasmissionedelle conoscenze tecniche tradizionali avviene sponta-neamente all’interno delle imprese, se esiste una conve-nienza economica a portare avanti l’attività produttiva.

432

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 12:21 Pagina 432

Se si ritiene che questo sia il modo più corretto di af-frontare la questione, la formazione tecnica, pur rima-nendo una delle linee di intervento da perseguire, vagestita con cautela perché, in una certa misura, è un al-tro modo di incentivare la nascita di nuove imprese conle conseguenze di cui si è detto. La vera priorità è lacrescita della domanda e l’ampliamento del mercato.Assumono quindi maggiore rilevanza altri tipi di forma-zione di carattere gestionale e commerciale per i pro-duttori già attivi che contribuiscano a migliorare la com-petitività delle imprese e a stimolarne l’apertura versonuovi mercati. In questi campi le competenze all’internodelle imprese della ceramica artistica sono praticamenteinesistenti, e c’è molto da fare per introdurre un minimodi capacità gestionali indispensabili non solo per la cre-scita, ma per la stessa sopravvivenza delle imprese.

Note

1. Anche se in questo caso non si può parlare di tipicità, la specifici-tà locale del prodotto si mantiene grazie a fattori di tipi pedologico egeo-climatico che costituiscono quello che viene definito il terroir(S. Lodde, A. Sassu 2004).

2. Un esempio sono certi tipi di formaggi o conserve alimentari (F. deCasabianca 2001).

3. Si pensi all’uso dei telai meccanici nella produzione di tappeti.Esempi di imitazione da parte di produttori industriali non locali sonoil limoncello e il liquore di mirto. Il primo originario di Capri è ormaiprodotto in varie regioni italiane (tra cui la Sardegna), il secondo è at-tualmente prodotto dalla Stock di Trieste.

4. La scelta per il prodotto locale può derivare anche dal suo carattere“identitario”, nel senso che il consumo diviene un elemento che concor-re alla definizione della propria identità culturale (si veda P. Resta 2003).

5. La predilezione del consumatore per il prodotto locale può dipende-re anche dalla possibilità di soddisfare preferenze molto specifiche.Un’importante fonte di vantaggio competitivo delle produzioni artigia-nali sul mercato locale è data infatti dalla flessibilità con cui l’impresa èin grado di soddisfare specifiche esigenze individuali grazie al contattodiretto con il consumatore.

6. Un problema del genere si è manifestato in Sardegna nel settore del-la produzione di miele: una grossa commessa giapponese non è anda-ta a buon fine per l’impossibilità di coordinare i produttori e metterli incondizione di soddisfarla (M.G. Curreli, S. Lodde 2005).

7. Tutta la letteratura sullo sviluppo locale analizza a fondo questoaspetto. Si vedano tra gli altri: Mercato e forze locali 1987; G. Dei Ot-tati 1987; A. Bagnasco 1988; S. Brusco 1989.

8. La domanda turistica trasmette alle imprese informazioni sui gusti diconsumatori diversi da quelli a cui sono avvezze. Nello stesso tempo ilturista apprezza la tipicità dei prodotti e i loro legami con la cultura lo-cale. Per questo motivo la domanda turistica può stimolare forme di in-novazione di prodotto che integrano gusti e preferenze proprie deimercati esterni con la tradizione produttiva locale. Si pensi all’evoluzio-ne del design nella ceramica artistica o al migliorameno qualitativo dialcuni prodotti alimentari come i vini.

9. Si veda a questo proposito L’ultima spiaggia 2002.

10. La classificazione ATECO è lo schema di classificazione delle atti-vità produttive utilizzato dall’ISTAT che costituisce un adattamentodella Nomenclatura delle attività economiche creata dall’EUROSTAT.

11. Il comparto include le seguenti attività produttive: fabbricazione divasellame e di altri articoli di uso domestico di ceramica; fabbricazio-ne di statuette e di altri articoli ornamentali di ceramica; fabbricazionedi ceramica artistica e tradizionale; fabbricazione di porcellane.

12. Il sito è curato dalla Carlo Delfino editore.

13. La non confrontabilità delle due serie appare immediatamente an-che in base a un esame approssimativo dell’andamento temporale del-la serie censuaria, a giudicare dal quale riesce difficile ipotizzare chepossa essersi verificato un aumento di circa il 60% nel numero delleimprese fra il 2001 e il 2005.

14. I Centri Pilota sono finanziati con contributi della Regione Autono-ma della Sardegna e dell’Unione Europea.

658

659

658. Salvadanaio, Assemini, sec. XIXterracotta, Ø 8,7 cm, Nuoro, collezione privata.

659. Salvadanaio, Assemini, anni Cinquanta sec. XXterracotta invetriata, lungh. 18,5 cm, Nuoro, collezione privata.

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 12:21 Pagina 433

434

1865

A. Boullier, L’île de Sardaigne, description, histoi-re, statistique, moeurs, état social, Paris 1865.

1867

E. Domenech, Bergers et bandits. Souvenirs d’unvoyage en Sardaigne, Paris 1867; trad. it. e pref.di R. Carta Raspi, Pastori e banditi, Cagliari 1930.

1869

F. Aventi, Due mesi in Sardegna, escursione agra-ria fatta nella primavera del 1869, Bologna 1869.H. von Maltzan, Reise auf der Insel Sardiniennebst einem Anhang über die phönicischen In-schriften Sardiniens, Leipzig 1869; trad. it. di G.Prunas Tola, Il Barone di Maltzan in Sardegnacon un’appendice sulle iscrizioni fenicie dell’iso-la, Milano 1886.

1871

Inaugurazione della officina ceramica, Cagliari1871.

1872

Atti del comitato direttivo per l’Esposizione Sarda,Cagliari 1872.

1874

Atti del Comitato della Seconda Esposizione Sar-da, Sassari 1874.

1877

C. Corbetta, Sardegna e Corsica, Milano 1877.

1879

C. Piccolpasso, I tre libri dell’arte del vasajo, Pe-saro 1879.

1881

E. Vacca Odone, Itinerario generale dell’isola diSardegna, Cagliari 1881.

1884

D. Lovisato, Nota sopra le piccole industrie dellaSardegna, Torino 1884.E. Roissard de Bellet, La Sardaigne à vol d’oiseauen 1882, son histoire, ses moeurs, sa géologie, sesrichesses métallifères et ses productions de toutesorte, Paris 1884.

1885

G. Corona, “La ceramica in Sardegna”, in L’av-venire di Sardegna, nn. 53-54, Cagliari, 3-4 mar-zo 1885.

1888

G. Serafino, Ricordi della Sardegna, Torino 1888.

1892

P. Cugia, Nuovo Itinerario dell’Isola di Sardegna,Ravenna 1892.

1893

G. Vuillier, Les îles oubliées: les Baléares, la Corseet la Sardaigne, impressions de voyage illustréespar l’auteur, Paris 1893; trad. it. di M. Maulu, conpref. di A. Romagnino, Le isole dimenticate. LaSardegna, Nuoro 2002.

1833

V. Angius, voci riguardanti la Sardegna, in G. Ca-salis, Dizionario geografico-storico-statistico-com-merciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, To-rino 1833-56, voll. 31; riedito a cura di L. Carta,Città e villaggi della Sardegna dell’Ottocento,Nuoro 2006, voll. 3.

1837

Valery (A.C. Pasquin), Voyages en Corse, à l’îled’Elbe et en Sardaigne, Paris 1837; trad. it. e pref.di R. Carta Raspi, Viaggio in Sardegna, Cagliari1931; trad. it. e cura di M.G. Longhi, Viaggio inSardegna, Nuoro 1996.

1838

G.F. Fara [ms. 1586], De Chorografia Sardiniae,Libri duo, a cura di V. Angius, Cagliari 1838.

1841

B. Luciano, Cenni sulla Sardegna: ovvero, usi, co-stumi, amministrazione, industria e prodotti del-l’isola, con 60 litografie, Torino 1841.

1842

G. Manno, Storia moderna della Sardegna dal-l’anno 1773 al 1799, tomi I-II, Torino 1842; rie-dito a cura di A. Mattone, con revisione biblio-grafica di T. Olivari, Nuoro 1998.

1849

J.W. Tyndale, The Island of Sardinia, includingpictures of the manners and customs of the Sar-dinians, and notes on the antiquities and mo-dern objects of interest in the island: to which isadded some account of the house of Savoy, Lon-don 1849, voll. 3; trad. it. e cura di L. Artizzu,L’isola di Sardegna, Nuoro 2002, voll. 2.

1850

A. Bresciani, Dei costumi dell’isola di Sardegnacomparati cogli antichissimi popoli orientali, Na-poli 1850, voll. 2; riedito a cura di B. Caltagiro-ne, Nuoro 2001.

1851

G. Spano, Vocabolariu Sardu-Italianu, Vocabo-lario Italiano-Sardo, Cagliari 1851-52; riedito acura di G. Paulis, Nuoro 1998, voll. 4.

1855

E. Delessert, Six semaines dans l’île de Sardaigne,Paris 1855.

1856

G. Torchiani, L’isola di Sardegna e le sue natura-li produzioni, Sassari 1856.

1860

A. Della Marmora, Itinéraire de l’Ile de Sardai-gne, pour faire suite au Voyage en cette contrée,Turin 1860, voll. 2; trad. it. e cura di M.G. Lon-ghi, Itinerario dell’isola di Sardegna, Nuoro1997, voll. 3.

1864

Prima Relazione sovra la statistica e l’andamentodel commercio e delle industrie della provincia diCagliari nel 1863, a cura della Camera di Com-mercio ed Arti di Cagliari, Cagliari 1864.

1550

S. Arquer, “Sardiniae brevis historia et descrip-tio”, in S. Münster, Cosmographia universalis, Ba-silea 1550.

1580

G.F. Fara, De rebus Sardois, liber primus, Cagliari1580.

1777

A. Lambert, Raccolta di osservazioni curiose soprala maniera di vivere, i costumi, gli usi e il caratte-re dei differenti popoli di Europa, Venezia 1777.

1780

J. Fuos, Nachrichten aus Sardinien von der ge-genwärtigen. Verfassung dieser Insel, Leipzig1780; trad. it. di P. Gastaldi Millelire, La Sardegnanel 1773-1776 descritta da un contemporaneo,Cagliari 1899; riedito a cura di G. Angioni, Noti-zie dalla Sardegna, Nuoro 2000.

1792

M. Madao, Dissertazioni storiche, apologetiche,critiche delle sarde antichità, Cagliari 1792.

1802

D.A. Azuni, Histoire géographique, politique etnaturelle de la Sardaigne, Paris 1802, voll. 2.

1805

G.M. Mameli de’ Mannelli, Le costituzioni di Eleo-nora giudicessa d’Arborea intitolate “Carta de Lo-gu”, Roma 1805.

1825

J.F. Mimaut, Histoire de Sardaigne ou la Sardai-gne ancienne et moderne, considerée dans seslois, sa topographie, ses productions et ses moeurs,Paris 1825, voll. 2.

1826

A. Della Marmora, Voyage en Sardaigne, Paris1826; trad. it. di V. Martelli, Viaggio in Sardegna,Cagliari 1926-27.

1827

S. De Saint-Severin, Souvenirs d’un séjour en Sar-daigne pendant les années 1821 et 1822 ou noti-ce sur cette île, Lyon 1827.

1828

W.H. Smyth, Sketch of the present state of the Is-land of Sardinia, London 1828; trad. it. di T. Car-done, a cura di M. Brigaglia, Relazione sull’isoladi Sardegna, Nuoro 1998.

1832

V. Porru, Nou Dizionariu universali Sardu-Italia-nu, Cagliari 1832; riedito a cura di M. Lorinczi,Nuoro 2002.

Bibliografia

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 12:21 Pagina 434

1896

A. Cionini, La Sardegna, Parma 1896.

F. Corona, Guida storico-artistica-commercialedell’isola di Sardegna, Bergamo 1896.

1899

F. De Rosa, Tradizioni popolari di Gallura. Usi ecostumi, Tempio-Maddalena 1899; riedito a curadi A. Mulas, Nuoro 2003.

1901

F. Mameli, Relazione di un viaggio in Sardegnacompiuto nel 1829 dall’ing. Francesco Mameli, acura dell’Associazione Mineraria Sarda, Iglesias1901.

1902

P. Amat di San Filippo, Indagini e studi della Sto-ria Economica della Sardegna, opera postuma,Torino 1902.

1911

G. Bistolfi, “Padiglione sardo – Roma Esposizio-ne 1911”, in La Tribuna Illustrata, Milano, 16 ot-tobre 1911.

Catalogo della mostra di etnografia italiana inPiazza d’armi, Bergamo 1911.

1915

V. Alinari, In Sardegna. Note di viaggio, Firenze1915.

1916

Dola, “La I Esposizione artistica sarda a Sassari.Le mostre individuali”, in L’Unione Sarda, Caglia-ri, 29 settembre 1916.

“La mostra artistica Sarda”, in La Nuova Sarde-gna, Sassari, 28-29 settembre 1916.

1919

N. Alberti, “Gli artisti di Sardegna dopo la guer-ra”, in Il Giornale d’Italia, Roma, ottobre 1919.

1921

F.F. (F. Figari), “La Mostra d’Arte Sarda”, inL’Unione Sarda, Cagliari, 16 giugno 1921.

G. Massidda, “La Mostra d’Arte Sarda”, in L’Unio-ne Sarda, Cagliari, 31 maggio 1921.

Mostra d’arte promossa dal Circolo universitariocattolico, Cagliari maggio 1921. Catalogo delleopere, Cagliari, 1921.

M.L. Wagner, Das ländliche Leben Sardiniens imSpiegel der Sprache. Kulturhistorisch-sprachlicheUntersuchungen, Heidelberg 1921; trad. it. e curadi G. Paulis, La vita rustica della Sardegna rifles-sa nella lingua, Nuoro 1996.

1922

P. Ducati, Storia della ceramica greca, Firenze1922.

1923

P. Massoli, “Francesco Ciusa”, in L’Unione Sarda,Cagliari, 5 settembre 1923.

R. Papini, “La mostra delle arti decorative a Mon-za”, in Emporium, vol. LVIII, n. 341, Bergamo,maggio 1923.

P. Sinopico, “Le ceramiche di Francesco Ciusa”,

in Le arti decorative, a. I, n. 4, Milano, 20 agosto1923.

A. Taramelli, “Cronaca delle Belle Arti. DirezioneGenerale delle Antichità e Belle Arti”, in Bolletti-no d’Arte, Roma 1923.

1925

“Agli artisti sardi”, in La Nuova Sardegna, Sassari,6-7 agosto 1925.

“Arte Sarda, maioliche artistiche sarde a gran fuo-co”, in Il Giornale d’Italia, Roma, 24 dicembre1925.

G. Fanciulli, “Feste d’arte e di fede a Cagliari”, inL’Illustrazione Italiana, n. 20, Milano 1925, pp.405-408.

A. Manca, “La Sardegna alla fiera campionaria diMilano”, in La Nuova Sardegna, Sassari, 29-30aprile 1925.

“Melkiorre Melis alla II Biennale”, in La NuovaSardegna, Sassari, 4-5 luglio 1925.

N. Ordioni Siotto, “Un artista e il suo lavoro”, inIl Giornale d’Italia, Roma, 31 luglio 1925.

1926

A.P. Branca, La vita economica della Sardegnasabauda (1720-1773), Messina 1926.

R. Di Tucci, Le corporazioni artigiane della Sar-degna, Cagliari 1926.

S. Prunas de Quesada, “Le ceramiche di FedericoMelis”, in Il Giornale d’Italia, Roma, 12 dicembre1926.

1927

R. Carta Raspi, Artisti, poeti e prosatori di Sarde-gna, Cagliari 1927.

A. Lancellotti, “La III Mostra delle Arti Decorativea Monza. Gli italiani: le botteghe, le mostre per-sonali, i gruppi”, in Corriere d’Italia, Roma, 3settembre 1927.

Lo sviluppo economico della Sardegna, a curadella Giunta esecutiva per la partecipazione dellaSardegna alla Fiera Internazionale di Milano, Ca-gliari 1927.

S. Ruinas, “Un artefice della ceramica sarda: Fede-rico Melis”, in L’Impero, Roma, 25 giugno 1927.

D. Scano, “La bottega d’arte ceramica in Cagliari”,in Mediterranea, vol. 1, n. 11-12, Cagliari 1927,pp. 66-72.

1928

G. Fanciulli, “Scrittori e Artisti di Sardegna”, in IlGiornale d’Italia, Roma, 12 settembre 1928.

A. Imeroni, Piccole industrie sarde, Milano-Roma1928.

C. Mariotti, “Arte Sarda e Artisti di Sardegna”, inItalia Augusta, a. V, n. 10, Roma, settembre 1928,pp. 3-11.

N. Valle, “Dall’informe creta”, in Fontana viva, a.VI, Cagliari, febbraio-marzo 1928, pp. 10-14.

1929

A. Imeroni, “Mostra d’arte di Cagliari”, in Medi-terranea, n. 6, Cagliari 1929, pp. 16-30.

Mostra d’arte di Cagliari (Cagliari, Palazzo del co-mune, 29 aprile-30 maggio 1929), Cagliari 1929.

1930

Cagliari. Cenni storici, bellezze artistiche e pano-ramiche, Cagliari 1930.

E. Serretta, “Arte sarda che rifiorisce”, in La lettura,vol. XXX, n. 3, Milano, marzo 1930, pp. 230-233.

1931

“Alla Mostra d’Arte sacra”, in Il popolo di Roma,Roma, 31 gennaio 1931.

Caolini e argille refrattarie della Sardegna. Mate-rie prime nazionali, Cagliari 1931.

P.A. Manca, “Armonie d’anime e di colori allaMostra d’Arte regionale”, in L’Unione Sarda, Ca-gliari, 3 giugno 1931.

II Mostra del sindacato regionale fascista bellearti della Sardegna, catalogo (Cagliari, Palazzodel comune, 1 maggio-15 giugno 1931), Cagliari1931.

Prima quadriennale d’arte nazionale, catalogo(Roma, Palazzo delle esposizioni, gennaio-giu-gno 1931), Roma 1931.

1932

N. Valle, “Un ceramista: Federico Melis”, in Mat-tino sugli asfodeli, pref. di P. Orano, Roma 1932.

1933

G. Gabriel, “Nuove ceramiche di Melchiorre Me-lis”, in L’Unione Sarda, Cagliari, 23 aprile 1933.

A. Taramelli, E. Lavagnino, Il museo “G.A. San-na” di Sassari, Roma 1933.

1934

F. D’Austria-Este, Descrizione della Sardegna(1812), a cura di G. Bardanzellu, Roma 1934.

1935

G.U. Arata, G. Biasi, Arte Sarda, Milano 1935.

1937

R. Branca, “Arte in Sardegna”, in Augustea. Poli-tica, economia, arte, n. 20, Roma 1937.

C. De Danilowicz, “La genesi di alcuni motivi or-namentali dell’arte rustica”, in Lares, vol. 9, n. 1,Roma 1937.

1939

A. Minghetti, Serie 41. Ceramisti, Milano 1939.

1940

C. De Danilowicz, “Pianta topografica dell’arterustica e dell’artigianato rurale della Sardegna”, inLares, a. XI, fasc. IV, Roma 1940, pp. 407-427.

1941

M. Le Lannou, Pâtres et paysans de la Sardaigne,Tours 1941; trad. it. a cura di M. Brigaglia, Pasto-ri e contadini della Sardegna, Cagliari 1979.

P. Toschi, Guida allo studio delle tradizioni po-polari, Roma 1941.

1943

M. Azara, Tradizioni popolari della Gallura. Dal-la culla alla tomba, Roma 1943.

P. Toschi, “Le tradizioni popolari della Gallura”,in Lares, vol. 14, n. 1, Roma 1943.

1944

M. González Martí, Cerámica del levante español.Siglos medievales, Barcelona 1944.

435

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 12:21 Pagina 435

436

1945

P. Toschi, Saggi sull’arte popolare, Roma 1945.

1946

V. Mossa, Novecento stile sardo e così via, Sassari1946.

1950

P. Cintas, Ceramique punique, Paris 1950.

R. Delogu, La sezione etnografica “Gavino Cle-mente” del Museo Nazionale “G.A. Sanna” di Sas-sari, Sassari 1950.

Mostra regionale dell’artigianato delle piccole in-dustrie e delle materie prime della Sardegna (Sas-sari, 15 agosto-2 settembre 1950), Sassari 1950.

M.L. Wagner, La lingua sarda. Spirito e forma,Bern, s.d. [1950]; riedito a cura di G. Paulis, Nuoro1997.

1951

“Melkiorre Melis, con oltre 100 pezzi di pittura eceramica”, in Gazzetta sarda, Sassari, 28 maggio1951.

E. Tavolara, “Arte popolare e artigianato”, in IlPonte, a. VII, n. 9-10, Firenze 1951.

E. Tavolara, “Melkiorre Melis, pittore e ceramista”,in La Nuova Sardegna, Sassari, 27 maggio 1951.

1952

V. Mossa, Bacini ceramici di Sardegna, Faenza1952.

N. Tola, “Melkiorre Melis, pittore e ceramista”, inIl Giornale d’Italia, Roma, 26 giugno 1952.

1956

R. Branca, “L’arte popolare in Sardegna”, in Lares,Firenze 1956.

S. Cambosu, “Note sull’arte rustica, contributo allostudio dell’artigianato in Sardegna”, in Ichnusa,vol. 4, n. 15, Sassari, 31 dicembre 1956.

R. Carta Raspi, Il volto della Sardegna, Cagliari1956.

L. Macciardi, “Alcuni problemi dell’artigianatosardo. Contributo allo studio dell’artigianato inSardegna”, in Ichnusa, vol. 4, n. 15, Sassari, 31dicembre 1956.

E. Martinotti, Il ceramista. Metodi pratici. Argille eimpasti, preparazione delle crete, arnesi e attrez-zature, Milano 1956.

1957

“A Sassari, mostra dell’artigianato sardo”, in Do-mus, n. 328, Milano, marzo 1957.

F. Alziator, Il folklore sardo, Cagliari 1957.

N. Calvini, E. Putzulu, V. Zucchi, Documentiinediti sui traffici commerciali tra la Liguria e laSardegna nel secolo XIII, Padova 1957.

V. Mossa, Architettura domestica in Sardegna,Cagliari 1957.

1958

Artigianato di Sardegna, Cagliari 1958.

1959

U. Badas, E. Tavolara, “L’artigianato in Sardegna”,in Commissione economica di studio per il Piano

di Rinascita della Sardegna, Allegato al RapportoConclusivo, vol. II, Cagliari 1959.

M.U. Bigi, “Modernità e tradizione nelle cerami-che sarde”, in La ceramica. L’industria della ce-ramica e silicati, a. XIV, n. 7, Milano, luglio 1959.

P. Careddu, “Nelle preziose ceramiche di Tiloc-ca figure e simboli di un’antica Sardegna”, in LaNuova Sardegna, Sassari 1959.

XVII Concorso nazionale della ceramica. Sezioneinternazionale, catalogo (Faenza, 27 giugno-12luglio 1959), Faenza 1959.

La ceramica. Rivista mensile dell’Associazionenazionale degli industriali della ceramica e degliabrasivi, a. XIV, n. 7, Milano, luglio 1959.

1960

P. Toschi, Arte popolare italiana, Roma 1960.

M.L. Wagner, Dizionario Etimologico Sardo, Hei-delberg 1960-64, voll. 3.

1961

F. Loddo Canepa, Statuti inediti di alcuni gremisardi. 1) Sarti, carradori, bottai, terraioli e scari-catori di vino di Cagliari; 2) Muratori e figoli diOristano; 3) Cavallanti e muratori di Sassari, Pa-dova 1961.

1962

V. Brosio, Porcellane e maioliche italiane dell’Ot-tocento, Milano 1962.

Documenti inediti relativi ai rapporti economicitra la Sardegna e Pisa nel Medioevo, a cura di F.Artizzu, vol. 2, Padova 1962.

VI Mostra artigianato sardo (Sassari, 26 maggio-14 giugno 1962), Sassari 1962.

A. Sacchetti, “Astrazione e Simbolismo dell’orna-mentazione”, in Rivista di etnografia, vol. 16, Na-poli 1962.

1963

R. Alexander, Relazione finale del servizio artigia-nato “Progetto Sardegna” – O.C.S.E. (1957-1962),Cagliari 1963 (ciclostilato).

Il Convegno, a. 16, n. 10-11, Cagliari, ottobre-no-vembre 1963.

La ceramica. Rivista mensile dell’Associazionenazionale degli industriali della ceramica e de-gli abrasivi, a. XVIII, n. 10, Milano, ottobre 1963.

1964

T. d’Albisola (Tullio Mazzotti), La ceramica popo-lare ligure, Milano 1964.

F. Fois, “Malata di improvvisazione la ceramicasarda non conosce più gli splendori del passato,in decadenza l’importante settore dell’artigiana-to”, in L’Unione Sarda, Cagliari 1964.

1965

G. Cabiddu, Usi, costumi, riti, tradizioni popolaridella Trexenta, Cagliari 1965.

D. Mameli, Vita, usi e costumi del Sarrabus, Ca-gliari 1965.

G. Tucci, “Vecchio e nuovo artigianato in Sarde-gna”, in Archivio per l’antropologia e l’etnologia,vol. XCV, Firenze 1965.

1966

M. Ciusa Romagna, “Arte e artigianato in Sarde-

gna”, in Almanacco della Sardegna, Cagliari 1966,pp. 137-144.

1969

M.L. Plaisant, Martin Carrillo e le sue relazionisulle condizioni della Sardegna, Sassari 1969.

1970

A.M. Bisi, La ceramica punica: aspetti e problemi,Napoli 1970.

1971

Atlante della Sardegna, a cura di R. Pracchi, A.Terrosu Asole, con la direzione cartografica di M.Riccardi, vol. 1, Cagliari 1971.

L. Neppi Modona, Viaggiatori in Sardegna, Ca-gliari 1971.

G. Pecorini, “Litologia”, in Atlante della Sardegna,a cura di R. Pracchi, A. Terrosu Asole, con la dire-zione cartografica di M. Riccardi, vol. 1, Cagliari1971, pp. 9-11.

1973

C. Bellieni, La Sardegna e i sardi nella civiltà del-l’alto Medioevo, Cagliari 1973.

A. Boscolo, I viaggiatori dell’Ottocento in Sarde-gna, Cagliari 1973.

G. Profeta, “La logica del recipiente. Ricerca sufunzionalismo e antropomorfismo vascolari”, inLares, vol. 39, n. 3-4, Roma, settembre 1973.

N. Valle, “Federico Melis, ceramista di valore na-zionale. Con la sua opera elevò a dignità d’arte latradizione paesana dell’artigianato sardo”, in Sar-degna fieristica, n. 12, Cagliari 1973.

1976

G. Angioni, Sa laurera. Il lavoro contadino in Sar-degna, Cagliari 1976.

50 anni di arte decorativa e artigianato in Italia.L’ENAPI dal 1925 al 1975, a cura di R. Badas, P.Frattali, Roma 1976.

Artigianato in Sardegna, a cura dell’ENAPI, Mila-no-Roma 1976.

B. Bandinu, G. Barbiellini Amidei, Il re è un fetic-cio, Milano 1976; riedito con pref. di P. Cerchi,Nuoro 2003.

R. Bosi, Storia della ceramica: Europa, Oriente,Africa, America, Faenza 1976.

M. Brigaglia, “La Sardegna dal periodo fascista al-l’autonomia regionale (1922-1974)”, in La Sarde-gna contemporanea, Cagliari 1976, pp. 314-359.

T. Carta, Artigianato, Handicraft, Artisanat,Handwerk in Sardegna, a cura dell’ENAPI, Roma1976.

A.M. Cirese, Cultura egemonica e culture subal-terne, Palermo 1976.

E. Contu, M.L. Frongia, Il nuovo Museo Nazionale“Giovanni Antonio Sanna” di Sassari, Roma 1976.

L. Piloni, E. Putzulu, Fascino di Sardegna. Acque-relli di Simone Manca di Mores 1878-1880, Roma1976.

G. Tore, Il Museo della Vita e delle Tradizioni po-polari sarde, Nuoro 1976.

1977

A.M. Cirese, Oggetti, segni, musei. Sulle tradizio-ni contadine, Torino 1977.

A. Usai, Vocabolario tempiese italiano, italianotempiese, Sassari 1977.

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 12:21 Pagina 436

437

Anonimo Piemontese, Descrizione dell’Isola diSardegna, a cura di F. Manconi, Milano 1985.

D.E. Arnold, Ceramic Theory and Cultural Pro-cess, Cambridge 1985.

G. Carta Mantiglia, A. Tavera, Guida breve alla se-zione etnografica del Civico Museo archeologicoed etnografico di Ittireddu, Ozieri 1985.

N. Corradini, Semiotica e comunicazione visiva,Pisa 1985.

1986

G. Angioni, Il sapere della mano. Saggi di antro-pologia del lavoro, Palermo 1986.

M.B. Annis, L. Jacobs, “Ethnoarchaeological re-search pottery production in Oristano (Sardinia).Relationships between raw materials, manufactu-ring techniques and artifacts”, in Newsletter Depar-tment Pottery Technology University of Leiden, vol.4, Leiden 1986, pp. 56-85.

A. Appadurai, The social life of the things: com-modities in cultural perspective, Cambridge 1986.

G. Bronitsky, “The use of materials science tech-niques in the study of pottery construction anduse”, in Advances in archaeological method andtheory, a cura di M.B. Schiffer, n. 9, Orlando1986, pp. 209-276.

G. Bronitsky, R. Hamer, “Experiments in ceramictechnology: the effects of various tempering ma-terial on impact and thermal shock resistance”,in American Antiquity, n. 51, Washington 1986,pp. 89-101.

J. Day, “Sassari e il Logudoro nell’economia me-diterranea nei secoli XI-XIV”, in Gli Statuti Sas-saresi. Economia, società, istituzioni a Sassarinel Medioevo e nell’Età Moderna, Atti del Conve-gno di studi (Sassari, 12-14 maggio 1983), a curadi A. Mattone, M. Tangheroni, Cagliari 1986, pp.37-44.

R. Exel, Sardinien, Geologie, Mineralogie, Lager-stätten, Bergbau (Sammlung Geologischer Führer80), Berlin 1986.

C. Fiocco, Storia dell’arte ceramica, Bologna 1986.

A.M. Giuntella, “Cultura, materiali e fasi storichedel complesso archeologico di Cornus: primi ri-sultati di una ricerca. I materiali ceramici”, in L’ar-cheologia romana e altomedievale nell’Oristanese,Atti del Convegno (Cuglieri, 22-23 giugno 1984),Taranto 1986, pp. 135-146.

F. Hamer, The potter’s dictionary of materials andtechniques, London 1983.

Il Museo Sanna in Sassari, Sassari 1986.

“Società e cultura in Sardegna nei periodi orien-talizzante ed arcaico (fine VIII sec. a.C.-480 a.C.).Rapporti tra Sardegna, fenici, etruschi e greci”, inUn millennio di relazioni fra la Sardegna e i pae-si del Mediterraneo, Atti del I Convegno di studi(Selargius-Cagliari, 29-30 novembre-1 dicembre1985), Cagliari 1986.

Traffici micenei nel Mediterraneo. Problemi stori-ci e documentazione archeologica, Atti del Con-vegno (Palermo, 11-12 maggio, 3-6 dicembre1984), a cura di M. Marazzi, S. Tusa, L. Vagnetti,Taranto 1986.

1987

M.B. Annis, H. Geertman, “Production and distri-bution of cooking ware in Sardinia”, in Newslet-ter Department of Pottery Technology Universityof Leiden, vol. 5, Leiden 1987, pp. 154-196.

“La Sardegna nel Mediterraneo tra il secondo e ilprimo millennio a.C.”, in Un millennio di rela-zioni fra la Sardegna e i paesi del Mediterraneo,

1978

A. Boscolo, La Sardegna Bizantina e alto-giudi-cale, Sassari 1978.

G. Bottiglioni, Vita sarda, a cura di G. Paulis, M.Atzori, Sassari 1978.

E. Delitala, Come fare ricerca sul campo: esempidi inchiesta sulla cultura subalterna in Sardegna,Cagliari 1978.

1979

N. Caruso, Ceramica viva. Manuale pratico delletecniche di lavorazione antiche e moderne, del-l’Oriente e dell’Occidente, Milano 1979.

D. Frau, Il villaggio di Pabillonis nella prima me-tà del secolo XIX, sotto l’aspetto economico, socia-le, amministrativo, tesi di laurea, Cagliari, Univer-sità degli Studi, a.a. 1979-80.

M. Le Lannou, Pastori e contadini di Sardegna, acura di M. Brigaglia, Cagliari 1979.

F. Marzinot, Ceramica e ceramisti di Liguria, Ge-nova 1979.

1980

Atlante della Sardegna, a cura di R. Pracchi, A.Terrosu Asole, con la direzione cartografica di M.Riccardi, vol. 2, Roma 1980.

P. Clemente, “L’arte popolare nell’attuale prospet-tiva critica”, in Nuove conoscenze e prospettive delmondo dell’arte, supplemento EUA (EnciclopediaUniversale dell’Arte), Novara 1980-84, pp. 530-549.

Opere di ceramisti sardi, presentate dalle Cameredi commercio industria artigianato e agricolturadelle province di Cagliari e Oristano. Salone inter-nazionale della ceramica, della porcellana e delvetro (Vicenza, 9-12 febbraio 1980), Cagliari 1980.

L. Orrù, “Donna, casa e salute nella Sardegna tra-dizionale”, in Quaderni sardi di storia, a. 1, Ca-gliari, luglio-dicembre 1980.

P. Scheuermeier, Il lavoro dei contadini, culturamateriale e artigianato rurale in Italia e nella Sviz-zera italiana e retoromanza, Milano 1980, voll. 2.

1981

L. Balletto, “Documenti notarili liguri relativi allaSardegna (secc. XII-XIV)”, in La Sardegna nelmondo mediterraneo, Atti del I Convegno Inter-nazionale di studi geografico-storici, Sassari 1981.

M. Brigaglia, “Alcuni caratteri della storia mediter-ranea della Sardegna”, in La Sardegna nel mondomediterraneo. Gli aspetti storici, vol. II, Sassari1981.

E. Endrich, “Federico Melis, un illustre ceramistaisolano”, in Almanacco di Cagliari, n. 16, Caglia-ri 1981.

J. Giacomotti, O. Ferrari, V. Montefusco, Maioli-che e porcellane italiane, Milano 1981.

J. Giacomotti, A. Wilson Frothingham, J.M. dosSantos Simoes, Maioliche e porcellane. Francia,Spagna, Portogallo, Milano 1981.

C. Varaldo, “Rapporti tra Savona e la Sardegnanord-occidentale tra XV e XVI secolo”, in La Sar-degna nel mondo mediterraneo. Gli aspetti storici,vol. II, Sassari 1981.

1982

G. Angioni, “La cultura tradizionale”, in La Sarde-gna, a cura di M. Brigaglia, vol. 2, Cagliari 1982,pp. 5-39.

Le opere e i giorni: contadini e pastori nella Sar-degna tradizionale, a cura di F. Banconi, G. An-

gioni, Cinisello Balsamo 1982.

Magna Grecia e mondo miceneo: nuovi docu-menti, a cura di L. Vagnetti, catalogo della mo-stra, Taranto 1982.

D.P.S. Peacock, Pottery in the Roman world: anethno-archaeological approach, London-NewYork 1982; trad. it. a cura di G. Pucci, La cerami-ca Romana tra archeologia ed etnografia, S. Spi-rito 1997.

A. Terrosu Asole, “Il paesaggio di pianura e ilmondo contadino”, in La Sardegna, a cura di M.Brigaglia, vol. 1, Cagliari 1982, pp. 69-72.

1983

G. Angioni, “La cultura popolare”, in La provin-cia di Cagliari. Ambiente, Storia, Cultura, Milano1983, pp. 270-272.

P. Bartoloni, Studi sulla ceramica fenicia e puni-ca di Sardegna, Roma 1983.

P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gu-sto, Bologna 1983.

D. Braun, “Pots and tools”, in ArchaeologicalHammers and Theories, a cura di A.S. Keene,J.A. Moore, New York 1983, pp. 107-134.

M.G. Da Re, “I ceramisti di Assemini”, in Il lavorodei sardi, a cura di F. Manconi, Sassari 1983, pp.176-188.

Il lavoro dei sardi, a cura di F. Manconi, Sassari1983.

L. Lao, Artigianato artistico sardo. Tradizione einnovazione, Milano 1983.

L’arte del vasaio. La ceramica d’uso fatta a manoin Italia (Urbania, Palazzo ducale, 30 luglio-25settembre 1983), Roma 1983.

G. Paulis, Lingua e cultura nella Sardegna bizan-tina. Testimonianze linguistiche dell’influsso greco,Sassari 1983.

N. Spinosa, Le porcellane di Capodimonte, Mila-no 1983.

C. Varaldo, “Catini medievali nell’architettura reli-giosa sassarese”, in Atti del XII Convegno interna-zionale della ceramica. Albisola, Genova 1983.

1984

G. Angioni, “Tecnica e sapere tecnico nelle pro-duzioni preindustriali”, in La ricerca folklorica:contributi allo studio della cultura delle classi po-polari, n. 9, Brescia, aprile 1984, pp. 61-69.

M.B. Annis, “Pots in Oristano: a lesson for the ar-chaeologist”, in Newsletter Department Pottery Te-chnology University of Leiden, vol. 2, Leiden 1984,pp. 32-51.

A. van As, “Reconstructing the potter’s craft”, inThe Many Dimensions of Pottery. Ceramics inArchaeology and Anthropology, a cura di S.E.van der Leeuw, A.C. Pritchard, Amsterdam 1984,pp. 129-160.

H. Balfet, “Methods of formation and the shapeof pottery”, in The Many Dimensions of Pottery.Ceramics in Archaeology and Anthropology, a cu-ra di S.E. van der Leeuw, A.C. Pritchard, Amster-dam 1984, pp. 172-201.

1985

M.B. Annis, “Ethnoarchaeological research. Wa-ter vessels in Sardinia”, in Newsletter DepartmentPottery Technology University of Leiden, vol. 3,Leiden 1985, pp. 43-94.

M.B. Annis, “Resistance and Change: Pottery Ma-nufacture in Sardinia”, in World Archaeology, vol.17, n. 2, London 1985, pp. 240-255.

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 12:21 Pagina 437

438

Atti del II Convegno di studi (Selargius-Cagliari,27-30 novembre 1986), a cura di G. Lai, G. Lilliu,G. Ugas, Cagliari 1987.

M. Brigaglia, “La geografia nella storia della Sar-degna”, in Storia dei Sardi e della Sardegna, acura di M. Guidetti, vol. 1, Milano 1987, pp. 1-39.

G. Dei Ottati, “Il mercato comunitario”, in Mer-cato e forze locali. Il distretto industriale, a curadi G. Becattini, Bologna 1987, pp. 117-141.

Il Museo Etnografico di Nuoro, Cinisello Balsamo1987.

K. International ceramics magazine. Rivista bi-mestrale, diretta da F. Coppola, a. 1, n. 1, Milano1987.

Mercato e forze locali. Il distretto industriale, a cu-ra di G. Becattini, Bologna 1987.

F. Marzinot, Ceramica e ceramisti di liguria, Ge-nova 1987.

D. Salvi, “La maiolica arcaica del pozzo medievaledi Bia ’e palma, a Selargius (Cagliari)”, in Quader-ni della Soprintendenza Archeologica per le Pro-vince di Cagliari e Oristano, n. 2, Cagliari 1987,pp. 151-160.

1988

G. Angioni, A. Sanna, “Sardegna”, in L’architettu-ra popolare in Italia, Roma-Bari 1988.

M.B. Annis, “Modes of production and the useof space in potters workshops in Sardinia: achanging picture”, in Newsletter Department Pot-tery Technology University of Leiden, vol. 6, Lei-den 1988, pp. 47-77.

M.B. Annis, “Pots and potters in Sardinia: tradi-tion and innovation”, in Töpfereiforschung zwi-schen Archäologie und Entwicklungspolitik (Töp-ferei und Keramikforschung vol. 1), a cura di R.Vossen, Bonn 1988, pp. 13-24.

A. Bagnasco, La costruzione sociale del mercato.Studi sullo sviluppo di piccola impresa in Italia,Bologna 1988.

M.L. Ferru, M.F. Porcella, “Ceramica sarda e cera-mica in Sardegna dal medioevo alla prima età mo-derna”, in Medioevo. Saggi e rassegne, n. 13, Pisa1988.

L’Antiquarium Arborense e i civici musei archeo-logici della Sardegna, a cura di G. Lilliu, fotogra-fie di R. Santucci, Sassari 1988.

G. Manca di Mores, “Osservazioni sulla ceramicada cucina da Monteleone Roccadoria (Sassari)”,in Rivista di studi fenici, vol. 16, n. 1, Roma 1988,pp. 65-72.

S. Naitza, I. Delogu, Salvatore Fancello, Nuoro1988.

M.F. Porcella, “Ceramiche di età medievale e rina-scimentale: poli d’importazione tra Italia e Spa-gna”, in Domus et carcer Sanctae Restitutae. Storiadi un santuario rupestre a Cagliari, Cagliari 1988.

M.F. Porcella, “I prodotti ceramici”, in Pinacote-ca nazionale di Cagliari, catalogo, vol. I, Caglia-ri 1988.

1989

G. Altea, “Francesco Ciusa. Le icone del rito”, inMiti Tipi Archetipi, catalogo a cura di I. Delogu,Nuoro 1989, pp. 33-52.

G. Altea, M. Magnani, Nino Siglienti. Un artistadéco e la sua bottega (Palazzo della Provincia, 31marzo-28 aprile 1989), Sassari 1989.

M.B. Annis, L. Jacobs, “Cooking ware from Pabil-lonis (Sardinia): relationships between raw mate-rials, manufacturing techniques and function ofthe vessels”, in Newsletter Department Pottery

Technology University of Leiden, vol. 7-8, Leiden1989-90, pp. 75-130.

S. Brusco, Piccole imprese e distretti industriali,Torino 1989.

P.G. Castagnoli, F. D’Amico, F. Gualdoni, “Le for-me della materia”, in Scultura e ceramica in Ita-lia nel Novecento, catalogo della mostra, a curadi P.G. Castagnoli, F. D’Amico, F. Gualdoni, Mi-lano 1989, pp. 11-15.

A. Cuccu, Studio artistico Melkiorre Melis, Bosa1989.

V. Fagone, S. Riolfo Marengo, Nero & giallo. Ce-ramica popolare ligure dal Settecento al Novecen-to, schede di A. Cameirana, Milano 1989.

Il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, a cu-ra di V. Santoni, Sassari 1989.

Istituto Statale d’arte, Oristano. 25 anni di attivitàdidattica, Mostra antologica (Monastero del Car-mine, aprile 1989), Cagliari 1989.

La cultura di Ozieri – problematiche e nuove ac-quisizioni, Atti del I Convegno di studio (Ozieri,gennaio 1986-aprile 1987), a cura di L. DettoriCampus, Ozieri 1989.

F. Marzinot, La Ceramica, Genova 1989.

D. Rovina, “Ceramiche graffite medievali e post-medievali da S. Nicola di Sassari e altri siti nellaSardegna centro settentrionale”, in Atti del XIXConvegno internazionale della ceramica. Albisola,Albisola 1989, pp. 202-209.

1990

R. Aiolfi, G. Buscaglia, La ceramica savonese nel-la raccolta civica, catalogo, Savona 1990.

R. Bossaglia, Francesco Ciusa, Nuoro 1990.

Ceramica artistica sarda. Creatività e materia(Sassari, Padiglione artigianato, 14-28 novembre1990), Cagliari 1990.

Ceramisti in Sardegna. Mostra regionale di cera-mica d’arte, Roma 1990.

M.G. Da Re, La casa e i campi, Cagliari 1990.

M. Marini, M.L. Ferru, Ceramica di Sardegna. Lastoria, i protagonisti, le opere 1920-1960, Cagliari1990.

Pinacoteca Nazionale di Cagliari, catalogo, Ca-gliari 1990.

G. Ugas, La tomba dei guerrieri di Decimoputzu,Cagliari 1990.

1991

G. Altea, “Francesco Ciusa e il contesto sardod’inizio secolo”, in L’opera di Francesco Ciusa, Attidel Convegno di studi (Nuoro, 17 maggio 1990),Nuoro 1991, pp. 57-89.

A. van As, “Pottery technology: the bridge be-tween archaeology and the laboratory”, in New-sletter Department Pottery Technology Universityof Leiden, voll. 9-10, Leiden 1991-92.

M. Atzori, “Brocche e stoviglie di terracotta, la tra-dizione dei figuli in Sardegna”, in Lares, vol. 57,n. 3, Roma, settembre 1991.

Ceramiche d’arte. Cinque anni di Concorso Nazio-nale della ceramica, Assemini 1991.

G. Dore, “L’artigianato. Tradizione e innovazione”,in La Provincia di Oristano, il lavoro e la vita so-ciale, a cura di A. Oppo, Oristano 1991, pp. 70-89.

La Provincia di Oristano, il lavoro e la vita socia-le, a cura di A. Oppo, Oristano 1991.

M. Marini, M.L. Ferru, “Le maioliche del sole”, inCosta Smeralda Magazine, a. XVII, n. 4, PortoCervo 1991.

C. Marini, P. Mattias, C. Medici, G. Sistu, I. Uras,“The claystone deposits in the mining district ofSarcidano (Central Sardinia). Ore and tecnologicalaspects”, in Bollettino dell’Associazione MinerariaSubalpina, vol. XXVIII, n. 1-2, Torino 1991, pp.89-105.

M.F. Porcella, M.G. Mele, “Ceramiche rinascimen-tali di Montelupo Fiorentino rinvenute in un poz-zo di Allai (Oristano)”, in Atti del XX Convegnointernazionale della ceramica. Albisola, Albisola1991, pp. 372-390.

1992

Artigianato artistico in Sardegna. Risultati diun’indagine censuaria. Confederazione naziona-le dell’artigianato e delle piccole imprese. Comitatoregionale sardo, a cura di A. Sassu, con la colla-borazione di A. Caredda, Cagliari 1992.

Ceramiche italiane contemporanee 1950-1990,a cura di G.C. Bojani, Kashima-shi 1992.

M.L. Ferru, M.F. Porcella, “La circolazione deiprodotti ceramici in Sardegna tra il XIV secolo edil XVI secolo. Importazioni e produzioni locali”,in Atti del XXII Convegno internazionale della ce-ramica. Albisola, Albisola 1992, pp. 160-177.

M.L. Ferru, M.F. Porcella, “La terraglia in Sarde-gna. Importazioni e tentativi di produzione loca-le”, in Atti del XXII Convegno internazionale del-la ceramica. Albisola, Albisola 1992, pp. 34-46.

Guida ragionata dell’Artigianato Artistico Sardo,Cagliari 1992.

“La Sardegna nel Mediterraneo tra il Bronzo me-dio e il Bronzo recente, XVI-XIII sec. a.C.”, in Unmillennio di relazioni fra la Sardegna e i paesidel Mediterraneo, Atti del III Convegno di studi(Selargius, Cagliari, 19-22 novembre 1987), Ca-gliari 1992.

M. Madau, “Ceramica nord Africana in Sardegna:la forma Cintas 61”, in L’Africa romana, Atti delIX Convegno di studio (Nuoro, 13-15 dicembre1991), Sassari 1992, pp. 508-1149.

A. Panzetta, Le ceramiche Lenci 1928-1964. Cata-logo generale dall’archivio storico della manifat-tura, n. 876, Torino 1992.

D. Salvi, “Ceramiche post-classiche provenienti darecuperi subacquei lungo le coste della Sardegnasud-orientale”, in Atti del XXII Convegno interna-zionale della ceramica. Albisola, Albisola 1992.

1993

G. Berti, M. Hobart, M.F. Porcella, “Protomaioli-che in Sardegna”, in Atti del XXIII Convegno in-ternazionale della ceramica. Albisola, Albisola1993, pp. 153-167.

M. Marini, M.L. Ferru, Storia della ceramica inSardegna. Produzione locale e importazione dalMedioevo al primo Novecento, Cagliari 1993.

Moriscos. Echi della presenza e della cultura isla-mica in Sardegna, catalogo della mostra, Caglia-ri 1993.

D. Salvi, “I materiali. La ceramica medievale epostmedievale”, in Santa Chiara. Restauri e sco-perte, a cura di A. Ingegno, Cagliari 1993, pp.133-151.

1994

G. Altea, M. Magnani, Eugenio Tavolara, Nuoro1994.

1995

G. Altea, M. Magnani, Pittura e scultura del primoNovecento, Nuoro 1995.

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 12:21 Pagina 438

439

M. Dadea, M.F. Porcella, “La ceramica spagnolain Sardegna e i suoi riflessi sulle produzioni lo-cali”, in Biblioteca francescana sarda. Rivistasemestrale di cultura della Provincia dei FratiMinori conventuali, vol. 8, Oristano 1999, pp.219-258.

M. Dadea, M.F. Porcella, “Le ceramiche spagno-le in Sardegna: transazioni commerciali e imita-zioni locali”, in Atti del XXXI Convegno interna-zionale della ceramica. Albisola, Firenze 1999,pp. 15-21.

M. Dadea, “Tituli picti su anfore bizantine da Ca-gliari”, in Atti del XXX Convegno internazionaledella ceramica. Albisola, Firenze 1999, pp. 47-50.

M.L. Ferru, Terra cretica alba, Grès e porcellane,di Angelo Sciannella, Cagliari 1999.

A.L. Sanna, “La presenza delle anfore in Sarde-gna ed il loro utilizzo nelle sepolture tra il tar-do antico e l’alto medieovo”, in Quaderni dellaSoprintendenza Archeologica per le Province diCagliari e Oristano, n. 16, Cagliari 1999, pp.253-281.

R. Sirigu, “La ceramica comune delle necropoli diSulci (S. Antioco)”, in Quaderni della Soprinten-denza Archeologica per le Province di Cagliari eOristano, n. 16, Cagliari 1999, pp. 129-176.

2000

F. Campus, V. Leonelli, La tipologia della cerami-ca nuragica. Il materiale edito, Viterbo 2000.

E. Castaldi, Sa Sedda de Biriai (Oliena, Nuoro,Sardegna). Villaggio d’altura con santuario me-galitico di cultura Monte Claro, Roma 2000.

A. Cuccu, 100 anni di ceramica, Nuoro 2000.

M.L. Ferru, “Ceramica e ceramisti in Sardegna nel-l’età moderna”, in Corporazioni, gremi e artigia-nato tra Sardegna, Spagna e Italia nel Medioevo enell’Età moderna, XIV-XIX secolo, a cura di A.Mattone, Cagliari 2000.

La ceramica fenicia di Sardegna. Dati, problema-tiche, confronti, a cura di P. Bartoloni, L. Campa-nella, Roma 2000.

M.G. Melis, L’età del rame in Sardegna, origineed evoluzione degli aspetti autoctoni, VillanovaMonteleone 2000.

D. Rovina, La sezione medievale del Museo “G.A.Sanna” di Sassari, Sassari 2000.

D. Salvi, “La produzione ceramica in Sardegnanell’età moderna attraverso le testimonianze ar-cheologiche”, in Corporazioni, gremi e artigia-nato tra Sardegna, Spagna e Italia nel Medioevoe nell’Età moderna, XIV-XIX secolo, a cura di A.Mattone, Cagliari 2000, pp. 451-465.

2001

Argyrophleps nesos. L’isola dalle vene d’argento.Esploratori, mercanti e coloni in Sardegna trail XIV e il VI sec. a.C., a cura di P. Bernardini,R. D’Oriano, Fiorano Modenese 2001.

Bell Beakers today: pottery, people, culture, sym-bols in prehistoric Europe. Proceedings of the In-ternational Colloquium Riva del Garda (Trento,Italy) 11-16 May 1998, Trento 2001.

F. de Casabianca, “Productions ‘identitaires’: fide-lité aux savoir-faire locaux et modernisation desprocédés”, in Savoir-faire et productions localesdans les pays de la Mediterranée, a cura di A.Sassu, Paris 2001.

Genti de bidda mia, sculture in terracotta di Pi-nuccio Sciola, Pavia 2001.

D. Salvi, “Monili, ceramiche e monete (bizantine

Carbonia e il Sulcis. Archeologia e territorio, a cu-ra di V. Santoni, Oristano 1995.

M. Dadea, “Ceramiche giudicali dipinte dall’arealecagliaritano”, in La ceramica racconta la storia.La ceramica artistica, d’uso e da costruzione nel-l’Oristanese dal Neolitico ai giorni nostri, Atti delConvegno, Oristano 1995, pp. 245-258.

M.L. Ferru, M.F. Porcella, “La circolazione deiprodotti liguri in Sardegna nel XVI secolo”, in At-ti del XXV Convegno internazionale della cera-mica. Albisola, Firenze 1995.

K. Korre-Zwgrafou, Ta kerameika. Tou ellhnikoucwrou, Atene 1995.

La ceramica racconta la storia. La ceramica arti-stica, d’uso e da costruzione nell’Oristanese dalNeolitico ai giorni nostri, Atti del Convegno, Ori-stano 1995.

P.B. Serra, “Campidano maggiore di Oristano:ceramiche di produzione locale e d’importazionee altri materiali d’uso nel periodo tardoromano ealtomedievale”, in La ceramica racconta la sto-ria. La ceramica artistica, d’uso e da costruzionenell’Oristanese dal Neolitico ai giorni nostri, Attidel Convegno, Oristano 1995, pp. 177-220.

1996

M.B. Annis, P. van Dommelen, P. van de Velde,“Insediamento rurale e organizzazione politica. Ilprogetto Riu Mannu in Sardegna”, in Quadernidella Soprintendenza Archeologica per le Provin-ce di Cagliari e Oristano, vol. 13, Cagliari 1996,pp. 255-286.

M.B. Annis, “Sardinia (Italy): fieldwork and thelaboratory in ceramic ethnoarchaeology”, inNewsletter Department Pottery Technology Uni-versity of Leiden, voll. 14-15, Leiden 1996-97, pp.101-120.

M. Hobart, M.F. Porcella, “Bacini ceramici in Sar-degna”, in Atti del XXVI Convegno internaziona-le della ceramica. Albisola, Firenze 1996, pp.139-160.

M.C. Satta, “Olbia. Su Cuguttu 1992: ceramica fi-ne da mensa e da cucina di produzione africa-na”, in Da Olbia ad Olbia, 2500 anni di storia diuna citta mediterranea, Atti del Convegno inter-nazionale di studi (Olbia, 12-14 maggio 1994), acura di A. Mastino e P. Ruggeri, Sassari 1996.

C. Tronchetti, La ceramica della Sardegna roma-na, Milano 1996.

M.L. Wagner, La vita rustica, a cura di G. Paulis,Nuoro 1996.

1997

G. Bacco, Il nuraghe Losa di Abbasanta. La pro-duzione vascolare grezza di età tardoromana ealtomedievale, Cagliari 1997.

M. Dadea, F. Porcella, “La diffusione della cera-mica spagnola in Sardegna: importazioni e tenta-tivi di imitazione locale”, in Transferències i co-merç de ceramica a l’Europa mediterrània (seglesXIV-XVII). XV jornades d’estudis històrics locals(Palma, 11-13 dicembre 1996), Palma 1997, pp.215-248.

Di terra e di sogno. Terrecotte di Maria Crespella-ni, Cagliari 1997.

La cultura di Ozieri. La Sardegna e il Mediterra-neo nel IV e III millennio a.C., Atti del II Conve-gno di studi (Ozieri, 15-17 ottobre 1990), a curadi L. Campus, Ozieri 1997.

M. Marini, Artigianato in Mostra. Quarant’annidi storia economica e sociale. ISOLA 1957-1997,Cagliari 1997.

M. Marini, M.L. Ferru, Federico Melis: una vita perla ceramica, Cagliari 1997.

Mostra regionale di ceramica d’arte a premi ac-quisto (Cagliari, Cittadella dei musei, 27 settem-bre-26 ottobre), Cagliari 1997.

I. Oggiano, “La ceramica fenicia. Alghero-Sassari,Loc. Sant’Imbenia”, in Bollettino di archeologia,n. 43-45, Roma 1997, pp. 138-141.

1998

G. Altea, M. Magnani, Giuseppe Biasi, Nuoro 1998.

M.B. Annis, “Paesaggi rurali nella Sardegna cen-tro-occidentale. Il Progetto Riu Mannu dell’Uni-versità di Leiden (Paesi Bassi)”, in L’Africa roma-na, Atti del XII Convegno di studio (Olbia, 12-15dicembre 1996), a cura di M. Khanoussi, P. Rug-geri, C. Vismara, Sassari 1998, pp. 571-587.

M.B. Annis, “Ethnography and archaeology inSardinia: some reflections on technological tradi-tions”, in Newsletter Department Pottery Technol-ogy University of Leiden, voll. 16-17, Leiden 1998-99, pp. 39-56.

F. Carrada, “Maioliche valenzane dal castello diMonreale (Sardara-CA)”, in Atti del XXIX Conve-gno internazionale della ceramica. Albisola, Fi-renze 1998, pp. 251-258.

E. Contu, La Sardegna preistorica e nuragica, Sas-sari 1998, voll. 2.

M. Dadea, “Ceramiche giudicali dal villaggio ab-bandonato di santu Jaccu in agro nurachese”, inLa ceramica racconta la storia. La ceramica nelSinis dal Neolitico ai giorni nostri, Atti del II Con-vegno, Cagliari 1998, pp. 437-463.

P. van Dommelen, On colonial grounds: A com-parative study of colonialism and rural settlementin first millennium BC west central Sardinia, Lei-den 1998.

Francesco Ciusa. Creazioni degli Anni Venti, ca-talogo della mostra, a cura di A.M. Montaldo, Ca-gliari 1998.

La ceramica racconta la storia. La ceramica nelSinis dal Neolitico ai giorni nostri, Atti del II Con-vegno, Cagliari 1998.

M. Marini, M.L. Ferru, Le ceramiche del Conventodi Santa Chiara. Storia dell’artigianato a Orista-no in epoca giudicale e spagnola, Cagliari 1998.

P. Pallottino, Tarquinio Sini, Nuoro 1998.

D. Rovina, “Ceramiche di importazione e produ-zioni locali dall’insediamento altomedievale diSanta Filitica (Sorso-Sassari)”, in Ceramica in Ita-lia: VI-VII secolo, a cura di L. Sagui, Firenze 1998,pp. 787-796.

Simbolo ed enigma. Il Bicchiere Campaniforme el’Italia nella preistoria europea del III millennioa.C., catalogo della mostra, a cura di F. Nicolis,E. Mottes, Trento 1998.

1999

L. Campanella, Ceramica punica di età ellenisticada monte Sirai, Consiglio nazionale delle ricerche,Istituto per la civiltà fenicia e punica SabatinoMoscati, Roma 1999.

P. Clemente, “Pezze e rimasugli: note per un’er-meneutica dell’accomodare”, in Il terzo principiodella museografia, a cura di P. Clemente e E.Rossi, Roma 1999, pp. 41-68.

Criteri di nomenclatura e di terminologia ineren-te alla definizione delle forme vascolari del neoli-tico/eneolitico e del bronzo/ferro, Atti del Con-gresso (Lido di Camaiore, 26-29 marzo 1998), acura di D. Cocchi Genick, Firenze 1999.

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 12:21 Pagina 439

440

e longobarde) dal mausoleo di Cirredis (Villaput-zu-Sardegna)”, in Quaderni Friulani di Archeolo-gia, a. XI, n. 1, Udine, dicembre 2001.

V. Santoni, Il nuraghe Su Nuraxi di Barumini, Ca-gliari 2001.

Strexiu de terra: produzioni ceramiche di areaoristanese nei secoli XVI-XVII. Un’esperienza di-dattica, catalogo della mostra (Tramatza, chiesadi San Giovanni Battista, 23 marzo-5 aprile 2001),Quartu 2001.

A. Vozzo, “La nascita dei Gremi. Sassari anticheassociazioni di mestieri”, in Almanacco gallurese,vol. 8, Tempio 2001, pp. 24-38.

2002

E. Garau, “La ceramica comune con decorazione‘a pettine’ dagli scavi di Via Brenta (Cagliari)”, inCittà, territorio, produzione e commerci nellaSardegna medievale. Studi in onore di Letizia Pa-ni Ermini, a cura di R. Martorelli, Cagliari 2002.

A. Giarrusso, L’arte popolare ceramica nella Sar-degna post-moderna: l’artigianato artistico e learti turistiche, tesi di laurea, Sassari, Universitàdegli Studi, a.a. 2002-03.

G. Liscia, “La ceramica ‘graffita’: origini e diffusio-ne (secc. XIII-XVII)”, in Città, territorio, produ-zione e commerci nella Sardegna medievale. Stu-di in onore di Letizia Pani Ermini, a cura di R.Martorelli, Cagliari 2002, pp. 359-377.

R. Martorelli, “Documenti di cultura materialepertinenti agli scambi commerciali e alle produ-zioni locali”, in Ai confini dell’Impero. Storia, ar-te e archeologia della Sardegna bizantina, a cu-ra di P. Corrias, S. Cosentino, Cagliari 2002, pp.137-148.

B.T. Mele, Milano 1930-1940. Arte, letteratura epoesia a confronto nell’opera di Salvatore Fancel-lo, Bergamo 2002.

D. Mureddu, “Cagliari, area adiacente il cimiterodi Bonaria: un butto altomedievale con anfore acorpo globulare”, in Ai confini dell’Impero. Sto-ria, arte e archeologia della Sardegna bizantina,a cura di P. Corrias, S. Cosentino, Cagliari 2002,pp. 237-241.

R. Martorelli, D. Mureddu, “Scavi sotto la chiesadi S. Eulalia a Cagliari. Note preliminari”, in Ar-cheologia Medievale, vol. XXIX, Firenze 2002,pp. 283-340.

L’ultima spiaggia. Turismo, economia e sostenibi-lità ambientale in Sardegna, a cura di R. Paci, S.Usai, Cagliari 2002.

P. Pinna, “Le ceramiche d’uso comune del Ca-stello di Monreale (Sardara). Considerazioni sumorfologia e funzione di alcuni recipienti forati”,in Città, territorio, produzione e commerci nellaSardegna medievale. Studi in onore di Letizia Pa-ni Ermini, a cura di R. Martorelli, Cagliari 2002,pp. 418-432.

G. Pellegrini, A. Cuccu, N. Stringa, Antonio Por-ru, Nuoro 2002.

2003

R. Cassanelli, Alla periferia del Paradiso. Il “dise-gno ininterrotto” da Salvatore Fancello a Costan-tino Nivola, Milano-Cagliari 2003.

Costumi. Storia, linguaggio e prospettive del vesti-re in Sardegna, Nuoro 2003.

La vita nel nuraghe Arrubiu, a cura di T. Cossu,F. Campus, V. Leoneli, M. Perra, M. Sanges, Or-roli 2003.

G. Lilliu, La civiltà dei Sardi. Dal Paleolitico all’etàdei nuraghi, Nuoro 2003.

M. Marini, M.L. Ferru, Congiolargios. Vasi e vasaiad Oristano dal XIII al XXI secolo, Cagliari 2003.

Nivola Fancello Pintori. Percorsi del moderno.Dalle arti applicate all’industrial design, a cura diR. Cassanelli, U. Collu, O. Selvafolta, Milano-Ca-gliari 2003.

Premio arte della ceramica Salvatore Fancello.Biennale. Prima edizione 2002-2003 (Nuoro, Ca-sa Ruiu, 15 febbraio-9 marzo 2003), Nuoro 2003.

P. Resta, “La trasmissione e la distribuzione deiknow-how locali: modelli socio-economici e ipo-tesi interpretative”, in Saperi locali, innovazionee sviluppo economico. L’esperienza del Mezzo-giorno, a cura di A. Sassu, S. Lodde, Milano 2003.

A. Sassu, S. Lodde, “Saperi locali, innovazionetecnologica e sviluppo economico: uno sguardogenerale”, in Saperi locali, innovazione e svilup-po economico. L’esperienza del Mezzogiorno, acura di A. Sassu, S. Lodde, Milano 2003.

O. Selvafolta, “Il regionalismo alle Biennali diMonza. La Mostra d’Arte Sarda del 1923”, in Ni-vola Fancello Pintori. Percorsi del moderno. Dallearti applicate all’industrial design, Milano 2003,pp. 31-45.

G. Tanda, “L’uso del colore nella preistoria dellaSardegna”, in Atti della XXXV Riunione Scientifi-ca dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria,vol. 38, Firenze 2003, pp. 465-481.

2004

G. Altea, Francesco Ciusa, Nuoro 2004.

A. Cuccu, Melkiorre Melis, Nuoro 2004.

S. Forestier, Nivola. Terrecotte. Opere dello studioNivola, Amagansett, USA, Milano-Cagliari 2004.

Gioielli. Storia, linguaggio, religiosità dell’orna-mento in Sardegna, Nuoro 2004.

M. Guirguis, “Ceramica fenicia nel Museo Archeo-logico Nazionale ‘G.A. Sanna’ di Sassari”, in Sar-dinia, Corsica et Baleares Antiquae. InternationalJournal of Archaeology, n. 2, Pisa-Roma 2004, pp.76-107.

M. Milanese, L. Biccone, M. Fiori, “Produzione,commercio e consumo di manufatti ceramici nel-la Sardegna nord-occidentale tra XI e XV secolo”,in Studi e ricerche sul villaggio medievale di Geri-du. Miscellanea 1996-2001, a cura di M. Milane-se, Firenze 2004, pp. 113-121.

A. Moravetti, Monte Baranta e la cultura di Mon-te Claro, Sassari 2004.

A. Pau, Tarquinio Sini, Nuoro 2004.

S. Lodde, A. Sassu, “Tradizione e innovazione nelsettore vinicolo in Sardegna”, in Economia Mar-che, vol. XXIV, n. 3, Bologna 2004.

2005

G. Altea, Edina Altara, Nuoro 2005.

Archeometallurgy in Sardinia from the originsto the early iron Age, a cura di F. Lo Schiavo, A.Giumlia-Mair, U. Sanna, R. Valera, Montagnac2005.

Artigiancassa, Rapporto sul credito e sulla ric-chezza finanziaria delle imprese artigiane, Bolo-gna 2005.

E. Atzeni, Ricerche preistoriche in Sardegna, Ca-gliari 2005.

F. Bertoni, J. Silvestrini, Ceramica italiana delNovecento, Milano 2005.

A. Crespi, Salvatore Fancello, Nuoro 2005.

M.G. Curreli, S. Lodde, “Saperi tradizionali e svi-luppo locale: il comparto della produzione delmiele in Sardegna”, in Saperi locali in Sardegna.

Tradizione e innovazione nell’attività economica,a cura di A. Sassu, Cagliari 2005.

Cuccuru Cresia Arta. Indagini archeologiche a So-leminis, a cura di M.R. Manunza, Dolianova 2005.

Il tornio di via Figoli. La ceramica di Oristano,Ghilarza 2005.

La civiltà nuragica. Nuove acquisizioni, Atti delCongresso (Senorbì, 14-16 dicembre 2000), Quar-tu Sant’Elena 2005.

Luce sul tempo: la necropoli di Pill’e Matta, Quar-tucciu, a cura di D. Salvi, Cagliari 2005.

C. Marini, “Brucculittus e gioghittus. Piazza delCarmine è stata a lungo teatro di due rassegnemerceologiche: la fiera delle terraglie e la fieradei giocattoli”, in Almanacco di Cagliari, Caglia-ri 2005.

Pani. Tradizione e prospettive della panificazionein Sardegna, Nuoro 2005.

P. Pinna, “Una produzione di ceramica comunenei siti tardo-antichi e altomedievali della Sarde-gna: note sui manufatti decorati a linee polite dal-lo scavo di S. Eulalia a Cagliari”, in 1st Internation-al Conference on Late Roman Coarse Wares,Cooking Wares and Amphorae in the Mediterra-nean: Archaeology and Archaeometry, Oxford2005, pp. 267-284.

S. Sangiorgi, “Le ceramiche da fuoco in Sardegna:osservazioni preliminari a partire dai materialirinvenuti nello scavo di S. Eulalia a Cagliari”, in1st International Conference on Late Roman Co-arse Wares, Cooking Wares and Amphorae in theMediterranean: Archaeology and Archaeometry,Oxford 2005, pp. 255-266.

Terre magiche. La via delle ceramiche. Sapori,profumi, colori, e tradizioni dei 36 comuni dellaceramica artistica e di tradizione italiana, Ca-stelfranco Veneto 2005.

2006

Archeologia urbana a Cagliari. Scavi in Vico IIILanusei, campagne 1996-1997, a cura di R. Mar-torelli, D. Mureddu, Cagliari 2006.

L. Biccone, “Invetriate monocrome decorate astampo dallo scavo del Palazzo giudicale di Arda-ra (SS)”, in Atti del XXXVIII Convegno internazio-nale della ceramica. Albisola, Firenze 2006, pp.251-264.

Indagini archeologiche a Sinnai, a cura di M.R.Manunza, Ortacesus 2006.

M. Milanese, A. Carlini, “Ceramiche invetriate nellaSardegna nord-occidentale e negli scavi di Alghe-ro (fine XIII-XVI secolo): problemi e prospettive”,in Atti del XXXVIII Convegno internazionale dellaceramica. Albisola, Firenze 2006, pp. 219-250.

M. Milanese, L. Biccone, D. Rovina, P. Mameli,“Forum ware da recenti ritrovamenti nella Sarde-gna nord-occidentale”, in Atti del XXXVIII Conve-gno internazionale della ceramica. Albisola, Fi-renze 2006, pp. 201-217.

Tessuti. Tradizione e innovazione della tessiturain Sardegna, Nuoro 2006.

G. Ugas, L’alba dei nuraghi, Cagliari 2006.

2007

E. Atzeni, La preistoria del Golfo di Cagliari, Ca-gliari 2007.

Francesco Ciusa. Gli anni delle Biennali 1907-1928, catalogo a cura di G. Altea, A.M. Montaldo,Nuoro 2007.

Gli oggetti culturali. L’artigianato tra estetica, an-tropologia e sviluppo locale, a cura di A. Caoci, F.Lai, Milano 2007.

17-20 Architettura, Argille, Economista, Bibliografia 16-11-2007 12:21 Pagina 440


Recommended